Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2019

 

LA MAFIOSITA’

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

 

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

PARTE PRIMA   

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire Omertà. I post-social dei mafiosi.

Censura e mafia. Non si può offendere Falcone e Borsellino.

La Mafia è femmina.

Una vita sotto copertura.

Damiano Caruso e la mafia.

Quelli che non si ricordano mai. Giancarlo Siani, Pino Puglisi.

Quelli che non si pentono mai: Raffaele Cutolo.

Quelli che si pentono. Buscetta, Contorno e gli altri.

Il Carcere Ostativo per i mafiosi. “Lasciate ogni speranza voi ch’intrate”.

Mafie. Chi comanda dietro le sbarre.

I mafiosi son gli opposti. Corsi e ricorsi storici ideologici.

Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.

Il racconto delle Stragi: Capaci e via D'Amelio.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi.

La strage di Capaci 27 anni dopo. Chi era Giovanni Falcone.

In ricordo di Cesare Terranova.

Cesare Terranova. Lotta alla mafia? Polizia più efficiente e niente leggi speciali.

5 Aprile 1973 – Attentato Al Questore Angelo Mangano.

21 luglio 1979. Boris Giuliano: il nodo irrisolto del delitto.

Il Papa, la Mafia, le mafie. L’ignoranza dell’origine del termine.

Mafia esercito della Cia.

L’Antimafia Parla troppo.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quattromila mafie spadroneggiano in Europa.

L’integrazione delle mafie straniere in Italia.

Pecunia non olet: Le Mafie del Nord Italia.

La mafia, conviene, ma non esiste. O almeno come oggi ce la propinano.

Perché la ‘ndrangheta è ormai la mafia più potente e ricca del mondo.

Le vacche sacre della 'ndrangheta non sono più intoccabili.

Le 10 Mafie di Roma: Cosa Nostra, Mafia Capitale, I clan degli zingari.

Le Mafie di Napoli: Cosa Nostra e Camorra.

Mafia Export.

La Mafia di Foggia è la "nuova Gomorra".

La Mafia del “tranquillo” Veneto.

La mafia nigeriana.

La Mafia Albanese.

La mafia cinese.

La Mafia Messicana.

La Mafia Colombiana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Non è mafia...

Le Barzellette dell’Antimafia.

L’Antimafia Clero-Comunista.

Antimafia o Comitato di salute pubblica?

I complici di Stato.

Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generalissimo lasciato solo da tutti.

Federica Angeli: i segreti di una star.

Paolo Borrometi: i segreti di una star.

Roberto Saviano: i segreti di una star.

Agguato a un giornalista. Spari contro il direttore di “Campania notizie”.

Lettera di Tina Palomba, una giornalista ignorata dall’antimafia di maniera.

Lettera di Francesco Amodeo, un giornalista ignorato dall’antimafia di maniera.

L'Antimafia è stata usata come mezzo per la gestione del potere.

Denunci la mafia ma non sai se lo Stato ti protegge. Il caso di Natale Giunta.

Interdittiva antimafia e comunicazione antimafia: le differenze.

Interdittiva antimafia. Il criterio del "più probabile che non”.

Interdittiva antimafia. Perseguitato dai burocrati: suicida Rocco Greco.

Quei pentiti che non convincevano Falcone.

Caccia alle streghe. L’inquisizione dell’Antimafia moralizzatrice.

Romeo & Company. Sei meridionale? Sei Mafioso!

La gogna antimafiosa.

 Paolo Giambruno. «Non era un prestanome del boss, va riabilitato». Ma lui ormai è morto…

I clan uccisero sua sorella ma lo Stato le nega i soldi.

Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.

Le vittime dell’antimafia: Cosimo Commiso.

Così il Governo gestisce i testimoni di giustizia.

Sciascia e il florido mercato dell’antimafia.

Il Proibizionismo agevola la mafia.

La nuova vita dei beni confiscati alla mafia tra business, propaganda e fondi Ue.

La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

Il Business delle costituzioni di parte civile. Sicilia: l'associazione dei furbetti dell'anti mafia.

Il Business dei sequestri preventivi infondati. La Storia dei Cavallotti.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Non si possono vedere nemmeno da morti.

Un Domicilio per tutti.

Liberi di scegliere.

Le madri coraggio. Sfuggire ai clan.

Mafie, viaggio tra i figli del clan: ecco la “generazione paranza” da strappare alla criminalità.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La mafia in Parlamento. Il caporalato col portaborse.

Lo strano caso dei braccianti.

118 & Company. Quando il volontariato diventa caporalato.

Non è un mondo per archeologi.

Non è un mondo di avvocati incinte.

Il braccino corto degli imprenditori.

L'università dei nuovi pro(f)letari.

La vera vita dei proletari digitali.

Le Cooperative: «Caporalato e sfruttamento».

Il dumping contrattuale.

Il call center dei laureati con 110 e lode (che lavorano per 600 euro al mese).

Il Caporalato dei supermercati.

Il caporalato dei sindacati.

Lo sfruttamento delle badanti.

Riders: Cornuti e mazziati.

La vita degli addetti alle pulizie.

Fra i migranti le prostitute schiave.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Soggetti deboli: amministratore di sostegno... o di saccheggio?

Crisi delle grandi aziende: la Mangiatoia dei Commissari Giudiziali.

“Legge sovraindebitamento: salva-suicidi o ammazza Imprese?”.

Case all’asta.

Le Aste truccate e l’inutile dimenarsi delle vittime.

La vera storia di Sergio Bramini.

Le aste immobiliari e gli affari dei magistrati furbetti.

Il «caso Gazzetta» e le aziende sequestrate: «Lo Stato non deve depauperare i beni».

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fusioni dei potenti.

Ue, 11.800 lobby per influenzare le istituzioni.                           

Se comandano i Tassisti.

Il Pd è lobby continua.

Camera dei Deputati. Elettricisti a peso d'oro.

La Casta dei Sindacalisti.

Gli uomini d'oro di Banca d'Italia.

La guerra dei medici ai medici.

La Giustizia può attendere.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I politici massoni.

Aboliamo la Democrazia.

Aboliamo la Massoneria.

Il rapporto massoneria-mafia.

"Avete paura? Non ci conoscete”.

Carlo Freccero Direttore Di Rai2: Bestemmie, Porno Rai E Massoneria.

Quelli del Bilderberg.

 

PARTE SECONDA

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Si muore più in pace che in guerra.

Come riconoscere il volto delle mafie.

La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.

Fisco, ultima frontiera: evasori come i mafiosi.

La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».

La cupola degli esattori infedeli e l’estorsione legalizzata.

Mafia-Affari-Finanza.

La cupola dei politici. Anche di sinistra. Per insabbiare il Dossier mafia-appalti si uccisero Falcone e Borsellino e si processarono i Ros?

La cupola dei politici. La viltà e la trattativa Stato-Mafia per salvarsi il culo.

La Cupola internazionale. La Pista Americana, la Deindustrializzazione, Gladio ed servizi segreti.

La Cupola internazionale. La Pista Russa. Il Comunismo Mafia di Stato.

La cupola dei Giornalisti.

La Cupola degli Appalti.

La cupola della solidarietà.

Terre a Fuoco. Il traffico di rifiuti è meglio della droga.

La Mafia Portuale.

Spacciatori di frutti proibiti.

Spacciatori di "oro nero".

La cupola del Contrabbando.

Gomorra nera a Roma.

La mafia del calcio.

La mafia sanitaria.

I bambini scippati dalla Giustizia.

La Cupola delle Occupazioni delle case.

Pizzo e tangenti dietro ai negozi del centro commerciale.

La Cupola dei parcheggiatori abusivi.

“L'Italia è un paradiso per gli zingari”.

La Cupola della Pubblica Amministrazione mafiosa.

Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.

I concorsi pubblici ed i metodi paramafiosi.

Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».

Comunisti. Lobby Continua.

I Complotti dei Banditi di Stato. La cupola dei "Fumus" Giudiziari.

“Figli di Trojan”.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

 

 

LA MAFIOSITA’

PARTE PRIMA

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Mai dire Omertà. I post-social dei mafiosi.

“SEI BELLA COME UNA QUESTURA CHE BRUCIA”. Attilio Bolzoni per “il Venerdì - la Repubblica” il 18 giugno 2019. Come avrebbero mai potuto immaginare di ritrovarsi certi eredi tanto chiacchieroni, proprio loro che avevano per comandamento «la meglio parola è quella che non si dice» e che di scritto avevano lasciato (quasi) niente per almeno due secoli? Ma quale diabolica contaminazione di sangue o di pensiero ha reso grafomani, e per giunta in così poco tempo, quei discendenti con in dote tre o anche quattro quarti di nobiltà criminale? Dramma di famiglia e di famiglie, intese come clan e tribù sparse tra Palermo e Napoli, fra gli ulivi della Piana di Gioia Tauro e le colline intorno a Corleone. Salto generazionale, ma anche salto nel vuoto di piccoli boss che sembrano avere rinnegato per sempre rotta e tradizione. La privacy pare che sia diventata un optional, la riservatezza un ricordo del passato. Sono i figli della mafia nell' era digitale. «Sei bella come una questura che brucia», scrive un giovanissimo camorrista del rione Sanità sul suo profilo Facebook mentre posa con le armi in pugno ad uso e consumo esclusivo (si fa per dire) della sua fidanzatina. Inneggia contro gli sbirri e contro gli infami Giovanni Tegano, nipote dell' omonimo patriarca di Reggio Calabria famoso come "uomo di pace" per avere fermato una sanguinosa guerra a metà degli Anni Novanta.

Bacioni dal motoscafo. Esibizionista e tronfio il palermitano Domenico Palazzotto, rampollo della consorteria dell' Arenella. Si mostra in costume, sdraiato su un potente e luccicante motoscafo. Un vero e proprio orrore per i canoni della cultura mafiosa classica, un delirio che invade le piazze virtuali, che paralizza di vergogna i padri rinchiusi nel cupo silenzio del 41 bis dei penitenziari e fa rivoltare nella tomba i loro nonni. Spadroneggiano dappertutto. Su Fb, WhatsApp, su Instagram e Telegram. Nomi sconosciuti e nomi famosi, tutti insieme spudoratamente. Perché la mafia, ai tempi dei social, non ha distinzione di classe criminale.

L' anatema del "primogenero". C' è Robertino Spada che commenta sarcastico, dopo la testata al giornalista Daniele Piervincenzi: «A buffoni state fa un film pe na capocciata violentano i regazzini e tutto a posto bho vacce a capì qualcosa famo noi un reato ciamazzate». E c' è il marito di Maria Concetta Riina (si definisce il "primogenero" del capo dei capi), l' ex deejay di Tony Ciaravello. Anche per lui tra gli obiettivi ci sono i giornalisti puntualmente presi di mira in rete: «Quello che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione». Qualche studioso della materia sostiene che grazie a internet questa prole mafiosa si sia "internazionalizzata". Ma facciamo un piccolo passo indietro tanto per capire come si ragionava prima della rete. Esemplare la dichiarazione di Luciano Liggio ai commissari della Commissione parlamentare antimafia: «Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. Ho letto Dickens e Croce...Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente». Oppure Totò Riina, che ai magistrati che lo interrogavano sulla sua antica amicizia con Bernardo Provenzano spiegò: «È un mio compaesano, un bravo cristiano, se proprio devo trovargli un difetto è che è... troppo scrittore...». Allusione ai famigerati pizzini attraverso i quali comunicava con la sua ciurma, la "posta certificata" di Cosa Nostra. Prima l' ossessione di lasciare tracce, poi la vanità di seminarle. Le tre scimmiette sono state sotterrate. Il non vedo, non sento, non parlo è diventato un diluvio di parole, una logorrea che veicola sì sempre mafiosità ma con una visibilità sorprendente che sembra non avere più limiti. Inserito nella lista del ministero dell' Interno come uno dei ricercati più pericolosi, il camorrista Salvatore D' Aquino ha svelato il luogo della sua latitanza (Estepona in Andalusia) concedendo alla compagna marocchina di postare su Fb qualche foto di loro due abbracciati. Sullo sfondo il mare della Costa del Sol. Beccato per la sua arroganza. Un altro compariello napoletano, Fabio Orefice, scampato a una sparatoria posta in rete come fossero trofei le foto delle sue ferite e avverte gli aggressori: «Il leone è ferito ma non è morto, già sto alzato. Aprite bene gli occhi che per chiuderli non ci vuole niente. Avita muriii». Dovete morire. Ma da dove saltano fuori questi stravaganti "malacarne", all' apparenza parvenu del crimine ma pur sempre collegati alle grandi organizzazioni? Perché corrono tanti rischi? È solo per un po' di pubblicità virale? «Sanno coniugare la loro cultura con le moderne forme di comunicazione, trasmettono segnali anche al di fuori della propria cerchia, sfoggiano potere pur sapendo che questo li espone al pericolo di un arresto», spiega Pierpaolo Farina, fondatore di WikiMafia, libera enciclopedia sulle mafie, uno dei primi studiosi italiani del fenomeno della mitizzazione dei boss a mezzo social.

Riina family life. Sono stati contagiati anche i figli della 'Ndrangheta e perfino quelli di Cosa Nostra. E uno dei primi ad innamorarsi di Fb non è neanche tanto giovane. Anzi . È il caso di Antonino, Nino Mandalà, classe 1939, capomandamento di Villabate, che per anni ha imperversato in rete. Questa voglia di offrirsi agli sguardi altrui, negli ultimi anni è stata indagata fra l' Aspromonte e lo Stretto dal giornalista Klaus Davi che si chiede: «Resta da capire ora se l' avvento dei social determinerà una mutazione genetica dell' identità della mafia calabrese del terzo millennio o se invece la tecnologia sarà l' ennesimo strumento attraverso cui la mafia più potente sarà in grado di ribadire la propria supremazia». Tutto si gioca sul filo del rasoio, fra selfie e segreti, ostentazioni e spericolati incroci, il primordiale che si mischia con il futuro, Madonne che ancora s' inchinano davanti alle case dei boss e like a tempesta. È la nuova frontiera. Il basso profilo poco si adatta ai giorni nostri. Fa scuola Salvuccio, terzo figlio dello "zio Totò" che su Fb pubblicizza il suo libro Riina Family Life e raduna intorno a sé centinaia di fan invitandoli a scrivere un messaggio privato. Per un autografo e una dedica personalizzata. In nome del padre.

·         Censura e mafia. Non si può offendere Falcone e Borsellino.

Falcone e Borsellino "vittime di un incidente sul lavoro". Agi 04 novembre 2019. Intercettato dalla Dda, il direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani e assistente parlamentare di una deputata si fa beffe dei magistrati uccisi dalla mafia e vorrebbe cambiare nome all'aeroporto di Palermo. "All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?". Così Antonello Nicosia, direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani, onlus che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti, nonché di assistente parlamentare, si esprime in una conversazione intercettata recentemente dalla Dda di Palermo che lo ha fermato stanotte con l'accusa di associazione mafiosa nell'operazione "Passepartout" di Gico e Ros. "Ma poi quello là (Falcone, ndr)" proseguiva "non era manco magistrato quando è stato ammazzato... aveva già un incarico politico, non esercitava...". Secondo i pubblici ministeri Nicosia avrebbe veicolato all'esterno messaggi provenienti da mafiosi detenuti nei penitenziari sparsi nella Penisola. Accessi quest'ultimi che avvenivano grazie al suo ruolo di direttore della onlus e di consulente giuridico psicopedagogico della deputata (ex Leu appena passata con Italia Viva) Giuseppina Occhionero. Nicosia, 48 anni, di Sciacca, nel novembre scorso è stato inoltre eletto nel Comitato Nazionale dal XVII Congresso di Radicali Italiani. Dalle indagini della Dda palermitana guidata da Francesco Lo Voi - iniziate cercando il boss latitante Matteo Messina Denaro - Nicosia, sarebbe stato in contatto con il boss mafioso, anche lui saccense, Accursio Dimino, scarcerato nel 2016 e detenuto anche al 41 bis, ritenuto molto vicino al defunto capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Nicosia, accusato di associazione mafiosa, riteneva di avere la chiave di accesso ai penitenziari della Penisola e di potere così, secondo l'accusa, veicolare i messaggi dei boss. Gli inquirenti parlano di "uso strumentale", da parte di Nicosia, "del rapporto di collaborazione instaurato con una parlamentare". La deputata - che non è indagata - dovrebbe essere sentita nei prossimi giorni dai pubblici ministeri del capoluogo siciliano. Cariche funzionali, quelle di Nicosia, in base alle indagini del Ros dei carabinieri e dal Gico della Guardia di Finanza, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesca Dessì e Calogero Ferrara, all'obiettivo di tessere relazioni con i capimafia, come Dimino. Soprattutto avrebbe assicurato favori e contatti con Messina Denaro. Un 'postino' prestigioso e insospettabile, seppure con una condanna a 10 anni per traffico di droga, ma anche questa, tutto sommato, utile alla narrazione del suo personaggio, conoscitore delle dinamiche carcerarie che asseriva di volere cambiare.

Di Maio contro Nicosia: “Fa ribrezzo. Insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro”. Silenzi e Falsità il 4 novembre 2019. “Da Shanghai, leggo dell’arresto di Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, accusato di fare da tramite tra i capimafia in carcere e i clan. Non voglio entrare nei dettagli, sarà la magistratura ad occuparsene, ma lasciatemi dire che uno che considera Messina Denaro il nostro premier e che insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro fa ribrezzo”. Così il capo politico del Movimento 5 Stelle e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un post pubblicato su Facebook. “Sono parole sconvolgenti, scioccanti, che indipendentemente dalle implicazioni di Nicosia devono farci riflettere,” aggiunge Di Maio. “La mafia c’è, esiste, fa schifo e va combattuta ogni giorno. Senza nessuna paura. Siamo più forti di loro, non dimentichiamocelo mai,” scrive ancora il leader 5Stelle. Di Maio conclude il post con una citazione di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”. Anche la sorella del giudice ucciso dalla mafia, Maria Falcone, ha commentato quanto emerso dalle intercettazioni di Nicosia: “Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto,” ha dichiarato. “Mi chiedo, alla luce di questa indagine, se non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro. Non dimentichiamoci che lo scopo del 41 bis è spezzare il legame tra il capomafia e il territorio, recidere le relazioni tra il boss e il clan: scopo che si raggiunge solo limitando rigorosamente i contatti tra i detenuti e l’esterno,” ha sottolineato Maria Falcone.

L'offesa del cantante catanese a Falcone e Borsellino. Niko Pandetta (pregiudicato e nipote di un boss) a Realiti (Rai 2) offende i giudici vittime della mafia. E scoppia la polemica. Panorama 13 giugno 2019. “Queste persone (Falcone e Borsellino n.d.r.) che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro” parola di Niko Pandetta, cantante rap neomelodico catanese, dette durante la registrazione dell’ultima puntata di “Realiti” il programma di Enrico Lucci in onda su Rai 2. Frasi che hanno sbigottito per la loro gravità il conduttore poi i presenti, infine il mondo dei social dove la frase del rapper sta facendo il giro ad una velocità incredibile accompagnata da polemiche ma anche qualche giustificazione. Prima di tutto bisogna spiegare chi si Niko Pandetta: Il suo nomignolo è “Tritolo”, conta già condanne e qualche periodo passato in carcere. E’ nipote di Salvatore “Turi” Cappello, il boss dell’omonimo clan catanese, attualmente nel carcere di Sassari dove sconta l’ergastolo al 41 bis. E proprio allo zio ergastolano, mafioso, Tritolo ha dedicato una delle sue canzoni: “Zio Turi, ti ringrazio per quello che hai fatto per me, sei stato la scuola di questa vita e per colpa di questi pentiti stai chiuso lì dentro al 41 bis”.

Senza parole. Si resta senza parole davanti a tutto questo; davanti al fatto che ormai in tv non sembrano esserci più limiti alla decenza, in nome dell’audience, ovvio. La Rai è corsa ai ripari: trasmissione sparita dal sito e spostata in seconda serata oltre ad un’inchiesta che stabilirà anche come mai a questo personaggio sia stata (come sembra) pure pagata una notte in albergo. Ma non è questo il problema.

E’ ora di dire basta. Questo paese è in emergenza, si, ma non solo economica, come sembra credere qualcuno. E’ in crisi di valori, di identità. La scuola, la famiglia, la tv, la cultura, la Chiesa, lo Stato. Colonne a cui per decenni si sono poggiate le fondamenta della crescita di intere generazioni sono in crisi, soppiantate dal nulla. Non ci sono più regole e chiunque provi ad imporne una, una sola, minimo è uno “sporco fascista” e quindi si è tutti liberi, di dire e fare qualsiasi cosa. E’ ora di dire basta a tutto questo; è ora tanto per cominciare che il paese cominci a spiegare, senza vergognarsi, che certe persone non possano andare nella tv di Stato a raccontare di essere orgogliosi di aver fatto una rapina. Un paese civile ogni tanto deve sapere dire di NO. Come un buon genitore. Altrimenti non è più nemmeno un paese.

Ps. Abbiamo deciso di non mettere in apertura del post la foto di "Tritolo". Al suo posto trovate Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Noi una scelta l'abbiamo fatta.

Riceviamo e pubblichiamo le spiegazioni e precisazioni diPandetta: La replica del cantane neo – melodico Niko Pandetta in merito alle polemiche successive alla diretta del programma “Realiti” in cui è stato coinvolto. “Mi rammarica essere protagonista di questa triste vicenda artificiosamente costruita intorno a me. Ritengo che questa mia replica sia doverosa, per mia moglie Federica e per mia figlia Sofia - alla quale, da padre, voglio trasmettere un buon esempio -, e per i miei fan. Premetto che non ho mai, e dico mai, pensato di reclamizzare la criminalità e che le mie esternazioni sono sempre state ironiche, magari maldestre… Mi riferisco nello specifico all’espressione, oggi strumento di tante polemiche, “io le pistole le ho d’oro”: è vero, potevo risparmiarmi questa battura di cattivo gusto che mi si è ritorta contro. Ci tengo a precisare che non ho mai offeso la memoria di Falcone e Borsellino, illustrissimi personaggi che non ho mai nominato. Ripeto, non posso assolutamente accettare che mi siano attribuite determinate colpe: insultare la memoria dei giudici Falcone e Borsellino significa offendere tutti coloro che sono stati coinvolti nella strage di Capaci, oggi sono un umilissimo cittadino italiano rispettoso del genere umano, incapace di compiere atti deplorevoli di tale entità!”. “Altra importante precisazione: non ho mai parlato di mio zio Turi avallandone le gesta – continua il cantante - , ho solo esternato l’affetto incondizionato che provo per lui, la mia riconoscenza nei suoi confronti per avermi creasciuto come un figlio, non avendo io un padre. Mai sono entrato nel merito delle azioni di mio zio, semplicemente l’amore che provo per lui non è condizionato dalle sue gesta. Ho dichiarato di non essere pentito del mio passato e considero questa mia affermazione onesta. Infatti la domanda rivoltami non era “rifaresti gli errori del passato?”, alla quale ovviamente avrei risposto di no; intendevo semplicemente dire che, rapportandomi all’età del tempo, non mi sono mai pentito di aver vissuto male la mia vita, e che sono felice e soddisfatto di averla cambiata”. “Per chiarezza vi racconto tutto ciò che è accaduto – dice Niko -: fui contatto per partecipare al programma di Rai 2 “Realiti - siamo tutti protagonisti”. Ho annullato due miei impegni lavorativi pur di prenderne parte: conservo ancora i biglietti dei voli aerei che mi furono inviati per essere presente (erano due, uno per me e uno per il mio manager). Senza motivazioni o spiegazioni plausibili, fu annullata la mia partecipazione al programma, ma fu trasmesso un servizio che mi riguardava. Nel corso di tale trasmissione, ove a questo punto mi vien da pensare che ero stato volutamente estromesso, il consigliere Francesco Emilio Borrelli Borrelli ha offeso e insultato me e la mia famiglia. Sono dell’opinione che non tocca ai politici giudicare le persone (utilizzando in maniera indiscriminata termini pesanti, offensivi), esistono i tribunali deputati a fare ciò. Io infatti sono stato giudicato e condannato, e ho scontato la pena inflittami. E’ evidente che questi politici (e il consigliere Borrelli è tra questi) ignorano le funzioni del carcere, ovvero la rieducazione e la reintegrazione in società di chi si è soggetto alla pena detentiva. Io non rimpiango il mio passato, perché grazie al mio passato e alla detenzione oggi sono un uomo diverso, che non potrebbe esistere se non fosse esistito il Niko di un tempo. Nessuno racconta della vita nelle carceri, della durezza della pena, delle capacità di affrontarla, del desiderio di farcela e della felicità di avercela fatta. Mi dispiace appurare che i rappresentanti della nostra Patria non sono in grado di pensare a noi ex detenuti come persone che ce l’hanno fatta, persone forti perché hanno affrontato un duro periodo di detenzione, e che ora possono mettere a disposizione della società questa loro esperienza per concretizzare qualcosa di buono, facendo del proprio passato non un vanto ma un punto di partenza. Ne deduco che chi governa questo paese non è disposto a dare una seconda possibilità ai detenuti perché non crede nel corretto funzionamento del sistema carcerario italiano, che però – guarda caso – è regolato dal Governo. E’, insomma, un cane che si morde la coda!”.

Miccoli al telefono insulta Falcone, bufera sul capitano del Palermo. Il calciatore è indagato per estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico. Avrebbe chiesto il recupero di un credito al figlio di un boss, parlando con il quale ha definito Falcone "fango". La sorella del magistrato: "Inqualificabile". Sonia Alfano e il ministro D'Alia: "andrebbe radiato". Rabbia dei tifosi sul web: "Ora ti scordi la Sicilia". Zamparini: "Meglio che se ne vada da Palermo". La Figc chiede alla Procura federale di aprire un'inchiesta. Salvo Palazzolo il 22 giugno 2013 su La Repubblica. Amicizie pericolose e insulti verso uno dei massimi simboli della lotta alla mafia. E' bufera su Fabrizio Miccoli, il capitano del Palermo scivolato maldestramente sulle sue frequentazioni con il nipote di Matteo Messina Denaro e con il figlio del boss della Kalsa, Antonino Lauricella, detto "Scintilluni", con cui si divertiva a cantare "Quel fango di Falcone". E dopo mesi di polemiche e indagini la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha preso una decisione. Il bomber dovrà essere interrogato. E non come testimone, ma come indagato. Ieri, gli investigatori del centro operativo Dia di Palermo hanno notificato al giocatore un avviso di garanzia, che ipotizza due reati pesanti: estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico. La prima contestazione è una clamorosa novità: il capitano rosanero avrebbe commissionato al suo amico Mauro Lauricella, il figlio del boss della Kalsa, il recupero di alcune somme dai soci di una discoteca di Isola delle Femmine. E i modi di Lauricella junior sarebbero stati piuttosto bruschi. La seconda accusa, per cui Miccoli era già stato iscritto nel registro degli indagati due mesi fa (come anticipato da Repubblica il 14 maggio) si riferisce invece a quattro schede telefoniche. Il capitano rosanero avrebbe convinto il gestore di un centro Tim a fornirgli alcune sim intestate a suoi clienti. Una di queste schede fu poi prestata a Lauricella junior nel periodo in cui il padre era latitante. Le accuse nascono proprio dalle indagini finalizzate alla ricerca di Antonino Lauricella, il re della Kalsa poi arrestato dalla polizia nel settembre 2011. Per molti mesi la Dia tenne sotto controllo Mauro Lauricella, anche intercettando le quattro misteriose schede telefoniche di cui adesso deve rispondere Miccoli. Fra quei dialoghi non emersero conversazioni utili per la ricerca del capomafia della Kalsa, ma sono saltate fuori le relazioni pericolose del giocatore del Palermo. Al telefono, Miccoli e Lauricella insultavano persino il giudice Giovanni Falcone: "Quel fango di Falcone", canticchiavano i due amici su un Suv mentre sfrecciavano per le vie di Palermo. E al telefono davano appuntamento a un altro amico in modo davvero singolare: "Vediamoci davanti all’albero di quel fango di Falcone". Toni che stridono con quelli usati da Miccoli durante le partite del cuore, quando dedicava i suoi gol proprio a Falcone e Borsellino. La Federcalcio ha incaricato la Procura federale di aprire un'inchiesta sulla vicenda.

Reazioni. Parole che suscitano l'indignazione di Maria Falcone, sorella del magistrato: "Non ho aggettivi per qualificare Miccoli, anzi ritengo che non valga nemmeno la pena di spendere una parola", dice Maria Falcone. "Che una persona dello sport e dello star system, che ha partecipato alle Partite del Cuore, quando dedicava i suoi gol proprio a Falcone e Borsellino, si esprima in quella maniera - aggiunge Maria Falcone - è davvero inqualificabile. Si vede - prosegue - che preferisce i boss alla legalita'". "Ha dimostrato - conclude - scarsissima sensibilità. Era meglio non partecipare a quelle manifestazioni". "Se venissero confermate sono affermazioni aberranti e inqualificabili, altro che calcio alla mafia. Non ci sono giustificazioni. Deridere un servitore dello Stato che ha sacrificato la vita nella lotta alla mafia è un fatto di una gravità inaudita che non può passare in silenzio soprattutto se dette da chi in questi anni è stato sui palcoscenici mediatici ed esempio per tanti giovani. Per mettere in fuorigioco le mafie, il calcio ha altri valori da seguire come l'esperienza della nazionale di calcio di Prandelli che si è allenata a Rizziconi in Calabria su un campetto confiscato alle mafie". Così, in una nota, Libera. E proprio nei campi di Libera propongono di far "passare le prossime settimane" al giocatore Federico Orlando e Beppe Giulietti, presidente e portavoce di Articolo 21. "Così magari si farà una idea più chiara sulla mafia e su coloro che sono morti per aver sfidato coloro, i mafiosi, che hanno "infangato e infangano" la Sicilia e l'Italia". "Le parole di Miccoli su Giovanni Falcone sono sconcertanti, così come sono inaccettabili le sue frequentazioni mafiose", scrive su Twitter il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione giustizia. "Ho atteso una precisazione da parte di Miccoli. Il suo silenzio e' sconcertante. Vada via da Palermo con l'ignominia di tutti i palermitani", scrive su Twitter Antonello Cracolici, deputato regionale siciliano e presidente della Commissione per l'applicazione del decreto Monti all'Ars. Duro anche il commento di Sonia Alfano, presidente della Commissione antimafia europea e dell'Associazione nazionale familiari vittime di mafia: "Palermo non è la città di Lauricella, Riina e i Graviano: è la città di Falcone, Borsellino, Giaccone, Agostino, Iannì, Domè e moltissime altre vittime innocenti che la mafia l'hanno combattuta a viso aperto! Le dediche di Miccoli ai giudici uccisi dalla mafia oggi suonano come delle vere e proprie prese in giro. Andrebbe radiato dal mondo del calcio". Dello stesso avviso Gianpiero D'Alia, ministro della Funzione pubblica: "Non può continuare a giocare perché ha tradito la fiducia di migliaia di tifosi che in lui, capitano del Palermo, hanno visto un esempio in cui identificarsi". "Chi utilizza certe espressioni dovrebbe chiedersi, come io chiedo, se sia mai stato degno di rappresentare la città di Palermo" dice il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. "Auspichiamo che sia lo stesso calciatore a fare immediata chiarezza su quanto accaduto", ha detto Danilo Leva, presidente del forum Giustizia del Partito Democratico, "un giocatore di calcio è un idolo per tanti giovani, e questo comporta precise responsabilità. Ci si aspetterebbe che fosse un esempio positivo e un modello di comportamento da seguire, evitando di cadere in affermazioni che feriscono il Paese, la Sicilia e Palermo, quella città cui Miccoli deve gran parte della sua fama e del suo successo". "In una società sana una persona che dice queste cose verrebbe esiliato, ma sicuramente lo vedremo in qualche reality". E' quanto ha detto Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, circa le frasi del calciatore Fabrizio Miccoli. Pif ha partecipato alla terza edizione di Trame, festival dei libri sulle mafie diretto da Gaetano Savatteri in corso a Lamezia Terme fino, dove ha presentato in anteprima nazionale le prime immagini del film da lui diretto "La mafia uccide solo d'estate", ambientato a Palermo negli anni di piombo e raccontato dagli occhi di un bambino. E scatta anche il "cartellino rosso" dei tifosi rosanero delusi dal 'Romario del Salento' che nei social network lo condannano senza appello. "Ora ti scordi la Sicilia", reagisce un tifoso sulla pagina Facebook di Miccoli, comunque in partenza, anche per l'insofferenza crescente di patron Zamparini legata proprio agli sviluppi dell'inchiesta. "Una feccia? Sei una merda", gli urla una giovane. E su Facebook nasce il gruppo "Vogliamo la radiazione di Miccoli per la frase su Falcone", con un centinaio di adesioni. Non solo. Sempre sui social network si chiede che il Palermo "prenda le distanze" dall'ex giocatore rosanero sulla frase choc sul giudice ucciso nella strage di Capaci. Fino al pomeriggio il Palermo Calcio non si è espresso sulla vicenda, tenendo la foto del capitano sulla homepage del sito, poi le parole del patron Maurizio Zamparini: "Mi dispiace tantissimo, speriamo che sia un lapsus della procura. Conoscendo Miccoli non penso che lui possa fare un'estorsione a nessuno. Le sue parole? No comment, bisogna vedere esattamente cosa ha detto. Mi rende sconcertato che i giornalisti sappiano delle intercettazioni che devono essere un segreto, poi lo sarei se lui le dovesse aver dette per davvero". "Avevo un sentore, non che fosse indagato, ma che la procura stesse facendo delle verifiche perchè lui aveva delle amicizie - ha detto Zamparini ad Antenna Sicilia secondo quanto riporta Stadionews. Questo però accade a tutti i giocatori, mica sanno che balordi frequentano. Per questo penso che faccia bene ad andarsene da Palermo". "E' un demente e con lui quelli che lo acclamano", qualcuno scrive su Twitter. Per altri il simbolo di un "calcio marcio". "La società del Palermo rescinda subito il contratto", esorta un tifoso. "Delusione infinita", incalza un altro.

Isolato e “seviziato”, ma non arretrò: per fermare Falcone ci volle il tritolo. La strage di Capaci vent'anni dopo. Il magistrato "morto che cammina" aveva portato un vento nuovo dopo gli assassini di Terranova, Costa e Chinnici. Istruì il più grande processo alla mafia che si ricordi. Obbligò il mondo a decidere dove stare. Ma come in tutte le curve della storia del nostro Paese arrivarono le bombe, i morti e le stragi. Nando dalla Chiesa il 22 maggio 2012 su Il Fatto Quotidiano. Ci volle il tritolo, un tritolo infinito, per fermarlo. Dicevano di lui da anni che fosse “un morto che cammina”, perché la mafia da tempo l’aveva condannato. Anche Buscetta lo aveva avvertito: lei salderà il suo conto con Cosa Nostra solo con la morte. Lo sapeva benissimo. Per questo non volle avere figli, “per non lasciarli orfani”. Ma continuò lo stesso a camminare. E camminando faceva cose che i “vivi” non sapevano o non osavano fare. Istruì, con Paolo Borsellino, il più grande processo alla mafia che si ricordi. Per la prima volta in centotrent’anni di storia dello Stato italiano fece condannare all’ergastolo in via definitiva i grandi capi della mafia, sicuri (perché così gli era stato promesso) di farla franca in Cassazione, come centinaia di volte era già successo. Era arrivato come un turbine, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, mentre la mafia uccideva grandi magistrati: Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici. Giovane e sconosciuto, aveva portato un vento nuovo nelle investigazioni e nella giurisprudenza sconvolgendo abitudini ed equilibri, facendo sentire a un mondo melmoso e ambiguo tutta la scomodità di dover decidere da che parte stare, se con la legge o con i criminali. Costruì con tenacia e intelligenza una nuovo cultura giuridica nella lotta alla mafia, sfruttando gli spazi aperti dall’articolo 416 bis introdotto nel codice penale dalla legge Rognoni-La Torre. Pochi mesi prima del tritolo, in collaborazione con Marcelle Padovani, lasciò anche un libro di rara sapienza antimafiosa, che ancora oggi trasmette insegnamenti preziosissimi, primo fra tutti il ruolo del famoso “concorso esterno”, senza il quale la mafia potrebbe essere spedita a casa in poco tempo. Tra quella delle tante vittime, la sua vicenda fu la più terribile. Isolato come altri, ma per un periodo infinito, dieci, dodici anni che sembrarono un secolo, tali furono il carico di sangue, i conflitti, le lacerazioni, ma anche i passi avanti. Invidiato da molti suoi colleghi, e con una acidità tutta palermitana, quella del Corvo e del Palazzo dei veleni, fino ad accusarlo di essersi organizzato il fallito attentato all’Addaura per far carriera. Inviso al potere, che dopo le sue incursioni nei piani alti dei Salvo e dei Ciancimino coniò un nuovo vocabolario che ancora impera: il giustizialismo, la cultura del sospetto, il giudice-sceriffo. Temuto dalla politica, che manovrò, trovando provvidenziali aiuti democratici nel Csm, per sbarrargli il passo all’ufficio istruzione di Palermo. Sospettato perfino da settori dell’antimafia, e questa fu forse la più crudele pagina della sua vita, che ancora tutti ci interroga, poiché nel clima impazzito di quegli anni era possibile muovere accuse proprio a lui o ascoltarle senza condannarle. Isolato, umiliato, “seviziato” (come mi disse un giorno), non arretrò di un metro e nemmeno si fermò. Continuò a camminare. Per rimanere stritolato alla fine dentro una convergenza che sembrò allestita da un destino implacabile: la voglia di vendetta di Cosa Nostra; il crollo del sistema politico di Tangentopoli; la nascita della procura nazionale antimafia, da lui voluta tra mille diffidenze, ma che terrorizzava chi – dal nord – faceva patti con la mafia nell’isola e fuori dall’isola; la nascita (ancora clandestina) del nuovo partito a Milano. E l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, con le votazioni che ristagnavano in Parlamento. Fu in quel punto della transizione italiana verso qualcosa di nuovo e di incerto che decisero di fermare il suo cammino nel modo più eclatante e spaventoso. Facendo saltare l’autostrada Punta Raisi-Palermo. Perché in Italia a ogni momento di svolta arrivano le bombe e i morti e le stragi. Perché i poteri criminali, e la mafia in mezzo a loro, fanno politica così, da Portella della Ginestra a ieri. Fu una scena di guerra che si incise per sempre nella memoria di un popolo intero. E si trasmise alle nuove generazioni. Che affacciandosi all’adolescenza vengono da vent’anni educate a specchiarsi nei due visi sorridenti del giudice Falcone e del suo amico Borsellino e grazie al loro esempio scelgono di stare dalla parte dell’antimafia, animando il movimento che più ha cambiato la faccia civile del paese. I sedicenni e Falcone, i sedicenni e Borsellino. Purtroppo le stragi in Italia non finiscono mai. Nei momenti di incertezza, quando la politica si fa viscida e vigliacca insieme, tornano. Con puntualità maledetta. Per colpire chi cammina, da solo o per mano con altri. Per questo il tritolo fermò il giudice che non voleva arrendersi. Per questo, nel giorno del suo ricordo, una bomba ha fermato una sedicenne e il profumo di primavera che si portava addosso.

·         La Mafia è femmina.

TACCO 12 E ARROGANZA: LA ‘NDRANGHETA ORA E’ FEMMINA. Alessia Candito per il Venerdì-la Repubblica il 30 aprile 2019. Outfit all’ultima moda, borse e occhialoni griffati, piglio da donne in carriera. E arroganza. Si presentano davanti ai giudici chiamati a decidere se spedirle dietro le sbarre, fresche di messa in piega e su tacco 12. Sono le professioniste di fiducia della ‘ndrangheta. Sono sempre più spregiudicate e per i clan sempre più necessarie. Se nell’immaginario collettivo la donna di ‘ndrangheta assomiglia ad una signora vestita di nero, magari anche baffuta, sempre sottomessa ai maschi di famiglia, nella realtà è invece tutt’altra cosa. Oggi mostrano un volto del tutto nuovo. Ma è solo un aspetto della loro trasformazione. «La donna ha sempre avuto un ruolo importante nella criminalità organizzata calabrese» dice il comandante della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Francesco Rattà. «Sono sempre state loro a tessere i fili della vendetta, a innescare o comporre conflitti anche sanguinosi, a crescere le nuove generazioni di affiliati. Oggi stanno solo rivendicando un ruolo fuori dalle mura domestiche».

La ‘ndrangheta non è una monade. I cambiamenti sociali toccano le corde intime dell’organizzazione e spesso chi la governa è bravo a cavalcare l’onda, se non ad anticiparla. Mentre aziende, ordini professionali e pubblica amministrazione continuano a storcere il naso di fronte a donne in posizioni apicali, la ‘ndrangheta da tempo ha imparato a cercare commercialiste, avvocate, consulenti, esponenti delle istituzioni. Insomma, in linea con i tempi che cambiano. La filosofia è stare al passo, aggiornare le avanguardie della malavita. E poi chi potrebbe mai pensare che l’organizzazione criminale che più si è raccontata in termini di machismo e tribalismo possa affidare proprio alle donne le vite e le fortune dei propri affiliati? Gli esempi ormai si contano a decine, perché anche nel mondo dei clan il ruolo della donna è questione di classe e di rango. «Non facciamoci ingannare: le signore della ‘ndrangheta, non sono la faccia presentabile del crimine organizzato» sottolinea il procuratore aggiunto giunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. «Spesso sono le menti nascoste di un sistema criminale di cui custodiscono i segreti ed alimentano i rancori. La loro parola condiziona le scelte che contano, dando vita a faide cruente e guerre infinite. Oggi assumono ruoli di comando, non limitandosi più ad occupare quelli di “supplenza”. Non è più consentito pensare di poter contrastare i fenomeni criminali di tipo mafioso, sempre più estesi e sofisticati, senza aver compreso che la forza delle mafie va ricercata nella capacità di rinnovare valori deviati, che proprio le donne contribuiscono a rendere forti e condivisi». Per molto tempo però la forza, il potere e l’influenza delle donne sono state sottovalutate. Maria Serraino, divenuta negli anni Settanta la regina di piazza Prealpi e dello spaccio di cocaina ed eroina a Milano; sua nipote Marisa Merico, ex principessa del narcotraffico e del contrabbando di armi, boss di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria; Aurora Spanò, condannata a 23 anni come capo del suo clan; Ilenia Bellocco, che a forza di irripetibili bestemmie faceva rigar dritto gli affiliati. Sono sempre state considerate eccezioni alla regola. Ma in realtà dentro e fuori dai clan, il pallino del potere mafioso, degli affari e delle strategie criminali è sempre più nelle mani delle donne. Ne era perfettamente consapevole quella che gli inquirenti considerano la “criminologa dei clan”, Angela Tibullo, arrestata nell’agosto scorso a Reggio Calabria, e dopo qualche mese confinata ai domiciliari.

Per diventare la “regina della penitenziaria”, a soli 36 anni, non avrebbe esitato a corrompere medici e periti per strappare scarcerazioni per i suoi assistiti, confezionare insieme a loro referti ad hoc, trasformare agenti penitenziari in postini e informatori. In cambio, offriva serate in compagnia di escort o denaro. Molto denaro. «Per invogliarmi mi spiegò che l’ultimo perito che aveva ricompensato si era “fatto la Pasqua“ con quello che aveva ricevuto e, probabilmente, si era fatto pure l’estate» ha raccontato agli inquirenti uno dei professionisti che non si è piegato. Volto noto dei salotti televisivi locali e nazionali, di fronte alle telecamere, la Tibullo si mostrava come seria e posata professionista. Quello che ha colpito gli investigatori durante le intercettazioni sono stati i toni e i modi. «Questa carta qua» diceva ad uno dei boss che grazie a lei sperava in una scarcerazione «costa diecimila euro». E con i loro familiari, tutti affiliati di alto rango, parlava da pari a pari, con l’arroganza di chi si sente indispensabile e con la familiarità della persona di fiducia. Stessa confidenza che ha sempre mostrato con il boss Matteo Alampi l’avvocata Giulia Dieni. Un tempo legale di grido e gran frequentatrice di salotti e locali cittadini, poi travolta da un’inchiesta antimafia e finita nella polvere. I giudici l’hanno condannata in primo grado e in appello per aver permesso al boss, all’epoca detenuto, di mantenere il pieno controllo del suo clan, come delle aziende in teoria sequestrate. In cambio di soldi, gioielli, regali. In altre parole, sostengono i giudici, era diventata “la portavoce” di Alampi. Se uno degli affiliati veniva convocato dal legale, per tutti il significato era chiaro: «Ti vuole parlare Matteo...», spiega uno di loro intercettato. «Ma nella società» dice un investigatore «si stenta ancora a credere che una donna possa volutamente scegliere di ricoprire questo ruolo». Sarà per questo che l’avvocata Giulia Dieni continua a esercitare la professione? Non è dato sapere. Di certo, contro di lei, il suo Ordine non si è affrettato a prendere provvedimenti. Al contrario, ha fatto scadere i termini per decidere sulla sospensione cautelare dall’esercizio della professione senza arrivare ad un verdetto. L’avvocato incaricato di relazionare sul caso ha sostenuto di avere troppo poco tempo per esaminare i documenti e comunque di aver bisogno di carte ulteriori. La sezione distrettuale di disciplina forense si è limitata a prenderne atto. Risultato? L’avvocata Dieni, condannata per i rapporti ambigui con i propri clienti, ha continuato ad entrare e uscire da carcere per parlare con i detenuti, frequentare le aule giudiziarie, trattare con i parenti. Prima dell’arresto, era una professionista di grido anche Roberta Tattini. Figlia della buona borghesia bolognese, per anni è stata una consulente finanziaria molto nota in città. Poi, alla sua porta ha bussato il boss Nicolino Grande Aracri, «il capo di giù, di Cutro, il sanguinario» raccontava lusingata. «È gente che ha i segni delle pallottole addosso. Ieri mi sono sentita importante». Il patriarca le ha chiesto una mano per sistemare una serie di affari e lei non si è tirata indietro. Anzi, la considera una grande occasione. «Fulvio, mi sta dando un’opportunità! È un affare e guadagno un milione di euro» dice al marito, che tenta inutilmente di metterla in guardia. Ma lei si sente tranquilla, nonostante sia consapevole dei rischi. «Siete uomini d’onore» la ascoltano dire gli investigatori. «Voglio il vostro migliore avvocato a difendermi, perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni. Invece voi mi tirate fuori». Aspettative infrante da una condanna definitiva a 8 anni e 8 mesi.

LA CAMORRA È FEMMENA.  Vincenzo Iurillo per "il Fatto Quotidiano” il 28 giugno 2019. Il ruolo apicale delle donne dei clan di camorra a Napoli è ben riassunto in una frase del pentito Mario Lo Russo. Sentito dai pm il 12 settembre 2016 per riferire sui capi dell' Alleanza di Secondigliano, a una domanda sul clan Licciardi, Lo Russo risponde: "Erano diretti da Maria Licciardi". Il salto di qualità è compiuto: le signore della camorra non svolgono più una funzione di supplenza degli uomini del clan in situazioni d' emergenza - omicidio, latitanza prolungata o cattura del boss di riferimento - ma assumono in prima persona i pieni poteri. "Maria Licciardi era indiscutibilmente il capo del suo clan, riconosciuta da tutti in quanto tale, sia interni che esterni", riassume il Gip di Napoli Roberto D' Auria che ha firmato l' ordinanza di 126 misure cautelari. Duemila pagine frutto di una inchiesta di 'sistema' - pm Ida Teresi, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli - che la Direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli ha avviato nel 2012 annodando i fili dei rapporti tra alcuni dei clan più potenti della città, i Contini, i Mallardo e i Licciardi. Un patto di sangue e di affari. L' Alleanza di Secondigliano. A rappresentare i Licciardi a quel tavolo dove si decideva la spartizione dei territori e le missioni di terrore c' era Maria "a Piccerella", la sorella di Gennaro Licciardi “a scigna” (la scimmia), morto in carcere a Voghera nel 1994 dopo aver fondato il clan che ha tuttora la sua roccaforte nella Masseria Cardone, all' interno del quartiere di Miano, periferia nord di Napoli. Anche Maria ha conosciuto la prigione, a Benevento, nei primi anni 2000. E se una volta erano le donne a portare all' esterno le imbasciate e gli ordini degli uomini detenuti, nel suo caso è esattamente il contrario. Dalle conversazioni registrate in carcere, si scopre che è il marito "ad assumere le redini del clan sotto la costante direzione della moglie". Maria Licciardi fu catturata dopo due anni di latitanza, e anche stavolta si è data alla fuga, gli investigatori non sono riusciti a rintracciarla all' alba del maxi blitz. Sono invece finite in carcere le tre sorelle Anna, Maria e Rita Aieta, mogli di Francesco Mallardo, Edoardo Contini e Patrizio Bosti, e Rosa Di Nunno, moglie di Salvatore Botta. A tutte è stato riconosciuto il ruolo di capo all'interno dell'Alleanza. "Le donne avevano un ruolo rilevante sia per i collegamenti con il sistema penitenziario, sia per la capacità di assumere decisioni e di pretenderne il rispetto" ha spiegato il procuratore capo Giovanni Melillo.

Il potere di Maria "la Scimmia". L' autorevolezza di Maria Licciardi si evidenzia nella vicenda del debito di gioco di 15mila euro contratto dal figlio minorenne di un tale P. R. "Li prendiamo tranquillamente quello tiene i soldi", dicono tra loro i creditori. Non è così. L' uomo stenta a onorare le pendenze. E chiede a Maria "a scigna" (l' altro suo soprannome) un intervento per ottenere una dilazione. La storia emerge da una intercettazione ambientale. T. - E quell' altro, il figlio di P. R. - (inc) poi si rivolge a Maria "la scimmia" non li tiene a tanto alla volta ma quello è sbagliato invece di prenderlo e dirgli: scornacchiato, hai giocato? Non devi pagare a questi? Invece si rivolge a quella e ora vediamo dai 1.300 a 1.000 al mese ma che stai dicendo? () sta pieno di debiti a piangere da Maria: ma quella dice; tu giochi? Quando hai vinto ti hanno dato i soldi? E quando perdi paghi. S. - Sono cose di gioco Alla fine, anche grazie a Maria Licciardi, si troverà un accordo per una dilazione a 2.000 euro mensili. "Il rispetto per la donna era massimo - scrive il giudice - tanto che, sebbene il suo operato non fosse condiviso, comunque le richieste da lei avanzate trovavano fattiva realizzazione", per via dell' intesa di ferro tra i Licciardi e i Contini. Come nel caso del pagamento di un credito. Maria Licciardi si rivolge a Peppe, uno dei Contini. L' ordine è chiaro. La vittima va minacciata, e se necessario bastonata a sangue. "Sto aspettando a questo cornuto - esclama l' esattore - ma penso che abbusca dopo Ha detto Peppe. Se non ti dà i soldi picchialo". Anche stavolta il debitore proporrà una rateizzazione. Dovrà discuterla con Maria Licciardi in persona.

La dura legge delle sorelle Aieta. Per una estorsione da un miliardo quando la moneta era la lira, Anna è stata recentemente condannata in primo grado a 13 anni. Maria, con lo sconto di pena del rito abbreviato, se l' è cavata con 8 anni. Mentre di Rita Aieta parla così un pentito, Alfredo De Feo: "Dico subito che è persona che comanda nel clan Contini ed ha anche voce in capitolo sulle mesate (gli stipendi agli affiliati del clan, ndr). Ricordo per esempio che tolse la mesata per alcuni mesi ad uno, perché la moglie non l' aveva salutata rispettosamente". Sono sgarri che vanno puniti in qualche modo. Dovette intervenire il nipote dell' uomo su Ettore Bosti, il figlio di Rita, per far ripristinare lo stipendio allo zio.

Maddalena Oliva per “il Fatto Quotidiano” il 28 giugno 2019. Nella camorra non esiste Famiglia senza famiglia di sangue. Lo ha ricordato l' ultima relazione semestrale della Dia: "La presenza di parenti all' interno della catena di comando conferma la centralità della famiglia quale strumento di coesione. È in questo contesto che le donne assumono, sempre più spesso, ruoli di rilievo nella gerarchia dei clan, in assenza dei mariti, o coi figli detenuti". A Napoli, scompaiono i capi carismatici, e mogli e figlie ne prendono il posto. Oggi Maria Licciardi, ieri Pupetta Maresca. Ma è da tempo che le donne a Napoli partecipano alle attività illegali. La loro presenza, attiva, è radicata nella storia della camorra (e della città). A partire dall' Ottocento, e poi nel mondo del contrabbando di sigarette. Raccontava il boss dei Quartieri Spagnoli, Mario Savio: "Le contrabbandiere avevano un' abilità particolare perché riuscivano a stringere tra le cosce le valigie usate come banchetto per le sigarette e a camminare, tenendole nascoste sotto i gonnoni, con passo normalissimo, sfilando davanti ai finanzieri". Capacità organizzativa, gestione degli affari, le vediamo complici nel fiancheggiare e spalleggiare i loro uomini, o pronte ad assalire in difesa dei propri parenti. "Capesse", trafficanti di droga, usuraie, assassine, oltreché mogli, madri, sorelle, amanti. Secondo i dati raccolti da Anna Maria Zaccaria, dell' Università Federico II , sulle donne detenute per camorra, 1 su 3 risulta essere moglie o compagna di un capoclan: è quindi il legame sentimentale/coniugale a connotare la loro appartenenza. Nel 45% dei casi, ricoprono un ruolo di "gregaria", prima ancora che di pusher o di corriere (29%) o di leader (25%). A dimostrazione dello sfruttamento, o meglio della valorizzazione, della capacità femminile di fare rete. C' è un mondo che pare averlo capito, e messo a Sistema, molto più velocemente di quello che, parallelo, gli corre di fianco.

·         Una vita sotto copertura.

Una vita sotto copertura. Panorama ha incontrato uno degli "undercover" della Polizia che da anni vive infiltrato nella rete dei narcotrafficanti. Panorama il 7 giugno 2019. Ragionano come i narcotrafficanti ma non infrangono le regole della legalità: sono gli agenti sotto copertura della Polizia di Stato. Uomini e donne guidati da uno dei più esperti dirigenti del Servizio Centrale Operativo (Sco). Panorama, in esclusiva, ha potuto intervistare il pioniere degli undercover. L’abbiamo incontrato in una località segreta, armati solo di taccuino e penna: perché la prudenza non è mai troppa quando si affronta un tema come la lotta ai trafficanti di droga; perché, per la prima volta, mostra il volto senza travestimento a un giornalista; perché è infiltrato nelle maglie dell’organizzazione criminale. Lui, nome di fantasia, sembra un attore di un film americano: la sua età non traspare e neppure la cadenza rivela sua vera appartenenza, se è nato al Nord o al Sud. Come un camaleonte è stato addestrato a cambiare pelle per salvare la sua. «Sono stato infiltrato in almeno dieci importanti operazioni di Polizia» dice Jack, da due anni allo Sco. «Ho perso il conto di quanti narcotrafficanti abbiamo catturato, anche uomini al di sopra di ogni sospetto, colletti bianchi che lucrano con la droga o spietati spacciatori; abbiamo sequestrato tonnellate di stupefacenti. È sempre la prima volta però, perché ogni missione è diversa dall’altra: non sai mai come potrebbe finire». 

Parla con calma, senza emotività. «Ci vuole molta professionalità… Ho imparato a comportarmi in modo freddo, lucido, risoluto» dice. Non deve mai sembrare sbirro, neppure quando racconta «cose» da sbirro. E con la paura come la mettiamo? «Ti fa commettere errori. Non sono Batman e devo sapermi fermare, laddove lo ritenessi opportuno». Perché un poliziotto rischia la vita per un normale stipendio e senza incentivi di carriera? Perché affronta un’esistenza complicata, ai margini della società, quasi come un clochard? Accade raramente che un undercover frequenti night club in compagnia di belle donne, ristoranti stellati, hotel di lusso. «Magari...». Per un attimo sorride. «Guardi, il grimaldello è stata la riforma della legge sulla droga. E poi non sopporto che questi criminali possano sentirsi degli intoccabili e farla franca. Un giorno mi sono detto: se non si riuscisse ad arrestarli con l’attività investigativa classica e si potesse farlo sotto copertura, ben venga». Il contatto diretto con il trafficante di stupefacenti dà risultati più immediati; e negli ultimi dieci anni si sono fatti tutti furbi, al telefono si scoprono solo le corna. «Al telefono, del resto, non si registrano nitidamente i reati, tutto è più complesso. Ci sono, poi, tanti sistemi per comunicare: WhatsApp, la Chat, Facebook, Black Berry» continua Jack. Quando il Servizio Centrale Operativo decise di alzare il livello della lotta alla criminalità puntando sulla strategia dell’agente sotto copertura, chiamò Jack: lui, che aveva già dimostrato le prerogative indispensabili per questa attività investigativa, cominciò a formare altri poliziotti.

La scuderia degli undercover permette anche di risparmiare dal punto di vista economico. Per il piccolo spaccio, per esempio, si adotta una strategia collaudata, che permette in 60 giorni di arrestare 20 o 30 spacciatori che colonizzano la piazza: un intervento efficace eseguito da una decina di poliziotti dello Sco e della Scientifica; questi ultimi installano telecamere e microspie, al resto penserà l’undercover che avrà sempre le spalle coperte da un pugno di sbirri pronti a intervenire. 

Sono un team di professionisti, perché il limite che non si deve oltrepassare è sottilissimo e si rischia facilmente di bruciare l’operazione o di imbattersi nel reato penale. Chiediamo a Jack: quante volte si è trovato con le mani legate? «In molte occasioni avrei potuto fare di più, ma la legge non me lo consente. È come una linea Maginot: oltre non si può andare» dice l’agente abbassando lo sguardo come fosse una resa. «I poliziotti americani fanno moltissime operazioni sotto copertura perché la legge permette anche di provocare il reato, di vendere o cedere la merce» racconta. Dovrebbero dare la possibilità di trasportare gli stupefacenti per conto dei trafficanti, invece possono solo acquistarla. E se l’agente sotto copertura fosse costretto a una sniffatina di coca nel bel mezzo del rendez-vous? «Scherza? Il vero narcotrafficante non prende mai la cocaina perché se fosse un drogato non sarebbe credibile. Cerco sempre di evitare incontri al buio, feste e luoghi privati. Devo essere bravo a non trovarmi in certe situazioni perché mi propongo sempre come investitore e mai come consumatore».

Alla domanda: si è mai trovato ad affrontare un incontro senza supporto tecnico e senza informare il regista dell’operazione (che è sempre il direttore dello Sco)? Jack si lascia andare a un racconto da film: «A differenza dei trafficanti bosniaci che sono scaltri, superbi, difficili da conquistare, quelli albanesi si lasciano affascinare dalla persona brillante che ostenta una ricchezza vistosa. Un giorno mi presento, al primo appuntamento, sfoggiando una Lamborghini rosso fiammante. E conquisto immediatamente la simpatia dello spacciatore albanese: la pedina che mi avrebbe portato dal capo dell’organizzazione criminale. Quando ce l’ho ormai in pugno, comincio a dettare le condizioni e a farlo sentire una nullità. Gli albanesi sono molto orgogliosi, quindi cerco di renderlo vulnerabile. Al terzo appuntamento, infatti, mi confessa che prima di vendere la droga deve chiedere il permesso al proprietario. Finché, senza preavviso, mi dice: “Vieni che ti porto dal capo”. A quel punto sono a un bivio: ho un risultato investigativo importante, ma non ho il supporto di copertura dei colleghi. Non posso rischiare di fare saltare l’operazione, l’istinto mi dice di andare. Jack si ferma un secondo per creare maggiore suspense. «Mi sembra di vivere la scena di un giallo: mi portano in un luogo isolato dove si trova un capannone. E mentre il mio gancio si reca dal capo, mi accorgo che sono sorvegliato: basterebbe una telefonata o un gesto nervoso… e non vedrei più il sole. Quando torna lo spacciatore quasi mi esorta: “Il mio capo ti vuole conoscere”. Raggiungiamo il capannone e mi trovo di fronte a un bosniaco grande come una montagna che comincia a farmi un vero e proprio interrogatorio. Per fortuna la mia storia lo convince: dopo una settimana mi informano che avverrà la consegna della droga, ma all’appuntamento mi presento con i miei colleghi che fanno la retata». 

Il fatturato del traffico di stupefacenti potrebbe risanare le casse dello Stato, la richiesta di droga è talmente elevata che tutte le organizzazioni criminali guadagnano ingenti somme di denaro senza farsi la guerra: «Una volta il giro dei trafficanti di droga era chiuso e infiltrarsi era impossibile. Adesso, invece, il sistema è talmente variegato che a noi fa gioco» spiega. «Più persone spacciano e più possibilità abbiamo per mimetizzarci nelle organizzazioni criminali. Chiaramente dipende dalla etnia: lo spacciatore nigeriano ha un modus operandi, quello magrebino ne ha un altro, l’albanese o lo slavo un altro ancora». Nella galassia dei narcotrafficanti, kosovari, bosniaci e croati sono i più spietati, anche perché molti boss dello spaccio sono reduci di guerra. «Infiltrarsi nelle maglie di queste organizzazioni è una impresa impossibile. Sono determinati, praticano l’autarchia più assoluta» sottolinea Jack. «Se è vero che la droga accomuna i popoli, è anche vero che l’organizzazione criminale nigeriana batte le altre etnie perché è potente, dominante, spalmata soprattutto nelle piazze più ricche del Paese. Gli spacciatori nigeriani sono così tanti che è come affrontare con l’ombrello lo tsunami». I capi dei clan nigeriani usano i riti tribali juju per soggiogare i proseliti. Sono azioni violente: di recente un «adepto» è morto durante un rituale di iniziazione. «E aveva pure pagato 400 euro» precisa Jack. 

I boss nigeriani, giorno dopo giorno, conquistano fette rilevanti del mercato degli stupefacenti: qualcuno cerca di fare il salto di qualità, stringendo affari anche con gli spacciatori italiani. Se si volesse tracciare l’identikit del nigeriano presente nelle piazze di spaccio? «È un soggetto irregolare sul territorio, che vive in luoghi di fortuna, per cautela si rifornisce dai connazionali». Quindi scardinare e infiltrarsi nei clan nigeriani è come un labirinto. «Nonostante fossero gruppi criminali serrati, siamo riusciti, in alcuni casi, a penetrare anche a un livello superiore dell’organizzazione» sottolinea l’undercover. 

La vera difficoltà è abbattere il muro della diffidenza. E poi sono molto superstiziosi: prima di effettuare un trasporto di stupefacenti contattano lo sciamano che si trova in Nigeria. «Mi è capitato, mentre l’operazione era quasi conclusa, che il capo nigeriano fermasse la consegna della droga perché lo sciamano vietava la trattativa e la rimandava a tempi migliori» dice Jack. Anche la madre del capo riveste un ruolo importante nell’organizzazione criminale nigeriana, e ha un potere incredibile sul figlio. È lei che investe i proventi della droga in Nigeria, quasi sempre in immobili. «Siccome i nigeriani sono molto creduloni, se la mamma del trafficante di droga dovesse dire: “Non ti muovere che ho un presentimento”, spostano o addirittura sospendono l’affare. Mi è successo diverse volte».

La mafia nigeriana è in ascesa. E la Nigeria è la tratta alternativa sia per la cocaina che per l’eroina. Jack non ha dubbi: «L’ovulatore fa transitare ingenti quantità di stupefacenti». Alcune importanti operazioni, una per tutte Eiye -Calypso, a Cagliari, dimostrano che è ormai un sistema ramificato. Finché la Ndrangheta resterà la regina del grande business, perché fa tutto in proprio, dalla raffinazione al trasporto della droga e persino allo spaccio nelle zone controllate, mantenendo contatti diretti con i cartelli colombiani e importando qualsiasi carico di stupefacenti, nel mondo del narcotraffico prevarrà lo status quo. «La normativa non ci permette di infiltrarci nei cunicoli delle ndrine» sospira lo sbirro. «Ma mai dire mai». Jack saluta e si allontana. 

·         Damiano Caruso e la mafia.

“I BAMBINI SI NUTRONO DI QUESTE PORCHERIE”. Da Libero Quotidiano il 5 agosto 2019. Roberto Saviano ha fatto infuriare pure chi la mafia la combatte sul campo. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro se la prende contro mister Gomorra e la serie che ha ispirato e a cui ha preso parte per la realizzazione: "Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie". Il saggista ci va giù ancora più pesante: "Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi". Il rimando a Saviano, anche se il suo nome non viene mai pronunciato, sembra chiaro.

Gratteri contro Saviano: sei un cattivo maestro. Simona Musco il 6 Agosto 2019 su Il Dubbio. L’anatema del magistrato antimafia. L’accusa del procuratore: «c’è chi dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato, perché i bambini si nutrono di queste porcherie» “Gomorra” e affini sono diseducativi e rischiano di provocare un effetto “emulazione”. E così, anziché censurare le mafie finiscono per esaltarle, trasformando in eroi coloro che, nella realtà, sono i cattivi. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro, ancora una volta non le manda a dire. E, così come più volte ha fatto negli ultimi tre anni, punta il dito contro la serie tv nata dalla penna di Roberto Saviano, definito, nemmeno troppo tra le righe, un professionista dell’antimafia, un ingordo. Un’occasione, quella fornita dal palco di “Estate a casa Berto” a Capo Vaticano, in Calabria, per rispedire al mittente le critiche di chi, come Marco D’Amore, protagonista della serie, aveva paventato il rischio di una censura. «Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura- ha dichiarato il magistrato dialogando con il giornalista Paolo Conti, del CorSera, nel corso della rassegna – Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie. Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello. Ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi». Una tesi che Gratteri sostiene ormai da tempo, in compagnia di diversi colleghi, tra i quali anche il procuratore capo della Dna Federico Cafiero de Raho, secondo cui il rischio è quello di distorcere la realtà, raffigurando la camorra come fosse un’associazione come tante altre anziché rappresentarne la violenza che la caratterizza. La polemica era nata in occasione della messa in onda della terza stagione di “Gomorra”, quando Gratteri aveva criticato il modello veicolato dalla serie tv, denunciando il rischio emulazione. «È dietro l’angolo – aveva messo in guardia Negli ultimi tempi, dagli eroi positivi destinati alla sconfitta si è passati ai boss protagonisti di storie più o meno ispirate a fatti veri. Sullo schermo vediamo un mondo abitato da “paranze” assetate di sangue, senza alcun margine di redenzione. Alla fine, i personaggi positivi sono uomini di potere, uomini di parola e uomini che sanno imporsi. Ma sono sempre criminali». Ma non era stato il solo a farlo. Ad elargire critiche era stato, infatti, anche Giuseppe Borrelli, all’epoca procuratore aggiunto della Dda a Napoli, secondo cui la pecca di “Gomorra” sarebbe quella di offrire una rappresentazione folkloristica dei clan. Parole che avevano allarmato il cast del film, che attraverso D’Amore, alias Ciro di Marzio, protagonista della fiction, aveva denunciato il rischio di censura nei confronti di quello che ha definito, invece, un fortissimo atto di denuncia partito proprio da Saviano. E lo stesso scrittore ha poi rispedito al mittente le accuse. «Il rischio emulazione — aveva replicato — credo sia un paradosso. Chi guarda il padrino diventerà Michael Corleone? Chi legge Shakespeare diventerà Riccardo III? Quando un libro, un film, una serie tv raccontano le ferite senza edulcorarle, mettono a soqquadro la percezione della realtà facendo nascere una domanda: ma davvero questo accade? Una serie che racconta il male, mostra la ferita, produce sofferenza e quindi cambiamento e crescita».

Damiano Caruso: “SAVIANO FA BUSINESS CON LA MAFIA, FALCONE CI È MORTO”. Da Il Napolista il 25 luglio 2019. L’Equipe dedica due pagine di intervista a Damiano Caruso, siciliano, gregario di Nibali. Il siciliano tocca vari temi, tra cui anche la mafia e il padre che ha fatto da scorta a Giovanni Falcone. 

Il padre nella scorta di Falcone. “Mio padre è entrato in polizia dopo il servizio militare, non aveva lavoro e si è ritrovato a Palermo nel 1984 nella scorta del giudice Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, e aveva appena 19 anni”. “Me ne parla con orgoglio e fierezza, col sentimento di aver vissuto momenti storici. Falcone è stato il primo a combattere apertamente la mafia. All’epoca era diverso, bisogna avere una sacro coraggio, un grande senso del sacrificio per mettere la propria vita in gioco, come ha fatto mio padre per un altro, per un milione e e 200mila delle vecchie lire, gli attuali 600 euro”.

Saviano si fa bello ma vive di questo. “La mafia bisogna raccontarla ma Saviano fa business, nella Serie Gomorra lui talvolta romanza, si fa bello ma vive di questo. Lui odia la mafia e se ne nutre. Falcone, invece, ha pagato con la vita”.

La Sicilia. “Io vivo la vera Sicilia, Ragusa è a Sud, è una zona turistica, la mentalità è più aperta, io abito a 200 metri dalla villa del commissario Montalbano, quello della serie tv, mi è capitato di assistere a qualche ripresa”.

I siciliani. “Il siciliano si lamenta facilmente e non fa nulla per cambiare le cose, ma io non piango mai. Vivo in Sicilia e ne sono felice. Spesso mi dicono: sei cretino a rimanere là, dai la metà dei tuoi guadagni allo Stato ma io mi rifiuto di farmi cambiare dal denaro e se mia moglie Ornella non avesse supportato la mia scelta di fare il ciclista, le mie assenze, mi sarei accontentato di una vita più tranquilla. Sì guadagno, ma non potrei mai vivere in 20 metri quadrati a Montecarlo o a Lugano. Abbandonare la Sicilia equivale a condannarla. Quando vado all’aeroporto, sono sereno perché so che la mia famiglia è tranquilla dov’è”.

Mi manca una grande vittoria. “Mi manca una grande vittoria. Quest’anno, al Giro, avrei potuto vincere la tappa del Mortirolo. A Ponte di Legno ero più veloce di Ciccone e Hirt ma mi hanno chiesto di aspettare Nibali. Pioveva, ero congelato, ho aspettato, è il contratto. Se mi avessero considerato un po’ di più, avrei vinto. A forza di essere gregario, di sacrificarsi per la squadra, si perde il senso della vittoria”.

Sottovalutato. “Corro nell’ombra del gruppo, nel limbo, tra il paradiso e l’inferno. Non si parla mai di me, posso comprenderlo ma talvolta sono sottovalutato e mi piacerebbe che la stampa fosse più democratica”.

·         Quelli che non si ricordano mai. Giancarlo Siani, Pino Puglisi.

Quelli che non si ricordano mai, scrive Attilio Bolzoni su La Repubblica il 16 aprile 2019. Sono quelli che non si ricordano mai, quelli che non subito e non sempre vengono richiamati negli elenchi delle "vittime innocenti”, quelli che non ci sono più per mano mafiosa ma nessuno lo sa. Oggi parliamo di loro. Sono tanti, tantissimi. Uomini, donne, anche molti bambini. Sono soltanto un nome e spesso dimenticato. Le loro vite si sono perdute nei labirinti della memoria, le ragioni della loro morte perlopiù ignote agli altri. E' una lista italiana tragica e sconosciuta. Chi era Carmelo Iannì e perché è stato ucciso? Chi era Marino Fardelli e come è saltato in aria? Chi era Rossella Casini e perché l'hanno ammazzata? E Rocco Gatto? E Giovanni Lo Sardo o Elisabetta Gagliardi, e Vito Ievolella e Domenico Petruzzelli? Il Blog Mafie dedica a loro, ai "senza volto” e ai "senza storia” una serie, una trentina di articoli scritti dai familiari  o da persone che sono state vicine in vita alle vittime. Poi le loro esistenze le facciamo riaffiorare dai racconti dei ragazzi e delle ragazze di Cosa Vostra. Perché l'impegno della memoria presuppone anche il ricordare le storie di queste vittime...Ecco chi erano Gaspare Palmeri e Nicola Guerriero, Giovanni Domè e le sorelle Nadia e Caterina Nencioni, ecco chi erano Paolo Ficalora e Giuseppe Bommarito. In Italia  anche i morti sono di serie A o di serie B, fanfare e pennacchi per i primi, l'oblio per tutti gli altri. Questa è una prima lista di persone che vogliamo ricordare, nei prossimi mesi ne faremo altre rintracciando i figli e i padri e le sorelle e le madri di tutti coloro che se ne sono andati perché erano lì nel momento sbagliato e nel luogo sbagliato o erano lì per dovere, perché hanno avuto in solitudine il coraggio di denunciare aguzzini e boss o perché da buoni cittadini non si sono piegati ai ricatti. Nomi che abbiamo sepolto.. Quelli che non si ricordano mai.

«Porto il nome di mia sorella uccisa dalla camorra, il suo killer libero è un’ingiustizia». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Bufi. Simonetta, la figlia 11enne del magistrato Alfonso Lamberti, fu uccisa il 29 maggio 1982 da un killer, ora in libertà. Il 29 maggio del 1982 la camorra uccise una bambina di 11 anni. Si chiamava Simonetta Lamberti. Suo padre Alfonso era un magistrato, procuratore a Sala Consilina, ed era lui che i killer volevano ammazzare. Lo seguirono mentre rientrava in auto con la figlia da una gita al mare. Erano stati a Vietri. In spiaggia la bambina aveva giocato, al ritorno era stanca, voleva solo andare a casa, a Cava dei Tirreni. Non ci arrivò mai. Lungo la strada un’altra macchina li affiancò e da dentro cominciarono a sparare. Alfonso Lamberti fu colpito alla testa, ma sopravvisse. Simonetta no. Simonetta morì. Trentadue anni dopo il camorrista che nel 2011 confessò di essere il responsabile di quell’agguato e nel 2014 fu condannato a 30 anni di carcere, è un uomo libero. Ma c’è un’altra Simonetta Lamberti che però, come se parlasse a nome di quella sorella che non ha mai potuto conoscere e di cui porta il nome, stavolta è viva e può ribellarsi. «Quell’uomo l’avevo anche perdonato. Mi mandò due lettere, sembrava sincero, lo incontrai in tribunale e lo guardai negli occhi. Poi gli regalai una foto di mia sorella. Pensavo che fosse davvero pentito e che volesse pagare per le sue colpe. Non era così».

Quell’uomo si chiama Antonio Pignataro, oggi ha 62 anni e la sua storia di camorrista passa per la Nco di Raffaele Cutolo e poi per il cartello che ne fu rivale, quello della Nuova Famiglia. È uno che ha attraversato tutto l’arco criminale degli anni Ottanta. «Eppure è la seconda volta che torna in libertà. La condanna per l’omicidio di mia sorella aveva smesso di scontarla già due anni dopo la sentenza. Gli concessero i domiciliari perché aveva il cancro, e io quella volta non fiatai, pensavo che sarebbe stato come infierire contro un essere umano già colpito da una malattia così grave. Ma lui ha continuato a fare il camorrista e la giustizia continua a restituirgli la libertà. E allora no, non ci sto. Voglio sapere come è possibile che uno così sia stato rimandato a casa ancora una volta». In effetti l’ultima scarcerazione di Antonio Pignataro non ha nulla a che fare con l’omicidio di Simonetta Lamberti. Nel 2017 era stato arrestato in una indagine per voto di scambio politico mafioso a Nocera Inferiore, la cittadina salernitana in cui è nato e ha sempre operato. E dove è tornato a vivere adesso con l’obbligo di dimora e di non uscire di casa tra le 22 e le 8. Nel gennaio scorso, durante il processo per queste ultime accuse, disse che le sue condizioni di salute erano peggiorate, che i tumori erano diventati due e perciò chiedeva di essere scarcerato. Non fu accontentato, come non fu accolta l’istanza presentata dal suo avvocato. Ma nel frattempo i termini di detenzione preventiva sono scaduti. Quindi Pignataro è libero. E Simonetta Lamberti, invece, è sempre più prigioniera dell’incubo di poter incontrare in qualsiasi momento l’uomo che ha segnato la vita sua e della sua famiglia, e che così pentito del suo passato di camorrista non doveva esserlo, se poi ha continuato a farlo. «Io lo so che probabilmente a me nessuno spiegherà nulla, perché i parenti delle vittime non hanno diritti. Possono essere parte civile al processo, ma poi tutto quello che viene dopo passa sulle loro teste e devono solo accettarlo. Però non è giusto. Pignataro ha ucciso mia sorella e ha ucciso l’intera nostra famiglia». Alfonso Lamberti è morto tre anni fa, ma da quel giorno dell’82 la sua esistenza è stata inesorabilmente segnata. E si è consumata tra il dolore e complesse vicende che lo spinsero a imboccare strade tortuose pur di trovare gli assassini di sua figlia (li cercò prendendo contatti con boss di camorra e il pentito Pasquale Galasso lo accusò di aver anche fatto favori ai clan). E anche la vita di Simonetta Lamberti (anzi, Simonetta Serena, perché il suo nome doveva essere Serena, ma il padre impose anche quello della figlia uccisa) scorre da 36 anni nel segno della tragedia familiare. «Ho una sorella con cui non ho mai giocato, non ne conosco la voce, non ho nessun ricordo di me e lei. Solo la sua ombra. Che cerco inutilmente di afferrare ogni giorno».

«Cose Nostre», la storia e la vita di chi ha detto no alle mafie. Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. La storia di Maria Concetta Cacciola rivive nella prima puntata di «Cose Nostre», il programma di Emilia Brandi che racconta la storia e la vita di donne e uomini che si sono opposti alla violenza cieca delle mafie pagando un prezzo molto alto senza mai smettere di fare il proprio dovere (Rai1, giovedì, ore 23.50). Maria Concetta, testimone di giustizia, è stata uccisa barbaramente a soli trentun anni. Era una ragazza bella, giovane e piena di vita, che sognava un’esistenza diversa da quella che i suoi familiari volevano imporle. Aveva avuto la sfortuna di nascere in una famiglia di ‘ndrangheta, quella dei Cacciola, legata e imparentata con i più potenti Bellocco. Cacciola e Bellocco, due nomi che pronunciati nella Piana di Gioia Tauro incutono rispetto e timore. Una lunga intervista ad Alessandra Cerretti, della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, ricostruisce il dramma di Maria Concetta. Inizialmente la donna decide di affidarsi allo Stato in cerca di protezione, ma ben presto cambia idea in seguito alle continue pressioni da parte della madre e del fratello. È a questo punto che durante una conversazione telefonica tra la ragazza e sua madre, viene intercettata quella che si può definire la frase simbolo del processo e del programma: «O cu nui o cu iddi a stari» (devi stare o con noi o con loro). Così Rosalba Lazzaro pone un ultimatum alla figlia: o stai con noi o con lo Stato. La famiglia pretende la ritrattazione ma Maria Concetta è intenzionata a ricercare nuovamente l’aiuto e protezione dei Carabinieri. Nel frattempo, però, la donna viene assassinata, costretta a ingerire un litro di acido muriatico per depistare le indagini e far credere a un suicidio. Il programma ricostruisce questa drammatica storia con un’asciuttezza di linguaggio di rara intensità e di alto coinvolgimento emotivo.

Dagospia il 19 settembre 2019.Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, il quotidiano Il Mattino ha una bella faccia tosta. Oggi ricorda che il povero Giancarlo Siani avrebbe compiuto 60 anni.. Un articolo reticente e in malafede perché omette di ricordare che Siani era un cronista precario pagato a pezzo come ancora e soprattutto oggi ce ne sono tantissimi...senza contratto senza coperture di alcun tipo. Quando Siani fu ucciso dalla camorra ero cronista precario a cottimo pure io...scrivevo da Milano... rischiavo molto ma molto meno... ebbi la fortuna di essere assunto anni dopo in seguito al contratto avuto altrove. Siani pagò con la vita il coraggio e la passione per il mestieraccio ma non è cambiato proprio nulla. Anzi, la situazione è peggiorata e di tanto. Il precariato dilaga c’è gente che lavora praticamente gratis e con un sindacato che, per la responsabilità che ha, è pure peggio degli editori che ristrutturano i giornali con soldi pubblici e dell’Inpgi che tace e che fa causa a chi osa criticarlo…Frank Cimini

Pino Puglisi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Beato Giuseppe Puglisi, Presbitero, martire. Nascita 15 settembre 1937. Morte 15 settembre 1993. Venerato da Chiesa cattolica. Beatificazione 25 maggio 2013, Foro Italico di Palermo Santuario principale in fase di costruzione nei terreni di Brancaccio confiscati alla mafia. Ricorrenza 21 ottobre. «Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto.» (Papa Francesco ricorda Pino Puglisi il 26 maggio 2013)

Don Pino Puglisi, all'anagrafe Giuseppe Puglisi (Palermo, 15 settembre 1937 – Palermo, 15 settembre 1993), è stato un presbitero, educatore e attivista italiano, ucciso da Cosa nostra il giorno del suo 56º compleanno a motivo del suo costante impegno evangelico e sociale. Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli, è stato proclamato beato. La celebrazione è stata presieduta dall'arcivescovo di Palermo, cardinale Paolo Romeo, mentre a leggere la lettera apostolica con cui si compie il rito della beatificazione è stato il cardinale Salvatore De Giorgi, delegato da papa Francesco. È stato il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.

Biografia[modifica. L'infanzia e l'adolescenza. Nacque il 15 settembre 1937 a Brancaccio, quartiere periferico di Palermo, cortile Faraone, da una famiglia modesta; il padre, Carmelo, era un calzolaio, e la madre, Giuseppa Fana, era una sarta. Nel 1953, a 16 anni, entrò nel Seminario arcivescovile di Palermo.

Attività sacerdotale. Il 2 luglio 1960, fu ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini. Nel 1961 fu nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del Santissimo Salvatore nella borgata di Settecannoli, limitrofa a Brancaccio, e successivamente rettore della chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi. Nel 1963 fu nominato cappellano presso l'orfanotrofio Roosevelt e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi, borgata marinara di Palermo. Fu in questi anni che Padre Puglisi cominciò a maturare la sua attività educativa rivolta particolarmente ai giovani.

Il 1º ottobre 1970 venne nominato parroco a Godrano, un paesino della provincia palermitana che in quegli anni era interessato da una feroce lotta tra due famiglie mafiose. L'opera di evangelizzazione del prete riuscì a far riconciliare le due famiglie. Rimase parroco a Godrano fino al 31 luglio 1978. Dal 1978 al 1990 rivestì diversi incarichi: pro-rettore del seminario minore di Palermo, direttore del Centro diocesano vocazioni, responsabile del Centro regionale Vocazioni e membro del Consiglio nazionale, docente di matematica e di religione presso varie scuole, animatore presso diverse realtà e movimenti tra i quali l'Azione cattolica e la FUCI.

Il 29 settembre 1990 venne nominato parroco a San Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, controllato dalla criminalità organizzata attraverso i fratelli Graviano, capi-mafia legati alla famiglia del boss Leoluca Bagarella: qui iniziò la lotta antimafia di padre Giuseppe Puglisi. Egli non tentava di portare sulla giusta via coloro che erano già entrati nel vortice della mafia, ma cercava di non farvi entrare i bambini che vivevano per strada e che consideravano i mafiosi degli idoli, persone meritevoli di rispetto. Egli infatti, attraverso attività e giochi, faceva capire loro che si può ottenere rispetto dagli altri anche senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori. Si rivolgeva spesso ai mafiosi durante le sue omelie, a volte anche sul sagrato della chiesa. Don Puglisi tolse dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla vita mafiosa, e impiegati per piccole rapine e spaccio. Il fatto che lui togliesse giovani alla mafia fu la principale causa dell'ostilità dei boss, che lo consideravano un ostacolo. Decisero così di ucciderlo, dopo una lunga serie di minacce di morte di cui don Pino non parlò mai con nessuno. Nel 1992 venne nominato direttore spirituale presso il seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugurò a Brancaccio il centro Padre Nostro per la promozione umana e la evangelizzazione.

Insegnamento scolastico. Don Pino ebbe sempre una grande passione educativa, che lo portò ad assumere incarichi di docente di religione cattolica in molte scuole siciliane. Il suo impegno come insegnante si protrasse per oltre trent'anni, fino al giorno della morte. Le principali tappe di questo percorso iniziarono all'istituto professionale Einaudi (1962-63 e 1964-66). Successivamente insegnò nei seguenti istituti: scuola media Archimede (1963-64 e 1966-72), scuola media di Villafrati (1970-75) e sezione staccata di Godrano (1975-77), istituto magistrale Santa Macrina delle Suore basiliane italo-albanesi (1976-79) e infine liceo classico Vittorio Emanuele II (1978-93).

L'assassinio. Il 15 settembre 1993, giorno del suo 56º compleanno, intorno alle 22:45 venne ucciso davanti al portone di casa in Piazzale Anita Garibaldi, traversa di Viale dei Picciotti nella zona est di Palermo. Sulla base delle ricostruzioni, don Pino Puglisi era a bordo della sua Fiat Uno di colore bianco e, sceso dall'automobile, si era avvicinato al portone della sua abitazione. Qualcuno lo chiamò, lui si voltò mentre qualcun altro gli scivolò alle spalle e gli esplose uno o più colpi alla nuca. Una vera e propria esecuzione mafiosa. I funerali si svolsero il 17 settembre.

Le indagini e i processi. Il 19 giugno 1997, venne arrestato a Palermo il latitante Salvatore Grigoli, accusato di diversi omicidi, tra cui quello di don Pino Puglisi. Poco dopo l'arresto, Grigoli cominciò a collaborare con la giustizia, confessando 46 omicidi, compreso quello di Padre Puglisi. Grigoli, che era insieme a un altro killer, Gaspare Spatuzza, gli aveva sparato un colpo alla nuca. Dopo l'arresto egli sembrò intraprendere un cammino di pentimento e conversione. Lui stesso raccontò le ultime parole di don Pino prima di essere ucciso: un sorriso e poi un criptico "me lo aspettavo". Mandanti dell'omicidio furono i capimafia Filippo e Giuseppe Graviano, arrestati il 26 gennaio 1994. Giuseppe Graviano venne condannato all'ergastolo per l'uccisione di don Puglisi il 5 ottobre 1999. Il fratello Filippo, dopo l'assoluzione in primo grado, venne condannato in appello all'ergastolo il 19 febbraio 2001. Furono condannati all'ergastolo dalla Corte d'assise di Palermo anche Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone, gli altri componenti del commando che aspettò sotto casa il prete. Sulla sua tomba, nel cimitero di Sant'Orsola a Palermo, sono scolpite le parole del Vangelo di Giovanni: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Il 2 giugno 2003 qualcuno murò il portone del centro "Padre Nostro" con dei calcinacci, lasciando gli attrezzi vicino alla porta.

Memoria e causa di beatificazione. Don Giuseppe Puglisi è ricordato ogni anno il 21 marzo nella Giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi. I Gang gli hanno dedicato la canzone "Il testimone", contenuta nell'album Fuori dal controllo. Il 15 settembre 1999, l'allora arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore De Giorgi, aprì ufficialmente la causa di beatificazione proclamandolo Servo di Dio.

Annullo Speciale - Godrano. Annullo Speciale - Palermo 48. Il 15 settembre 2003, per la commemorazione del decimo anniversario del martirio di Don Pino Puglisi, le poste italiane hanno concesso due annulli speciali all'ufficio postale di Godrano e all'ufficio postale Palermo 48. Quest'ultimo porta il ricordo del centro Padre Nostro, mentre quello godranese riporta la frase "Sì, ma verso dove?", motto preferito da padre Pino. A don Pino sono intitolate diverse scuole, una delle quali a Palermo, e il premio letterario "Ricordare Padre Pino Puglisi" istituito nel 2011 dal Centro Padre Nostro fondato da don Pino Puglisi il 16 luglio 1991.

Il 28 giugno 2012 papa Benedetto XVI, durante un'udienza con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha concesso la promulgazione del decreto di beatificazione per il martirio in odium fidei. Il 15 settembre dello stesso anno, il cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, ha reso nota la data della cerimonia di beatificazione di padre Pino Puglisi, di fatto avvenuta il 25 maggio 2013. La notizia è stata data al termine della celebrazione eucaristica in occasione del XIX anniversario del martirio; durante la stessa è stata conferita l'ordinazione sacerdotale a quattro nuovi presbiteri della diocesi, ai quali l'arcivescovo ha rivolto l'invito a guardare a padre Puglisi come modello di vita sacerdotale, sottolineando che ricevevano il sacramento dell'ordine sacro proprio nell'anniversario del suo martirio. Nel successivo mese di ottobre, lo stesso prelato ha firmato il decreto che autorizza la traslazione del corpo di don Pino Puglisi dal cimitero di Sant'Orsola alla cattedrale di Palermo.

Tomba del Beato Pino Puglisi nella Cattedrale di Palermo. La traslazione è avvenuta il 15 aprile 2013, dopo la ricognizione canonica della salma effettuata alla presenza del vescovo ausiliare di Palermo Mons. Carmelo Cuttitta, durante la quale è stata prelevata parte di una costola, poi usata e venerata come reliquia durante il rito di beatificazione. Le spoglie sono state collocate ai piedi dell'altare nella cappella dell'Immacolata Concezione, in un monumento funebre che ricorda una spiga di grano (questo temporaneamente, perché proprio sui terreni di Brancaccio confiscati alla mafia è in costruzione un santuario dove la salma sarà collocata definitivamente). Il significato di tale monumento è tratto dal Vangelo: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv, 12,24). La Chiesa ne ricorda la memoria il 21 ottobre giorno del suo Battesimo. Il poeta Mario Luzi ha dedicato nel 2003 una pièce teatrale a padre Puglisi, Il fiore del dolore, rappresentata al teatro Biondo di Palermo lo stesso anno. Lo scrittore Alessandro D'Avenia non fu direttamente allievo di don Puglisi ma fu presente a svariate supplenze al liceo classico Vittorio Emanuele II. Nel 2014 D'Avenia ha dedicato il suo libro Ciò che inferno non è proprio alla figura del presbitero che molto lo ha colpito nei suoi anni di studi liceali. L'attore teatrale Christian Di Domenico porta in scena a partire dal 2013 in tutta Italia uno spettacolo dedicato alla sua memoria, U' Parrinu. Il cantautore palermitano Pippo Pollina ha dedicato a don Puglisi il brano E se ognuno fa qualcosa, all'interno dell'album L'appartenenza (2014). Nel 2016 il gruppo Parrocchiale denominato "Bottega Equo-Solidale Marittima" (provincia di Lecce) inaugura la propria sala convegni intitolandola "Sala Don Puglisi".

Devozioni. È possibile che Padre Pino sia stato devoto alla Madonna del Perpetuo Soccorso. A dimostrazione di tale fatto ci sono le molte immagini di tale Madonna nella casa a Brancaccio di Don Puglisi, aperta a tutti come un museo ecclesiastico.

Onorificenze. Medaglia d'oro al valor civile (alla memoria). «Per l'impegno di educatore delle coscienze, in particolare delle giovani generazioni, nell'affermare la profonda coerenza tra i valori evangelici e quelli civili di legalità e giustizia, in un percorso di testimonianza per la dignità e la promozione dell'uomo. Sacrificava la propria vita senza piegarsi alle pressioni della criminalità organizzata. Mirabile esempio di straordinaria dedizione al servizio della Chiesa e della società civile, spinta fino all'estremo sacrificio. 15 settembre 1993 - Palermo» — 26 agosto 2015

Palermo, ventisei anni fa il delitto di don Puglisi. Un amico rivela: "I boss sbagliavano numero, mi dicevano: Parrino ti dobbiamo ammazzare". Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su Repubblica Tv il 14 settembre 2019. Ventisei anni fa i boss uccisero don Pino Puglisi, il parroco che voleva cambiare Brancaccio, la periferia di Palermo. Killer e mandanti sono stati condannati, ma resta un mistero: quale fu la causa scatenante del delitto? Il sacerdote proclamato beato operava nel quartiere già da due anni. Poi, all’improvviso, iniziarono le minacce. Pippo De Pasquale, grande amico di don Pino, aggiunge un tassello importante alla ricostruzione.  I boss volevano fermare a tutti i costi il parroco di San Gaetano. Qualche mese prima del delitto telefonavano per minacciarlo, ma sbagliavano numero e chiamavano il suo amico, che abitava al piano di sopra. “Parrino, ti dobbiamo ammazzare”, fu l’ultima telefonata. Ma don Pino non andò mai via da Brancaccio.

Pino Puglisi. Sacerdote cattolico italiano, vittima di mafia. Da Biografieonline.it

Biografia. Giuseppe (detto Pino) Puglisi nasce il 15 settembre del 1937 a Palermo, nel quartiere periferico di Brancaccio, in una famiglia di umili condizioni: la madre, Giuseppa Fana, è una sarta, mentre il padre, Carmelo Puglisi, lavora come calzolaio.

Nel 1953, a sedici anni, Pino entra in seminario: viene ordinato prete nella chiesa santuario della Madonna dei Rimedi il 2 luglio del 1960 dal cardinale Ernesto Ruffini.

L'attività pastorale. Divenuto nel frattempo amico di Davide Denensi (fino al trasferimento di quest'ultimo in Svizzera) e di Carlo Pelliccetti, che lo sostengono e lo supportano quotidianamente, nel 1961 Pino Puglisi viene nominato vicario cooperatore nella parrocchia del Santissimo Salvatore nella borgata palermitana di Settecannoli, non distante da Brancaccio. Dopo essere stato scelto come rettore della chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi e come confessore delle suore brasiliane Figlie di Santa Macrina nell'istituto omonimo, viene nominato - nel 1963 - cappellano all'orfanotrofio "Roosevelt" all'Addaura e presta servizio come vicario alla parrocchia Maria Santissima Assunta nella borgata marinara di Valdesi.

Don Puglisi educatore. In questo periodo, è vicerettore del seminario arcivescovile minorile e prende parte a una missione a Montevago, paese colpito dal terremoto; intanto, si appassiona all'educazione dei ragazzi (insegna all'istituto professionale "Einaudi" e alla scuola media "Archimede"), mantenendo tale vocazione anche quando, il 1° ottobre del 1970, viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese della provincia di Palermo costretto, in quegli anni, a far fronte agli scontri feroci in corso tra due famiglie mafiose: famiglie che, anche grazie all'opera di evangelizzazione di Don Puglisi, si riconciliano. Continua a insegnare fino al 1972 alla scuola media "Archimede", e nel frattempo è docente anche alla scuola media di Villafrati. Nel 1975 è professore alla sezione di Godrano della scuola media di Villafrati, e dall'anno successivo anche all'istituto magistrale "Santa Macrina". Dal 1978, anno in cui comincia a insegnare al liceo classico "Vittorio Emanuele II", lascia la parrocchia di Godrano e diventa pro-rettore del seminario minore di Palermo; successivamente assume l'incarico di direttore del Centro diocesano vocazioni, per poi accettare il ruolo di responsabile del Centro regionale vocazioni.

Don Pino Puglisi. A cavallo tra anni '80 e anni '90. Nel frattempo, è membro del Consiglio nazionale e contribuisce alle attività della Fuci e dell'Azione Cattolica. A partire dal mese di maggio del 1990 svolge il proprio ministero sacerdotale anche a Boccadifalco, alla Casa Madonna dell'Accoglienza dell'Opera Pia Cardinale Ruffini, aiutando ragazze madri e giovani donne in situazioni di difficoltà. Il 29 settembre dello stesso anno Don Pino Puglisi viene nominato parroco a San Gaetano, tornando quindi a Brancaccio, il suo quartiere di origine: un quartiere gestito dalla mafia - e in particolare dai fratelli Gaviano, boss strettamente legati alla famiglia di Leoluca Bagarella.

Contro la mafia e contro la mentalità mafiosa. In questo periodo, quindi, comincia la lotta di Don Puglisi contro la criminalità organizzata: non tanto cercando di riportare sulla retta via chi è già mafioso, ma provando a evitare che si facciano coinvolgere dalla criminalità i bambini che vivono per le strade e che ritengono che i mafiosi siano delle autorità e delle persone degne di rispetto. Nel corso delle sue omelie, comunque, Don Pino si rivolge frequentemente ai mafiosi, dimostrando di non temere (almeno pubblicamente) eventuali conseguenze. Grazie alla sua attività e ai giochi che organizza, il parroco siciliano toglie dalla strada numerosi bambini e ragazzi che, senza la sua presenza, sarebbero stati sfruttati per spacciare o per compiere rapine, coinvolti in maniera irreparabile nella vita criminale. Per questa sua attività, a Don Puglisi vengono rivolte e recapitate numerose minacce di morte da parte di boss mafiosi, di cui tuttavia non parla mai a nessuno. Nel 1992 riceve l'incarico di direttore spirituale del seminario arcivescovile di Palermo, e pochi mesi più tardi inaugura il centro Padre Nostro a Brancaccio, finalizzato all'evangelizzazione e alla promozione umana.

L'assassinio. Il 15 settembre del 1993, in occasione del suo cinquantaseiesimo compleanno, Don Pino Puglisi viene ucciso poco prima delle undici di sera in piazza Anita Garibaldi, davanti al portone di casa sua, nella zona orientale di Palermo. Dopo essere sceso dalla sua auto, una Fiat Uno, viene avvicinato al portone da un uomo che gli spara contro alcuni colpi diretti alla nuca. Le ultime parole di Don Pino sono "Me lo aspettavo", accompagnate da un tragico sorriso. L'assassino - verrà accertato dalle indagini e dai processi successivi - è Salvatore Grigoli (autore di più di quaranta omicidi, come egli stesso confesserà), presente insieme con Gaspare Spatuzza e altre tre persone: un vero e proprio commando composto anche da Luigi Giacalone, Cosimo Lo Nigro e Nino Mangano. I mandanti dell'omicidio sono, invece, i capimafia Giuseppe e Filippo Gaviano (che per l'assassinio verranno condannati all'ergastolo nel 1999). I funerali del parroco si svolgono il 17 settembre: il suo corpo viene sepolto nel cimitero palermitano di Sant'Orsola, e sulla tomba saranno riportate le parole "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici", tratte dal Vangelo di Giovanni.

Il film "Alla luce del sole". Nel 2005, il regista Roberto Faenza dirige il film "Alla luce del sole", in cui Don Pino Puglisi è interpretato da Luca Zingaretti: la pellicola è ambientata nella Palermo del 1991, e racconta la storia del sacerdote e del suo impegno per allontanare i bambini del luogo dagli artigli della malavita.

Chi era Padre Pino Puglisi. Ecco chi era il parroco della periferia palermitana ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993: è a lui che Papa Francesco renderà omaggio nella visita a Palermo di sabato. Mauro Indelicato, Venerdì 14/09/2018, su Il Giornale. È un caldo mercoledì, a Palermo, quel 15 settembre 1993. La città ha ancora nelle orecchie e nell’animo gli echi delle stragi e delle sparatorie che insanguinano il capoluogo siciliano da più di un anno. Forse quel colpo di pistola sparato in tarda sera sembra, per molti palermitani, un ennesimo episodio, “uno dei tanti”, dove la mafia nuovamente incide sulla quotidianità cittadina. Ma dietro quel rumore sordo, capace di far vibrare anche le persiane chiuse di piazzale Anita Garibaldi, si cela uno degli omicidi destinato a diventare tra i più raccontati di sempre: quello cioè di don Pino Puglisi. Da allora sono passati esattamente 25 anni. Il nome del prete di periferia diventato poi Beato il 23 maggio 2013, è destinato ad essere associato per sempre a quello del quartiere palermitano di Brancaccio. Lui nasce proprio lì e proprio il 15 settembre, tanto che quel giorno di un quarto di secolo fa Padre Puglisi festeggia il suo cinquantaseiesimo compleanno. Conosce bene il contesto della zona, le difficoltà per molte madri di mandare avanti la famiglia, per molti bambini di ricevere anche una basilare istruzione. Luogo difficile Brancaccio, ma anche di grande umanità, lì dove le persone più umili lontane da una “Palermo bene” fin troppo distratta cercano da sempre di vivere dignitosamente, questo nonostante proibitive situazioni sociali. Ed è proprio a questa umanità che Padre Puglisi si rivolge una volta tornato, da parroco, nel suo quartiere. È anche in quel caso il mese di settembre, ma del 1990. Dalla ragazze madri, ai disoccupati, passando per i tanti costretti all’emarginazione: è a loro che il prete guarda per far smarcare Brancaccio dalla cappa mafiosa. E qui cosa nostra nel 1990 ha tentacoli molto potenti, a partire dai fratelli Graviano, ossia i capimafia della zona fedelissimi del boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. Tutti nomi questi legati a quanto di più tragico Palermo e la Sicilia vivono nel 1992, tra omicidi eccellenti e, soprattutto, le stragi di Capaci e via D’Amelio. Padre Puglisi, a quella mafia che all’epoca sembra invincibile e destinata ad ingabbiare una Palermo stordita dal rumore delle bombe, dà molto fastidio. Riesce a creare nel suo oratorio ciò che le istituzioni ed il disordine urbanistico del quartiere non sono mai riusciti a sviluppare: un luogo di aggregazione. Basta quello per far conoscere un nuovo mondo a tanti bambini ed adolescenti che invece, come mondo, conoscono soltanto quello mafioso. Il piacere di stare insieme, di trovare un’attività di svago comune, di giocare con altri coetanei sottraggono decine di giovani alle attività malavitose. Questo a cosa nostra non va affatto bene, specie considerando la facilità con la quale, in un quartiere così difficile, riesce a reclutare manovalanza. Così ben presto padre Puglisi diventa bersaglio dei malavitosi. Contro di lui intimidazioni, avvertimenti e quant’altro possa in qualche modo far desistere un uomo, prima ancora che un prete, venuto dalla stessa Brancaccio. Padre Puglisi va ugualmente avanti e, nel gennaio del 1993, riesce ad inaugurare quello che si potrebbe considerare come il suo più grande vanto: il centro “Padre Nostro”. Poi la mano mafiosa, come detto, a settembre mette fine alla vita del prete nel giorno del suo compleanno. Tra gli esecutori materiali vi è Salvatore Grigoli, fedelissimo dei Graviano il cui nome risulta poi legato anche alle stragi di Firenze e Milano. Catturato nel 1997, Grigoli confessa in seguito l’assassinio di Padre Puglisi assieme ad altri 45 omicidi. Da collaboratore di giustizia, Grigoli afferma come il parroco, prima di ricevere il colpo d’arma da fuoco fatale, avrebbe esclamato “me lo aspettavo”. La morte di Puglisi è destinata ad incidere profondamente sulla società civile palermitana: questa volta a cadere non è un magistrato, un imprenditore od un politico, bensì un prete di periferia. La mafia colpisce quindi al cuore di quella stessa società civile, la stessa che dodici mesi prima espone le lenzuola bianche in segno di disprezzo per cosa nostra. Il “rumore” provocato da quelle pallottole, sarebbe andato poi ben oltre quel singolo episodio, che dunque non è più “uno dei tanti”. Padre Puglisi diventa negli anni uno dei tanti simboli della lotta alla mafia, un’altra figura in grado di far comprendere l’importanza, per Palermo e per la Sicilia, di liberarsi dalla criminalità organizzata. Ma don Pino Puglisi è anche il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia: come detto, il 23 maggio (anniversario della strage di Capaci) del 2013 si è svolta la cerimonia con la quale il prete di Brancaccio diventa ufficialmente Beato. La messa si è tenuta sul prato del foro italico di Palermo, non lontano proprio dal suo quartiere. E proprio in questo che costituisce uno degli scorci più belli del capoluogo siciliano, Papa Francesco terrà una messa in suo onore a 25 anni dall’omicidio. Un altro modo, per Palermo ma anche per la Chiesa, per testimoniare l’importanza che ancora oggi ha la sua figura. Un uomo di periferia che lavora per la periferia, con il pensiero costante a come poter sgravare dal peso mafioso tanto Brancaccio quanto l’intera sua amata Palermo.

Al collaboratore  di don Puglisi: «Hanno fatto bene ad ammazzarlo». Pubblicato lunedì, 08 ottobre 2018 da Corriere.it. Sono passate solo tre settimane da quando Papa Francesco è andato a casa di don Pino Puglisi, fermandosi nella piazzetta dove nel 1993 il parroco di Brancaccio fu ucciso dalla mafia palermitana. Apparvero decine di lenzuoli bianchi ai balconi e sembrò che con la visita del Papa l’intero quartiere volesse voltare pagina. Ma adesso che si sono spenti i riflettori su questo luogo di memoria, frattanto diventato zona pedonale e meta di pellegrini lungo le «vie dei tesori», un energumeno indispettito dal divieto di parcheggio si scaglia contro il più vicino collaboratore di don Puglisi, Maurizio Artale, il presidente del Centro intitolato al prete che strappava i ragazzi alle cosche, inveendo: «Hanno fatto bene a ammazzari ‘u parrinu». Frase odiosa echeggiata dopo una raffica di grida e parolacce avvertite alle 13 di sabato scorso dagli abitanti dei tre edifici che s’affacciano sulla piazzetta. Tanti ai balconi. Ma tutti per pochi minuti. Pronti a rientrare, a sprangare gli infissi. E quando Artale, additato come «uno sbirro», ha guardato in alto ha scoperto il deserto. Fatta eccezione per quattro studenti arruolati come ciceroni di casa Puglisi rimasti inchiodati al balcone fino al termine della scena, senza nemmeno pensare ad uno scatto con il telefonino. La storia è adesso raccontata sul sito del Centro Padre Nostro, ma anche con nota già inviata al questore Renato Cortese e richiesta di incontro al prefetto Antonella De Miro. Come racconta Artale, «l’energumeno venuto fuori dal portone del civico n.3 di Piazzetta Puglisi, a torso nudo, barba folta e nera così come la sua capigliatura alla moda, si è diretto verso di me con un fare pari a quello di un rinoceronte che carica la sua preda... Puntandomi il dito in faccia, mi urla che per colpa mia lui non può più posteggiare la moto sotto il suo balcone e che da quando io ho comprato quella casa per il Centro, indicando con l’indice la Casa Museo dove ha vissuto il Beato Puglisi, in quella piazza non c’è più pace...». Artale a quel punto ha provato a replicare che il nome della piazza e il divieto dipendono dal sindaco. E il “picciotto”: «Ma chi? Ddu curnutu? Chiddu ca ni lassa senza travagghiu? (quello che ci lascia senza lavoro?)». E poi, indicando la casa del sacerdote proclamato santo: «Hanno fatto bene ad ammazzarlo». A quel punto Artale alza gli occhi ai balconi e trova il vuoto, come ricorda: «Dov’erano le centinaia di persone che hanno esposto i lenzuoli per il Papa? Come mai nessuno è sceso dalla propria abitazione per cercare di condurre alla ragione l’energumeno?». Amara la considerazione che anima il dibattito fra i giovani del Centro, come ripete Artale mentre il sito accende il dibattito: «Non è possibile che nessuno degli abitanti di quella piazza non ripudi con fermezza un simile comportamento... che quella piazza non sia oggi per tutti loro un vanto, un motivo di orgoglio... Oggi almeno tutti i cristiani cattolici devono decidere da quale parte stare, se dalla parte dei mafiosi o dalla parte degli ‘sbirri’». Ancora più amara la considerazione finale: «L’energumeno ha almeno avuto il coraggio di sbattermelo in faccia da che parte sta. Dopo 25 anni di testimonianza a Brancaccio, posso dire con certezza che lui ha sbagliato la parte dove stare. Ma ha deciso anche di non stare dalla vostra parte, dove si stendono lenzuoli bianchi e poi non si scende in piazza per difendere l’opera di don Pino, del Beato Puglisi». Ecco il punto di svolta che costringerà non solo la Chiesa a riaccendere i riflettori in un quartiere dove da un paio di settimana sono pure ricomparsi i picciotti con i banchetti per la vendita delle sigarette (e altro). Banchetti a ogni incrocio, a ogni semaforo, da piazzetta Puglisi a via Diaz, fino a via Giafar dove Puglisi sradicava i giovani dal marciapiede.

Padre Pino Puglisi, il sorriso di chi “se l’aspettava”. Silvia Morosi e Paolo Rastelli il 15 settembre 2016 su Pochestorie-Corriere.it. In una delle omelie più conosciute disse “Io non ho paura delle parole dei violenti… ma del silenzio degli innocenti”. Poi, in una sera del 1993, il 15 settembre, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, venne ammazzato sotto casa con un colpo alla nuca. A testa alta. Padre Pino Puglisi, “3P”, era nato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, nel 1937. Nei mesi precedenti la morte aveva subito un’intimidazione mafiosa: di notte gli avevano bruciato il portale della Chiesa. Ma lui, aveva deciso di non farsi vincere dalla paura e di non mollare il suo lavoro come parroco di San Gaetano, a Brancaccio, feudo della famiglia Graviano (quella da cui il pentito Salvatore Brusca disse di aver ottenuto il tritolo per la strage di Capaci, ndr.), e insegnante di religione al liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo. I nomi che abbiamo citato velocemente non sono nuovi alle cronache e nemmeno a questo blog. Ma questo non deve certo stupirci: vi invitiamo a rileggere la cronologia degli anni delle stragi di mafia dove vi abbiamo raccontato dell’attentato in via Palestro, a Milano. Continuò a lottare in quella Palermo che forse non aveva accolto con piacere la nascita del suo centro “Padre Nostro”, punto di riferimento per famiglie e giovani, allontanati dalla crimininalità e dalla droga. Un po’ alla volta, fece capire soprattutto ai ragazzi che per ottenere il rispetto nella vita non avevano bisogno di essere dei criminali. Alcuni pentiti rivelarono che a ordinare il delitto di don Pino furono proprio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere. L’agguato fu affidato a un ”commando” guidato dal killer Salvatore Grigoli che, dopo essersi pentito, ha indicato tra i suoi complici Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone, e il ”reggente” della cosca Nino Mangano. Grigoli ha raccontato che quando Puglisi capì che stava per essere ucciso disse ”me l’aspettavo”, e sorrise al suo assassino. “Purtroppo, e mi dispiace tantissimo, ho commesso, con vari ruoli, una quarantina di omicidi”, disse nel 2014 il pentito Spatuzza, in occasione del processo sulla trattativa Stato-mafia. Tra gli assassini commessi citò proprio quello di don Pino. “Voleva impossessarsi del nostro territorio. Prima lo controllammo, poi si decise di ucciderlo. Volevamo simulare un incidente perché sapevamo che un omicidio di un prete avrebbe avuto conseguenze, poi però optammo per il delitto classico. Era un sacerdote che andava per conto suo. E dava fastidio. Quella della sua eliminazione era una pratica aperta da almeno due anni… Si decise di simulare una rapina. Usammo una pistola di piccolo calibro per dissimulare la mano mafiosa”. Quel modello di prete che la mafia voleva ricacciare in Sagrestia, “oggi viene riconosciuto dalla Chiesa come massima fedeltà al Vangelo”, disse don Luigi Ciotti in occasione delle beatificazione di Puglisi nel 1993. “Morì per strada, dove viveva, dove incontrava i piccoli, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la strada e di esercitare il ministero del parroco è scomodo”. 

Perché don Puglisi sarà beato. Vita del parroco ucciso dai boss di Brancaccio che Benedetto XVI vuole proclamare martire della fede. Una foto di archivio di Padre Giuseppe Puglisi,  il sacerdote ucciso il 15 settembre 1993, nel quartiere Brancaccio a  Palermo. Il riconoscimento del martirio, che il Papa ha decretato oggi  nell'udienza al prefetto per le Cause dei santi card. Angelo Amato,  indica che la causa di beatificazione si è conclusa positivamente e che  presto don Puglisi sarà elevato all'onore degli altari. Bianca Stancanelli il 29 giugno 2012 su Panorama. Per la sua ultima omelia scelse per tema il martirio di Cristo. Era il 14 settembre del 1993 e, in una casa d’accoglienza per ragazze madri, sulle colline alle spalle di Palermo, don Pino Puglisi parlò del sudar sangue di Gesù, alla vigilia della morte, «per la paura umana del dolore che lo attendeva». Ventiquattr’ore dopo, fu don Pino a incontrare i suoi carnefici, quattro mafiosi mandati dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano , boss di Brancaccio, che gli andarono alle spalle e lo uccisero con un proiettile alla nuca. Il parroco della chiesetta di San Gaetano li accolse con una frase diventata celebre: «Me lo aspettavo». Ventinove anni dopo, il papa Benedetto XVI annuncia la beatificazione di don Pino come martire della fede. Una scelta che segna, per la Chiesa, una decisa scelta di campo e sembra riecheggiare il potente anatema scagliato contro Cosa Nostra da Giovanni Paolo II, il 9 maggio del 1993, nella Valle dei Templi di Agrigento, davanti a tutti i vescovi siciliani e a ottantamila fedeli. Ai mafiosi, quel giorno, il papa gridò: «Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio». A Palermo, nella piccola chiesa di Brancaccio, don Puglisi commentò: «Era ora». Prete coraggio, direttore del Centro diocesano vocazioni, amatissimo professore di religione in uno dei più prestigiosi licei palermitani, assistente spirituale degli universitari della Fuci, don Pino aveva scelto di occuparsi della parrocchia di San Gaetano, nel desolato quartiere di Brancaccio, su richiesta del cardinale Salvatore Pappalardo. Per tre anni, dal 1990 al 1993, lavorò per sottrarre i bambini del quartiere al reclutamento mafioso e per dare a giovani e adulti una vita più dignitosa. Unico mandamento mafioso di Palermo ad essere coinvolto in tutte le stragi del ’92 e del ’93, Brancaccio era allora sotto il dominio dei fratelli Graviano, che si dicevano religiosissimi, non sedevano mai a tavola senza prima aver fatto il segno della croce e abitavano a centro metri dalla parrocchia di San Gaetano, dove erano stati battezzati. Abituati a comandare su un quartiere impaurito e silenzioso, dove i latitanti passeggiavano liberamente, i Graviano considerarono una sfida l’inaugurazione del “Centro Padre Nostro”, voluto da don Pino e aperto di fronte alla chiesa. E giudicarono una minaccia il fatto che quel Centro fosse frequentato fino a notte da giovani e volontari e che don Pino diventasse “un personaggio”. Minacciato, perfino picchiato, il parroco non si arrese. Quando ai suoi collaboratori venne bruciata la porta di casa, disse in un’omelia: «Chi usa la violenza non è un uomo: è una bestia». Durezze alle quali gli uomini di Cosa Nostra non erano abituati. I mafiosi ci tengono a ostentare la propria religiosità. A Totò Riina, nel giorno della cattura, vennero trovati i santini nel portafoglio e Bernardo Provenzano, nel casolare in cui venne arrestato, teneva sul tavolo una Bibbia sottolineata e annotata.  Non sono esempi isolati. Uno dei maggiori latitanti che circolavano a Brancaccio nell’estate del ’93, Pietro Aglieri, si era fatto costruire in casa una cappella e chiamava a dir messa un sacerdote, don Mario Frittitta. «Io vado dove il Signore mi manda», disse don Mario, quando la storia diventò pubblica. Don Puglisi, evidentemente, andava da un’altra parte.

Inviata di Panorama, Bianca Stancanelli è autrice di A testa Alta, storia di don Giuseppe Puglisi, un eroe solitario, edito da Einaudi nel 2003 e ora ripubblicato nei Tascabili.

Papa Francesco a Palermo per commemorare don Pino Puglisi. Il Pontefice torna in Sicilia per i 25 anni dalla morte del primo martire della mafia beatificato dalla Chiesa Cattolica. Orazio La Rocca il 14 settembre 2018 su Panorama. L'assassinio di don Pino Puglisi, primo martire della mafia beatificato dalla Chiesa cattolica; e lo storico anatema lanciato da Giovanni Paolo II contro mafiosi e malavitosi al grido di "convertitevi! Verrà il giudizio di Dio!". Papa Francesco torna in pellegrinaggio in Sicilia, dopo 5 anni dal suo primo viaggio pastorale dell'8 luglio 2013 a Lampedusa - a quasi 4 mesi appena dall'elezione pontificia - per pregare davanti al mare dove erano scomparsi oltre 400 profughi, e commemora due anniversari che hanno segnato il tormentato rapporto tra Chiesa e mondo della malavita organizzata, quel mondo fatto di morte, violenze, oppressioni che non di rado si è servito proprio della stessa Chiesa per ostentare una presunta religiosità del tutto apparente e priva di un vero legame con la vera fede cristiana. Lo sapeva bene, don Puglisi, assassinato davanti alla sua abitazione nel quartiere Brancaccio il 15 settembre 1993 - data scelta di proposito da Bergoglio per il suo secondo pellegrinaggio siciliano, a Catania e a Palermo - per mano di sicari mafiosi ai quali prima di morire il futuro beato si rivolse con un disarmente sorriso di perdono dicendo solo "me lo aspettavo".

Don Puglisi muore sorridendo ai suoi carnefici. Cadde in una pozza di sangue a soli 56 anni sul luogo diventato in 25 anni meta di soste e di preghiere silenziose, segnato da un bassorilievo rotondo con croce e dedica poggiato proprio dove Puglisi spirò. Una tragedia immane, culminata con la morte violenta di un innocente, "colpevole" solo di aver accolto e dato formazione, insegnamento, e futuro a giovani sbandati destinati a diventare sicura manovalanza malavitosa. Un "errore" gravissimo agli occhi di padrini, cosche mafiose e mondo del malaffare che dal quartiere Brancaccio facevano (e fanno) sentire la loro deleteria influenza a colpi di attentati, ricatti, protezioni sotto forma di pizzi a danno di negozianti indifesi, su tutta la città di Palermo. Don Puglisi sapeva che il suo apostolato vicino alle fasce giovanili più deboli di Brancaccio lo avrebbe portato a diventare il vero nemico numero uno della mafiosità siciliana, un esempio "pericolosissimo" che andava stroncato subito anche per evitare che il suo apostolato avrebbe fatto scuola al di là dei confini siciliani, in tutta l'Italia dove, già altri don Puglisi si stavano spendendo affrontando a mani nude e con le sole "armi" della preghiera e del perdono altre forme di malavita organizzata come la 'ndrangheta, la camorra, per le quali già c'erano stati altri sacerdoti martiri come, ad esempio, don Giuseppe Diana in Campania. Per questo don Puglisi per i capocosche di Brancaccio doveva morire. E così fu, in quel drammatico 15 settembre del '93 a quattro mesi dalla memorabile visita pastorale che un altro pontefice, destinato ad essere proclamato santo, Giovanni Paolo II, fece nella Valle dei Templi di Agrigento, dove - eludendo di proposito il rigido programma prestabilito dalla Curia vaticana - alla fine della Messa davanti a migliaia di siciliani accorsi per ascoltarlo, con alle spalle un Crocifisso che sembrava che volesse quasi proteggerlo, col dito indice alzato della mano destra scagliò contro "gli uomini di mafia" un profetico invito a "cambiare strada" , dicendo con voce alterata perchè rotta dall'emozione "convertitevi! Basta opprimere questo popolo siciliano!!!.. verrà un giorno il giudizio Divino!!...".

Il grido di Papa Wojtyla: "Mafiosi convertitevi". Mai, prima di papa Wojtyla, un pontefice si era rivolto a viso aperto e con tanta forza espressiva verso il potere mafioso in casa sua, la Sicilia. E non furono pochi quanti da quell'intervento sperarono che qualche cosa di buono potesse succedere. Pur consapevoli che certi cambiamenti non possono avvenire dall'oggi al domani. Ma quattro mesi dopo con l'assassinio di don Puglisi quelle speranze di cambiamento e di conversione subirono un duro colpo. Solo però in apparenza e, magari, di fronte allo scoramento che normalmente si può provare di fronte all'assassinio di un innocente. In effetti, il sacrificio del beato Puglisi - come ha già detto papa Francesco annunciando il suo secondo pellegrinaggio in Sicilia, come pure l'arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e tutti gli altri presuli che lo accoglieranno insieme alla popolazione siciliana - "ha già prodotto abbondanti frutti di conversione e di speranza, frutti concreti germogliati proprio nella sua Brancaccio". In effetti nel tormentato quartiere palermitato altri coraggiosi sacerdoti e laici impegnati nel volontariato hanno preso il testimone di Puglisi con la ferma intenzione a non mollarlo mai più. Ecco quindi, grazie al lavoro di squadre di giovani volontari, seminaristi intenzionati a formarsi a contatto con poveri e bisognosi la nascita di luoghi di ritrovo ricavati in ambienti e spazi tolti alla malavita e messi a disposizione della collettività, a partire da una scuola modello intitolata proprio al sacerdote martire, diventata luogo di studio, ma anche di ritrovo e di intrattenimento per tutti i ragazzi della zona, "spesso anche giovani notoriamente figli di malavitosi che noi accogliamo comunque se intenzionati sinceramente ad affrontare una nuova vita", dicono con comprensibile orgoglio oggi i discepoli di don Puglisi, spontanea entusiasta cornice all'incontro con papa Francesco prima a Catania e dopo a Palermo sul prato del Foro Italico, davanti al mare. Lo stesso luogo che il 3 ottobre 2010 ospitò Benedetto XVI, il papa teologo per eccellenza che ebbe anche lui parole e richiami altrettanto forti contro la mafia in continuità con Giovanni Paolo II, preparando la strada al successore arrivato dall'Argentina, Jorge Mario Bergoglio, che assumendo il nome di Francesco plasmerà il cammino del suo pontificato all'insegna della pace e della condanna di tutte le forme di violenze, oppressioni, guerre. E, naturalmente, di tutte le varie forme in cui si manifesta e fa sentire la sua nefasta influenza il potere mafioso. Non solo in Sicilia.

·         Quelli che non si pentono mai: Raffaele Cutolo.

Cristina Bassi e Luca Fazzo per “il Giornale” il 25 novembre 2019. A mandarlo fuori di testa, racconta, è il silenzio. «Se ci fosse almeno il rumore di uno sciacquone mi farebbe compagnia», ha detto una volta al suo difensore. Invece Michele Zagaria, il boss del clan dei Casalesi, catturato otto anni fa dopo una interminabile latitanza, è stato sepolto vivo nel reparto più duro del carcere di Opera: l'AR, la cosiddetta «area riservata», non prevista dalle leggi ma applicata di fatto ai detenuti così pericolosi che neanche il famoso 41 bis, il reparto ad alta sicurezza, è sufficiente a neutralizzarli. E nell'AR di Opera «don Michele» si è reso responsabile di una serie di minacce e di violenze che lo hanno fatto finire di nuovo sotto processo, assistito dall'avvocato di fiducia Paolo Di Furia: concretamente irrilevante, perché Zagaria è già gravato da numerosi ergastoli. Ma la vicenda ha causato il suo trasferimento d'urgenza al remoto carcere di Tolmezzo. Ed è da lì, in videocollegamento, che è apparso nei giorni scorsi in tribunale, nell'udienza a suo carico per le sue imprese ad Opera: devastazioni di celle e telecamere, minacce alle guardie e al direttore dell'epoca Giacinto Siciliano. Il tutto appesantito dall'aggravante mafiosa che il pm Stefano Ammendola ha deciso di applicare, ritenendo che Zagaria, nonostante l'isolamento ferreo, continui a farsi forza di prestigio e alleanze. La nuova inchiesta contro il boss camorrista è stata tenuta segreta dai vertici dell'amministrazione penitenziaria, ed è venuta alla luce solo ora che il processo è approdato nell'aula della Sesta sezione penale del tribunale. Lì, nel suo collegamento video, Zagaria - apparso segnato e provato - ha spiegato i motivi della sua perdita di controllo: il gangster dice di essere stressato dalle continue visite di investigatori che gli chiedono di pentirsi. «Ormai ne saranno venuti un centinaio», ha detto. Di cose da dire ne avrebbe molte: a partire dal contenuto della famosa pen drive a forma di cuore che aveva con sé al momento dell'arresto, e che è svanita nel nulla con tutti i suoi segreti. «Ma io - dice Zagaria - non ho alcuna intenzione di pentirmi». A Michele Zagaria vengono contestati ben undici reati, commessi tra il 5 e il 19 maggio 2018. Tutto, in realtà, inizia con una sorta di tentativo di suicidio: la mattina del 5 maggio l'agente del Gom (i reparti speciali della polizia penitenziaria) di servizio all'AR rossa vede Zagaria con un sacchetto di plastica in testa. Ma quando arrivano i rinforzi, Zagaria si toglie il sacchetto e si scatena, prendendo un manico di scopa e iniziando a menare fendenti contro le telecamere di sorveglianza che lo controllano 24 ore su 24. Cinque giorni dopo, il detenuto ricomincia ad agitarsi, sbattendo il «blindo», lo spioncino della sua cella; quando le guardie bloccano il blindo, «il detenuto Zagaria non domo ha continuato a creare disordine sbattendo la porta di ferro del bagno, provocando un rumore assordate e mettendo a rischio la sicurezza della sezione». Poi il boss attacca una telecamera e la lancia in corridoio, e spacca l'altra. L'episodio più grave è di pochi giorni dopo, quando rientrando in cella Zagaria prende di petto l'agente che gli aveva fatto rapporto per i fatti precedenti, gli dà due schiaffoni su un orecchio, e quando in qualche modo lo immobilizzano continua a gridare «sei un pezzo di merda, sei un pezzo di merda». Minacce che durante un colloquio con i medici manda anche al direttore Siciliano: «Il direttore io lo paragono a una busta di immondizia e io l'immondizia la butto fuori». Tra le aggravanti contestate a Zagaria, avere oltraggiato gli agenti «in un luogo aperto al pubblico quale è considerato il carcere».

Cutolo, cieco e sepolto vivo "Mai pentito. E non tradisco". Parla dopo 40 anni in isolamento: «Sapevo dov'era nascosto Moro, ma Gava mi fermò. Giusto che stia qui». Luca Fazzo, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. «Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto Aldo Moro, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè, fatevi i fatti vostri». Così parlò don Raffaele, ovvero Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra organizzata, sepolto dal 1979 in una cella di massima sicurezza, piegato dagli anni e dall'isolamento, ma ancora con la voglia un po' guappa di dire la sua. Non potrebbe, perchè ha il divieto di incontro con chiunque tranne gli stretti familiari. Ma un cronista del Mattino riesce ad arrivare faccia a faccia con lui, separato dal vetro blindato della sala colloqui del carcere di Parma. Ne nasce una intervista-scoop che suscita le ire del ministero, che annuncia una inchiesta interna per capire come il giornalista sia arrivato a incontrare Cutolo e a raccontare il vecchio camorrista: «il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi la barba incolta». Il carcere lo ha piegato, anche perché vive in isolamento totale: anche all'aria dovrebbe andarci da solo, «ma che ci vado a fare?». Così resta nel suo loculo: «Aspettiamo la morte. Le giornate sono sempre uguali. Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall'altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli. E poi guardo qualche programma in televisione: l'altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, Sogno o son desto». Può fumare i toscani. L'altra grande passione, le canzoni di Sergio Bruni, a Parma non gliele hanno fatte portare. É lo stesso carcere dove era rinchiuso Totò Riina, fin quando venne portato a morire in ospedale: «Riina era uno spietato, lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso». Il 15 maggio Cutolo ha compiuto i quarant'anni di carcere ininterrotto. Sono stati, almeno all'inizio, anni di carcere un po' strani, in cui l boss detenuto poteva scegliersi la prigione, la cella, i compagni-camerieri; ed alla sua porta bussavano politici, poliziotti, spie. Al giornalista, il boss ricorda la processione che veniva a chiedergli di intercedere per la liberazione di Ciro Cirillo, l'assessore campano rapito dalla Br: don Raffaele intervenne, le Br accolsero la mediazione, Cirillo - a differenza di Moro - tornò a casa. Lo Stato, racconta Cutolo, alla porta della sua cella è tornato a bussare più di recente: «Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per fare l'amore con lei, ma io non ho voluto: non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l'avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio». Non mi pento, manda a dire Cutolo: ed è forse un segnale per tranquillizzare quelli fuori, quelli che ancora oggi - più a Roma che ad Ottaviano - potrebbero avere dei problemi se quest'uomo aprisse la sacca dei suoi segreti. «Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro», manda a dire Cutolo. A dicembre ha compiuto 77 anni, due terzi della sua vita l'ha passata dietro le sbarre. I morti che pesano sulla sua coscienza sono innumerevoli: di alcuni dice «me li sogno di notte», di altri delitti dà una spiegazione cruda, prosaica. Il vicedirettore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, lo fece ammazzare «perché mi faceva perquisire sempre, ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, non ne potevo più. Mi spiace, ma che potevo fare?». Il comunicato del ministero sull'intervista è duro: «L'intervista di Cutolo non è mai stata autorizzata, si sta procedendo alla ricostruzione della catena di responsabilità che ha portato a questo fatto increscioso e si prospettano provvedimenti esemplari». Certo, Cutolo avrebbe potuto rifiutare di rispondere: ma, come dice il suo legale Gaetano Aufiero, «uno che da venticinque anni non vede nessuno, se viene chiamato a colloquio da qualcuno non può che averne piacere....»

·         Quelli che si pentono. Buscetta, Contorno e gli altri.

Andrea Sparaciari per it.businessinsider.com il 3 novembre 2019. Poco più di 44 milioni. È quanto ha speso nel secondo semestre del 2018 lo stato italiano la protezione dei 1.189 collaboratori di giustizia attualmente riconosciuti e inseriti nel programma di protezione e dei loro 4.586 familiari, anch’essi sotto protezione. A dare i numeri, la “Relazione sulle misure di protezione per i collaboratori di giustizia, la loro efficacia e le modalità generali di applicazione” presentata lunedì in Parlamento. Rispetto al primo semestre 2018, i numeri sono in diminuzione: erano infatti 6.246 le persone sotto protezione, delle quali 1319 i collaboratori. Secondo il ministro dell’Interno, a guidare l’esercito dei pentiti è la camorra, con 504 pentititi, seguita da Cosa Nostra con 258, dalla ‘ndrangheta con 176, 10 dei quali sono donne e 11 di origine straniera. Solo 167, invece, i collaboratori della Sacra Corona Unita pugliese. Un piccolo esercito sparso per il Paese che vive con nomi falsi e sotto l’occhio vigile di centinaia di agenti del Servizio Centrale di Protezione. Un popolo al quale lo Stato riconosce uno stipendio – un collaboratore riceve in media tra i 1.000 e i 1.500 euro al mese, più altri 500 per ogni familiare a carico -, paga l’affitto, i trasferimenti e le spese mediche. Secondo la relazione, nella seconda metà del 2018, in stipendi se ne sono andato 10.306.000 euro; circa 23 milioni sono stati usati per la locazione degli appartamenti; 5,3 milioni per spese varie; 2 milioni sono stati utilizzati per l’assistenza legale; 1,8 per gli alberghi; 781.000 per le spese mediche; 763.000 per i trasferimenti. Rispetto al semestre precedente, a colpire è l’aumento del pentitismo tra gli affiliati della ‘Ndrangheta. Se infatti non sorprende il primato della Camorra napoletana – un universo polverizzato, continuamente in guerra, dove alleanze e appartenenze vengono continuamente messe in crisi – la ‘Ndrangheta è tutta un’altra cosa: “Storicamente, è un’organizzazione a base fortemente familiare, pertanto poco incline al fenomeno della collaborazione di giustizia”, si legge nel documento. Uno dei punti di forza dell’organizzazione più potente del Paese, infatti, è sempre stato il fitto reticolo familiare che unisce i clan, frutto spesso di matrimoni combinati. Un muro di omertà che inizia a crollare. «Le dichiarazioni di stampo collaborativo hanno contribuito a far emergere la capacità di tale organizzazione criminale di coinvolgere negli affari esponenti della politica, delle istituzioni e delle professioni”, annotano gli investigatori. I quali sottolineano l’utilità dei collaboratori per comprendere le nuove dinamiche criminali di un’organizzazione assai adattabile, attenta a tutte le novità e capace di dominare i nuovi processi economici. Così la Dda ha potuto apprendere, per esempio, come affiliati delle cosche abbiamo proposto ai narcos colombiani di utilizzare i Bitcoin al posto del contante per l’acquisto di cocaina. Una proposta caduta nel vuoto per il rifiuto dei colombiani, incapaci di utilizzare la moneta virtuale. Sempre grazie ai pentiti, gli investigatori hanno anche scoperto del lancio di una startup “che attraverso il crowdfounding in Bitcoin ha raccolto 126 milioni di euro in 3 ore“. “Dal suo peculiare punto di osservazione” continuano gli inquirenti, “la Commissione centrale per le misure di protezione ha potuto verificare l’incidenza della ‘Ndrangheta nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti (settore in cui mantiene una posizione di supremazia) e negli ambiti delle energie rinnovabili, della depurazione delle acque e dell’assistenza ai migranti (nei quali, di recente, ha allargato il proprio raggio di azione). Tale organizzazione si caratterizza, inoltre, per la conquista del monopolio di interi settori dell’economia legale e per l’espansione nelle regioni del Nord Italia e nei Paesi esteri (in Europa, Nord America e Australia)”.

I Buscetta adesso escono allo scoperto: «Dopo  30 anni di silenzi  ecco il nostro Padrino». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Salvo Toscano su Corriere.it. Al cinema il volto glielo ha dato Pierfrancesco Favino. Quel volto che finì nel mirino di Cosa nostra riuscendo a salvarsi dalla vendetta dei padrini. Così non fu per undici parenti di Tommaso Buscetta, tra i quali due figli, assassinati dalla mafia negli anni Ottanta. È per questo che i familiari del «Boss dei due mondi», che con il suo pentimento aprì la strada che portò allo storico maxi processo, il loro volto hanno dovuto tenerlo segreto per decenni, vivendo al riparo da occhi indiscreti e sotto falsa identità. Ma adesso, dopo lunghi anni passati a nascondersi dai sicari, il figlio del collaboratore di giustizia Roberto e la madre Cristina hanno accettato di apparire in un documentario. Mentre in Italia «Il traditore» di Marco Bellocchio conquista il pubblico dopo i lunghi applausi di Cannes, raccontando la vicenda del più famoso pentito di mafia, in America due cineasti, Max Franchetti e Andrew Meier, hanno realizzato un nuovo documentario su Buscetta. Si intitola «Our Godfather: The Man the Mafia Could Not Kill» («Il nostro Padrino: l’uomo che la mafia non poté uccidere»), è in onda in streaming su YouTube dallo scorso fine settimana e dal prossimo settembre sarà disponibile sulla piattaforma Netflix. Roberto Buscetta e la madre Cristina sono stati rintracciati dai due registi in Florida. Trovare i Buscetta sembrava una vera e propria mission impossible: Franchetti e Meier ci hanno messo due anni. Ma alla fine ce l’hanno fatta. Cristina, la terza moglie brasiliana del pentito e i suoi familiari più stretti avevano vissuto sotto falso nome e in varie località per oltre trent’anni dopo l’ingresso del boss nel «Witness Protection Program». I due registi, dopo vari tentativi, hanno ottenuto una risposta scrivendo a un vecchio indirizzo email. È stata Cristina a rispondere, incuriosita, dopo tre settimane di silenzio. Quella Cristina che a metà anni Novanta accompagnò il marito in una crociera nel Mediterraneo: un giornalista lo riconobbe, scoppiò un putiferio sulla stampa. I familiari di Buscetta, morto nel 2000 di cancro a 71 anni (e sepolto sotto falso nome a Miami), erano riluttanti dal principio: «Uccidere il figlio di Tommaso Buscetta sarebbe il trofeo perfetto», ha spiegato Roberto. I racconti di suo padre a Giovanni Falcone e poi ad altri inquirenti hanno portato alla condanna di centinaia di mafiosi, tra Sicilia e Stati Uniti. Nel documentario, la moglie del pentito racconta quanto dura sia stata la scelta di don Masino di rompere il codice dell’omertà di Cosa nostra, definendo quel passaggio «la decisione più sofferta della sua vita». L’incontro tra Cristina e Roberto e i due cineasti è avvenuto nel maggio 2015 in Florida, alla presenza dell’agente della Dea Anthony Petrucci che per anni era stato uno degli angeli custodi della famiglia. Alla fine Cristina ha accettato di farsi riprendere, mentre Roberto, che sotto falso nome ha fatto il militare in Iraq e Afghanistan, ha chiesto che non venissero rivelati i suoi alias e che il suo volto fosse ripreso in ombra: «C’è sempre un rischio, la mafia non perdona». E dopo una vita di prudenza non è facile lasciarsi andare: Lisa, sorellastra di Roberto che appare nel documentario, ha detto di aver pronunciato il cognome Buscetta in questa occasione per la prima volta nella vita.

Le contraddizioni di Buscetta e l’idea di una «mafia etica». Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Poche figure come Tommaso Buscetta hanno condensato in sé tante contraddizioni. Mafioso cosmopolita, una vita che sembra una sceneggiatura cinematografica (e ha infatti ispirato diversi film) segnata da gravissime violenze, lutti inflitti e subiti, prima e dopo la fatidica decisione di collaborare con la giustizia.Su La7, Enrico Mentana ha dedicato una serata al racconto del più celebre pentito italiano, proponendo in anteprima il documentario Our Godfather, di Mark Franchetti e Andrew Meier; a seguire un talk a cui oltre a Franchetti hanno partecipato Giuseppe Pignatone, Gianni Di Gennaro e Giovanni Bianconi (mercoledì, 21.25). Grazie alla collaborazione di quel che resta della famiglia di Buscetta, il documentario ha potuto concentrarsi sulla dimensione privata dell’uomo e ricostruire l’intricata vicenda della sua carriera criminale, prima e dopo il «pentimento» seguito al tentato suicidio, dal punto di vista di Buscetta stesso. In operazioni di questo tipo l’archivio è tutto e gli autori hanno raccontato che si sono convinti a produrre il documentario quando la famiglia gli ha consegnato 12 dvd di filmati amatoriali della vita negli anni «dell’esilio» Usa, sotto protezione. Il dibattito moderato da Mentana è stato fondamentale per riequilibrare la focalizzazione del racconto, garantendo una voce alle istituzioni e mettendo in prospettiva storica i fatti grazie a figure che li hanno vissuti in prima persona e sanno oggi rileggerli con lucidità. Pignatone, trent’anni alla Procura di Palermo compresi quelli del Maxiprocesso a Cosa nostra, ha giustamente scardinato l’immagine di Buscetta come «eroe romantico» ammantato di fascino, ricordando tutte le complessità del personaggio e come l’ossessione di Buscetta per una «mafia etica», a suo dire intaccata dalla presa di potere dei Corleonesi, non ha mai trovato corrispettivo nella cruda realtà dei fatti.

Vanitoso, retorico, tragico. I volti del Buscetta segreto. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Paolo Valentino su Corriere.it. «Quando finalmente abbiamo incontrato Cristina, la vedova di don Masino, in Florida», racconta Mark Franchetti, «le abbiamo spiegato la nostra idea di fare un film sul Buscetta sconosciuto, quello che dopo il pentimento ha passato 30 anni sotto falsa identità, protetto dal Fbi e dalla Dea. Lei non si fidava, ma con noi c’era Tony Petrucci, un ex agente federale che per tanti anni era stato il loro angelo custode. Abbiamo illustrato il progetto in dettaglio, ma avevamo bisogno di materiale fotografico. Di Buscetta esistevano pochissime immagini e un solo breve filmato, quando entra al maxiprocesso. Al secondo incontro, Cristina si è presentata con dodici dvd di homevideo. Nel primo che misi nel portatile c’era Buscetta vestito da Babbo Natale, che distribuisce regali ai figli. Lì abbiamo capito di avere un film». Due anni e un massacrante lavoro di ricerca tra gli Stati Uniti, Roma e Palermo dopo, Our Godfather: the Man the Mafia could not killè uno straordinario lungometraggio, che La7 manda in onda mercoledì in prima serata in un’anteprima mondiale a cura di Enrico Mentana. A firmarne sceneggiatura e regia sono Franchetti, per 25 anni inviato e corrispondente da Mosca del Sunday Times, e Andrew Meier, scrittore e giornalista del New York Times Magazine. Attingendo a una mole enorme di materiali inediti e grazie alle testimonianze di familiari e poliziotti che non avevano mai prima d’ora accettato di parlare davanti a una telecamera, Franchetti e Meier ricostruiscono un Buscetta privato, il dramma di un uomo e della sua famiglia, decimata dalla vendetta mafiosa e costretta ancora oggi a vivere nell’anonimato e nella paura: «Siamo ancora a rischio», dice Cristina in una delle interviste del film, «la mafia non dimentica».

Qual è stato il lavoro più difficile?

«Quello di instaurare un rapporto di fiducia con tutti i protagonisti. Quella di Buscetta è una famiglia complicata: ha avuto otto figli da tre donne diverse. Due figli sono stati vittima della lupara bianca. Il fratello, i nipoti, il genero e il suocero sono stati assassinati. Erano tutte persone innocenti. L’altra difficoltà è stata raccontare una personalità dai mille volti senza poterci parlare e soprattutto senza santificarlo. Buscetta era pomposo, retorico, pieno di sé, parlava spesso in terza persona, ha detto tante verità, ma dei suoi omicidi non ha mai detto nulla. Era anche molto vanitoso: un agente italiano, assegnato alla sua protezione, mi ha raccontato che una volta lo accompagnò da un notaio perché doveva autenticare dei documenti. Quello non lo riconobbe e Buscetta si arrabbiò moltissimo».

Perché decise di pentirsi?

«Penso che lo abbia fatto per due ragioni. La prima per vendicarsi, ricordiamo che i suoi figli e alcuni parenti vengono fatti sparire o uccisi già prima del pentimento. La seconda perché veramente credeva che la mafia avesse tradito sé stessa».

Che idea si è fatto di lui?

«Aveva dei principi, sia pur malati, era carismatico, affabulatore, nell’organizzazione aveva un ruolo maggiore del suo grado per la sua personalità e perché conosceva il mondo. Negli anni Cinquanta stava già in America Latina».

Com’era Buscetta negli anni della clandestinità?

«In crisi, chiuso in sé stesso. Felicia, la figlia più grande che oggi ha quasi 70 anni e ha perso due fratelli e il marito, ucciso davanti, gli è stata vicina durante la malattia fino alla fine. Ecco, lei mi ha detto che non c’è mai stata una volta in cui suo padre abbia parlato con lei o con un altro familiare di questa tragedia, della lunga scia di sangue e morti, del prezzo pagato dalla famiglia per le sue scelte. Buscetta negli anni sotto protezione è un uomo che si sente sconfitto, umiliato. Trasloca venti volte, non può avere amici. Non vuol essere ricordato come un infame e cerca di costruire una motivazione etica alla sua decisione. In questo è un grande manipolatore. Il suo legame più forte è quello con Cristina, la terza moglie, e i suoi due figli».

«Con lo Stato peggio che con la mafia»: i retroscena del racconto di “Totuccio” Contorno. Il Secolo d'Italia sabato 28 settembre 2019. «Comincio dagli Stati Uniti. Lì mi veniva dato uno stipendio mensile di 1.300 dollari, ma dal mese di ottobre questo contributo mi sarebbe stato tolto. All’epoca abitavo in un appartamento, dove pagavo 550 dollari al mese e quando mi è stato comunicato che non avrei più ricevuto il mensile ho deciso di lasciare l’appartamento, perché non avrei avuto i soldi per continuare a pagarlo, e venire in Italia”. Inizia così il racconto del pentito Salvatore “Totuccio” Contorno davanti alla Commissione nazionale antimafia della X Legislatura. È il 9 agosto 1989 e il collaboratore di giustizia racconta la sua vicenda, all’epoca in cui era negli Stati Uniti, ai deputati dell’Antimafia. Contorno, ex mafioso della famiglia di Santa Maria di Gesù di Palermo, dopo la collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta cominciò a raccontare ai magistrati di Palermo i retroscena della mafia. Anche nell’ambito della indagine sulla pizza connection coordinata da Giovanni Falcone. Nel 1988 Contorno, che era sotto protezione, tornò in gran segreto a Palermo e si vendicò dei boss corleonesi, una vicenda con molti punti oscuri. Poi, nel 1989 venne nuovamente arrestato. Di recente il ruolo di Totuccio Contorno è stato interpretato dall’attore palermitano Luigi Lo Cascio nel film Il Traditore di Marco Bellocchio, in corsa agli Oscar.

“Totuccio” Contorno, i retroscena di una vita tra mafia e legalità. «In America avevo persino trovato un lavoro in un mattatoio, ma dopo cinque giorni sono stato costretto a lasciarlo a causa di una artrosi cervicale. Quindi non potevo lavorare, non ricevevo più il contributo dallo Stato, non avevo più soldi per vivere e per pagare l’appartamento, a quel punto o andavo a rubare o chiedevo beneficenza allo Stato visto che mi ero dissociato dalla mafia. Invece devo dire che mi sono trovato peggio che con la mafia. Sono rientrato in Italia e mi sono rivolto alla Criminalpol e all’Alto commissario Sica –dice ancora Contorno –. A loro ho esposto i miei problemi, spiegando la mia situazione finanziaria e il fatto che io e la mia famiglia non sapevamo come sopravvivere. Ma non ho ricevuto niente da nessuno né in America né in Italia. E ora, dopo tutti i benefici che ha avuto lo Stato, mi ritrovo in carcere a Sollicciano, praticamente sepolto vivo in una camera blindata, sorvegliato a vista 24 ore su 24. Ma per che cosa? Vorrei sapere per quale motivo mi trovo in carcere». «Vorrei farvi vedere le condizioni in cui mi trovo. E’ quasi un mese e mezzo che non riesco ad andare in bagno perché c’è sempre qualcuno che mi sorveglia, dicono che lo fanno per la mia sicurezza. Mi trovo in carcere con l’accusa di associazione a delinquere. A questo punto mi domando con chi mi sono associato, con lo Stato o di nuovo con la mafia?», dice Contorno particolarmente adirato rivolgendosi ai parlamentari che lo ascoltano. “Tenete presente che quando una persona si dissocia dalla mafia non può più rientrare nella organizzazione, io ormai sono destinato a morire. Venti giorni fa mi hanno ucciso uno zio e un cugino, ora vorrei sapere cos’altro volete da me. Una volta mi si dice che mi sono associato allo Stato, un’altra volta che faccio complotti e che commetto omicidi».

Da mafioso contro lo Stato a pentito con lo Stato. E ancora: «Ho fatto parte dello Stato, ma precedentemente, ho fatto parte anche del l’antistato. Le cose però sono cambiate: è mutata la mentalità, è stata introdotta la droga. Ho deciso quindi di cambiare io visto che le cose non erano più le stesse: i fatti, dal momento che io ero entrato a far parte di quell’organizzazione, erano mutati. Ho pensato perciò di aiutare lo Stato per liberarmi dalla mafia, soprattutto in considerazione dei loro ragionamenti e delle loro azioni. Volevo fare qualcosa per il dottor Sica o per chiunque altro, ma avevo bisogno di tempo – dice -La mia vita non si svolgeva più a Palermo, non avevo più la libertà di cui potevo disporre prima, non potevo più muovermi liberamente. Dovevo cercare attentamente se veramente volevo fare qualcosa, cioè se volevo conosce re le ultime novità». «Mi aspettavo un aiuto, volevo un lavoro, speravo di cambiare il nome. Lo Stato non mi ha dato niente in beneficenza. Io ho avuto una condanna di 6 anni a Palermo e ho fatto 6 anni e mezzo di carcere. È il 9 agosto 1989 e il collaboratore poi riarrestato si lamenta del trattamento ricevuto. “Ora mi ritrovo di nuovo in carcere, per associazione. Allora non so se posso dirlo, dice ai deputati – voi la mafia l’avete proprio capito come è istruita e come è preparata? Voi sapete cosa significa la mafia? Se uno esce fuori dalla mafia non può più rientrarvi; quando qualcuno fa il giuramento ed entra a far parte della mafia, se tradisce deve morire». «Se lo Stato in Italia fosse presente la gente aiuterebbe lo Stato: la gente vede che lo Stato è assente per cui se qualcuno assiste ad un omicidio, un furto o qualsiasi altra cosa se ne va dentro. Se, invece, lo Stato fosse presente qualcuno potrebbe dire di aver assistito ad un fatto (per esempio una macchina rubata, un tizio che passava, un latitante). Qualche persona ancora ci sarebbe per dire queste cose; ma lo Stato è assente e vedendo come hanno trattato me e Buscetta (abbandonati dallo Stato) chi potrebbe più collaborare con lo Stato»…

Su Buscetta e Michele Greco. E a proposito di Buscetta: «Se voi vi impegnate , tra me e Buscetta, Buscetta domani mattina può venire pure qua. Però ci deve essere un particolare: Buscetta ha la sua età, conosce …C’è tanta gente che dalla mafia è stata accantonata, posata. Potrebbero nascere tante cose. Ma come possono nascere le cose, così, al vento? Si potrebbero fare tante di quelle cose. Noi però, vogliamo aiuto e un supporto da voi e dallo Stato. Così si farebbero tante cose in Italia…Buscetta è sopravvissuto qualche giorno più di me perché penso che stava peggio di me. Buscetta ha superato la sopravvivenza più lunga della mia perché ha fatto un libro, un giornale ed ha preso un po’ di soldi. Ma ha una famiglia numerosa. Lui è stato abbandonato ormai, come sono stato abbandonato io». Mentre su Michele Greco infierisce dicendo: «è un grande “infamone” perché, non so se l’avete letto, l’ho pubblicato sui giornali, suo padre era un infame. Ho portato fuori questa storia proprio per far capire a tanta gente le cose che non sanno, perché ci sono degli atti che parlano e sarebbe bello poterli pubblicare e la gente, la gioventù di oggi potrebbe sapere che Michele Greco è il figlio di un infame. Diciamo infame nel termine proprio di Cosa Nostra»…

Quando Falcone finì sotto accusa per il ritorno del pentito Contorno in Sicilia. L’Antimafia pubblica i verbali. Le carte che raccontano l'isolamento del giudice. Le domande incalzanti di alcuni commissari a De Gennaro e all’ex boss. E intanto nessuno si occupava del fallito attentato dell'Addaura. Salvo Palazzolo il 27 settembre 2019 su La Repubblica. Il 9 agosto 1989, la commissione antimafia allora presieduta da Gerardo Chiaramonte convocò il pentito Salvatore Contorno per chiedergli del suo ritorno in Sicilia dagli Stati Uniti, mentre a Palermo c’erano diversi omicidi. Ma sotto accusa non sembrava lui, in quel momento arrestato (e poi scagionato), piuttosto il giudice Giovanni Falcone. Le domande fatte al collaboratore e poi anche all’ex capo della Criminalpol Gianni De Gennaro raccontano di un clima di sospetti attorno al magistrato che a giugno i boss di Cosa nostra avevano tentato di far saltare in aria sulla scogliera dell’Addaura. Di quel fallito attentato neanche si parlava a Palazzo San Macuto. I verbali di quei giorni sono stati pubblicati oggi della commissione parlamentare antimafia presieduta da Nicola Morra: raccontano la solitudine di Falcone e dei suoi più stretti collaboratori. Mentre a Palermo tirava addirittura il venticello della calunnia, “forse il giudice se l’è fatto da solo l’attentato”. Falcone era davvero isolato. Come Paolo Borsellino. Altre carte desecretate dall’Antimafia nelle scorse settimane ricordano oggi cos’era la lotta alla mafia in quegli anni difficili. Un recupero della memoria che la commissione parlamentare sta facendo grazie a un certosino lavoro di studio e ricostruzione fatto dall’ex pubblico ministero del processo Trattativa, Roberto Tartaglia, che Morra ha voluto suo consulente. In questi giorni Tartaglia è candidato alla successione di Cantone al vertice dell’autorità anticorruzione. Quella mattina del 9 agosto, il deputato del Pci Luciano Violante chiedeva al collaboratore Salvatore Contorno: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, o ha visto il dottore Falcone nel periodo in cui era in Italia?”. Risposta: “Andavo spesso alla Criminalpol, l’ho incontrato al bar con un paio di altri magistrati”. Violante incalzava: “Io ho fatto un’altra domanda. Lei è stato interrogato dal giudice Falcone?”. Contorno: “Non ricordo perché sono venuti diversi magistrati”. Un fuoco di fila di domande. Il verde Gianni Lanzinger: “Poco fa lei affermava di essersi incontrato con Falcone al bar. Si ricor­da cosa vi siete detti?”. Risposta di Contorno: “Era un bar all’interno della Criminalpol, frequentato da molti poliziotti. Ero andato alla Criminalpol perché avevo bisogno di un dentista e io non avevo né soldi né assistenza sanitaria per cercarmene uno. Andando al bar con un agente ho visto che c’era Falcone”. E quell’episodio, del tutto banale, diventò presto un altro sospetto. “Vi siete solo salutati?”, chiedeva il deputato. “Sì”. Anche il deputato Franco Corleone, pure lui dei Verdi, chiedeva: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, oltre che vederlo al bar?”. Contorno: “Quando?”. Corleone: “Non lo so, chiedo a lei… perché a noi risulta che ci sia stato l’interrogatorio”. Il deputato Salvo Andò puntava invece De Gennaro: “Lei aveva parlato col giudice Falcone del ritorno di Contorno?”. Il poliziotto chiariva che il “giudice Falcone lo ha anche interrogato nel mio ufficio”. Non c’era davvero nessun mistero in quel ritorno in Italia del pentito, che lamentava di non avere assistenza, all’epoca non c’era ancora la legge sui collaboratori:  “Contorno manifestò la sua situazione di insofferenza già negli Stati Uniti… voleva tornare in Italia”, spiegava De Gennaro. Ancora Violante: “Ci è risultato strano che Contorno, che su tante cose è preciso nel ricordare, non ricordava di essere mai stato interrogato in procura”. Risposta del poliziotto: “Forse da Falcone è stato interrogato più volte, non so, questa può essere una spiegazione”. E a quel punto Violante sbotta: “Lei si è reso conto che il problema delicato della permanenza di Contorno in Sicilia e quello relativo al rapporto tra Contorno e l’organizzazione mafiosa per un verso e in secondo luogo dei rapporti fra Contorno e settori istituzionali in quel periodo è il punto delicato della vicenda. In sostanza bisogna capire se Contorno è stato in quel periodo fonte informativa consapevole, se è stato lì per acquisire notizie e passarle a qualcuno”. E dopo questa considerazione, un’altra domanda: “E’ accaduto questo?”. Risposta netta di De Gennaro: “Ho già risposto di no per quanto riguarda il mio ufficio. Anche teoricamente ne ho spiegato la ragione. Posso dire che per quanto mi riguarda non ho avuto informazioni, tranne quelle di ordine generico”. Poi, l’Antimafia chiuse il caso. Ma intanto il tam tam dei sospetti, alimentato in quei mesi dalle lettere anonime del Corvo, aveva reso ancora più solo Giovanni Falcone.

·         Il Carcere Ostativo per i mafiosi. “Lasciate ogni speranza voi ch’intrate”.

Cos'è l'ergastolo ostativo. Per l'Europa l’ergastolo ostativo italiano è una “punizione inumana”. Ecco cosa prevede. Maurizio Tortorella il 9 ottobre 2019 su Panorama. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto oggi all’Italia di rivedere le sue norme in materia di ergastolo ostativo. La Corte ha infatti affermato che l’ergastolo ostativo è contrario all’art 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. In assenza di ricorsi, la sentenza diverrà definitiva in tre mesi. Per ergastolo ostativo s’intende la pena che prevede la reclusione a vita: il cosiddetto “fine pena mai”. In base alla legge italiana, anche chi viene condannato all’ergastolo ha diritto ad alcuni benefici (come la semilibertà) e può usufruire di permessi-premio; dopo 26 anni di carcere, inoltre, al condannato all’ergastolo può essere concessa la libertà condizionale se, durante la detenzione, ha tenuto una buona condotta e un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. L’ergastolo ostativo è l’eccezione alla regola, in quanto non permette di concedere al condannato alcun tipo di beneficio o di premio. Per questo l’ergastolo ostativo viene inflitto a soggetti altamente pericolosi che hanno commesso determinati delitti: per esempio il sequestro di persona a scopo di estorsione oppure l’associazione di tipo mafioso. Per loro esiste soltanto il “fine pena mai”: tra gli ultimi casi si ricorda quello del boss mafioso Bernardo Provenzano, morto in carcere nel luglio 2016 dopo lunghissima malattia. La decisione di Strasburgo riguarda in particolare il caso di Marcello Viola, un condannato per associazione mafiosa, per omicidi e per rapimenti, che era stato condannato all’ergastolo ostativo all’inizio degli anni Novanta, al quale ora il governo italiano deve versare 6mila euro per i costi legali. Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che “la mancanza di collaborazione è equiparata a una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società” e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo. La Corte osserva che se “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all'ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici”, questa “strada” è però troppo stretta. Nella sentenza si osserva che la scelta di collaborare non è sempre “libera”, perché per esempio certi condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari. I giudici di Strasburgo scrivono anche che “non si può presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”. La Corte non nega la gravità dei reati commessi da Marcello Viola, ma critica il fatto che l'uomo, soltanto perché non ha collaborato con la giustizia, si sia visto rifiutare le richieste di uscita dal carcere, nonostante molti rapporti indicassero la sua buona condotta e un cambiamento positivo della sua personalità. Nella sentenza si afferma che privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della speranza di poter un giorno uscire dal carcere viola il principio base su cui si fonda la convenzione europea dei diritti umani, il rispetto della dignità umana. Come tutte le sentenze della Corte europea, anche questa farà giurisprudenza e avrà effetti più ampi: potrà essere applicata nei confronti di chiunque si trovi a scontare una pena di quel genere. L’ergastolo nell’ordinamento italiano è regolato dall’articolo 17 e seguenti del Codice penale. L’articolo 22 dice che “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”. L’associazione Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata con il Partito radicale per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, sostiene che la sentenza della Corte europea è “un pronunciamento storico”. Con questa sentenza la Corte di Strasburgo di fatto “svuota” l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La Corte fa cadere la collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia. Per Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, “Il successo a Strasburgo è il preludio di quel che deve succedere alla Corte costituzionale italiana, che il 22 ottobre discuterà sulla costituzionalità dell'ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente. Il pensiero non può che andare a Marco Pannella”.

Ergastolo ostativo, la Turchia di Erdogan condannata come l’Italia. Damiano Aliprandi il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza della Cedu sul caso Ocalan. I giudici della corte europea hanno sanzionato, così come per la “vicenda viola”, la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale subordinata alla collaborazione. «Le prigioni non dovrebbero essere come le porte dell’inferno, dove si avvererebbero le parole di Dante: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Così hanno scritto i giudici della Corte europea dei diritti umani ( Cedu) nella sentenza del 18 marzo 2014 per il caso Ocalan ( leader curdo del Pkk) contro la Turchia, condannando lo Stato di Erdogan per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, dal momento che la legge turca «non prevede, dopo un certo periodo di detenzione, alcun meccanismo di riesame della pena all’ergastolo comminata per reati come quelli commessi da Ocalan, allo scopo di valutare se continuano a sussistere motivi legittimi per tenere la persona in carcere». Parliamo della stessa identica sentenza riguardante il caso Viola che ha condannato definitivamente l’Italia, perché – come stabilisce l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario prevede che la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale sia subordinata alla collaborazione con la giustizia.

ANCHE A ISTANBUL C’È QUELLO AGGRAVATO. Per quanto riguarda la Turchia, l’articolo 107 della legge n. 5275 sull’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza prevede la possibilità della libertà condizionale, su riserva di buona condotta, per le persone condannate alla pena della reclusione ( severa) a vita dopo un periodo minimo di detenzione di trent’anni, per i condannati alla pena della reclusione a vita ( ordinaria) dopo un periodo minimo di detenzione di ventiquattro anni e per gli alti condannati dopo aver scontato un periodo pari ai due terzi della loro pena detentiva. Tuttavia, sempre secondo la medesima disposizione, i condannati alla pena della reclusione a vita aggravata per dei reati contro la sicurezza dello Stato, contro l’ordine costituzionale e contro la difesa nazionale ( quindi come il caso di Ocalan) commessi in gruppi organizzati all’estero non possono essere ammessi al beneficio della libertà condizionale. In sostanza anche la Turchia, come il nostro Paese, ha due forme di ergastolo: uno “ordinario” e l’altro “aggravato” ( in Italia viene definito “ostativo”).

IL PKK È ORMAI UN PARTITO ILLEGALE. Da ricordare che Ocalan aveva fondato nel 1978 il Partito dei lavoratori del Kurdistan, meglio conosciuto con il nome di Pkk, che per anni ha combattuto per il riconoscimento di una propria etnia. Il Pkk è ancora una realtà presente nel sud- est della Turchia benché sia considerato un partito illegale. Inizialmente era un gruppo che s’ispirava al marxismo- leninismo, rivendicando ( insieme ad altri partiti tra cui il Pyax, il Pyd, e il Kpd) la fondazione di uno stato indipendente nella regione storico- linguistica del Kurdistan. Il Pkk, però, al fine delle sue rivendicazioni, utilizzava metodi violenti ricorrendo spesso al conflitto armato, ricorrendo anche all’uso di attentati dinamitardi e kamikaze contro obiettivi militari turchi, ritenuti oppressori del popolo curdo.

QUANDO OCALAN ARRIVÒ A ROMA. Come sappiamo giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista. Il leader del Pkk si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere entro qualche giorno asilo politico. Questa sua richiesta provocò un dibattito sull’opportunità di accettare tale richiesta. Alla fine – ricordiamo che c’era il governo D’Alema venne espulso in Kenia, dove poi le forze di intelligence lo presero e riportato in Turchia. In seguito la pena di morte gli verrà commutata in ergastolo a vita. D’altro canto la Cedu ha voluto esprimere concetti che poi ribadirà anche nei confronti del nostro Paese. «Le difficoltà – hanno scritto i giudici di Strasburgo – che gli Stati si trovano a dover affrontare nella nostra epoca per proteggere le loro popolazioni dalla violenza terrorista sono reali. Tuttavia – hanno sottolineato -, l’articolo 3 non prevede alcuna limitazione, non consente alcuna deroga, neppure in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione». Un concetto che i giudici hanno dovuto cristallizzare nella sentenza, perché il governo turco ha difeso la legittimità dell’ergastolo a vita, spiegando che Ocalan si era reso responsabile di una campagna di violenza che la sua ex- organizzazione ha condotto e che ha costato la vita a migliaia di persone, tra cui numerose vittime civili innocenti.

DECIDERÀ SEMPRE UN GIUDICE. La Cedu ha ben spiegato che «nessun problema si pone rispetto all’articolo 3 se, ad esempio, un condannato all’ergastolo che, in base alla legge nazionale, può in teoria ottenere la liberazione, richiede di essere liberato ma si vede rifiutata la richiesta per il fatto che egli continua a rappresentare un pericolo per la società». In sintesi, è esattamente lo stesso concetto espresso per quanto riguarda la sentenza di condanna nei confronti dell’Italia. Non si tratta di alcun automatismo, ma la concessione all’ergastolano di poter chiedere la liberazione condizionale dopo un numero congruo di anni di detenzione: sarà sempre un giudice a valutare se concedergliela o meno. La Cedu ha citato anche una sentenza della Corte costituzionale tedesca su un caso relativo alla reclusione a vita, la quale ha sottolineato che la pena perpetua «sarebbe incompatibile con la disposizione della Legge fondamentale che consacra la dignità umana che, coercitivamente, lo Stato privi una persona della propria libertà senza dargli almeno una possibilità di poterla un giorno recuperare».

L’uomo che riuscì a scappare dall’Alcatraz italiana. Damiano Aliprandi l'8 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Storia di Matteo Boe, l’unico uomo che riuscì a evadere dall’Asinara, la fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. «Col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco, ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati… In aria… nell’aria», dice una canzone del 1999 di Daniele Silvestri. La canzone è agghiacciante, drammatica, di forte impatto emotivo. L’elemento più sconcertante è che il protagonista della canzone, in prima persona, è un morto. Si tratta di un ergastolano che alla fine era riuscito ad evadere, ma “in orizzontale”. «Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara», dice drammaticamente la canzone. La struggente storia cantata da Silvestri è ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio, finalmente libera dalle 11 diramazioni penitenziarie. Pochi sanno l’origine del nome. Il pensiero va subito agli asini, che pur ci sono, ma in realtà tutto nasce dalla leggenda che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra. E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata. Herculis Insula, la chiamarono perciò i romani, e successivamente Sinuaria, per la sinuosità delle sue coste. Da lì, a forza della graduale storpiatura del nome romano, si è arrivati appunto a chiamarla “Asinara”. L’isola fu prima adibita a luogo di quarantena per equipaggi di navi sospette di epidemie a bordo, con annesso lazzaretto, poi nel 1915 divenne campo di prigionia per decine di migliaia di soldati austroungarici, e poi colonia penale agricola. Tra il 1937 e il 1939 vennero trasferiti qui centinaia di prigionieri etiopi. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate Rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprirlo dopo le stragi mafiose e quindi ai detenuti in regime di 41 bis. Ma le sistematiche torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24. Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41 bis. «Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità», narra Musumeci. L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima che iniziasse il maxi processo (dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. E come ogni storia che si rispetti, ha conosciuto anche lei il suo Papillon. Si chiama Matteo Boe e fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Boe è un personaggio da romanzo. È stato un bandito sardo, specificatamente di Lula, un paesino arroccato sui monti del nuorese. Divenne quasi una leggenda, tanto che il suo nome venne associato a una vita non solo di rapimenti, ma anche di attivismo politico visto che combatteva per l’indipendentismo sardo. Infatti, Boe, non riconosce alcuna autorità politica ed etica dello Stato italiano. Durante la sua detenzione, d’altronde, aveva tradotto in lingua sarda “Dio e lo Stato” di Bakunin e fatto poi stampare da un anarchico sardo. Fu condannato a sedici anni di carcere nel 1983, in seguito al rapimento di una giovanissima toscana, Sara Niccoli. Secondo le indagini ne fu poi il carceriere, quel “Carlos” che – come raccontò la stessa Niccoli – ne rese meno dura la detenzione, denotando perfino una cultura non indifferente nell’offrirle letture di pregio, come “L’idiota” di Dostoevskij e i libri di Franz Kafka. Sara, dopo anni, morirà all’età di 30 anni a causa di una malattia autoimmune. Boe fu arrestato e recluso all’Asinara. La permanenza doveva stargli ovviamente stretta, e così decise di evadere dalla fortezza con Salvatore Duras, in carcere per furto. Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto. Dopo aver tramortito un’agente mentre svolgevano un lavoro esterno, i due riescono a raggiungere la costa dove una donna – la moglie di Boe – li aspetta nascosta a bordo di un gommone. La donna, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe alla facoltà di Agraria all’università di Bologna e lui era un suo compagno di corso. Un amore immenso, che la spinse ad aiutarlo ad evadere. Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì a restare latitante per sei anni. Alla fase della latitanza risalgono tutta una serie di altri rapimenti, come quello dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, o quello eclatante del piccolo Farouk Kassam, nel 1992, cui fu brutalmente mozzato un orecchio. Il bambino fu lasciato libero dopo 177 giorni di prigionia, nei quali mangiò poco e non si lavò, tanto che i vestiti non gli si staccavano di dosso, come sostengono le cronache dell’epoca. Nello stesso anno Boe fu arrestato in Corsica, dove si trovava per alcuni giorni di vacanza con la moglie e i due figli, e quindi estradato nel 1995, con una condanna – confermata nel ’ 96 – a 25 anni di detenzione. Nel 2003 la tragedia. Una scarica di pallettoni rivolta al balcone della sua casa di Lula uccise Luisa, la figlia quattordicenne, forse scambiata dagli esecutori per la moglie Laura, politicamente molto attiva in paese nella lotta all’istituzione di una normalità amministrativa. «In tutti questi anni disse Matteo Boe dal carcere in una delle rare interviste rilasciate- ho visto mia figlia soltanto attraverso un vetro. Le nostre mani ogni volta erano divise da una parete. Assurdo, me l’hanno uccisa senza darmi la possibilità di abbracciarla». Questa vicenda dolorosa ebbe strascichi giudiziari: Laura accusò l’allora maresciallo dei carabinieri di non aver indagato a sufficienza e andò sotto processo per calunnia, uscendone comunque assolta. Ancora oggi l’uccisione della ragazzina è senza colpevoli. Boe ha finito di scontare la sua pena nel 2017 ed è un uomo libero. Ora ha 61 anni e sta studiando per diventare guida ambientale escursionistica. Se tutto andrà bene potrà iscriversi al registro nazionale della principale associazione di categoria, l’Aigae. I detenuti che hanno cercato di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti. La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto. Invece sono stati tanti i carcerati trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta della loro fuga. È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barchetta a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia. Solo Boe, il bandito sardo, ci riuscì.

Se il boss all'ergastolo non collabora e ottiene permessi rischia di diventare un modello. I mafiosi condannati a vita continuano a esercitare il potere carismatico. E ammorbidire il regime penitenziario, allargando l'accesso ai benefici anche per chi non si pente, non depotenzia la loro carica criminale. Stefania Pellegrini, *Professoressa ordinario di Sociologia del diritto, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, il 29 novembre 2019 su L'Espresso. Lo scorso 23 ottobre la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti sullo strumentario sin’ora posseduto dal nostro ordinamento in tema di contrasto alla criminalità di stampo mafioso. La Corte è intervenuta sul regime penitenziario previsto per gli ergastolani mafiosi i quali, a fronte della loro decisione di non collaborare con la giustizia, vedevano restringersi l’accesso ai benefici, in virtù di una presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale e, contestualmente, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale. La pronuncia ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Il condannato dovrà dar prova di aver compiuto un percorso rieducativo. In sostanza, la Corte ha ritenuto come la “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non debba essere più assoluta ma relativa, e dunque valutata caso per caso dal giudice in base alle relazioni del carcere, alle informazioni ed ai pareri di varie autorità. Il raggio d’azione di tale pronuncia va inoltre circoscritto allo specifico beneficio penitenziario dei permessi premio, non essendo incidente sulla totalità dell’art. 4 bis. L’importanza di questa decisione - in attesa della sentenza - va però contestualizzata in uno specifico momento storico, essendo stata emessa all’indomani di una disposizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 7 ottobre, respingendo un ricorso avanzato dal Governo italiano, ha ritenuto “inumano e degradante” il divieto di accedere ai benefici penitenziari imposto dalla legge italiana agli affiliati di mafia che rifiutino una collaborazione con la giustizia. Lo Stato italiano è stato chiamato a rivedere la norma, consentendo quindi al reo di dimostrare la propria lontananza dall’organizzazione con strumenti anche diversi dalla collaborazione di giustizia. Contro e a favore di queste pronunce si sono sollevate tanti voci. Molte hanno manifestato ampia soddisfazione per una pronuncia restauratrice dello spirito di umanità di uno Stato carnefice e spietato nell’aver segregato nelle patrie galere detenuti in un inesorabile “fine pena mai”; il riscatto di uno Stato che in questi casi avrebbe rinnegato uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale che, all’art. 27, sancisce come la finalità della pena andrebbe orientata alla rieducazione del condannato. Il principio della umanizzazione della sanzione penale è indubbiamente connesso al doveroso principio del rispetto della personalità dell’uomo e nello specifico della dignità del detenuto. Ma accanto alla finalità rieducativa va riconnessa anche una funzione deterrente che, oltre a dissuadere i consociati dal commettere reati, svolge un effetto di orientamento culturale richiamandoli alla considerazione dei valori per la cui tutela è posta la pena. Così facendo, si andrebbe a provocare una spontanea adesione dei soggetti ai valori espressi dall’ordinamento, incentivandone il rispetto e l’osservanza. Allo Stato, di fatto, viene assegnato un compito primario rispetto a quello che gli riconosce la potestà punitiva: quello di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, impegnandosi a tutelarli, prima che vengano violati. Prevenire il reato rappresenta una missione imprescindibile. Un dovere costituzionale che diviene cogente se riferito alla prevenzione di reati di elevata allerta sociale come quelli mafiosi. Molti, seppur autorevoli, commenti della sentenza della Corte costituzionale non hanno tenuto conto della specificità del fenomeno mafioso. La drammatica storia del nostro Paese ci ha imposto di prevedere una normativa differenziata per gli affiliati di mafia appartenenti ad un circuito criminale che è sul piano sociologico, criminologico e culturale, innegabilmente differente da tutti gli altri contesti malavitosi. La mafia, come scriveva Falcone, è criminalità e cultura. L’adesione ad una organizzazione mafiosa è qualcosa di più della partecipazione ad un’entità criminale finalizzata al profitto illecito. È un credo irrinunciabile. Si diventa mafiosi in un processo progressivo di oggettivazione. Il sicario mafioso è una non-persona, come sono non-persone le vittime. Non c’è l’Io e non c’è l’Altro, c’è solo la “Famiglia”, la “Locale”, il “Clan”. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Dal carcere, prima del regime penitenziario del 41 bis, i boss controllavano gli affari ed emettevano ordini di morte. Vale la pena ricordare che i primi provvedimenti di applicazione del regime di isolamento vennero firmati all’indomani della strage di via D’Amelio, benché la norma facesse parte di un pacchetto antimafia proposto da Giovanni Falcone. Il 19 luglio del 1992, alla notizia della strage, nel carcere palermitano dell’Ucciardone si brindò con champagne introdotto in concomitanza con la preparazione dell’attentato. Il regime del 41 bis nacque con queste finalità: isolare i mafiosi dal contesto di provenienza; depotenziare la loro carica criminale; indurli a collaborare, fornendo notizie certe e riscontrabili, necessarie a prevenire delitti o ad identificare responsabilità per reati già commessi. Altro dalla finalità rieducativa. Il mafioso, tradizionalmente veste gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale può essere del tutto fuorviante. Solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa essi continueranno ad essere capi rispettati ai quali si deve obbedienza. Al contempo, la collaborazione non comporta un “ravvedimento” o un pentimento. La legge non lo richiede. Nella maggioranza dei casi è il calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi dei benefici connessi alla collaborazione ad indurre il mafioso a fornire informazioni rilevanti. Si tratta di una mera valutazione costi/benefici. Se i costi venissero ridotti e il carcere ostativo depotenziato, al mafioso non converrebbe collaborare. Alla luce di ciò, va pertanto scongiurato il pericolo dell’estensione del divieto agli altri benefici, in un cortocircuito che determinerebbe la fine di uno strumento antimafia tutt’oggi efficace. Basti pensare alla collaborazione dei mafiosi nei processi al Nord che hanno dato la possibilità di aprire nuovi procedimenti e svelare misteri da tempo archiviati. Ora, alcuni attendono l’emanazione di una legge che delimiti l’area di intervento per la concessione dei permessi, stabilendo parametri e principi fissi. Si tratterebbe di un provvedimento del tutto illegittimo perché andrebbe a limitare la discrezionalità del giudice di sorveglianza, violando la pronuncia della Corte. Tuttalpiù il legislatore potrà solo indicare le modalità di valutazione della concessione, senza reintrodurre nuove preclusioni. Ma la magistratura di sorveglianza non può essere lasciata sola ad affrontare questa delicatissima sfida che può rappresentare un’occasione per migliorare, ma non per depotenziare il contrasto alla mafia.

Permessi ai reclusi ostativi, Bruti Liberati: «Atto di civiltà che indebolirà le mafie». Errico Novi il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Bruti Liberati. «Con la sentenza della Consulta sui permessi ai reclusi in regime ostativo viene il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle mafie». Edmondo Bruti Liberati è stato un procuratore di Milano rigoroso, ed è tuttora considerato un punto di riferimento, in ambito associativo, da molti colleghi. «Tengo a ricordare di essere stato anche un magistrato di sorveglianza: in tale veste, nel 1975, ho avuto modo per la prima volta nella storia della Repubblica di applicare l’istituto del permesso: era stato introdotto con la riforma penitenziaria, si trattava del primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta. Ed è l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”». Appena lette le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che indica la “collaborazione” come presupposto insuperabile per concedere permessi ai reclusi sottoposti al 4 bis, Bruti Liberati non esita ad auspicare che «i principi affermati dalla Consulta trovino applicazione anche per la liberazione condizionale per l’ergastolo». La pronuncia, in ogni caso, «è un segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e chiude idealmente la presidenza Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri».

Si può parlare anche di un “atto di coraggio”, considerata l’impopolarità che suscitano principi pure chiarissimi nella nostra Carta, a cominciare dal fine rieducativo della pena?

«La sentenza della Corte costituzionale è importante per la decisione presa e per i principi affermati. Richiama i principi costituzionali sulla esecuzione della pena e lo spirito originario della riforma penitenziaria del 1975. Quella legge, abrogando il regolamento fascista, chiuse la stagione delle riforme della prima metà degli anni Settanta. Il Parlamento ebbe il coraggio di fare entrare in vigore la riforma nonostante il crescente allarme per la criminalità organizzata e il terrorismo».

Viene riproposta idealmente la stessa sfida lanciata allora dal legislatore nei confronti di quelle minacce?

«Assolutamente sì. Ma è anche opportuno precisare il perimetro esatto della pronuncia di cui sono appena state depositate le motivazioni. Lo Corte, nonostante polemiche disinformate, non affronta la questione di fondo del cosiddetto ergastolo ostativo. Interviene soltanto, perché questa era la questione portata al suo esame, sulla disciplina dei permessi. La legge parla, con dizione fuorviante, di “permessi premio”: non si tratta per nulla di un premio per la buona condotta in detenzione, ma, di norma, del primo passaggio nel percorso di reinserimento del condannato nella società».

Ma è un’idea che suscita agitazione in una parte evidentemente maggioritaria dell’opinione pubblica.

«Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare l’istituto dei permessi: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella”. Grazie allo scrupolo dei magistrati di sorveglianza la percentuale di mancati rientri fu modestissima, ma l’istituto del permesso ha risentito delle emergenze: di quella relativa al terrorismo alla fine degli anni ’ 70, e poi dell’emergenza mafia. Così si spiegano gli andamenti oscillanti di chiusure e riaperture».

La sentenza riguarda solo i permessi, certo: ma i principi affermati prefigurano secondo lei un superamento complessivo dell’ostatività ex 4 bis anche per l’ergastolo?

«La pronuncia della Corte riguarda solo i permessi ma i principi affermati sono di carattere generale. È prevedibile e auspicabile che tali principi trovino applicazione anche per le misure alternative della semilibertà e dell’affidamento e per la liberazione condizionale per l’ergastolo. Le presunzioni assolute e insuperabili, previste per alcuni gravi reati, di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato che non collabori con la giustizia sono incostituzionali, anche se la condanna è all’ergastolo. La Corte afferma che la “collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento”; aggiunge anche che “non è affatto irragionevole presumere che il condannato che non collabori mantenga vivi i contatti con l’organizzazione criminale”. Ma per rispettare i principi costituzionali occorre prevedere che “tale presunzione sia relativa e non già assoluta, e quindi possa essere vinta da una prova contraria”».

Parte della maggioranza di governo insiste nell’ipotizzare addirittura una legge che “limiti” l’applicabilità della sentenza.

«Gli allarmi lanciati prima ancora di conoscere la motivazione della sentenza sono ingiustificati. Afferma la Corte che non basta certo la sola regolare condotta carceraria o la mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno una sola dichiarata dissociazione. Occorre acquisire “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Il sistema che ne emerge è netto nell’affermare i principi costituzionali e insieme attento alle esigenze di sicurezza. L’intervento di urgenza del legislatore, da taluni invocato, non ha spazi se non con la reintroduzione di rigidità incostituzionali».

La sentenza è anche un riconoscimento della funzione svolta dai giudici di sorveglianza?

«Si può dire questo: una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Ancora una volta la Corte indica un percorso, sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia”. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia, che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi a pigre formulette del genere “non si può peraltro escludere che…”. È un mutamento culturale che si richiede, appunto, anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo antidoto alla recidiva. Tutt’altro che buonismo, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza».

Quindi gli allarmi su un’improvvisa invasione di boss sono immotivati?

«Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose, casomai di ricordare che in carcere non ci sono organizzazioni ma persone. L’offrire una prospettiva di uscita, di rientro nella società, andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori di valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. Terrei a un’ultima notazione, che non è un tecnicismo. La prima eccezione di costituzionalità è stata sollevata dalla Cassazione: quella Corte per molto tempo attuò una sorda resistenza e talora uno scontro diretto con la Corte costituzionale in difesa della legislazione fascista. È un mutamento culturale ormai assestato che riafferma il prestigio della Corte che assicura il terzo e ultimo grado di giudizio. E la sentenza numero 253, estesa per la penna di una grande costituzionalista, chiude idealmente la presidenza di Giorgio Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri».

Per i giudici non è un mafioso, ma è detenuto ancora al 41 bis. Nicola Simonetta attende dal 28 ottobre la revoca della misura. Damiano Aliprandi il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. Può accadere che al regime del 41 bis, la frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato, vi sia rinchiuso un detenuto che non appartiene alla criminalità organizzata e tantomeno al terrorismo? La risposta è sì. Si tratta di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41 bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. In sostanza il 41 bis gli viene considerato applicabile anche se due sentenze processuali hanno reso evidente l’assenza di coinvolgimenti in contesti mafiosi. La più importante, di secondo grado, c’è stata il 28 ottobre scorso che ha riformato la precedente, proprio quella che gli ha fatto scattare il 41 bis: da promotore di associazione semplice ( e non mafiosa) a mero reato di partecipante all’associazione per lo spaccio prevista dall’art. 74 dpr 309/ 90, escludendo anche l’aggravante mafiosa. Infatti da 27 anni di carcere, la pena è stata ridotta a 13. L’altra, relativa ad altro procedimento, è stata pronunciata in primo grado e lo ha assolto dal vincolo associativo. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha fatto quindi istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Del caso è stata informata anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. L’avvocata Lombardo spiega a Il Dubbio che il ministro non solo non ha disposto la revoca, ma non ha dato alcuna risposta in merito. «Dovrebbe essere un atto dovuto, così come ad esempio è accaduto con Massimo Carminati – spiega la legale -, quando essendo decaduta l’associazione mafiosa, giustamente gli è stato prontamente revocato il 41 bis. Non comprendo perché ciò ancora non sia avvenuto con il mio assistito». L’avvocata Lombardo sottolinea anche il fatto che non può fare nulla, nemmeno una istanza alla magistratura di sorveglianza di Roma competente per il 41 bis, visto che non ha ottenuto ancora nessuna risposta formale dal ministero della Giustizia. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41 bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italo- americano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. «Tant’è che nell’inerzia delle parti – sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014». In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe – pur non comparendo mai – occultamente coordinato il traffico che altri ( Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Rimane il dato oggettivo che Simonetta non ha nessuna condanna per mafia, non risulta appartenente a nessuna ‘ ndrina, ma è tuttora al 41 bis. L’avvocata Maria Elisa Lombardo chiede la revoca immediata, altrimenti non rimane che ricorrere alla Corte Europea di Strasburgo.

L’interrogazione di Giachetti: è compatibile il carcere duro per un malato terminale? Valentina Stella il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. E’ il caso di Antonino Tomaselli, malato terminale per un tumore ai polmoni, detenuto in custodia cautelare in regime di 41 bis presso il carcere di Opera. Roberto Giachetti di “Italia Viva” ha presentato una interrogazione a risposta scritta ai ministri Bonafede e Speranza sul caso di Antonino Tomaselli, malato terminale per un tumore ai polmoni, detenuto in custodia cautelare in regime di 41 bis presso il carcere di Opera. Per un malato oncologico con una aspettativa di vita ridottissima è compatibile il carcere e in particolare modo il regime duro? Il parlamentare evidenzia che “Tomaselli non è imputato, né mai lo è stato in passato, per fatti di sangue” ma per il riesame e la Cassazione “le condizioni di salute in cui versa il Tomaselli non risultano modificate in peggio malgrado la gravissima malattia da cui l’indagato è affetto” e quindi sono compatibili con la detenzione al 41 bis. Giachetti, dunque, si chiede se tutto questo rispetti l’articolo 1 del decreto legislativo che riordina la medicina penitenziaria per cui “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione” delle stesse prestazioni sanitarie. Come ci dice infatti uno dei suoi legali, l’avvocato Eugenio Minniti, che lo segue insieme a Giorgio Antoci: «Abbiamo censurato l’assoluta inefficienza della dirigenza sanitaria del carcere di Opera in quanto è stato omesso ogni protocollo terapeutico finalizzato a preservare le condizioni di salute del signor Tomaselli sulla scorta inoltre di quanto disposto dal tribunale della libertà di Catania che aveva previsto tutta una serie di cautele da adottare per tamponare la situazione drammatica in cui versa l’uomo a cui resta un anno di vita. Noi chiediamo che venga trasferito in un centro specializzato per fronteggiare le gravissime condizioni di salute. Ad oggi viene lasciato morire in carcere un soggetto che è in custodia cautelare preventiva e non accusato di reati omicidiari». La questione era stata sollevata proprio su Il Dubbio dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che commenta così oggi: «I fanatici e i cretini, diceva Sciascia più di trent’anni fa, credono che la terribilità delle pene ( compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come la mafia. Quando lo Stato, violando i diritti umani, utilizza gli stessi metodi dei peggiori assassini, moltiplica il male fatto contagiando con il virus della violenza l’intera società».

Musumeci: «Io, ex ergastolano, dico: questa sentenza fa paura alla mafia». Damiano Aliprandi il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio.  Carmelo Musumeci, da agosto in liberazione condizionale, sulla decisione della Consulta. «Molti “soldati”, arrestati quando erano giovani, con una speranza di rifarsi una vita sarebbero stimolati ad uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni». «Dopo le sentenze della Corte Europea e della Corte Costituzionale sulla “Pena di Morte Viva”, che hanno dato fiato alla speranza ad alcuni ergastolani, le mafie tremano perché hanno paura di rimanere senza esercito», così spiega a Il Dubbio l’ex ergastolano Carmelo Musumeci che ad agosto scorso è riuscito ad ottenere la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Entrato in carcere con la licenza elementare ha conseguito due lauree, una in Giurisprudenza e una in Sociologia. Ha scritto “L’urlo di un uomo ombra” e altri libri sul fine pena. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Da anni ha intrapreso delle lotte per l’abolizione dell’ergastolo ostativo ed è contento per la sentenza della Consulta che ha aperto un varco alla speranza.

Ma come fa a dire che la mafia ha paura di questa sentenza?

«Perché molti "soldati" (la manovalanza, ndr), specialmente arrestati quando erano giovani, con una speranza di rifarsi una vita sarebbero stimolati ad uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni».

Però c’è chi dice il contrario e infatti c’è stata una indignazione generale.

«Sì, dai salotti televisivi e dalla carta stampata si sono scatenate tante polemiche, come se la mafia fosse solo tutta in quei 700 detenuti condannati al carcere duro e in un migliaio, poco più, di ergastolani ostativi, in carcere da 20, e anche 30, anni. Si è detto che potrebbero uscire i condannati per le stragi di mafia, dimenticando di dire che la stragrande maggioranza di loro sono diventati collaboratori di giustizia. Si è detto che il carcere duro non va abolito perché c’è il rischio che i mafiosi diano ordini dal carcere, dimenticando di dire che arrestato un boss ce n’è subito un altro che prende il suo posto».

Lei dice spesso che l’ergastolo aggiunge ingiustizia ad ingiustizia.

«Certo, per questo i rivoluzionari francesi nel 1789 avevano mantenuto la pena di morte e abolito la pena dell’ergastolo. Penso che il carcere senza speranza sia una fabbrica di mostri e in tutti i casi la pena non dovrebbe essere una vendetta, ma piuttosto una malattia da cui si può, e si deve, guarire. La vendetta individuale è comprensibile, invece quella collettiva è disumana. Dopo dieci, venti, trent’anni di carcere un uomo, senza più vedere un tramonto, un’alba, un albero, un fiore, senza più sentire le voci dei bambini, non è più un uomo normale. Non è facile vivere senza futuro. Non è umano! Solo i morti possono vivere senza futuro. La giustizia potrebbe, anche se non sono d’accordo, ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non dovrebbe più tenerlo in carcere quando non lo è più, o farlo uscire solo quando baratta la sua libertà con quella di qualcun altro, collaborando, e spesso usando la giustizia».

Quindi un ergastolano che ha ucciso per mafia ha il diritto di una seconda possibilità?

«Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio come può questa fare bene o far guarire? Se siamo umani non possiamo stare prigionieri tutta una vita. Molti ergastolani sono nati già colpevoli, per il contesto sociale dove venuti al mondo, e non meritano di morire in carcere, in particolar modo i ragazzi che hanno subito la condanna all’ergastolo all’età di diciotto, diciannove e vent’anni. Penso che la pena dell’ergastolo sia una pena stupida e inutile, che distrugge il presente e il futuro a chi lo sconta e non dia vita a nessuna vita. È disgustoso essere contro l’abolizione dell’ergastolo per solo consenso sociale o politico e citare in modo strumentale le vittime, perché come dice Agnese Moro, figlia di Aldo Moro: “La sofferenza dei colpevoli non allevia il dolore delle vittime”».

E quindi, cosa propone?

«Credo che alle vittime dei reati interesserebbe di più far uscire ai colpevoli il senso di colpa per il male fatto e penso che questo sia più facile con una pena che faccia bene e che dia speranza, altrimenti il carnefice si sentirà a sua volta vittima, senza chiedersi mai quanto dolore ha inferto, ma rimanendo perennemente concentrato sul suo».

Serve l'ergastolo, non i premi agli assassini. Antonio Cianci, ergastolano, in permesso premio, esce ed accoltella un uomo per rapinarlo. Serve l'ergastolo, senza sconti. Maurizio Belpietro l'11 novembre 2019 su Panorama. La storia di Antonio Cianci andrebbe letta e riletta. Anzi, imparata a memoria. Non nelle aule scolastiche, ma in quelle di tribunale. In particolare, andrebbe declamata nell'aula della Corte costituzionale come la storia esemplare del perché un ergastolo debba essere un ergastolo e non una vacanza premio. Nonostante alle anime belle della Consulta e anche a quelle della Corte europea dei diritti dell'uomo, il «fine pena mai» non piaccia e lo ritengano una specie di tortura da vietare nella civilissima Europa, esso non ha una finalità punitiva, ma una funzione precisa, ossia impedire che gli assassini tornino a uccidere altre persone. Antonio Cianci era un ragazzo quando ammazzò la prima volta, sparando alla testa di un metronotte che aveva avuto il solo torto di incontrarlo sulla sua strada. Cianci lo uccise come un cane, ma essendo minorenne, nonostante il delitto di lì a poco tornò in circolazione, pronto per un altro omicidio. Infatti, dopo, di assassinii ne commise altri tre. Fermato a un posto di blocco da una pattuglia di carabinieri mentre era alla guida di un'auto rubata, Cianci uccise i tre militari, sparando prima che i poveretti si rendessero conto di avere davanti un killer. Condannato all'ergastolo e tenuto dietro le sbarre per decenni, l'altro giorno gli è stata concessa una licenza premio e per riconoscenza Cianci ha pensato bene di tagliare la gola a un pensionato colpevole di non essere generoso con lui. Mentre vagava nel piano interrato dell'ospedale San Raffaele, a Milano, il killer seriale ha incontrato l'uomo e gli ha chiesto di consegnargli il portafogli. Al rifiuto dell'anziano, Cianci ha messo mano al coltello e lo ha colpito al collo. Solo il caso ha voluto che al pensionato non fosse tagliata la carotide e solo il caso ha voluto che il tentato omicidio sia stato messo in atto nel sotterraneo di un ospedale, dove il pronto soccorso è stato possibile.

Ergastolano di Cerignola accoltella anziano durante permesso premio a Milano: ha ucciso 3 Cc. L'uomo, rapinato e ferito nel parcheggio sotterraneo dell'ospedale San Raffaele, non è in pericolo di vita. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2019. Per poche monete e un cellulare ha deciso di spendere quel permesso premio, concesso pare per un solo giorno, accoltellando alla gola per rapina un anziano di 79 anni nel parcheggio di un ospedale. Se l’è giocate in questo modo quelle ore di libertà Antonio Cianci, che aveva 20 anni quaranta anni fa quando uccise a bruciapelo tre carabinieri della stazione di Melzo, nel Milanese, che l’avevano fermato per un controllo. Oggi, ergastolano di 60 anni è stato bloccato di nuovo dalla polizia per quell'aggressione sfociata in un tentato omicidio, con la vittima che fortunatamente, da quanto si è saputo, non è in pericolo di vita. Il 79enne è stato ferito alla gola da Cianci nel tardo pomeriggio mentre si trovava nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Raffaele di Milano, al piano 'meno 1', vicino a delle macchinette del caffè. Stando a quanto ricostruito dagli agenti, Cianci lo avrebbe avvicinato per chiedergli dei soldi e al rifiuto dell’anziano, lui l’avrebbe colpito alla gola con un taglierino, portando via pochi soldi e il telefonino dell’uomo. E poi è scappato ed è stato fermato dagli agenti vicino alla stazione della metropolitana di Cascina Gobba. Aveva ancora il taglierino sporco di sangue con sé e anche i pantaloni insanguinati. Cianci, originario di Cerignola (Foggia) e che le cronache dell’epoca descrivevano come un giovane dal passato difficile e un «patito di armi», aveva 20 anni quando, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre del '79, uccise i tre carabinieri che lo avevano fermato ad un posto di blocco tra Liscate e Melzo, nel Milanese, a bordo di un’auto che risultava rubata. Mentre i militari controllavano i suoi documenti quella notte, scoprendo, tra l'altro, che a 15 anni aveva già ucciso un metronotte a Segrate (venne assolto per incapacità mentale e fece 3 anni di riformatorio), il giovane fece fuoco con una pistola automatica. E uccise il maresciallo Michele Campagnuolo, l’appuntato Pietro Lia e il carabiniere Federico Tempini. Quando venne arrestato, Cianci non confessò e disse, anzi, che a sparare ai militari della stazione di Melzo erano stati alcuni sconosciuti a bordo di un’auto. Al processo di primo grado venne condannato all’ergastolo, confermato in appello nel 1983. Processo quest’ultimo in cui finalmente, però, con una lettera ai giudici confessò la strage e la condanna venne confermata, poi, anche in Cassazione. Ora era detenuto a Bollate e, da quanto si è saputo, aveva ottenuto un permesso premio di un giorno. La sua vittima di oggi è ricoverata al San Raffaele, è grave ma non in pericolo di vita. FIGLIA DI UNA VITTIMA: UN ESSERE IGNOBILE - Aveva 6 anni Daniela Lia quando nel 1979 suo padre, l’appuntato Pietro Lia, venne «massacrato senza pietà» a 51 anni, assieme ad altri due carabinieri, mentre stava facendo il suo lavoro, un servizio di controllo su una strada statale vicino Melzo, nel Milanese. Antonio Cianci gli sparò addosso 5 colpi, «ma mio padre si rialzò cinque volte, lottò finché poté contro di lui, alla fine aveva le unghie rotte». Non è bastato un ergastolo per «quell'essere ignobile», dice ora all’ANSA la donna, ma gli è stato «permesso» di creare «altro dolore» in un’altra famiglia, «di calpestare e oltraggiare ancora la memoria del mio papà e dei suoi colleghi Michele Campagnuolo e Federico Tempini». Ieri, infatti, l’ergastolano Cianci, ormai 60 anni e che già a 15 anni aveva ucciso un metronotte, ha tentato di uccidere un anziano per rapina, usufruendo di un permesso premio: una vicenda sulla quale il ministro della Giustizia Bonafede ha già disposto accertamenti preliminari. «Quando ieri molto delicatamente due carabinieri mi hanno dato conto di questa notizia - racconta Daniela Lia - sono rimasta sconvolta dal fatto che si sia permesso a questo essere ignobile, che massacrava senza pietà, di mettere un’altra famiglia in condizioni di dolore, calpestando e oltraggiando, tra l’altro, ancora la memoria di mio padre e dei suoi colleghi». Chiarisce subito di avere «molto rispetto per lo Stato», di essere «molto grata all’Arma per tutto l’affetto che ha dimostrato per la nostra famiglia in questi anni». Aggiunge, però, facendo riferimento al permesso premio concesso dai giudici, che «non si doveva permettere a quest’essere di andare ancora in giro a creare dolore». E racconta ancora che sua madre «non si riprese mai dalla morte di mio padre, fu lacerata per sempre dal dolore, ebbe un ictus e morì tre anni fa».

Il primo delitto a 15 anni, i 3 carabinieri uccisi: Cianci,  il killer in permesso che  ha accoltellato un uomo. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. Allo studente universitario Gabriele Mattetti, 29 anni, che lavorava per arrotondare come metronotte in una fabbrica di Segrate, il killer chiese l’ora e senza attendere la risposta sparò alla schiena, al cuore e alla testa. Era il 17 ottobre del 1974, Antonio Cianci (l’ergastolano che sabato ha accoltellato un anziano paziente nel seminterrato dell’ospedale San Raffaele), originario di Cerignola (Foggia) trasferitosi a Pioltello insieme alla madre e alle sorelle nel ‘64, all’epoca aveva 15 anni, un lavoro come lattoniere iniziato dopo la quinta elementare. E una passione smodata per le armi e un’attrazione morbosa per tutto ciò che fosse criminale. Anche se i delinquenti veri lo tenevano alla larga, perché era considerato un pazzo e una testa calda. Aveva evitato il carcere per la giovane età. Ed era ancora «vigilato», quando cinque anni dopo, la sera del 9 ottobre 1979, era stato fermato da tre carabinieri lungo la Rivoltana vicino a Liscate. Al maresciallo Michele Campagnuolo, all’appuntato Pietro Lia e al carabiniere Federico Tempini, aveva lasciato il tempo di parlare con la centrale e di verificare che la Cinquecento sulla quale viaggiava era rubata. Un testimone aveva detto d’averlo visto parlottare con i militari. Mentre un altro, multato dai carabinieri al posto di blocco, aveva perfino spiegato d’essersi fatto cambiare una banconota da quel ragazzo, tranquillo e calmo in attesa di ripartire. Quando però i militari si erano avvicinati, dopo aver avuto la conferma che la macchina «scottava» e alla guida c’era un ragazzo con precedenti per omicidio, lui aveva sfilato la 7.65 che teneva sotto la giacca e aveva scaricato loro addosso tutti i colpi del caricatore. Uccisi tutti e tre, senza il tempo di reagire. Nelle sue disordinate confessioni davanti ai magistrati non ha mai saputo spiegare il perché dei suoi quattro omicidi. Ha raccontato che uno dei carabinieri lo aveva preso in giro per la foto sulla patente. E a quel punto aveva deciso di sparare. Il suo avvocato durante il processo chiese perizie psichiatriche che però non hanno mai certificato l’infermità mentale. Per lui la condanna all’ergastolo e una vita trascorsa in cella dal 1979. Tre quarti della sua esistenza. Al carcere di Bollate, il detenuto pluriomicida Cianci non aveva mai creato problemi o preoccupazioni. Non lavorava, ma si prestava come volontario per gli altri detenuti nel segretariato, come spiega la direttrice Cosima Buccoliero. In sostanza faceva lo scrivano per i nuovi arrivati, per aiutarli a presentare istanze e domandine. Il suo non era un ergastolo ostativo, quello riservato a terroristi e mafiosi irriducibili — e sul quale si sono accese le polemiche nelle ultime settimane —, ma un regime ordinario. Tanto che il 60enne Cianci usufruiva da settembre dei permessi premio dopo 40 anni di detenzione ininterrotta. Un anno e mezzo fa era stato trasferito dal supercarcere di Opera a quello «modello» di Bollate. Una decisione motivata dalla necessità di una detenzione a sorveglianza attenuata in vista della progressiva uscita. Sabato mattina aveva lasciato il carcere con un permesso premio di tre giorni per raggiungere la sorella che vive a Cernusco sul Naviglio, a meno di cinque chilometri dal San Raffaele. Lì però non è mai arrivato.

Violenza dell’ergastolano in permesso premio, il carcere: “Cianci era cambiato”. L’ergastolano Antonio Cianci aveva ottenuto un permesso premio di 12 ore sulla base di una norma che prevede la valutazione di buona condotta e assenza di pericolosità sociale. Gabriele Laganà, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. Sono passati 40 anni ma Antonio Cianci non sembra essere poi essere cambiato molto. L’uomo di 60 anni, all’ergastolo per aver ucciso tre carabinieri, ieri ha tentato di uccidere un anziano per rapinarlo all’interno del parcheggio del San Raffaele. Ma perché Cianci era fuori? Secondo la relazione fornita dal carcere di Bollate favorevole alla concessione del permesso premio, disposto dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, l’assassino era cambiato tanto aver fatto un positivo percorso di ravvedimento, nella piena consapevolezza. L’uomo, in sostanza era maturato ed era considerato affidabile. E così gli è stato concesso un permesso "di 12 ore" sulla base di una norma che prevede la valutazione di buona condotta e assenza di pericolosità sociale. Ma dopo i fatti di ieri, tutte le belle parole sembrano evaporare come neve al sole. In base a quanto ricostruito dalla polizia, Cianci indossava una felpa da inserviente del San Raffaele quando si è avvicinato all’anziano di 79 anni, in ospedale per far visita ad una parente, nel piano "meno 1". L’ergastolano ha iniziato a minacciare il pensionato per sottrargli il cellulare. Davanti alla resistenza opposta dal vecchietto, Cianci ha perso la testa e l'ha colpito vicino alla giugulare con un taglierino. Non appena ha visto gli agenti avvicinarsi a lui nei pressi della stazione della metro di Cascina Gobba, il violento ha gettato arma e telefono in un bidone. Non si sa cosa ci facesse nell’ospedale. Sembrerebbe che l’uomo avesse ottenuto un permesso premio per andare a trovare la sorella nell'hinterland milanese.

La vicenda ha sconvolto l’opinione pubblica e ha messo in subbuglio la politica.Secondo quanto appreso dall'Ansa, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha dato mandato all'Ispettorato di compiere accertamenti sulla vicenda. Già domani potrebbe essere interrogato dal gip, mentre la procura chiederà la convalida del fermo e la custodia in carcere con le accuse di tentato omicidio e rapina. Un profondo sconcerto per l’intera vicenda è stato espresso da Daniela Lia, figlia di Pietro Lia, il carabiniere di 51 anni ucciso assieme ad altri due militari nel '79 per mano di Cianci. "Sono sconvolta dal fatto che si sia permesso a questo essere ignobile che massacrava senza pietà, di mettere un'altra famiglia in condizioni di dolore, calpestando e oltraggiando, tra l'altro, ancora la memoria di mio padre e dei suoi colleghi". Ma il massacro dei militari non era stato la prima azione da killer spietato per Cianci. Quest’ultimo già cinque anni prima, a soli 15 anni, aveva ucciso Gabriele Mattetti, un metronotte di 29 anni. La vittima fu colpita prima alle spalle e, una volta a terra, fu finita con due proiettili al viso e uno al cuore. Infine, l’assassino gli rubò l’arma ritrovata nello schienale di una poltrona del soggiorno di casa del criminale. Sulla questione è intervenuta anche Emanuela Piantadosi, presidente dell'Associazione Vittime del Dovere e figlia del maresciallo Stefano Piantadosi, ucciso a Opera nel 1980 da un uomo che stava controllando e che era un omicida evaso dal carcere:"Quanto altro spargimento di sangue si dovrà avere prima che il ministro della Giustizia e il governo prendano coscienza di quanto sia fondamentale monitorare seriamente la recidiva in questo Paese?". La stessa Piantadosi afferma che dalla precedente legislatura è stato chiesto al Ministero che venisse misurata “con dati certi ed inequivocabili la recidiva che rappresenta quel metro di misura essenziale per stabilire se un condannato abbia preso coscienza dei reati commessi, abbia scontato consapevolmente la sua pena e sia stato effettivamente rieducato, secondo quanto stabilito dalla costituzione art 27”. Dopo un primo colloquio avvenuto nel 2018, però, non ci sono state novità tanto che “al ministro Bonafede sono stati sollecitati ripetutamente incontri, mai più accordati, per avviare uno studio serio sulla recidiva, per garantire certezza della pena, per istituire un tavolo per le vittime di reato, per aprire un dibattito sul processo penale, al fine di dare un peso e un ruolo effettivo, che non sia solo risarcitorio, alla vittima poiché in Italia le ragioni delle vittime e la sicurezza della collettività contano meno dei diritti dei delinquenti".

Permesso premio a Cianci: solo i carabinieri erano contrari all’uscita. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Cesare Giuzzi e Luigi Ferrarella su Corriere.it. Dopo 44 anni in cella il 60enne Antonio Cianci - l’ergastolano quadruplice omicida (di un metronotte nel 1974 a 15 anni, e di tre carabinieri nel 1979) che in permesso premio sabato sera con un taglierino in un tentativo di rapina alle macchinette del caffè del «piano -1» dell’ospedale San Raffaele ha quasi tagliato la gola al 79enne compagno di una paziente - aveva avuto non solo una positiva relazione dell’équipe di educatori-psicologi-criminologi il 29 marzo scorso; o il parere favorevole della direttrice del carcere di Bollate il 15 aprile; ma persino «un encomio il 31 ottobre 2018 per l’attività nella segreteria Nuovi Giunti». Su un piatto della bilancia il giudice di Sorveglianza, Simone Luerti, trovava esperti per i quali era «non più socialmente pericoloso» il detenuto che, dopo anni di «iniziale atteggiamento oppositivo, col tempo si era mostrato sempre più collaborativo», maturando «un senso di colpa soprattutto nei confronti delle famiglie dei carabinieri uccisi, consapevole di aver condannato figli a vivere senza i loro padri»: come Daniela Lia, che aveva 6 anni, e che ieri lamenta «altro dolore» da «quell’essere ignobile». Sull’altro piatto della bilancia, invece, il giudice aveva la chance di lavoro sprecata da Cianci quando nel 2015 era tornato in cella mezzo ubriaco: era perciò «stato segnalato al Sert del carcere, che però non aveva ritenuto il soggetto abusatore di alcol». Contraria al permesso era poi una nota dei carabinieri di Milano del 25 giugno, ma per due motivi collaterali: il fatto che la sorella avesse una denuncia per minacce e vivesse in una casa popolare dagli affitti non pagati, ma il giudice valutava che, trattandosi di permesso e non di misure alternative, la questione fosse «non rilevante». Infine il 30 maggio vengono «chieste alla Questura di Milano le informazioni» previste dalla legge, «senza che sia pervenuta risposta». E del resto anche il pm di apposito turno in Procura, che in teoria avrebbe potuto impugnare la concessione del permesso (in quel caso congelabile in attesa di udienza collegiale al Tribunale di Sorveglianza), aveva messo il visto. Tuttavia il giudice Luerti, come raramente accade, il 26 luglio sia nella motivazione sia nel dispositivo del provvedimento che autorizzava il primo permesso aveva anche prescritto: «Almeno per le prime volte, e comunque fino a nuova disposizione del magistrato, si impone l’accompagnamento dal carcere a Cernusco e rientro con familiare o altra persona nota (che potrà essere anche un volontario), al fine di evitare il possibile disagio per una nuova dimensione di libertà, che implicherebbe anche un complesso viaggio con mezzi pubblici». In attesa degli accertamenti disposti dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è ancora da chiarire se sabato l’accompagnamento ci sia stato, o se possa essere stato equivocata al punto n.6 delle «prescrizioni» la residua formula standard «fare uso esclusivo di mezzi pubblici, con facoltà di usare i mezzi privati purché accompagnato da un familiare/volontario, negli spostamenti e all’uscita e al rientro». La rilevanza della questione rispetto al ferimento (per fortuna meno grave perché per pochi centimetri le ferite alla gola sono superficiali, il 79enne verrà dimesso tra qualche giorno, e già ai soccorritori aveva subito detto «mi è andata bene...»), è tuttavia relativa: stando infatti alle prime indagini coordinate dal pm Nicola Rossato, l’ergastolano (solo o accompagnato che fosse) è in effetti andato sia dalla sorella sia dai carabinieri di Cernusco, dove ha firmato alle 15.08. Il ferimento al San Raffaele, distante alcuni chilometri, è delle 17.45: che cosa lo abbia spinto lì ancora non si sa, e forse solo Cianci potrà spiegarlo oggi.

Permessi premio, migliaia di detenuti ne usufruiscono rispettando gli obblighi. Damiano Aliprandi il 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. In questo primo semestre quasi 20.000 persone ne hanno usufruito. Sull’ergastolo ostativo il presidente della consulta, Giorgio Lattanzi, ha evidenziato come non si possa giustificare il mantenere in detenzione chi non intende collaborare. Il caso dell’ergastolano Antonio Cianci che, usufruendo del permesso premio di un giorno, ha accoltellato alla gola un pensionato di 89 anni per rapinarlo in un parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Raffaele di Milano, ha riacceso l’indignazione sulla bontà di questo beneficio. Inevitabilmente è stata evocata, a torto, la sentenza della Consulta in merito alla possibilità di fare istanza per questo beneficio anche per gli ergastolani che non collaborano con la giustizia. Caso che però non riguarda Cianci, visto che non è un ergastolano ostativo. Così come non riguardò altri ergastolani, tipo il famigerato Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che ha ingannato – tranne Giovanni Falcone che a suo tempo lo inquisì per calunnia – diversi magistrati fingendosi un collaboratore. Usufruì di un permesso premio e uccise nuovamente. Il problema che ci possano essere errori di valutazione per la concessione di tale beneficio è scontato. Ma bisogna inquadrare il nostro sistema, altrimenti diventa tutto incomprensibile. Il nostro sistema penale prevede pene molto lunghe. Non solo le prevede ma le applica anche, a differenza di quanto accade in altri Paesi. Si può citare l’esempio della strage dell’isola di Utoya in Norvegia: la pena massima prevista dal codice penale, malgrado i 77 morti, è di 21 anni. Noi abbiamo l’ergastolo e perfino il carcere con fine pena mai, ovvero l’ostativo. Il nostro sistema prevede, però, misure per riequilibrare queste pene visto che abbiamo una Costituzione e, fino a prova contraria, dobbiamo rispettarla. Questo modello di apertura del carcere ha uno scopo ben preciso e indispensabile. Non solo quello di consentire di mantenere i rapporti con la famiglia, di consentire di pensare a un’occupazione per quando si esce, ma serve anche per eliminare l’isolamento e preparare il detenuto a fare i conti con la realtà che gli spetta una volta uscito. Ci sono detenuti che, non usufruendo per diversi motivi di nessun beneficio, quando terminano di scontare la pena ed escono, non sanno nemmeno più come si prende un autobus perché per anni sono rimasti fuori da tutto. Sì, perché tutti devono avere la speranza di uscire. Anche gli ergastolani ostativi. Lo ha ribadito ieri anche il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, intervenendo a Firenze al convegno “Meriti e limiti della pena carceraria”, organizzato dall’Ateneo fiorentino. «Oggi che si sentono espressioni come “buttare la chiave”, “marcire in carcere” – ha spiegato Lattanzi -, cose che non si erano più sentite da anni, è ancora più importante la riflessione sui meriti della pena carceraria». Il presidente della Consulta, ha evidenziato come non si possa giustificare il mantenere in stato di detenzione per chi non intende collaborare. Lattanzi ha ricordato come «la Corte ha detto moltissime volte che le presunzioni assolute non sono consentite». Ma ritorniamo al permesso premio. È contemplato dall’articolo 30 ter, il quale stabilisce che ai condannati che hanno tenuto una regolare condotta durante l’esecuzione della pena ( 8° comma) e che non risultano essere socialmente pericolosi, possono essere concessi tali permessi dal magistrato di Sorveglianza sentito il Direttore dell’Istituto penitenziario. Tali permessi hanno come obiettivo quello di consentire ai condannati di coltivare, fuori dall’Istituto penitenziario, interessi affettivi, culturali, di lavoro. La durata dei permessi non può essere superiore ogni volta a 15 giorni e non può comunque superare la misura complessiva di 45 giorni in ciascun anno di espiazione della pena. ll fatto di usufruire tale permesso, comporta qualche rischio? Sì, ma la percentuale è bassissima e per un caso su un migliaio non può essere messo in discussione. Secondo i dati del primo semestre del 2019, sono quasi 20.000 i detenuti che hanno usufruito del permesso premio. Ciò dimostra che il sistema funziona benissimo, e per colpa di qualcuno che sbaglia non possono pagarne la conseguenza le migliaia di detenuti che rispettano rigorosamente gli obblighi.

41 bis, un’ora di umanità con Rosetta. Quasi trent’anni di isolamento. Damiano Aliprandi il 13 Novembre 2019 su Il Dubbio. Trent’anni di carcere duro e poi un colloquio: 60 minuti. Al 41 bis per mafia, senza familiari, sempre in isolamento. È il primo incontro permesso a una persona che non ha alcun grado di parentela. In carcere fin dal 1982 per reato di mafia e dagli anni 90 in poi, ininterrottamente al 41 bis, è rimasto senza parenti e, visto che il regime duro consente i colloqui solamente con i familiari, non ha mai potuto parlare con nessuno. Nessun colloquio, per decenni tumulato vivo e l’unico contatto con l’esterno è stato per via epistolare con una donna, Rosetta, con la quale non ha nessun legame di sangue, nonostante faccia parte – seppur acquisita – della sua famiglia. Lei si ricorda di lui giovane, ed è l’unica che gli scrive da anni, quando gli spedisce pacchi di pasta e qualche soldo per potergli permettere di compare qualcosa allo spaccio del carcere. Sì perché stare al 41 bis significa essere isolato da tutti, ed è difficile vivere solamente con quello che ti passano. Il 41 bis, la cui ratio teoricamente dovrebbe consistere esclusivamente quella di evitare che un boss dia ordini all’esterno al proprio gruppo criminale di appartenenza, ha diverse misure afflittive che rendono sempre più difficoltosa la tenuta del regime differenziato, perché si esce inevitabilmente fuori dal perimetro costituzionale. Una è proprio quella di avere una sola ora di colloquio al mese, esclusivamente con i parenti di primo grado, e dietro un vetro divisore. I suoi legali, le avvocate Barbara Amicarella e Benedetta Di Cesare del foro de L’Aquila, sono riusciti ad ottenere l’impossibile. Una battaglia legale a colpi di istanze e rinvii che ha permesso, dopo 37 anni, di fargli fare un colloquio di un’ora. Un caso eccezionale al 41 bis: il primo colloquio effettuato con una persona che non appartiene a nessun grado di parentela. Rosetta è la figlia della sorella della zia materna acquisita del recluso. Tramite i legali, il recluso al 41 bis aveva fatto istanza alla magistratura di sorveglianza che però ha rigettato. A quel punto ha impugnato il rigetto e ha fatto reclamo al tribunale di sorveglianza. Ma nulla da fare. Il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha rigettato con il presupposto che il legame affettivo tra lui e Rosetta, che avrebbe dovuto integrare il requisito dei "ragionevoli motivi", necessario a giustificare il colloquio visivo con persone diverse dai familiari, ai sensi dell’art. 37, comma 1, d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230, non risultava dimostrato, non essendo sufficienti a tal proposito gli accrediti periodici di somme di denaro ricevuti mediante vaglia postale dal detenuto e l’intensa corrispondenza epistolare intercorsa tra i due soggetti durante la detenzione del ricorrente. I legali hanno ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato. Un ricorso dichiarato fondato dai giudici che hanno sottolineato come la lettura dell’art. 37, comma 1, d. P. R. n. 230 del 2000 non legittima una tale interpretazione restrittiva della nozione di ‘ ragionevoli motivi’, «non potendosi escludere – scrivono i giudici della Cassazione – la rilevanza di situazioni collegate alla condizione detentiva patita dall’istante, valutabili su un piano esclusivamente soggettivo». I giudici della Corte suprema hanno quindi annullato l’ordinanza della magistratura di sorveglianza con rinvio, la quale poi ha dato finalmente il via libera al colloquio. Ma non finisce qui. Nel frattempo il detenuto è stato trasferito al carcere di Sassari e, come spesso accade, la direzione dell’istituto non ha dato luogo all’autorizzazione. Ancora una volta si è fermato tutto e le avvocate Amicarella e Di Cesare hanno dovuto fare ottemperanza. Anche questo ostacolo è stato superato e la settimana scorsa, dopo 37 anni, Rosetta ha potuto fare il colloquio per un’ora, dietro il vetro divisorio. Il recluso al 41 bis, d’altro canto, ha avuto finalmente un contatto visivo con un altro essere umano, con il quale ha avuto contatti solamente epistolari per decenni. È stata concessa così, grazie a una battaglia legale, una sola ora di umanità. Inevitabilmente ci si chiede se tutto ciò sia compatibile con l’articolo 27 della Costituzione.

Valerio Onida: «Senza benefici l’ergastolo è contro la Carta». Errico Novi il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. Valerio Onida presidente emerito della Consulta. «Con la sentenza sul 4 bis, la Corte ha inevitabilmente giudicato non libera la scelta di chi collabora. Ora nessuna legge potrà stabilire eccezioni per I boss mafiosi: il doppio binario non può spingersi fino a negare la Carta». «Se nel nostro ordinamento si può parlare di ergastolo, se ancora una simile pena esiste, è solo ed esclusivamente perché è possibile per il condannato la prospettiva di un ritorno in libertà. Senza l’accesso almeno potenziale a un esito indispensabile per attuare il fine rieducativo della pena, l’ergastolo sarebbe incostituzionale. Ecco perché non ha senso ipotizzare che la sentenza della Consulta sull’articolo 4 bis possa essere “rettificata” da una legge che ne limiti l’applicazione. Non si può escludere dal beneficio dei permessi e più in generale dai benefici penitenziari, fino alla liberazione condizionale, alcun detenuto, neppure chi è stato a capo dell’organizzazione criminale». Vale la pena di riportare subito, parola per parola, la risposta del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida a parlamentari e magistrati che nelle ultime ore insistono per circoscrivere la pronuncia sull’ergastolo ostativo.  Ne vale la pena perché Onida è tra le figure che personificano più adeguatamente l’Istituzione con la “I” maiuscola. Forse solo lo sconquasso emotivo per una sentenza che ha sconvolto il quadro preesistente, com’è avvenuto con la pronuncia del 23 ottobre, può giustificare alcune prese di posizione. Accolta l’attenuante della novità, è opportuno rimettere in ordine i principi di diritto.

È dunque impossibile perimetrare lo spettro di applicazione della sentenza costituzionale sul 4 bis, Presidente Onida?

«Il principio per cui l’ergastolo deve necessariamente essere integrato da una possibilità, anche distante nel tempo, di liberazione è costituzionalmente sancito. Su tale aspetto non c’è alcuna discussione. Come credo sia chiaro a tutti, la Corte costituzionale ha risolto un altro dilemma: se considerare la collaborazione come presupposto irrinunciabile per l’accesso ai benefici soddisfacesse o meno il principio della necessaria prospettiva di libertà. E la Corte ha ritenuto che non fosse possibile subordinare alla collaborazione la prospettiva del ritorno in libertà. Prima d’ora si era ritenuto che fosse possibile perché si riteneva la collaborazione come una scelta pur sempre libera dell’interessato, e dunque tale da consentirgli comunque di ottenere la liberazione. Ma, a rifletterci, non si può davvero ritenere sempre libera una scelta simile. Non può esserlo per chi teme che la sua collaborazione provochi rappresaglie su persone a lui care. Per esempio. Oppure per chi non ha mai ammesso le proprie colpe, e dunque non può essere costretto a confessare, neppure dopo che una sentenza abbia invece affermato la sua responsabilità. La collaborazione non può essere pretesa, appunto. Quale sarà la bussola dei giudici di sorveglianza? Lo prescrive da sempre l’ordinamento penitenziario: accertare la rottura di ogni legame con la criminalità e il sicuro “ravvedimento” della persona».

La rottura, per un ergastolano ostativo, può essere accertata anche per via indiretta, con la rottura dei legami criminali da parte dei suoi familiari?

«È evidente che se i familiari del condannato mantengono relazioni criminali sarà più difficile provare l’insussistenza di relazioni anche indirette fra il condannato e l’organizzazione. Così com’è chiaro che se invece i familiari hanno spezzato quei legami si è di fronte a una prova che può essere significativa anche per il detenuto. D’altronde a me pare che chi muove critiche alla sentenza dimentichi soprattutto un aspetto».

Quale?

«Il carattere individuale di qualsiasi trattamento sanzionatorio e l’obbligo di valutare lo specifico percorso compiuto dal singolo condannato».

È scontato che prima o poi si arrivi a giudicare illegittimo il vincolo della collaborazione anche rispetto alla liberazione condizionale?

«È chiaro che l’ostatività per chi non collabora è destinata a cadere anche rispetto al beneficio della liberazione condizionale. Se la collaborazione non è più vincolante rispetto alla concessione del permesso, che è uno dei primi traguardi del percorso rieducativo, a maggior ragione non può essere vincolante per un istituto quale la liberazione condizionale che è il solo davvero in grado di rendere costituzionalmente legittima la pena dell’ergastolo. Il che non vuol dire che assisteremo a una scarcerazione in massa di boss mafiosi».

Perché è stupito delle reazioni alla pronuncia?

«Perché siamo al cuore dell’idea di pena prevista dalla nostra Carta e dalla Convenzione europea dei diritti umani. La prospettiva di libertà è elemento necessario perché l’ergastolo sia ammissibile, punto. La stessa costituzionalità del fine pena mai, com’è noto, è in discussione. È invece scontato che chi si vede infliggere quella pena debba sapere fin dall’inizio che un giorno potrà tornare libero».

Ma ora il Parlamento potrebbe escludere da tale prospettiva chi è stato a capo dell’organizzazione criminale?

«No. Assolutamente no. La valutazione sulla rottura delle relazioni criminali e sul percorso rieducativo, sul ravvedimento, va compiuta in concreto rispetto alla singola persona. Ripeto e scandisco: per- so- na. Non sul ruolo che quella persona ha rivestito in passato».

A proposito di diritti costituzionalmente sanciti: il Cnf ha chiesto di differire l’entrata in vigore del blocca- prescrizione per poter verificare l’efficacia delle riforme sulla velocizzazione dei processi. Condivide?

«Se si decide di bloccare la prescrizione dopo il primo grado è perché si ritiene che appello e Cassazione possano svolgersi in tempi ragionevoli. Trovo quindi non priva di senso l’idea di rinviare l’efficacia della norma in modo da verificare se i tempi del processo dopo il primo grado sono e possono essere resi ragionevoli davvero, come peraltro prescrive l’articolo 111 della Costituzione. Ciò non toglie che questa norma sul venir meno della prescrizione dopo la condanna in primo grado possa anche essere utile».

Da quale punto di vista?

«Non si può trascurare che talora le impugnazioni possono essere proposte al solo fine di raggiungere la prescrizione, da chi sa di avere in effetti una responsabilità. Se si sgombra il campo da tale uso anomalo dell’istituto, chi è condannato in primo grado e sa di essere colpevole potrà guardare piuttosto a una rapida esecuzione in forma di misure alternative e ad arrivare il prima che può alla riabilitazione. Se invece è convinto di dovere e poter dimostrare la propria innocenza, anche oggi può rinunciare alla prescrizione. Si potrebbe insomma forse attenuare il carico dei processi su Corti d’appello e Cassazione».

Ma è altrettanto necessario che chi è condannato in primo grado e sa di essere innocente non debba attendere lustri per vedere accertata la propria estraneità?

«E infatti la norma che blocca la prescrizione potrebbe essere opportunamente accompagnata dalla previsione di tempi di fase comunque insuperabili per appello e Cassazione».

Più in generale, soprattutto riguardo all’ergastolo, non vede un po’ d’insofferenza per i principi costituzionali?

«Prevale la cultura del buttar via la chiave, evidentemente. A proposito dell’ergastolo, mi pare infondata anche la preoccupazione per il fatto che il giudizio resterà affidato al magistrato di sorveglianza. La valutazione sul percorso rieducativo va necessariamente compiuta in modo non astratto ma individuale, e con la conoscenza della singola situazione. Sono proprio il singolo giudice e Tribunale di sorveglianza che devono decidere».

Il consigliere del Csm Di Matteo preferirebbe un Tribunale di sorveglianza unico nazionale.

«Una soluzione del genere sarebbe priva di coerenza logica con il principio per cui il trattamento e il percorso rieducativo, e quindi anche la valutazione del percorso, devono essere individuali. Un collegio collocato a Roma non può certo decidere su casi in tutta Italia. I magistrati di sorveglianza devono seguire da vicino i detenuti e i loro percorsi, conoscendo le situazioni concrete. Essi devono esercitare le proprie funzioni il più possibile vicino al luogo dove il condannato espia la pena e in contatto con quella realtà. Dovrebbero anzi interloquire con gli stessi detenuti e con gli operatori penitenziari. Devo dire che, se trovo spiegabili certe dichiarazioni di esponenti politici, mi lasciano più sorpreso quando queste arrivano da magistrati. È come se si volesse ipotizzare un ordinamento penitenziario diverso per i condannati di mafia. Ma non si può spingere il modello del doppio binario fino a contraddire i principi essenziali della Costituzione».

Corte costituzionale, Lattanzi: il silenzio del recluso non sia punito. Errico Novi il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. Così il presidente della Consulta spiega il suo giudizio sul 4 bis. Qualsiasi detenuto deve poter contare su un futuro rientro nella società, «che non può essere negato a chi non collabora». Ec’è altro da dire, dopo aver sentito Giorgio Lattanzi, il giudice delle leggi per definizione, il presidente della Corte costituzionale? Si può ancora equivocare con livore su chi difende il diritto alla speranza degli ergastolani ostativi? No, non è possibile se si ascoltano le parole pronunciate da questo maestro del pensiero giuridico due domeniche fa, lo scorso 27 ottobre, nell’auditorium di Rebibbia, dopo l’ultima proiezione del film “Viaggio in Italia – La Corte costituzionale nelle carceri”, che è quasi il manifesto della sua presidenza. Interviene, Lattanzi, dopo la presentazione di Donatella Stasio e una domanda del professor Marco Ruotolo, ordinario a Roma Tre, che cita la lettera scritta da Filippo Rigano, ergastolano laureatosi in Legge dopo 27 anni in cella: «Esiste, ci chiede Filippo, un diritto alla speranza per qualsiasi detenuto, anche ostativo?». Rigano ha discusso la sua tesi sul 4 bis proprio nel giorno in cui la Corte presieduta da Lattanzi ha sancito che è illegittimo subordinare alla collaborazione l’accesso ai permessi per gli ergastolani ostativi. «Una bella coincidenza», nota Ruotolo, «in cui torna un quesito: deve esserci per tutti, un diritto alla speranza? Non chiedo a Lattanzi di anticipare le motivazioni della sentenza sul 4 bis, ma solo se quel diritto alla speranza caro alla Corte di Strasburgo possa trovare concretezza anche in Italia». Lattanzi sorride. Davanti a lui ci sono centinaia di reclusi. Che già applaudono alla domanda di Ruotolo. E poi aspettano in silenzio la risposta dal giudice delle leggi. Eccola: «Mi sembra che senza diritto alla speranza non ci sia prospettiva di rieducazione. È chiaro che la rieducazione, la risocializzazione si basano sulla speranza. Se manca, la vita del detenuto resta senza senso». Arrivano applausi diversi dai precedenti. Perché sono chiaramente confusi con le lacrime. Lattanzi non perde il suo sorriso e continua: «È con la speranza che la vita del detenuto acquista un senso. Ora, ci sono ragioni di carattere giuridico in cui ho creduto, ma sull’ergastolo ostativo la prospettiva su cui riflettere è proprio la risocializzazione. E io in particolare», aggiunge il presidente della Consulta, «a proposito della collaborazione, ho sostenuto che se anche in Italia, come in tutti gli Stati civili, esiste un diritto al silenzio, vuol dire che dal silenzio non può derivare un aggravarsi del trattamento sanzionatorio. Un simile aggravamento», ossia l’esclusione dal diritto alla speranza e cioè dalla possibile risocializzazione, «non può essere giustificato neppure da esigenze di politica criminale. Tali esigenze possono sì legare, alla collaborazione con la giustizia, un premio, ma la mancata collaborazione non può implicare una sanzione. E questa è una cosa in cui credo profondamente». Altri applausi. Che Lattanzi merita per aver descritto con incredibile semplicità il significato che, assai probabilmente, va attribuito alla pronuncia dello scorso 23 ottobre.

Una possibilità di riscatto va almeno teoricamente concessa anche al più feroce dei criminali, a condizione che, come dice dal palco di Rebibbia il professor Ruotolo, «recida i rapporti con il crimine e, soprattutto, mostri ravvedimento». E a nessuno si può negare un simile spiraglio di vita per il semplice fatto di aver esercitato il diritto al silenzio, che altrimenti non sarebbe un diritto. Chiarissimo. Di una chiarezza disarmante. Forse persino per chi vede il veleno della collusione in chiunque osi difendere le ragioni del diritto.

Gianfilippi: «Noi giudici di sorveglianza da sempre siamo a rischio minaccia come i pm». Damiano Aliprandi il 7 Novembre 2019 su Il Dubbio. Parla al Dubbio Fabio Gianfilippi il magistrato che ha portato l’ergastolo ostativo alla consulta. All’eventuale previsione di accentramento degli uffici non corrisponde al principio costituzionale del giudice naturale». Diversi magistrati hanno criticato la Corte costituzionale per la sentenza sul regime dell’ergastolo "ostativo"’, dichiarando il 4 bis incostituzionale, nella parte in cui escludeva radicalmente dai permessi premio i condannati per reati di mafia e assimilati, che non avessero intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. Per opporsi alla sentenza della Consulta è stato anche detto che ciò comporterebbe la messa in pericolo dei magistrati di sorveglianza che potrebbero essere minacciati dalla mafia per ottenere i benefici. Di questo e altro ancora, ne parliamo con Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia. È colui, tra l’altro, che ha sollevato alla Consulta il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone.

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, ci sono state diverse polemiche. In particolare, tra i detrattori, ha preso il sopravvento il discorso per cui voi come magistrati di sorveglianza potreste essere esposti a minacce mafiose. Lei pensa che sia una osservazione fondata?

«Io faccio il magistrato, quindi ritengo che il rischio di subire pressioni sia parte di questo mestiere che mi onoro di aver scelto. Credo che queste pressioni possano esserci, così come ci sono per i colleghi pubblici ministeri o i giudici che ogni giorno scrivono sentenze riguardanti anche persone che hanno collegamenti con la criminalità organizzata. Certamente il rischio esiste, ma è un rischio che peraltro non è una novità che deriva da quello che ha detto o dirà la Corte costituzionale: la magistratura di sorveglianza si occupa da molti anni di detenuti per reati gravissimi, e anche di mafia, e già oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa anche di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia, che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia, cosa quest’ultima che viene stabilita proprio dal Tribunale di Sorveglianza attraverso una valutazione molto rigorosa. Quindi la nostra esposizione non è un elemento di novità. è un dato che fa parte del nostro impegno, a cui si risponde con la professionalità. Mi sento di dire che non vedo delle novità rispetto a questo punto».

Nino Di Matteo, in una trasmissione televisiva ha parlato di un unico tribunale di sorveglianza, come quello previsto per il 41 bis, a Roma. Pensa che sia utile?

«Non ho ascoltato la trasmissione televisiva, ma non credo corrisponderebbe al principio costituzionale del giudice naturale l’eventuale previsione di un accentramento, che per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo. Non vedo poi come questo potrebbe ridurre il rischio di esposizione dei magistrati, che anzi si concentrerebbe sulle poche unità di quel Tribunale».

In questi giorni ci sono petizioni on line, interventi politici, tutti volti ad avanzare proposte che mirano in qualche modo a reintrodurre l’automatismo reclusivo.

«Innanzitutto penso che si debbano attendere le motivazioni della Corte che ha solo emesso un comunicato stampa, certamente molto dettagliato, ma che lascia intatta la necessità della doverosa lettura delle motivazioni per capire quale in quali termini la Corte costituzionale sia intervenuta. Dopo di che, il secondo punto del quale sono certo è che qualunque intervento il legislatore intendesse assumere, non potrà che essere un intervento che segua il percorso logico motivazionale deducibile dalla decisione della Corte. Certamente è chiaro che è necessaria una valutazione discrezionale, prudente, informata e che preveda massima attenzione alle questioni di sicurezza, rilasciata alla magistratura di sorveglianza: questo possiamo dire che è un punto fermo».

Ci sono state delle osservazioni da parte di alcuni magistrati, come ad esempio Giancarlo Caselli, sempre a proposito della concessione dei permessi premio e dei requisiti per accedervi. In sostanza osservano che non è affidabile il mafioso che rivendica di essere stato un detenuto modello, visto che il rispetto formale dei regolamenti carcerari è una regola del codice della mafia. Ma è così?

«Ho sentito molte volte queste osservazioni in questi giorni. Intanto diciamo che questa visione sminuisce di molto l’osservazione che negli Istituti penitenziari si fa sui detenuti per mandato della magistratura di sorveglianza. A fondamento della concessione, ad esempio di un permesso premio, non si tratta di valutare solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Quando parliamo di detenuti con profili particolarmente impegnativi, come quelli che oggi ci occupano, si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio con rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere. Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto, si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Non è quindi la buona condotta intesa come mera assenza di rilievi disciplinari ad essere parametro importante per la concessione, ma un complessivo atteggiamento dal quale si possa dedurre l’allontanamento del detenuto dallo stile di vita pregresso. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento».

Quindi l’ottenimento di un beneficio è frutto di un percorso realmente intenso?

«Certamente. E quando il magistrato di sorveglianza valuta il caso specifico deve avere a disposizione una istruttoria che consideri tutte gli elementi di cui ho parlato. Parlare della sola buona condotta è uno sminuire il lavoro che si fa in carcere. Per esempio limitarsi a segnalare che un detenuto non ha mai avuto un rapporto in carcere, ecco questo non risponde alle esigenze richieste per la valutazione, che sono invece molto più intense. Queste valutazioni valgono anche quando si parla di collaboratori di giustizia: la differenza sta nel fatto che questi ultimi godono di una speciale legislazione premiale che gli consente l’accesso alla valutazione sulle misure in modo molto anticipato, in relazione con il loro contributo che, certamente, è particolarmente significativo della rescissione dei loro legami con la criminalità organizzata. Invece il detenuto per reati di mafia, che non collabori con la giustizia, dovrà attendere i termini di legge ( per un permesso premio ad esempio almeno dieci anni di pena, o quindici per i recidivi) e si valuteranno i progressi che ha fatto nel tempo».

C’è stata anche la sentenza Cedu sulla concessione della liberazione condizionale agli ergastolani non collaboranti. Se non dovesse intervenire il legislatore, potrebbe esserci una sentenza pilota?

«La sentenza Viola è stata definita una sentenza quasi pilota, perché ha dato una chiara indicazione di sistema all’Italia: si può dire che l’indicazione per un intervento preferibilmente del legislatore è sicuramente presente e non si può escludere che, se non interverrà, vi saranno nuovi ricorsi alla Cedu e il tema della liberazione condizionale potrebbe essere portato in Corte costituzionale. Per quanto riguarda il resto occorre leggere le motivazioni della sentenza della Consulta perché quello che la Cassazione e il Tribunale di Perugia remittenti chiedevano, era riferito in particolare al permesso premio con le sue caratteristiche, cioè come misura che serve a costruire i mattoni del percorso di risocializzazione, uno strumento che possa essere sperimentato per qualunque detenuto anche condannato alla pena dell’ergastolo. Ora attendiamo di leggere come la Corte costituzionale declinerà questa apertura sul permesso premio».

I penalisti: «L’applicazione del 41 bis a rischio incostituzionalità». Damiano Aliprandi l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. I penalisti all’Antimafia. Catanzariti: «C’è il sospetto che il 41 bis venga utilizzato per costringere alla collaborazione il detenuto. «Abbiamo una posizione fortemente critica al 41 bis per come si è evoluto. Noi comprendiamo le finalità del regime differenziato nato come misura transitoria ed eccezionale sull’onda delle stragi e che è volto a recidere ai boss mafiosi i contatti con l’organizzazione di appartenenza, ma le misure ulteriormente afflittive e l’illimitata e reiterata applicazione rischiano di mettere in discussione la natura stessa del 41 bis».

È ciò che ieri ha sostenuto l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere delle Camere penali, durante l’audizione presso la commissione antimafia presieduta da Nicola Morra e volta ad approfondire i profili applicativi del 41 bis. Catanzariti, ringraziando la commissione per averli invitati, ha ricordato l’importanza dell’osservatorio carceri composto dagli avvocati penalisti che svolgono le visite in carcere per monitorarne le condizioni, sottolineando l’importanza delle visite di ferragosto organizzate dal Partito Radicale e dove – grazie alla disponibilità del Dap – gli avvocati stessi hanno potuto visitare ben 60 carceri. L’unica osservazione che ha voluto però sottolineare è la mancata autorizzazione del Dap ai penalisti di poter verificare le condizioni del 41 bis. «Tale regime – ha ricordato sempre Catanzariti – fin dal 1995 ad oggi è sotto l’occhio degli organismi internazionali di cui noi come Paese facciamo parte, come ad esempio il comitato europeo per la prevenzione della tortura del consiglio d’Europa che ultimamente ha redatto un rapporto proprio sul regime duro, ma attende ancora l’autorizzazione del governo italiano per renderlo pubblico». Come detto, il rischio che le corti superiori mettano in discussione il 41 bis è davvero concreto. «Questo perché diversi profili di applicazione non rientrano nel perimetro costituzionale e infatti – ha spiegato il presidente dell’osservatorio carcere – molto spesso la Consulta è dovuta intervenire per dichiarare incostituzionale alcune restrizioni del tutto ingiustificate». In sintesi, si rischia di andare al di fuori dalla finalità del regime del 41 bis e quindi, di fatto, travolgendo il senso dell’articolo 27 della costituzione. «C’è il sospetto – sottolinea sempre Catanzariti – che il 41 bis venga utilizzato per costringere alla collaborazione il detenuto e quindi va contro la finalità stessa per il quale era stato introdotto». A proposito della transitorietà, sempre il penalista ha evidenziato decine di casi di detenuti che sono ininterrottamente al 41 bis da oltre 20 anni. Infine ha ricordato il problema degli internati, cioè coloro che hanno già finito di scontare la pena ma rimangono al 41 bis come misura di sicurezza, oppure le aree riservate del regime duro che sono un doppio isolamento. Un vero e proprio super 41 bis. Sulla stessa linea l’avvocata Piera Farina, esponente dello stesso Osservatorio e che conosce molto approfonditamente la questione del 41 bis, la quale – sempre in commissione antimafia – ha osservato che con la riforma del 2009 «sono state introdotte restrizioni sulle ore all’aria aperta e sui colloqui con i familiari che nulla hanno a che vedere con le finalità del 41 bis. Bisogna intervenire sulle criticità per rendere l’applicazione dello strumento conforme alla Carta costituzionale».

Luigi Manconi al Dubbio: «Vi racconto come funzionano le visite al 41 bis». La Lettera del Professore, già Presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, su Il Dubbio l'8 Novembre 2019. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto. Caro Direttore, ricorro alla sua ospitalità per alcune puntualizzazioni in merito alla “vicenda Nicosia”. Antonello Nicosia è stato arrestato lunedì scorso con l’accusa di associazione mafiosa perché avrebbe recapitato fuori dal carcere i messaggi provenienti da alcuni boss della mafia, con cui aveva parlato durante le visite effettuate insieme a una parlamentare, della quale era assistente. Si tratta di precisazioni doverose, considerati gli attacchi – alcuni brutali, altri sinuosi- indirizzati contro l’attività svolta nelle carceri dai Radicali e dalla cosiddetta "lobby garantista" ( alla quale mi onoro di appartenere). Nella scorsa legislatura, come presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, ho visitato numerosi istituti penitenziari in tutta Italia: reparti con detenuti comuni, di alta sicurezza e oltre una decina di sezioni speciali con detenuti reclusi in regime di 41 bis. Nel corso di tutte queste visite ispettive, la nostra attività veniva costantemente accompagnata dal direttore dell’istituto e i nostri movimenti venivano seguiti passo passo, attentamente vigilati e tenuti sotto occhiuta sorveglianza da parte di agenti della polizia penitenziaria e, nel caso dei reparti a regime speciale, dagli agenti del Gom ( gruppo operativo mobile), il corpo ad altissima qualificazione della polizia penitenziaria che provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al massimo controllo. Aggiungo che oggetto dei colloqui avuti con i detenuti – e tra questi anche esponenti di vertice delle organizzazioni criminali mafiose e camorriste reclusi in 41 bis – sono sempre state, come la legge e l’ordinamento penitenziario prevedono, informazioni relative allo stato di salute dei detenuti, alla condizione di carcerazione e a eventuali diritti che si ritenevano violati all’interno di quelle celle. Niente di più. Per questi motivi non posso che provare stupore di fronte a quanto emerge dalla vicenda Nicosia: perché sarebbe stato consentito a qualcuno di potersi muovere con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Nel caso fosse confermato quanto emerso nei giorni scorsi, la responsabilità maggiore sarebbe da attribuirsi a chi non ha ottemperato agli obblighi che la legge e il regolamento penitenziario prevedono. Ma tutto ciò come può giustificare la tentazione, così sfacciatamente evidente, di limitare l’attività ispettiva nelle carceri e colpire una prerogativa che per legge appartiene ad alcuni soggetti istituzionali? E, cioè, ai parlamentari, ai consiglieri regionali, al Garante nazionale, a quelli regionali e – ci auguriamo- ai garanti comunali. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto e di quella norma che prevede la partecipazione della comunità esterna all’attività di rieducazione? Tutto ciò, com’è evidente, previa autorizzazione e sotto la sorveglianza del personale penitenziario. Grazie dell’attenzione e cordiali saluti.

L’ergastolo ostativo è incostituzionale: sì al permesso premio. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario. Damiano Aliprandi il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. D’ora in poi i magistrati di sorveglianza avranno il potere di poter concedere o meno il permesso premio agli ergastolani ostativi che hanno scelto di non collaborare con la giustizia. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Una sentenza storica, quella della Consulta, perché per la prima volta, da quando fu introdotto l’ergastolo ostativo tramite un decreto emergenziale dopo la strage di Capaci, viene dichiarata incostituzionale quell’automatica presunzione di assoluta mancata rieducazione di una specifica categoria di detenuti e precludendo ad essi l’accesso al beneficio penitenziario. Tramite una nota, la Consulta ha sottolineato che tale concessione può essere data sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte – pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti – ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Cosa accadrà ora? Anche se il parlamento non dovesse metterci mano, riscrivendo l’articolo 4 bis come prevedeva, d’altronde, la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, da oggi in poi i detenuti ergastolani potranno fare istanza alla magistratura di sorveglianza per richiedere il beneficio penitenziario. Ovviamente sarà il giudice a valutare se ci sia stata o meno la cessione di pericolosità, e lo farà anche in base alle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia. Da ribadire che ciò riguarda esclusivamente il permesso premio e non gli altri benefici come ad esempio la liberazione condizionale come la sentenza della Corte Europea di Strasburgo valutando il caso Viola. Ma inevitabilmente, tale sentenza di illegittimità costituzionale del comma uno del 4 bis, apre le porte alla questione degli altri benefici preclusi a prescindere per la mancata collaborazione. Quindi, se il parlamento non riscrive da capo il 4 bis, magari facendolo ritornare al primo decreto voluto da Falcone, volto ad un discorso premiale della collaborazione, ci saranno altri giudici – di sorveglianza e di cassazione – che potrebbero sollevare questioni di illegittimità costituzionale anche per gli altri benefici della pena. Prima del 1992, l’ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell’incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità potrebbe in sostanza ritornare per chi ha svolto un percorso trattamentale volto alla visione critica del passato e alla riabilitazione come prevede la costituzione italiana tutta centrata su una pena che sia proiettata verso la libertà. Non a caso, la parola “ergastolo” non è stata menzionata dai padri costituenti. La decisione della Consulta, arriva in concomitanza con la laurea in giurisprudenza, con tanto di 110 e lode, conseguita al carcere di Rebibbia dall’ergastolano ostativo Filippo Rignano. Ha 63 anni ed è in carcere dal 1993. «Quando l’hanno arrestato aveva solo la seconda elementare – annuncia il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa -, oggi, anche grazie all’impegno e alla dedizione dei docenti e dei tutor dell’Università di Tor Vergata, ha discusso una tesi di laurea in diritto costituzionale sulla sua condizione giuridica, di condannato all’ergastolo senza possibilità di revisione, conseguendo il massimo dei voti: 110 e lode. Speriamo che la Corte costituzionale consegni alla storia la brutta pagina dell’ergastolo ostativo e dia anche a lui la possibilità di essere valutato da un giudice per il reinserimento sociale che la Costituzione prescrive a beneficio di qualsiasi condannato». E così è stato.

Ergastolo, incostituzionale non concedere permessi ai mafiosi anche se non collaborano. La Consulta fa cadere il divieto per i condannati che abbiano dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo e se l'autorità ha acquisito prove che non c'è più partecipazione all'attività criminale. La Corte costituzionale stabilisce che si valuti caso per caso. La Repubblica il 23 ottobre 2019. Cade il divieto assoluto per gli "ergastolani ostativi" di accedere a permessi premio durante la detenzione. La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis, comma 1, dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualità della partecipazione all'associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, spiega Palazzo della Consulta, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. Il comunicato dell'Ufficio Stampa della Corte costituzionale spiega infatti: "La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia". "In attesa del deposito della sentenza - fa sapere l’Ufficio stampa della Corte - a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo". "In questo caso, la Corte - pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti - ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica".

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 24 ottobre 2019. È la sentenza che chiude un' epoca nella legislazione antimafia: la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l' articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Il senso è chiaro agli addetti ai lavori. Finisce per incostituzionalità il cosiddetto ergastolo "ostativo", chiamato così perché era di insormontabile ostacolo ai benefici carcerari. Ringraziano gli ergastolani destinati finora a morire in carcere, quelli che gli avvocati chiamano «sepolti vivi». E entra in allerta rosso lo Stato. Il ministro Alfonso Bonafede ha già mobilitato gli uffici perché la «questione ha la massima priorità». È una realtà poco conosciuta, quella dell' ergastolo "ostativo" che interessa circa 1250 ergastolani (in genere condannati per mafia) su 1790 che in Italia sono stati condannati all' ergastolo. Già, perché in Italia gli ergastoli sono di due tipi: ce n' è uno normale che lascia qualche speranza di uscire di cella, scontati almeno 30 anni di detenzione e dimostrata la rottura con la vita precedente; e ce n'è un altro definitivo, il «fine pena mai» che terrorizza i mafiosi. Funziona così dal 1992. Sull'onda dell' emozione per l'omicidio di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta, lo Stato inasprì fortissimamente le norme sull' ergastolo. Fu deciso che per alcuni reati di grave allarme sociale la cella doveva restare chiusa a vita. Allo stesso tempo fu stabilito che si poteva derogare soltanto se il mafioso o il terrorista avessero collaborato con lo Stato. Di qui il dilemma: o si diventava pentiti, o era carcere a vita. Carcere peraltro reso durissimo da un altro articolo dell' ordinamento penitenziario, il 41-bis, che impedisce i contatti del detenuto con l' esterno. Ecco, la Corte costituzionale, facendo il paio con una decisione della settimana scorsa della Corte europea dei diritti dell' uomo, ha stabilito che quel "dilemma" è incostituzionale. In futuro ogni ergastolano, mafioso compreso, potrà rivolgersi al giudice di sorveglianza per chiedere i benefici carcerari (che possono essere i permessi-premio, o la semilibertà, o la possibilità di lavoro esterno) in quanto l' automatica chiusura dell' articolo 4-bis contrasta con il principio costituzionale che «le pene devono tendere alla rieducazione». Ventisette anni dopo quel fatale 1992, la Corte costituzionale dice che la collaborazione non può essere il requisito unico per valutare un mafioso all' ergastolo; ma ci sono altri requisiti: se si può escludere la partecipazione all' associazione criminale, o che non siano più collegamenti con la criminalità organizzata. Ovviamente, il condannato deve avere dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. «La presunzione di "pericolosità sociale" del detenuto non collaborante - scrive la Corte - non è più assoluta, ma diventa relativa. Può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere, nonché sulle informazioni di varie autorità». E' palpabile a questo punto l'imbarazzo della politica e l'allarme della magistratura. «È un varco potenzialmente pericoloso», avverte il pm antimafia Nino Di Matteo, ora al Csm. «La mafia si può riorganizzare», gli fa eco Sebastiano Ardita, altro pm antimafia al Csm. Cauto il commento di Nicola Zingaretti: «Una sentenza un po' stravagante, non mi sento in sintonia». Matteo Salvini invece urla allo scandalo: «Mi sale la pressione... Ma che testa hanno questi giudici? Vedremo se è possibile ricorrere perché è una sentenza che grida vendetta. O proviamo a cambiare la sentenza oppure la Costituzione, se è questa l' interpretazione che ne viene data». 

Corte Costituzionale: ergastolo eccessivo, si ai premi a mafiosi e terroristi. I giudici hanno accolto le richieste della Corte Europea; no all'ergastolo ostativo. Via libera ai permessi. Panorama il 24 ottobre 2019. Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano. Bastano questi due nomi per raccontare chi sono i detenuti condannati all'ergastolo in Italia. Parliamo di persone responsabili di centinaia di omicidi, uomini che hanno guidato la Mafia siciliana con il suo giro di droga, di affari, di estorsioni, di minacce, di reati. Delinquenti che si sono macchiati dei peggiori reati possibili e che in alcuni casi non hanno nemmeno avuto la forza di pentirsi e rinnegare il loro operato. Oggi la Corte Costituzionale ha accolto la richiesta della Corte Europea dei diritti dell'uomo e stabilito che l'ergastolo ostativo sia eccessivo, inumano, incostituzionale. E così anche Giovanni Brusca, anche Bernardo Provenzano potranno godere di permessi premio. Tutto in nome dell'umanità. Quella che dovremmo avere verso chiunque perché una persona resta pur sempre una persona e va trattata in maniera dignitosa secondo i giudici di Bruxelles. Perché anche loro hanno il diritto a rivedere i prori cari, le famiglie, gli amici, la casa. Perché la punizione deve avere comunque un limite. Loro...Verrebbe da chiedere dov'è l'umanità verso i parenti delle persone che assassini, mafiosi e terroristi hanno ucciso in nome del crimine, di un ideologia, della violenza fine a se stessa? Dov'è l'umanità verso chi ha perso un padre, un figlio (sciolto nell'acido), una moglie? Dov'è l'umanità verso le famiglie di agenti di Polizia o uomini delle forze dell'ordine che hanno pagato con la vita il loro spirito di sacrificio ed il loro amore verso la nazione? Magari i giudici della Consulta avrebbero dovuto chiedere a queste vedove, ai padri senza figli, alle famiglie distrutte un'opinione. Magari avrebbero dovuto farsi raccontare com'è la vita dopo una morte di un caro. Si sarebbero sentiti dire che il dolore è per sempre, che il vuoto incolmabile, che la rabbia ormai un'amica. Oggi lo Stato ha deciso di essere "umana" verso i violenti ed "inumana" verso le vittime. Non è la prima volta, ma ogni volta sembra davvero assurdo e sbagliato.

Ergastolo ostativo, la corte ha deciso: al mafioso non si può negare «la speranza». Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2019. Milena Gabanelli discute di ergastolo ostativo e della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo con Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Il 13 giugno 2019 una sezione del tribunale di Strasburgo si esprime contro l’esclusione dei benefici penitenziari per i detenuti condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo: nell’ordinamento italiano, questi detenuti non hanno diritto alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi premio. Lo Stato italiano ricorre, chiedendo la pronuncia della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo e sottolineando che il divieto-preclusione sia da considerare un caposaldo della legislazione contro il crimine organizzato: come spiegano coloro che lo hanno combattuto, i legami con mafia, ‘ndrangheta e camorra sono difficili da recidere. L’ergastolo ostativo era stano infatti introdotto nell’ordinamento italiano nei primi anni Novanta, per rafforzare le misure contro le grandi organizzazioni criminali dopo le stragi con cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad ottobre la Grande Camera della Corte europea ha ritenuto il ricorso inammissibile. La pronuncia si innesta sul ricorso presentato dal noto costituzionalista Valerio Onida per conto di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. Dopo essere stato sottoposto per sei anni al regime di carcere duro regolato dall’articolo 41 bis, Viola ne è uscito e ha chiesto di ottenere un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Le sue richieste sono sempre state rifiutate sulla base dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario italiano, secondo il quale per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per questi tipi di reato devono prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Viola invece si è sempre dichiarato innocente. Dopo il ricorso presentato da Onida, la Corte europea ha stabilito che l’ergastolo ostativo, cioè «il fine pena mai», non è compatibile con l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani. Anche l’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene devono tendere «alla rieducazione del condannato». Nel 2003 la Corte Costituzionale italiana aveva difeso l’ergastolo ostativo, sostenendo che la mancata collaborazione con la giustizia sia una scelta del condannato. Pochi giorni fa, però, il massimo tribunale italiano ha dichiarato l’ergastolo ostativo sancito dall’articolo 4 bis incostituzionale, e ha affermato che anche ai mafiosi che non collaborano possono essere concessi permessi premio. Una Corte però spaccata poiché 7 giudici sarebbero stati contrati e 8 favorevoli. Quel che è certo è che la procedura è complessa: devi aver scontato almeno 10 anni di carcere, deve esserci il parere favorevole dell’assistente sociale, del Giudice del Tribunale di Sorveglianza, devono essere sentiti i pareri dei magistrati (che potranno ricorrere contro un parere favorevole non condiviso, fino in Cassazione), della procura antimafia, del Prefetto. Se sono tutti concordi sul fatto che il detenuto si è comportato in modo esemplare, che non ha più contatti con le cosche ed ha manifestato la volontà di redimersi, allora potrà ottenere un permesso premio. I magistrati che da 40 anni combattono mafia camorra e ‘ndrangheta sostengono che non c’è un solo detenuto per mafia che abbia mai avuto una sanzione, sono tutti detenuti modello, proprio per continuare a mantenere i contatti. Spiegano che è molto difficile provare la scissione con la cosca di appartenenza, e quando emerge è per puro caso, e all’interno di altre indagini, e i contatti spesso vengono mantenuti tramite gli avvocati, i cui colloqui non sono monitorabili. Difficile prendere posizione, si può prendere atto che questa pronuncia della Corte è stata presa sul serio, mentre tutte le altre che riguardano le condizioni disumane delle carceri italiane no, e continuiamo a pagare multe come se nulla fosse. La pena ha una funzione riabilitativa, e la riabilitazione passa attraverso il lavoro — lo dice la legge. Il nostro sistema, molto sensibile ai diritti umani, non garantisce a tutti i carcerati, che una volta scontata la pena usciranno, la possibilità di lavorare durante il periodo di detenzione. Infatti il 70% torna a delinquere.

Penalisti contro la Gabanelli. Querelata la giornalista del Corriere. Luca Rocca Il Tempo, 1 novembre 2019. Stavolta i penalisti non potevano far finta di nulla, ed è finita com'era ovvio che finisse, vale a dire con la querela dell'Unione camere penali contro Milena Gabanelli, rea di aver accusato gli avvocati dei mafiosi di far da tramite fra i boss in carcere e le loro cosche di appartenenza. Tutto ha avuto inizio tre giorni fa, quando la Gabanelli ha dedicato la sua rubrica "Dataroom" sul Corriere Tv alle sentenze con le quali la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Consulta hanno "bocciato" l'ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio. Partendo dal presupposto che è difficile accertare se davvero il mafioso in carcere ha reciso o meno i contatti con la sua cosca, la Gabanelli ha sostenuto che "migliaia di atti processuali, nel corso di quarant'anni, hanno dimostrato che casualmente emerge il fatto che il tizio che è in carcere ha ancora contatti con la cosca, e lo ha attraverso gli avvocati (i cui colloqui in carcere, ndr) non sono monitorabili". Per la giornalista, dunque, in molti casi, come dimostrerebbero gli atti giudiziari, i legali dei mafiosi farebbero da tramite fra i propri clienti e le cosche. Affermazioni che hanno provocato la reazione di Giandomenico Caiazza, presidente dell'Unione camere penali: "Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti", ha affermato il penalista, prima di domandarsi se sia questo "il giornalismo d'inchiesta nel nostro Paese". Poi l'annuncio, con un'inevitabile punta di sarcasmo, della querela: "La signora Gabanelli verrà ora a raccontarci in Tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine ad una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi".

La reazione dei legali, i penalisti querelano Milena Gabanelli. Il Dubbio l'1 Novembre 2019. Caiazza (Ucpi): «Sarebbe questo dunque il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese, uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti». Il presidente delle Came- re penali Gian Domenico Caiazza annuncia querela nei confronti di Milena Gabanelli per le affermazioni sulle asserite «collusioni» grazie alle quali i mafiosi in carcere riuscirebbero a comunicare con le cosche tramite i propri avvocati. La giornalista, si legge in una nota del leader dei penalisti, «si è preoccupata in questi giorni di avvertire i suoi affezionati lettori che i detenuti per mafia in regime di massima sicurezza mantengono i contatti con le cosche di appartenenza tramite i propri difensori, i cui colloqui non sono monitorabili», rileva Caiazza. «Questo emergerebbe, a detta della giornalista, da migliaia di atti processuali, sebbene in modo tardivo e casuale. Insomma, la collusione è la regola, il suo accertamento purtroppo solo episodico», aggiunge. «Sarebbe questo dunque il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese, uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti. Gabanelli verrà ora a raccontarci in tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine a una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi». Il presidente dell’Ucpi ricorda che «a nessuno è concesso farsi beffa con tanta disinvoltura della dignità altrui; e sarà bene che Gabanelli ricordi che aggredire la libertà e la funzione del difensore significa, da che mondo è mondo, aggredire la libertà di tutti i cittadini, Gabanelli compresa».

Ergastolo ostativo, ecco i mafiosi che potrebbero chiedere i permessi (e le tre condizioni per averli). Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Leoluca Bagarella, Michele Zagaria, Giovanni Riina, Francesco Schiavone, Nadia Desdemona Lioce, Giuseppe Graviano. Quella della Cassazione è stata una scelta contrastata, passata per un solo voto: 8 a 7. Si applica anche a chi sta scontando pene non perpetue, come i trafficanti di droga. L’elenco dei potenziali destinatari della pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo è lunghissimo: non solo i 1.106 ergastolani «ostativi» (quasi tutti, 1.003, rinchiusi da oltre vent’anni), ma pure i condannati a pene non perpetue finora esclusi da permessi premio e altri benefici a causa della mancata collaborazione con i magistrati. Mafiosi, terroristi, ma anche trafficanti di droga e di essere umani, contrabbandieri, sequestratori e responsabili di altri gravi reati come la pedopornografia. La lista comprende tutti i principali boss di mafia, camorra e ’ndrangheta: Leoluca Bagarella e il nipote Giovanni Riina (figlio di Totò), gli stragisti Filippo e Giuseppe Graviano; i casalesi Francesco «Sandokan» Schiavone e Michele Zagaria, l’ex «re» di Ottaviano Raffele Cutolo, i capi delle ’ndrine di Gioia Tauro Domenico e Girolamo Molè. In teoria ci sarebbero anche i neo-brigatisti rossi Nadia Lioce e Roberto Morandi, ma nel loro rifiuto di qualunque dialogo con lo Stato rientra anche la mancata richiesta dei benefici carcerari. E tanti nomi per lo più sconosciuti alle cronache. A cominciare dal mafioso catanese Salvatore Cannizzaro e dallo ’ndranghetista di Reggio Calabria Pietro Pavone, i due casi finiti davanti alla Consulta dai quali è derivata la decisione di ieri. La sentenza «è una breccia nel muro di cinta del fine pena mai», affermano soddisfatti i dirigenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino. E in effetti di breccia si tratta. Uno spiraglio. Perché pur dichiarando incostituzionale l’automatismo tra mancata collaborazione con i magistrati e impossibilità di accedere ai permessi-premio per uscire di prigione qualche ora o qualche giorno, i 15 «giudici delle leggi» non ne hanno stabiliti altri per cui a ogni eventuale domanda corrisponderà una concessione. Anzi: hanno introdotto esplicite e stringenti condizioni (difficili da applicare ai nomi noti di cui sopra) all’esito di una discussione in camera di consiglio approfondita e non semplice. Conclusa con una decisione presa con un solo voto di scarto: 8 favorevoli e 7 contrari. Questi ultimi espressi da chi si preoccupava di non intaccare le scelte di politica criminale compiute dopo le stragi del 1992. Come ricordato dall’Avvocatura dello Stato che chiedeva di rigettare le eccezioni di incostituzionalità, la norma sotto esame serviva ad aumentare la sicurezza della collettività perché era un incentivo ai «pentimenti» utili a combattere le mafie. Ed era stata inserita nell’ordinamento per impedire anche solo il tentativo di boss e gregari di tornare a dare manforte alle organizzazioni criminali. Dunque una misura eccezionale per fronteggiare una situazione eccezionale (la presenza delle organizzazioni criminali), sebbene poi il divieto dei permessi a chi non collabora sia stato esteso ad altri reati slegati dalla mafia. Alla fine ha prevalso però l’idea che il silenzio con i magistrati (che può derivare da ragioni diverse dal continuare ad essere un affiliato ai clan) non possa essere l’unico indice per valutare la presunta pericolosità sociale del condannato. D’ora in avanti i giudici potranno così valutare il grado di risocializzazione del condannato «non collaborante», verificando però almeno tre condizioni che fanno da contrappeso all’abolizione della «presunta pericolosità assoluta»: la «piena prova di partecipazione» al percorso rieducativo durante la detenzione; l’acquisizione di elementi concreti per escludere «l’attualità della partecipazione all’associazione criminale»; la mancanza del «pericolo del ripristino» di quei collegamenti. Un tentativo di bilanciamento di interessi contrapposti (individuali e collettivi) per una decisione faticosa e contrastata.

Gherardo Colombo: «Il carcere non risolve, dopo anni mi sono ricreduto». Giulia Merlo il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Parola all’ex Pm Gherardo Colombo: «L’aumento delle pene serve a farci sentire innocenti». «Nonostante la lotta alla mafia sia stata fatta anche con misure che travalicano I limiti della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora». Ogni magistrato si interroga sul senso della pena: che la chieda o che irroghi. Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, si risponde così: «Da giovane giudice credevo nella funzione educativa del carcere, della punizione. Oggi, dopo aver conosciuto le prigioni e anche molti che vi sono finiti, conosco la distanza immensa tra quanto scritto in Costituzione e la realtà delle cose. E non credo il carcere sia uno strumento giusto».

Eppure in Italia far tintinnare le manette è sempre stata una cifra del legislatore.

«In alcuni periodi sono stati presi provvedimenti in direzione diversa. Di solito a causa di eventi esterni, però. Penso alla sentenza Torregiani, con la quale la Cedu ci condannò pesantemente per la condizione delle nostre carceri e dunque si presero provvedimenti per prevenire il sovraffollamento. Nel giro di qualche anno, tuttavia, siamo tornati quasi agli stessi numeri».

Come mai è così impensabile invertire la rotta?

«Anche per timori elettorali. Pensi alla riforma dell’ordinamento penitenziario a cui lavorò il ministro Orlando: gli Stati generali dell’esecuzione penale e le tre commissioni di riforma erano arrivate a stendere anche l’articolato, finì tutto praticamente in nulla».

Invece le leggi che inaspriscono le pene vengono approvate a furor di popolo, come nel caso del reato di evasione fiscale.

«E’ vero, ma io credo che la fede salvifica nelle manette non tenga conto della relazione tra lo strumento e le conseguenze che esso produce. Le faccio l’esempio della corruzione: sono anni che si aumentano le pene, ma il fenomeno corruttivo sostanzialmente rimane invariato».

E dunque perchè si continuano ad aumentare le pene, se i fatti dimostrano che non serve?

«Perchè è la strada più semplice, e permette di guadagnare il consenso dell’opinione pubblica. Quel che però non si ottiene, purtroppo, è di mettere a fuoco il problema».

Perchè il giustizialismo paga, elettoralmente parlando?

«Prima facie sembra strano, considerando che a fronte di una maggior richiesta di sicurezza, i reati in Italia continuano a diminuire. E questo, pur con un processo penale disastrato, anche per quel che riguarda l’esecuzione».

Lei come se lo spiega?

«Il carcere rassicura. Da un lato, logicamente, si pensa che le persone in carcere non possono commettere reati ( ma si dimentica che la gran parte delle pene è temporanea), e chi ha subito una detenzione non conforme ai principi costituzionali, quando esce torna facilmente a delinquere: la recidiva in Italia è molto alta. Dall’altro, pensare che i colpevoli stanno in carcere ci fa sentire tutti innocenti. Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci giusti, e per farlo la strada più semplice consiste nel guardare alle carceri: se i colpevoli stanno in prigione, noi, che stiamo fuori, siamo innocenti».

Il problema dunque è trovare un diverso deterrente alla commissione del reato. Quale altro strumento si potrebbe adottare?

«Prendiamo l’evasione fiscale. Perché gli italiani paghino le tasse, bisognerebbe convincerli che, con quel denaro, le istituzioni garantiscono i loro diritti: l’istruzione, la salute, la libertà personale e così via: non possono esistere diritti se non esistono le risorse per renderli effettivi. Per dire, il diritto all’istruzione esiste solo se esistono i soldi per pagare gli stipendi agli insegnanti. Poi il denaro pubblico andrebbe speso con maggiore oculatezza: in questo modo si toglierebbe un alibi a chi non paga le tasse e si giustifica sostenendo che i suoi soldi vengono sperperati».

Questo però non può valere per tutti i reati.

«Mi limito a una considerazione: nonostante l’impegno e i mezzi messi nelle indagini di Mani pulite, la corruzione è ancora qui. Nonostante l’impegno rilevantissimo nella lotta alla mafia, anche con misure che, a mio parere, talvolta travalicano il dettato della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora e sta progressivamente conquistando regioni che ne erano indenni. Allora mi chiedo: vogliamo osservare questi dati di realtà, per tentare una riflessione?»

La voce della magistratura, invece, rimane ancora molto orientata al carcere.

«È il loro lavoro, del resto: difficile pensare che chi manda in prigione la gente pensi che non sia utile. Però la invito a considerare che le voci che si fanno sentire di più nel sostenere la necessità del carcere sono poche, ripetitive, spesso di pm, raramente di giudici».

Anche lei, quando entrò in magistratura, la pensava così?

«A diciotto anni mi iscrissi a giurisprudenza per diventare giudice penale ( e non pubblico ministero), perché ritenevo che l’inflizione della pena fosse educativa e mi fidavo che quanto si legge nella Costituzione: che le pene non dovessero essere contrarie al senso di umanità, dovessero tendere alla rieducazione, che fosse vietata qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica sulle persone recluse. Non solo, entrai in magistratura con la voglia e l’intenzione di contribuire al lavoro della Corte costituzionale ( che decide su impulso del giudice) e, conseguentemente, del legislatore per l’adeguamento del nostro sistema penale alla Carta».

E poi?

«Entrai in magistratura nel 1974 e, nei primi tre anni, feci il giudice in dibattimento in una sezione specializzata nei reati di sequestro di persona, che allora erano molto diffusi e nella quale si infliggevano pene spesso non inferiori ai 20 anni. Nonostante credessi che la pena dovesse essere strumento educativo, mi accorsi che facevo molta fatica a infliggere pene. Così chiesi di passare all’ufficio istruzione».

Cosa ha imparato in tanti anni e tanti processi?

«Come le dicevo, credevo che la pena, circondata dalle garanzie costituzionali, fosse educativa. Notavo però che in carcere ci andava quasi esclusivamente la povera gente, quasi mai i "colletti bianchi". Pensavo che si dovesse riequilibrare la situazione applicando il carcere anche a questi, quando colpevoli. Progressivamente, tramite la lettura, l’approfondimento, la conoscenza delle condizioni concrete del carcere, rendendomi sempre più conto della distanza tra ciò che sta scritto nella Costituzione e quel che succede nella realtà, i dubbi sono diventati sempre più consistenti, ho iniziato a farmi domande per culminare con quella decisiva: è giusto il carcere, è efficace? Specie quando si incomincia a riconoscere come persone coloro che commettono reati».

Si diventa garantisti solo quando si viene toccati in prima persona dal sistema penale?

«La parola non mi piace, come non mi piace giustizialista. Io credo che si diventi "garantisti" quando si iniziano a considerare coloro che hanno commesso un reato esseri umani. Purtroppo la nostra società vive in un equivoco formidabile: la Costituzione è una legge di inclusione sociale, la cultura sta dalla parte dell’esclusione. Quando regola e cultura confliggono, a vincere è quest’ultima. Tanto che, alla fine, il legislatore finisce con il produrre leggi in sintonia con la cultura dominante e quindi in contraddizione con lo spirito della Carta».

Si può sciogliere, questo equivoco?

«Il problema è che alla fin fine si tratta di fede. Parlare di giustizia oggi è come mettere a confronto due tifoserie di calcio, dominate dalla passione ma non propense al dialogo. Questo rende molto difficile lavorare nella direzione giusta».

Se dovesse ipotizzare una strada?

«Le parlavo dei miei anni ad occuparmi di sequestri di persona a scopo di riscatto. Oggi il fenomeno è praticamente scomparso. Non credo che ciò sia dovuto all’aumento delle pene, ma all’introduzione del blocco dei beni, del divieto di pagare il riscatto. Il reato è diventato infruttifero, quindi si è smesso di commetterlo».

Ergastolo ostativo, bocciato il ricorso: benefici anche a mafiosi e terroristi. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 da Corriere.it. La Grande Camera della corte europea ha ritenuto inammissibile il ricorso dell’Italia contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Con la “sentenza Viola” del 13 giugno scorso (dal nome del ricorso presentato dall’ergastolano Marcello Viola) una sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva giudicato che l’ergastolo ostativo – ossia l’esclusione di qualunque beneficio per i detenuti condannati al carcere a vita per alcuni reati: mafia, terrorismo, e altri considerati particolarmente gravi – è contrario all’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti “inumani e degradanti”. La legge italiana, all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prevede che per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per quei reati debbano prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Un automatismo che secondo i giudici di Strasburgo condiziona e preclude la possibilità di reinserimento del detenuto nel sistema sociale. Contro questa decisione (che provocherebbe nuovi ricorsi dei molti ergastolani impossibilitati a chiedere i benefici, e probabili risarcimenti da pagare da parte dello Stato), il governo italiano aveva presentato ricorso chiedendo che a pronunciarsi fosse la Grande Camera della Cedu, ossia la sua più alta espressione. Sottolineando, fra l’altro, che proprio il divieto-preclusione sia da considerare un caposaldo della legislazione contro il crimine organizzato. La Grande Camera doveva pronunciarsi sulla ammissibilità dell’istanza italiana, prima ancora di entrare nel merito della questione. Il rigetto ha reso di fatto definitiva la precedente decisione che ha bocciato l’attuale formulazione dell’ergastolo ostativo, sul quale è stata chiamata a pronunciarsi anche la Corte costituzionale, nell’udienza del prossimo 22 ottobre.

Ergastolo duro ai mafiosi, la Corte dei diritti umani di Strasburgo rigetta il ricorso dell'Italia. Diventa operativa la decisione del 13 giugno che giudicava il "fine pena mai" come trattamento inumano e degradante. Il ministro Bonafede: "Non condividiamo assolutamente, faremo il possibile in ogni sede". Liana Milella l'08 ottobre 2019 su La Repubblica. Sull'ergastolo "duro" ai mafiosi la Corte dei diritti umani di Strasburgo (Cedu) dà torto all'Italia e non accoglie il ricorso del governo contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il cosiddetto "fine pena mai" in quanto - secondo la giurisprudenza della Corte - a chi è detenuto non si può togliere del tutto anche la speranza di un recupero, ma al soggetto in carcere va riconosciuta la possibilità di redimersi e di pentirsi ed avere quindi l'ultima chance di migliorare la propria condizione. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha espresso la sua contrarietà alla decisione della Cedu: "Non condividiamo e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e le ragioni di una scelta che lo Stato ha fatto, tanto anni fa, stabilendo che una persona può accedere anche ai benefici, a condizione però che collabori con la giustizia". Il guardasigilli ha aggiunto che "noi abbiamo un ordinamento che rispetta i diritti di tutti le persone ma che di fronte alla criminalità organizzata reagisce con determinazione". L'Italia, nel ricorso presentato a settembre aveva chiesto che il caso dell'ergastolo ostativo, previsto dall'Articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario, fosse sottoposto al giudizio della Grand Chambre, l'organo della Cedu che affronta i casi la cui soluzione può riguardare tutti i paesi della Ue. Lì, ad esempio, fu esaminata la controversia di Berlusconi contro la legge Severino (poi archiviata a seguito della sua riabilitazione) che si riferiva al diritto alla eleggibilità di un parlamentare condannato, quindi un caso che poteva avere riflessi giuridici in tutti gli Stati dell'Unione. In questo caso invece l'Italia, nel suo ricorso, spiega la specificità criminale del nostro Paese, la pericolosità stravista delle mafie, Cosa nostra, camorra, 'ndrangheta. Il ricorso motiva la ragione delle norme rigide sull'ergastolo spiegando che esse riguardano solo alcuni reati molto gravi - mafia, terrorismo, pedopornografia - e consentono una strategia severa contro chi, aderendo a un'organizzazione mafiosa o terroristica, si pone l'obiettivo di destabilizzare lo Stato. Ma l'orientamento della Cedu va in tutt'altra direzione. Proprio come dimostra il caso specifico affrontato il 13 giugno e la decisione presa dalla Corte e contestata dall'Italia.  Riguardava il ricorso a Strasburgo di Marcello Viola, un capocosca di Taurianova, detenuto per 4 ergastoli a seguito di omicidi, sequestri di persona, detenzione di armi. Ma per la Cedu quell'ergastolo "duro", che la legge italiana battezza come "ostativo", nel senso che impedisce la concessione di benefici, viola l'articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni disumane e degradanti, soprattutto nega la possibilità di un percorso rieducativo. Da qui l'invito all'Italia a rivedere la legge. Un invito, si badi, che non ha carattere perentorio, non rappresenta un obbligo, ma produce però come conseguenza una serie di altri ricorsi di detenuti che lamentano condizioni disumane, tant'è che a Strasburgo ce ne sarebbero già altri 24. Inoltre anche la Corte costituzionale italiana, il 23 ottobre, dovrà trattare il caso di Sebastiano Cannizzaro, un altro detenuto per mafia, che protesta per las mancanza di permessi. In realtà l'articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario (unito al 58ter), più volte rivisto dall'ordinaria stesura del 1975, dà una possibilità al detenuto quando dice espressamente che  i benefici - permessi premio, lavoro esterno, misure alternative al carcere, ma non la liberazione anticipata - possono essere concessi solo qualora chi sta in carcere decida di collaborare con la giustizia in modo da rompere in modo definitivo i suoi legami con l'organizzazione mafiosa. L'articolo dell'ordinamento specifica che "i benefici possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata". La ragione profonda dell'ergastolo "duro" sta proprio nel fatto che la specificità di un mafioso è quella di conservare per sempre, una volta affiliato a una famiglia criminale, il suo dovere di obbedienza. La questione dell'ergastolo ostativo divide profondamente il mondo della cultura giuridica tra coloro che sostengono la necessità di un carcere umano - come l'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo e l'ex senatore Luigi Manconi - e chi invece ritiene che aprire le maglie della carcerazione per i mafiosi significhi distruggere anni di politica contro le cosche. Sono soprattutto magistrati antimafia come Piero Grasso, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Luca Tescaroli, a sostenere questa seconda strada. Su cui sono allineati il ministro della Giustizia Bonafede e quello degli Esteri Luigi Di Maio, i quali hanno tentato, negli ultimi giorni, di far comprendere il danno che ricadrebbe sulla lotta alla mafia se l'ergastolo ostativo viene cancellato. Tutti ricordano che Totò Riina, indiscusso capo di Cisa nostra vino alla sua morte, nel "papello"  del 1993 in cui poneva le sue condizioni per negoziare con lo Stato citava espressamente l'ergastolo come misura da cancellare.

La Cedu conferma: «L’ergastolo ostativo è inumano e degradante». Damiano Aliprandi il 9 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La Corte di Strasburgo boccia l’Italia sull’ergastolo ostativo. Rigettata la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza del 13 giugno sul caso Marcello Viola. La Consulta il 22 ottobre deciderà se l’art. 4 bis è incostituzionale. Diventa definitivo il giudizio negativo della Corte Europea sull’ergastolo ostativo italiano. Il collegio dei cinque giudici competente ha rigettato la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza Cedu del caso Marcello Viola. Quindi diventa definitiva la sentenza emessa il 13 giugno dalla camera semplice della Corte europea, la quale condanna l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, ovvero per tortura e trattamenti inumani e degradanti. Il caso specifico, come detto, riguarda Marcello Viola. La sua pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Egli, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine all’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Ma i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione. I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4 bis, visto le numerose polemiche da parte degli esponenti di governo e l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo Renzi, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4 bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale. Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici. Questo, però, fino a quando non ci sarà una eventuale sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiari l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano. Ma la data già c’è. La Consulta, il 22 ottobre dovrà decidere se se la preclusione all’accesso dei benefici previsto dall’art. 4 bis è incostituzionale. Questo grazie al caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4 bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea. Una violazione della convenzione ora definitivamente riconosciuta anche dalla Corte Europea tramite la sentenza Viola. Ricordiamo ancora una volta che l’attuale 4 bis non ha nulla a che fare con l’intuizione di Giovanni Falcone. Quest’ultimo, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. La ratio non prevedeva l’esclusione dei benefici se c’era assenza di collaborazione: nel caso si doveva attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Mentre il secondo decreto legge, approvato dopo la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, ha introdotto un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario: senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Ed è ciò che i giudici della corte europea di Strasburgo hanno stigmatizzato, considerandolo, di fatto, una tortura. Anche perché, ebbene ricordarlo, non significa che automaticamente i detenuti per reati ostativi vengono liberati. Significa dare la possibilità ai magistrati – con l’ausilio del parere dell’antimafia – di valutare la concessione o meno dei benefici. Non sarà la mafia a ringraziare, ma lo Stato di Diritto.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 9 ottobre 2019. Vivono in «aree riservate», blocchi del carcere organizzati in modo da rendere impossibile qualsiasi contatto con altri detenuti. Perché secondo alcuni, un'occhiata fuggevole potrebbe essere un messaggio; il gesto impercettibile di una mano, una condanna a morte. Ma solo un boss ha osato dire di non poterne più dei rigori del 41 bis. È Michele Zagaria, capo del clan dei Casalesi in cella a Opera, che lo scorso febbraio durante un'udienza ha raccontato di vivere «una situazione disumana» e che nessun detenuto vuole trascorrere con lui l'ora d'aria per paura di microspie. Gli altri boss ostentano indifferenza per un regime inflitto da una giustizia che non riconoscono. Sono 1.250, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino, i detenuti sottoposti a ergastolo ostativo, pari ai due terzi dei 1.790 condannati a vita. Sono capoclan, mafiosi di grosso calibro ma anche picciotti con curriculum da killer, brigatisti rossi, terroristi, trafficanti di droga, sequestratori, chi si è macchiato di reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Rispetto agli ergastolani comuni, non hanno una prospettiva di vita diversa da quella dietro le sbarre, non possono chiedere la liberazione condizionale né le misure alternative alla detenzione o permessi. Sempre che non scelgano di collaborare. L'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario è stato introdotto per mettere i mafiosi di fronte a un bivio, come ha ricordato l'ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: essere fedeli a Cosa nostra e pagarne le conseguenze fino in fondo, oppure collaborare con lo Stato e cominciare il processo di ravvedimento previsto dalla Costituzione. Tra i boss irriducibili in regime di carcere duro ci sono Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Antonino e Rocco Pesce, Michele Zagaria, Giuseppe Pelle, Giovanni Strangio, Sebastiano Nirta. Tra i brigatisti Nadia Desdemona Lioce, uno dei capi delle Nuove Br condannata per gli omicidi di Marco Biagi e Massimo D'Antona e rinchiusa al 41 bis, oltre ai nomi di spicco della vecchia guardia come Rita Algranati, Cesare Di Lenardo, Fabio Ravalli, sua moglie Maria Cappello, Antonino Fosso, Rossella Lupo. E adesso per loro cosa cambia? «La decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo non induce alcun automatismo, ora si tratterà solo di ragionare. La legge italiana non cambia, la sentenza è un'indicazione all'Italia a modificare un sistema che si ritiene non in linea con la giurisprudenza della Corte», spiega Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Come sintetizza l'avvocato di Marcello Viola, Antonella Mascia, «non è che da domani escono tutti dalle carceri». Possono però chiedere che nei loro confronti vengano applicati i benefici concessi agli ergastolani e per farlo si rivolgeranno al giudice di Sorveglianza, che valuterà le situazioni personali, i percorsi di resipiscenza e deciderà caso per caso. Sarà la prossima mossa di Viola: «Andiamo davanti al tribunale di Sorveglianza dell'Aquila, per vedere eseguire questa sentenza che riguarda l'applicazione della misura individuale», anticipa il suo legale. Per ora, se l'Italia non rispetta le indicazioni della Corte di Strasburgo, il rischio è una multa. Rileva il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi: «Si tratta in realtà di una decisione che non ha una diretta esecutività e un'automatica applicabilità all'interno dell'ordinamento italiano. Nella sentenza della Cedu infatti lo Stato viene invitato a riformulare la normativa che prevede l'ergastolo ostativo in modo da non tener conto esclusivamente della mancanza di collaborazione con la giustizia. Sarà dunque compito del legislatore italiano trovare il necessario equilibrio con le particolarissime caratteristiche delle associazioni mafiose»». Ma dal 22 ottobre la situazione potrebbe registrare un'accelerazione: la Corte Costituzionale è chiamata a decidere se la norma è legittima o meno. Per il presidente emerito della Consulta Valerio Onida, che ha fatto parte del collegio di difesa di Viola, il carcere duro è «incostituzionale: bisogna che il legislatore modifichi la norma, se non lo facesse permarrebbe una violazione strutturale della Convenzione europea e si aprirebbe la strada a nuove condanne».

I mille «reclusi a vita», tocca alla Consulta decidere dopo la sentenza di Strasburgo. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. I giudici di sorveglianza dovranno valutare caso per caso. Marcello Viola, il pluriergastolano ’ndranghetista che aveva presentato il ricorso a Strasburgo, tornerà davanti al tribunale di sorveglianza dell’Aquila, città nella quale è detenuto, per vedersi applicare i permessi-premio e la liberazione condizionale che in passato gli erano stati negati. Gli altri condannati che si sono rivolti alla Corte europea — dovrebbero essere una ventina, ma non c’è un dato preciso — potranno fare altrettanto in attesa che i giudici europei decidano di applicare anche a loro i principi sanciti con la sentenza ribadita ieri. Ma il «popolo dell’ergastolo ostativo», che in teoria potrebbe cominciare a chiedere le misure alternative alla reclusione senza spiragli, ammonta a 1.106 persone (su un totale di 1.633 ergastolani definitivi); più della metà dei quali (628) rinchiusi da oltre vent’anni e 375 da più di 25. La gran parte sono accusati di associazione mafiosa; gli altri per omicidi o sequestri di persona aggravati da favoreggiamento dalla mafia, terrorismo, tratta di esseri umani, traffico di droga, pedopornografia e altri reati gravi. Nomi noti e meno noti: dal boss Leoluca Bagarella a Giovanni Riina, da Francesco «Sandokan» Schiavone a Michele Zagaria, fino alla neo-brigatista Nadia Lioce.In ogni caso, per loro non si apriranno indiscriminatamente le porte del carcere. In primo luogo perché — come spiega l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, che ha contribuito al ricorso di Viola a Strasburgo — «non ci sono automatismi», sebbene «lo Stato italiano abbia il dovere di rivedere la norma». Pena il pagamento di multe, prevede il costituzionalista Alfonso Celotto. Tuttavia, ammesso che l’Italia cancellasse subito la preclusione dei benefici penitenziari agli ergastolani condannati per quel gruppo di reati, sarebbero comunque i giudici di sorveglianza a decidere l’ammissione dei detenuti ai permessi o alle altre misure, valutando ogni volta le singole situazioni, dalla «pericolosità sociale» al «ravvedimento». E la vicenda del pentito Giovanni Brusca, il killer di mafia che in quanto pentito non è un ergastolano e dunque già gode di attenuazioni alla detenzione pura e semplice, dimostra che possono essere molto rigorosi. Ma a prescindere dalla Corte europea e da ciò che sceglieranno di fare governo e Parlamento, ad avere un effetto diretto sulla legislazione italiana sarà la decisione che dovrà prendere la Corte costituzionale dopo l'udienza del prossimo 22 ottobre. Quel giorno si discuteranno due eccezioni di incostituzionalità che ricalcano in buona parte la questione affrontata a Strasburgo. Due diverse ordinanze della Cassazione e del tribunale di sorveglianza di Perugia, infatti, hanno sollevato un dubbio che si sovrappone al «caso Viola»: il fatto che, come previsto dall’attuale articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, solo la collaborazione del condannato con i magistrati possa essere considerato il metro per non considerarlo più un pericolo per la società esterna, e quindi ammetterlo alla richiesta di misure alternative. Con questa norma, sostiene chi s’è rivolto alla Consulta, i giudici di sorveglianza non hanno la possibilità di valutare l’evoluzione del condannato verso quel reinserimento sociale che l’articolo 27 della Costituzione fissa come obiettivo della pena. Che deve valere per tutti. E proprio i permessi premio e le altre possibilità di uscire gradualmente dal carcere consentono di progredire su quel percorso che poi dev’essere valutato dalla magistratura. Con questi presupposti, l’esclusione automatica dei benefici per chi non collabora sarebbe in contrasto con la legge fondamentale della Repubblica. In più, la Cassazione pone un altro dubbio: che sia legittimo equiparare, tagliando fuori dall’accesso ai benefici entrambe le categorie, gli affiliati all’associazione mafiosa con chi è stato condannato ad altri reati con l’aggravante del favoreggiamento alla mafia o del «metodo mafioso». Sebbene nelle eccezioni sollevate davanti alla Consulta non se ne facesse cenno perché precedenti alle decisioni della Corte europea, è presumibile che i giudici costituzionali tengano in considerazione anche del verdetto di Strasburgo. E la loro sentenza avrà conseguenze immediate. In un senso o nell’altro.

Ergastolo duro bocciato, Gian Carlo Caselli: "A Strasburgo non conoscono la storia della mafia". Repubblica Tv l'8 ottobre 2019. La Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha rigettato il ricorso dell'Italia contro la sentenza che boccia l'"ergastolo duro", ovvero  il "fine pena mai". Gian Carlo Caselli, 46 anni in magistratura, ex procuratore capo di Torino e Palermo, non approva: “È una sentenza pericolosissima. Per la Corte di Straburgo va riconosciuta ai detenuti la possibilità di redimersi e di pentirsi. Ma i mafiosi non ne vogliono sapere di pentirsi. Hanno pronunciato un giuramento a vita. Consentire spazi di libertà vuol dire consentire l'attività criminale". Non solo: "L'isolamento dei mafiosi arrestati ha creato una slavina di pentimenti, ora che il quadro cambia, chi ha voglia di pentirsi ci penserà 300mila volte. La lotta alla mafia subirà dei rallentamenti”. Intervista di Antonio Iovane, Radio Capital.

(ANSA l'8 ottobre 2019) - L'Italia deve riformare la legge sull'ergastolo ostativo, che impedisce al condannato di usufruire di benefici sulla pena se non collabora con la giustizia. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo, rifiutando la richiesta di un nuovo giudizio avanzata dal Governo italiano dopo la condanna - che adesso diventa definitiva - emessa il 13 giugno scorso.

Luca Tescaroli (magistrato) per ''il Fatto Quotidiano'' l'8 ottobre 2019.L'iniziativa di abolire la pena dell' ergastolo viene in questi giorni riproposta. Sicuramente, merita massimo rispetto per le ragioni di umanità e giuridiche che la sottendono. L' abolizione era stata prevista nei progetti di riforma del codice penale del 1973 e in quello elaborato dalla commissione Grosso, e in occasione della riforma del rito abbreviato del 2000. Mi chiedo se sia eticamente accettabile la sua estensione al mafioso irriducibile e se sia compatibile con il proposito di contrastare efficacemente l' azione, il potere e la pericolosità delle strutture mafiose radicate nel nostro Paese. In proposito, si impone di riportare alla memoria cosa accadde agli inizi degli anni Novanta. I vertici di Cosa Nostra idearono e attuarono le stragi del 1992 e del 1993 con la prospettiva di ottenere, fra l' altro, proprio l' abrogazione dell' ergastolo, una volta raggiunta la consapevolezza che le condanne irrogate (fra le quali 19 all' ergastolo) nel giudizio di appello del maxi-uno, istruito dal pool guidato da Antonino Caponnetto, sarebbero divenute definitive. Perciò, eliminare il carcere a vita significa oggettivamente favorire la mafia, al di là dell' intenzione di chi si è fatto portatore della proposta. Al contempo, la proposta invia al mafioso un segnale pericoloso di interessata disponibilità delle classi dirigenti a interagire con il sistema mafioso e costituisce un segnale di debolezza e di indulgenza dello Stato, nei confronti dei cittadini e delle vittime di mafia, che inevitabilmente percepiscono un atteggiamento ingiustificato di buonismo nei confronti di chi è portatore di lutti e dolore, di chi li imprigiona nelle loro paure e si impadronisce dei proventi del loro lavoro senza fare nulla per meritarlo, attraverso l' estorsione. Non si può dimenticare mai che i componenti delle strutture mafiose continuano a controllare il territorio, inquinano il tessuto sociale ed economico del Paese e impediscono la fruizione delle garanzie collettive della libertà e della sicurezza. I mafiosi manifestano un' attitudine a generare violenza e morte che impone la loro perpetua sepoltura civile e un serrato isolamento dal mondo esterno per neutralizzare le loro condotte e l' interruzione dell' esercizio del loro potere anche dal carcere, attuabile con l' irrinunciabile regime carcerario di cui all' art. 41 bis O.P...I mafiosi non possono essere rieducati, perché non mostrano alcun segnale di resipiscenza e permangono in perpetuo all'interno del sodalizio, dal quale possono fuoriuscire solo con la morte o la collaborazione. Devono avvertire il peso dell' afflizione e la forza dello Stato, con il quale per troppo tempo hanno saputo e potuto convivere e trattare. In ogni caso, quand'anche dovessero dare segnali di mutato atteggiamento, l' ordinamento penitenziario già prevede la possibilità di affievolire il rigore della pena di cui si tratta. La perpetuità dell' ergastolo, infatti, non è assoluta: l' ergastolano può essere ammesso al lavoro all' aperto e alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena, se ha tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. La sanzione è ulteriormente riducibile, a seguito dell' applicazione dell' istituto penitenziario della liberazione anticipata, che consente di detrarre 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, se il detenuto partecipa all' opera di rieducazione. Ma non solo. Il rigore della pena può essere affievolito dalla concessione di permessi premio (per non più di 45 giorni all' anno, dopo dieci anni di detenzione, periodo che può essere ridotto di un quarto per effetto dell' applicazione della liberazione anticipata) e dalla semilibertà (con il limite dell' espiazione di almeno vent' anni di pena). Un ergastolano può essere liberato condizionalmente dopo diciannove anni e sei mesi, avendo già usufruito di 428 giorni di permesso. A ciò si aggiunga che l'ergastolo è stato ritenuto dalla Consulta incostituzionale per i minorenni, nei cui confronti quindi non potrà mai essere applicato. Pertanto, il proposito di abolire l' ergastolo trova in sé ben poche ragioni d' essere, visti gli istituti premiali già esistenti nella vigente legislazione. Se poi teniamo conto che tale pena è prevista da vari Paesi europei quali il Portogallo, la Spagna, la Germania che fortunatamente non conoscono le gravi problematiche del crimine mafioso, ci rendiamo conto di quanto singolare sia rinunciare alla forza deterrente di questa sanzione per camorristi, 'ndranghetisti o mafiosi irriducibili. D' altro canto, la general-prevenzione e la neutralizzazione a tempo indeterminato di certi criminali rientrano tra i fini della pena non meno della sperata emenda, come ha ricordato la Corte Costituzionale con la sentenza numero 264 del 22 novembre 1974. Gli stessi cittadini italiani hanno ritenuto che l' abolizione dell' ergastolo indebolisca inopportunamente l' apparato intimidativo, visto l' esito negativo del referendum abrogativo del 1981.

ERGASTOLO OSTATIVO, SABELLA: “DECISIONE CORTE EUROPEA È REGALO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA”. Da radiocusanocampus.it il 9 ottobre 2019. Il magistrato Alfonso Sabella è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Riguardo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’ergastolo ostativo. “Non è una decisione che è immediatamente esecutiva, però l’Italia deve comunque riformare le norme altrimenti rischia sanzioni a livello europeo –ha affermato Sabella-. Per come la vedo io, si tratta di un regalo alla criminalità organizzata. Il presupposto che finora ha tenuto, anche sul piano costituzionale, è che se tu fai parte di un’associazione di tipo mafioso e non ho le prove che ne sei uscito, non ho nessuna possibilità di provare a rieducarti. Questa norma ha funzionato e ha impedito a dei capi di riprendere il controllo dell’associazione. La prima volta che ho votato da bambino fu in un referendum per l’abolizione dell’ergastolo. A quei tempi ero contrario all’ergastolo. Poi ho cambiato idea quando ho conosciuto la mafia, la mafia stragista, quella che scioglieva i bambini nell’acido. E ho capito come l’ergastolo vero sia un’arma di cui lo Stato non possa fare a meno. Probabilmente il nostro governo riuscirà a trovare una soluzione, altrimenti l’impatto sarebbe devastante perché un migliaio di ergastolani potrebbe usufruire di permessi e questo potrebbe finire per creare nuovi fuggitivi e latitanti. Anche se bisogna pur sempre passare dalla magistratura di sorveglianza prima di dare i permessi. Un aspetto su cui molti non hanno ragionato è che queste norme hanno avuto anche una funzione salva vita dei magistrati. Quando il legislatore ha deciso di togliere discrezionalità ai giudici ha salvato la vita a molti di loro. Con la discrezionalità invece, ci sarà il giudice buono che ti dà i permessi e quello cattivo che ti tiene dentro. Questo significa sovraesporre i magistrati che interverranno più rigidamente nei singoli casi. Devo dire però che un po’ ce la siamo cercata. Abbiamo deciso di applicare strumenti come l’ergastolo anche ad altro tipo di reati per cui questi presupposti non ci stanno. Io sono rimasto malissimo quando è stato fatto morire Bernardo Provenzano al 41 bis, per un motivo di vendetta. Era accertato che da mesi era un vegetale. Lì abbiamo dato la dimostrazione che abbiamo usato quello strumento come forma di ritorsione, come forma di tortura. L’aggravante dell’agire al fine di agevolare l’associazione mafiosa è ormai un’aggravante che molte procure contestano a chiunque. E’ stato tolto il valore a questa aggravante. Io dico: gli strumenti che abbiamo per la lotta alla mafia sono preziosi, teniamoceli, ma applichiamoli solo ai casi in cui devono essere applicati. Bisognerebbe favorire i contatti fra l’ergastolano ostativo e le vittime dei reati che lui ha commesso. La giustizia riparativa può far bene, anche perché può dare all’ergastolano la possibilità di riflettere su quello che ha fatto e in alcuni rari casi può anche essere un percorso rieducativo”.

QUEI GIUDICI IGNORANO CHE COSA SIANO LE NOSTRE MAFIE. Francesco La Licata per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. La Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza che, alla luce delle argomentazioni proprie di un processo penale "normale", non può che essere definita ineccepibile e in linea con le tendenze della maggior parte dei paesi europei. Il recupero del detenuto deve essere l' obiettivo della condanna alla detenzione, che non deve presentarsi come disumana e senza speranza. E l'ergastolo, per definizione, non lascia spazi a molte aspettative. Ma è un paese normale l'Italia con le sue tre o quattro mafie? Quindi esistono altri argomenti che concorrono a considerare "pericoloso" il pronunciamento della Corte, senz' altro frutto di una cultura giuridica distante dalla nostra storia, lontana e recente. I giudici di Strasburgo non sanno cosa sono le organizzazioni criminali mafiose che da prima dell' Unità d'Italia hanno occupato almeno un terzo del territorio del nostro Meridione. Una prima osservazione riguarda la possibilità di redenzione del detenuto, che non si realizza nel mafioso irriducibile (cioè non collaboratore). Se non si è mai pentito, l'affiliato rimane a vita vincolato dal giuramento di sangue pronunciato al momento del suo ingresso nella "famiglia". E perciò non esiste alcuna possibilità di "cambiamento" o "redenzione", anzi la storia ci insegna che userà ogni concessione dello Stato per agevolare l'organizzazione criminale. Solo un gesto pubblico (come l' avvio di una collaborazione) può essere considerato l' inizio di una "nuova vita", come bene ha spiegato la vicenda umana di Tommaso Buscetta e di tanti altri collaboratori. La sentenza viene considerata "pericolosa" dai migliori specialisti della lotta alla mafia, che ricordano come tra le richieste contenute nel "papello" che Totò Riina inoltrò allo Stato per "concedere" la fine dello stragismo mafioso, vi fosse l' abolizione dell' ergastolo e del carcere duro (il 41 bis). Questo perché un boss, condannato a "fine pena mai" e relegato all' isolamento, è come un re senza potere e territorio e, dunque, non può imporre la sua volontà. In sostanza non è più un capo, come non lo fu Luciano Liggio in carcere, rispettato come un presidente onorario, ma non temuto come un capo. Anche la lotta alla mafia potrebbe subire arretramenti, se la sentenza trovasse applicazione in Italia. Nessun mafioso cederebbe più alla collaborazione senza la spada di Damocle del "fine pena mai" e una detenzione "normale" (senza isolamento e 41 bis) scoraggerebbe ogni forma di dissociazione o pentimento. Ma questo la Corte di Strasburgo non lo sa.

Ergastolo ostativo, l’ira del M5S: «È un regalo alle cosche». Simona Musco il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Morra: «si sta minando il 41 bis». Ma le Camere penali esultano: «pagina fondamentale nel recupero dei diritti umani». Il presidente emerito della Consulta Onida: «una forma di detenzione incostituzionale». Un regalo ai mafiosi, una follia, da un lato. Dall’altro, una scelta di civiltà giuridica e di umanità. La decisione della Cedu spacca in due il mondo della cultura giuridica e della politica, tra coloro che sottolineano la necessità di non arretrare sul terreno della lotta alle mafie e chi, invece, evidenzia l’esigenza di un carcere umano, che non entri in conflitto con la Costituzione. Ad aprire le polemiche, pochi minuti dopo la decisione di Strasburgo, è il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, che parla di «offesa agli uomini di Stato». E parla di «scontro» tra l’Italia e la Cedu, che consentirebbe così agli ergastolani di chiedere «risarcimenti milionari», mettendo inoltre «a rischio» il 41 bis. Una linea, quella di Morra, che conferma quella giustizialista condivisa da tutto il M5s. A partire dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che annuncia: «faremo valere in tutte le sedi le ragioni» del governo. I benefici, per il Guardasigilli, sono accessibili solo a chi collabora con la giustizia, perché «di fronte alla criminalità organizzata bisogna reagire con grande determinazione». E a rincarare la dose ci pensa anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, secondo cui «se vai a braccetto con la mafia, se distruggi la vita di intere famiglie e persone innocenti, ti fai il carcere secondo certe regole». Mentre per il capogruppo del M5s in Antimafia, Mario Giarrusso, quello della Cedu sarebbe un atto «irresponsabile» al quale bisogna reagire «con fermezza», se necessario anche «rinunciando al Consiglio d’Europa». Posizione che trova d’accordo anche il magistrato antimafia Nino Di Matteo, secondo cui «queste erano le aspettative degli stragisti», per soddisfare le quali sono state usate «le bombe» e l’ex procuratore nazionale antimafia Grasso, che parla di «una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano». Una legge dura, quella sul carcere ostativo, «ma non incostituzionale», sostiene, in quanto «pone i mafiosi davanti a un bivio» : essere fedeli al proprio clan o allo Stato. Durissimo anche il magistrato Gian Carlo Caselli. «L’isolamento dei mafiosi – sottolinea – ha creato una slavina di pentimenti, ora che il quadro cambia, chi ha voglia di pentirsi ci penserà 300mila volte. La lotta alla mafia subirà dei rallentamenti». Per Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio, si tratta di una decisione «inadeguata», che distrugge «le conquiste per le quali magistrati come Giovanni Falcone e mio fratello Paolo hanno anche sacrificato la vita». Si dice preoccupata anche Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni, che rivolge un appello alla politica: «trovare una soluzione che non vanifichi anni di lotta alla mafia e che sappia contemperare i diritti con la sicurezza dei cittadini». E mentre i leghisti Matteo Salvini e Jacopo Morrone invocano il lavoro obbligatorio in carcere, opponendosi a qualsiasi ammorbidimento della legge per gli ergastolani, a rivendicare la correttezza della decisione dei giudici di Strasburgo ci pensa l’associazione Antigone. «Ci deve essere sempre una prospettiva di rilascio – afferma il presidente Patrizio Gonnella – E chiunque oggi dica che adesso si introduce un automatismo nell’uscita, afferma qualcosa non corrispondente al vero. Non c’è alcun allarme sociale». Voce che si associa a quelle di Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale, secondo cui «i diritti umani non sono negoziabili», e di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, che parla «pagina fondamentale nel recupero di valori che sono della Convenzione europea e della nostra Costituzione - sottolinea - E ora sarà importantissima la decisione della Corte Costituzionale in materia analoga». E sulla questione intervengono anche due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli e Valerio Onida. Per il primo, «la Corte di Strasburgo difende i diritti dell’uomo e non può che essere orientata alla giustizia – sottolinea – certo dovrà essere rivista la disciplina del 41 bis, ma niente di allarmante. Il 41 bis potrebbe essere rivisto sulla base di un principio di personalizzazione dei casi». Mentre per Onida, la normativa sull’ergastolo ostativo è «incostituzionale» e ora il legislatore deve modificarla. Se non lo facesse rischierebbe «nuove condanne», ma «penso che il problema sarà risolto dalla Corte costituzionale», che sulla questione si pronuncerà a breve.

Ergastolo ostativo, la commissione Antimafia: "Non va toccato". Di Maio: "Rischio boss fuori dal carcere". Il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho: "Questa misura ha consentito le collaborazioni". La Repubblica il 05 ottobre 2019. Potrebbe arrivare già martedì la decisione della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'ergastolo ostativo: un verdetto che preoccupa non solo il Guardasigilli Alfonso Bonafede, il quale teme conseguenze sulle politiche di lotta alla mafia e al terrorismo, ma anche i  magistrati antimafia e la stessa commissione parlamentare. Ma che cos'è l'ergastolo ostativo? È un istituto con il quale si prevede che, per chi è condannato al carcere a vita per reati di mafia e terrorismo e non collabora con la giustizia, non possano esserci benefici penitenziari, quali la libertà condizionale. Ebbene questa misura è stata censurata il 13 giugno scorso, con una sentenza adottata a maggioranza, dalla Corte europea di Strasburgo per violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - che vieta "trattamenti inumani e degradanti". Il caso in esame riguardava Marcello Viola, un ergastolano condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. I giudici della Corte europea avevano sollecitato, con la loro pronuncia, una riforma dell'ergastolo ostativo. Dal governo italiano, quindi, è arrivata la richiesta di rinvio alla Grande Camera, sottoposta ora al vaglio di ammissibilità: nella sua istanza, il governo ricorda come il fenomeno mafioso sia la principale minaccia alla sicurezza non solo italiana, ma europea e internazionale, e sottolinea che l'ergastolo ostativo è stato dichiarato più volte conforme ai principi costituzionali dalla Consulta. In Italia oggi ci sono 957 ergastolani per crimini di mafia, mentre sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione. In un anno (2017-2018) 111 membri di associazioni mafiose e 7 testimoni hanno scelto di collaborare. "Quella legislazione ha avuto positivi risultati e ha consentito le collaborazioni. Nel momento in cui dovesse venir meno, se l'ergastolo si trasformasse in una pena diversa è certo che tutti i risultati positivi fino a ora conseguiti non si avrebbero più" ha detto il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. Anche la commissione parlamentare Antimafia sottolinea che la misura non deve essere toccata: "La Corte Europea dei diritti dell'uomo deve dichiarare da che parte sta nella lotta alla mafia. È paradossale che davanti alla realtà delle mafie, alla loro capacità di espandersi a livello globale e di penetrare ogni settore della vita democratica, si discute di ergastolo ostativo". Sul tema interviene anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, su Facebook, sottolinea come si corra "il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche boss mafiosi e terroristi" e la possibilità di "una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti". Inoltre "si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi ci permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. E non si tratta di un problema che interessa solo l'Italia, ma ne va della sicurezza di tutta l'Europa". Pertanto, è la conclusione, "è doveroso aprire una seria riflessione, lo dobbiamo alle troppe vittime di mafia e terrorismo che hanno perso la vita senza nessuna colpa".

Facebook. Luigi Di Maio 5 ottobre 2019: Da sempre il MoVimento si batte contro la mafia e i mafiosi. La storia del nostro Paese ci ha lasciato in eredità troppo sangue e dolore. Ancora oggi siamo davanti a un fenomeno che, nonostante l’ottimo lavoro di magistratura e forze dell’ordine, continua a rimanere vivo nel nostro Paese. Uno degli strumenti a disposizione della giustizia italiana è quello dell’ergastolo ostativo. Una delle tante intuizioni del magistrato Giovanni Falcone che ci ha permesso di contrastare con fermezza mafiosi e terroristi. Un condannato per mafia, o per reati gravi come il terrorismo, può usufruire di benefici penitenziari solo se decide di collaborare con la giustizia. E chi non collabora deve scontare la sua pena. Vi dico tutto questo perché nei prossimi giorni è atteso il verdetto della Grande Camera sul ricorso che il governo ha fatto alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che lo scorso giugno ha detto che l’ergastolo ostativo rappresenterebbe una violazione dei principi della dignità umana. In base alla decisione della Grande Camera potremmo trovarci a dover affrontare una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti, con il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche “boss” mafiosi e terroristi. Ovviamente si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi ci permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. E non si tratta di un problema che interessa solo l’Italia, ma ne va della sicurezza di tutta l’Europa. È doveroso aprire una seria riflessione, lo dobbiamo alle troppe vittime di mafia e terrorismo che hanno perso la vita senza nessuna colpa.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 7 ottobre 2019. Al momento sono 957 i detenuti in regime di ergastolo ostativo. Mafiosi, ex brigatisti, ma anche condannati per traffico di droga, prostituzione minorile, pedopornografia. Se oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) dovesse respingere il ricorso dell'Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 con cui i giudici di Strasburgo hanno dato ragione al boss Marcello Viola - affermando che l'ergastolo ostativo sia contrario all'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani che vieta la tortura, i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti - la lotta alla mafia e al terrorismo verrebbe depotenziata. «L'Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie, salvo poi sdegnarsi per stragi al di fuori dei confini italiani come Duisburg», è l'attacco del presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. «Si dovrebbe lavorare affinché la nostra legislazione antimafia venga recepita da altri ordinamenti nazionali in attesa di una normativa europea contro la mafia. Invece la Cedu vuole impedire che l'ergastolo, senza possibilità di alcun alleggerimento, di alcun beneficio, di alcuno sconto di pena, possa indurre mafiosi ad accettare la possibilità di collaborare con lo Stato, diventando fonti informative importanti per sconfiggere i sodalizi mafiosi». Il timore concreto, sottolinea Morra, è che bocciando l'ergastolo ostativo «si delegittimi il 41 bis, che è un regime carcerario che impedisce al detenuto di continuare a relazionarsi con l'organizzazione di cui era parte». Insomma, per il presidente della Commissione antimafia bocciare l'ergastolo ostativo «sarebbe un colpo anche alla memoria di Falcone e Borsellino». Intanto le prime conseguenze della sentenza di giugno si sono già verificate: altri dodici condannati hanno depositato il loro ricorso davanti alla Corte europea, sullo stampo di quello di Viola, mentre 250 ergastolani hanno presentato ricorso al Comitato delle Nazioni unite. Se l'azione dell'Italia venisse respinta, sarebbe un terremoto per l'intero sistema: dovranno essere risarciti tutti i detenuti che ne faranno richiesta e ripensato il sistema del 41 bis, regime di carcere duro approvato nell'ambito della legge Gozzini il 10 ottobre 1986 e più volte criticato dalla Corte di Strasburgo. Oggi sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione, tra il 2017 e il 2018 sono stati 111 i membri di associazioni mafiose e 7 i testimoni che hanno scelto di collaborare. Per sperare di ottenere qualsiasi tipo di beneficio, dai permessi al lavoro esterno, i condannati devono non solo dimostrare di essersi incamminati sulla strada della riabilitazione, ma anche di aver tagliato i ponti con gli ambienti criminali di riferimento e collaborare fattivamente con la giustizia. Per la Cedu ciò costituisce un «trattamento inumano ai sensi dell'art. 3», mentre la Consulta si è più volte pronunciata sul tema ribadendo la costituzionalità ma aprendo la strada a una rivisitazione, tant'è che vi sono stati casi di detenuti che hanno ottenuto la liberazione condizionale per effetto di un percorso rieducativo virtuoso. Adesso però la Corte europea potrebbe forzare la mano e per questo il governo italiano ha presentato il ricorso alla Grande Camera ricordando come il fenomeno mafioso sia la principale minaccia alla sicurezza non solo italiana, ma anche europea e internazionale.

Perché togliere l'ergastolo ai boss mafiosi è un gravissimo errore. Il 22 ottobre i giudici dovranno decidere se sono legittime le norme che vietano i benefici di pena ai capi della criminalità organizzata. Una legge voluta da Giovanni Falcone finora caposaldo della lotta alle cosche. Lirio Abbate il 7 ottobre 2019 su La Repubblica. Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima. La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia. Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata. A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi. La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno. Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie.

Così si rischia di riesumare il vecchio sistema mafioso. Vincenzo Musacchio ( Giurista e Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise) il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Chi non ha vissuto il periodo delle stragi di mafia non può comprendere cosa significhi vedere numerosi boss mafiosi che si sono macchiati di crimini efferati uscire a breve dal carcere. Gli unici deterrenti reali per i mafiosi sono il 41bis, la confisca dei beni e l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Possono apparire misure non pienamente conformi ai dettami costituzionali ma rappresentano la migliore normativa contro la mafia, scritta peraltro con il sangue delle innumerevoli vittime della criminalità organizzata. Siamo di fronte a strumenti efficaci senza i quali probabilmente non avremmo mai potuto scalfire il potere dei boss di primo piano. Se si toccasse uno solo di questi strumenti, ritengo che il sistema antimafia italiano potrebbe collassare. Mi riferisco, in particolare, all’ergastolo ostativo, sempre odiato dai mafiosi che lo temono moltissimo. Chi non ha vissuto il periodo delle stragi di mafia non può comprendere cosa significhi vedere numerosi boss mafiosi che si sono macchiati di crimini efferati uscire a breve dal carcere. Potremmo assistere al ritorno in libertà di alcuni boss irriducibili. Una scelta molto rischiosa che potrebbe riesumare il sistema mafioso tradizionale, che è stato sconfitto proprio grazie agli strumenti antimafia in vigore. I boss storici, ma anche i nuovi, non vogliono né il 41bis, tantomeno l’ergastolo ostativo e lo dimostra che abbiano tentato più volte in passato di mettere mano proprio sul regime carcerario del 41bis e sul superamento dell’ergastolo per i boss. Chi conosce le mafie, sia per esperienza vissuta sul campo che per studio, sa che sfruttano l’ingenuità dei cittadini che non conoscono l’enorme capacità delle organizzazioni mafiose di rigenerarsi in pochissimo tempo con la sola presenza dei loro boss storici. Se tornassero a comandare i vecchi capimafia oggi ergastolani lo Stato ne uscirebbe inesorabilmente sconfitto e si darebbe loro lo strumento per riaffermare il loro potere perduto. Sarebbe un segnale di nuova sconfitta delle istituzioni. Come insegnava Giovanni Falcone, il mafioso che ha giurato fedeltà all’organizzazione criminale di appartenenza, una volta uscito dal carcere, non potrà non tornare a servirla fino alla morte. Non dobbiamo mai dimenticarci che i mafiosi di cui parliamo sono stragisti o persone che ne hanno seguito le strategie senza batter ciglio. Personalmente credo che la necessità di evitare rapporti tra gli esponenti carcerati e quelli a piede libero sia irrinunciabile. Ricordiamoci bene che riscontri oggettivi e probatori nei vari processi per mafia comprovano chiaramente che la detenzione dell’imputato di delitti di mafia non interrompe né sospende il vincolo associativo né sostanzialmente impedisce al detenuto di concorrere alla consumazione di gravi reati all’esterno degli stabilimenti carcerari con istigazioni, sollecitazioni, ordini e altre similari attività. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che all’interno degli istituti di reclusione le gerarchie mafiose si ricostituiscono automaticamente senza soluzione di continuità con gli organigrammi e le organizzazioni esterne, cagionando sovente il sovrapporsi di occulte autorità intramurarie al personale di custodia statale, espropriato in gran parte dei suoi poteri. Dare la certezza di libertà ai mafiosi senza alcun tipo di collaborazione con la giustizia è un regalo inspiegabile e un’offesa al sacrificio di tantissime vittime di mafie e dei loro familiari. Se queste sono le premesse, non meravigliamoci se i boss torneranno a brindare così come fecero quando hanno fatto saltare in aria Falcone, sua moglie e gli uomini della sua scorta! 

Vince la mafia. La Consulta abolisce l'ergastolo ostativo. Assassini e terroristi non pentiti potranno uscire. Uno schiaffo a vittime e buon senso. Alessandro Sallusti, Giovedì 24/10/2019 su Il Giornale. I due fatti non sono legati tra loro, ma certo la coincidenza temporale è di quelle che fanno riflettere. Da una parte il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in una intervista al Corriere, conferma l'intenzione di rendere molto più severa e punitiva la legge che prevede il carcere per gli evasori come «svolta culturale ed educativa»; dall'altra la Corte Costituzionale, sempre ieri, ha tolto il carcere a vita per i mafiosi conclamati e non pentiti. Pene più dure per chi evade anche somme non rilevanti e pene più morbide per chi uccide, compie stragi, organizza il traffico di droga: una contraddizione in termini difficilmente comprensibile e digeribile. Entrambe queste «svolte culturali» ci fanno paura. La prima, quella del ministro sugli evasori, perché introduce la cultura giacobina e marxista del giustizialismo educativo nella nostra legislazione; la seconda quella sull'ergastolo perché toglie allo Stato una delle poche armi che si sono dimostrate efficaci nella lotta alle mafie. L'ergastolo «fine pena mai» fu introdotto agli inizi degli anni Novanta in quel pacchetto di leggi speciali per fronteggiare l'emergenza terroristica e mafiosa, di una mafia che aveva dichiarato guerra allo Stato a suon di attentati, omicidi e stragi. Come tutte le misure emergenziali, sospendeva alcune garanzie previste dalla Costituzione e viaggiava sul filo del rispetto dei diritti dell'uomo. Non era una cosa di cui vantarsi, ma i risultati non tardarono ad arrivare. L'idea di marcire e morire in carcere convinse molti mafiosi a collaborare con la giustizia (l'unico modo per sperare di tornare un giorno in libertà), cosa che ha permesso ai magistrati di smantellare cosche e arrestare quasi tutti i boss. Togliere il «fine pena mai» sarà anche una misura di civiltà, ma ancora prima è un regalo alle mafie che sicuramente tirano un sospiro di sollievo e «vincono» la battaglia per tirare fuori di prigione i loro storici e irriducibili capi. Togliere dall'ordinamento una misura emergenziale significa riconoscere che quell'emergenza è finita, che il pericolo è scampato. Non me ne intendo, ma sostenere che la mafia non è più un'emergenza stride con la realtà. Una follia esattamente come sostenere che tutti gli evasori devono finire in manette per motivi culturali.

Da Sallusti a Di Battista, il dietrofront di quelli che volevano abolire l’ergastolo. Damiano Aliprandi il 31 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Nel 2013 firmarono l’appello dei detenuti ora sono contro le sentenze della Cedu e della Consulta. Da don Luigi Ciotti al direttore del “giornale” Alessandro Sallusti, passando per Alessandro di Battista, fino al silenzio di Roberto Speranza. La sentenza della Consulta che dichiara incostituzionale quella parte del 4 bis che vieta la concessione del permesso premio agli ergastolani ostativi che decidono di non collaborare, ha provocato reazioni scomposte da parte di taluni magistrati, partiti politici e gran parte degli organi di informazione. Eppure, tra di loro, c’è chi nel passato si era espresso per la completa abolizione dell’ergastolo. Curioso che oggi criticano una sentenza che non abolisce l’ergastolo ostativo, ma lo fa rientrare il più possibile entro il perimetro costituzionale. Ma chi sono e in quale occasione sono stati parte attiva nella battaglia contro l’ergastolo ostativo? Tutto ha avuto inizio quando nel 2013 quando un gruppo di ergastolani ostativi diede vita a una campagna per sensibilizzare la Chiesa, la società civile, il governo e il mondo politico nel suo insieme, aprendo un dibattito culturale sull’abolizione della pena dell’ergastolo, tenendo conto del valore del “tempo” e del precetto marchiato nell’articolo 27 della Costituzione. Il loro desiderio è quello di vedere cancellato dalla loro “posizione giuridica” quel “fine pena mai” per essere sostituito da un “fine pena certo”. Solo in questo modo, secondo il gruppo di ergastolani, una società civile e uno Stato di diritto potrebbero garantire quella seconda possibilità che ogni persona merita. Per queste ragioni, grazie all’aiuto dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, gli ergastolani avevano attivato questa campagna raccogliendo migliaia di firme. Nel 2014 l’iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo è stata proposta alla Camera dove è poi rimasta nel cassetto. Tra i primi firmatari c’erano personalità come Agnese Moro, Margherita Hack, Umberto Veronesi, ma anche don Luigi Ciotti che però, oggi, ha espresso perplessità in merito alla sentenza della Corte costituzionale. Eppure, ribadiamo, la Consulta non ha abolito l’ergastolo. Tale iniziativa popolare era partita su più fronti, trovando anche l’ok di qualche parlamentare pentastellato. Tra i quali spicca Alessandro Di Battista che sottoscrisse l’appello contro l’ergastolo “perché – così scrisse – condivido in pieno”. A presentare alla Camera la proposta di legge popolare c’era anche l’attuale ministro della Salute Roberto Speranza, oggi però è rimasto in silenzio. Un silenzio forse dovuto al fatto che il leader del suo partito, ovvero Pietro Grasso, si è espresso duramente contro la sentenza della Consulta, evocando il fantasma del papello di Riina. Ma tra i firmatari della petizione popolare per l’abolizione dell’ergastolo ostativo spicca il nome di Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, in questi giorni in prima linea contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo prima e quella della Consulta dopo, con tanto di titolo in prima pagina: “La mafia ha vinto”. Eppure, ribadiamolo ancora una volta, la sentenza non abolisce l’ergastolo come Sallusti stesso avrebbe voluto. Pochi sono rimasti coerenti, a differenza – per esempio – di Rifondazione comunista che sottoscrisse allora e oggi, coerentemente, ha esultato per la sentenza. Quella iniziativa popolare firmata da numerose personalità politiche ed esponenti della cosiddetta “società civile” è scaturita, dicevamo, da un gruppo di ergastolani, guidato da Carmelo Musumeci, da poco in libertà condizionale. Musumeci, già quando era recluso, ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Ha varcato la soglia del carcere nel 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. In pratica la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Tanti, della società esterna, sostenevano la sua battaglia. E tanti di loro, oggi, si sono accodati nell’indignazione creata da una falsa informazione, in alcuni casi fatta da loro stessi.

La doppia morale dell'Europa. A noi chiede il rigore sui conti pubblici. Poi è morbida con assassini e mafiosi sull'ergastolo ostativo. Mario Giordano il 24 ottobre 2019 su Panorama. Ci mancava l’Europa. Ci mancava solo quella. Ci mancava l’Europa che invitasse l’Italia a essere più clemente con la peggior specie di criminali, boss mafiosi e stragisti, assassini e terroristi. Ci mancava l’Europa che ci spingesse a scarcerare quei pochi che riusciamo a tenere in cella, nonostante le nostra inveterata tendenza a trasformare le galere in hotel a porte girevoli, oggi sei dentro, domani subito fuori. Ci mancava l’Europa a soffiare sul fuoco del liberi tutti, dell’impunità garantita, della premialità esagerata, di quell’insieme di misure che danno l’impressione, alla fine, di uno Stato dalle parte dei criminali più che delle vittime. Pronto a tendere la mano ai malfattori assai più che a chi dai malfattori è minacciato. Ci mancava l’Europa (nella fattispecie sotto forma di Corte europea dei diritti umani di Strasburgo) che ci sollecitasse a eliminare «l’ergastolo ostativo». Quest’ultimo, introdotto nella nostra legislazione nel 1992, all’indomani delle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino,  prevede che chi si macchia di reati particolarmente gravi non possa accedere ai benefici previsti dalla legge a meno che non diventi collaboratore di giustizia. In pratica lo Stato dice ai delinquenti incriminati di reati gravi: avete due possibilità, o vi pentite e raccontate tutto, o uscirete dal carcere solo per andare al cimitero. È facile capire come la misura abbia di fatto moltiplicato il numero dei pentiti, facilitando il lavoro dei magistrati. Perché dunque l’Europa ci spinge a togliere uno strumento di lotta alla criminalità che sta funzionando? E perché ci vuole impedire di tenere in carcere per sempre chi si è macchiato di delitti terribili? In effetti nel Paese degli inganni linguistici, quale siamo ormai diventati, l’ergastolo ostativo è di fatto l’unico vero ergastolo. L’altro, cioè l’ergastolo semplice, non ostativo, l’ergastolo-ergastolo, l’ergastolo tout court, infatti non è più un ergastolo. Non lo è da un pezzo. È un ergastolo edulcorato. A metà. Part time. Da «fine pena mai» a «fine pena dopo un po’». In apparenza dura per sempre ma in realtà no. Con tanti permessi, un po’ di sconti, la buona condotta, sei subito fuori. Il solito miracolo del codice italiano. Più penoso che penale, per la verità. Infatti. l’Italia è quel Paese dove chi strangola la fidanzata e la infila in un sacco nero torna libero dopo appena cinque anni di cella. L’Italia è quel Paese dove chi uccide un vigile travolgendolo appositamente l’auto torna libero dopo appena cinque anni di cella. L’Italia è quel Paese dove un padre che ammazza il figlio a coltellate torna libero dopo appena 11 mesi di cella. L’Italia è quel Paese dove chi uccide una guardia giurata a sprangate per rubargli la pistola, senza mai pentirsi, senza mai chiedere scusa, dopo appena un anno esce di cella per festeggiare il suo compleanno con amici e fidanzata sotto gli occhi esterrefatti della figlia della vittima. L’Italia è un Paese così. Qualche giorno fa, a Cecina, due agenti sono intervenuti per fermare un russo che dava in escandescenze. Quest’ultimo ha reagito. Una poliziotta ha avuto un’ischemia, è gravissima in ospedale. Il russo è stato lasciato libero. Per lui solo l’obbligo di firma. In un Paese così, in un Paese dove l’impunità sembra legge e la severità una parola da libri di storia, ebbene, in un Paese così si sentiva forse il bisogno dell’intervento buonista dell’Europa? Che non è operativo, si capisce. Dovrà essere recepito (e speriamo che non lo sia). Ma in ogni caso è strano: è forse questa la stessa Europa tanto rigorosa sul fronte dei conti, la stessa Europa che non esita a chiedere di massacrare pensionati e lavoratori, la stessa Europa inflessibile sui parametri del debito e così intransigente sugli zero virgola del deficit. Possibile, allora, che sbrachi in questo modo quando si parla di sicurezza e lotta alla criminalità? Possibile che diventi così morbida, malleabile, quando si parla di delinquenti e non di pensionati, fino a consigliarci di lasciar liberi mille ergastolani della peggior specie? Due volti, una morale sola: il prossimo che si gonfia il petto proclamando «lo dice l’Europa», va condannato a stare in ginocchio su ceci per tutta la vita. Ergastolo punitivo. E ostativo, ovviamente. 

Ergastolo ostativo, tutti contro la Consulta: il carcere duro non si tocca. Paolo Delgado il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza sull’ergastolo ostativo spaventa maggioranza e opposizione. Le critiche agli ermellini arrivano anche da don Ciotti: «I primi ad avere una buona condotta in carcere sono I mafiosi. Allora credo che dei paletti bisogna pur metterli». La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ‘ ostativa’, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: «Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali». Salvini, dall’opposizione, ha rilanciato «Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante». Nel luglio 1992, appena un mese e mezzo dopo la strage di Capaci, con un’opinione pubblica giustamente sconvolta per l’assassinio del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, il giovanissimo Pds di Achille Occhetto decise di non votare le leggi eccezionali antimafia incluse nel decreto antimafia Martelli- Scotti. Ugo Pecchioli, che era stato il "ministro degli Interni" del Pci, l’uomo forte del partito nella lotta al terrorismo spiegò la scelta così: "Lo giudichiamo stravolgente di princìpi fondamentali della Costituzione". Non fu una decisione facile. Osava opporsi a un’opinione pubblica che, nello stesso gruppo parlamentare dell’allora "Quercia", era invece favorevolissimo a sacrificare tutto, dai diritti fondamentali ai princìpi costitutivi, in nome della lotta alla mafia. In 27 anni le cose sono cambiate. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ‘ ostativa’, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: "Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali e faremo di tutto perché resti il regime ostativo". Salvini, dall’opposizione, ha gareggiato in truculenza: "Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante. Cercheremo di smontarla con ogni mezzo legalmente possibile". Il partito azzurro, quello che sulla carta dovrebbe essere il più garantista, non si tira indietro: "Sono garantista ma così si possono riattivare canali di comunicazione col rischio di vanificare anni di lotta alla mafia". A sinistra le cose non sono molto diverse. Lo stesso segretario del Pd Zingaretti, pur evitando le sparate alla Di Maio- Salvini non esita, per la prima volta nella storia della Carta, a bocciare la sentenza: "Non mi sento in sintonia con una sentenza stravagante". Persino LeU, che almeno nella sua anima proveniente da SeL era sempre stata su questo fronte netta, si defila e si nasconde dietro un muro di silenzio. Un po’ per non carezzare contro pelo la sua stessa base un po’ per non contraddire Piero Grasso, che poche settimane fa, all’inizio di ottobre, aveva criticato la sentenza europea. Pesantissime anche le reazioni di alcuni magistrati. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo usa un po’ di diplomazia in più rispetto alle reazioni durissime con le quali aveva accolto la sentenza europea, ma conferma la sostanza: "La sentenza apre un varco potenzialmente pericoloso. Spero che politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo". Le parole, in questo caso, sono pesate col bilancino ma la richiesta è chiara: sta alla politica vanificare la sentenza "pericolosa", della Corte. Detto fatto. I tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro. Persino don Ciotti si pone inquieti "interrogativi". Umanità va bene però "paletti bisogna pur metterli perché si sa che i primi a comportarsi bene in carcere sono proprio i mafiosi". Non c’è solo la Consulta. La Cassazione è stata negli ultimi giorni presa di mira allo stesso modo per aver smontato la sentenza d’appello che, al contrario della prima sentenza, confermava l’impianto dell’accusa su Mafia capitale. Non si tratta di fare propria la frase insensata secondo cui "le sentenze non si discutono" ( anche se desta qualche stupore vedere questa sentenza "discussa" da chi con la frase insensata di cui sopra si è riempito la bocca per decenni). Ma a fronte di una vicenda nella migliore delle ipotesi discutibile, tanto che la prima sentenza era arrivata alle stesse conclusioni di quelle della Cassazione, la pioggia di articoli dolenti per il "ritorno indietro" e il favore fatto agli imputati condannati ( salvo riconteggi nel nuovo appello) a pene del tutto sproporzionate. L’ex procuratore Caselli, che le sentenze deve rispettarle per professione, ha risolto il rebus con una spiegazione brillante. Insomma: "Può accadere che la Cassazione si esprima più volte contraddicendosi sullo stesso caso? E allora a quale cassazione credere?", Tra le sentenze contraddittorie citate dal magistrato c’è quella del 2015 a proposito della "mafia silente", quella che minaccia anche con "il non detto, il sussurrato, il semplicemente accennato". E non è forse "mafia silente" anche il "carisma criminale" di Carminati? Insomma, il solo farsi vedere di Massimo Carminati è segno di silente intimidazione mafiosa. Simili reazioni a sentenze della Cassazione e addirittura della Corte costituzionale sono segnali pericolosi e non trascurabili. E’ evidente che mentre una parte delle forze politiche è davvero e convintamente pronta a sorvolare sui princìpi costituzionali, molte altre sono invece semplicemente troppo spaventate e intimidite dalle possibili reazioni dell’elettorato per prendere posizione, fosse pure in difesa della Costituzione. Prendere esempio da quel che il Pds osò fare nel 1992 sarebbe utile.

Vittorio Feltri, mafiosi e delinquenti "comuni": "Chi fa distinzione tra i criminali è un idiota". Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Molti giornali hanno ferocemente criticato la Corte costituzionale perché ha accolto le obiezioni dell' Europa contro il cosiddetto ergastolo ostativo. In sostanza i giudici della Consulta sostengono che anche i mafiosi e i terroristi, dopo aver scontato un cospicuo numero di anni in galera per reati gravissimi, debbano godere dello stesso regime premiale riservato a detenuti comuni. Il che consiste in pochi privilegi, per esempio giorni di vacanza fuori dalla prigione e riduzioni di pena finalizzate ad abolire la morte civile. Provvedimenti saggi e in sintonia con i princìpi sanciti dalla Carta. Dove è allora il problema? Secondo vari commentatori abituati ad applicare alla giustizia il criterio di un tanto al chilo, i condannati per reati mafiosi devono restare in gattabuia vita natural durante e trattati a calci nel culo come se non fossero esseri umani. Costoro meritano di subire leggi speciali in contrasto col concetto che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Mentre un detenuto per reato di sangue, che magari ha ucciso moglie e figli, merita di uscire di cella alcuni dì, nonostante il succitato ergastolo, chi invece si è macchiato di un crimine di mafia è costretto a marcire dietro le sbarre per sempre. Perfino un idiota capisce che è sbagliato dividere i delinquenti tra gente di serie A e gente di serie B. I carcerati non sono diversi l' uno dall' altro, ed è necessario siano valutati alla stessa stregua. Considerare gli appartenenti alla onorata società esseri inferiori e meritevoli di torture sistematiche è qualcosa di vergognoso che contrasta con lo spirito costituzionale. È vero che una condanna è una punizione, ma è altrettanto vero che essa deve puntare alla riabilitazione del recluso. Pertanto nessuno di quelli che sono dietro le sbarre può essere massacrato bensì posto in condizione di riabilitarsi. Mafioso o criminale comune che sia. Altrimenti la giustizia non è più tale, ma diventa una forma di vendetta sociale che non si concilia con la esigenza di recuperare gli uomini e le donne che hanno sbagliato. di Vittorio Feltri

Idioti forse, giustizialisti mai. Alessandro Sallusti, Sabato 26/10/2019, su Il Giornale. Vittorio Feltri ieri ha scritto che è «da idioti e giustizialisti» opporsi al carcere a vita per i mafiosi e i terroristi che si sono macchiati di gravi crimini perché «nessuno di quelli che sono dietro le sbarre può essere massacrato bensì posto in condizioni di riabilitarsi, mafioso o criminale comune che sia», altrimenti non sarebbe giustizia ma una vendetta in contrasto con i principi della Costituzione. Visto che noi siamo tra i pochi che abbiamo criticato l'abolizione del 4 bis (l'articolo che introduce la possibilità dell'ergastolo a vita) ci sentiamo chiamati in causa in quanto «idioti giustizialisti». Su «l'idiota» possiamo discutere, ma sul «giustizialista» no, non lo siamo. Vittorio Feltri ha ragione: il carcere «fine vita mai» che nega la possibilità di una riabilitazione è una barbarie. Il fatto è che il «4 bis» non dice questo, non preclude il ravvedimento. In quella legge non c'è scritto che chi fa saltare in aria con cento chili di tritolo il giudice Falcone, sua moglie e l'intera scorta deve per forza morire in prigione campasse altri cent'anni. E neppure che se uno scioglie un bambino nell'acido è successo anche questo - debba essere sepolto vivo in una cella. No, quella legge dice un'altra cosa. Dice che se tu fai saltare in aria dieci persone e ti diletti a sciogliere bambini hai gli stessi diritti di un detenuto comune compreso i permessi e la libertà a fine pena a patto che collabori con la giustizia a smantellare l'organizzazione che ti ha portato a compiere simili efferatezze. Per intenderci, se Totò Riina avesse preso le distanze dai suo esercito di mafiosi sarebbe morto nel letto di casa e non in un carcere. Feltri dice bene: anche al mafioso più incallito deve essere data la possibilità di riabilitarsi, cioè prendere coscienza degli errori fatti. Ma gli chiedo: può dirsi «riabilitato» uno che volutamente protegge assassini in libera circolazione, bombaroli a spasso e trafficanti di droga (cioè di morte), uno che chiamato a rispondere di duecento omicidi si presenta in aula non per negare o difendersi ma solo per sfidare la corte con un sorriso beffardo, a dimostrare ai suoi compari fuori che lui è un duro e nulla teme e diventare quindi un modello da imitare? Centinaia di mafiosi assassini si sono pentiti, con i loro racconti fatti il più delle volte per pura convenienza - hanno evitato nuove stragi e altri morti. E hanno così rivisto la luce di una libertà non sempre meritata. Sono stati questi, caro Vittorio, tutti degli idioti come noi?

Ma la pena non è una vendetta. Cari manettari, finchè vale la Costituzione la pena non è vendetta e il fine è rieducare. Valter Vecellio il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. D’accordo: questo è il Paese dove un noto presentatore se ne esce dicendo che viviamo in un Paese a democrazia ridotta perché sono anni e anni che il presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Accade anche che un parlamentare, e il gia’ citato conduttore definiscano “imperatore” il console Quinto Fabio Massimo, detto “Il temporeggiatore”. Capita. Scagli pure la prima pietra chi non ha sillabato, in vita sua, una qualche castroneria. Dunque, l’indulgenza, è d’obbligo; e con tutti. Anche se a volte comporta una certa fatica. È il caso della recente sentenza della Corte costituzionale a proposito dell’ergastolo ostativo. A questo punto, senza scomodare i poderosi manuali di un Costantino Mortati, basta leggere la Costituzione, che ha sicuramente un pregio: quella di essere scritta in un italiano cristallino, comprensibile anche a un illetterato. Si vada all’articolo 134: “La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Chiaro, limpido: se si sospetta che una legge sia in contrasto con la Costituzione, la Corte Costituzionale, composta da magistrati e giuristi a composizione mista, valuta e stabilisce se il contrasto vi sia o no. Nel caso dell’ergastolo ostativo, ha stabilito che vi sono delle norme che non si conciliano con la Costituzione; e di conseguenza ha emesso una sentenza. Ora nel merito, la cosa può non piacere, ma resta il fatto che, sempre Costituzione alla mano, l’articolo 27 stabilisce: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Anche qui, la volontà dei Padri Costituenti è chiara, limpida: la pena non è vendetta, e non solo punizione o salvaguardia della collettività. Deve tendere alla “rieducazione del condannato”. Si chiami Mario Rossi o Totò Riina. E, sempre le pene, devono essere conformi al senso di umanità. Dunque, l’ergastolo, cioè lo stabilire a priori che si è irrecuperabili, è contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione; e parimenti contrario qualsivoglia trattamento che non sia conforme al senso di umanità. La cosa può non piacere, e in questo caso la via maestra è semplice: proporre un cambiamento della norma costituzionale. Ma fin quando c’è, la si deve osservare. Questo ha ribadito la Corte Costituzionale, nient’altro. Sentenza che non è per nulla piaciuta a un fresco componente del Consiglio Superiore della Magistratura: un magistrato che con alterne fortune si è impegnato nel fronte antimafia, ha fatto parte della Direzione Nazionale Antimafia e per troppa loquacità ( ma forse qualche altra ragione più profonda e sostanziale) da quell’ufficio è stato rimosso. Ha idee ben radicate, questo magistrato, e le ha esposte in varie pubblicazioni, anche se non sempre i fatti sembrano avergli dato ragione. Ad ogni modo, una certa coerenza gli va riconosciuta, indubbiamente. Proprio per questo, sorprende alquanto una sua presa di posizione rispetto alla sentenza della Corte costituzionale: “Si apre un varco potenzialmente pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo”. Forse dovrebbe nutrire maggior fiducia nei confronti dei suoi colleghi che saranno di volta in volta chiamati a decidere e valutare. Ma tant’è. Certo: se non ha fiducia lui nei suoi colleghi… Si aggiunge che si deve “che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ’ 92-’ 94?. E qui, se si fosse un giudice costituzionale si avrebbe un moto di irritazione e stizza, per adombrare che si realizza, con una sentenza che si richiama alla Costituzione vigente, quello che la mafia stragista perseguiva. Ma il bello, cioè il brutto viene dopo: quando si invoca di fatto un intervento del Parlamento: “la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. A parte la manifesta infondatezza delle “porte del carcere” aperte indiscriminatamente, in sostanza succede questo: il neo- componente del Csm che per tutta la vita ha tuonato contro l’interferenza della politica, per "l’indipendenza della magistratura", e la difesa della Costituzione, ora si augura che la politica intervenga e "sani" presunti vulnus che la Corte Costituzionale avrebbe inferto richiamandosi ai dettami costituzionali… Questa si, per citare una definizione del segretario del Pd Nicola Zingaretti, è una bella stravaganza. Solo che per Zingaretti la stravaganza è la sentenza. Che dire? Un giudizio perlomeno stravagante…

In prigione 41 anni, muore ma senza vedere la famiglia. Mario Trudu, ergastolano ostativo recluso da 41 anni, è morto all’ospedale di Oristano. Damiano Aliprandi il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Alla fine non ce l’ha fatta, nemmeno per poche ore ha potuto riabbracciare i familiari a casa. Mario Trudu, ergastolano ostativo recluso da 41 anni, è morto all’ospedale di Oristano per complicanze polmonari dopo aver vinto la sua lunga battaglia per curarsi fuori dal carcere di Massama e riabilitarsi fisicamente stando ai domiciliari. Questo è il fine pena mai che vige in Italia e pochissimi altri Paesi. Questo è l’ergastolo ostativo quando non si collabora con la giustizia: si può uscire dal carcere solamente tramite una bara. Mario Trudu muore proprio quando due sentenze, quella della Cedu e poi della Consulta, aprono una breccia nel muro di cinta del fine pena mai. Trudu avrebbe avuto tutte le carte in tavola per poter uscire da uomo libero, riabilitato, pronto per ricominciare a vivere, come prevede la nostra Costituzione scritta da chi ha conosciuto la ferocia dello Stato etico durante il fascismo. Non a caso, sulla nostra carta costituzionale non viene menzionato l’ergastolo così come il carcere. La svolta culturale, la più alta e illuminante, fu proprio quella. Però Mario Trudu non ha potuto, nessun permesso premio, nessuna libertà condizionale e nemmeno, fino a venti giorni fa, la possibilità di curarsi adeguatamente fuori dal carcere. C’è la sua avvocata Monica Murru, la quale da anni si è battuta per lui, che giovedì sera ne ha dato la triste notizia. «Mi hanno appena avvisato che Trudu non ce l’ha fatta – scrive Murru -, è morto stasera nel reparto di terapia intensiva, senza essere potuto tornare a casa neppure una manciata di ore. Ho davanti il suo viso, le sue braccia fatte di muscoli lunghi di uomo di campagna, come se avesse sempre zappato la terra anziché stare 40 anni in carcere, il suo sorriso ironico. E mi sento addosso il peso pesante di un lavoro inutile, di un risultato arrivato troppo tardi». E infine aggiunge: «Una sopraggiunta proprio adesso che la Corte Europea dei diritti umani e la Consulta hanno sancito una svolta verso una giustizia umana, verso una pietà che Mario non ha potuto sperimentare. Stanotte la mia toga è pesante e fredda come una coperta sarda. Una burra di orbace capace di schiacciarti, ma non di scaldarti». Trudu faceva il pastore, ma ha anche fatto parte della famosa Anonima sequestri. Infatti venne condannato per due sequestri di persona. Del primo si dichiarava da sempre innocente, e tramite il suo libro edito da stampalibera “Totu sa beridadi, tutta la verità, storia di un sequestro” – teneva molto a sottolineare che se non fosse stato per quella prima ingiusta condanna ( 30 anni, ha scritto, sono davvero troppi per un reato non commesso) non avrebbe architettato il rapimento poi compiuto fuggendo da Ustica, dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione. Non per giustificarsi, aveva sottolineato, ma per spiegare quali sono stati i meccanismi dell’odio e della rabbia. Era in carcere, come detto, da 41 anni, destinato a morirvi perché, assumendosi in pieno la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti ( morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato), non ha mai fatto i nomi dei suoi complici. E lo Stato, nel caso di non collaborazione, è feroce, spietato, senza concedere alcuna possibilità. Trudu in occasione di un’udienza per chiedere di curarsi disse: «Non vi sto chiedendo di farmi uscire, ma di farmi curare». Non è uscito dall’ergastolo ostativo, perché I magistrati ritenevano che la sua collaborazione potrebbe in astratto essere ancora possibile. L’avvocata Murru aveva presentato una miriade di istanze di permesso, anche legate a progetti, ma non era mai riuscita a ottenere nulla. Con la sentenza della Consulta avrebbe avuto finalmente la possibilità. Ma troppo tardi. Ora Trudu non c’è più.

Pasticcio nel calcolo della pena: scarcerato  il boss pluriomicida. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Accolto il ricorso: libero per la seconda volta l’ergastolano di ‘ndrangheta 58enne Domenico Paviglianiti. In carcere per sempre. No, dentro per 30 anni su 168 teorici. No, dopo 23 anni, fuori per sempre. No, fuori solo per 24 ore, e poi di nuovo dentro fino al 2024. No, di nuovo fuori, e per sempre. Per quanto stordenti come palline volanti su una roulette impazzita, sono regole. E le regole non si possono forzare, neanche per cercare di tenere comunque in carcere un pluriomicida ergastolano di ‘ndrangheta, che in estate era stato liberato da un particolarissimo rimbalzo di norme. Così il 58enne Domenico Paviglianiti una settimana fa, senza che si sia saputo, per la seconda volta in due mesi è stato scarcerato dai magistrati per «fine pena». Ma stavolta definitivamente: proprio lui che in agosto era stato riarrestato, appena 24 ore dopo essere stato liberato grazie alla commutazione in 30 anni del suo ergastolo (peraltro di tipo ostativo a qualunque beneficio), e poi al computo che glieli considerava già giuridicamente scontati pur a fronte di 23 anni trascorsi in cella. L’ergastolo, maturato nel 2002 in base alla norma che lo fa discendere da due condanne superiori ciascuna a 24 anni (e lui, su 8 sentenze, ne aveva quattro a 30 anni per altrettanti omicidi), gli era stato annullato due mesi fa perché l’Italia nel 2002 non aveva rispettato la parola data alla Spagna nel 1999 e 2006 che il superlatitante, là catturato nel 1996, qui non sarebbe stato sottoposto al carcere a vita, all’epoca non contemplato della legislazione iberica. Caduto l’ergastolo, i 168 anni di somma aritmetica di otto sentenze di condanna erano stati assorbiti, a norma di legge, nel tetto massimo ammesso in Italia da scontare in cella, 30 anni. Ma a questo punto, oltre a 3 anni e mezzo «fungibili» ad altro titolo, gli avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori avevano fatto valere anche la detrazione di 3 anni per un indulto, e di oltre 5 anni (1.815 giorni) di «liberazione anticipata» (45 giorni per legge ogni 6 mesi espiati): sicché Paviglianiti, dopo 23 anni di cella, a febbraio 2019 risultava aver già raggiunto e anzi superato il tetto massimo dei 30 anni. E il 4 agosto il gip aveva dovuto ordinarne «l’immediata scarcerazione». Ma la libertà era durata 24 ore, perché a razzo la Procura di Bologna gli aveva applicato un conteggio diverso da quello della Procura Generale di Reggio Calabria nel 2002: un nuovo calcolo che collocava il fine pena di Paviglianiti non più all’11 febbraio 2019, ma al 24 gennaio 2027, facendo leva su una condanna del 2005 (17 anni per associazione mafiosa a Reggio Calabria) che però anche a un osservatore esterno pareva già tra quelle considerate nel primo conto. E infatti adesso il gip Domenico Truppa rileva che il ricorso di Paviglianiti è fondato proprio perché «è evidente» che quella sentenza «non è un elemento di novità sopraggiunto», in quanto «non solo era stata valutata» nel primo computo del 2002 ma «è stata valutata» già anche dal gip che due mesi fa commutò l’ergastolo in 30 anni: «Era questo provvedimento che avrebbe», se mai, «dovuto essere impugnato in Cassazione», ma «tale opzione non è stata perseguita dal pm».

La vita incostituzionale dell’ergastolo ostativo col peccato originale di favorire il “pentitificio”. Tiziana Maiolo il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Come puoi rieducare con il “fine pena mai”? L’ergastolo ostativo è nato l’otto giugno del 1992 con il decreto “Scotti- Martelli”, a cavallo tra l’ultimo governo Andreotti e il governo Amato, negli stessi giorni in cui il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiedeva azioni radicali per risanare la finanza pubblica ( con una manovra da 30.000 miliardi di lire nel 1992 e una da 100.000 nel 1993) e la mafia aveva alzato il tiro fino a uccidere il magistrato Giovanni Falcone. L’incostituzionalità del provvedimento fu denunciata in modo quasi unanime, dentro e fuori il Parlamento. Gli avvocati scioperarono. Protestarono i membri della Commissione Pisapia. Perché il decreto era prima di tutto un attacco palese al nuovo processo penale entrato in vigore nel 1989 per il quale la prova si forma nell’aula e non nelle segrete stanze dove la pubblica accusa stipula il patto, spesso indecoroso, con il collaboratore di giustizia. Il decreto, emanato da un governo che non aveva la forza di arrestare Totò Riina e gli altri boss latitanti, fu un atto di impotenza e di vendetta più che di giustizia. La finalità fu esplicitamente quella di creare il “pentitificio” per smantellare le organizzazioni criminali e mafiose colpendole dall’interno. Furono costituiti i ” colloqui investigativi”, incontri riservati tra corpi speciali di polizia e singoli detenuti, che sfuggivano al controllo dello stesso magistrato. E il ricorso alle normali misure alternative al carcere o ai benefici penitenziari previste dalla riforma fin dal 1975, fu vietato per i condannati dei reati più gravi di mafia e terrorismo, tranne che per i “pentiti”. La prima conseguenza fu che diventò, nei fatti, vietato essere o dichiararsi innocenti. La seconda che, essendo la legge retroattiva ( altro motivo di incostituzionalità ), obbligava persone in carcere da anni e che magari usufruivano già per esempio di permessi esterni, a inventarsi qualcosa, magari mettendo a repentaglio la propria o altrui vita, per dimostrare la propria volontà di collaborazione e poter godere di nuovo dei propri diritti. In Parlamento scoppiò un putiferio. I liberali, i radicali, Rifondazione comunista e gran parte del Pds erano contrari. Anche tra i socialisti c’erano molte perplessità. Il decreto, in discussione al Senato per la conversione in legge, veniva criticato soprattutto per la palese violazione dell’articolo 27 terzo comma della Costituzione, che stabilisce le pene non possano “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Come puoi rieducare con il “fine pena mai”? Le critiche erano così diffuse, anche tra i banchi della maggioranza di pentapartito, che si pensò a un certo punto di archiviare il decreto, di non convertirlo e lasciarlo al suo destino nel cestino della carta straccia. quel punto provvide però la mafia a dettare l’agenda alla politica. Il 19 luglio saltò in aria l’auto del giudice Paolo Borsellino. E il decreto “Scotti- Martelli” riprese vita fino a essere approvato con una corsa frenetica del Parlamento prima della scadenza dei sessanta giorni. Con il voto contrario di due liberali ( Alfredo Biondi e Vittorio Sgarbi) e di Rifondazione comunista e l’astensione del Pds. In quegli anni esisteva ancora il garantismo della sinistra. Dell’incostituzionalità di quella legge non si parlerà più fino al 2003, quando sarà proprio l’Alta Corte a sancirne la costituzionalità con un argomento che non verrà più messo in discussione nella sostanza ( se pure in seguito ammorbidito) fino all’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo del giugno scorso. Il punto centrale è proprio quello che, in senso negativo, era stato denunciato in Parlamento nel 1992, il “pentitificio”. Poiché il detenuto, dice in sostanza la Corte Costituzionale, è libero se collaborare o meno, l’applicazione dei benefici penitenziari è solo nelle sue mani. Non c’è dunque coartazione né trattamento disumano nei suoi confronti. Ma non si è tenuto conto, nella sentenza, dei fatto che esistono anche gli innocenti o coloro che non possono raccontare ciò che non sanno o che non vogliono far correre rischi a persone innocenti come i parenti propri o di altri. Argomenti che evidentemente sono stati considerati rilevanti per la Cedu. 

Flick: «Così la Corte ridà valore alla dignità di ogni uomo». Errico Novi il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Giovanni Maria Flick presidente emerito della Consulta. «Non si subordina la fine della pena alla collaborazione perché spetta solo al giudice valutare il recupero del condannato: quello del collegio di Strasburgo è un ordine a cui ora l’Italia è vincolata». C’è un po’ di Giovanni Maria Flick, del presidente emerito della Consulta che è stato anche guardasigilli, in una sentenza storica come quella sull’ergastolo ostativo. «Insieme con altri studiosi, avevo trasmesso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo una valutazione in veste di amicus curiae, come avviene spesso per i casi sottoposti ai giudici di Strasburgo. Ebbene, ci eravamo permessi di sollevare un aspetto forse non sempre considerato, ossia la lesione che l’ergastolo ostativo produce anche rispetto alla competenza del giudice nella valutazione sull’effettivo recupero del condannato. E proprio la restituzione di tale piena potestà valutativa al giudice di sorveglianza è non solo un ritorno ai principi costituzionali, ma anche l’esclusione di qualsiasi rischio di mettere fuori i boss, come sento dire». Flick, naturalmente, non si sente affatto corresponsabile di una tremenda minaccia per la Repubblica: in una giornata storica per la civiltà del diritto, sa di aver cooperato a riaffermare il principio inviolabile della dignità.

Ma l’Italia potrebbe sottrarsi al rispetto di questa sentenza?

«Secondo l’articolo 117 della Costituzione siamo sottoposti agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali. La Convenzione europea dei Diritti umani è un architrave di tale ordinamento sovranazionale: ne siamo vincolati e siamo dunque vincolati ad applicare le sentenze della Corte di Strasburgo. Nel caso specifico, considerato che il collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso italiano, si afferma non un diritto di singole persone, ma un’indicazione vincolante a cui lo Stato deve uniformarsi. L’accesso ai benefici, per chi è condannato all’ergastolo, non potrà essere subordinato alla collaborazione».

E se comunque lo Stato italiano non si uniformasse?

«Ci sarebbe la possibilità di ricorrere al giudice affinché sollevi la questione di costituzionalità delle norme sull’ergastolo ostativo. Peraltro la stessa Corte costituzionale è già investita della valutazione sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che preclude l’accesso ai benefici per alcuni reati, e già in quella sede, tra pochi giorni, potrà esprimere una valutazione adeguata. Ma posso muovere un’obiezione alla sua stessa domanda?»

In che senso?

«Nel senso che trovo difficile una contestazione formale dello Stato italiano rispetto a un giudizio con cui la Corte di Strasburgo evoca il problema della dignità».

Al centro della pronuncia sull’ergastolo ostativo c’è la dignità?

«La Corte dice che va contro la dignità della persona offrire un’unica alternativa al carcere a vita individuata nella collaborazione con la magistratura».

Tale previsione, secondo la commissione Diritti umani presieduta da Manconi, configurerebbe persino una tortura di Stato.

«Non so fine a che punto sia una considerazione compatibile con quanto previsto dalla Convenzione di New York contro la tortura. E comunque non credo sia necessario spingersi fino a tal punto. Anche perché la Corte ha richiamato l’Italia al rispetto di un ulteriore cardine del diritto penale, qual è la competenza esclusiva del giudice sulla valutazione del percorso rieducativo del condannato e sul suo possibile reinserimento».

Con l’ergastolo ostativo tale competenza era stata disconosciuta?

«Evidentemente sì: subordinare l’effettivo reinserimento sociale del condannato alla sua eventuale collaborazione significa avocare la valutazione che dovrebbe competere al giudice naturale precostituito, se possiamo così definirlo, che nel caso del detenuto è il giudice di sorveglianza. Si tratta di un’affermazione che risponde anche alla presunta grande incognita che questa sentenza, per alcuni, dischiuderebbe».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che riconoscere la competenza del giudice di sorveglianza fa giustizia dei timori di veder liberate fiumane di mafiosi: sarà il magistrato, in ciascun singolo caso, a valutare se è effettivamente compiuto un processo di recupero».

Si restituisce dignità all’uomo. Persino se è stato mafioso.

«Anche in relazione a una conseguenza, sottovalutata direi, dell’ergastolo ostativo. Vede, nel nostro ordinamento, nella nostra tradizione, il processo di cognizione ha come oggetto il fatto. La gravità della lesione al bene giuridico offeso. A essere giudicato non è il mafioso o il corrotto, ma il fatto. L’uomo viene in considerazione solo con l’esecuzione della pena. Con l’ergastolo ostativo si opera un capovolgimento, perché nella fase di esecuzione si continua a giudicare non l’uomo e il suo percorso, ma ancora il fatto. Solo che così un Paese trasfigura i connotati stessi del diritto penale».

Una perdita di civiltà?

«Tanto più perché simmetricamente connessa al cosiddetto diritto penale del nemico. Al mantra del buttare la chiave, in cui il carcere non è estrema ratio, ma soluzione abituale e, inevitabilmente, discarica sociale. In tal modo il processo di cognizione, a sua volta, non giudica più il fatto ma l’uomo, mafioso o corrotto che sia, in quanto nemico a prescindere».

Un sistema da Stato d’eccezione: la Cedu ci sollecita a superarlo?

«In un momento di eccezionalità qual è stato il ’ 93 forse l’ostatività poteva avere una spiegazione: ora non la si può comprendere. Così come mi sono sempre sentito in compagnia del Santo Padre, di Moro, di Napolitano, nel ritenere che l’ergastolo fosse una pena illegittima nella formulazione ma legittima nell’esecuzione finché è possibile avere una prospettiva di uscirne con la liberazione condizionale, quando si ritiene ragionevolmente che il condannato si sia rieducato. Con la scomparsa, provocata dal regime ostativo, di quel recupero di legittimità, io proprio non riuscivo ad accettare quell’illegittima dichiarazione che è il fine pena mai».

Un ergastolano alla Consulta per testimoniare il suo riscatto. Marcello Dell’Anna si è laureato in giurisprudenza con lode, è relatore nel corso di formazione giuridica per avvocati, è al 4 bis e non può avere benefici. Damiano Aliprandi il 19 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, ovvero la sentenza Viola contro l’Italia del 13 giugno scorso, l’ergastolo ostativo torna nuovamente all’esame della Corte costituzionale sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis sollevate dalla prima Sezione della Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone. Se nel caso Viola si discuteva dell’impossibilità di richiedere la liberazione condizionale per mancata collaborazione con la giustizia, la discussione del prossimo 22 ottobre si concentra proprio sul perché il requisito della collaborazione renda di fatto inapplicabile la richiesta del permesso premio. Secondo il giudice della Cassazione che ha sollevato l’illegittimità costituzionale relativo al caso Cannizzaro, l’esclusione dell’applicazione del beneficio penitenziario in mancanza della scelta collaborativa, senza consentire al giudice una valutazione in concreto della situazione del detenuto, sarebbe «in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno». Il Tribunale di sorveglianza di Perugia a firma del magistrato Fabio Gianfilippi solleva l’analoga questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano Pavone. Il 22 ottobre saranno quindi presenti i rispettivi avvocati dei due ergastolani. L’avvocato Vianello Accorretti per il caso Cannizzaro e gli avvocati Michele Passione e Mirna Raschi per il caso Pavone. La parte però più interessante è che all’udienza parteciperanno anche i cosiddetti amicus curiae, ovvero le parti terze che, nonostante non siano parte in causa, offrono un aiuto alla Consulta per decidere. Per il caso Pavone si affiancherà l’avvocata Emilia Rossi, per l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, e l’avvocato Vittorio Manes per l’Unione Camere penali italiane. Per quanto riguarda il caso Cannizzaro si affiancherà l’avvocato Andrea Saccucci per Nessuno Tocchi Caino e l’avvocato Ladisalao Massari per Marcello Dell’Anna. Ma chi è quest’ultimo? Si tratta di un ergastolano ostativo ed è la prima volta nella storia che un detenuto, per di più ergastolano, interverrà in un giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Un amicus curiae che, grazie al suo ravvedimento, è il simbolo di chi – pur non collaborando per svariate ragioni – ha tutte le carte regola per uscire dal carcere visto l’evidente riabilitazione, ma ne rimane imprigionato per la mancata collaborazione con la giustizia. D’Anna ha varcato le soglie del carcere quando aveva poco più di 20 anni. Apparteneva alla Sacra corona unita e ha commesso un duplice omicidio in un contesto mafioso. Ora ha 52 anni e dopo 27 anni di detenzione è ancora dentro nel carcere di Nuoro e rischierà di non uscirne più. Nel corso della sua detenzione ha elaborato una visione critica del passato, ha ripudiato la violenza e ha scelto “l’arma” del Diritto. Infatti si è laureato in giurisprudenza con lode all’Università di Pisa, discutendo la tesi sui diritti fondamentali dei detenuti e sul regime del 41 bis. Ma non solo. Nel 2014, la Scuola forense di Nuoro ha deciso di dargli una mano nel percorso di riscatto e gli ha affidato il ruolo di coordinatore interno e di relatore principe nel corso di formazione giuridica per avvocati. La sua famiglia però vive in Puglia. Il mare complica la possibilità di incontrarla. C’è anche una bella storia d’amore. Lasciò sua moglie quando aveva 21 anni. Ma nel 2016 si sono riabbracciati e si sono risposati proprio il giorno di Natale. Marcello Dell’Anna è un ergastolano ostativo, un sepolto vivo. Ha finito di scontare la pena per il 416 bis, ma gli rimane l’aggravante mafiosa per l’omicidio. Ed è lì che continua ad esserci il 4 bis, quella parte in cui gli vieta le misure alternative non avendo scelto di collaborare. La questione l’ha sollevata anche lui ricorrendo alla Cassazione. Quest’ultima l’ha accolta, ma attenderà di decidere dopo la sentenza della Consulta del 22 ottobre. Sì, perché i casi Cannizzaro e Pavone sono sovrapponibile al suo. Ma in realtà è sovrapponibile a tutti quei “sepolti vivi” che, nonostante il ravvedimento e la mancanza di pericolosità sociale, sono costretti a rimanere il resto dei loro giorni dentro quelle quattro mura. Forse il 22 ottobre, la Corte costituzionale potrebbe decidere di ridare il potere ai magistrati di sorveglianza di poter valutare se concedere o meno quei benefici negati a prescindere. Forse sarà decisivo anche l’aiuto dell’ergastolano Marcello D’Anna.

Ergastolo ostativo, l'Europa dice no. La storia di chi è cambiato. Le Iene il 18 ottobre 2019. Per i giudici della Corte dei diritti dell’uomo il regime carcerario duro per i condannati all’ergastolo non è accettabile. In tanti hanno attaccato la sentenza: Antonino Monteleone ha incontrato Carmelo Musumeci, il primo ad esser stato sottoposto a quel regime carcerario: “Meglio la pena di morte, è più umana”. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso che l’ergastolo ostativo, cioè il regime carcerario durissimo destinato a terroristi e mafiosi, è contro i diritti umani. La politica italiana ha, quasi all’unanimità, condannato la scelta dei giudici di Strasburgo. Ma è possibile per un criminale incallito redimersi? Antonino Monteleone ha incontrato Carmelo Musumeci, criminale siciliano classe 1955, il primo a cui è stato applicato l’ergastolo ostativo: condannato per vari reati tra cui omicidio, la fine della sua pena è prevista il 31 dicembre 9999. Cioè tra 7.980 anni. “Criminali si diventa, non si nasce”, racconta Carmelo. “Mia nonna mi aveva insegnato a rubare, passavo un uomo in divisa e mi diceva "attento, quello è l’uomo nero". Nasco come rapinatore, perché era la cosa più semplice”. Nel 1972 varca per la prima volta la porta del riformatorio per una rapina a mano armata. Entrato in carcere non ancora maggiorenne, qualche anno dopo si ritrova ad avere a che fare con la legge della strada: “Il carcere è una fabbrica di criminalità”, ci dice. Comincia così a rapinare le banche e a fare la bella vita, e a guadagnare molti soldi. Mette su una banda di soldati agguerriti, e in qualche anno diventa il boss della Versilia pronto a scalzare il clan rivale: “È stata una vera e propria guerra che è durata un anno: non si sapeva se si sarebbe tornati vivi. Non ho ordinato degli omicidi, ma ne ho compiuti”. Cosa si prova a uccidere una persona? “Ho sudato freddo, avevo paura perché anche lui era armato”. Carmelo subisce un attentato, gli sparano ma sopravvive. Lui decide di uscire dal giro, ma i suoi amici non vogliono e gli fanno un agguato: sopravvive anche a questo e subito dopo viene arrestato e portato nel super carcere dell’Asinara. “Ho conosciuto i peggiori regimi, ho vissuto il carcere in modo cattivo”, ci dice. La Iena allora gli chiede cosa bisognerebbe fare con una persona che spaccia, ruba e uccide: “Bisogna fermare chi lo fa arrestandolo, ma poi va aiutato a migliorare non a peggiorare”, risponde. Condannato all’ergastolo, mentre è in isolamento decide di studiare e diventa scrittore. Oggi ha una voce su Wikipedia, dove viene descritto come “scrittore e criminale”. Prima scrittore, poi criminale. “Sono entrato in carcere con la quinta elementare, ora ho tre lauree”, racconta con orgoglio. Da quando si è istruito, ha fatto parlare molto di se e in tanti gli hanno offerto sostegno. Dopo 27 anni ha la libertà condizionale, e vive in un convento dove fa volontariato. “Gli studi e le relazioni mi hanno fatto bene”. Però non è fuori dal mondo andare troppo duri con i mafiosi: “Dare l’ergastolo ostativo a 19 anni come può permetterti di cambiare? È meglio la pena di morte dell’ergastolo ostativo, è più umana”. In tanti hanno gridato allo scandalo, sostenendo anche che Falcone e Borsellino siano stati uccisi di nuovo. “Il senso di umanità che avevano, io l’ho visto in pochissimi magistrati”, dice Gioacchino Genchi, il superpoliziotto informatico che ha lavorato con i due giudici. “Ho visto soffrire Borsellino quando si stavano dando degli ergastoli. Falcone si è battuto perché fosse creato un sistema premiale per chi collabora”. “È strano un paese che deve definire ‘ostativo’ un ergastolo. Ergastolo è fine pena mai, almeno per i mafiosi e i terroristi non si concede al giudice di dare permessi e scappatoie che rendono l’ergastolo finto”, dice Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano. “I giudici europei non sanno tutte le conseguenze della cultura mafiosa”, continua Travaglio. Il giornalista fa l’esempio di Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio: lui è all’ergastolo ostativo e non può avere permessi poiché non collabora. Se si lascia al giudice la possibilità di decidere, ci sarebbero tentativi continui di intimidire o corrompere il giudice. Per Travaglio la sentenza della Corte europea è “demenziale”.

Fine umanità mai. Carlo Fusi il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Quando, con sentore di strumentalità, si tirano in ballo persone o fatti del passato per giustificare misure dell’oggi, spesso è perché le motivazioni dell’oggi sono scarse o poco convincenti. E’ la sensazione non l’unica: solo la più benevola – che si ricava dalla lettura delle valutazioni usate da Marco Travaglio per contestare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha invitato l’Italia a ripudiare l’ergastolo ostativo – quello senza alcuna possibilità di benefici – in quanto, appunto, inumano. Travaglio ricorre alla memoria di Falcone e Borsellino per sostenere che loro quella misura, «l’hanno inventata» e dunque chi la critica fa il gioco dei malavitosi, dei mafiosi, dei corrotti. Anzi, dovrebbe avere il coraggio di deturpare il loro ricordo affermando che i due magistrati erano, oltre che inumani, «violatori» della Costituzione. A parte – e questo giornale lo ha scritto più volte – che la verità storica è un’altra e cioè che Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale ( citiamo il nostro Damiano Aliprandi) era incostituzionale, non ha escluso i benefici bensì solo allungato i tempi per ottenerli, il nodo vero non è storico- memorialistico bensì culturale. Quanto il sofisma sia fuorviante è confermato dalla sua stessa essenza: praticamente – e Travaglio infatti lo fa – seguendo quel percorso logico si arriva a sostenere che i giudici europei con i loro verdetti intendono non salvaguardare principi basilari della civiltà e del rispetto della dignità umana bensì surrettiziamente «dare una mano» a mafiosi, malavitosi, corrotti. Di più. Usando lo schema precedente, perfino Papa Francesco quando sostiene che l’ergastolo ostativo è «una morte nascosta» si pone sullo stesso piano dei giudici di Strasburgo. Per Travaglio la Cedu è «demenziale». Verrebbe da usare stesso aggettivo per le sue argomentazioni. Visto che la Costituzione viene tirata in ballo forse è il caso di ricordarla. Laddove agli articoli 13 e 27 prescrive che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà», e che «le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato». Vale per chiunque: perfino per mafiosi, malavitosi e corrotti. Nessuno vuole rimetterli in libertà gratuitamente: sarà il giudice a stabilire il se e il come. Ma negargli la speranza, solo quella, di lasciare un giorno, per alcune ore, il carcere è roba da aguzzini. Dei mille e passa in quelle condizioni, il ravvedimento anche di uno solo rappresenta una vittoria per tutti. Anche per Travaglio.

Brusca richiede i domiciliari: «I pm sono d’accordo con me». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Secondo la Procura nazionale antimafia, dopo ventitré anni di carcere Giovanni Brusca può finire di scontare la pena agli arresti domiciliari. E sulla base di questo parere per la prima volta favorevole il killer di Capaci, l’uomo che ordinò di sequestrare e poi uccidere e sciogliere nell’acido il figlio del pentito Santo Di Matteo, divenuto a sua volta collaboratore di giustizia dopo la cattura nel 1996, prova a ribaltare l’ennesimo rifiuto del tribunale di sorveglianza. S’è rivolto alla Corte di cassazione, e la prima sezione penale si riunirà oggi per decidere sul ricorso presentato dall’avvocato Antonella Cassandro, che con il collega Manfredo Fiormonti assiste l’ex boss mafioso. Il legale contesta che nell’ultimo rifiuto del marzo scorso, il nono dal 2002, il tribunale di sorveglianza di Roma non ha tenuto nella giusta considerazione le valutazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che dopo i precedenti no ha detto sì all’ipotesi che il pentito sia detenuto a casa. Assenso motivato dal fatto che «il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». E poi perché «sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca»: le sentenze che hanno riconosciuto «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», e «le relazioni e i pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi». Il mafioso che a Capaci azionò la leva per far esplodere la bomba che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, ha già usufruito di oltre ottanta permessi premio. Ogni volta esce di prigione per vari giorni e resta libero 11 ore al giorno (la sera deve rientrare a casa), solitamente trascorse con il figlio oggi ventottenne. Dando prova della «affidabilità esterna» certificata dagli operatori del carcere romano di Rebibbia, che aggiungono: «L’interessato non si è mai sottratto ai colloqui e partecipa al dialogo con la psicologa, mostrando la volontà di dimostrare il suo cambiamento». Ma il tribunale di sorveglianza ha continuato a negare la detenzione domiciliare. Ritenendo che per un mafioso del suo calibro, dalla «storia criminale unica e senza precedenti», responsabile di «più di cento delitti commessi con le modalità più cruente», che in virtù della collaborazione è stato condannato a 30 anni di prigione anziché all’ergastolo (che sarebbe stato ostativo a benefici o misure alternative), il «ravvedimento» dev’essere qualcosa che va oltre «l’aspetto esteriore della condotta». Non basta comportarsi bene, insomma; ci vuole «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto»; una sorta di «pentimento civile» che vada oltre le dichiarazioni rilasciate davanti ai magistrati. Anche attraverso un «riscatto morale nei riguardi dei familiari delle vittime» che non sarebbe mai avvenuto. In passato Brusca ha incontrato Rita Borsellino, la sorella di Paolo morta nel 2018, su iniziativa della donna: circostanza che «non dimostra che vi sia stata una richiesta di perdono alla signora né ai discendenti di Paolo Borsellino o ai familiari delle altre vittime dei delitti commessi, e neppure al dottor Pietro Grasso», l’ex magistrato che il pentito voleva far saltare in aria nell’estate del ‘92. La difesa di Brusca ribatte che l’ex boss mafioso ha più volte chiesto pubblicamente perdono alle vittime, e di poter effettuare attività di volontariato durante i permessi in segno di concreto ravvedimento, ma «non gli è stato concesso per motivi di sicurezza». Di qui il ricorso in Cassazione, contestando la pretesa di «un ravvedimento ad personam modellato sulla figura del Brusca». Che in ogni caso, a 62 anni di età, è ormai arrivato in vista del traguardo del fine pena: calcolando i tre mesi sottratti per ogni anno di detenzione scontato, la scadenza dei trent’anni dovrebbe arrivare a novembre 2021.

Grasso: «Brusca non  è come Riina, il ravvedimento c’è stato». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo e G. Bianconi. Il no alla richiesta dei legali del pentito: resterà all’interno di Rebibbia Grasso: «Lui non è come Riina. Il ravvedimento c’è stato» di G. Bianconi. «Sì, è vero, anch’io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c’erano alcuni miei amici. Ma è pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Le ha dette anche a me, durante decine di interrogatori». Pietro Grasso è stato il giudice a latere del maxi-processo alla mafia, poi procuratore di Palermo e procuratore nazionale antimafia, prima di entrare in politica con il Partito democratico, diventare presidente del Senato e fondare Liberi e uguali. Conosce bene il pentito che chiede di finire di scontare la sua pena in detenzione domiciliare.

Lei è favorevole è contrario a questa concessione?

«La decisione è nelle mani giuste: quelle dei giudici, e non credo che la mia opinione debba in qualche modo condizionare la decisione che dovranno prendere. I giudici devono emettere un provvedimento sul piano tecnico, senza essere influenzati dai sentimenti delle vittime».

Il tribunale di sorveglianza ha già detto no, motivando il rigetto anche con il fatto che Brusca non ha chiesto perdono nemmeno a lei.

«Dopodiché Brusca ha fatto ricorso e ora tocca alla Cassazione: la via giudiziaria è quella corretta. Quando ho avuto a che fare con lui avevo l’obiettivo di cercare la verità. Non mi sono preoccupato di ottenerne le scuse o richieste di perdono, la legge per “ravvedimento” intende altro. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme. Il “pentimento sociale” richiesto dai giudici di sorveglianza secondo me è rappresentato anche dalla collaborazione che non s’è interrotta in oltre vent’anni, perché ha aiutato a scoprire la verità su ciò che era avvenuto e impedito ulteriori crimini».

Però Maria Falcone e Tina Montinaro, sorella del magistrato e vedova del caposcorta che saltò in aria con lui a Capaci, sono contrarie a un ulteriore beneficio.

«Condivido il loro dolore e la loro rabbia, ma so anche che i giudici per fare il loro dovere sono tenuti ad applicare le norme prescindendo dai sentimenti delle vittime, per dimostrare che l’ordinamento statale opera secondo giustizia e mai secondo vendetta. Per me è stato giusto che Riina e Provenzano siano rimasti in carcere fino alla loro morte, ma uno come Brusca non si può valutare alla stessa maniera. Ha scontato oltre 23 anni in carcere, e tra due anni la pena sarà esaurita, gode già di permessi che per certi versi gli concedono più spazi di libertà rispetto alla detenzione domiciliare: è la dimostrazione che collaborare paga. I magistrati hanno tutti gli elementi per decidere, e rispetterò qualsiasi decisione».

Anche lei è preoccupato per il rischio che l’ergastolo ostativo, che impedisce la concessioni dei benefici a mafiosi e terroristi non pentiti, venga bocciato senza appello dalla Corte europea dei diritti umani?

«Sì, perché non sono sicuro che a livello europeo, attraverso la sola lettura delle carte, si riesca a percepire fino in fondo la pericolosità e l’incidenza della criminalità organizzata in Italia».

Poi toccherà alla Consulta a decidere, la Costituzione prevede il reinserimento sociale di tutti i detenuti.

«Lo so bene, ma un mafioso non può reinserisi se non rompe le regole dell’organizzazione criminale, e questo si dimostra solo collaborando con lo Stato. Inoltre la norma concede la possibilità di accedere ai benefici anche a chi dimostra di non avere più legami con l’ambiente criminale pur non potendo fornire nuovi elementi ai magistrati».

Ma l’abolizione del divieto non significherebbe scarcerazione automatica, sarebbero sempre i giudici a valutare caso per caso.

«È vero, tuttavia non sempre i tribunali di sorveglianza hanno la possibilità di conoscere a fondo le storie criminali dei singoli soggetti. In ogni caso la strada per uscire dall’ergastolo ostativo c’è già, e ovviamente dipende dallo spessore criminale dei singoli detenuti. Ma vorrei ricordare anche un altro particolare».

Quale?

«L’abolizione dell’ergastolo era uno dei punti del papello di richieste che Riina pretendeva dallo Stato per fermare le stragi. Ce l’ha raccontato proprio Giovanni Brusca». 

Dago News l'11 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, il senatore Grasso ex magistrato sostiene a spada tratta l’ergastolo ostativo e nello stesso tempo la scarcerazione di Brusca “perché pentito”. Un pentito sul quale tra l’altro bisognerebbe discutere a livello di attendibilità perché accusò Mannino di essere mafioso. Mannino è stato assolto. La procura di Palermo avrebbe il dovere di procedere contro Brusca per calunnia. Non lo fa perché non vuole in pratica indagare su se stessa. E allora la procura di Caltanissetta dovrebbe indagare su Palermo per abuso di ufficio sotto forma di omissione. Cane non mangia cane e siamo sempre lì. È la giustizia bellezza... Amen. Frank Cimini

La decisione della Cassazione su Brusca, scarcerare l’uomo, non il pentito. Errico Novi l'8 ottobre 2019 su Il Dubbio. La pronuncia sul boss che innescò la strage di Capaci. I difensori del mafioso che ordinò di sciogliere Giuseppe Di Matteo nell’acido avevano dalla loro parte il parere favorevole della Dna. Ma ha pesato la valutazione sulla profondità del ravvedimento. È forse il mafioso colpevole delle più atroci mostruosità. Compiute contro lo Stato come contro altri mafiosi e loro familiari. Con la stessa feroce noncuranza, l’oggi 62enne Giovanni Brusca ha materialmente spinto il bottone che provocò l’esplosione di Capaci, dunque la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, così come ha ordinato di uccidere, per strangolamento, un ragazzino di 14 anni, Giuseppe Di Matteo, colpevole di avere un padre pentito, Santino, e sciolto in un bidone di acido dopo l’esecuzione. Brusca è dunque un simbolo. Più di Totò Riina. Simbolo di una indole criminale estrema. Ecco perché se oggi la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione, dopo l’udienza di ieri, decidesse di concedergli i domiciliari, cambierebbe in modo definitivo, irreversibile, l’orientamento della giustizia italiana rispetto alla funzione rieducativa della pena. Se anche nel più crudele dei malavitosi, con un curriculum di omicidi che lui stesso fatica a collocare tra quota 100 e quota 200, si possono scorgere i segni del ravvedimento e del compiuto recupero sociale, sarà assai più difficile mostrare in futuro l’intransigenza cieca e irriducibile esibita finora con mafiosi e con criminali di altra natura. Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti, difensori di Brusca, hanno chiesto alla Suprema corte di riformare l’ordinanza con cui nel marzo scorso il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di commutazione della pena da detentiva a domiciliare. Non è il primo ricorso, né si è trattato del primo rigetto: anche qui i numeri sono da record, visto che siamo a quota 9. Stavolta però è diverso. Perché a marzo per la prima volta dal 2002, la Procura nazionale antimafia, chiamata a esprimere il proprio parere sulla compatibilità del beneficio penitenziario con il percorso del detenuto, ha espresso valutazione favorevole. Secondo l’ufficio diretto da Federico Cafiero de Raho, infatti, Brusca può dirsi «ravveduto». E appunto, gli avvocati Cassandro e Fiormonti sono certi che il giudice di sorveglianza, nel respingere l’istanza di 7 mesi fa, non abbia tenuto nella giusta considerazione il giudizio della Dna. La Procura antimafia ha dichiarato che «il contributo offerto da Brusca nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». In realtà non sempre le verità offerte dal superboss sono state suffragate dai riscontri processuali. Non nel processo a Calogero Mannino, per esempio. Negli anni lo stesso Brusca ha ammesso che alcune sue ricostruzioni sono state poco altro che una riproposizione di fatti ascoltati, da detenuto, in televisione. Ma visto che in altri casi le sue parole hanno trovato corrispondenza nelle verità processuali delle sentenze, la Dna ritiene sussista anche un’implicita prova del suo ravvedimento umano: «Sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca», desumibili appunto sia dalle sentenze che hanno riconosciuto «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», sia da «relazioni e pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi». Giovanni Brusca non è un ergastolano. I suoi delitti, che appunto si contano oltre il centinaio solo per stare agli omicidi, non hanno dato luogo a un fine pena mai proprio in virtù della «collaborazione». È stato condannato a 30 anni. Ne ha già trascorsi 23 in carcere ( ora è a Rebibbia, è recluso dal 1996). Nel novembre 2021, tra poco più di 2 anni, sarebbe comunque a fine pena, dunque libero. Un aspetto non irrilevante. Eppure non è la materia in base alla quale la Cassazione scioglierà il rebus. Innanzitutto valuterà se il giudice di sorveglianza è stato coerente nel ritenere insufficienti le risultanze trattamentali — costruite sì sulla base anche dell’attendibilità della collaborazione, ma prima ancora sulla sua condotta di detenuto —. Se cioè il diniego del Tribunale sia stato costruito in modo solido, se il giudice è stato lineare nel rigettare l’istanza in virtù del principio secondo cui «per un mafioso del suo calibro, dalla storia criminale unica e senza precedenti, il ravvedimento dev’essere qualcosa che va oltre l’aspetto esteriore della condotta» e visto che tale ravvedimento non può, a parere del giudice, essersi verificato così in profondità. Ma proprio la necessità di considerare l’avvenuto recupero umano di Brusca, e non solo la sua funzionalità di pentito, dimostrerà come già prima che si pronunciasse la Corte europea dei Diritti dell’uomo, la valutazione sulla crescita del detenuto non poteva dipendere solo dalle sue dichiarazioni. E indirettamente emergerà, dunque, quanto fosse sbagliato subordinare la legittimità dell’ergastolo ostativo alla collaborazione. Persino nel caso del ferocissimo Brusca, l’eventuale ritrovata umanità deve per forza precedere l’aiuto offerto ai pubblici ministeri. Inevitabilmente la Cassazione non potrà tenere conto del no ribadito ieri, sui domiciliari a Brusca, da Maria Falcone, sorella di Giovanni e presidente della Fondazione a lui intitolata; e neppure del «dolore a vita» con cui ha motivato il suo dissenso Tina Montinaro, vedova dell’agente Antonio, morto anche lui a Capaci. Ma le loro legittime opinioni ribadiscono che non può esserci scambio tra Stato e pentiti, e che se al collaboratore Brusca può essere concessa la scarcerazione deve essere perché si è convinti che la sua ferocia si è placata davvero. 

No ai domiciliari per Giovanni Brusca, la Cassazione respinge il ricorso. Il Dubbio l8 ottobre 2019. Il verdetto nella tarda serata di ieri respinge il ricorso presentato dai legali dell’ex boss mafioso. Per la Corte non ci sono le condizioni per i domiciliari. Maria Falcone e Piero Grasso su barricate opposte. La Cassazione ha deciso niente arresti domiciliari per Giovanni Brusca. Il killer della strage di Capaci dunque resta in carcere. Stamani la prima sezione penale ha infatti respinto il ricorso presentato dai legali del mafioso divenuto poi collaboratore degli inquirenti. Sulla vicenda si era registrata una diversità di vedute tra la Procura Nazionale Antimafia secondo cui il boss si era ravveduto e lo stesso Procuratore generale della Cassazione fortemente contrario ad un’uscita dal carcere. Brusca ha già scontato 23 anni, oltre all’uccisione di Falcone di lui si ricorda anche il terribile episodio nel quale ordinò di sequestrare e poi uccidere il figlio del pentito Santo Di Matteo. Il commento di Maria Falcone, sorella del magistrato vittima della mafia, è stato duro: «Se si accetta che per un fine superiore vengano concessi benefici ai criminali che collaborano con lo Stato, resta però inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati». Di parere opposto l’ex procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso: «Anch’io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c’erano alcuni miei amici. E’ pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme». 

Mafia, per la Cassazione il ravvedimento di Brusca non è compiuto. Per la Suprema corte la "caratura criminale" e la "gravità dei reati commessi" dal collaboratore di giustizia non permettono la concessione degli arresti domiciliari. E il "compiuto ravvedimento" e il "pentimento civile" vanno approfonditi e verificati nel tempo. La Repubblica il 19 dicembre 2019. Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci e dell'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo non può andare ai domiciliari: la sua "caratura criminale" e la "gravità dei reati commessi" non permettono la concessione di questo beneficio, per il quale è necessario che ci sia un "compiuto ravvedimento" e il "pentimento civile", elementi che vanno approfonditi e verificati nel tempo. Lo spiega la Prima sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 7 ottobre, ha respinto la richiesta di domiciliari al collaboratore di giustizia ed ex boss di Cosa nostra, che sconta a Rebibbia 30 anni di carcere, con fine pena nel 2022. Brusca chiedeva di poter accedere agli arresti domiciliari, istanza già respinta dal tribunale di sorveglianza di Roma. Ma proprio la "caratura criminale che ha dimostrato nella sua vita di possedere" portano a considerare "non ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento, ma solo di un ravvedimento non compiuto, anche considerata l'incertezza del completamento del suo percorso di pentimento". Con la sentenza depositata oggi, i giudici di piazza Cavour condividono le conclusioni del Tribunale di sorveglianza della capitale, rilevando "l'insussistenza della prova di un effettivo compiuto ravvedimento", e che "lo sforzo di Brusca nel manifestare il suo pentimento civile e il suo intento di riconciliazione nei confronti delle famiglie delle vittime e della società tutta vadano approfonditi e verificati nel corso del tempo". Inoltre, si legge ancora nella sentenza, "a fronte delle indubbie manifestazioni di resipiscenza" di Giovanni Brusca, le "iniziative riparatorie" da lui intraprese non sono "ancora espressione di un suo compiuto ravvedimento", ma che tale percorso "sia attualmente soltanto positivamente avviato". Dunque, il "positivo percorso trattamentale portato avanti da Brusca", continua la Suprema Corte, il "suo 'buon' livello di revisione critica del passato e il comportamento collaborativo da lui tenuto" non sono indici "sufficienti" in relazione al suo "indiscusso spessore criminale". Nella sentenza della Cassazione infatti si ricorda che la "storia criminale di Brusca è senza dubbio unica e senza precedenti", con "più di cento omicidi commessi, con le modalità più cruente, in alcuni casi senza selezionare le vittime, ma colpendo indifferentemente bambini solo per realizzare vendette trasversali, capi mafia, servitori dello Stato, privati cittadini caduti nell'ambito dell'attività stragista", e come, "tra tanti 'uomini d'onore', nessuno avesse realizzato un pari percorso sanguinario, manifestando inusitata violenza e assoluto spregio per il valore della vita umana".

Brusca resta in carcere:  la Cassazione ha respinto  la richiesta dei domiciliari. Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. Il no alla richiesta dei legali del pentito: resterà all’interno di Rebibbia Grasso: «Lui non è come Riina. Il ravvedimento c’è stato» di G. Bianconi. Giovanni Brusca non andrà agli arresti domiciliari. Lo ha deciso la prima sezione della Corte di Cassazione che ha respinto la richiesta dei difensori del boss degli arresti domiciliari. I giudici hanno accolto la tesi della procura generale: «Non è ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento». Così l’uomo che azionò la bomba per Giovanni Falcone e che per ritorsione contro il pentimento di Santino Di Matteo fece rapire, strangolare e sciogliere nell’acido il figlio Giuseppe per il Pg resterà in cella. Anche se è diventato un collaboratore di giustizia. E anche se a favore dei domiciliari si era pronunciato il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho facendo levare alta la protesta dei familiari delle vittime contro la tesi, sostenuta dagli operatori penitenziari, che il boss abbia dato prova di ravvedimento e di «affidabilità esterna». Tesi quest’ultima suffragata dal fatto che Brusca ha già ottenuto 80 permessi premio ed è sempre tornato in cella. «Mio padre non sarebbe d’accordo con questo regalo. Ha ucciso più di 140 persone», aveva ricordato Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone alla notizia della richiesta dei domiciliari. E sul superprocuratore aveva attaccato: «Dà l’ok ai domiciliari per Brusca? È indegno della sua carica». Sua madre, Tina, aveva confessato: «Mi sento presa in giro. Non conta il nostro dolore?». La sorella di Falcone, Maria, aveva avvertito: «Brusca è ambiguo e spietato, merita solo il carcere». «Non ci ha mai chiesto scusa», aveva denunciato Nicola Di Matteo, fratello del bimbo ammazzato...«Uccidete il canuzzo», aveva ordinato Brusca, detto «scannacristiani», quell’11 gennaio del ‘96, dopo aver saputo della sua condanna. Il piccolo venne messo faccia al muro. Il mafioso Chiodo gli mise una corda al collo e tirò e poi raccontò:«Non ha capito niente. Dopo averlo spogliato ho preso il bambino per i piedi, Monticciolo e Brusca per le braccia e l’abbiamo messo nell’acido. Poi siamo andati tutti a dormire». Cafiero De Raho si difende: la sua non era solo una valutazione discrezionale, ma in linea con il Codice e la Costituzione: «A seguito del contributo che ha dato e il ravvedimento evidenziato — spiega —, le condanne si sono mantenute sotto il tetto dei 30 anni, e con le riduzioni che ogni anno ci sono finirà di scontare la pena nel novembre 2021».  

Mafia, Giovanni Brusca resta in carcere. La Cassazione boccia la richiesta dei domiciliari. La Procura Nazionale Antimafia aveva invece dato parere favorevole: "Si è ravveduto". La reazione di Maria Falcone: "Inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati. Grasso: "Ha rotto i legami con Cosa nostra e aiutato a  scoprire la verità". La Repubblica l'08 ottobre 2019. Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci resta in carcere. La prima sezione penale della Cassazione, al termine della camera di consiglio di oggi, ha rigettato il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa Nostra, che chiedeva la detenzione domiciliare. La Procura Nazionale Antimafia aveva detto  sì: “E’ ravveduto”, mentre la Procura generale della Cassazione aveva ribattuto che no, doveva restare in cella. Il verdetto è arrivato a tarda sera. Brusca, che ordinò anche di sequestrare e poi uccidere e sciogliere nell'acido il figlio del pentito Santo Di Matteo, ha già scontato ventitré anni di carcere. Come si diceva, per la Procura Nazionale Antimafia Brusca, si è ravveduto. Forte di questo risultato Brusca ieri  rincarava: “I pm sono d’accordo con me”.  Dopo ventitré anni di carcere sperava di finire di scontare la pena agli arresti domiciliari. La prima sezione penale della Corte di cassazione, si è riunita à per decidere sul ricorso degli avvocati del boss, Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti. Il legale contesta che nell’ultimo rifiuto del marzo scorso, il nono dal 2002, il tribunale di sorveglianza di Roma non ha tenuto nella giusta considerazione le valutazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che dopo i precedenti no ha detto sì all’ipotesi che il pentito sia detenuto a casa. Brusca è in carcere a Rebibbia. Duro il commento di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso con la moglie e la scorta nell'attentato di Capaci: "Resta un personaggio ambiguo, non merita altri benefici. Ricordo ancora che  proprio grazie alla collaborazione con la giustizia ha potuto beneficiare di premialità importanti: oltre a evitare l'ergastolo per le decine di omicidi che ha commesso - tra questi cito solo quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido a 15 anni- ha usufruito di 80 permessi". "Con la sua decisione la Cassazione ha dato una risposta alla richiesta di giustizia dei tanti cittadini che continuano a vedere nella mafia uno dei peggiori nemici del nostro Paese", prosegue Maria Falcone. "Se si accetta che per un fine superiore vengano concessi benefici ai criminali che collaborano con lo Stato, resta però inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati", conclude. Diversa la posiione dell'ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: "Anch'io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c'erano alcuni miei amici. E' pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme". Il "pentimento sociale" richiesto dai giudici di sorveglianza secondo Grasso "è rappresentato anche dalla collaborazione che non s'è interrotta in oltre vent'anni, perché ha aiutato a scoprire la verità su ciò che era avvenuto e impedito ulteriori crimini". 

Il caso Brusca. Giorgio Bongiovanni su Antimafia duemila il 7 Ottobre 2019. Le confessioni di un pentito che ha collaborato con lo Stato.

Giovanni Brusca è l'assassino di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

E' l'uomo che premette il pulsante a Capaci il 23 maggio 1992, facendo saltare in aria un'autostrada.

Giovanni Brusca è l'assassino del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Mario Santo Di Matteo), ucciso strangolato dopo 25 mesi di prigionia e sciolto nell'acido, per suo ordine, dal fratello di Brusca, Enzo Salvatore.

Giovanni Brusca, per sua stessa ammissione, è autore di oltre cento delitti. Tutti commessi per ordine di Cosa nostra.

Giovanni Brusca, come capo mandamento di San Giuseppe Jato, è stato un membro della cosiddetta Cupola.

Giovanni Brusca è stato affiliato personalmente dal Capo dei Capi, Salvatore Riina.

Giovanni Brusca è stato arrestato il 20 maggio 1996, ad Agrigento, mentre guardava, ironia della sorte, proprio un film sulla strage di Capaci.

Oggi Giovanni Brusca è un detenuto che da 23 anni sconta il suo debito con la giustizia secondo i dettami previsti dall'istituto dei collaboratori di giustizia.

La Procura nazionale antimafia, guidata da Federico Cafiero de Raho, ha espresso parere favorevole ai domiciliari con le seguenti motivazioni: “Il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni”. Secondo quanto riferito dalla Dna vi sono anche "elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca” quali le sentenze che hanno riconosciuto “la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore” e “le relazioni e i pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei procedenti permessi”. Sicuramente non si può dire che per Brusca il percorso di collaborazione con la giustizia sia stato facile. Particolarmente travagliato in principio, dove non mancavano le contraddizioni e le incertezze ed addirittura si pensava potesse essere un falso pentito, col tempo ha riferito fatti di grandissimo rilievo andando ben oltre gli omicidi da lui commessi o sulle responsabilità di Cosa nostra. Il rapporto tra mafia-politica-istituzioni è stato sviscerato, nel corso degli anni, arrivano a raccontare in aula anche del cosiddetto "papello" di Totò Riina. Dopo l'incontro avuto con Rita Borsellino ha ritrovato un nuovo impulso per andare ancora più a fondo su certi argomenti. Così ha riferito anche del ruolo dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) nel contatto con Silvio Berlusconi e lo scorso anno ha raccontato anche dell'incontro che vi sarebbe stato, a detta di Matteo Messina Denaro, tra Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e lo stesso ex Premier, oggi indagato a Firenze come mandante esterno delle stragi del 1993. Secondo quanto riferito da Brusca, Messina Denaro gli disse che Graviano avrebbe visto al polso di Berlusconi un orologio da 500 milioni. Ricordiamo, così come ha scritto la Procura nazionale antimafia, che Brusca è stato riconosciuto attendibile da diversi organi giurisdizionali tanto che in moltissimi processi gli sono state riconosciute le attenuanti previste dall'art.8 (quello previsto per i collaboratori di giustizia). Tutto questo riguarda Giovanni Brusca. Un figura che può essere approfondita leggendo il libro "Ho ucciso Giovanni Falcone", scritto con Saverio Lodato (edito da Mondadori e rieditato nel 2017). Oggi l'ex boss di San Giuseppe Jato, tramite il suo avvocato Antonella Cassandro, chiede di poter scontare gli ultimi tre anni di pena che gli restano agli arresti domiciliari. Brusca, infatti, concluderà nel 2022 la propria detenzione carceraria sempre rimanendo sotto il vincolo della collaborazione con la giustizia, con l'obbligo di non infrangere la legge, così come ha fatto in questi anni. Brusca infatti, mentre si trovava in carcere, fu indagato perché sospettato di riciclaggio e fittizia intestazione di beni ma successivamente venne assolto in tutte le sedi, diversamente da altri collaboratori di giustizia che, nel corso del loro percorso, hanno commesso anche delitti. Su Giovanni Brusca si può dire e pensare tutto quello che si vuole. Il perdono, seppur difficile, per chi è di fede cristiana rappresenta una chiave. Chi è laico ha altri strumenti. In particolare i familiari vittime di mafia hanno tutto il diritto di esprimere il loro parere in piena libertà. Nessuno chiede loro di innamorarsi di Giovanni Brusca, perorare la sua causa o perdonarlo. Tuttavia vi sono degli argomenti che andrebbero presi in considerazione in particolare da chi, come Maria Falcone, è sorella di un giudice che a tutti noi ha insegnato il rispetto della legge. Non è un mistero che quella sui pentiti è una legge fortemente voluta da Giovanni Falcone. E non è un mistero che tale legge fu approvata, così come quella sul 41 bis, soltanto dopo la morte di Paolo Borsellino, nel 1992. Ed oggi, a 27 anni dalle stragi, di questi due strumenti legislativi si torna prepotentemente a parlare. Si può essere certi che Giovanni Falcone avrebbe colto l'opportunità della collaborazione con la giustizia del suo stesso assassino ed avrebbe messo in atto la legge, senza lasciarsi trasportare da emozioni o sentimenti. Ed è probabile che avrebbe anche perorato la richiesta della detenzione domiciliare per Brusca, così come hanno fatto anche i magistrati della Procura nazionale antimafia, la direzione del carcere di Rebibbia, e le autorità di pubblica sicurezza di Palermo. Forse, in questo delicato momento storico, anziché scandalizzarsi per un'eventuale detenzione domiciliare concessa ad un collaboratore di giustizia si dovrebbero fare barricate, scendendo in piazza, contro la possibile sentenza Cedu che potrebbe spazzare via l'ergastolo ostativo dal nostro sistema giuridico, permettendo la libertà a chi, diversamente, non ha mai intrapreso alcun percorso di collaborazione con la giustizia e che, una volta usciti dal carcere tornerebbero inevitabilmente a delinquere e a manifestare tutto il proprio potere. Come ha scritto il nostro editorialista Saverio Lodato il nostro è un Paese strano dove si rischia di vedere liberi gli assassini criminali e mafiosi, con i collaboratori di giustizia destinati a marcire nelle patrie galere.

L'Italia è un paese per mafiosi, non per pentiti, come Giovanni Brusca. Saverio Lodato su Antimafia duemila il 7 Ottobre 2019. Conobbi Giovanni Brusca, oltre vent’anni fa, nel suo isolamento nel carcere romano di Rebibbia, a un paio di anni di distanza dalla sua cattura in una villetta di San Leone, in provincia di Agrigento (20 maggio 1996). Era l’uomo di Capaci, quello che aveva azionato il telecomando, assassinando così Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, i poliziotti Antonino Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Era l’uomo che aveva commesso - per sua stessa ammissione - fra i cento e i duecento omicidi. Era l’uomo che aveva dato ordine ai suoi gregari - mafiosi come lui - di sequestrare, e poi strangolare il piccolo Giuseppe Di Matteo, di appena quindici anni, perché il padre - Santino - si era pentito, collaborando così con la giustizia italiana. Criminale sino al midollo, mafioso discendente di famiglia di altissimo lignaggio mafioso - i Brusca di San Giuseppe Jato furono tradizionalmente alleati di Totò Riina -, Giovanni Brusca era stato uno dei carnefici di punta della Cosa Nostra "corleonese" in quasi vent’anni di escalation sanguinaria che provocò migliaia di vittime. Volli incontrarlo perché se il suo mestiere era quello del mafioso, il mio è quello del giornalista. Non c’è molto da capire, o da aggiungere. E potrei enumerare decine e decine di altri casi di grandi criminali, comuni o "politici", che sotto ogni latitudine hanno raccolto le loro memorie di fronte al taccuino di un giornalista. Il libro che venne pubblicato al termine dei nostri colloqui esiste ancora, perché da allora viene ristampato ininterrottamente. A riprova che i lettori non hanno mai trovato nulla di strano nel fatto che un giornalista intervistasse un criminale in isolamento. Ma per completezza d’informazione va anche detto che, quasi subito dopo l’arresto, Giovanni Brusca aveva già intrapreso la strada della collaborazione con i magistrati. Prova ne sia che, per incontrarlo in carcere, dovetti ottenere il via libera di quasi una ventina di giudici, sparsi in tutt’Italia, che indagavano a vario titolo, e per un infinita quantità di reati, proprio su di lui. Sarebbe bastato che una sola delle mie richieste fosse stata respinta e io non sarei mai stato ammesso ai colloqui con Brusca. Il libro reca un titolo forte: "Ho ucciso Giovanni Falcone" (Mondadori) e resta l’unica testimonianza dal vivo del killer di Capaci. All’uscita in libreria, Maria Falcone, con dichiarazioni alle agenzie di stampa, si espresse duramente, affermando che lei non avrebbe mai dato possibilità di parola a un criminale. Sono trascorsi vent’anni. Giovanni Brusca, per ammissione ancora una volta di decine e decine di corti che lo hanno esaminato, è risultato veritiero e collaborativo in tutte le sue deposizioni. Maria Falcone oggi, di fronte all’eventualità che la Cassazione dopo ventitré anni di carcere riconosca a Brusca gli arresti domiciliari, torna a ribadire quello che ha sempre detto: che Brusca, in parole povere, non è meritevole di niente. E’ un punto di vista che capisco. Non scrivo queste note per spezzare lance a favore di Brusca. Mi limito però ad osservare che, insieme a Tommaso Buscetta, Giovanni Brusca, per un’epoca differente della storia di Cosa Nostra, è stato il più grande collaboratore di tutti i magistrati intenzionati a contrastare il fenomeno mafioso. Proprio in queste ore, e ne parliamo nell’articolo pubblicato di seguito, e sotto forma di ironico paradosso, la Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sta decidendo in merito al superamento dell’ergastolo per tutti i mafiosi attualmente detenuti, indipendentemente dal fatto che si siano pentiti. Stranamente, anche se per noi non c’è nulla di strano, non si è levata nessuna voce di protesta. Giornali e tv stanno ignorando la notizia. Che vogliamo fare? Rispedire a casa tutti i mafiosi e gettare le chiavi per Giovanni Brusca? Sarebbe alquanto bizzarro. Sarebbe l’ennesimo scempio alla memoria di Giovanni Falcone. Il quale - lo ricordiamo a chi non lo sa, o preferisce dimenticarlo - riteneva che la figura del collaboratore di giustizia andava incentivata e, nel caso di mantenimento del patto, adeguatamente corrisposta dallo Stato. C’è una legge in tal senso. E proprio da lui voluta. Se non piace, il Parlamento può abrogarla in qualsiasi momento. E su questo anche Maria Falcone dovrebbe convenire.

Fiammetta Borsellino: «Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico». Il Dubbio il 30 Ottobre 2019. L’intervento al festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. «Penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. «È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie». È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano. Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale – come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla – «è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine». Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4 bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. «Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo», ha risposto Fiammetta. «Sicuramente io non sono una esperta in questo settore – ha continuato la figlia di Borsellino -, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni». Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di «un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘ la mafia ha perso’ o ‘ la mafia ha vinto’ o anche ‘ la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre». Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita. Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. «A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto», ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti.

Giù le mani da Falcone, non voleva escludere per sempre dai benefici i condannati all’ergastolo ostativo. Damiano Aliprandi l'8 Ottobre 2019, su Il Dubbio. La sentenza della Cedu sul caso Viola fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale. In un recente convegno, organizzato dall’Osservatorio carcere delle Camere penali italiane e da Magistratura democratica, I giuristi hanno concordato che la decisione della Corte europea rimette al centro il concetto di “speranza”. La sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Non distrugge ciò che avrebbe voluto Falcone. Anzi fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato. No, la sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi dal carcere. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Ma, soprattutto, non distrugge ciò che avrebbe voluto Giovanni Falcone. Anzi, al contrario, fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato dal tritolo in via Capaci.

L’ORIGINE DEL 4 BIS NEL RISPETTO DELLA COSTITUZIONE. Ma andiamo con ordine. La Cedu, il 13 giugno scorso, si era espressa sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. Tutto ruota su quella parte del 4 bis che nega, a priori, qualsiasi concezione dei benefici se c’è assenza di collaborazione. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Ciò si avvicina di molto a ciò che aveva voluto Giovanni Falcone quando, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. Perché? Basterebbe leggere un capitolo del recente libro – con la prefazione di Mauro Palma – dal titolo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Un libro pensato da autorevoli giuristi come Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque e Andrea Puggiotto. Giovanni Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone, contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ecco perché la sentenza Viola, se applicata, si avvicina al decreto Falcone originale: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Poi accadde che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, il quale introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario. Con il nuovo decreto legge, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone aveva invece salvaguardato. Usare quindi il suo nome per opporsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo è, di fatto, una operazione irrispettosa per chi, pur combattendo duramente la mafia, aveva a cuore la nostra costituzione.

COLLABORAZIONE E PERICOLOSITÀ SOCIALE. Numerosi esponenti di primo piano dell’attuale governo, Commissione antimafia compresa, hanno sollevato numerose polemiche su tale sentenza, soprattutto puntando sul fatto che se dovesse essere modificato il 4 bis, si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi i permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. Ma la collaborazione è un elemento indissolubile per la lotta alla mafia? L’istituto dei collaboratori di giustizia è uno dei principali strumenti utilizzati negli ultimi venti anni nella lotta contro la criminalità organizzata. Lo stesso Giovanni Falcone, però, uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori, valutava la dichiarazione dei pentiti con grande prudenza. Fu uno dei motivi per il quale venne aspramente criticato. Ma, ritornando alla sentenza Viola, gli stessi giudici della Corte europea hanno evidenziato che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Qui la differenza tra dissociazione e collaborazione. Anche il magistrato Nino Di Matteo ha criticato aspramente la sentenza Viola. A rispondergli però, è Sergio D’Elia dell’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino. «Tale posizione – sottolinea D’Elia – è un atto di sfiducia nei confronti dei giudici delle alte giurisdizioni chiamati a valutare la compatibilità della legge nazionale con i principi fondamentali della carta costituzionale italiana ed europea. Ma è un atto di sfiducia anche nei confronti dei magistrati ordinari, a partire da quelli di sorveglianza, che continuano a mantenere il potere di concedere benefici o misure alternative agli ergastolani». E aggiunge: «E’ un atto di sfiducia anche nei confronti di se stesso, poiché la magistratura di sorveglianza deciderà sulla base delle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia, di cui lui stesso fa parte. Quindi, dopo la fine dell’ergastolo ostativo, capimafia o picciotti potranno uscire dal carcere solo se e quando pm e giudici lo vorranno. A ben vedere, con la sentenza Viola vs Italia, saranno liberi, più che gli ergastolani, i magistrati che oggi hanno le mani legate dal vincolo della collaborazione previsto dal 4 bis». Tali concetti sono stati ribaditi anche durante il convegno organizzato dall’osservatorio carcere delle Camere penali italiane e e da Magistratura democratica che ha visto, tra gli altri, la partecipazione del responsabile dell’osservatorio carceri Gianpaolo Catanzariti, il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini del Partito Radicale, il presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito e il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Tutti concordi nel dire che la sentenza Viola rimette al centro il concetto di “speranza”.

ASPETTANDO LA CONSULTA IL 22 OTTOBRE. E a proposito di speranza, il 22 ottobre la Corte costituzionale dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. Parliamo del caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Le polemiche sono montate soprattutto per questo: il “timore” che la Consulta possa aprire le porte del carcere ai boss mafiosi. A rispondere è l’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti che assiste Cannizzaro. «È un errore macroscopico sostenere questo timore- osserva l’avvocato a Il Dubbio -. Si eliminerebbe solo l’obbligo di collaborare sugli episodi per cui si è stati condannati, ma resterebbe la necessità di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo in carcere, nonché l’ulteriore esigenza di escludere l’attualità di collegamenti con le realtà criminose di originaria appartenenza. Presupposti il cui rispetto sarà sempre sottoposto al controllo di un magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere alcun beneficio penitenziario». Questi sono i fatti, il resto sono fin troppe inesattezze nei confronti dell’opinione pubblica che non fanno altro che alimentare l’ignoranza del diritto e l’indifferenza verso i diritti.

·         Mafie. Chi comanda dietro le sbarre.

L’ultimo custode dell’Asinara: «Ho conosciuto gli uomini più pericolosi d’Italia». Pubblicato sabato, 31 agosto 2019 da Corriere.it. Ti racconta di “zio Paolino”, delle sue capre, di quanto era bravo ad accudirle nell’ovile dell’Asinara mentre scontava la sua condanna per omicidio. «Si dedicava al nostro gregge come fosse il suo. Sarà che io sono molto sensibile a queste cose perché vengo da un paese di pastori ma gli ero proprio affezionato...». Lo chiamava zio perché poteva essere un parente e comunque così lo trattava, «tanto che spesso gli portavo mia figlia piccola che con lui si divertiva....». Seduto al tavolino del piccolo bar di Cala Reale, occhiali scuri e caffè, Gianmaria Deriu è in vena di confidenze. E sorprende un po’ perché lui era un ispettore del carcere e le belle parole sono per un detenuto, persona sulla quale un tempo vigilava. Premessa: il sessantenne Deriu è il solo ex agente rimasto sull’isola dopo la chiusura del penitenziario (1998) dove arrivò appena ventenne: «Non ho avuto la forza di andar via, io sono innamorato di questo mondo così unico, di questi silenzi...». È praticamente l’unico vero abitante dell’isola del Diavolo, l’Asinara. Vive in solitudine nel vecchio palazzo Reale dove un tempo soggiornavano i Savoia e dove lui ora lavora per l’ente Parco. Perché l’isola è oggi un parco nazionale protetto. Asini, capre, cavalli, pernici, che girano liberi fra le strutture della vecchia colonia penale, al cospetto di un mare cristallino. Ed è lì che vanno i pensieri di Deriu, al carcere di un tempo e al rapporto speciale che lui aveva con vari detenuti che gli sono rimasti incredibilmente amici. «Se vuoi lo chiamo e gli chiedo se puoi scrivere il suo nome». Fa il numero e quando l’altro risponde, s’illumina. «Ehi, zio Paolino, come stai?... Ti sei appena buttato a letto. Ti disturbo allora... Io tiro avanti... Senti un po’, c’è qui un giornalista e gli ho raccontato di quanto ti ho nel cuore, può scriverlo il tuo nome?... Bene dai, un abbraccio grande, ti voglio sempre bene». Zio Paolino è dunque Paolo Picchedda di Albagiara (Oristano), oggi ottantenne, che all’Asinara scontò tredici anni per omicidio, fino al 1998 per poi essere trasferito altrove. A volte in carcere nascono delle insospettabili amicizie. Come questa, fra guardia e prigioniero. Chiacchierano, scherzano, ridono. Di tanto in tanto Picchedda va pure a trovarlo all’Asinara, anche perché ha un ricordo piacevole dell’isola. «Gianmaria è un grande uomo», ci dice al telefono. «Quegli anni li ho passati bene, avevo 1.400 capre, non mi sembrava nemmeno di essere un detenuto e quando me ne sono andato mi è dispiaciuto. Appena posso ci torno. L’anno scorso Gianmaria mi ha anche ospitato tre giorni a Palazzo Reale...». Il loro legame non è un caso unico. Deriu è infatti rimasto in contatto con diversi reclusi della colonia penale. «Un altro è Peppe, il meccanico, quello aveva le mani d’oro, un grande ingegno ... Mi piaceva anche perché con lui l’officina era sempre molto ordinata e pulita... Aspetta che lo chiamo...». Fa il numero di Peppe, condannato per traffico di droga e altro. «Ehi, carissimo, tutto bene...? Gli ho raccontato della ruspa che avevi smontato e rifatto... E quella volta del cinghiale? Ah ah, che ridere... Bei momenti Peppe. Conservo sempre un bel ricordo di te anche se eri in galera... Va bene, niente nome, ciao. Passa a trovarmi». Peppe non vuole essere citato e Deriu rispetta il desiderio: «È tutta gente che ho nel cuore». I suoi ricordi sono una galleria di personaggi, perché dall’Asinara sono passati uomini che hanno fatto la storia del crimine, assassini, sequestratori, capi terroristi rossi e neri, boss di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta. Deriu li ha conosciuti un po’ tutti. «Andiamo alla Scomunica che ti racconto». La punta della Scomunica è la «cima» dell’isola, 408 metri. «Il mio rifugio, ci vado quando voglio riflettere». Come se vivere in un’isola praticamente da solo non gli bastasse a raccogliere i pensieri. Ci andiamo con un fuoristrada che Deriu normalmente usa per intervenire su qualche emergenza di questi 52 chilometri quadrati di territorio ondulato dove c’è sempre almeno un turista in difficoltà. Attraversiamo il piccolo borgo di Cala d’Oliva che ha una storia singolare. Qui c’è la casa rossa sul mare dove nell’agosto del 1985 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, minacciati dalla mafia, si trasferirono con le famiglie per scrivere la sentenza del maxi processo di Palermo contro Cosa Nostra. E duecento metri più in là c’è il carcere bunker che nel 1993 recluse il capo dei capi, Totò Rina: «Ho rifiutato il servizio quella volta, è stato l’unico rifiuto della mia carriera. Il direttore mi aveva chiesto di fare qualche turno ma ho detto mi spiace, non ci riesco». Motivo? «Con Falcone e Borsellino avevo stretto una bella amicizia. Le stragi sono state per me un colpo al cuore. E per questa ragione ho preferito stare lontano da Riina». L’ex br Alberto Franceschini. Iniziamo a salire verso punta della Scomunica, sei chilometri di sterrato sconnesso. Si corre, si salta, si balla, fra arbusti, garitte e muli bianchi che spuntano in qua e in là senza timori. «Guarda lì, in quel campo lavorava Elia Martella, detenuto modello, era dentro per un delitto passionale. Aveva un mulo e curava un orto. Quando se ne andò chiese di portarsi il mulo ma gli dissero di no e dopo poco, senza Elia, il mulo morì». Ancora un paio di chilometri di buche ed eccoci alla meta, la cima che ama. Deriu scende, raggiunge una roccia e ci invita a guardare la sua isola, che da quassù sembra una grande clessidra. «Stupenda», sorride cercando il refrigerio del vento. «Vedi com’è? Vedi il mare di fuori, da quella parte c’è Cala Tappo», indica. «Boe è scappato da lì». Matteo Boe, il bandito di Lula che qui ha scritto una pagina epica per essere riuscito, unico nella storia, a evadere. Primo settembre 1986. Con l’aiuto di un altro detenuto, tramortì una guardia e fuggì a bordo di un gommone portato sull’isola dalla sua donna. Era Laura Manfredi, una modenese figlia di imprenditori che lui aveva conosciuto all’Università di Bologna dove studiavano entrambi. Boe fu poi catturato e ricondannato, facendosi così 25 anni di galera che ha finito di scontare nel 2017. «Per un agente l’evasione è sempre una sconfitta ma io non riservo mai rancore, di indole tendo a metterci una pietra sopra». Ha rivisto anche Boe? «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». C’è un codice non scritto che regola questi rapporti e che vale soprattutto con certi detenuti. Deriu lo conosce bene, lo rispetta e sa dove si deve fermare. Come sa che di altri qualcosa può dire. I brigatisti e i neofascisti, per esempio. All’Asinara sono finiti leader come Renato Curcio, Alberto Franceschini, Pierluigi Concutelli. «Franceschini si è commosso quando mi salutò per andarsene. È venuto poi due volte a trovarmi, ci sentiamo spesso...». Deriu riflette: «Dopo tanti anni gli animi si quietano. Si trova una certa pace, una certa serenità. Ai vecchi detenuti chiedo sempre se stanno bene, se lavorano. Mi fa piacere che la loro vita abbia un senso... Non ho mai visto in loro dei criminali, non solo almeno. In ciascuno c’era del buono, c’erano delle qualità...». Zio Paolino faceva sorridere le capre, Peppe rianimava i motori, Elia amava il mulo. 

Da.Sa. per “il Mattino” il 4 dicembre 2019. Nessun contatto con l' esterno, colloqui con i familiari limitati e controllati, isolamento dagli altri detenuti. In poche parole, il carcere duro riservato a boss e mafiosi per evitare che comunichino con gli affiliati liberi. Invece, il boss che per anni si è finto pazzo, percependo anche la pensione di invalidità, aveva tre smartphone in cella al 41bis. La scoperta è stata effettuata nel carcere di massima sicurezza di Parma, dove da mesi è detenuto Giuseppe Gallo, noto negli ambienti della camorra napoletana con i soprannomi «scignetella» e «Peppe o pazzo», 43enne di Boscotrecase e capo del clan Gallo-Limelli-Vangone di Boscotrecase, una delle cosche più ricche, potenti e feroci della provincia. Poche settimane fa, alla moglie è stato sequestrato un impero milionario, una parte dei beni nella disponibilità della cosca che secondo l' Antimafia superano i 100 milioni. Tre giorni fa Gallo è stato condannato in appello a 20 anni per aver partecipato al duplice omicidio di Massimo Frascogna e Ruggiero Lazzaro, nella faida innescata dagli Scissionisti a nord Napoli. Nella stessa giornata, collegato in videoconferenza con il tribunale di Torre Annunziata dove è in corso un altro processo sul traffico di droga, ha chiesto la parola ed ha attaccato platealmente alcuni collaboratori di giustizia. In particolare Antonio Maresca, ex imprenditore del settore catering al soldo del suo clan, accusato di essere «un bugiardo e anche un cattivo pagatore». Uno dei pochi boss di camorra della provincia a poter godere di un nascondiglio a Scampia durante la sua latitanza, per anni Giuseppe Gallo era riuscito a evitare processi e detenzione grazie all' attestazione di una schizofrenia, una patologia che gli permetteva di incassare 720 euro mese di pensione di invalidità grazie alla connivenza di alcuni medici. Per il sistema sanitario campano era pazzo, per l' Antimafia uno spietato boss di camorra. Anni di indagini hanno permesso di dimostrare la seconda tesi e dal 2010 è detenuto al regime di massima sicurezza riservato ai capi di mafia più pericolosi. Tra un tentativo di suicidio e una perizia psichiatrica, Gallo è stato condannato in diversi processi e sta scontando ad oggi 20 anni definitivi per traffico internazionale di stupefacenti, con altre condanne pendenti: a parte quella per il duplice omicidio, anche altri 30 anni di reclusione per il rapimento, il pestaggio e le torture a due fratelli che non avevano pagato un carico di droga. Detenuto al 41bis, appunto, ieri mattina gli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) della Polizia penitenziaria e quelli del Nic (nucleo investigativo centrale) hanno scovato nella sua cella addirittura tre telefonini. Un iPhone e due apparecchi Android, tutti perfettamente funzionanti e dotati di schede sim sulle quali sono state avviati accertamenti. Gallo sostengono gli investigatori utilizzava quasi quotidianamente il cellulare e sono in corso indagini per accertare con chi parlava e soprattutto se questi telefoni venivano utilizzati o messi a disposizione anche da altri detenuti. Di questo rinvenimento, ovviamente, è stata informata la procura nazionale antimafia: Giuseppe Gallo, infatti, è il primo detenuto al 41bis trovato in possesso di cellulari, almeno il primo di cui si ha conoscenza. Ieri, dunque, è stato scoperto per la prima volta in Italia che anche il regime del carcere duro è permeabile. Una falla incredibile, sulla quale sono in corso le indagini. Innanzitutto sui contatti avuti da Gallo direttamente dal carcere grazie ai suoi smartphone. Ma anche su chi ha frequentato negli ultimi mesi la cella del boss tra personale del penitenziario, guardie, medici che possano aver avuto contatti con lui. Infine, sui pochi parenti ancora autorizzati ai colloqui. Nel frattempo, il suo difensore, l' avvocato Ferdinando Striano, ha preferito non commentare l' insolito ritrovamento.

Mafia, boss detenuto al 41bis scoperto con tre cellulari nel carcere di Parma. Carenze nel regime speciale che doveva far diventare il carcere impermeabile all'esterno. Lirio Abbate il 29 novembre 2019 su L'Espresso. I detenuti al 41 bis, il regime speciale pensato in passato come il carcere “impermeabile” per i mafiosi, adesso, di fatto, è diventato permeabile. Non è più il “carcere duro” di venticinque anni fa, tutto è cambiato, e ora i boss riescono pure a comunicare con l'esterno attraverso telefoni cellulari. Nella cella di uno dei capi della camorra, detenuto al 41bis a Parma, Giuseppe Gallo, detto “Peppe o pazzo”, sono stati trovati tre telefoni, un Iphone e due apparecchi Android, che il camorrista teneva nascosti in cella. Tutti e tre perfettamente funzionanti e dotati di schede sim sulle quali sono state avviati accertamenti. La scoperta è stata fatta dagli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) della Polizia penitenziaria e da quelli del Nic (nucleo investigativo centrale) e  di questo rinvenimento è stata informata la procura nazionale antimafia. Il camorrista Gallo utilizzava quasi quotidianamente il cellulare, e indagini sono in corso per accertare con chi parlava e soprattutto se questi telefoni venivano utilizzati o messi a disposizione anche da altri detenuti. È uno dei primi casi in cui si scopre che un detenuto al 41 bis utilizza il cellulare. Tutto ciò fa pensare ad un allentamento di questo regime carcerario speciale che aveva come obiettivo quello di impedire i collegamenti con l'esterno. Sempre più spesso, invece, si scoprono telefoni cellulari nei reparti dei detenuti che sono in alta sicurezza, ma al 41bis non era mai accaduto fino adesso, almeno non risulta ufficialmente. Il controllo dei 41bis è affidato agli agenti del Gom, un gruppo non “speciale” ma specializzato, chiamato a operare su problemi specifici come la detenzione dei boss. Sono agenti poco noti al pubblico, di notevole competenza e capaci di lavorare con grande sacrificio. Il loro reparto, anno dopo anno, viene ridimensionato per numero di agenti, mentre i detenuti sottoposti allo speciale regime aumentano sempre di più. Nell’ultimo anno il carcere “impermeabile” ha subito una serie di criticità per l’applicazione di una circolare varata due anni fa. Questo provvedimento, impugnato dai detenuti, ha portato la magistratura di sorveglianza a renderlo difforme tra i vari istituti. La volontà di uniformare questo regime detentivo si è così dimostrata un tentativo poco lungimirante di disciplinare gli aspetti della vita dei mafiosi carcerati. Il progressivo svuotamento dei contenuti del regime speciale, ad opera delle numerose pronunce della magistratura di sorveglianza, ha avuto risvolti negativi sia sulle finalità del regime ma anche sull'organizzazione dell'intero sistema che si occupa della gestione di questi detenuti. In più c'è pure la difficoltà per gli agenti di attuare le disposizioni quando si trovano davanti a strutture carenti che non permettono di far osservare al meglio il 41 bis e in tanti lamentano pure la mancanza di direttive specifiche a livello centrale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria su questo regime speciale. Il 41bis sembra essere stato dimenticato o lasciato al suo destino. La scorsa commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, aveva affrontato nella relazione conclusiva questo regime di detenzione, sostenendo che «rappresenta un insostituibile corollario della legislazione antimafia di cui si è dotato il nostro Paese». Per poi aggiungere, usando le dichiarazioni rese in commissione dal procuratore antimafia Maurizio de Lucia che «il regime del 41-bis ha cambiato un panorama che prima della sua introduzione era assolutamente devastante, perché l’espressione “grand hotel Ucciardone” è stata coniata non dalla stampa o dai magistrati, ma proprio dai collaboratori di giustizia. Tutti, infatti, hanno raccontato cos’era il carcere (..) che non interrompeva il carattere di continuità di governo dei capi: quindi per loro era indifferente essere fuori o dentro il carcere, perché continuavano a comandare». Secondo la commissione antimafia «Se, non si interrompessero, soprattutto per le organizzazioni mafiose di tipo verticistico, i contatti delittuosi di taluni detenuti “qualificati”, lo stato detentivo dei soggetti per i quali ricorrono “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” ed “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale”, si rivelerebbe un fattore neutro per le associazioni criminali che continuerebbero a operare normalmente, perfino per le questioni di “straordinaria amministrazione”, così vanificando gli sforzi compiuti nella lotta alle mafie e le stesse finalità della pena». Nella relazione veniva evidenziato che «numerose vicende registrate negli ultimi anni hanno dimostrato come, in effetti, l’istituto si sia rivelato indispensabile. È stato grazie all’articolo 41-bis che, per fare solo un esempio, la commissione provinciale di Cosa nostra non si è potuta ricostituire quando i “capi mandamento” della Sicilia occidentale, alla fine del 2008, necessitavano di rifondare la struttura di vertice che  potesse consentire loro di tornare a realizzare, testualmente, “le cose gravi”. La necessaria autorizzazione del capo in carica, Totò Riina, proprio perché ristretto al “carcere duro”, tardava ad arrivare, sì da consentire all’autorità giudiziaria di intercettare le conseguenti agitazioni della consorteria mafiosa e, dunque, di interrompere, con gli arresti, quel pericoloso disegno criminale che avrebbe riportato la Sicilia nei suoi anni più bui». La commissione antimafia concludeva dicendo: «Il regime speciale continua a rivelarsi un importantissimo supporto per il contrasto alla criminalità mafiosa. Proprio per questo, lo Stato dovrebbe compiere un ulteriore sforzo per fornire le strutture adeguate senza le quali si rischia di vanificare le restrizioni adottate e di conferire loro una portata afflittiva contraria ai principi dell’ordinamento. L’adeguatezza riguarda, oltre che la creazione – mediante nuovi istituti o la riorganizzazione di quelli preesistenti – di penitenziari “dedicati”, anche l’aspetto sanitario, al fine di garantire ai detenuti tutte le cure e le assistenze necessarie, senza per ciò affievolire la tutela delle esigenze di ordine pubblico. Per il resto, il quadro normativo, dopo gli interventi legislativi, appare idoneo al suo fine, anche se alcuni miglioramenti sono ancora possibili, come in tema di formazione dei gruppi di socialità e di uniformazione della giurisprudenza delle magistratura di sorveglianza, nei termini già indicati nel corso della presente relazione. Con riferimento alle prassi applicative, deve segnalarsi la preoccupazione sulle interpretazioni “umanitarie” che, dal campo dei sacrosanti diritti dei detenuti, si spostano sul sistema complessivo della prevenzione che viene irrimediabilmente compromesso, come avvenuto in tema di colloqui con l’esterno e di accesso alla stampa da parte dei detenuti, nelle accezioni chiarite nella pagine precedenti. Stessa preoccupazione si manifesta con riguardo all’interpretazione dei presupposti che danno luogo all’applicazione, prima, e alla proroga, poi, del regime speciale, che se non rapportate rigorosamente ai “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, può condurre a un’estensione considerevole dell’articolo 41-bis, sì da far implodere, alla lunga, l’istituto e, comunque da non assicurare, per i detenuti che effettivamente creano una situazione di pericolo, il funzionamento rigoroso del sistema». Intanto i mafiosi iniziano a telefonare dalle loro celle.

M.L. per il “Fatto quotidiano” il 7 novembre 2019. La Procura generale di Palermo sta indagando su una storia incredibile: Totò Riina aveva un telefonino nel carcere di Rebibbia quando era recluso nel luglio 1993. Proprio mentre i suoi fedelissimi Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, sotto la regia del cognato-reggente Leoluca Bagarella, realizzavano le stragi e le bombe di Roma e Milano per piegare lo Stato e costringerlo a trattare, Riina disponeva di un cellulare in carcere. La storia, dai contorni ancora da verificare, è stata raccontata al processo d' appello sulla Trattativa il 14 ottobre da un giudice di grande esperienza: Andrea Calabria, 64 anni. Da allora i pm in gran segreto stanno svolgendo indagini e hanno già trovato i primi riscontri. Non solo e non tanto sull' esistenza del telefonino oggi impossibile da verificare. Quanto sul perché Riina sia rimasto detenuto, dopo quella segnalazione proveniente dal Capo della Polizia, in un carcere che sembrava voler favorire i suoi contatti con l' esterno. La storia del telefono in mano a Riina (recluso all' isolamento del 41 bis!) era scritta in una nota riservata del Capo della Polizia. Lo ha raccontato a sorpresa nell' aula bunker del carcere dell' Ucciardone solo 20 giorni fa il giudice Andrea Calabria. Nel 1993 si occupava di detenuti al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Oggi è presidente di sezione della Corte d' Appello di Roma. Calabria ha avuto un momento di fama in qualità di presidente della Corte del caso Vannini: è sua la sentenza, con relatore Giancarlo De Cataldo, che ha ridotto la pena a 5 anni per Antonio Ciontoli, l'uomo che ha sparato accidentalmente e poi ha ritardato i soccorsi al fidanzato della figlia, un ragazzo di 20 anni, Marco Vannini. Calabria, nell' aula bunker dell'Ucciardone a Palermo, ha ricordato così quel che accadde nel luglio 1993. L'incipit non è solenne: "Non so se l'avevo già detta questa cosa piuttosto importante che riguardava Riina () venne una segnalazione riservata del ministero dell'Interno credo proprio dal capo dalla polizia nella quale si ipotizzava che con l'ausilio di alcun agenti di polizia penitenziaria a Rebibbia Riina avesse a disposizione un apparato per comunicare con l'esterno, un telefono o un telefonino". Calabria prosegue: "Fui proprio io, d'accordo con il consigliere Filippo Bucalo, a trasferire Riina al carcere di Firenze Sollicciano per qualche mese in attesa di fare gli accertamenti e verificare se questa notizia fosse fondata o infondata". A stoppare tutto fu Francesco Di Maggio, il vicecapo dipartimento del Dap, un magistrato famoso perché era stato più volte ospite di Maurizio Costanzo in tv, quasi come un novello Falcone. "Io presi qualche giorno di ferie, Di Maggio richiamò Bucalo - prosegue Calabria - e gli fece revocare il provvedimento facendo rimanere Riina detenuto a Rebibbia. In base a quali informazioni io non lo so". Secondo Calabria il Capo della Polizia non diceva come aveva saputo quella notizia: "Sono quelle relazioni riservate che sono indirizzate al Dap, dove non si indica la fonte". Il capo della Polizia allora era il prefetto Vincenzo Parisi, scomparso negli Anni Novanta come Di Maggio. Il capo dipartimento, Adalberto Capriotti, non era molto operativo e Di Maggio era più di un semplice vice. Proprio perché non era in ufficio, la nota riservata rimase ferma per quattro giorni. Preoccupata per l' inerzia e per le sue conseguenze, secondo Calabria, fu la dottoressa Cinzia Calandrino, segreteria particolare del capo del Dap, a metterne a conoscenza il capo dell' ufficio detenuti Filippo Bucalo e il suo vice, Andrea Calabria, appunto. I due subito disposero il trasferimento. Ad agosto Calabria parte per le ferie, di ritorno scopre che Di Maggio ha revocato il trasferimento e Riina non si è mai mosso da Rebibbia. Calabria non ha un buon rapporto con Di Maggio. Non chiede perché Riina non sia stato trasferito. Né se fosse stata attivata un'inchiesta sul telefono a Rebibbia e su eventuali complicità delle guardie penitenziarie. Di certo nessuno ha mai informato la Procura di Palermo, diretta allora da Gian Carlo Caselli. I magistrati palermitani della Procura generale sono andati a Roma nei giorni scorsi negli uffici del ministero per cercare la nota del Capo della Polizia del luglio 1993. Non l'hanno trovata. Però un riscontro al racconto del dottor Calabria c' è: nell' estate del 1993 ci furono due provvedimenti ravvicinati. Il primo disponeva il trasferimento immediato di Riina a Sollicciano. Il secondo lo revocava. Ora la Procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato vuole capire perché.

Mafia, allarme per i minicellulari: «Sono in tutte le carceri, ordini via sms». Il fenomeno in Puglia e e Basilicata. Pochi giorni fa la scoperta di un boss che ordinò un delitto dalla cella. Massimiliano Scagliarini il 3 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nei negozietti di elettronica degli extracomunitari si vendono a 20 euro. Su Amazon costano addirittura meno. Sono cellulari cinesi. I più piccoli pesano 15 grammi e sono alti appena 6 centimetri. Facilissimi da nascondere, vendutissimi a chi ha una relazione clandestina. E - secondo la Direzione distrettuale antimafia - ormai onnipresenti in carcere, consentendo così ai boss di tenere i contatti con l’esterno. La scorsa settimana i carabinieri, nell’ambito di una indagine per omicidio collegata al clan Strisciuglio del capoluogo, hanno effettuato sequestri di minicellulari nelle carceri di Bari, Trani, Matera, Melfi e in Sicilia. Escluse allo stato complicità degli agenti della polizia penitenziaria, è altamente probabile che i telefonini vengano portati all’interno durante i colloqui con i familiari, nei pacchi dei viveri o in quelli della biancheria, un po’ come la lima che nei fumetti veniva nascosta nella torta. Una logistica complessa contro cui, teme chi in queste ore si sta occupando del problema, ci sono poche contromisure se non accurate perquisizioni: è improponibile l’uso di jammer per schermare le celle (se non nei reparti destinati ai detenuti al 41 bis, ma non è questo il caso), perché la rete cellulare serve anche al personale in caso di emergenze. I boss sono dunque tornati ai vecchi sms. Anche perché i mini-cellulari non hanno sistema operativo, e questo dagli affiliati ai clan è considerato un vantaggio: in questo modo non possono essere attaccati con i trojan, i programmi che trasformano il telefonino in una microspia e che ormai vanno molto di moda. Saverio Faccilongo, il plenipotenziario degli Strisciuglio nel quartiere San Pio di Bari considerato il mandante dell’omicidio di un rivale interno al clan, secondo i carabinieri dava ordini dal carcere proprio con un minicellulare, e aveva perfettamente chiari i rischi dell’uso della tecnologia: alla moglie che gli chiede il permesso di dare il suo numero ad altri «amici», Faccilongo fornisce per sms indicazioni precise. «Chiama lo zio subito e allontanate i tel vostri quando parlate, attenzion amo dai il mio a lei ma solo se è nuova». Vuole insomma essere chiamato solo se la scheda dell’interlocutore «è nuova», per evitare che le forze di polizia potessero già averla sotto intercettazione. «Allontanate i telefoni vostri quando parlate», per paura che contenessero un trojan capace di captare la conversazione. E non è un atteggiamento paranoico: il cellulare di Michele Ranieri, la vittima dell’omicidio di San Pio, veniva ascoltato in tempo reale dagli investigatori proprio grazie a un software spia. L’indagine della Dda di Bari ha evidenziato il ruolo delle mogli dei capi delle organizzazioni criminali, che - facendo passare i numeri di telefono - consentivano i mariti di parlarsi da un carcere all’altro. È il caso, ad esempio, dei colloqui tra Faccilongo e altri due detenuti ritenuti esponenti di spicco del clan di Enziteto, Nicola Ciaramitaro (detenuto a Melfi) e Aldo Brandi (rinchiuso a Matera): la moglie di Faccilongo aveva chiesto al marito di poter passare il suo numero a «Marika» e «Ale», i nomi di battesimo delle mogli dei due sodali. «Marika no dal tel grande», scrive Faccilongo alla moglie: intende ordinare all’interlocutore di non utilizzare uno smartphone, sempre per il terrore dei trojan.

Mafie. Chi comanda dietro le sbarre. Lirio Abbate su L'Espresso, il 18 agosto 2019. Se si vuol comprendere meglio com'è strutturata la mafia sul territorio occorre guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti di chi sta nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai detenuti sottoposti al 41bis, guardare da vicino la vita carceraria e quali tipi di rapporti si creino tra detenuti. Questo esame sui boss reclusi può aiutare a capire come si muovono i mafiosi che sono fuori. I dettagli della vita carceraria illuminano, agli occhi degli investigatori, gerarchie e le alleanze che rispecchiano quelle che si organizzavano sul territorio. Si parte dal primogenito di Salvatore Riina, Giovanni. 43 anni, in cella dal 1996 a scontare la condanna all'ergastolo per quattro omicidi compiuti a Corleone. È stato lui fino a poco tempo fa il mafioso di riferimento per tutti i detenuti sottoposti al 41bis nel carcere di Spoleto dove è rinchiuso dal 2008. Un riflesso condizionato dovuto al potere che aveva suo padre. E così, per "rispetto" del capo dei capi, è toccato al giovane Riina "aprire" il "saluto" del mattino con tutti i detenuti della sezione. Lo ha fatto dalla sua cella: urlando attraverso feritoie e canali d'aria il suono della voce raggiungeva tutti. Un modo per augurare il buon giorno e, dopo questo "benestare", si apriva la giornata, mentre gli altri a turno, si mettevano in linea con la scala gerarchica. Un gesto simbolico ma chiaro per il popolo dei carcerati. Perché la mafia vive e si nutre di simboli e gesti. Giovanni Riina è nato in clandestinità, durante la latitanza del padre, come i suoi tre fratelli. È stato partorito in una delle migliori cliniche di Palermo, è cresciuto nel lusso. L'ultima abitazione fino al 15 gennaio 1993, giorno dell'arresto del capo di Cosa nostra, è stata una sfarzosa villa in via Bernini alla periferia della città, con tanto di piscina e boiserie in quasi tutte le stanze, di proprietà della società Villa Antica di Giangiuseppe Montalbano, mai indagato per questi fatti. La carriera di assassino di Giovanni inizia dopo la maggiore età. Ha 19 anni quando il 22 giugno 1995 strangola a mani nude un uomo, innocente, per "provare agli altri boss della cosca la freddezza e la capacità di sopprimere una vita umana". Questo omicidio è stato il battesimo del fuoco per il rampollo della famiglia, deciso dallo zio, Leoluca Bagarella, all'epoca latitante, e sconvolto per la morte della moglie, Vincenzina Marchese. Oggi è ancora ignoto se la donna si sia suicidata per colpa del marito o sia stata uccisa. Il suo corpo non è stato mai trovato. Il primogenito di cava Riina ha partecipato ad altri tre delitti, sempre nel 1995, due uomini e una donna, vittime innocenti che non avevano nulla a che fare con la mafia. Dopo dieci anni di "apertura del saluto", il rampollo di casa Riina ha smesso dal giorno seguente alla morte del padre. Scomparso il capo dei capi, è scomparso anche lui dalla gerarchia carceraria. E questo fa comprendere come gli assetti dentro Cosa nostra sono immediatamente cambiati dal momento in cui è deceduto Salvatore Riina. Nel frattempo il carcere di Spoleto si è arricchito di nuovi arrivi, il primo è Leandro Greco, 29 anni, nipote di Michele Greco, il "papa" di Cosa nostra. Dal nonno ha ereditato il carisma mafioso, diventato presto, nonostante la giovane età, un boss della zona di Ciaculli a Palermo dove aveva grande influenza il "papa". È nella stessa sezione di Mila jr. Il secondo arrivo è Giuseppe Sirchia, affiliato di spicco della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, una delle più importanti del capoluogo siciliano. Entrambi potrebbero portare un nuovo assetto del potere mafioso in carcere, rispecchiando quello di fuori. Nel carcere dell'Aquila il "saluto" lo aprono i mafiosi palermitani Gianni Nicchi, Ignazio Fontana e Andrea Adamo. Sono loro a gestire con il loro carisma criminale la vita carceraria dei mafiosi al 41bis. Prima di loro la linea veniva data da un altro capomafia, Leonardo Vitale senior, adesso trasferito nel carcere di Sassari dove è molto complicato fare il "saluto" o dare la linea al popolo delle mafie che è rinchiuso li, perché questa struttura ultra moderna, realizzata appositamente per i 41bis, è un carcere "impermeabile", cioè che blocca la comunicazione con l'esterno. E di questo i detenuti hanno timore, rispetto agli altri istituti dove i vecchi edifici hanno sempre qualche crepa in cui il mafioso riesce a infilarsi, sfuggendo al controllo. A Sassari è rinchiuso Leoluca Bagarella e pure Massimo Carminati, il capo di mafia Capitale, in attesa della decisione della Cassazione in calendario a ottobre. Carminati, che nel frattempo ha cambiato squadra di legali, per preparare meglio la difesa, è rimasto impassibile alla notizia dell'omicidio di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, avvenuto in un parco di Roma con modalità in pieno stile mafioso. Il cecato conosceva bene la vittima, e apprendendo la notizia non ha mosso Prima Pagina un muscolo, non ha fatto alcun commento. È apparso così tranquillo come quando due giorni prima dell'agguato ha incontrato in carcere il figlio per il solito colloquio con i familiari. L'uccisione di Diabolik non è un fatto che si possa ignorare, perché il calibro della vittima e la sua importanza criminale modificano gli equilibri tra i clan romani. Se l'omicidio è stato concordato dai "re di Roma", allora significa che è stata infranta la pax mafiosa che nel 2012 era stata imposta proprio da Carminati, per non attirare l'attenzione degli inquirenti sui propri affari. L'ordine era stato rispettato fino adesso. Il controllo dei 41bis è affidato in carcere agli agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile) della Polizia penitenziaria, un gruppo non "speciale" ma specializzato, chiamato a operare su problemi specifici come la detenzione dei boss. Sono agenti poco noti al pubblico, di notevole competenza e capaci di lavorare con grande sacrificio. Ma il loro reparto è a rischio. Un decreto che di fatto lo avrebbe svuotato era sul tavolo del ministro della Giustizia Bonafede, al vaglio del suo capo di gabinetto, Fulvio Baldi e del capo Dap, Francesco Basentini. Nell'ultimo anno il regime di carcere "impermeabile" sta subendo una serie di criticità per l'applicazione di una circolare varata due anni fa che vuole rendere omogeneo in tutte le carceri il 41bis. Provvedimento impugnato dai detenuti che ha portato la magistratura di sorveglianza a renderlo difforme tra i vari istituti. La volontà di uniformare questo regime detentivo si è così dimostrata un tentativo poco lungimirante di disciplinare gli aspetti della vita dei mafiosi carcerati. I detenuti fanno parte di un micro-sistema sociale capace di sviluppare una serie di regole non scritte, condivise da tutti e rivolte a tutti. Chi non le applica viene punito dal popolo carcerario, guidato sempre, nei reparti in cui si trovano i mafiosi, da un boss rispettato e riverito. "Le "buone maniere" non riguardano soltanto il saluto" racconta chi è stato detenuto. "Per esempio, il sedersi a tavola ha una simbologia particolare che non ha niente a che fare con il bon ton, ma piuttosto con il potere del "capo cella" che solitamente è una persona "di rispetto". La disposizione dei posti a tavola è gerarchica: c'è il capotavola e al suo fianco le sue persone di fiducia, i suoi "ragazzi"; gli altri vengono disposti secondo un ordine dettato dal capo-tavola e sempre rispettato; le persone in fondo al tavolo sono le meno considerate. Addirittura, una tipologia di punizione può essere quella di far scalare un componente verso il basso, che è la parte opposta al posto principale. Di fronte, dal lato opposto della tavola non ci deve essere nessuno, in quanto, essendo disposta la tavola verticalmente al cancello d'ingresso - il "blindo" deve essere tassativamente accostato o chiuso - nessuno deve poter rivolgere le spalle a chi potrebbe presentarsi fuori dalla cella per qualsiasi motivo, agenti penitenziari compresi. E il capo cella deve poter avere sempre la visuale libera". Preparare la tavola, sedersi e, alla fine del pranzo, alzarsi. Tutto è un rito, con gesti, movimenti e linguaggio che sottolineano la supremazia di uno sugli altri. Una rappresentazione visiva del potere, della gerarchia, di chi comanda e di chi sono gli alleati.

Tavolate e boss che comandano: tutto vero ma prima del 41 bis…Damiano Aliprandi il 20 Agosto 2019 su Il Dubbio. “L’Espresso” descrive una situazione, ma I garanti ribadiscono: le norme lo vietano. Mauro Palma sottolinea che il saluto viene ritenuto come una violazione del divieto di comunicazione e spesso viene sanzionato. Detenuti al 41 bis che pranzerebbero insieme in maniera tale da riproporre in tavola la scala gerarchica mafiosa, i saluti tra di loro che sarebbero da ricondurre a rituali mafiosi, il figlio di Riina che comanderebbe al carcere di Spoleto, il presunto esempio virtuoso del 41 bis del carcere di Sassari.

L’ARTICOLO DELL’ESPRESSO. Ma è tutto vero ciò che è stato scritto nell’ultimo numero de L’Espresso? Il regime speciale, ricordiamo, è stato introdotto come misure emergenziale dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Lo scopo originario è quello di evitare che i boss mafiosi diano ordini all’esterno attraverso il proprio gruppo di appartenenza. Tale istituto, com’è noto, è stato reso stabile nel 2002 con il governo Berlusconi. Poi, nel 2009, c’è stato un ulteriore intervento legislativo che l’ha reso ancor di più rigido. Ma il 41 bis, fin dalla sua istituzione, è stato più volte redarguito da varie sentenze della Corte costituzionale affinché non diventi un “regime duro” e che si limiti al solo scopo originario. Premessa indispensabile, onde evitare di parlare di ammorbidimento, o addirittura una concessione alla mafia, ogni provvedimento che eviti di farlo uscire fuori dal perimetro costituzionale. Il 41 bis, quindi, presenta diverse restrizioni che lo rendono differente dalla detenzione normale. A partire dalla socialità.

IL REGIME SPECIALE. Per i reclusi al regime speciale, è possibile solo incontrarsi – teoricamente due ore al giorno sono per la socialità, anche se in molti istituti ancora vige la regola incostituzionale di una sola ora – tra compagni di gruppo, con un numero variabile tra i 2 e i 4 detenuti. Ma non è possibile mangiare insieme. Quindi niente tavolata a pranzo o a cena. Ma non solo. Per quanto riguarda i gruppi di socialità, è difficile che ci siano persone della stessa regione geografica, quindi va da sé pensare che un sistema di gerarchia di potere tra di loro non può assolutamente esserci. C’è la questione del saluto che mette in evidenza l’Espresso. È vero. Nella maggior parte delle carceri che ospitano il 41 bis, per via della struttura, c’è il rischio che taluni detenuti, non appartenenti allo stesso gruppo di socialità, possano scambiarsi dei saluti. Raggiunto da Il Dubbio, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha tenuto a precisare che «l’articolo de L’espresso parte da due principi positivi: l’importanza del ruolo dei Gom e l’impermeabilità, che appunto non vuol dire carcere duro, ma evitare che i boss veicolino messaggi all’esterno».

LA SPIEGAZIONE DI PALMA. Per quanto riguarda il discorso del saluto, Mauro Palma sottolinea che viene ritenuta come una violazione del divieto di comunicazione e spesso viene sanzionata. «In alcuni istituti, anche in maniera estremamente rigida», aggiunge il Garante. E fa l’esempio dell’istituto de L’Aquila. «Abbiamo verificato che al regime del 41 bis aquilano, salutare una persona facendo seguire al saluto anche il nome di battesimo, era considerato una violazione del divieto di comunicazione e pertanto da sanzionare con l’isolamento». Per il garante ciò è eccessivo, perché «ci dovrebbe essere la necessità di mantenere rigorosamente la chiara differenza tra il divieto di possibile comunicazione e il divieto di parola: l’osservata attivazione di procedimento disciplinare per chi saluti – chiamandola per nome – una persona non del proprio gruppo di socialità, sembra avvicinarsi più a questa seconda ipotesi che non al necessario controllo sulla prima». Ma al regime del 41 bis del carcere di Spoleto esiste un predominio di taluni boss su altri, come il figlio di Totò Riina?

IL GARANTE DEL LAZIO: IL FIGLIO DI RIINA NON COMANDA. Raggiunto da Il Dubbio, il garante regionale del Lazio e Molise Stefano Anastasìa smentisce tale dinamica. «Che ci siano persone più “famose” rispetto ad altre è fuori discussione, perché al 41 bis ci sono anche boss ristretti che erano a capo di piccoli gruppi criminali. Detto questo, se ci sono boss che vogliono in qualche modo comandare all’interno dei gruppi di socialità, esistono le aree riservate dove di fatto, vengono isolati da tutto e tutti». Il Garante Anastasìa sul caso specifico spiega che questo problema del figlio di Riina che avrebbe dettato legge è assolutamente inesistente. «Se fosse stato così, come detto, lo avrebbero mandato nelle aree riservate e soprattutto né il personale penitenziario, né la direttrice del carcere, ha mai messo in evidenza questo problema». Il garante ci tiene a specificare che il 41 bis, infatti, è nato anche per quello e le regole restrittive vietano dinamiche del genere che si verificavano nel passato. Chi le trasgredisce, viene raggiunto da sanzioni disciplinari. Il regime del 41 bis di Sassari è davvero un esempio virtuoso? L’avvocata Maria Teresa Pintus dell’osservatorio carcere della camera penale della Sardegna, raggiunta da Il Dubbio, spiega senza mezzi termini che in realtà al Bancali di Sassari ci sono problemi gravissimi: «Le celle sono sotterranee e si sa, se stai in un fosso sotto terra e hai tutto chiuso – dal blindo alle finestre – d’estate non puoi che soffocare, oltre a ciò si aggiunge la carenza dell’acqua e quella che esce dai rubinetti è gialla». Una situazione del genere, quindi, non è impermeabilità, ma carcerazione dura. E questo rischia di far andare il 41 bis fuori dal perimetro costituzionale.

·         I mafiosi son gli opposti. Corsi e ricorsi storici ideologici.

Insulti a Falcone: polemica sulla trasmissione «Realiti» di Rai2. Pubblicato lunedì, 10 giugno 2019 da Corriere.it. La prima puntata della trasmissione è andata in onda il 5 giugno e da allora non si placano le polemiche. A «Realiti», nuovo programma condotto da Enrico Lucci su Rai2 nella puntata di esordio ospiti due «neomelodici». Uno è Leonardo Zappalà, 19 anni, in arte «Scarface», l'altro è Niko Pandetta, detto «Tritolo», che alcuni definiscono «il re del neomelodico catanese», nipote di Turi Cappello, boss condannato al carcere a vita per reati di mafia. Zappalà, dopo aver visto un filmato riguardante Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, commenta: «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro». E Lucci a replicare augurandogli di «Studiare la storia». Pandetta invece, durante la trasmissione, ha spiegato come parte delle sue canzoni siano dedicate allo zio al 41 bis, e come altre sia proprio lui a scriverle. Niko Pandetta, che ha già parecchi anni di carcere alle spalle, è il nipote di Salvatore Cappello, detto Turi, boss del clan Cappello, attualmente detenuto in carcere a Sassari, «fine pena mai». «Mio zio scrive i testi delle canzoni dal 41 bis, il primo cd l'ho finanziato con una rapina» ha detto in tv Pandetta. In «Dedicata a te», recita: «Zio Turi ti ringrazio per quello che hai fatto per me, sei stato la scuola di questa vita e per colpa di questi pentiti stai chiuso lì dentro al 41 bis». Contro Pandetta e contro i neomelodici che inneggiano ai boss e alla criminalità si era scagliato nella stessa trasmissione il consigliere della Regione Campania, Francesco Emilio Borrelli. Proprio lui è stato poi il destinatario di un video di Pandetta, che mostra una pistola (poi spiegherà essere un giocattolo, o così comunque sosterrà), e rivolgendosi a Borrelli dice: «Io le pistole ce l'ho d'oro. Io sono onorato di mio zio perché ha fatto 28 anni di 41-bis da innocente». Borrelli ha fatto sapere di aver segnalato il video alla Procura della Repubblica. Ma intanto la polemica su quanto avvenuto si è allargata: Paolo Borrometi, giornalista sotto scorta per essere stato bersaglio di un'aggressione e di intimidazioni dopo aver svelato le infiltrazioni mafiose a Scicli e gli «affari» delle cosche della Sicilia sud-orientale, scrive «Il problema è che "personaggetti" del genere non meritano di andare in Rai. Ed è grave che vengano invitati. Così come l'altro suo “collega”, tale Niko Pandetta, che, sempre su Rai2, ci ha spiegato che lo zio ergastolano (boss al carcere duro per mafia), Turi Cappello, scriva le sue canzoni dal carcere. Proprio quel Cappello che ha dato il cognome al clan Cappello di Catania che, secondo i Magistrati, doveva realizzare un attentato con un'autobomba nei miei confronti e nei confronti degli Uomini della mia scorta. Ma è possibile tutto ciò? C'è chi è morto per la Giustizia, c'è chi dovrebbe saltare in aria secondo i piani dei clan. E la Rai cosa fa? Fa parlare chi inneggia ai boss?». Borrometi invita quindi la Rai a una presa di posizione, mentre sulla sua pagina Facebook ufficiale Pandetta pubblica copia del voucher che dimostra come la sua trasferta per partecipare come ospite della trasmissione sarebbe stata pagata proprio dall'azienda di viale Mazzini. Lo show intanto è stato sposato in seconda serata.

«Realiti», la procura di Catania apre un’inchiesta sulla trasmissione. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. Dopo le scuse dei vertici Rai, la Procura di Catania ha aperto una inchiesta sulla puntata di «Realiti», la trasmissione condotta da Enrico Lucci su Rai2, che aveva sollevato numerose polemiche. Il fascicolo di indagine, di cui titolare è il procuratore aggiunto Carmelo Petralia, è per ora senza indagati. La Polizia Postale di Catania acquisirà i video della trasmissione: al centro dell’inchiesta le dichiarazioni dei due giovani neomelodici, uno dei quali aveva insultato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lunedì l’annuncio che viale Mazzini aveva deciso di aprire un’istruttoria interna sulla trasmissione. L’indagine dovrà chiarire, oltre all’eventuale profilo penale delle dichiarazioni dei due neomelodici Leonardo Zappalà e Niko Pandetta, anche eventuali rapporti con ambienti criminali locali, nonché i legami di Pandetta con lo zio, il boss Salvatore Cappello, che sta scontando la condanna all’ergastolo. Durante la puntata della trasmissione, andata in onda in prima serata su Rai2 lo scorso 5 giugno, Zappalà parlando di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino aveva detto: «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro». A scatenare polemiche erano state anche le parole di Niko Pandetta, che aveva raccontato come le sue canzoni fossero ispirate allo zio, il boss condannato al «fine pena mai» per reati di mafia (e rinchiuso in regime di 41 bis) Salvatore Cappello. Per poi, a show finito, postare un video in cui minacciava con una (finta) pistola d’oro, il consigliere della Regione Campania Borrelli. Lunedì, dopo il post pubblicato da Paolo Borrometi, giornalista sotto scorta dopo essere stato vittima di un’aggressione e diverse intimidazioni, erano arrivate le scuse dei vertici Rai. L’azienda di viale Mazzini aveva annunciato l’apertura di un’indagine interna. «Mi scuso pubblicamente - ha detto il direttore di Rai2 Carlo Freccero in un’intervista al «Messaggero» - Non voglio dire di più per ora, mi confronterò con i vertici della Rai». E ancora, Freccero ha aggiunto: «Il problema è subito apparso gravissimo, eravamo tutti costernati, e infatti ne abbiamo già discusso subito dopo la puntata». E dopo le parole di Mari Falcone, che ha commentato alCorriere: «Quel cantante andava cacciato dallo studio», interviene anche la famiglia di Paolo Borsellino. «Per ora mi limito a dire vergogna, in famiglia decideremo se tutelarci in altre sedi» fa sapere Fabio Trizzino, marito di Lucia, la figlia del giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992.

M. Tamb. per “la Stampa” l'11 giugno 2019. Enrico Lucci è frastornato e quasi non si rende conto dell' effetto paradosso che gli sta piovendo addosso. Lui che quel tema aveva voluto proprio per raccontare un fenomeno inquietante e puntare il dito su una categoria pericolosamente seguita, ora viene accusato se non di fiancheggiare, di minimizzare.

Lucci, il programma le è sfuggito di mano?

«Ma quando mai. La bufera è scoppiata perché nessuno ha visto la trasmissione che si chiama "Realiti" e appunto affronta temi caldi, quello che avviene nello show umano mondiale».

E allora che è successo?

«Ho invitato un neomelodico, un pischelletto che prima di entrare mi ha detto: "Io non sono mafioso, ma dicendolo ho più follower"».

Peggio, ancora più inquietante.

«Siì, ma io questo devo far vedere, anche se va detto io non sono l' autore. Gli ho chiesto quali sono i suoi miti e poi gli ho consigliato di studiare, gli ho detto che non conosceva la storia e anche Borrelli (consigliere regionale campano, ndr) se l' è presa con il suo atteggiamento da gangster. Gli dico che la mafia è merda e cerco di trattarlo da padre, in fondo non avevo davanti Riina, ma un ragazzetto ignorante».

E poi?

«Gli ho parlato dei grandi siciliani, di Pio la Torre, di Piersanti Mattarella e dei nostri fratelli Falcone e Borsellino e qui è scattato l' applauso».

E la frase di Zappalà...

«All' inizio non l' avevo sentita bene e oltretutto parlava in mezzo dialetto. Quando però ho afferrato, ovviamente mi sono indignato. E sono contento che il presidente della Commissione antimafia Morra abbia sottolineato che io sono immediatamente intervenuto per stigmatizzare l' ignoranza del cantante».

Non tutti però l' hanno pensato allo stesso modo.

«Ne sono dispiaciuto, si è arrivati a conclusioni avendo un' idea confusa dell' accaduto. Noi raccontiamo questo mondo urticante e terribile, ma dobbiamo farlo per far sapere che queste situazioni esistono nell' indifferenza del mondo civile. Sul web questi neomelodici vengono osannati, imitati. E lì sta il male».

E adesso che cosa succede?

«Ripeto, io non sono l' autore, però mi dispiace molto che si sia verificato questo equivoco sulla netta presa di posizione del programma contro chi attacca i nostri eroi».

Alfio Sciacca per il “Corriere della sera” l'11 giugno 2019. La sua popolarità è diventata contagiosa quando tra i ragazzini di Catania e provincia ha cominciato ad andare di moda il «taglio alla Pandetta», che poi sarebbe una rasatura quasi a zero con ampia sfumatura sulle orecchie simile a quella di tanti calciatori. Vincenzo, Niko, Pandetta, 27 anni, è sicuramente il più noto tra i due protagonisti della polemica nata dopo la trasmissione «Realiti». Le sue canzoni totalizzano milioni di visualizzazioni su YouTube e gli adolescenti le conoscono a memoria. Compresa «Dedicata a te», che ha fatto 2,5 milioni di visualizzazioni. Non è ispirata da una donna, ma dallo zio di Niko, il boss Turi Cappello, detenuto al 41 bis.

«Ti ringrazio per tutto quello che fai per me - recita- . Sei stato una scuola di vita, mi hai insegnato a vivere con onore... per colpa di questi pentiti sei tra quattro mura».

Una venerazione quella per lo zio ergastolano che a Catania è un boss di prima grandezza, erede del vecchio boss Salvatore Pillera, «Turi cachiti» (che in slang catanese vuol dire: mettiti paura). Il nome dello zio se lo è fatto tatuare sul braccio destro, tra croci, simboli ultrà, doppi tagli.

«Mio zio ha scritto alcuni testi delle mie canzoni dal 41 bis» confessa. E poi: «Il mio primo cd l' ho finanziato con una rapina». Di problemi con la giustizia ne ha avuti anche di recente: nell' ottobre 2017 venne indagato nell' inchiesta «Double track» per spaccio e detenzione di cocaina. Non stupisce che sui social mostri la pistola e minacci. Appena un mese fa la Procura lo ha citato a giudizio per diffamazioni e minacce nei confronti di una giornalista del sito MeridioNews che aveva realizzato un reportage proprio sul mondo dei neomelodici.

Meno popolare Leonardo Zappalà, 19 anni, in arte Scarface, ma nessun precedente con la giustizia. Lui e Pandetta cantano rigorosamente in napoletano anche se sono catanesi. Il primo vive nel quartiere Cibali, a due passi dallo stadio, mentre Zappalà tradisce le sue origini di Paternò già dall' inflessione. La sua popolarità al momento è confinata ai concerti di paese, alle feste private e, soprattutto, alle serenate su commissione. Sul suo profilo ha postato la foto accanto a Lucci e il video in cui spiega come fare incetta di like: «Prendi dei soldi in mano, fai la faccia del duro ed è fatta». E spiega: «Qui tutti i ragazzi di strada ascoltano le canzoni napoletane». Ma ieri più che like ha raccolto insulti. Quello più gentile: «Non so se mi fai più schifo o pena...mi fai vergognare di essere siciliano». Lui ha provato a replicare, senza nessun segno di pentimento: «Tutte bugie, ero in tv per parlare della musica neomelodica, no per parlare della antimafia... giornalisti terroristi». In questa storia di neomelodici in salsa siciliana non c' è dunque il lieto fine del bellissimo Song 'e Napule . Qui si ammicca ai mafiosi e si mettono in discussione i martiri. Il tutto in diretta Rai. E dire che i ragazzi di Palazzolo Acreide, la città di Pippo Fava, misero su una rivolta quando si venne a sapere che in città ci sarebbe stato un concerto di Niko Pandetta. E riuscirono a farlo annullare.

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” l'11 giugno 2019. A parte le famiglie Falcone e Borsellino e le altre vittime di mafia, che hanno il sacrosanto diritto di protestare, invitiamo alla calma i politici indignati speciali che stanno linciando Enrico Lucci per aver ospitato due cantanti neomelodici e aver fatto uscire la loro cultura mafiosa al naturale. Nella prima puntata del suo talk Realiti su Rai2, Lucci ha intervistato in diretta Leonardo Zappalà, detto "Scarface", e Niko Pandetta, in arte "Tritolo". Il primo, a proposito di Falcone e Borsellino, ha detto che se la sono cercata: "Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce, ci deve piacere anche l' amaro". L' altro, reduce da 10 anni di galera, ha spiegato che le sue canzoni sono dedicate allo zio ergastolano al 41-bis perché ritenuto il boss del clan Cappello a Catania, ha insultato i pentiti e poi ha minacciato un consigliere verde campano critico con lui. Lucci li ha esortati "a studiare la storia" e ora, sopraffatto dalle polemiche, ammette di aver gestito male la diretta: "Non cerco scuse, il risultato è stato pessimo e ci siamo messi tutti in discussione per rettificare, pulire e ritrovare il focus del racconto, che è la gara tra i protagonisti dell' attualità social". La Rai ha definito "indegne" le parole dei due e annunciato un' indagine interna. Ma per il presidente della commissione di Vigilanza Alberto Barachini, ex dipendente Mediaset e deputato di FI , la condanna "non è sufficiente: la grave offesa arrecata alla memoria di due esempi luminosi della lotta alla mafia si configura come un evidente omesso controllo da parte della governance del servizio pubblico, a cui chiedo formalmente un controllo più rigoroso dei contenuti e degli ospiti delle trasmissioni". La miccia innesca il solito falò delle vanità e delle ipocrisie: viva Falcone e Borsellino, abbasso i neomelodici. E, se la questione fosse così semplice, ci uniremmo volentieri al coro degli indignados. Ma è un po' più complessa. Il programma si occupa dei fenomeni più popolari sui social e purtroppo i neomelodici, perlopiù campani, sono popolarissimi non solo sul web, ma anche nelle piazze del Sud, in particolare della Sicilia. Vengono ingaggiati a peso d' oro ai matrimoni dei clan e alle feste di quartiere, dove dedicano ai boss e ai picciotti detenuti le loro canzoni intrise di cultura mafiosa. Forse che il servizio pubblico deve ignorare questo fenomeno inquietante, ma purtroppo diffusissimo? Grandi registi del Sud gli hanno dedicato film stupendi, grotteschi, neorealisti e per nulla moralistici: Reality di Garrone, Song' e Napule dei Manetti Bros, Belluscone di Maresco. Chissà quanti fan dei neomelodici li hanno visti e, proprio perché non contenevano prediche ma solo fotografie della realtà, hanno capito qualcosa. Perché mai la Rai non dovrebbe mostrare anche quegli angoli bui di società, che molti fingono di non vedere e molti ignorano del tutto, salvo poi meravigliarsi se le elezioni danno risultati inaspettati? Piaccia o non piaccia, esiste un' Italia che preferisce i mafiosi ai giudici antimafia, detesta i pentiti che "fanno la spia", scambia l' omertà per coerenza e le menzogne per dignità. Che deve fare il servizio pubblico: nascondere le telecamere sotto la sabbia, o affondarle nella merda che ci circonda per sbatterla in faccia ai benpensanti e ai malpensanti?  Se le polemiche su Realiti servissero a gestire meglio situazioni complicate come quella sfuggita di mano a Lucci, sarebbero benvenute. Ma qui ciò che si vuole a reti unificate è altro: la facciata edificante e pulitina delle istituzioni che ogni 23 maggio e 19 luglio corrono a Palermo con la lacrima retrattile a deporre corone di fiori a Capaci e in via D' Amelio, salvo poi trescare con le mafie per tutto il resto dell' anno. Il solito derby ipocrita e oleografico tra Stato e Antistato, giudici buoni (quelli morti) e mafiosi cattivi. Un quadretto che non regge più, con tutto quel che si scopre sulle complicità fra due mondi che si vorrebbero separati e invece sono sempre più sovrapponibili. In fondo, i due neomelodici han detto quel che disse il sette volte presidente del Consiglio Andreotti di Ambrosoli, ucciso da un killer mafioso mandato da Sindona: "Se l' andava cercando". Quel che disse il tre volte presidente del Consiglio Silvio B. sull'"eroe Mangano" che non aveva mai parlato di lui e di Dell' Utri. Quel che pensano molti dei parlamentari FI &Pd che due mesi fa han votato contro il reato di voto di scambio politico-mafioso. E molto meno di quel che disse il governatore Pd della Campania, Vincenzo De Luca, sulla necessità di "ammazzare" politici antimafia "infami" come Rosy Bindi, Di Maio, Fico e Di Battista. Sono più gravi le parole dei due neomelodici o la candidatura col Pd a Capaccio-Paestum di Franco Alfieri, re del clientelismo e delle fritture di pesce, indagato per voto di scambio con la camorra, eletto e festeggiato domenica notte da un corteo di cinque ambulanze a sirene spiegate di proprietà di un imprenditore del clan camorristico dei Marandino, condannato in via definitiva per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso? Giovedì Rai2 trasmetterà La Trattativa, il film proibito di Sabina Guzzanti sui politici e i carabinieri che trattarono con Cosa Nostra, moltiplicando le stragi, rafforzando la mafia e genuflettendo lo Stato ai piedi dei corleonesi. Fra costoro c' era Dell' Utri, tuttora detenuto per mafia, che - dice la sentenza di primo grado - anticipava le leggi pro mafia del governo B. al boss Mangano, mentre B. continuava a finanziare Cosa Nostra anche da premier. Il presidente della Vigilanza sdegnato per due neomelodici viene dal gruppo B. Mai saputo nulla dei suoi padroni veteromelodici? Mamma non gli ha ancora detto niente?

Da “la Zanzara - Radio 24” il 12 giugno 2019. “Non mi hanno capito”. Il neomelodico Leonardo Zappalà a La Zanzara su radio 24 cerca di spiegare la sua frase su Falcone e Borsellino durante il programma Realiti che ha scatenato il putiferio nella tv pubblica: “Volevo dire che quando fanno delle scelte di vita, ci sono anche delle conseguenze”. Se piace il dolce, deve piacere  anche l’amaro, cioè se fai il giudice devi aspettarti anche di crepare?: “Certo, certo…”.  Sai chi erano Falcone e Borsellino?: “Io non ho studiato la sua storia, perciò io non devo parlare di questa cosa….E’ una disgrazia. Però voglio dire, loro che condannano solo le altre persone… io ho fatto questo paragone. Anche i mafiosi sono esseri umani, non è che devono essere condannati solo i mafiosi…”. Da che parte stai, di Falcone e Borsellino o dalla parte della mafia?: “Io sono dalla parte del mio orgoglio. Io la mafia non la conosco. Non c’ho mai avuto a che fare, non so neppure se esiste”. Come non sai se esiste?: “Io non lo so….”.  Quelli che hanno ammazzato Falcone e Borsellino sono dei criminali o no?: “Io non lo so. Io a quei tempi non c’ero, quindi non mi interessa. Comunque se esiste, la mafia è una merda”. Perché dici che non esiste?: “Perché non lo so. Perché io non ho studiato, mi interesso solo di musica. Cosa volevo dire col dolce e l’amaro? Io volevo dire che quelle persone hanno scelto quella carriera, quello stile di vita. Hanno provato a combattere un soggetto che sapevano essere pericoloso e purtroppo è successa una disgrazia. E mi dispiace”. Poi si accorge di aver detto delle cose inopportune e dice: “Io sto dalla parte dello Stato. Con Falcone e Borsellino. Però per me, per quello che ho letto su Google, dietro uno Stato c’è la mafia, si dice. Però alla fine a me non interessa...”

Comunicato stampa di Niko Pandetta. Dagospia il 12 giugno 2019. Niko Pandetta, cantante neo – melodico di origini calabresi, coinvolto nelle polemiche successive al programma “Realiti” andato in onda il 5 giugno su Rai 2, dichiara quanto segue: “Mi rammarica essere protagonista di questa triste vicenda artificiosamente costruita intorno a me. Ritengo che questa mia replica sia doverosa, per mia moglie Federica e per mia figlia Sofia - alla quale, da padre, voglio trasmettere un buon esempio -, e per i miei fan.  Premetto che non ho mai, e dico mai, pensato di reclamizzare la criminalità e che le mie esternazioni sono sempre state ironiche, magari maldestre…Mi riferisco nello specifico all’espressione, oggi strumento di tante polemiche, “io le pistole le ho d’oro”: è vero, potevo risparmiarmi questa battura di cattivo gusto che mi si è ritorta contro. Ci tengo a precisare che non ho mai offeso la memoria di Falcone e Borsellino, illustrissimi personaggi che non ho mai nominato.  Ripeto, non posso assolutamente accettare che mi siano attribuite determinate colpe: insultare la memoria dei giudici Falcone e Borsellino significa offendere tutti coloro che sono stati coinvolti nella strage di Capaci, oggi sono un umilissimo cittadino italiano rispettoso del genere umano, incapace di compiere atti deplorevoli di tale entità!”. “Altra importante precisazione: non ho mai parlato di mio zio Turi avallandone le gesta – continua il cantante - , ho solo esternato l’affetto incondizionato che provo per lui, la mia riconoscenza nei suoi confronti per avermi cresciuto come un figlio, non avendo io un padre. Mai sono entrato nel merito delle azioni di mio zio, semplicemente l’amore che provo per lui non è condizionato dalle sue gesta. Ho dichiarato di non essere pentito del mio passato e considero questa mia affermazione onesta. Infatti la domanda rivoltami non era “rifaresti gli errori del passato?”, alla quale ovviamente avrei risposto di no; intendevo semplicemente dire che, rapportandomi all’età del tempo, non mi sono mai pentito di aver vissuto male la mia vita, e che sono felice e soddisfatto di averla cambiata”. “Per chiarezza vi racconto tutto ciò che è accaduto – dice Niko -: fui contatto per partecipare al programma di Rai 2 “Realiti - siamo tutti protagonisti”. Ho annullato due miei impegni lavorativi pur di prenderne parte: conservo ancora i biglietti dei voli aerei che mi furono inviati per essere presente (erano due, uno per me e uno per il mio manager). Senza motivazioni o spiegazioni plausibili, fu annullata la mia partecipazione al programma, ma fu trasmesso un servizio che mi riguardava. Nel corso di tale trasmissione, ove a questo punto mi vien da pensare che ero stato volutamente estromesso, il consigliere Francesco Emilio Borrelli Borrelli ha offeso e insultato me e la mia famiglia. Sono dell’opinione che non tocca ai politici giudicare le persone (utilizzando in maniera indiscriminata termini pesanti, offensivi), esistono i tribunali deputati a fare ciò. Io infatti sono stato giudicato e condannato, e ho scontato la pena inflittami. E’ evidente che questi politici (e il consigliere Borrelli è tra questi) ignorano le funzioni del carcere, ovvero la rieducazione e la reintegrazione in società di chi si è soggetto alla pena detentiva. Io non rimpiango il mio passato, perché grazie al mio passato e alla detenzione oggi sono un uomo diverso, che non potrebbe esistere se non fosse esistito il Niko di un tempo. Nessuno racconta della vita nelle carceri, della durezza della pena, delle capacità di affrontarla, del desiderio di farcela e della felicità di avercela fatta. Mi dispiace appurare che i rappresentanti della nostra Patria non sono in grado di pensare a noi ex detenuti come persone che ce l’hanno fatta, persone forti perché hanno affrontato un duro periodo di detenzione, e che ora possono mettere a disposizione della società questa loro esperienza per concretizzare qualcosa di buono, facendo del proprio passato non un vanto ma un punto di partenza. Ne deduco che chi governa questo paese non è disposto a dare una seconda possibilità ai detenuti perché non crede nel corretto funzionamento del sistema carcerario italiano, che però – guarda caso – è regolato dal Governo. E’, insomma, un cane che si morde la coda!”

Da Radio Cusano Campus il 12 giugno 2019. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sulle parole di un cantante neomelodico contro Falcone e Borsellino durante la trasmissione "Realiti" su Rai Due. “Il problema non è tanto che questo mentecatto abbia detto queste parole perché da lui non ci si poteva aspettare altro –ha affermato Borsellino-. Il problema è invitare questo mentecatto, farlo sedere sul trono. Queste persone cercano visibilità e dargli visibilità è sbagliato. La tv di Stato non dovrebbe dare visibilità a un mentecatto del genere che cerca solo visibilità. I ragazzi sono disposti a picchiare la propria madre o la propria nonna pur di finire sui giornali o in tv. La Rai dopo aver sbagliato ha chiesto scusa, il programma è stato declassato in seconda serata, è stata tolta la diretta per fare in modo che non possano più accadere cose del genere. Però quando Vespa ha invitato il figlio di Riina, in quel caso non è stato preso alcun provvedimento. Anche quello è stato grave. Perché non si dà visibilità ai ragazzi delle scuole dove vado a parlare e che mi ascoltano per ore quando parlo di mio fratello? Nel mondo di oggi contano solo i like e dare visibilità a certi mentecatti non è giusto. Il nostro è un Paese in cui le persone si riuniscono per dare solidarietà a una persona che ha sparato alle spalle a un ladro che stava scappando. In un Paese in cui un ministro passa il tempo a farsi i selfie e a dire che la visibilità è l’unica cosa importante, non ci si può aspettare gran che”.

«Realiti», dopo  le polemiche l’ex procuratore difende Lucci. Pubblicato giovedì, 13 giugno 2019  da Annalisa Grandi su Corriere.it. «Non credo che voltare le spalle e mettere la testa sotto la sabbia sia una buona soluzione». Va in onda la seconda puntata di «Realiti», lo show di Rai 2 condotto da Enrico Lucci e che era stato al centro di una polemica per la presenza, nella puntata del 5 giugno, di due neomelodici, uno nipote di un boss l’altro che aveva offeso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Enrico Lucci, che già prima della messa in onda della seconda puntata si era difeso dicendo di aver «fatto il proprio lavoro» e di «non avere nulla di cui scusarsi», nella seconda puntata ospita in studio il magistrato Alfonso Sabella, che è stato sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli (oltre che assessore alla Legalità e Trasparenza del Comune di Roma nominato da Marino dopo lo scandalo di Mafia Capitale). «Devo fare outing, ero venuto con un’idea e l’ho cambiata dopo aver visto il filmato» ha detto Sabella. Che è tornato sulle polemiche seguite alle dichiarazioni di Leonardo Zappalà, e in particolare a quel «Falcone e Borsellino? Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro»: «Ero venuto qua per dirti che eri stato debole - ha commentato il magistrato rivolgendosi a Lucci - Però in riferimento alla storia era ampiamente sufficiente visto tutto quello che avevi detto prima a questo ragazzo». Sabella ha spiegato che «è giusto raccontare questo mondo sommerso che esiste (il riferimento è ai neomelodici) e che arriva a milioni di visualizzazioni e che ha gli adolescenti tra i suoi fans più importanti». «Girare le spalle - ha aggiunto - e mettere la testa sotto la sabbia, non credo sia una buona soluzione. Io posso dire che facendo un paragone, quanto male ha fatto alla lotta alla mafia il negare l’esistenza della mafia? A Roma per tanti anni si è girata la testa dall’altra parte, non si è visto che a Roma le mafie stavano attecchendo e si stavano ingrassando a spese dei cittadini e della collettività poi ci si è resi conto all’improvviso quando c’è stato un funerale un po’ kitsch come quello dei Casamonica ma in realtà averlo negato non ha fatto bene a questa città». Alla seconda puntata di «Realiti» era stato invitato anche il giornalista Paolo Borrometi, sotto scorta dopo un’aggressione e diverse intimidazioni. Era stato lui a rilanciare la polemica sulle dichiarazioni dei due neomelodici in diretta tv. Borrometi però aveva scelto di non andare, e aveva spiegato: «Non andrò perché non può passare l’idea di puntate riparatorie come accadde qualche anno fa dopo la puntata di Porta a Porta con ospite il figlio di Totò Riina, anche lui condannato per mafia. Non andrò perché non esiste nessuna possibilità alle scuse a Falcone e Borsellino, ai loro familiari e a tutti coloro che sono stati offesi con quella puntata che di servizio pubblico non aveva proprio nulla. Non andrò, infine, perché lo devo ai ragazzi della mia scorta che dovevano saltare in aria con me in quell’attentato organizzato proprio dal clan Cappello (quello dello zio di uno dei due neomelodici ospitati nella trasmissione). Loro meritano rispetto» aveva scritto in un post su Facebook.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 giugno 2019. Caro Dago, c’è stato un tempo ormai lontano in cui quando incontravo Enrico Lucci e c’era in qualche modo di mezzo il racconto televisivo, ringhiavamo l’uno contro l’altro. Il tempo per fortuna passa. Lui è divenuto un bravissimo uomo di televisione, e con gran piacere ero andato ospite nel programma che lui conduceva prima di “Realiti”. Vedo adesso del pandemonio suscitato da due scemotti che hanno farfugliato qualche fesseria non ricordo più se nella prima o nella seconda puntata del suo programma. Leggo che Enrico sarebbe stato “punito” col venire traslocato in seconda serata, e dunque alla notte fonda. Allibisco. Ciascuno di noi non è responsabile dei suoi genitori né dei suoi figli, meno che mai degli ospiti che si trova di fronte in un set televisivo. Mi pare che Enrico abbia prontamente replicato ai due scemotti, e ammesso che i due meritassero una qualche replica o non piuttosto una qualche pernacchia. Con tutto quello che si vede in televisione in fatto di ciarlatani e di puttanelle e di gente che quando parla fa soltanto rumore con la bocca, non mi pare proprio che in quei pochi minuti di “Realiti” sia stata la stata violata la Costituzione, il senso civico, i valori della Resistenza. Due scemotti più, due scemotti meno, che cambia? Ci fosse una selezione all’ingresso dei set di tutto il palinsesto televisivo giornaliero, è probabile che le trasmissioni televisive si ridurrebbero della metà. Per mancanza di personale, ossia di macchiette. A Enrico rivolgo ogni augurio di buon proseguimento del suo lavoro.

Dopo le polemiche su «Realiti», Rai2 mette in onda «La Trattativa». Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da G. Sclaunich su Corriere.it. Giovedì sera alle 21:20 andrà in onda su Rai2 il film «La Trattativa» di Sabina Guzzanti. «È la prova provata che siamo la rete più antimafia di tutte», ha sottolineato il direttore di Rai2 Carlo Freccero, riferendosi a quelle che ha definito «pretestuose polemiche» sulla prima puntata di Realiti, in onda mercoledì scorso sempre sulla stessa emittente. Uno dei cantanti neomelodici ospiti della trasmissione aveva infatti offeso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mentre un altro aveva minacciato un consigliere della Regione Campania. La Rai ha avviato un’indagine interna ma anche la procura di Catania ha aperto un’inchiesta sulla trasmissione. La messa in onda de «La Trattativa», invece, era stata annunciata da tempo. Il docufilm, che racconta il patto segreto tra i boss di Cosa nostra e gli esponenti delle istituzione all’epoca delle stragi dei primi anni Novanta, avrebbe dovuto essere trasmesso in tv già nel 2015. Ce ne sono voluti quattro in più. L’allora consigliere di amministrazione e ora direttore di Rai2 Freccero ha spiegato perché: «Quanta fatica ho fatto a realizzare questo intento! Avevo chiesto invano la messa in onda di questo film sin da quando ero consigliere di amministrazione nel 2015. Ora finalmente ci sarà». Al film seguirà un dibattito condotto dall’ex direttore del Tg1 Andrea Montanari con ospiti il giornalista del Foglio Giuseppe Sottile, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, il cronista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. Ci sarà anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, che qualche settimana fa aveva commentato la decisione di mandare in onda il docufilm avanzando l’ipotesi di parlarne nella commissione Vigilanza Rai, della quale è componente: «Penso che si possa fare una discussione. Decideremo insieme quale atteggiamento assumere». L’opera di Sabina Guzzanti era stato presentata fuori concorso alla mostra del Cinema di Venezia del 2014: all’epoca era stata molto applaudita. Il film racconta le tappe della trattativa Stato-mafia mettendo insieme interviste reali e immagini di repertori con ricostruzioni girate con attori: più che un docufilm è stato definito una docufiction. La regista stessa l’aveva definito «un film di finzione ma è tutto vero. Lo scopo è mettere tutti, anche chi non segue la cronaca e non legge saggi e giornali, in condizione di capire fatti che hanno cambiato la storia della nostra democrazia. È importante sapere chi ha preso quelle decisioni, da dove viene l’Italia in cui viviamo».

La compagnia di giro dell'antimafia sfrutta pure Falcone per respingere Matteo. La sorella del giudice costretta a giustificarsi: «Invito da sempre i ministri». Carmelo Caruso, Giovedì 23/05/2019, su Il Giornale. Palermo Povero giudice! Sul balcone anti Salvini hanno trascinato pure Giovanni Falcone. Per protestare contro il ministro dell'Interno, si sta per consumare l'ennesimo vilipendio di cadavere. Smascherata da ogni tipo di scandalo, abitata da diavoli travestiti da angeli, l'antimafia si spacca non su come combattere la criminalità organizzata ma sull'opportunità o meno di accogliere a Palermo il leader della Lega. Nel giorno dell'anniversario dell'assassinio di Falcone, all'aula bunker dell'Ucciardone è prevista, e da giorni annunciata, la presenza del vicepremier in veste istituzionale. L'evento è organizzato dalla sorella del magistrato, Maria, che presiede l'associazione che porta il nome del fratello e che da sempre invita i rappresentanti dello Stato. Ma sarà l'ideologia che ha la meglio sul ricordo e la memoria: il risultato è che le altre associazioni antimafia non hanno accettato la sua decisione e hanno deciso di boicottare la giornata. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, coordinatore del Centro Impastato, non ci sarà e ha invitato anche i giovani a non partecipare: «Invitiamo tutti i giovani a non andare all'aula bunker e a venire invece alla manifestazione che stiamo organizzando a Cinisi nella sede di Casa memoria». E non sembrerà vero, ma la sorella di Falcone ha dovuto giustificarsi e spiegare che, da 27 anni, ha sempre invitato tutti i ministri: «Invito da sempre i ministri dell'Interno, della Giustizia e dell'Istruzione. Ma invito le istituzioni, non le persone». Per sostenere la posizione di Maria Falcone, Claudio Fava, figlio del giornalista ucciso dalla mafia Pippo Fava, e presidente della Commissione d'inchiesta sulla mafia all'Ars, aveva prima annunciato la sua presenza, «perché un ministro ha il dovere di venire a Palermo e ricordare Falcone» ma ieri ha invece dichiarato che non ci sarà perché ormai «hanno trasformato il ricordo del giudice in un festino di Santa Rosalia». Per Fava, infatti, è ormai «una cerimonia patriottica grottesca. Il mio problema non è che invitino Salvini. Il mio problema è che chiedano a lui di dire e a noi di ascoltare. Fossi io la sorella di Giovanni Falcone avrei chiesto a Salvini di venire e di tacere». Da qui la scelta di organizzare una contro manifestazione ed è tristissimo dirlo, ma sembra di parlare di un contro-festival. Anpi e Arci si riuniranno a Capaci e hanno tutta intenzione di farne un'ennesima balconata: «Sarà un'ulteriore giorno di resistenza democratica nel rispetto della Costituzione nata da quella lotta popolare antifascista. Sarà anche un corteo per dire no al razzismo». E con tutta la libertà di pensiero proprio non si capisce cosa c'entri il no al razzismo con la tragica fine di un magistrato. Ci sarà invece il sindaco Leoluca Orlando, arcinemico di Salvini a cui chiede di non fare comizi salvo farne uno lui: «Ribadirò la posizione di ossequioso rispetto e ferma applicazione dei principi e del dettato costituzionale». Ecco, davvero tutto si era visto ma non avremmo mai creduto che il nome di Falcone, per fare un torto a Salvini, potesse finire maltrattato come un libro al Salone di Torino.

Se la lotta al Governo conta più che ricordare Falcone. Orlando, Fava e Musumeci hanno disertato la commemorazione ufficiale per attaccare il Governo ed i ministri presenti. Panorama il 25 maggio 2019. C'è qualcosa di serio che non va in questo paese se nel giorno dell'anniversario della strage di Capaci, nella quale rimase ucciso Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della scorta, i maggiori rappresentanti delle istituzioni siciliane e locali decidono di non partecipare, disertando la commemorazione ufficiale in segno di lotta al Governo Conte e dei suoi rappresentanti presenti: il Ministro dell'Interno, Matteo Salvini ed il presidente della Camera Roberto Fico. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, ed il Presidente della Commissione Antimafia della Sicilia, Claudio Fava non si sono presentati oggi alla cerimonia. Un no dal sapore puramente della lotta politica, anzi, di partito, non della lotta alla mafia. Una scelta libera, certo, motivata in vario modo, ci mancherebbe. Un gesto che però pesa, che si commenta da solo, che dà l'esatta dimensione del livello (pietoso) raggiunto dallo scontro politico che alla fine fa solo il gioco della criminalità organizzata.  «Le istituzioni devono essere sempre rispettate e sono inutili le polemiche» ha commentato Maria Falcone, sorella del giudice, dando l'ennesima lezione di quale sia il livello del senso dello Stato cui dovremmo tendere. Tutti. L'ultima parola, oggi come 27 anni fa, la lasciamo a chi, su quell'autostrada ha lasciato la vita: "Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni, non le parole". (Giovanni Falcone)

Lo sciacallaggio di Orlando. Domenico Ferrara 24 Maggio 2019 su Il Dubbio. Sicuramente non è stato voluto, ma Matteo Salvini ha fatto un regalo a Giovanni Falcone e alla famiglia del giudice assassinato dalla mafia. Gli ha regalato la “diserzione” di Leoluca Orlando dalla commemorazione della strage di Capaci. E non è poco. Perché ogni anno Orlando era lì a presenziare davanti alla lapide di quel magistrato che ha osteggiato quando era in vita. Non sto qui a ricordare le accuse esternate a Samarcanda, se n’è scritto fin troppo. Ricordo invece le frasi che il giudice Falcone gli riservò per delineare il soggetto: “La cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo, Orlando fa politica attraverso il sistema giudiziario. Sarà costretto a spararle sempre più grosse. Per ottenere ciò che vogliono, lui e i suoi amici sono disposti a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura”. Quest’anno Orlando abbandona la commemorazione in segno di protesta contro il ministro dell’Interno che sarebbe venuto a lucrarci sopra qualche voto. Si chieda piuttosto cosa ha fatto lui ogni 23 maggio da 27 anni a questa parte.

«Un torto a Falcone». Salvini replica alle polemiche di Fava e Musumeci. Il Dubbio. 24 Maggio 2019. Commemorazioni e polemiche a Palermo. Il sindaco Orlando accoglie Conte e Fico e poi cambia piazza: «speravo che qualsiasi presenza istituzionale non si sarebbe trasformata in un comizio». «Gli assenti hanno sbagliato. I Fava è gli Orlando hanno sbagliato». Nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, Matteo Salvini punta il dito contro chi ha deciso di non partecipare al consueto appuntamento commemorativo che ogni anno si svolge all’interno del bunker dell’Ucciardone, a Palermo. Ma chi non c’è ha semplicemente scelto di ricordare il giudice Giovanni Falcone altrove, anche in polemica col ministro dell’Interno. Come il presidente dell’Antimafia all’Ars, Claudio Fava, a Capaci insieme a Libera, al Centro Impastato e all’Arci. «Se bisogna trasformare una giornata di memoria e di lotta in una platea applaudente al Grande Fratello se la facciano da soli, io sono stufo di messe cantate. Io penso che i nostri morti li confortino le parole dei vivi», dice il figlio di Pippo Fava, il giornalista assassinato da Cosa nostra nel 1984. E lontano dall’aula bunker si è tenuto anche il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, per evitare di incrociare Matteo Salvini. «Ho accolto, com’era doveroso, il presidente della Camera Fico e il presidente del Consiglio Conte e adesso mi recherò in piazza Magione con i ragazzi di Palermo che celebrano il 23 di maggio per dire grazie a chi ha dato la vita per combattere la mafia», commenta il primo cittadino palermitano. «Mi ero augurato che qualsiasi presenza istituzionale oggi a Palermo e all’Aula Bunker non si trasformasse in occasione per comizi pre- elettorali. Ho appreso che purtroppo non sarà così», spiega Orlando. Tra gli assenti, anche il presidente della Regione, Nello Musumeci. Per il capo della Lega qualcuno «non ha capito che bisogna combattere tutti insieme. Se qualcuno di sinistra non è venuto o se ne è andato perché c’era Salvini si è perso lui qualcosa. Una giornata di speranza, di giovani, di lotta alle mafie».

“Hanno trasformato il ricordo della Strage di Falcone nel Festino S. Rosalia”, l’accusa di Fava. Il Sicilia 22 Maggio 2019. “Hanno trasformato il ricordo del giudice Falcone nel festino di Santa Rosalia. Al posto dei vescovi e dei turibolanti che spargono incenso, domani ci saranno i ministri romani, gli unici che avranno titolo per parlare (con la loro brava diretta televisiva) e per spiegarci come si combatte cosa nostra. Cioè verranno loro, da Roma, per spiegarlo a noi siciliani, a chi da mezzo secolo si scortica l’anima e si piaga le ginocchia nel tentativo di liberarsi dalle mafie”. Lo scrive in un lungo post su Facebook il presidente della commissione regionale antimafia, Claudio Fava, che annuncia che domani non andrà a ricordare Giovanni Falcone nell’aula bunker di Palermo. “Preferisco andare a Capaci, nel luogo in cui tutto accadde, preferisco stare assieme a chi non ama le messe cantate sui morti”. Fava andrà dunque alla casina “No Mafia”, da dove sarebbe stato premuto il telecomando che ha provocato l’esplosione del tritolo, alla contro manifestazione organizzata da Arci e Anpi. “Se fossi io la Fondazione Falcone – aggiunge – avrei invitato i signori ministri nell’aula bunker di Palermo per ascoltare il procuratore generale di Palermo, il direttore del centro Impastato, il presidente della fondazione La Torre, il procuratore di Agrigento, il sindaco di Palermo, il portavoce della cooperativa Placido Rizzotto che si occupa da 20 anni dei beni confiscati ai corleonesi, un paio di giornalisti che di mafia ne scrivono ogni giorno da un quarto di secolo, il presidente di Libera, quello di Addio Pizzo e magari anche il sottoscritto, per spiegare alle autorità romane quello che abbiamo imparato sulle antimafie di latta, sugli amici innominabili del cavaliere Montante a Roma e altrove, sul codazzo di senatori, nani, false vittime e ballerine che agitano la scena siciliana da molto tempo. Ma così non sarà. Pazienza. Io – conclude – domani vado a Capaci.”.

L’ex pm antimafia Di Lello: “Fu Orlando a firmare un esposto contro Falcone”. Il Sicilia il 25 Maggio 2019. Non si è ancora spento l’eco delle polemiche che hanno segnato le celebrazioni per il 27esimo anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Dopo le assenze eccellenti del 23 maggio dalla cerimonia che si è svolta all’Aula bunker dell’Ucciardone a Palermo (prime fra tutte quelle di Leoluca Orlando, Claudio Fava e Nello Musumeci), interviene Giuseppe Di Lello, ex magistrato, già componente del pool antimafia ed ex parlamentare di Rifondazione comunista, che intervistato dall’Adnkronos, non usa giri di parole: “Fu Leoluca Orlando insieme al gruppo della Rete a fare l’esposto contro Falcone. Ma l’Italia è un Paese che non ricorda. Il 23 non è andato all’aula bunker perché c’era Salvini? Io dico che non sarei andato perché c’era lui”. “La verità? E’ che la Sicilia è un’isola pirandelliana” ha detto ancora all’Adnkronos. Di Lello che fece, appunto, parte del pool antimafia spiega come anche quest’anno “come sempre” lui sia stato nell’Aula bunker, quella stessa aula in cui fu celebrato il primo maxiprocesso alla mafia. “Un’emozione come ogni anno – racconta –, ma anche un ricordo triste. Ho pensato a Chinnici, a Falcone, a Borsellino, un intero ufficio Istruzione demolito con il tritolo”. “Troppi veleni” aveva comunicato il presidente della Regione siciliana per motivare la sua assenza. Una cerimonia ridotta a un “Grande Fratello” aveva detto Fava, mentre il sindaco Orlando aveva accolto gli ospiti istituzionali fuori dall’aula bunker “trasformata in piazza per comizi“, per poi andar via prima dell’arrivo del ministro dell’Interno. Secondo Peppino Di Lello, invece, quella del 23 “non è stata una passerella“. Per l’ex componente del pool antimafia, il ministro dell’Interno “aveva l’obbligo di essere presente” perché nella strage di Capaci “la mafia ammazzò anche tre poliziotti. Sarebbe stata assurda l’assenza di Salvini o del premier Conte”.

Maria Falcone: “La migliore risposta alle polemiche sono state le migliaia di ragazzi. “La risposta migliore la danno le migliaia di ragazzi che sono arrivati a Palermo da tutta Italia. Hanno riempito una città. Alle polemiche risponde l’entusiasmo dei giovani, segno che stiamo seminando bene”. Così Maria Falcone, sorella del giudice e presidente della Fondazione che del magistrato prende il nome: “Fare polemica su chi dovesse salire sul palco e sulle scalette – dice – mi pare piuttosto riduttivo. Ribadisco poi un’altra cosa: le presenze istituzionali nazionali, parlo dei ministri, sono una costante di tutti i 23 maggio. La lotta alla mafia senza le istituzioni non si può fare”.

Quei cazzotti a Falcone. Due o tre cose che bisognerebbe sapere sul rapporto tra Falcone e Leoluca Orlando. Anna Germoni. L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone. Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti. Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia.  E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia. Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella.  Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando la sua totale inaffidabilità,  firma un mandato di cattura per "calunnia continuata" contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria. Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere  Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre,  il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto». A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa. In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte, lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al Csm, l’11 settembre 1991. L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando “il mancato esame… e di doveri trascurati”. Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…, dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati…”.  Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono. Per un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991 scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già nota teoria di Orlando”,  “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”). Il Csm, dopo l’intervento  di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso, Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone.  Ormai non si contano più le  sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre 1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61): «Se c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale - Falcone preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo.. la Cosi e la Sico (due imprese romane n.d.r.) durante la gestione Orlando… quegli stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature, materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un istituzione a Palermo, il conte Vaselli”. Poi Falcone si sfoga: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che  vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo». Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento”.

·         Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.

GIALLI: BORSELLINO, ROSSI, PANTANI: E’ DEPISTAGGIO CONTINUO. Andrea Cinquegrani su lavocedellevoci.it l'8 Luglio 2019. L’eterno giallo sulla strage di via D’Amelio. La vergogna di una verità non raggiunta, di una giustizia che non arriva. E lo scandalo di un maxi depistaggio di Stato, orchestrato proprio da chi avrebbe dovuto operare per mandare in galera killer e mandanti: ed invece ha coperto, occultato, sviato. La più colossale menzogna costruita calpestando la memoria del giudice coraggio Paolo Borsellino, il simbolo, con Giovanni Falcone, nella vera, autentica lotta alle mafie e ai loro riciclaggi stramiliardari. I cittadini sono ormai stufi di marce, marcette, sbandierate e sceneggiate: vogliono la verità su quei morti, e vedere finalmente sotto processo tutti quelli che fino ad oggi l’hanno fatta franca. Siamo alla seconda puntata sui Misteri d’Italia, che sono in piedi da decenni, come tanti sepolcri imbiancati. Abbiamo parlato del caso clou, quello che ha visto l’assassinio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E adesso siamo al giallo della strage di via D’Amelio, che guarda caso ha non pochi punti in comune.

QUEL DEPISTAGGIO CHE HA NOMI E COGNOMI. In primo luogo perché, come nel giallo Alpi, siamo in presenza di un clamoroso Depistaggio di Stato. Sul quale fino ad oggi non si sono levate proteste, in mezzo ad un totale, complice silenzio politico e istituzionale. Nessuna forza politica, infatti, è scesa in campo per dire una parola su quel depistaggio, né il governo gialloverde, né l’impalpabile opposizione, né s’è udita una sillaba da parte del presidente mummia Sergio Mattarella. Una vergogna. Un depistaggio sul quale s’è aperto un processo: alla sbarra tre poliziotti che facevano parte, all’epoca delle prime indagini, del team guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Un uomo anche dei Servizi segreti, La Barbera, sul quale è stata scaraventata tutta la responsabilità per il depistaggio, vale a dire il taroccamento del pentito Vincenzo Scarantino. Adesso La Barbera non può difendersi, perché da una quindicina d’anni è passato a miglior vita. Non può quindi più raccontare se ha fatto tutto di testa sua, se ha organizzato la tragica sceneggiata da solo, oppure se ci sono stati interventi dall’alto, ad esempio dei magistrati dai quali funzionalmente e gerarchicamente dipendeva.

Il falso pentito Vincenzo Scarantino: A questo punto sorge spontanea la domanda: riuscirà mai il processo in corso sul depistaggio a chiarire quale effettivo ruolo hanno giocato i magistrati? Vorranno e potranno raccontare quello che è veramente successo i tre poliziotti ora alla sbarra? Sarà verità oppure omertà? Staremo a vedere. Il nodo sta tutto nella costruzione a tavolino del pentito Scarantino. Una costruzione emersa mano a mano, attraverso non poche testimonianze. La verbalizzazione sulla strage di Scarantino era servita a far condannare 7 innocenti che hanno scontato la bellezza di 16 anni di galera. Proprio come è successo per il giovane somalo che ha scontato sempre 16 anni (sembra un macabro rituale) per un omicidio mai commesso, quello di Ilaria e Miran, sulla base della testimonianza taroccata di un altro somalo, alias Gelle. Nella sua ultima verbalizzazione Scarantino (e così poi ha fatto la moglie) ha descritto per filo e per segno tutta l’operazione-taroccamento. E’ stato minacciato, intimidito, convinto non certo con metodi anglosassoni ad imparare un copione a memoria. Ogni giorno, prima delle udienze processuali, veniva istruito come uno scolaretto, gli veniva fatta ripetere la parte. Gli era stato anche detto che in caso difficoltà avrebbe potuto chiedere di andare in bagno, lì dove avrebbe trovato un poliziotto pronto a ricordagli la parte e imbeccargli le risposte. Ai confini della realtà.

Nino Di Matteo: Tutto questo è ormai storia. Ora occorre arrivare agli autori del testo della sceneggiata. In che misura e con quali ruoli sono coinvolti i tre magistrati che ne hanno “gestito” il pentimento, ossia Anna Maria Palma, Carmine Petralia e Nino Di Matteo? La figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice nei confronti dei magistrati che fino ad oggi non hanno subito alcuna conseguenza, né civile, né penale. Chiede con la forza e la passione civile che la animano di accertare per ciascuno le precise responsabilità. Potranno saltare fuori dal processo che vede alla sbarra i tre poliziotti? Da tener presente un elemento non da poco. Uno dei tanti magistrati che hanno seguito le prime piste per far luce sulla strage di via D’Amelio è stata Ilda Boccassini. Toga di gran prestigio, la quale ha potuto valutare l’attendibilità di Scarantino. E prima di passare alla procura di Milano, ha inviato una memoria ai suoi colleghi – evidentemente Palma, Petralia e Di Matteo in prima fila – per metterli in guardia da un pentito del tutto inattendibile e inaffidabile come Scarantino. Ma di tutta evidenza i colleghi non hanno tenuto in alcun conte le sue parole. Sarà possibile approfondire tale circostanza nel corso dell’odierno processo per il maxi depistaggio?

DAVID ROSSI. GENOVA INDAGA SU SIENA (?) Passiamo ad altri due gialli senza mai alcuna risposta. Nemmeno parziale. Con il concreto rischio che vadano a finire definitivamente in naftalina. Stiamo parlando dei casi di David Rossi e Marco Pantani. Accumunati, anche stavolta, da non poche, tragiche somiglianze. Una cortina di silenzio sta sempre più avvolgendo la morte dell’ex responsabile delle comunicazioni per il Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, volato giù dal quarto piano della sede centrale in via dei Salimbeni, a Siena. Un caso che la procura di Siena ha più volte cercato di archiviare, sostenendo la tesi del suicidio. Una tesi che non sta in piedi, manifestamente infondata, per tutta una serie di anomalie che anche uno scolaretto delle elementari sarebbe in grado di vedere. Per questo oltre un anno fa il fascicolo è passato alla procura di Genova, che dovrebbe indagare anche sulle stesse indagini farlocche portate avanti a Siena. Ma da Genova non arrivano notizie. Tutto fermo, a quanto pare. Come mai? C’è forse qualche remora nel cavar fuori scomode verità sulle inerzie, quanto meno, dei colleghi senesi? Periodicamente saltano fuori alcune news, soprattutto per i servizi mandati in onda dalla Iene. Ed emergono di volta in volta notizie su festini, attività massoniche, strani intrecci all’interno del Monte dei Paschi, interventi vaticani. Poi di nuovo cala il silenzio più assordate. Una scena del crimine che parla da sola, come documentano alcune perizie. Quella sulla dinamica della caduta del corpo, da cui risulta chiaro come si sia verifica una spinta e non si possa essere trattato di una caduta da suicidio Poi la perizia grafologica, per dimostrare come le due lettere lasciate ai familiari da David Rossi fossero state scritte sotto coazione. E soprattutto quella medica che evidenzia segni di colluttazione sul corpo, da trascinamento e da sollevamento: che fanno letteralmente a pugni con ogni ipotesi di suicidio. Senza contare uno degli elementi base. I vertici MPS – già teatro di diverse altri morti sospette di funzionari in quei bollenti anni di “crisi”, come viene documentate nel libro “Morte dei Paschi di Siena” di Elio Lannutti – erano a conoscenza del fatto che a brevissimo David Rossi si sarebbe recato dai magistrati per raccontare la sua verità sugli scandali targati Mps. Una testimonianza che poteva risultare devastante. Per questo David non doveva parlare.

MARCO PANTANI. GIRI E GIRONI INFERNALI. Così come non avrebbe mai dovuto parlare Marco Pantani sugli scandali del doping nelle corse e sulle mani delle scommesse pilotate dalla camorra in occasione del Giro d’Italia del 1999. Un giallo che dovrebbe tornare ancor più di attualità oggi, dopo le recenti rivelazioni su un altro giallo, la morte del calciatore David Astori. La fine di Pantani resta avvolta in una cortina di nebbia su cui la magistratura non ha voluto far luce. La scena del crimine, quel 14 febbraio 2004 al residence Le Rose di Rimini, parlava in un modo che più chiaro non si può. Una stanza sottosopra, il letto squarciato, un giubbotto non si sa chi di chi e soprattutto un corpo che racconta di ferite, trascinamento, tracce ematiche, tutto evidente frutto di una colluttazione. E ancora, una pallina di pane e coca che avrebbe dovuto subito indirizzare gli inquirenti verso una pista ben precisa: Pantani venne “abboffato” con palline di pane e coca, tali da provocargli un arresto cardiaco. Ma quella scena del crimine è stata subito inquinata: indagini fatte con i piedi e, per fare un solo esempio, tracce di un cornetto Algida nel contenitore dei rifiuti, lì lasciato – così scrivono i magistrati – da chi ha subito fatto le indagini: forse per concentrarsi meglio…Cento e passa anomalie, ha denunciato con amarezza il legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis. Che si è dovuto arrendere davanti alla richiesta di archiviazione sancita dalla procura di Forlì e poi ratificata dalla Cassazione. Sotto il mero profilo tecnico resta in vita una flebile inchiesta alla Procura di Napoli, affidata al pm antimafia Antonella Serio. Lo stesso De Renzis, ingoiata la sentenza della Cassazione, ha cercato di far riaprire il caso del Giro d’Italia 1999, quello che decretò la fine sportiva e anche umana del Pirata. Un Giro chiaramente comprato e taroccato dalla camorra, che aveva scommesso miliardi di lire, all’epoca, sulla sconfitta del campione. Il quale fu fermato, infatti, al tappone di Madonna di Campiglio. Per uno ematocrito troppo elevato, frutto di una combine, proprio perché la camorra aveva effettuato quelle maxi scommesse. Non ci volle molto a “convincere” con metodi non proprio inglesi i medici dell’equipe ad alterare quei dati. “Oggi il ciclismo è morto”, disse quel giorno il capo equipe, un medico svedese, Wim Jeremiasse, dopo qualche mese “affondato” in un lago austriaco. Della combine aveva parlato un camorrista in carcere a RenatoVallanzasca, e da lì partì l’indagine della procura di Forlì. Che identificò quel camorrista, il quale confermò la sua versione, poi ribadita da diversi altri pentiti di camorra. Ma che fa la procura di Forlì? Se ne frega, ritiene le prove non sufficienti e archivia! De Renzis chiede alla procura di Napoli la riapertura del caso quasi tre anni fa: proprio perché è coinvolta la camorra e hanno parlato dei pentiti. Ma da allora di quel fascicolo giudiziario non si sa più niente. La giustizia è sempre in fase di archiviazione.

LE OMBRE SU QUEL 19 LUGLIO 1992. I buchi neri della Strage di via D’Amelio: ecco tutti i misteri irrisolti. Davide Guarcello il 17 Luglio 2019 su La Sicilia. La prima svolta nelle indagini sulla Strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino è arrivata col “Borsellino quater” che ha certificato nel 2017 il colossale depistaggio (“uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”) messo a segno probabilmente dalle “menti raffinatissime” di cui parlava Falcone. E mentre il processo sulla Trattativa Stato-mafia si è concluso in primo grado con condanne pesantissime, nel 2019 è arrivata la seconda svolta: per quel depistaggio sono sotto accusa anche due pm che all’epoca gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino: Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Sono quindi ancora tante, oggi, le domande senza risposta e i misteri attorno alla strage del 19 luglio 1992. Oltre alla matrice mafiosa, si cercano anche i cosiddetti “mandanti occulti” e i depistatori di Stato. Ecco una carrellata sui quesiti rimasti aperti, i “buchi neri” di via D’Amelio.

L’UOMO MISTERIOSO NEL GARAGE. Il primo e tra i più inquietanti aspetti mai indagati a fondo è la presenza di un uomo misterioso, esterno a Cosa nostra, di cui parla il pentito Gaspare Spatuzza quando racconta del furto e della preparazione della Fiat 126 con 90 chili di tritolo. In un garage di via Villasevaglios 17 c’è anche questa oscura presenza, mai individuata con certezza. Nel 2009 Spatuzza lo aveva indicato come un appartenente ai servizi segreti, e indicandolo in Lorenzo Narracci, braccio destro di Bruno Contrada e 007 del Sisde, il cui numero di telefono è presente anche in un foglietto rinvenuto nei pressi del cratere di Capaci. Lo 007 era pure residente in via Fauro a Roma, teatro della strage del ’93. Tre singolari coincidenze o qualcosa di più? Spatuzza lo riconoscerebbe durante un confronto all’americana, salvo poi fare un leggero passo indietro nel 2010, parlando solo “di una certa somiglianza” con quell’uomo misterioso. Ad oggi questo “uomo nero” resta senza un volto e un nome.

IL TELEFONO INTERCETTATO. Come facevano i mafiosi a sapere gli orari e gli spostamenti esatti di Borsellino di quella domenica? Il giudice aveva l’abitudine di andare a trovare la madre in via D’Amelio (colpevolmente lasciata senza zona rimozione, altro “buco nero”), ma la visita di quel giorno fu imprevista. Tanto che Borsellino avvertì per telefono del suo arrivo. La Procura di Caltanissetta incaricò il commissario Gioacchino Genchi di svolgere una perizia sul telefono di casa di Rita Borsellino, la sorella del giudice che abitava con la madre in via D’Amelio: dalle testimonianze emerse che c’erano stati precedentemente strani rumori di fondo nelle telefonate, oltre ad “alcuni squilli anomali”. Per il consulente, il telefono quindi poteva essere stato intercettato. A confermare questa pista, dopo tanti anni, nel 2013, lo stesso Totò Riina, intercettato al carcere di Opera. A colloquio con la sua “dama di compagnia” Alberto Lorusso, Riina rivelò: «Sapevamo che Borsellino doveva andare là perché lui ha detto: ‘Domani mamma vengo’». Fu realmente intercettato quel telefono? E da chi? Secondo le indagini il sospetto autore fu Pietro Scotto, un tecnico della società telefonica Sielte, fratello di Gaetano Scotto, boss dell’Arenella considerato trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e ambienti dei servizi segreti deviati. Gaetano Scotto è tra i mafiosi condannati all’ergastolo per la strage e poi rimesso in libertà insieme agli altri 6 boss: Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana e Vincenzo Scarantino. La sua posizione però sembrerebbe diversa rispetto a quella degli altri ingiustamente accusati della strage: su Scotto peserebbero altre ombre, come l’Addaura e i presunti contatti con Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro“.

CHI AZIONÒ IL TELECOMANDO? Dopo tanti anni ancora non si è riusciti a identificare con assoluta certezza chi azionò l’ordigno piazzato sulla 126. In base alle testimonianze dei collaboratori di giustizia Tranchina e Ferrante, sarebbe stato Giuseppe Graviano ad azionare la carica dal giardino-agrumeto che delimita via D’Amelio. Ma è realmente possibile che abbia deciso di esporsi al rischio dell’onda d’urto in un luogo così vicino? Poteva essere facilmente visto da qualche condomino del palazzo. E finora manca una prova tangibile del luogo esatto da cui partì l’input del telecomando. Riina invece dice che fu piazzato direttamente nel tasto del citofono. Fu davvero così? Ancora è un mistero.

LE CICCHE E IL VETRO SCUDATO. Un giallo anche il ritrovamento sul tetto di un edificio di fronte a via D’Amelio di cicche di sigarette e un vetro scudato. Il complesso “Iride“, cioè il palazzo dei “fratelli Graziano“ a 11 piani all’epoca in costruzione, sito a pochi metri dal luogo e con una visuale perfetta sulla strada, venne perlustrato da due agenti della Criminalpol di Catania: Mario Ravidà e Francesco Arena. È la mattina del 20 luglio 1992: sono passate circa 12 ore dalla strage. I due poliziotti individuano il palazzo dei Graziano come possibile punto per azionare l’autobomba. Mentre uno interroga sulle scale uno dei Graziano (legati ai Madonia e ai Galatolo), l’altro poliziotto sale sul tettodell’edificio e trova 26 piante ad alto fusto a mo’ di copertura, un vetro spesso scheggiato poggiato sul parapetto, molti mozziconi di sigaretta e dei numeri di cellulare. All’improvviso giunge un’altra squadra di poliziotti che blocca i due colleghi della Criminalpol: “Tutto ok, ci pensiamo noi”. Così i due se ne vanno, stilando una relazione di servizio dettagliata. Relazione che inspiegabilmente scompare. Su quei reperti non fu mai fatta l’analisi del DNA, che avrebbe potuto portare a chi verosimilmente pigiò il telecomando da lì o a chi faceva da vedetta.

IL CASTELLO UTVEGGIO. Un’altra ipotesi sull’azionamento dell’esplosivo riguarda Castello Utveggio, da cui si ha una visuale ad ampio raggio sul luogo della strage. Agnese Borsellino ha raccontato che suo marito le raccomandò una volta di non alzare la serranda della camera da letto, perché avrebbero potuto spiarli dal Castello Utveggio. Chi c’era lì? Oltre a essere la sede del Cerisdi, per Genchi era una sorta di sede occulta del Sisde (servizio segreto civile) a Palermo: “Con mio disappunto – rivela Genchi – La Barbera convocò Verga (direttore del Cerisdi) palesandogli l’oggetto dell’indagine. Tali soggetti di lì a poco smobilitarono dal castello”. I tabulati telefonici per Genchi dicono che con certezza il Sisde operò da lì, nonostante abbia più volte smentito questa circostanza.

I SERVIZI. Arnaldo La Barbera [ANSA]Oggi sappiamo che Arnaldo La Barbera era a libro paga del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, definito come il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”. Notevole il ricordo del Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Maggi arrivò tra i primi, circa dieci minuti dopo il botto delle 16,58: «Uscii da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa… proprio senza una goccia di sudore». Era «gente di Roma» che lo stesso Maggi conosceva di vista, appartenenti ai Servizi Segreti. Che ci facevano lì in così poco tempo? Guardando attentamente le immagini dell’epoca si vedono in effetti diverse figure losche aggirarsi tra i corpi fatti a pezzi. Si faccia quindi chiarezza identificando questi soggetti, per capire le ragioni del loro vagare con fare sospetto in via D’Amelio.

I 100 SECONDI. L’esplosione è fissata esattamente alle ore 16:58 e 20 secondi. Dopo appena 100 secondi, alle 17 in punto, Bruno Contrada – in barca con l’amico Gianni Valentino e lo 007 Narracci – chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma e, a suo dire, ottiene conferma dell’attentato. In mezzo a quei cento secondi però c’è stata un’altra telefonata: quella che ha avvertito Valentino dell’esplosione. Dunque, in soli 100 secondi: esplode l’autobomba in via D’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) avvisa da un telefono fisso (non identificabile dai tabulati) dell’accaduto; Valentino a sua volta informa Contrada e gli altri sulla barca; Contrada dal suo cellulare chiama il Sisde e ottiene la conferma sull’attentato. Tutto in soli cento secondi. Come poteva sapere la figlia di Valentino, a pochi secondi dal botto, che – parola di Contrada – “c’era stato un attentato”? E come potevano sapere al Sisde che era esplosa una bomba in via D’Amelio già 100 secondi dopo lo scoppio? Fino alle 17:15 le forze dell’ordine parlavano genericamente di “esplosione” e “incendio in zona Fiera”. Valentino e Contrada, però, in alto mezzo al mare, già alle 17 sapevano tutto. Contrada per tre volte sarà indagato per concorso in strage e tutte e tre le volte archiviato.

L’AGENDA ROSSA. Il mistero dei misteri resta la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Su questo aspetto si sono scritti fiumi di inchiostro: una telefonata anonima ad un giornalista nel 2005 permise di far trovare una foto finita nel dimenticatoio per 13 anni; nel celebre scatto di Franco Lannino, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, con la borsa in mano. Arcangioli fu poi indagato e assolto in via definitiva. Sappiamo comunque che l’ex pm Giuseppe Ayala fu tra i primi ad arrivare in via D’Amelio. Le sue molteplici versioni sulla borsa di Paolo Borsellino sono considerate “contraddittorie” da Fiammetta Borsellino. Di recente Ayala ha replicato nervosamente alla figlia di Borsellino. E in aula si è scontrato duramente con l’avvocato Fabio Repici(legale di parte civile di Salvatore Borsellino) che puntava a dimostrare l’inattendibilità del teste. “Il collega Ayala – ha detto il pm Nico Gozzo – ha reso diverse versioni… non so quanto tutto questo appartenga al modo di essere di Ayala oppure evidentemente a una voglia in qualche modo di depistare le indagini. Saranno i colleghi di Caltanissetta a stabilirlo”. In un recente editoriale, il cronista Saverio Lodato scrive: «Ripetutamente interrogato sul punto, Giuseppe Ayala, avanti negli anni come tutti noi, a spiegazione di una quasi mezza dozzina di versioni differenti su questa circostanza, si è dichiarato pronto a rendere conto a Dio quando sarà, visto che su questa terra la memoria non lo aiuta più, nel ricordare a quali mani affidò la borsa delle discordia». L’unica cosa certa è che quella borsa tornerà improvvisamente dentro l’auto, ancora fumante e con qualche focolaio da spegnere. Poi la nuova asportazione. La borsa sarà per oltre 6 mesi nell’ufficio di Arnaldo La Barbera, abbandonata. E non appena Lucia Borsellino chiese chiarimenti per l’assenza dell’agenda rossa, fu presa per pazza.

IL DEPISTAGGIO. Infine il depistaggio sulle indagini, ormai certo. Chi ha tradito Borsellino? Chi istruì Scarantino suggerendogli bugie condite da elementi di verità? Sono stati solo i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, oggi sotto indagine? O come sostiene Fiammetta Borsellino, alle spalle ci sarebbero alcuni magistrati?

BORSELLINO. LA PISTA “MAFIA-APPALTI” DENUNCIATA DA GIUFFRE’ 13 ANNI FA. Paolo Spiga su lavocedellevoci.it l'8 Febbraio 2019. Giallo Borsellino. La pista “Mafia-Appalti” per individuare il vero movente delle strage di via D’Amelio prende sempre più corpo. Giorni fa ha puntato i riflettori Fiammetta Borsellino ai microfoni di “Che tempo che fa”. Ferdinando Imposimato la indicò addirittura nel 1995 firmando un vero e proprio j’accuse con la relazione di minoranza alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Tiziana Parenti. Ricostruzione ancor più dettagliata nel volume “Corruzione ad alta velocità” scritto nel 1998 dallo stesso Imposimato insieme a Sandro Provvisionato. Ora stanno emergendo altre ricostruzioni fino ad oggi misconosciute. Eccoci, ad esempio, all’audizione, sempre in Commissione Antimafia, del procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci. Paci fa riferimento all’epoca in cui Borsellino era procuratore capo a Marsala: “Allora – rammenta Paci – di quel rapporto ‘Mafia-Appalti‘ Borsellino chiese copia quando si trova ancora a Marsala. Altro dato che emerge inquietante è che spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi della famiglia di Marsala. Muoiono perchè si oppongono all’eliminazione di Borsellino a Marsala”. Continua Paci: “Che cosa ha fatto Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato nei nostri approfondimenti. Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto Mafia-appalti a Pantelleria. Evidentemente viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano anche la De Eccher, il rapporto con imprenditori del Nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l’amministratore della società, comunque legato mani e piedi al mondo politico romano”. Quindi il filo rosso mafia-politica nazionale. Non solo la Rizzani-De Eccher, comunque, fra le società più che border line nel dossier “Mafia-Appalti” finito a febbraio 1991 sulla scrivania di Giovanni Falcone e, scopriamo ora, di Borsellino a Marsala. Ma anche la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi che fa esclamare a Falcone “la mafia è entrata in Borsa”; la Fondedile–Icla tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino; la Saiseb”. Insomma, la mafia stava penetrando in modo massiccio tra i big del mattone. Non solo, ma nell’inchiesta di Falcone e Borsellino c’è la chicca dei maxi appalti per la TAV, quell’altra velocità che stava già diventando il colossale business degli anni a venire e su cui hanno acceso i riflettori Falcone e Borsellino. Per questo “Dovevano Morire”. Non è certo finita, perchè del rapporto “Mafia-Appalti” come movente almeno per la strage di via D’Amelio, ha parlato anche uno dei pentiti ai quali è stata sempre riconosciuta la massima attendibilità, Antonino Giuffrè. Le sue parole pronunciate nel 2006 davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Catania vengono riportate nella sentenza del Borsellino quater. Ecco cosa, già 13 anni fa, verbalizzava Giuffrè: “Un motivo è da ricercarsi, per quanto io so, nel discorso degli appalti. Perchè si sono resi conto che il dottor Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia, politica e appalti. E forse alla pari del dottor Falcone”. E ribadisce: “Il dottor Borsellino stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare per quanto riguarda il discorso degli appalti”. Ricorda il fatto che la pericolosità di Borsellino era ancor più elevata perchè avrebbe potuto diventare procuratore nazionale antimafia. Quindi rammenta l’isolamento totale (anche sul fronte dei colleghi magistrati) sia di Falcone che di Borsellino. Nella motivazione del Borsellino quater, infatti, si legge: “L’inquietante scenario descritto dal collaboratore (Giuffrè, ndr) trova precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Borsellino e la sua convinzione che la sua esecuzione sarebbe stata resa possibile dal comportamento stesso della magistratura”. Parole che pesano come macigni. E ancora, tanto per chiudere i cerchi, scrivono le toghe: “Falcone e Borsellino erano pericolosi nemici di Cosa Nostra per la loro persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti”. E poi qualcuno dubita ancora del movente “Mafia-Appalti”?

·         Il racconto delle Stragi: Capaci e via D'Amelio.

La strategia stragista del 1992. La Repubblica il 28 giugno 2019. La deliberazione, ad opera della commissione provinciale di Palermo di "Cosa Nostra", del piano stragista nel quale si inserisce l’attentato di Via D’Amelio è stata accertata, da ultimo, dalla sentenza n. 24/2006 del 22 aprile 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania, passata in giudicato. La sentenza in esame, resa in sede di giudizio di rinvio, ha dovuto anzitutto assolvere al compito, demandato dalla precedente pronuncia della Corte di Cassazione (Sezione VI, n. 6262 del 17/1/2003) relativa alla strage di via D'Amelio, di stabilire quale sia stato il momento "ultimo e finale" della decisione di morte adottata nei confronti del Dott. Borsellino, riformulando un giudizio di merito sull'individuazione del momento deliberativo della strage. In proposito, la sentenza n. 24/2006 della Corte di Assise di Appello di Catania ha evidenziato, anzitutto, che la decisione di morte del giudice Borsellino non è stata isolata ma è stata adottata nel contesto deliberativo di un "piano stragista" comprensivo anche della decisione di uccidere altri personaggi "eccellenti", tra i quali il giudice Falcone, e che il collaborante Antonino Giuffrè, con riguardo al periodo in cui era prevedibile l'esito negativo dei maxiprocesso pendente ancora presso la Corte di Cassazione (poi definito con sentenza del 30 gennaio 1992), ha riferito di una riunione avvenuta a metà dicembre 1991, in cui, in occasione degli auguri natalizi e quindi in presenza della quasi totalità dei rappresentanti della Commissione Provinciale (liberi o sostituti dei detenuti), venne decisa, tra gli altri, anche la morte dei giudici Falcone e Borsellino. La sentenza in esame ha quindi ravvisato l’esistenza di un "piano stragista", nel cui ambito concettuale occorre poi distinguere un duplice "contenuto" decisionale, di natura "deliberativa" e di natura "strategica": infatti non si tratta di una generica "linea strategica" avulsa da una "decisione collegiale", ma, all'opposto, si tratta di un vero e proprio piano di contenuto "decisionale" duplice: decisionale-deliberativo e decisionale-strategico.

Quanto al contenuto decisionale-deliberativo, la sentenza de qua ha sottolineato che: «nel caso di specie viene deliberata la morte di più personaggi eccellenti, ben individuati, i cui nomi ricorrenti sono quelli dei giudici Falcone e Borsellino, nonché degli onorevoli Lima, Mannino, Martelli. (…) […] Una volta manifesta la volontà delittuosa, il piano si viene a "perfezionare" nel suo contenuto deliberativo (ed anche strategico, v. infra) e non necessita dunque di ulteriore decisione. Di particolare rilievo è l’individuazione del "tempo" in cui viene a formarsi la volontà collegiale (la riunione o le riunioni in cui viene deliberato il piano), che segna il preciso momento di perfezionamento del piano stragista e che distingue il successivo momento della sua fase esecutiva, attuata attraverso la realizzazione dei delitti già deliberati. Tale piano non costituisce un "mero progetto" o una semplice "linea strategica", come dimostrano, in modo indubbio, gli eventi delittuosi con esso deliberati e poi in concreto realizzati. Nell'arco di pochi mesi vennero infatti uccisi: l’onorevole Salvatore Lima (13 marzo 1992), il giudice Giovanni Falcone (strage di Capaci del 23 maggio 1992), il giudice Paolo Borsellino (strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992), l’esattore Ignazio Salvo (17 settembre 1992). Risulta inoltre agli atti (v. in particolare, sentenza di secondo grado relativa alla strage di Capaci, pag. 900 e segg.) che:

Fu programmato, ad opera del Brusca, l’attentato all' on.le Mannino, poi sospeso per accelerare quello in pregiudizio del giudice Borsellino;

Venne progettato l’attentato all' on.le Martelli affidato a Sangiorgi Gaetano, ma l'esecuzione venne interrotta poiché il Sangiorgi era stato controllato dalle forze dell'ordine, mentre si stava recando a Mantova ove la vittima abitava.[...]

La sentenza in esame ha posto in risalto come del tutto diverso dal suindicato contenuto decisionale-deliberativo del piano stragista sia il contenuto "decisionale-esecutivo" che concerne l’attività successiva di predisposizione ed organizzazione dei mezzi necessari alla concreta realizzazione dei vari delitti, prima già deliberati. Siffatta attività viene di regola affidata ad un ristretto gruppo di associati, a volte anche estranei alla pregressa fase di decisione deliberativa, e si manifesta attraverso il compimento di atti "preparatori" all' esecuzione o di "concreta" esecuzione. [...] Con riguardo al contenuto deliberativo del piano stragista, la sentenza in oggetto ha introdotto una distinzione che consente di diversificarne in esso una natura "ricognitiva" ed una natura "costitutiva", specificando quanto segue in ordine alla prima natura: «A tale fine è necessario richiamare la pacifica esistenza di una originaria decisione di morte adottata da Cosa Nostra già negli anni '80, e mai revocata, nei confronti dei giudici Falcone e Borsellino a causa della tenace e continuativa azione giudiziaria da entrambi condotta contro 1' organizzazione criminale (…). In esecuzione della su indicata decisione di morte vennero commessi due attentati a carico del giudice Borsellino negli anni 1987 e 1988.

Più numerosi furono gli attentati commessi a carico del giudice Falcone dal 1983 al gennaio 1992, di cui il più eclatante e notorio è quello effettuato nella villa della "Addaura" nell' anno 1989 (…). [...] Ora, la peculiarità della su indicata decisione di morte, che la rende "unica" nel suo genere, è, costituita da tre elementi:

Innanzi tutto la presenza dei sopra citati "molteplici attentati" ad essa conseguenti e dai quali, per varie ragioni, non era mai derivata l’uccisione dei due giudici.

In secondo luogo la ricorrente "reiterazione" di tale decisione di morte nel corso delle riunioni di Cosa Nostra (…) a punto tale che era diventata "abitudinaria". In tal senso basti richiamare le dichiarazioni del Brusca rese nel corso dei giudizi di merito relativi alle due stragi in esame, e, per ultimo, quelle rese nel presente processo: "perchè io questo fatto che si doveva eliminare il dottor Falcone lo sapevo da una vita, si è rinnovato il da farsi, e più si è aggiunto anche un' altra serie, un' altra rosa di nomi, più quella del dottore Borsellino ... Per me non è che ho saputo quel giorno [riunione in casa Guddo dei primi di febbraio/metà febbraio 1992] che si doveva uccidere Giovanni Falcone; io della morte di Giovanni Falcone lo sapevo già dal 1982. Ho partecipato a dei tentativi già per mettere in atto quel fatto. Mi è stato rinnovato quello che già io sapevo. Prima da soldato e poi da capo mandamento. Non l'ho appreso quel giorno cioè quella mattina" (udienza antimeridiana 23 gennaio 2004 pagg. 18,19,20). Lo stesso dicasi per le dichiarazioni rese dal Giuffrè nel presente giudizio: " ...ma non era che noi abbiamo parlato solo di questi discorsi il dicembre del '91, erano tutti argomenti che durante l’arco degli anni spesso e volentieri si ci tornava, si tornava a parlare di Falcone quando c'era l’operazione nell'88 e si diceva, diceva, si diceva “Prima o poi ni nama nesciri”, cioè prima o poi dobbiamo arrivare alla resa dei conti, cioè dobbiamo arrivare... insomma per essere chiari all' uccisione del dottore Falcone. Sono tutti discorsi questi che ci trasciniamo, ci siamo trascinati nel tempo" (udienza 12 dicembre 2003, pag. 28). Ed ancora: "Era notorio all'interno dì Cosa Nostra, ed in modo particolare all'interno della commissione, che prima o poi sia il Giudice Falcone che il Giudice Borsellino sarebbero stati uccisi (pag. 43 udienza 28 gennaio 2004).

In terzo luogo, e soprattutto, la "sopravvenienza", alla su indicata decisione di morte, di una situazione di estrema e fondamentale importanza nella vita di Cosa Nostra, riconducibile alle vicende del maxi processo istruito dal giudice Falcone contro Cosa Nostra. In proposito è sufficiente qui richiamare (ma v. gli ampi riferimenti nelle due sentenze di merito) che i giudici di primo grado avevano condiviso l’impostazione data dal magistrato in ordine alla struttura piramidale e compatta dell' organizzazione criminale, mentre quelli di secondo grado avevano ridimensionato tale tesi. Fondamentale era pertanto il definitivo giudizio della Corte di Cassazione.

Siffatta situazione aveva raggiunto il punto di massima criticità e conseguente maturazione nel periodo intercorrente tra: l’estate dell'anno 1991, quando il Riina, nonostante gli spasmodici tentativi effettuati invano, aveva fondato motivo per prevedere 1' esito negativo del maxi processo (…); l'inizio dell'anno 1992, quando il processo è stato deciso, con esito negativo, con la sentenza 30 gennaio 1992, n. 80, della Cassazione. Il contenuto di tale sentenza veniva invero ad assumere effetti devastanti per Cosa Nostra a motivo del modo in cui si configurava la responsabilità a carico dei componenti del suo organismo di vertice; infatti veniva ad essere riconosciuta, con l'autorità derivante da una pronuncia della Corte di Legittimità, l’esistenza della Commissione Provinciale e delle regole di funzionamento della stessa, fra le quali quella inerente alla collegialità delle decisioni concernenti gli omicidi eccellenti. [...]».

L' adozione del piano stragista viene ad assumere, nei confronti dei giudici Falcone e Borsellino, un contenuto "rinnovativo" dell' originaria decisione di morte (risalente agli anni '80 e mai revocata), nel senso di una rinnovazione attuata mediante "conferma" di tale decisione (v. infra, la riunione degli auguri di fine anno 1991, riferita dal Giuffrè) o mediante sua "riconferma" (v. infra le riunioni ristrette di febbraio/marzo 1992, riferire dai collaboranti Brusca e Cancemi).

[…] La sentenza de qua ha precisato che il piano stragista ha anche natura "ricognitiva", e quindi natura di "conferma", rispetto all'originario "movente specifico" in base al quale venne adottata la decisione di morte risalente agli anni '80, mai revocata. Movente costituito dalla "persistente pericolosità" derivante dalla continuativa azione giudiziaria svolta dai due magistrati in netta opposizione agli interessi, specie economici, di Cosa Nostra. In proposito, sono state riportate le ulteriori conferme derivanti dalle dichiarazioni rese nel giudizio di rinvio dal Giuffrè, che ha riferito in merito alla "notoria" pericolosità dell'azione giudiziaria dei due magistrati, i quali miravano a colpire gli interessi economici dell'organizzazione: "Sin dall'inizio degli anni '80, comincia a delinearsi la pericolosità, tra virgolette, del dottore Falcone. Il dottore Falcone ... mirerà al cuore di Cosa Nostra, quando arriva al cuore e intendo riferirmi in modo particolare all'economia di Cosa Nostra ... Giovanni Falcone era diventato un nemico non solo della Cosa Nostra italiana, era diventato anche per Cosa Nostra americana, mirando appositamente all’economia di Cosa Nostra" (pag. 21-22, udienza 12 dicembre 2003); ed ancora: "che il dottore Borsellino forse, addirittura, stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato. Ed in modo particolare, e lo dico tranquillamente e serenamente, per quanto riguarda il discorso degli appalti"; "Perché il dottore Borsellino, si sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone" (pagg. 46 – 48, udienza 28 gennaio 2004).

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo. Lirio Abbate il 23 maggio 2017. Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro.

23 maggio 1992. Ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Capaci. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare dai mafiosi sotto l'autostrada. L'esplosione viene segnalata alle sale operative di polizia e carabinieri che inviano sul posto uomini e mezzi. Questo sono le loro conversazioni radio, che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo nel tragitto fino all'ospedale. Dove perderanno la vita. (a cura di Beatrice Dondi e Leonardo Sorregotti). I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto.

Macerie dappertutto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco».

Uno sguardo ormai chiuso. «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta».

L’ultima parola: “Scusi”. «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità».

Le mani che tremavano. «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno».

Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Dagospia il 18 aprile 2016. Giuseppe Costanza: “Maria Falcone è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato. Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso”…

Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” 18 aprile 2016.  C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull' apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l' autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito.

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un' idea ce l' ho».

Avanti.

«Presumo che l' attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all' Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare.

Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all' Addaura. Viene trovato dell' esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l' artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l' esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell' aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l' ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l' autista di Falcone". Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d' oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell' Italia».

PAOLO BORSELLINO, UNA STRAGE ANNUNCIATA. Attilio Bolzoni per “la Repubblica” il 19 giugno 2019. Quando è morto Paolo Emanuele Borsellino, siciliano, magistrato della Repubblica, figlio di un farmacista e padre di tre figli, assassinato dall'esplosivo mafioso e dal cinismo di un'Italia canaglia, tradito e venduto da uno Stato che non ha mosso un dito per salvarlo? È morto il 19 luglio in via Mariano D' Amelio o era già morto il 23 maggio a Capaci, quando alle 17,58 l'autostrada si è aperta e il suo amico Giovanni Falcone se n' è andato poi fra le sue braccia? È morto la sera del 25 giugno quando ha fatto pubblicamente testamento nella biblioteca di Casa Professa o era già morto quando qualcuno intorno a lui stava trattando la resa con i macellai di Totò Riina? È morto nel lontano '84 quando di giorno aveva la scorta e di sera no o è morto nell' 88 quando a Marsala c' erano "grandi proprietà di mafia" e i latitanti non li cercavano mai? Quando è morto per davvero Paolo Emanuele Borsellino, nato il 19 gennaio del 1940 nel quartiere arabo della Kalsa e diventato eroe solo dopo che i becchini l'hanno seppellito nel cimitero di Santa Maria del Gesù? Se vogliamo raccontarla sino in fondo la storia di quest'uomo che per cinquantasei giorni abbiamo visto come un cadavere che camminava per Palermo, bisogna fissare nella nostra mente soprattutto le date di quell'estate breve del '92, bisogna inseguire le ombre che si muovevano al tempo fra la Sicilia e Roma, bisogna riascoltare la sua voce. Perché ormai ci resta solo quella. L'agenda rossa che aveva sempre con sé non si è mai più trovata. Forse non c'è stato delitto più clamorosamente annunciato nemmeno nella Palermo dove l'omicidio politico- mafioso di tipo "preventivo-dimostrativo" era sempre preceduto da quella carica di paura più spaventosa del sangue stesso, e forse è proprio fra le pieghe delle sue parole - ora commosse ripensando all'amico che non c'era più, ora disperate per la solitudine dove anno dopo anno era sprofondato - sono rintracciabili i volti nascosti dietro il massacro. Tutti conoscevano la sorte che gli stava toccando. Tutti. E, lui per primo, è andato avvertito incontro al suo destino. È considerato l'erede di Falcone, il testimone che ha raccolto le ultime confidenze dell'amico eppure - in quei cinquantasei giorni di delirio fra Capaci e via D' Amelio - nessuno lo cerca, nessuno l'ascolta mai. Vuole parlare e non lo fanno parlare, vuole indagare e non lo fanno indagare. Le pigrizie, il terrore, le complicità. I magistrati che investigano sulla strage di Capaci (quelli di Caltanissetta) non lo convocano nella loro procura nemmeno per un caffè. Al Consiglio superiore della magistratura non gli consentono di affiancare i suoi colleghi per condurre l'inchiesta, da Palazzo dei Marescialli "amichevolmente" gli spiegano dell'«inopportunità di una sua partecipazione alle indagini per il coinvolgimento emotivo». Giugno passa in fretta, troppo in fretta. I poliziotti della sua scorta sono preoccupati, ci sono molte auto in sosta in via Mariano D'Amelio dove abita la madre del magistrato. È malata, lui la va a trovare sempre. I poliziotti segnalano al prefetto Mario Iovine e al questore Vito Plantone: «È pericoloso...». Prefetto e questore non fanno nulla. È già il 20 giugno. Cinque giorni dopo Borsellino viene a conoscenza che alcuni ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri stanno incontrando un pezzo grosso della mafia, l' ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Negoziano con lui, gli chiedono se può aiutarli a prendere Totò Riina. In cambio di cosa? È l'inizio della trattativa fra Stato e mafia che negli anni a seguire farà tanto scandalo in Italia. Ma in quei giorni, in quei cinquantasei giorni, Paolo Borsellino è sconvolto. Non è uomo da trattativa lui, da "dialogo" con quella gente. Il conto alla rovescia è già cominciato. Per l'ultima volta parla in pubblico la sera del 25 giugno. E ricorda il "giuda" che accoltellò Falcone al Csm, quando scelsero un anziano magistrato che nulla s'intendeva di mafia pur di sbarrargli la strada. E mentre si tormenta ci sono personaggi degli apparati che tramano, che stanno scendendo a patti. Totò Riina ha appena stilato un "papello", una serie di richieste - la revisione del maxi processo, la modifica della legge sui pentiti, norme più morbide sulla confisca dei beni - da sottoporre allo Stato. Tutto s'incastra, tutto è a posto: il patibolo è pronto. Alla procura della repubblica di Palermo arriva una segnalazione di un attentato contro di lui che di quella procura è il vice, però gli altri non gli dicono niente. Siamo quasi alla fine dell'estate breve, quasi. Ancora il tempo di interrogare il pentito Gaspare Mutolo. «Mi fido solo di Borsellino», fa sapere. Ma il procuratore capo Giammanco gli manda un altro magistrato e Gasparino fa scena muta. Quando poi finalmente lo incontra, il boss gli svela nomi di giudici, poliziotti di alto rango, di spioni. Luglio, il "festino" di Santa Rosalia, la patrona di Palermo. Paolo Borsellino vede per l'ultima volta anche la sua Santuzza. Ormai ha capito tutto. Mancano due giorni, due dei cinquantasei giorni. È mattina, esce dalla sua casa sul mare a Villagrazia di Carini e prende per mano Agnese. Le dice: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c'è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi». Hanno già rubato la Fiat 126, l'hanno già imbottita di esplosivo. Alle 16,58 e 20 secondi del 19 luglio il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. Ma era già morto. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell' edificio. Non ci sono più neanche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Tutto era già scritto.

19 LUGLIO 1992. Via D'Amelio: la storia sofferta di una mezza verità. Dall'attentato che tolse la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta si sono succedute inchieste e processi. Ma restano ancora domande senza risposta: chi sono i mandanti occulti della strage? Chi ha ordito il depistaggio che ha fatto condannare innocenti e coperto i veri responsabili? Federico Marconi il 19 luglio 2017 su L'Espresso. Raccontare la storia dei 25 anni trascorsi dalla strage di via D’Amelio significa fare i conti con indagini e processi, mezze verità e totali bugie, false testimonianze e depistaggi. Le vicende giudiziarie sono riuscite a individuare chi fece esplodere la bomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Purtroppo ancora sfuggono i mandanti occulti di quel tragico delitto: perché se c’è una certezza è che Cosa Nostra non ha fatto tutto da sola.

LE CONDANNE INGIUSTE. Sicuramente con l’attentato del 19 luglio 1992 Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura non c’entrano nulla. Condannati nel gennaio del 1996 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel primo troncone del processo sui fatti di via D’Amelio, i nove componenti del “mandamento” della Guadagna sono stati assolti lo scorso 13 luglio dalla Corte d’Appello di Catania. «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio» hanno dichiarato nelle battute finali del procedimento le due procuratrici generali di Catania. La sentenza del tribunale etneo mette fine a una vicenda cominciata il 27 settembre 1992, quando il gruppo investigativo speciale “Falcone-Borsellino” guidato dall’ex capo della mobile di Palermo (e agente del Sisde) Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. I due picciotti della Guadagna dichiarano: “abbiamo rubato la Fiat 126 fatta esplodere a via D’Amelio”. Inoltre accusano alcuni compari di mandamento: Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Le dichiarazioni di Scarantino vengono confermate da Francesco Andriotta, suo compagno di cella a Busto Arsizio, a cui il killer avrebbe confidato la storia del furto e dell’esecuzione dell’attentato. Le rivelazioni di Scarantino coinvolgevano anche Salvatore Cancelli e Gioacchino La Barbera, due collaboratori di giustizia, che da subito accusano il pentito di dire falsità nelle sue dichiarazioni. O «fregnacce pericolose» come ha affermato Ilda Bocassini nel 2014, procuratore aggiunto di Milano, tra il ’92 e il ’94 applicata alla Procura di Caltanissetta che si occupava degli attentati a Falcone e Borsellino. «Dissi che andava sospeso tutto, che dovevamo verificare» continua la Boccassini, audita nel corso del processo di revisione «anche gli investigatori nutrivano dubbi su Scarantino, ma i pm hanno deciso di andare avanti per quella strada».

IL DEPISTAGGIO. Tutto l’impianto accusatorio del “Borsellino uno”, iniziato nell’ottobre 1994, veniva retto dalla confessione di Scarantino. Ma i dubbi sulla sua affidabilità si facevano sempre più forti: gli avvocati difensori si chiedevano come fosse possibile che un balordo del genere potesse essere stato utilizzato per un’operazione complessa come l’attentato di via D’Amelio. Non solo, nel corso dei confronti i collaboratori di giustizia facevano a pezzi "Vincenzino". «Ma a questo come gli date ascolto? State attenti: è falso» dichiara ai giudici Salvatore Cancemi «non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo». Lezione che presto si stufa di ripetere. Nel luglio del 1995, in un’intervista telefonica a Studio Aperto, Scarantino ritratta: «Ho detto bugie, accusato innocenti». Ma per i pm di Caltanissetta non cambia molto. «È probabile che Scarantino stia vivendo un momento di difficoltà» ribatte il sostituto procuratore Giordano «in ogni caso, il fatto che abbia deciso di fare marcia indietro non risponde a verità». Per il pm Carmelo Petralia invece «un' eventuale ritrattazione non avrebbe alcun effetto sul processo: le indagini non sono legate solo alle dichiarazioni dei collaboranti». Il 26 gennaio 1996 il processo arriva a sentenza. Ergastolo per Profeta, 18 anni a Scarantino, 9 anni a Orofino per favoreggiamento, assolto Scotto. Le condanne verranno confermate in Cassazione. Pochi mesi dopo, il 14 maggio, inizia il “Borsellino Bis”. Alla sbarra Totò Riina, il boss della Guadagna Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Antonino Gambino, Lorenzo Tinnirello, e i latitanti Natale Gambino e Giuseppe La Mattina. Secondo l’accusa Riina e gli altri si sono riuniti agli inizi di luglio a casa di Calascibetta per «delineare le modalità di consumazione della strage». Anche questa volta l’impianto accusatorio si regge sulle accuse di Scarantino, che viene chiamato a testimoniare il 14 settembre 1998. E per la seconda volta, ritratta: «Io non c’entro nulla con l’omicidio Borsellino». «A Pianosa il carcere era durissimo, cibo scarso e con i vermi. La Barbera mi disse che in cambio delle mie accuse mi sarei fatto solo qualche anno di galera e mi avrebbe dato 200 milioni» dichiara il pentito davanti a giudici e telecamere. Ma ancora una volta la sua ritrattazione non viene creduta. A febbraio del 1999 arrivano le condanne: ergastolo per Totò Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Gli altri imputati sono condannati a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage. Le condanne diventano definitive con il passaggio in Cassazione nel 2003. Durante il processo di Appello, un nuovo pentito conferma le accuse ritrattate ma comunque credute di Scarantino: Gaetano Pulci, braccio destro del boss Giuseppe Madonia. «Gaetano Murana mi ha confidato in cella di aver preso parte alla strage di via D’Amelio» le parole di Pulci, che permettono ai giudici di cementare la versione di Scarantino.

I MANDANTI OCCULTI. Pulci, in carcere per scontare una pena di 21 anni per omicidio, aveva numerose conoscenze nel mondo della politica: per questo è una fonte inesauribile di dichiarazioni eclatanti per gli inquirenti siciliani. Non solo per i giudici dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, ma anche per quelli a lavoro sulla trattativa Stato-mafia e sui "mandanti occulti" delle stragi di maggio-luglio 1992. «C’erano alcuni ministri tra le persone di cui ho sentito parlare che garantivano Cosa nostra della riuscita delle stragi. Con nome e cognome, non che io presumo» afferma Pulci. Le sue dichiarazioni finiscono così nel fascicolo che la Procura di Caltanissetta aveva aperto nel 1993 per fare chiarezza sulle personalità esterne a Cosa Nostra che hanno ordinato e agevolato le stragi. Sotto inchiesta personalità di spicco nell’Italia degli anni ’90: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Il fascicolo viene però archiviato nel 2003: «Gli atti dell’indagine, a prescindere dal loro valore probatorio, non potrebbero sostenere l’ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio», la motivazione del Gip Giovanbattista Tona.

NUOVE CONDANNE. Le indagini non si fermano e nel 1998 ha inizio il terzo processo sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati i boss Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, accusati di aver ordinato l’eliminazione di Borsellino. L’iter processuale, che durerà dieci anni, porterà alle condanne di tutti gli imputati. Nel 2003 si torna in aula. Questa volta a Catania, dove si celebra un processo unico per le stragi del 23 maggio e del 19 luglio. Nel 2006 vengono condannati all’ergastolo boss Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi ritenuti colpevoli di entrambi gli eccidi. Per la strage di Capaci l’ergastolo è inflitto a Giuseppe Montalto, Francesco e Giuseppe Madonia, mentre per via d’Amelio a Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera. Le pene sono confermate dalla Cassazione nel 2008.

LA SVOLTA. Sempre nel 2008, la svolta. Inizia a collaborare con la giustizia Gaspare Spatuzza, U’ tignusu, killer della cosca di Brancaccio. Le rivelazioni fatte ai giudici sono eclatanti: «Sono stato io a rubare la Fiat 126 esplosa in via D’Amelio, incaricato dai fratelli Graviano». La versione di Spatuzza smentisce la testimonianza di Scarantino e degli altri pentiti su cui i giudici avevano fondato i primi tre processi. La procura di Caltanissetta riapre le indagini sulla strage e nel 2009 Scarantino e Candura dichiarano ai pm di essere stati costretti a dichiarare il falso da Arnaldo La Barbera e il suo gruppo investigativo. Ha così inizio il “Borsellino Quater”, quarto processo sulla strage del 19 luglio. «Mi massacrarono, mi fracassarono. Un poliziotto mi fece sbattere la testa a terra mentre io piangevo» dichiara nell’udienza del 10 ottobre 2013 Salvatore Candura «Io continuavo a proclamarmi innocente, ma La Barbera mi diceva "sarò la tua ossessione, ti farò dare l’ergastolo: io ho le prove"». il 1 aprile 2014 testimonia al processo anche Scarantino: !Mi hanno distrutto la vita, sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie. Ho sempre detto che della strage non so niente e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni». Nel corso del dibattimento si parla quindi di "depistaggio di Stato", e si cercano le responsabilità soprattutto nel gruppo investigativo di La Barbera che arrestò e gestì da subito gli interrogatori di Candura e Scarantino. Non solo, nel novembre 2014 le dichiarazioni di un nuovo pentito permettono di fare maggiore chiarezza sulla strage. Fabio Tranchina, autista del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, ha dichiarato ai giudici che «fu Graviano ad azionare il telecomando che fece esplodere la bomba in via D’Amelio». Le dichiarazioni contrastavano con le parole di Totò Riina di pochi mesi prima. Intercettato durante l’ora d’aria trascorsa con il mafioso Alberto Lorusso, il boss parlava «della bomba azionata da un interruttore nel citofono». I giudici del “Borsellino quater” considerano attendibili le deposizioni di Spatuzza e Tranchina, mentre nessun elemento conferma la versione del “citofono” di Riina.

LE DOMANDE SENZA RISPOSTA. Rimangono però ancora degli interrogativi: chi ha avuto interesse a deviare le indagini dai veri sicari di Paolo Borsellino? Chi ha pilotato le dichiarazioni del pentito Scarantino, ostacolando le indagini? La versione di Scarantino indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel mandamento dei Graviano nel quartiere di Brancaccio. E la differenza non è da poco: Guadagna e Brancaccio sono due mondi lontani per le loro “relazioni esterne”, per i rapporti dei rispettivi boss. I fratelli Graviano sono stati a lungo sospettati di avere instaurato un legame con Marcello Dell’Utri, oggi in carcere a Rebibbia per scontare una pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E Gaspare Spatuzza lo dichiara davanti ai giudici: «Giuseppe Graviano mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Il boss aggiunse che ‘grazie alla serietà di queste persone, ci avevano messo il Paese nelle mani». A 25 anni dal 19 luglio 1992 non sappiamo ancora molto. Chi è stato l’artificiere che ha imbottito di 90 chili di espolosivo la Fiat 126? Chi è la persona esterna a Cosa Nostra che, secondo le dichiarazioni di Spatuzza, era presente quando è arrivato l’esplosivo? Che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, con gli appunti sulle sue ultime indagini? Sono domande a cui nuove inchieste giudiziarie potrebbero dare risposta. «Dobbiamo pretendere la verità utile a dare un nome e un cognome alle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti». Ha detto Fiammetta Borsellino lo scorso 23 maggio, nel giorno del 25° anniversario della strage di Capaci, nel corso di una trasmissione su Rai1. Le “menti raffinatissime” esterne a Cosa Nostra ma che con lei spartivano affari, interessi, potere. È giusto ricordare quel che ha dichiarato la signora Agnese Borsellino ai magistrati nel settembre 2009. Il marito Paolo, giudice che nella vita aveva conosciuto mafiosi a migliaia, «ha visto la Mafia in faccia» non dopo un processo, né durante un interrogatorio di un boss. Ma dopo essere stato al Ministero degli Interni il 17 luglio 1992. Due giorni prima di morire.

19 LUGLIO 1992. Questo Paese ha un debito di verità con le vittime della strage di via D'Amelio. Se la giustizia ha fatto il suo corso ora tocca alla politica. Che ha il dovere di scavare per far venire fuori le risposte alle troppe domande rimaste. Lirio Abbate il 17 luglio 2018 su L'Espresso. La magistratura a distanza di 26 anni dalla strage di via D'Amelio ha fatto la sua giusta parte, spazzando via indagini e sentenze marce, inquinate da “farlocchi” collaboratori di giustizia, da inchieste dubbie e procedure al limite dell'illegalità. Con quel modo sbagliato di procedere si è mancato di rispetto alla memoria delle vittime del 19 luglio 1992 quando un'autobomba uccideva il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, e gli agenti della polizia di Stato Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. È rimasto vivo il poliziotto Antonino Vullo, che in questo video che L'Espresso pubblica, racconta l’incubo di quel giorno. Il 19 luglio del 1993 una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Alle sue parole, e alle sue lacrime, è affidato il racconto dell'incubo di quel giorno. Oggi però la magistratura, e gli investigatori che hanno avviato nuove indagini, ci hanno dato dimostrazione che si può ancora avere fiducia nella giustizia. Se si è arrivati a scompaginare sentenze ormai passate ingiudicate, a trovare le prove “nascoste” per anni, e far emergere come è stato disatteso “il metodo Falcone”, oltre ai magistrati e agli investigatori il merito è anche del lavoro svolto dagli avvocati che si sono costituiti parte civile e che in passato hanno difeso alcuni degli imputati della strage, la cui posizione è stata “revisionata”. E dunque, se la giustizia ha fatto il suo corso, e come sappiamo le aule dei tribunali hanno spesso un loro limite, adesso chi deve proseguire per trovare la verità è la politica. Le indagini giudiziarie hanno limiti, regole e termini precisi oltre i quali non si può sconfinare rispetto ai ristretti argini del processo penale, che è diretto ad accertare singole responsabilità. Questo non significa rinunciare alla giustizia dei tribunali. Vuol dire invece che è arrivato il momento di sostenere nei fatti che la sede naturale in cui cercare la verità storica complessiva sulle stragi è quella politica. Spetta proprio alla politica scavare per far venire fuori le risposte alle tante domande rimaste ancora appese che portano a interrogarci su chi ha progettato questo depistaggio. Perché 57 giorni dopo la strage di Falcone, Cosa nostra è stata mandata a uccidere un altro magistrato impegnato nella lotta alla mafia? Perché tanta fretta? Chi ha fatto sparire l'agenda rossa di Borsellino? Chi ha suggerito le dichiarazioni ai falsi pentiti spostando così il fuoco delle indagini su un gruppo di persone innocenti? E poi ancora tanti altri interrogativi. A distanza di 26 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino possiamo dire che la mafia stragista dei corleonesi è stata sconfitta e l’impunità su cui fondava la sua forza attrattiva è rimasta soltanto nel ricordo nostalgico di tanti capimafia che invecchiano all’ergastolo. Tuttavia, sulla campagna di destabilizzazione realizzata per mano corleonese restano ombre e interrogativi che i processi non hanno chiarito nonostante l’impegno profuso dalla magistratura, specie negli ultimi anni. C'è sempre da sperare che almeno qualcuno dei protagonisti, diretti o indiretti, o soltanto testimoni del perseguimento di quegli interessi di personaggi esterni a Cosa nostra, finalmente contribuisca a far luce sulle pagine buie della storia italiana. Si deve fare perché tutto ciò riguarda la dignità di questo Paese che, ora, ha un debito di verità.

Borsellino: ecco il depistaggio. Un video girato dagli inquirenti nelle strade in cui fu rubata l'auto usata per l'attentato di via D'Amelio. E arriva la prova: il falso pentito indica il posto sbagliato, Spatuzza quello giusto. E' la conferma di un'indagine inquinata per troppo tempo da qualcuno. Per convenienza o per ragion di Stato. Lirio Abbate l'8 marzo 2012 su L'Espresso. Adesso è ufficiale: c'è stato un depistaggio orchestrato da qualcuno sulla strage di via D'Amelio a Palermo in cui vennero uccisi Paolo Borsellino e cinque dei suoi agenti di scorta. I principali attori di questa triste storia sono stati i falsi pentiti che davanti ai giudici si sono auto accusati di avere avuto un ruolo nell'attentato del 19 luglio '92. A cominciare dal furto della Fiat 126 che venne imbottita di tritolo e fatta esplodere in via D'Amelio. È da questo primo taroccato tassello, oggi ricostruito bene dalla procura di Caltanissetta e dalla Dia nissena, che le indagini furono subito deviate e spostate verso altri obiettivi. Si parte proprio dal furto della 126 di cui si è incolpato Salvatore Candura, un personaggio di cui nessun mafioso fino al 1992 aveva mai sentito parlare. Eppure compare sulla scena del crimine come il sedicente autore del furto, l'uomo che (insieme ad un altro falso pentito, Vincenzo Scarantino) sostiene di aver organizzato la prima parte esecutiva dell'attentato. Oggi, a distanza di vent'anni, e dopo tre sentenze con il marchio della Cassazione sulla strage Borsellino, si scopre che Candura ha detto il falso. Una scolta che avviene grazie alla collaborazione con la giustizia di Gaspare Spatuzza, che rivela retroscena inediti su via D'Amelio e tra l'altro dice che Candura non c'entra: è stato lui a rubare l'auto. A chi credere? La Dia decide di fare un riscontro in un modo molto semplice che però, incredibilmente, non era mai stato usato in precedenza. Gli investigatori chiedono infatti separatamente a Candura sia a Spatuzza di portarli sul luogo dove, secondo loro, era stata rubata la 126 usata per l'attentato. I due indicano due vie diverse di Palermo. A risolvere la questione è la ex proprietaria della macchina: che indica lo stesso posto di Spatuzza, smendendo clamorosamente Candura. E quasi vent'anni dopo, tutto si riapre.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su L'Espresso. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.

Agenda Rossa, mistero senza risposta. Cos'era e che fine ha fatto il quaderno su cui Paolo Borsellino annotava appuntamenti e osservazioni? Chi aveva interesse a farlo sparire e perché? Umberto Lucentini il 18 luglio 2013 su L'Espresso.

Cos'è l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino? E' un'agenda dell'Arma dei Carabinieri, con la copertina rossa, che il procuratore aggiunto Paolo Borsellino aveva avuto in dono all'inizio dell'anno e che è sparita subito dopo l'attentato di via D'Amelio del 19 luglio del 1992. Le testimonianze della moglie Agnese Piraino Leto e del figlio Manfredi lo confermano: Borsellino aveva riposto l'agenda rossa dentro la borsa 24 ore che è stata trovata praticamente intatta dentro l'auto blindata, in via D'Amelio, dopo l'esplosione. Nella borsa sono stati trovati il costume da bagno che Borsellino aveva utilizzato poche ore prima a mare, un paio di occhiali da sole, altri effetti personali. Ma di quell'agenda nessuna traccia.

Perché è così importante? Paolo Borsellino era solito prendere appunti nelle agende annuali, dove registrava gli appuntamenti di lavoro, gli spostamenti privati e anche le spese di casa. Nell'agenda rossa, secondo la testimonianza dei suoi più stretti collaboratori, e dopo l'attentato a Giovanni Falcone, Borsellino aveva iniziato a scrivere una serie di appunti su quei drammatici giorni seguiti alla strage di Capaci. L'allora tenente Carmelo Canale, uno dei suoi fidati investigatori, lo aveva visto scrivere sull'agenda rossa pochi giorni prima del 19 luglio del 1992. 

Cosa ha raccontato Canale a proposito di quell'agenda? Il carabiniere era a Salerno con Borsellino, insieme erano lì per il battesimo del figlio di Diego Cavaliero, uno dei sostituti che aveva lavorato con il magistrato alla Procura di Marsala. Canale ha raccontato di essersi svegliato e di aver visto Borsellino, nella camera d'albergo che dividevano, intento a scrivere qualcosa nell'agenda. Canale, per cercare di alleggerire la tensione di quei giorni, scherza con Borsellino: "Ma che fa, vuole diventare pentito pure lei?". Riceve una risposta che lo gela: "Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch'io ho le mie cose da scrivere". Quell'agenda, ha raccontato Canale, Borsellino dopo aver finito di scrivere quegli appunti l'ha riposta dentro la borsa 24 ore che portava sempre con sé.

Di cosa si occupava in quei giorni Borsellino? Da procuratore aggiunto a Palermo stava raccogliendo le prime rivelazioni di diversi "pentiti" di mafia di primissimo piano. Con lui aveva iniziato a collaborare Gaspare Mutolo, ex autista dell'allora latitante Totò Riina, che svelò i nomi delle "talpe" di Cosa nostra nelle istituzioni come l'ex numero 3 del Sisde, Bruno Contrada, o il magistrato Domenico Signorino. E in quei giorni aveva avuto notizia di un "dialogo" tra pezzi dello Stato e i mafiosi, cioè la "trattativa" di cui si sta occupando il processo appena aperto a Palermo a carico di alti ufficiali dei carabinieri, mafiosi, politici. L'1 luglio, nell'agenda grigia (un'altra agenda che Borsellino teneva a casa e che è stata ritrovata) è segnato il cognome del neo ministro degli Interni, Nicola Mancino, che Borsellino ha incontrato al Viminale. Mancino ha sempre detto di non ricordarsi quell'incontro. 

Che fine può aver fatto l'agenda rossa scomparsa in via D'Amelio? Una traccia che ha fatto ripartire le indagini sulla sparizione dell'agenda rossa è stata trovata grazie ad una fotografia scattata subito dopo l'attentato di via D'Amelio. Nell'immagine, e poi nei filmati girati dalla Rai, si vede un carabiniere in borghese che si allontana da via D'Amelio con in mano la borsa. Ma, si scoprirà dalle indagini e dalle relazioni di servizio, la borsa viene "ufficialmente" ritrovata dentro l'auto blindata del magistrato solo dopo aver compiuto questo strano tragitto. Il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, il carabiniere in borghese che si è allontanato con la borsa in mano, è stato indagato per il reato di furto dell'agenda rossa con l'aggravante di aver favorito l'associazione mafiosa, e poi prosciolto "per non aver commesso il fatto".

Chi può avere paura di cosa era scritto in quell'agenda? Hanno scritto gli aderenti al Movimento delle Agende Rosse, nato su iniziativa di Salvatore Borsellino, ingegnere, fratello di Paolo: "In quel diario sono contenuti appunti sugli incontri ed i colloqui che Borsellino ebbe con collaboratori di giustizia e con rappresentanti delle Istituzioni. Si tratta di elementi determinanti per mettere a fuoco le complicità di pezzi dello Stato con Cosa Nostra. Chi si è appropriato dell'agenda può oggi utilizzarla come potente strumento di ricatto proprio nei confronti di coloro che, citati nel diario, sono scesi a patti con l'organizzazione criminale".

Le audizioni di Borsellino : «Nessun terzo livello mafia-politica». Damiano Aliprandi il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. Nelle audizioni desecretate il pm ucciso a via d’Amelio dice: «ho la convinzione, tra l’altro condivisa da Falcone, che questa specie di centrale che sarebbe al di sopra della mafia sostanzialmente non esiste».

Le audizioni di Borsellino. La narrazione in corso, anche di tipo giudiziario, è quella che cerca di collegare “Cosa nostra” con la misteriosa “entità”, una Spectre che dirige la cupola mafiosa come se fosse composta da burattini. Una sorta di terzo livello che coordina tutto, perfino la Storia italiana. Qualcosa del genere la ritroviamo scritta anche nella sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato – Mafia che ha condannato gli ex Ros, Marcello Dell’Utri, Nino Cinà e prescritto il pentito Giovanni Brusca. Eppure, sia Falcone che Borsellino, concordavano con il fatto che la mafia agiva per conto proprio, pensava al suo di potere e che i suoi rapporti con la politica e il mondo economico, consistevano nel trarre vantaggi. Infatti, chi non ubbidiva, politico o imprenditore che sia, veniva ucciso. Ma tutto ciò è ben cristallizzato nelle audizioni recentemente desecretate dall’attuale commissione antimafia sotto la presidenza di Nicola Morra.

La commissione Morra. Parliamo di quelle relative alla commissione riunita nel novembre 1988. Oltre a Borsellino, c’era anche Giovanni Falcone e il capo del pool del Tribunale di Palermo, Antonino Caponnetto. Proprio Borsellino, quando ha preso la parola, e dopo aver denunciato tutte le difficoltà che ha vissuto nella procura di Marsala, ha affrontato il rapporto tra mafia e politica. «Ho la convinzione – ha spiegato Borsellino -, tra l’altro condivisa dal collega Falcone, dopo otto anni di indagini sulla criminalità mafiosa, che il famoso “terzo livello” di cui tanto si parla – cioè questa specie di centrale di natura politica o affaristica che sarebbe al di sopra dell’organizzazione militare della mafia – sostanzialmente non esiste. Dovunque abbiamo indagato al di sopra della cupola mafiosa non abbiamo mai trovato niente». Borsellino ha sottolineato, che «da tante indagini viene fuori invece la contiguità e i reciproci favori, e senza andare lontano basta vedere il caso Ciancimino e il caso Salvo».

L’analisi di Falcone. D’altronde lo stesso Giovanni Falcone, nel corso della sua vita, subendo anche critiche, ha più volte spiegato che per “terzo livello” non intendeva indicare l’esistenza di una dimensione superiore a quella della mafia militare e dei suoi capi, fatta di colletti bianchi in grado di muovere le fila. Lo ha spiegato anche durante un’audizione al Csm del 15 ottobre del 1991, per difendersi proprio dalle accuse mosse tramite esposti a firma dell’avvocato Giuseppe Zupo, l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, dall’avvocato Alfredo Galasso e di Carmine Mancuso. Durante l’audizione resa pubblica dal CSM qualche anno fa, Giovanni Falcone ci ha tenuto a spiegare che lui non solo ribadisce l’inesistenza del terzo livello, ma ha aggiunto che non parlarne non è assolutamente una fatto benefico a favore della classe politica. «Magari ci fosse un terzo livello!», ha esclamato Falcone. «Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo!», ha aggiunto. «Ma purtroppo non è così – ha detto amaramente Falcone -, perché abbiamo rapporti molto intesi, molto ramificati e molto complessi».

Il terzo livello. Ma allora, Giovanni Falcone, cosa intendeva in realtà per “terzo livello”? Lo ha spiegato benissimo sempre durante quell’audizione e non c’entra assolutamente nulla con l’idea di una mafia eterodiretta. «Ci sono delitti – ha illustrato Falcone – che sono quei delitti per cui si è costituita l’organizzazione criminosa ( contrabbando di tabacchi, traffico di stupefacenti, etc): questi delitti sono del primo livello – chiamiamoli così – i delitti certi, quelli previsti». «Poi abbiamo dei delitti eventuali, del secondo li- vello, cioè che non sono nella finalità dell’organizzazione in quanto tale, ma che vengono, volta per volta, consumati per garantire la prosecuzione dell’attività dell’organizzazione ( vedi, per esempio, lo sgarro di un picciotto che provoca la sua uccisione e così via)». «Infine abbiamo dei delitti che servono per tutelare l’organizzazione nel suo complesso. Ecco, quindi, il delitto di un magistrato, di un uomo politico, etc. Questi delitti, che non sono né del primo livello, previsti, né del secondo livello, eventuali, li possiamo definire del terzo livello» . Ecco spiegato il concetto. Falcone, come Borsellino, non ha mai immaginato che esistesse una sorta di consiglio di amministrazione sovraordinato rispetto ai clan capace di dettare le condizioni delle azioni criminali, quasi fosse una super Spectre. Al contrario riteneva già Cosa Nostra una organizzazione perfettamente piramidale con un gruppo dirigente che contava al proprio interno intelligenze e professionalità le più disparate, ben inserite nel circuito politico economico legale assoggettate all’unico vincolo possibile: servire gli scopi dell’onorata società.

19 LUGLIO 1992. Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. Ecco la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo. Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su L'Espresso. «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giomalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.

ALLA CORTE DI ARCORE.

Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?

«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».

Uomo d'onore di che famiglia?

«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?

«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».

Quando ha visto per la prima volta Mangano?

«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».

Per interrogarlo?

«Sì, per interrogarlo».

E dopo è stato arrestato?

«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?

«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».

Quando, in che epoca?

«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».

Ma lui viveva già a Milano?

«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

E si sa cosa faceva a Milano?

«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?

«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...».

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?

«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...

«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».

Mangano conosceva Bontade?

«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.

«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?

«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?

«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?

«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello li non "surra"[non c'entra, ndr]”).

«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?

«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».

A Palermo?

«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».

Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].

«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».

I fratelli?

«Sì».

Quelli della Publitalia, insomma?

«Sì».

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?

«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».

Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?

«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».

In un albergo. Dove?

«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».

Ah, oltretutto.

«Sì».

SICILIANI A MILANO.

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?

«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Sono di Palermo tutti e due...

«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].

«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?

«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].

«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».

I SOLDI DI COSA NOSTRA

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.

«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?

«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?

«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia. concernenti anche Mangano».

Concernenti cosa?

«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?

«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?

«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?

«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...

«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...» .

Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.

E questa inchiesto quando finirà?

«Entro ottobre di quest'anno...».

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?

«Certamente ...».

Perché cl servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...

«Passerà del tempo prima che ... », sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

Borsellino non indagava su Dell’Utri. Nessuna inchiesta nel ’92. Tutto quello che non torna nell’intervista a canal +, a 2 giorni da Capaci. Damiano Aliprandi il 24 luglio 2019 su Il Dubbio. La scorsa settimana alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia che la procura di Caltanissetta sta svolgendo una indagine sulla famosa intervista fatta, per conto della Tv francese Canal +, a Paolo Borsellino.

L’intervista – realizzata esattamente due giorni prima della strage di Capaci -, secondo i giornalisti che l’hanno condotta, doveva far parte di un documentario sulla malavita organizzata in Europa. Ma, sempre secondo gli autori, il documentario non è stato mai trasmesso per motivi legati alla tv francese. I giornalisti sono due. Fabrizio Calvi, alias Jean- Claude Zagdoun, autore di numerosi libri, soprattutto sui servizi segreti. L’altro è Jean Pierre Moscardo, scomparso nell’ottobre 2010.

Borsellino non stava indagando su Dell’Utri. L’intervista, prima uscita nel 1994 sull’ Espresso in forma scritta, poi riportata non integralmente su Rainews 24 nel 2000 e infine nel 2009 nella cosiddetta versione integrale tramite un dvd de Il Fatto Quotidiano, suscitò numerose indignazioni popolari, perché Borsellino parlava di argomenti riguardanti Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Peccato però, come emerge in tutta evidenza, che Borsellino non se ne stesse assolutamente occupando e infatti, alle ripetute sollecitazioni dei giornalisti, ci ha tenuto sempre a precisare che erano argomenti che non conosceva, consultando atti non suoi. Ma andiamo con ordine. Come detto, nel 1994 uscì su l’Espresso la prima trascrizione dell’intervista. Dopodiché, nel 2000, il giornalista Sigfrido Ranucci, ha trasmesso su Rainews una parte dell’intervista dove Borsellino parlava di Mangano e Dell’Utri. In questo contesto, è nata una prima polemica. Paolo Guzzanti ha scritto un articolo di fuoco contro Ranucci, osservando che l’intervista mandata in onda dalla Rai fosse falsificata all’evidente scopo di attribuire alle dichiarazioni di Borsellino significati diversi da quelli espressi dall’originale. A quel punto, sempre nel medesimo articolo, Guzzanti ha commentato: «Qualcuno l’ha manipolata. Se non è stata la Rai, chi ci ha messo le mani?».

Intervista manipolata. Ne è scaturita una querela da parte di Ranucci. I giudici, però, hanno assolto Guzzanti, hanno scritto, discolpando però Ranucci di essere stato lui l’autore della manipolazione, che è «obiettivamente vero, nei suoi elementi essenziali, il fatto che l’intervista mandata in onda da Rainews, è frutto di una alterazione». Sempre nella medesima sentenza di assoluzione, emerge anche un altro aspetto degno di nota. Partiamo sempre dalla modalità dell’intervista. Le domande sono tutte volte, con insistenza, sul rapporto tra Dell’Utri e Mangano, in particolare la vicenda dei cavalli, nome in codice utilizzato da quest’ultimo per parlare di droga. Borsellino ha più volte ripetuto di non essere a conoscenza della vicenda, facendo riferimento esclusivamente a una vecchia indagine che seguì, dove emerse un contatto tra Mangano e la famiglia mafiosa degli Inzerillo. I giornalisti, a questo punto, hanno inserito una domanda relativa al rapporto con Dell’Utri. Ed è qui che nasce un fraintendimento, ben chiarito dai giudici che hanno assolto Guzzanti. «Risulta evidente – sottolineano i giudici che l’ultima risposta data da Borsellino, anche se l’interlocutore formula la domanda (“sì ma quella conversazione con Dell’Utri poteva trattarsi di cavalli?”) in modo analogo rispetto a quello usato al principio del discorso, deve essere riferita alla conversazione del Mangano con uno della famiglia degli Inzerillo, chiaramente un soggetto diverso da Dell’Utri ( che non è stato imputato nel maxi processo), anche se l’interlocutore nella sua domanda, ha continuato ad individuare la telefonata intercettata come avvenuta con Dell’Utri». I giudici quindi osservano: «Insomma, le esplicite precisazioni già fatte da Borsellino evidenziano che la sua risposta si riferisce alla telefonata del maxi processo, individuata anche dal contenuto ( il riferimento ai cavalli), essendo irrilevante che il suo intervistatore continui a riferirsi a Dell’Utri, anziché ad uno degli Inzerillo, malgrado quanto appena spiegato dal Magistrato».

Le riprese. Già due sono i punti che dovrebbero essere chiariti. Così come dovrebbe essere chiarita anche la modalità delle riprese durante l’intervista che si vede nel video cosiddetto “integrale”. Borsellino era al corrente di essere ripreso in alcune situazioni? I giornalisti inquadrano il campanello di casa sua, continuano la ripresa anche quando il giudice apre la porta. Viene inquadrato tutto il soggiorno e anche le sue gambe mentre cammina. Arrivano telefonate durante l’intervista: ad una di queste, Borsellino fa cenno con la mano di non riprenderlo, ma la telecamera per un po’ rimane comunque accesa. Sempre nel video integrale si notano anche probabili tagli visto la presenza di “dissolvenze”. Così come, e questa è la parte più enigmatica della vicenda, Borsellino viene ripreso di lato nonostante chiede di mantenere il segreto quando passa degli atti in cui si parla anche delle indagini su Dell’Utri. Borsellino dice testualmente al giornalista che ha di fronte: «Io glieli do l’importante che non dica che glieli ho dati io». Lo fa con un sorriso, consapevole di farlo con fiducia. Sappiamo che Borsellino ha avuto i documenti, su sua esplicita richiesta visto che è stato avvisato del tema dell’intervista, da un suo collaboratore. Parliamo, ripetiamo, di fogli con le schede di indagini nelle quali erano citati Mangano, Dell’Utri e Berlusconi. Indagini di cui Borsellino mai si era occupato, come lui stesso più volte ha tenuto a dire nel corso dell’intervista. Fogli che tuttora non sono stati resi pubblici dal giornalista. Ma l’enigma non finisce qui. Da ribadire che, a domanda dei giornalisti, Borsellino esamina gli appunti e riferisce, leggendo i fogli, che è in corso un’inchiesta a carico dei fratelli Dell’Utri e che tale inchiesta era condotta con il vecchio rito processuale dal magistrato Leonardo Guarnotta. Parliamo dei fogli che poi Borsellino ha consegnato. Quando è uscito il dvd dell’intervista, lo stesso Marcello Dell’Utri ha chiesto l’annullamento del processo perché a giudicarlo è lo stesso Guarnotta che avrebbe condotto le indagini nel ’ 91. Il motivo è sia il principio ne ibis idem, sia perché un giudice che aveva condotto delle indagini su di lui non può certamente giudicarlo. Ma arriva il colpo di scena.

Non esisteva nessuna indagine. Il ricorso, nel 2010, è stato rigettato. Il motivo? Dagli stessi archivi della Procura risulta che non è mai esistita nessuna indagine. Dell’Utri è stato indagato dal 1994 in poi. Lo stesso Pg Nino Gatto ha infatti dichiarato in aula: «Nel nostro codice non esiste ancora il procedimento invisibile e se Dell’Utri avesse avuto un carico pendente già da prima ne sarebbe rimasta traccia». Dell’Utri quindi non aveva nessun carico pendente al momento dell’intervista. Chi ha inserito questi procedimenti probabilmente inesistenti negli archivi, che poi sono finiti nelle mani inconsapevoli di Borsellino? Tante sono le domande, diversi i punti da chiarire.

Un momento drammatico. Il tutto però è da inquadrare in un contesto drammatico. A due giorni di distanza dall’intervista, saltano in aria Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta. Meno di due mesi dopo, lo stesso destino è toccato a Borsellino. L’intervista però avrebbe potuto avere un valore importante, se i due giornalisti gli avessero fatto domande riguardanti la sua personale attività, anziché su inchieste che non erano neanche di sua competenza come lui stesso disse insistentemente. Perché esclusivamente domande su Dell’Utri ( all’epoca di scarsa notorietà) e Berlusconi? Sappiamo che tale intervista poi verrà ampiamente utilizzata da vari giornali e programmi tv, per sostenere che Borsellino sarebbe stato fatto fuori per il suo interessamento ai due, che sarebbero poi diventati politici importanti. Altri erano i suoi interessi, soprattutto mafia- appalti ( dossier che ha voluto studiare fin da subito, anche se era procuratore a Marsala e non ancora a Palermo) come è emerso dagli atti e testimonianze. Tutto però è passato in sordina. Soprattutto dal 2000, in poi.

La Strage di via D'Amelio. La testimonianza del poliziotto Antonio Vullo. La Repubblica il 24 giugno 2019. Dalla deposizione del teste Antonio Vullo si desume, dunque, che il 19 luglio 1992 egli si recò presso l’abitazione estiva di Paolo Borsellino, a Villagrazia di Carini, insieme a Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Sul luogo sopraggiunsero poi gli altri componenti della scorta: Walter Cosina, Agostino Catalano e Emanuela Loi. Intorno alle ore 16 il Dott. Borsellino chiamò i due capipattuglia delle autovetture di scorta – il Traina e il Catalano – per comunicare loro che poco dopo avrebbe dovuto recarsi in Via D’Amelio. Il Dott. Borsellino, su richiesta del Vullo, diede loro le indicazioni occorrenti per raggiungere il suddetto luogo; in questo momento, il Vullo notò che il Magistrato aveva in mano un piccolo oggetto simile a un’agenda, con la copertina di colore scuro. Pochi minuti dopo il corteo di autovetture partì in direzione di Via D’Amelio; esso era composto dall’autovettura di “staffetta”, guidata dal Vullo, con a bordo il Li Muli e il Traina, dall’autovettura condotta dal Dott. Borsellino, e dall’altra autovettura di scorta all’interno della quale vi erano il Catalano, la Loi e il Cosina. Dopo avere percorso l’autostrada dallo svincolo di Carini a quello di Via Belgio, le autovetture imboccarono via dei Nebrodi e via Autonomia Siciliana, sino ad arrivare in Via D’Amelio, dove il Vullo si soffermò perché vi erano numerosi autoveicoli parcheggiati, circostanza che apparve assai singolare al teste, il quale sapeva che in tale luogo abitava la madre del Magistrato (in seguito, il Vullo avrebbe appreso che era effettivamente stata presentata da alcuni colleghi una relazione finalizzata a ottenere una zona rimozione sul posto). Prima che il Vullo e il Traina avessero il tempo di prendere qualsiasi decisione, il Dott. Borsellino li sorpassò e posteggiò la propria autovettura al centro della carreggiata, davanti al cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Il Vullo fece scendere dalla propria autovettura gli altri componenti della scorta e si spostò in corrispondenza della fine di Via D’Amelio, per impedire l’accesso di altre persone. Uscito dall’abitacolo del veicolo, il Vullo vide che il Dott. Borsellino era andato a pressare il campanello del cancelletto ed aveva acceso una sigaretta; accanto a lui vi erano il Catalano e la Loi, mentre il Traina e il Li Muli stavano tornando indietro. Qualche secondo dopo, il Dott. Borsellino e i suddetti componenti della scorta entrarono all’interno del piccolo cortile nel quale vi era il portone dello stabile. Il Vullo vide che il Cosina era fermo davanti all’altra autovettura, e pensò quindi di avvicinare ad essa anche l’autoveicolo da lui condotto, in modo da essere pronti per ripartire. Durante questo spostamento, il teste vide che il Dott. Borsellino e gli altri componenti della scorta erano fermi davanti al portone di ingresso dello stabile, dove il Magistrato stava pigiando sul campanello. Mentre il Vullo stava posizionando l’autovettura al centro della carreggiata, egli venne investito da una corrente di vapore e polvere ad altissima temperatura all'interno dell'abitacolo. Sceso dal veicolo, si rese conto di quanto era accaduto; sul luogo era calata una pesante oscurità, e le condizioni di visibilità erano estremamente limitate. Egli vide subito il corpo di un collega per terra e si pose alla ricerca degli altri, pensando che fossero ancora vivi. Si incamminò quindi in direzione di via Autonomia Siciliana, dove fu raggiunto dai primi soccorsi e poi condotto in ospedale.

Una completa ricostruzione della dinamica della strage è stata operata dalla sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si evidenzia che «gli ultimi istanti di vita di Paolo BORSELLINO e degli agenti della scorta si riflettono nelle parole cariche di commozione pronunciate dall’agente Antonio VULLO, unico superstite della strage.

Il teste VULLO, nell’udienza del 22.11.1994, ha riferito di avere preso servizio alle 12.45 e di avere avuto la comunicazione di portarsi a Villagrazia di Carini, ove Paolo BORSELLINO si trovava con la sua famiglia. Dal villino al mare il magistrato si allontanò per raggiungere l’abitazione della madre, in via D’Amelio, intorno alle 16. Il teste ha precisato di avere saputo quale sarebbe stata la destinazione solo poco prima di partire, precisando che né lui né gli altri colleghi della scorta conoscevano l’ubicazione della via D’Amelio, dove non si erano mai recati con Paolo BORSELLINO. Fu quest’ultimo a spiegare quale percorso avrebbero dovuto fare per arrivarci. Come di regola avveniva, la destinazione venne comunicata alla sala operativa solo qualche minuto dopo la partenza; egli si trovava a bordo dell’autovettura che apriva il corteo, seguita da quella del magistrato – che stava alla guida ed era solo nell’auto – seguita a sua volta dalla seconda auto di scorta. A bordo dell’auto con il VULLO – che era alla guida – viaggiavano il caposcorta Claudio TRAINA e Vincenzo LI MULI; nella seconda auto di scorta, guidata da Walter CUSINA, viaggiavano Agostino CATALANO e Emanuela LOI. In breve tempo, seguendo le indicazioni sul percorso che aveva dato loro Paolo BORSELLINO, arrivarono in via D’Amelio.

P.M. PETRALIA: Descriva come avete trovato Via D'Amelio quando siete arrivati.

TESTE VULLO: Mah, il primo colpo d'occhio: era pieno di automobili parcheggiate, difatti, dato che era la madre, sia a me sia al capomacchina, che era Claudio Traina, ci ha dato un po' di pensiero...

P.M. PETRALIA: Cosa vi ha dato pensiero?

TESTE VULLO: Siccome e' l'abitazione della madre, che noi sapevamo che quella era l'abitazione della madre, tutte 'ste auto parcheggiate...

P.M. PETRALIA: Vi hanno...?

TESTE VULLO: Certo, ci hanno un po' infastidito. Dalla sua auto scesero TRAINA e LI MULI, che dovevano fare la “bonifica” al portone dello stabile, mentre egli si posizionò con l’auto in fondo alla via D’Amelio; Paolo BORSELLINO parcheggiò l’auto al centro della strada e scese, accompagnato dal CATALANO e dalla LOI; il TRAINA era già davanti al portone del civico 19 quando venne raggiunto dal magistrato.

A quel punto il VULLO uscì anch’egli dall’auto pistola alla mano, guardò in giro, vide che tutto era normale, anche se la sua visuale era un po’ coperta dal fogliame e non vedeva più il magistrato e i colleghi della scorta; vide che CUSINA era anch’egli fermo in piedi vicino alla propria auto e accendeva una sigaretta. Il teste ha proseguito dicendo che a quel punto egli decise di girare l’auto, mettendola in posizione per ripartire; le altre auto erano ferme così come erano arrivate, con il davanti verso la fine della strada. Dall’interno dell’auto vide che Paolo BORSELLINO era ancora davanti al portone, intento a pigiare il campanello; il VULLO ha detto di essersi girato poi a guardare il collega CUSINA, che era ancora fermo vicino alla propria auto. In quel momento vi fu l’esplosione.

TESTE VULLO: L'esplosione... sono stato investito io da una nube abbastanza calda, all'interno dell'abitacolo sono stato sballottato, sono uscito dal veicolo e tutto distrutto, già avevo visto il corpo di un collega, dell'autista CUSINA, che era accanto alla mia macchina, e... mi sono messo a girare così, senza nessuna meta, cercando aiuto o dando aiuto agli altri colleghi...

P.M. PETRALIA: Per quanto è rimasto proprio sul teatro dell'esplosione?

TESTE VULLO: Ma un paio di minuti, tre - quattro minuti.

P.M. PETRALIA: Ha visto nessun estraneo in quei frangenti?

TESTE VULLO: No, no.

P.M. PETRALIA: Poi cosa ha fatto?

TESTE VULLO: Ma prima sono andato verso la fine di Via D'Amelio, così, cercando di... avere qualche aiuto da qualcuno...

P.M. PETRALIA: Quando dice "fine di Via D'Amelio" intende dire il lato del giardino od il lato di Via Autonomia Siciliana?

TESTE VULLO: Il lato del giardino. Ho visto tutto distrutto, non ho visto nessuno che potesse aiutarci e (sono andato a vedere) dall'altra parte, verso la via Autonomia Siciliana, e là ho visto il primo collega... la prima volante che è arrivata, però non ricordo bene chi fossero.

P.M. PETRALIA: E lei è arrivato contemporaneamente all'arrivo della volante oppure è arrivato prima?

TESTE VULLO: Ma un... un paio di secondi prima.

P.M. PETRALIA: Lungo il percorso, diciamo, tra il luogo dove materialmente era esploso l'ordigno e l'inizio di Via D'Amelio da Via Autonomia Siciliana che cosa ha potuto notare?

TESTE VULLO: Solamente alcuni brandelli dei colleghi.

P.M. PETRALIA: Lei ha potuto vedere, per quello che ci ha detto un attimo fa, Paolo BORSELLINO che usciva dalla macchina e si avviava verso il portone della casa della madre...

TESTE VULLO: Sì, esattamente.

P.M. PETRALIA: Ricorda, se lo ricorda, se aveva per caso qualcosa in mano, come una borsa, agende od altri oggetti di una certa dimensione tali da poter colpire la sua attenzione?

TESTE VULLO: No, assolutamente.

P.M. PETRALIA: Cioè non lo ricorda o non aveva nulla?

TESTE VULLO: No, non aveva nulla in mano.

P.M. PETRALIA: Aveva le mani libere?

TESTE VULLO: Se aveva qualcosa di piccolo, tipo un telefonino, non so, però qualcosa di vistoso non l'aveva. Si sarebbe notato subito».

Sempre nella sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si soggiunge che il teste Vullo, nelle dichiarazioni rese nel processo c.d. “Borsellino ter”, all’udienza del 2.7.1998, ha precisato meglio il percorso seguito da Villagrazia di Carini per raggiungere la via D’Amelio: «Fecero ingresso in autostrada dallo svincolo di Carini, viaggiarono a velocità piuttosto sostenuta fino alla circonvallazione, dalla quale uscirono dallo svincolo di via Belgio; svoltarono subito a destra in via dei Nebrodi, proseguendo fino a via delle Alpi e svoltando ancora in viale Lazio, percorsero via Massimo D’Azeglio fino alla via Autonomia Siciliana, svoltando infine in via D’Amelio.

Ha precisato poi che lungo l’intero percorso – compreso il tratto cittadino – il traffico era scarso e che, tra l’ingresso in via Belgio e l’arrivo in via D’Amelio, trascorsero all’incirca dieci minuti». (pagg 120-126)

I “buchi” delle prime indagini. La Repubblica il 29 giugno 2019. Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo nell'estate del 1992 [...] Se - da un lato - è assolutamente certo, alla luce degli approdi dei precedenti processi (sul punto, confermati dalle risultanze di questo), che la consumazione della strage del 19 luglio 1992 avveniva utilizzando, come autobomba, proprio la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti, è innegabile che vi sono delle oggettive incongruenze nello sviluppo delle primissime indagini per questi fatti e che rimangano diverse zone d’ombra sulla quali non si addiveniva a risposte soddisfacenti, nemmeno con la poderosa istruttoria espletata nel presente procedimento. Tutt’altro che rassicuranti, ad esempio (come si vedrà, in maniera più approfondita, nella parte dedicata alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato. Infatti, uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992, era il Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto arrivava sul posto circa una decina di minuti dopo la deflagrazione, mentre Antonio Vullo, l’unico superstite fra gli appartenenti alla scorta di Paolo Borsellino, in evidente stato di shock emotivo e psicologico, era seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani. Il Sovrintendente Maggi, dunque, confidando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta, poiché i loro corpi erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. In questo contesto, mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio, anche sulla Croma blindata del Magistrato, il poliziotto della Squadra Mobile notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: “uscii da... da 'sta nebbia che... e subito vedevo che arrivavano tutti 'sti... tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu' 'u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. Si trattava di “gente di Roma”, appartenente ai Servizi Segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) ed, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci. La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo. Anche quest’ultimo, che arrivava sul posto ad appena cinque minuti dalla deflagrazione, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: sebbene il ricordo del teste, sul punto specifico, non sia affatto nitido, vi era persino un veloce scambio di battute fra i due sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano: “Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente (…) il nostro intento era quello di mantenere le persone al di fuori (…) della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno (…). E incontro (…) un soggetto, una persona, al quale... ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede (…) della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. (…) Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su (…) quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere... di appartenere ai Servizi”. […] Proseguendo nella breve rassegna di alcune delle anomalie e zone d’ombra emerse attraverso le prove raccolte nel presente processo, si deve anche rilevare la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla Polizia Scientifica di Palermo (“su richiesta della locale Squadra Mobile”), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino alle ore 11 del lunedì 20 luglio 1992 [...], perché quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente, all’interno della sua autofficina. Ebbene, quando la Polizia Scientifica eseguiva detti rilievi nell’officina di via Messina Marine, non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino (la stessa, come detto, veniva ritrovata soltanto il 22 luglio 1992), né il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti (rinvenuto verso le 13.00/13.30 di quel 20 luglio 1992). Inoltre, come già esposto, era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992, a seguito del menzionato intervento del tecnico Fiat di Termini Imerese, che detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della Polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, «una 600, una Panda, una 126». Detta ipotesi investigativa, rivelatasi fondata e coerente con i successivi rinvenimenti sullo scenario della strage, dei reperti dell’autobomba, non è spiegabile soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla Polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato. Diversamente, non si spiegherebbe, sul piano logico, il motivo per cui la Squadra Mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera (già collaboratore del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, sin dal 1986), sollecitasse un intervento della Polizia Scientifica, per un immediato sopralluogo nell’officina di un carrozziere qualunque di Palermo, che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di un sua cliente (targhe che, come detto, verranno rinvenute soltanto alcuni giorni dopo, in via D’Amelio), in un momento in cui nemmeno era rinvenuto il blocco motore (poi associato ad una Fiat 126). L’aspetto appena menzionato si colora di tinte decisamente fosche, alla luce di quanto riferito da Gaspare Spatuzza (in maniera assolutamente attendibile, come si vedrà -diffusamente- nella parte della motivazione a ciò dedicata), sulla presenza di un terzo estraneo a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126, alla vigilia della strage, nel garage di via Villasevaglios, prima del suo caricamento con l’esplosivo. Su detta persona, non conosciuta e mai più rivista, che non aveva proferito alcuna parola, durante la breve permanenza del collaboratore nel suddetto garage, sabato 18 luglio 1992, Gaspare Spatuzza si spingeva a qualche considerazione relativa all’estraneità al sodalizio mafioso di Cosa nostra e, persino, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni: “se fosse stata una persona che io conoscevo (…), sicuramente sarebbe rimasta qualche cosa (…) più incisiva; ma siccome c'è un'immagine così sfocata (…). Mi dispiace tantissimo e aggiungo di più, che fin quando non si sarà chiarito questo mistero, che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c'è questa anomalia di cui per me è inspiegabile”. “C'è un flash di una sembianza umana. (…) c'è questa immagina sfocata che io purtroppo... (…) c'è questo punto, questo mistero da chiarire”; “ho più ragione io a vedere questo soggetto in carcere, se appartiene alle istituzioni, che vedendolo domani fuori”. Peraltro, quest’ultimo spunto del collaboratore di giustizia, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni del terzo estraneo, presente alla consegna della Fiat 126, nel pomeriggio di sabato 18 luglio 1992, prima del caricamento dell’esplosivo, veniva approfondito dalla Procura, nella fase delle indagini preliminari di questo procedimento, sondando ulteriormente Gaspare Spatuzza, e anche sottoponendogli diversi album fotografici, con immagini di vari appartenenti al Sisde, senza approdare a risultati tangibili. […] Infine, si deve almeno accennare (prima di passare a trattare più diffusamente della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), ad alcune emergenze che dimostrano il coinvolgimento diretto del Sisde, al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale, nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, orientate verso la falsa pista di Vincenzo Scarantino. Quest’ultima circostanza, neppure ricordata dal neo-Procuratore Capo di Caltanissetta (dell’epoca), Giovanni Tinebra, veniva invece confermata persino dal dirigente del Sisde, Bruno Contrada, il quale spiegava come detta richiesta della Procura nissena, veniva appunto assecondata, per l’insistenza del Capo Centro di Palermo, Andrea Ruggeri. Peraltro, già nell’ambito del precedente processo c.d. Borsellino bis, veniva accertato che il 10 ottobre 1992, veniva trasmessa alla Squadra Mobile di Caltanissetta, una nota (sul contenuto della quale riferiva il Dirigente della predetta Squadra Mobile, all’epoca delle stragi, dott.Mario Finocchiaro), elaborata proprio dal centro Sisde di Palermo, su specifica richiesta del Procuratore Giovanni Tinebra (sulla cui deposizione, innanzi a questa Corte, non vale più la pena d’indugiare). Quest’ultimo, dopo aver constatato che le forze di polizia nissene non avevano alcuna specifica conoscenza delle dinamiche interne alle famiglie mafiose palermitane, con un’iniziativa affatto singolare, sollecitava una più stretta collaborazione del Sisde nell’espletamento delle indagini per la strage di Via D’Amelio. I frutti avvelenati di detta improvvida iniziativa non tardavano a maturare, posto che nella predetta nota del 10 ottobre 1992, confezionata dal Sisde proprio nel periodo in cui era in atto il tentativo di far ‘collaborare’ Vincenzo Scarantino, utilizzando Vincenzo Pipino (costretto ad andare in cella con lui, dal dottor Arnaldo La Barbera), vi era una dettagliata radiografia con tutto ciò che, al tempo, risultava alle forze dell’ordine su Vincenzo Scarantino ed i suoi familiari, con i precedenti penali e giudiziari a carico degli stessi, nonché i rapporti di parentela ed affinità con esponenti delle famiglie mafiose palermitane. La tematica della genesi e della gestione della ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino verrà ampiamente ripresa e trattata nella parte della motivazione dedicata alla sua posizione. (pagg 782-788; 822-824)

Giorno dopo giorno fino al 19 luglio 1992. La Repubblica il 10 luglio 2019. […]. Proseguendo, poi, nell’analisi delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, sulla preparazione della strage e sulle attività compiute il sabato 18 luglio 1992, dopo aver personalmente consegnato la Fiat 126, nel garage di via Villasevaglios, ai sodali Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, oltre che (si ripete) al predetto terzo estraneo, si deve esaminare la successiva sottrazione delle targhe (poi apposte all’autobomba), da parte di Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino, secondo le direttive impartite dal loro capo mandamento. L’incarico in tal senso (come anticipato) veniva dato a Spatuzza da Giuseppe Graviano, nella settimana antecedente alla strage, nella casa di Borgo Ulivia,  dove il capo mandamento trascorreva la sua latitanza: le direttive (come già accennato) erano quelle di rubare delle targhe da una Fiat 126, nel pomeriggio del sabato di quella settimana, da automobili parcheggiate all’interno di autosaloni od officine, senza far scattare allarmi né operare alcuna effrazione, in maniera tale che il proprietario se ne potesse accorgere solo al momento della successiva riapertura, dopo il fine settimana (secondo i piani di Cosa nostra, a strage già avvenuta). Peraltro, simili modalità operative erano state seguite anche in precedenza, come spiegato dal collaboratore, per l’esecuzione di un omicidio negli anni ’90 (in quel caso le targhe venivano prelevate in via Fichidindia), oltre che, successivamente, per il fallito attentato allo stadio Olimpico nel gennaio del 1994: lo scopo non era tanto quello di sfuggire ai possibili controlli delle forze dell’ordine, in occasione degli spostamenti del mezzo da utilizzare come autobomba (come visto, infatti, la Fiat 126 di Pietrina Valenti, circolava con la sua targa originale, sia pure per pochi chilometri e con altre due automobili a far da vedetta, ancora il sabato 18 luglio 1992), quanto quello di evitare che ne venisse accertata la provenienza furtiva, una volta che l’automezzo era, appunto, già imbottito d’esplosivo e posizionato nei luoghi dove doveva esplodere. […] Una volta reperite le due targhe, Spatuzza (come già concordato con il capo mandamento) si recava, da solo, al maneggio dei fratelli Vitale, per incontrare Giuseppe Graviano e consegnargli le targhe stesse. Giuseppe Graviano lo aspettava, come concordato, appoggiato sulla Renault 19 che usava in quel periodo165, intento a conversare con un’altra persona. Una volta avvedutosi della sua presenza, Graviano gli si faceva incontro, a piedi, mentre il soggetto col quale parlava, entrava negli uffici della Palermitana Bibite (si trattava di uno de fratelli Vitale, in particolare, di quello che abitava proprio nello stabile di via Mariano D’Amelio). Il capo mandamento di Brancaccio prendeva in consegna le targhe da Spatuzza e, dopo essersi informato sul luogo dove le aveva rubate, gli raccomandava di allontanarsi, l’indomani 19 luglio 1992, stando il “più lontano possibile” di Palermo. Seguendo il consiglio, Spatuzza si recava a trascorrere la domenica in un villino che prendeva in affitto a Campofelice di Roccella, organizzato una piccola festa per i familiari e le persone più care, proprio per far sì che costoro non si trovassero a Palermo e, una volta appreso, dai mezzi d’informazione, della strage in danno del dott. Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, pensava “ce l’abbiamo fatta” (sino a quel momento, non aveva ricevuto alcuna informazione sull’identità dell’obiettivo). L’indomani, Spatuzza faceva rientro a Palermo ed aveva un ulteriore incontro con Giuseppe Graviano, in un appartamento di via Lincoln, nella disponibilità di Giuseppe Farana: nell’occasione, il capo mandamento si complimentava con Spatuzza per il suo apporto nell’attentato e si dimostrava estremamente soddisfatto, poiché avevano dimostrato di essere in grado “di colpire dove e quando” volevano; nel contempo, invitava Spatuzza ad adoperarsi affinché si componessero i malumori ed i piccoli contrasti che, di tanto in tanto, insorgevano nella famiglia mafiosa di Brancaccio, in prospettiva di “altre cose” che dovevano “portare avanti”. […] Dunque, si può senz’altro affermare che le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, in ordine alle attività compiute nella settimana precedente all’attentato di via D’Amelio, vanno a comporsi armonicamente con quelle rese dagli altri collaboratori di giustizia coinvolti in quel segmento della fase esecutiva relativa all’osservazione degli spostamenti di Paolo Borsellino, nella giornata della domenica 19 luglio 1992. Se ne ricava, infatti, un quadro complessivo in cui, nella settimana precedente la strage, i soggetti deputati alla sua realizzazione (appartenenti, da un lato, alle famiglie della Noce, Porta Nuova, San Lorenzo e, dall’altro, a quelle di Brancaccio, Corso dei Mille e Roccella) si attivavano, secondo i rispettivi ambiti di competenza, per portare a compimento l’attentato (pianificato per la giornata di domenica 19 luglio 1992), secondo la sequenza cronologica di seguito indicata:

- sabato 11 luglio 1992, Salvatore Biondino ed i suoi uomini (Giovan Battista Ferrante ed i due Salvatore Biondo, “il lungo” ed “il corto”), effettuavano la prova del telecomando alle Case Ferreri;

- lunedì 13 luglio oppure martedì 14 luglio, Raffaele Ganci sondava la disponibilità di suo nipote, Antonino Galliano ad effettuare, per la domenica successiva, il pedinamento del dott. Borsellino;

- in un arco di tempo compreso tra il martedì 14 luglio ed il successivo giovedì 16 luglio, Gaspare Spatuzza veniva convocato da Giuseppe Graviano, per ricevere le sue direttive sul furto delle targhe da apporre all’autobomba. Nell’occasione, il capo mandamento raccomandava espressamente di rubare le targhe il sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli autosaloni e delle officine, senza operare alcuna effrazione o fare altro che potesse anticipare la denuncia del furto a prima del lunedì successivo;

- giovedì 16 luglio 1992, Salvatore Biondino (in compagnia di Giuseppe Graviano e di Carlo Greco) diceva a Giovanni Brusca che erano “sotto lavoro” e che non avevano bisogno di alcun aiuto, da parte sua (confermando che, in quel preciso momento, la macchina organizzativa della strage era già ben definita);

- lo stesso giovedì 16 luglio oppure l’indomani, Salvatore Biondino avvisava Giovan Battista Ferrante di non andare in barca la domenica successiva e di tenersi a disposizione, perché ci sarebbe stato “del daffare”;

- nello stesso arco di tempo, fra il 16 giovedì ed il venerdì 17 luglio, Raffaele Ganci informava Salvatore Cancemi che la domenica ci sarebbe stato l’attentato con l’esplosivo, contro Paolo Borsellino, durante una visita del Magistrato alla madre e che Salvatore Biondino aveva già messo a punto ogni dettaglio per l’esecuzione;

- venerdì 17 luglio 1992, alle ore 17.58, Gaspare Spatuzza telefonava all’utenza intestata a Cristofaro Cannella [...];

- sabato 18 luglio 1992, nella tarda mattina, Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino recuperavano, da un elettrauto di Corso dei Mille, due batterie per autovettura, necessarie, assieme all’antennino procurato dall’imputato, a far esplodere l’autobomba; successivamente, Spatuzza portava la Fiat 126 in un garage seminterrato, a meno di un chilometro di distanza dalla via D’Amelio, scortato da Nino Mangano e Fifetto Cannella; nello stesso pomeriggio, Spatuzza e Tutino rubavano anche le targhe da un’altra Fiat 126, nella carrozzeria di Giuseppe Orofino e, successivamente, Spatuzza consegnava dette targhe a Giuseppe Graviano, presso il maneggio dei fratelli Vitale (come da precedenti accordi);

- sempre nella giornata del sabato 18 luglio 1992, Giovan Battista Ferrante incontrava Salvatore Biondino, che – dandogli appuntamento per le sette dell’indomani mattina – gli consegnava un biglietto con scritto il numero di un’utenza mobile (quella intestata a Cristofaro Cannella) che doveva chiamare, l’indomani, appena avvistato il convoglio di automobili della scorta di Paolo Borsellino;

- domenica 19 luglio 1992, alle ore 16.52, Giovan Battista Ferrante telefonava all’utenza mobile di Cristofaro Cannella, per avvisare dell’imminente arrivo del magistrato in via D’Amelio.

Dalla sequenza degli eventi appena indicati, desumibile dal racconto dei collaboratori di giustizia che partecipavano alla fase esecutiva dell’attentato (o che offrivano, comunque, elementi concreti per ricostruire detta fase), pare evidente che le (attendibili) dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (sostituendosi a quelle, mendaci, rese in precedenza da Vincenzo Scarantino) si saldano perfettamente con quelle rese da Antonino Galliano, Giovan Battista Ferrante, Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca, trovando anche, nello svolgimento degli accadimenti da costoro descritta, un’efficace riscontro di natura logica. Ancora, si deve rilevare come le predette dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia, oltre ad essere perfettamente compatibili e complementari fra di loro, convergono anche in merito alla circostanza fondamentale che il giorno prescelto per l’attentato in via D’Amelio era proprio la domenica 19 luglio 1992: in questo senso, infatti, vanno lette anche le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, sulle precise direttive impartitegli da Giuseppe Graviano per il furto delle targhe (di sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli esercizi, senza fare effrazioni o lasciare tracce visibili, che avrebbero anticipato la denuncia, rispetto al lunedì). Nello stesso senso, come detto, paiono illuminanti le dichiarazioni di Antonino Galliano, cui veniva richiesta – già lunedì 13 o martedì 14 luglio – la disponibilità a pedinare il magistrato per la domenica successiva ed anche quelle di Giovan Battista Ferrante, che doveva tenersi a disposizione per la domenica, nonché (sia pure con minor precisione) quelle di Salvatore Cancemi, cui Raffaele Ganci faceva presente, pochi giorni prima della strage (giovedì o venerdì), che tutto era già organizzato per fare un attentato a Paolo Borsellino, con l’eplosivo, quella domenica. Tutte queste dichiarazioni, trovano ora, ulteriore e significativo sostegno, in quelle rese da Gaspare Spatuzza. […] Per quanto riguarda, poi, le ragioni della scelta di collaborare con la giustizia, Spatuzza la spiegava come il punto d’arrivo di un tormentato percorso morale e religioso, di rivisitazione critica delle proprie condotte delinquenziali, avendo egli maturato, durante la propria detenzione ed anche a seguito dell’incontro con persone che scontavano condanne per la strage di via D’Amelio, basate su ricostruzioni che egli ben sapeva non esser rispondenti a quanto realmente accaduto il 19 luglio 1992 e nei giorni immediatamente precedenti, il desiderio di modificare radicalmente la sua vita e di riscattare i suoi trascorsi, anche cercando conforto nella religione […] In proposito va evidenziato che, [...], era proprio nel periodo della detenzione a Parma, con Gaetano Murana, che Spatuzza, pur non essendo affatto intenzionato a diventare un collaboratore della giustizia, si spingeva a fare delle rivelazioni ai magistrati della Procura Nazionale Antimafia, per avvisare che c’erano stavano facendo un errore negli accertamenti giudiziari sulla strage di via D’Amelio: a tal riguardo, si rinvia alla lettura del verbale integrale del colloquio investigativo con i dottori Vigna e Grasso del 26.6.1998 (acquisito agli atti, sull’accordo delle parti, all’udienza del 7.11.2016). In detto verbale -peraltro, ben difficilmente utilizzabile, ai fini di prova (sebbene oggetto di molteplici domande, nel controesame dibattimentale del collaboratore), in quanto reso in totale assenza di garanzie difensive (e facendo esplicitamente presente che si trattava di un colloquio senza alcuna valenza processuale)- Gaspare Spatuzza (ben dieci anni prima dell’avvio della sua collaborazione), diceva che l’automobile, poi utilizzata come autobomba in via D’Amelio, veniva rubata dai ragazzi della Guadagna e, poi, da ‘‘altri’’, senza che Orofino sapesse alcunché o c’entrasse qualcosa, avendo semplicemente subito il furto delle targhe da un mezzo ricoverato nella sua autofficina; l’automobile veniva riempita altrove, d’esplosivo, e Vincenzo Scarantino era totalmente estraneo a questi fatti; gli avevano fatto dire ‘‘quelle cose che non doveva dire’’.

Va in scena il grande depistaggio. La Repubblica il 19 luglio 2019. Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. L’affermazione della responsabilità penale dei predetti soggetti per il delitto di strage è stata compiuta:

- per Profeta Salvatore nel processo c.d. “Borsellino uno”, con la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, confermata dalla sentenza n. 2/1999 emessa in data 23 gennaio 1999 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 18 dicembre 2000;

- per Scotto Gaetano nel processo c.d. “Borsellino bis”, con la sentenza n. 2/1999 emessa in data 13 febbraio 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, confermata dalla sentenza n. 5/2002 emessa in data 18 marzo 2002 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 3 luglio 2003;

- per Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, nel processo c.d. “Borsellino bis”, con la sentenza n. 5/2002 emessa in data 18 marzo 2002 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 3 luglio 2003, la quale ha riformato in parte qua la sentenza n. 2/1999 emessa in data 13 febbraio 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, che aveva invece assolto i predetti imputati dal medesimo delitto.

Le dichiarazioni di Scarantino hanno assunto un valore determinante per tutte le predette condanne.

In particolare, per quanto attiene a Salvatore Profeta, possono richiamarsi le conclusioni raggiunte dalla sentenza n. 468/2011 del 16 dicembre 2000 della I Sezione della Corte di Cassazione, che, nel definire il processo c.d. “Borsellino uno”, ha così riassunto il contenuto della pronuncia di appello, confermativa di quella di primo grado: «Salvatore Profeta è stato chiamato in correità dal cognato Vincenzo Scarantino per avere partecipato alla fase esecutiva della strage di via D'Amelio, con particolare riferimento ai distinti episodi a) della riunione organizzativa nella villa di Calascibetta, b) dell'incarico di procurare l'autovettura destinata ad essere utilizzata come autobomba, e) della presenza nell'autocarrozzeria di Orofino al momento dell'arrivo dell'esplosivo da caricare a bordo della Fiat 126 rubata. Particolare attenzione ha dedicato la Corte distrettuale alle vicende della complessiva chiamata in correità dell'imputato da parte di Scarantino, reo confesso e condannato con la sentenza di primo grado non impugnata dall'interessato, il quale però nel settembre 1998, nel corso di questo giudizio d'appello e del giudizio di primo grado nel processo c.d. D'Amelio-bis, ha ritrattato tutte le dichiarazioni auto- ed etero-accusatorie rese nella fase delle indagini preliminari e confermate nel dibattimento di primo grado di questo processo e in quello del D'Amelio-bis. La Corte, dopo averne tratteggiato il profilo criminale e i rapporti con elementi di spicco della famiglia di Santa Maria di Gesù, quali il capo-mandamento Pietro Aglieri e il cognato Salvatore Profeta, la genesi e i motivi delle confidenze fatte a Francesco Andriotta nel carcere di Busto Arsizio e della tormentata e incostante collaborazione con la giustizia, ha descritto il contenuto delle originarie e contrastanti dichiarazioni accusatorie di Scarantino, riguardanti le diverse fasi della vicenda cui asseriva di avere partecipato: dalla riunione organizzativa di fine giugno o dei primi giorni di luglio 1992 nella villa di Calascibetta, cui avrebbe accompagnato il cognato Profeta, al furto, alla consegna, al trasferimento e al caricamento nell'officina di Orofino dell'autovettura Fiat 126, all'incontro con Gaetano e Pietro Scotto in cui avrebbe avuto conferma dell'intercettazione in corso sulle telefonate del dott. Borsellino, alle notizie ricevute circa l'avvenuta esecuzione della strage. La Corte ha ritenuto inconsistente e del tutto inattendibile la ritrattazione generale di Scarantino perché essa era il risultato di pressioni esterne esercitate sul collaboratore attraverso il suo nucleo familiare da elementi inseriti nel contesto mafioso palermitano e perché era caduta anche su circostanze che avevano trovato positiva conferma in altre acquisizioni probatorie, quali: le dichiarazioni di Candura, Augello e Francesco Marino Mannoia circa la frequentazione di Pietro Aglieri. capo-mandamento di Santa Maria di Gesù, e il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti nel quartiere della Guadagna; le concordi dichiarazioni di Candura e Valente e i rilievi tecnici circa l'incarico di rubare la Fiat 126, la consegna e l'effettivo utilizzo della medesima in via D'Amelio come autobomba; la deposizione di padre Giovanni Neri, parroco di Marzaglia, circa le forti pressioni esercitate su Scarantino a partire dal giugno 1998 perché ritrattasse le originarie accuse. Ma - ha osservato la Corte - come "l'accertata inattendibilità della ritrattazione non implica per sè sola l'attendibilità delle dichiarazioni rese in precedenza da Scarantino a prescindere dalle regole di valutazione della prova stabilite dall'art. 192.3 c.p.p.", così "neppure la falsità di talune dichiarazioni implica l'inattendibilità di tutte le altre dichiarazioni accusatorie che possano reggere alla verifica giudiziale del riscontro, dovendo trovare applicazione il principio della valutazione frazionata delle propalazioni accusatorie provenienti dal chiamante in correità che siano dotate del requisito dell'autonomia fattuale e logica rispetto alle dichiarazioni di cui è stata accertata l'inattendibilità", tanto più se si considera che il contesto simulatorio e stato determinato dalla "interferenza nel percorso collaborativo" di esponenti del sodalizio mafioso" mirata al deliberato inquinamento delle prove e resa agevole dall'originaria tendenza del collaboratore ad operare la commistione di elementi reali e di altre circostanze non vere". E tale requisito di autonomia fattuale e logica e di intrinseca consistenza è stato rinvenuto, rispetto alle successive false propalazioni (l'attendibilità di Scarantino si affievoliva quanto più egli nel suo racconto si allontanava dalla porzione di vicenda cui aveva direttamente partecipato, ad esempio per la presunta riunione organizzativa di fine giugno o primi di luglio nella villa di Calascibetta alla quale avrebbe accompagnato il cognato Profeta), nell'originaria e spontanea narrazione del collaboratore, la quale però, per la rilevata mancanza di costanza e precisione e per le contraddizioni frutto della mai risolta conflittualità della genesi della scelta collaborativa particolarmente tormentata e perennemente avversata dai familiari, imponeva, quanto alla valutazione della chiamata in correità degli altri imputati, "una particolare cautela" e "la ricerca di adeguati riscontri esterni individualizzanti". Il maggior rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, laddove venivano di volta in volta sanate le contraddizioni emergenti dai precedenti interrogatori, era imposto altresì dall'inusuale attività di studio e di annotazione delle medesime contraddizioni, esercitata dal collaboratore con l'aiuto di agenti addetti alla sua tutela, com'era emerso dal promemoria prodotto dal difensore e riconosciuto dal teste agente Mattei. L'attendibilità estrinseca di Scarantino è stata così apprezzata, all'esito di un'analisi particolarmente penetrante e scrupolosa, solo ed esclusivamente in relazione al nucleo fondamentale del discorso narrativo riguardante la porzione della fase esecutiva della strage cui egli aveva certamente partecipato e che rispondeva alle caratteristiche del suo profilo criminale, e cioè: la richiesta di procurare un'autovettura di piccola cilindrata rivoltagli da Pietro Aglieri e da Salvatore Profeta, l'incarico dato a Candura di rubare l'autovettura Fiat 126 e la consegna della medesima, da lui messa poi a disposizione degli esecutori materiali dell'attentato. Il profilo criminale di Scarantino (secondo i collaboratori Augello, Marino Mannoia e Candura e gli accertamenti degli apparati di sicurezza), indipendentemente dall'effettivo possesso della qualità di "uomo d'onore", era compatibile con il suo racconto e con il confessato coinvolgimento nell'episodio delittuoso, almeno limitatamente a questa parte della fase esecutiva della strage di via D'Amelio, in forza degli stretti rapporti esistenti con Aglieri e Profeta, il primo capo-mandamento e il secondo esponente di spicco della famiglia di Santa Maria di Gesù, del suo inserimento nel contesto criminale della Guadagna (quartiere ricadente nel mandamento di Santa Maria di Gesù) e della sperimentata propensione a commettere reati di specie diversa. La sua confessata partecipazione al furto della Fiat 126 messa a disposizione degli autori della strage e utilizzata come autobomba, compiutamente dimostrata dalle dichiarazioni accusatorie di Candura e Valenti, era stata d'altra definitivamente accertata dalla sentenza di condanna di primo grado divenuta sul punto irrevocabile, valutabile ai fini della prova del fatto in essa accertato ex art. 238-bis c.p.p. nei confronti degli odierni imputati. La chiamata in correità nei confronti di Profeta e di Aglieri come mandanti del furto risultava fornita di un riscontro anche di carattere logico perché la certa partecipazione di Scarantino, in qualità di committente, al furto della Fiat 126 implicava la necessità (posto che egli, anche ad ammetterne l'appartenenza, non rivestiva sicuramente un ruolo significativo nell'organizzazione di Cosa nostra) del conferimento dell'incarico di procurare l'autovettura da parte di esponenti di rilievo del sodalizio mafioso, in particolare del mandamento di Santa Maria di Gesù cui appartiene la famiglia della Guadagna, la cui partecipazione alla strage, insieme con gli altri mandamenti palermitani, era dimostrata dalle dichiarazioni di tutti i collaboratori di giustizia. (…) Le dichiarazioni accusatorie di Scarantino, limitatamente a quella porzione della fase esecutiva riguardante la vicenda dell'incarico datogli da Profeta, insieme con Pietro Aglieri, di procurare un'autovettura di piccola cilindrata da utilizzare nella strage, hanno trovato altresì, secondo la Corte territoriale, i seguenti, idonei e positivi, riscontri individualizzanti di natura dichiarativa e logica.

A) Premesso che le dichiarazioni accusatorie di Scarantino erano da considerarsi attendibili quanto più esse trovavano una precisa corrispondenza in quelle rese de relato molto tempo prima della sua collaborazione da Francesco Andriotta (sentito nel giudizio d'appello e nel processo D'Amelio-bis in qualità di testimone dopo la declaratoria di nullità dell'esame irregolarmente assunto in primo grado secondo le regole proprie dell'imputato di reato connesso), la reiterata indicazione di Profeta come mandante del furto dell'autovettura di piccola cilindrata da usare come autobomba è stata fatta innanzi tutto, anche con ricchezza di dettagli, fin dal 1993 dal teste Andriotta, per averla ricevuta da Scarantino durante la comune detenzione carceraria a Busto Arsizio, in epoca antecedente quindi alla scelta collaborativa di questo e in assenza di altre fonti di conoscenza. E la Corte, dimostrata l'opportunità e l'effettività della comunicazione e la verosimiglianza dei colloqui fra i due nella struttura carceraria (giusta le deposizioni del direttore e di agenti del carcere di Busto Arsizio, i rilievi fotoplanimetrici, il sequestro di bigliettini, le intercettazioni telefoniche, le ammissioni di Scarantino), pur dando atto dell'affannosa ricerca di benefici premiali da parte dell'Andriotta, ha ritenuto intrinsecamente attendibili solo le parti della narrazione affatto originali e non altrimenti conoscibili da fonti diverse da quella costituita dal racconto di Scarantino, coerenti, costanti e antecedenti la collaborazione di quest'ultimo e reciprocamente convergenti con la successiva chiamata in correità di questi; mentre ha ritenuto inattendibili le parti della narrazione in cui erano contenuti elementi nuovi o aggiuntivi del racconto inseriti successivamente per adeguarsi alla fonte primaria o alle risultanze processuali (sulla riunione nella villa di Calascibetta; sul luogo in cui la Fiat 126 fu imbottita di esplosivo e sulla presenza di Profeta all'operazione) o in cui il teste era incorso in contraddizioni non plausibilmente spiegate. In particolare, un alto grado di attendibilità intrinseca è stato riconosciuto alle parti della narrazione riguardanti il furto dell'autovettura, commissionato da Scarantino a Candura, e il mandato ricevuto in proposito da parte di Profeta, non altrimenti conoscibili se non attraverso il racconto fatto dallo stesso Scarantino prima della sua collaborazione e sostanzialmente convergenti con la successiva chiamata in correità di questo; mentre una assolutamente modesta attendibilità poteva riconoscersi alle dichiarazioni coinvolgenti le posizioni di Orofino e Scotto, dei quali erano note le imputazioni da organi di stampa prima della collaborazione di Andriotta e sulle cui posizioni era palese il contrasto tra la versione della fonte primaria e quella del teste indiretto sulle circostanze fondamentali dell'arrivo e del luogo di caricamento dell'esplosivo e dell'avvenuta conoscenza da parte di Scarantino dell'intercettazione abusiva delle telefonate del dott. Borsellino.

B) Sotto il profilo logico, l'incarico dato da Scarantino a Candura di eseguire il furto della Fiat 126 poteva spiegarsi, dato l'uso cui l'autovettura era destinata, solo con la circostanza che egli aveva a sua volta ricevuto il mandato da esponenti di vertice di Cosa nostra. Le soggettivamente credibili, intrinsecamente attendibili, reciproche, incrociate e positivamente riscontrate propalazioni dei collaboratori di giustizia, aderenti all'organizzazione criminale di Cosa nostra (Ferrante Giovan Battista, Anzelmo Francesco Paolo, Ganci Calogero, La Marca Francesco, Grigoli Salvatore, La Barbera Gioacchino, Camarda Michelangelo, Di Carlo Francesco, Cancemi Salvatore, Drago Giovanni, Onorato Francesco, Lo Forte Vito, Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale, Calvaruso Antonio, Galliano Antonino, Brusca Giovanni, Di Matteo Mario Santo, Cannella Tullio) hanno confermato l'esistenza e la permanenza del progetto omicidiario ai danni del dott. Borsellino fin da quando egli era nel 1988 Procuratore della Repubblica di Marsala ed hanno identificato il relativo movente nella vendetta mafiosa contro un acerrimo nemico dell'organizzazione mafiosa, responsabile insieme con il dott. Giovanni Falcone del c.d. maxiprocesso palermitano (Cancemi, Ganci C., Di Carlo, Camarda, Onorato, Di Filippo P., Brusca G., Cannella); hanno delineato la fase deliberativa della strage con riferimento alle plurime riunioni della Commissione provinciale, organismo di vertice di Cosa nostra, tenutesi tra il marzo e il giugno 1992 (Brusca, La Marca, Cancemi); ne hanno descritto la fase esecutiva, consistita nella prova del telecomando, nei sopralluoghi, nella fissazione fin dai primi giorni della settimana del giorno di domenica 19 luglio per l'attentato e nel pattugliamento del percorso delle autovetture che conducevano quel giorno il magistrato in via D'Amelio (Ferrante, Anzelmo, Cancemi, Ganci, La Marca e Galliano). Di talché, il primo e incontroverso risultato probatorio è costituito dalla certa riferibilità dell'uccisione del magistrato ai mandamenti palermitani di Cosa nostra, che considerava il dott. Borsellino un nemico irriducibile, nell'ambito di un progetto strategico generale teso all'eliminazione di diversi rappresentanti "eccellenti" delle istituzioni dopo la negativa decisione della Corte di cassazione riguardo al c.d. maxiprocesso palermitano. E, dal coinvolgimento dei mandamenti di San Lorenzo, Porta Nuova, Brancaccio, Resuttana, della Noce e di Santa Maria di Gesù (cui appartiene il territorio della Guadagna), sembra lecito inferire la compatibilità della partecipazione all'attentato stragista di Salvatore Profeta (uomo d'onore di assoluto rilievo nel quartiere della Guadagna ricadente sotto il controllo della famiglia di Santa Maria di Gesù, di cui era capo Pietro Aglieri e altro elemento di spicco Giovanni Pullarà) e di Vincenzo Scarantino (il quale, se non addirittura uomo d'onore della Guadagna, presentava un profilo criminale caratterizzato da stretti rapporti di parentela e di effettiva frequentazione con Profeta, suo cognato, e con Aglieri, capo-mandamento della famiglia di Santa Maria di Gesù, secondo la concorde indicazione dei collaboratori Candura, Salvatore Augello e Francesco Marino Mannoia e la scheda informativa dei servizi investigativi). La confessione e la chiamata in correità del Candura (egli si è confessato autore materiale del furto commissionatogli da Scarantino), rilevanti ai fini dell'individuazione dell'esecutore materiale e dei mandanti del furto dell'autovettura Fiat 126 di Pietrina Valenti utilizzata come autobomba, sono state giudicate serie, intrinsecamente attendibili e obiettivamente riscontrate, oltre che dalla confessione dello stesso Scarantino, dalle deposizioni di Luciano Valenti, fratello della derubata, e di Luigi Meola, amico del Candura, i quali hanno confermato i particolari dell'episodio ad essi narrati dal Candura, e da una numerosa serie di circostanze esterne elencate in motivazione. Anch'esse postulano la necessità di un mandato da parte di esponenti di vertice di Cosa nostra del mandamento di Santa Maria di Gesù a Scarantino perché procurasse un'autovettura da utilizzare come autobomba, sì che anche per questa via è risultata logicamente compatibile la partecipazione all'attentato stragista di Salvatore Profeta, cognato di Scarantino e importante uomo d'onore di quella famiglia, chiamato in correità dal primo come mandante del furto. L'organico inserimento di Profeta e il ruolo di indubbio rilievo da lui rivestito, insieme con Pietro Aglieri e Giovanni Pullarà, nel mandamento di Santa Maria di Gesù era dimostrato dalle dichiarazioni di numerosi collaboranti (Candura, Augello, Marino Mannoia, P. Di Filippo, Mutolo, Marchese, Favaloro, C. Ganci, La Barbera, Cancemi, Drago, G. Brusca e Di Matteo), mentre la posizione di supremazia gerarchica di Profeta rispetto a Scarantino è stata descritta dai collaboratori Candura, Augello e Marino Mannoia. E tale mandamento (in cui ricadeva il quartiere della Guadagna) aveva partecipato alla strage insieme agli altri mandamenti palermitani di Cosa nostra.

C) La natura dei legami di parentela tra Scarantino e Profeta (cognati) e la forte stima ripetutamente espressa dal chiamante nei confronti del secondo, causa entrambe della descritta crisi collaborativa, escludevano ogni intento calunniatorio nelle dichiarazioni accusatorie del primo.

D) Gaetano Costa, esponente di spicco della 'ndrangheta e collaboratore di giustizia, ha riferito di essere stato interessato da Giovanni Pullara' della famiglia di Santa Maria di Gesù, mentre erano insieme detenuti nel carcere di Livorno nel giugno o luglio del 1992 dopo la strage di Capaci, per far fronte all'esigenza di Cosa nostra di reperire sul mercato un potentissimo e poco voluminoso esplosivo, dal dichiarante denominato "Sintax", presso tale Buccarella, esponente della S.C.U., e di essergli stato indicato a tal fine dal Pullarà come referente affidabile e serio, per conto di Cosa nostra, il suo "figlioccio" Totuccio Profeta (circa i comprovati rapporti tra Pullarà e Profeta hanno riferito i collaboranti Ganci, Mutolo e Marchese). Il Costa fornì al Pullarà le indicazioni per la ricerca delle persone idonee al contatto con Buccarella ricevendone poi assicurazione che "era tutto a posto". Il Pullarà non spiegò a cosa servisse l'esplosivo, ma nel commentare la strage di Capaci aveva detto al Costa che quello che era successo era nulla in confronto a quel che sarebbe accaduto quando fosse saltata la "burza", non quella di Milano ma "quella di Palermo", sì che il Costa dopo la strage di via D'Amelio capì che il Pullarà col termine "burza" aveva fatto una chiara allusione al dott. Borsellino. Il Costa conosceva Profeta come importante uomo d'onore e abile killer della famiglia di Santa Maria di Gesù perché di lui gli aveva parlato Giovanni Pullarà non soltanto nella circostanza della richiesta di esplosivo ma anche in precedenza, definendolo come persona affidabilissima di cui i vertici della famiglia si fidavano ciecamente; e di ciò ebbe conferma quando, in occasione del trasferimento di Profeta all'Asinara, Pietro Pipitone avvertì Ignazio Pullarà dell'arrivo di questi perché gli fossero predisposte condizioni di vita carceraria adeguate al rango. Le rivelazioni del Costa erano state spontanee, disinteressate, indifferenti, coerenti, costanti, non contestate dalle difese, e riscontrate quanto alla comune detenzione con il Pullarà nel carcere di Livorno fra il maggio e il luglio 1992, al profilo criminale del Buccarella, all'astratta coincidenza dell'esplosivo da lui denominato "Sintax" con il Semtex identificato dai periti; mentre non vi era necessaria contraddizione tra le propalazioni del Costa con quanto dichiarato dal collaboratore Ferrante circa la disponibilità da parte della famiglia di San Lorenzo di una rilevante quantità di esplosivo plastico in contrada Malatacca, e con quanto accertato dal perito nel processo D'Amelio-bis circa il rinvenimento di 10 Kg. di Semtex confezionato in 4 pani in contrada Malatacca, non avendo il Ferrante potuto precisare la destinazione data alla residua partita di plastico, sotterrata in fusti di plastica fin dal 1986 e sparita dopo l'arresto di Raffaele Ganci, ne' identificare la provenienza dell'esplosivo usato per la strage di via D'Amelio con quello che si trovava nella disponibilità della famiglia di San Lorenzo. (…) Tutti questi elementi di prova, significativamente convergenti, dimostrano la responsabilità di Salvatore Profeta in ordine al furto dell'autovettura Fiat 126 utilizzata come autobomba nella strage di via D'Amelio: furto che, pure in assenza di obiettivi riscontri alla tardiva, contraddittoria e inattendibile dichiarazione accusatoria di Scarantino in ordine alla partecipazione dell'imputato anche all'ulteriore segmento della fase esecutiva, costituito dal prelievo dell'esplosivo dal magazzino-porcilaia del Tomaselli e dal suo caricamento a bordo dell'autovettura rubata nell'autocarrozzeria di Orofino, implica un contributo essenziale e determinante alla consumazione della strage di via D'Amelio, essendo Profeta perfettamente consapevole dell'uso cui era destinata l'autovettura reperita e messa a disposizione dei complici, tanto da metterne a conoscenza il cognato Scarantino».

Con la citata sentenza n. 468/2011 del 16 dicembre 2000, la Corte di Cassazione ha ritenuto che «a fronte dell'illustrata - invero pregevole e sapiente architettura argomentativa della ratio decidendi», non cogliessero nel segno le critiche difensive sollevate per i profili di asserita violazione delle regole probatorie stabilite dagli artt. 192 commi 2 e 3 c.p.p. e per la denunziata illogicità manifesta della motivazione. […] Inoltre, per quanto attiene a Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, possono richiamarsi le conclusioni raggiunte dalla sentenza n. 11914/2004 del 3 luglio 2003 della V Sezione della Corte di Cassazione, che, nel definire il processo c.d. “Borsellino bis”, ha così riassunto il contenuto della pronuncia di appello nella parte relativa alle dichiarazioni di Scarantino: «Le dichiarazioni di Scarantino, il cui spessore criminale nel traffico di droga è descritto nel cap.8 ,& 2, che ricorda la condanna definitiva a 9 anni di reclusione e l'inserimento nella famiglia della Guadagna (vedi anche coll. T. Cannella, l'episodio della lite con N.Gambino, p.1284), grazie al rapporto di affinità con Salvatore Profeta del quale era uomo di fiducia e braccio esecutivo (coli. Augello, ritenuto attendibile già nella sentenza definitiva B. 1, p. 1269 ss) ed alla protezione da parte di Pietro Aglieri (p. 1281). In grado di affrontare il difficile cammino della collaborazione e sostenere i lunghi e logoranti esami dibattimentali, nonostante il modesto livello intellettuale. Parte dal presupposto della centralità delle dichiarazioni dibattimentali precise e puntuali (tanto nel processo B. 1 definitivo -p. 1297 ss- quanto nel dibattimento di 1° grado del presente giudizio -p.1335 ss.- sottolineando il serrato controllo in sede di controesame -p. 1372-con le relative contestazioni mediante l'utilizzazione di verbali del P.M. che risentivano i contraccolpi psicologici della scelta di collaborare, p.1434). In relazione a tali esami non regge la tesi dell'indottrinamento/ manipolazione da parte degli investigatori ed in particolare dagli uomini del gruppo Falcone- Borsellino che si occupavano del servizio di protezione. Dall'esame del dr. La Barbera emerge la linearità del percorso collaborativo di Scarantino; tutte le iniziative di inquinamento provengono dall'organizzazione mafiosa (dr.Bo) tramite moglie e parenti del collaboratore. Escluso che tra Andriotta e Scarantino ci potesse essere un incontro, dopo l'inizio della collaborazione. Spiegata l'origine delle annotazioni sui verbali di interrogatorio come mero sussidio strumentale alla richiesta di colloquio con il difensore senza alcuna influenza sull'autodeterminazione di Scarantino. I promemoria, assieme ad album fotografici ed i rilievi tecnici allegati, erano stati prodotti al momento della ritrattazione dal nuovo difensore di fiducia (pag.447). Le accuse della moglie Basile sull'indottrinamento avevano fatto seguito all'abbandono del coniuge che aveva scelto la collaborazione. Analizza le varie annotazioni per rilevarne la assoluta inidoneità a sostenere la tesi difensiva dell'indottrinamento e la piena paternità di Scarantino.

Dall'intercettazione ambientale di conversazione tra S. e Basile in carcere trae ulteriore argomento in ordine al ruolo inquinante della Basile ed alla genuinità delle propalazioni. La stessa ritrattazione della ritrattazione in appello segna il ritorno, per la sentenza impugnata, alle originarie propalazioni che, del resto, erano state anche rapportate al giudizio di assoluta inattendibilità della ritrattazione negoziata (già ritenuta nella sentenza definitiva 23.01.99, p. 1278 e ss.). In definitiva ritiene Scarantino attendibile nella completezza delle dichiarazioni dibattimentali (in cui erano state anche chiarite le contraddizioni con Caldura p.1440), pur rendendosi conto del punto nodale costituito dalla chiamata in correità dei collaboranti Di Matteo, La Barbera, Cancemi, Ganci R. e Brusca (quest'ultimo aggiunto nell'interrogatorio 15.11.94 e poi sempre confermato, p.1480), mantenuta risolutamente ancora in sede di confronto e dopo la ritrattazione della ritrattazione. Perviene a ritenere la inattendibilità relativa sul punto, inidonea a fare dubitare delle altre dichiarazioni (compresa quella in ordine alla provenienza dell'esplosivo, ritenuta in sentenza coerente in sé e riscontrata dalle propalazioni di Costa, p. 1473) perché Scarantino spiega le ragioni di quelle precedenti omissioni e delle mancate individuazioni fotografiche. La sentenza dà all'inserimento dei nomi dei collaboranti una spiegazione diversa da quella data in primo grado (rendersi volutamente inattendibile, p. 1490), per giungere alla conclusione che non può affermarsi la falsità di Scarantino neppure in punto di presenza dei collaboratori alla riunione nella villa di Calascibetta (p. 1528). Ritiene poi che l'episodio dell'incendio ai danni di Orazio Abate non dimostri il consapevole mendacio di Scarantino».

La stessa sentenza n. 11914/2004 del 3 luglio 2003 della V Sezione della Corte di Cassazione ha riassunto nei seguenti termini l’ultima parte della struttura motivazionale della pronuncia emessa nel giudizio di appello del processo c.d. “Borsellino bis”, relativa alle posizioni dei singoli imputati che, nel presente procedimento, sono stati individuati come persone offese della calunnia continuata contestata allo Scarantino:

«7)Scotto Gaetano. La sentenza contesta la contraddittorietà del narrato di Scarantino circa gli incontri al Bar Badalamenti, evidenziando il comportamento rispettoso delle regole. Scarantino non è ritenuta l'unica fonte, stante la valenza indiziaria di cointeressenza dei fratelli Scotto in affari illeciti, spessore di Scotto Gaetano nella zona Resuttana-Arenella, territorio includente via D'Amelio, riconducibilità dell'attentato al gruppo di appartenenza, siccome esclusa l'ipotesi alternativa estranea a cosa nostra. Sottolinea come l'impegno di Scotto Pietro assume legittimazione solo a ragione del fratello uomo d'onore. Considera non riuscito l'alibi, a causa di zone d'ombra nelle comunicazioni a mezzo cellulare in corrispondenza dei giorni degli incontri al bar Badalamenti. Inoltre l'impegno professionale a Sala Bolognese non necessitava continuità di presenza ed i testi erano inaffidabili o generici ed altri contrari all'alibi. Erano sterili le richieste di prova con monitoraggio dei biglietti aerei. Il pensiero di Ferrante su mancanza di intercettazioni la domenica 19.07.92 è conforme alla tesi accusatoria, che imposta l'intervento abusivo nel periodo precedente. Afferma la responsabilità anche per il reato associativo, sulla base di numerosi collaboranti, specificamente nell'attività di spaccio.

8)Gambino Natale.

9)La Mattina Giuseppe.

10)Urso Giuseppe detto Franco.

La sentenza rigetta gli appelli per 416 bis c.p. rilevando la partecipazione di Gambino a vari omicidi assieme a Scarantino, Profeta, Greco ed Aglieri. Ritiene riscontrate da Drago le accuse di Scarantino che lo addita quale tramite per gli incontri trai capi di Brancaccio e S. Maria di Gesù. Rivaluta le dichiarazioni di Tullio Cannella. La Mattina, addetto alla persona di Aglieri ed al suo fianco in vari delitti efferati, ne condivide e protegge la latitanza. Urso, accusato da Scarantino con riscontro in Cannella, é indicato come uomo d'onore da Biondino e da vari collaboranti, cognato di Vernengo Cosimo. La sentenza di primo grado li aveva assolti da strage e reati connessi, per carenza di individualizzanti riscontri alla chiamata di Scarantino, siccome essi attenevano solo al fatto oggettivo (descrizione villa, parcheggio auto, l'officina di Orofino, il caricamento ecc. non consentono.. il collegamento con il chiamato in c., restando immutati anche nell'ipotesi di sostituzione del chiamato con altro soggetto...) mentre non erano riscontri l'appartenenza al mandamento, il possesso dell'auto usata per l'accompagnamento. Il collaborante Cannella (de relato Bagarella), astrattamente valutabile a conferma, è ritenuto inattendibile per interesse all'accusa. L'impugnata sentenza giudica incoerente quella di 1° grado e sostiene, quanto all'appartenenza al gruppo, che la fungibilità del ruolo non tiene conto degli specifici rapporti con i capi. Rivaluta, poi, l'attendibilità di Cannella siccome ospita il latitante Bagarella, sua fonte collaudata, e ne gode la fiducia. Bagarella gli aveva confidato che i Graviano, con gruppo della Guadagna, avevano realizzato la strage via D'Amelio, indicato il ruolo di Aglieri, Gambino Natale, La Mattina ed Urso. Definisce risibile il contrasto con Gambino (ed Urso) rimasto senza conseguenze. Una conferma all'accusa proverebbe da indagini di polizia e da altri collaboranti. Richiama la regola dell'utilizzazione di uomini sperimentati e di fiducia dei capi, quali erano appunto La Mattina, Gambino ed Urso. Quest'ultimo era stato scelto come esperto elettricista, vicino ai Vernengo, in stretti rapporti con Agliuzza contitolari dell'officina Orofino. I testi d'alibi di Urso (circa l'impegno nel suo supermercato, il pomeriggio del 18.07.92 in cui era avvenuto il caricamento) di dubbia attendibilità, per i legami con il ricorrente, e generici; facile lo spostamento, frequente l'assenza. Accoglie in definitiva l'appello del P.M. e condanna anche per la strage.

11)Vernengo Cosimo. La sentenza rigetta l'appello avverso condanna per 416 bis c.p. siccome ritiene il ricorrente inserito nella famiglia della Guadagna, per specifichi riferimenti ad episodi sintomatici di mafiosità, non solo nel narco-traffico, e stretti rapporti con i maggiori sodali del territorio per essere figlio del boss Pietro Vernengo. Quanto alla strage, era stato assolto in primo grado, siccome mancanti riscontri specifici alle dichiarazioni di Scarantino e non ritenuti tali l'appartenenza al gruppo, né l'accertata disponibilità dell'auto con cui era entrato da Orofino. La sentenza impugnata accoglie l'appello del P.M. Sottolinea che Vernengo é l'unico indicato sin dall'inizio dal teste Andriotta, come partecipante alla strage, a conferma della fonte diretta Scarantino. Altro riscontro verrebbe dal collaborante Costa Gaetano (confidenza, in carcere, di un cugino omonimo del Vernengo sulla sua partecipazione alla strage), sottoposto a positivo scrutinio di attendibilità per disinteresse, conoscenza autonoma ed anteriorità rispetto alla collaborazione di Scarantino. Tale elemento è saldato con la richiesta di esplosivo Semtex fatta da Pullarà a Costa, su istanza del figlioccio Profeta con i saluti di Luchino (Bagarella), sempre in carcere dopo la strage di Capaci, e comunicata a Buccarella legato con i Modeo pugliesi. Questi già nel passato avevano avuto rapporti con i Vernengo per il contrabbando di sigarette. Il tutto viene rapportato all'impiego della Suzuki bianca, diversa dal fuoristrada di proprietà del ricorrente (Nissan grigia).

12) (…)

13)Murana Gaetano. Ancora una volta viene rigettato l'appello avverso condanna per 416 bis c.p. per una serie di indici sintomatici di partecipazione alla famiglia Guadagna. Fedele autista di Aglieri, suo padrino (intercettazione a Pianosa), gestisce il totonero.

Accolto invece quello del P.M. avverso l'assoluzione dalla strage. Scarantino lo dà presente alla riunione fuori tra gli accompagnatori, lo indica come partecipante a trasferimento della 126 nei pressi di via Messina- Marine, perlustrazione durante il caricamento, scorta sino a p.zza Leoni. La sentenza ritiene riscontro individualizzante le dichiarazioni di Pulci, ritenuto attendibile (Incontro in carcere con Murana, che, per difendere Aglieri da una provocazione del collaborante, difende, dopo la ritrattazione di Scarantino, la versione di cosa nostra su indottrinamento di Scarantino e si lascia andare all'ammissione della propria partecipazione, con la famiglia di Guadagna, alla strage. Puntualizza che il Murana rifiuta il confronto con Pulci».

Un falso dopo l'altro che diventa verità. La Repubblica il 18 luglio 2019. In ordine alle dichiarazioni sulla strage di Via D’Amelio rese nel corso del suddetto interrogatorio del 24 giugno 1994, una precisa disamina e una accurata valutazione critica sono state operate dalla sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), di cui si riportano alcuni passaggi particolarmente significativi: «Vincenzo SCARANTINO ha detto di essere "uomo d’onore" e di essere stato “combinato” circa due anni prima di venire arrestato; la sua affiliazione venne tenuta riservata, per ragioni di cautela.

P.M.: Precisi quando è stato combinato chi era presente e che cosa è avvenuto.

SCARANTINO: Due anni prima del mio arresto c’era Pietro AGLIERI, Carlo GRECO, Pino LA MATTINA, Natale GAMBINO, mio cognato Salvatore PROFETA, Pinuzzo GAMBINO, eh… Tanino… MORANA… c’era pure, poi chi c’era? E altri che non mi ricordo, in questo momento non mi ricordo… eh… siamo andati nella sala di Pasquale TRANCHINA, in via Villagrazia, in una sala, ed abbiamo fatto una cerimonia, abbiamo mangiato, ‘Enzino è uomo d’onore, Enzino è uomo d’onore’… tutte queste cose… dopo abbiamo finito di mangiare, ci siamo baciati tutti, auguri, auguri, auguri e ce ne siamo andati dalla sala ed io, diciamo, ero uomo d’onore! (…)

SCARANTINO: Poi abbiamo finito di mangiare siamo andati via, ognuno per i fatti suoi, e a me m’hanno messo ‘riservato’ per non essere a occhio della polizia e degli altri uomini d’onore al di fuori della famiglia, non mi presentavano a nessuno, ero uno riservato che andavo negli appuntamenti che faceva Pietro AGLIERI con mio cognato, per decidere sugli omicidi e di altre cose…Intorno al 24 giugno 1992 – non ha ricordato il giorno esatto, ma comunque la strage di Capaci era già avvenuta – Salvatore PROFETA gli chiese di accompagnarlo alla villa di Giuseppe CALASCIBETTA, ove trovarono il padrone di casa, Pietro AGLIERI, Pinuzzo LA MATTINA, Natale GAMBINO, Carlo GRECO, Giuseppe SALEMI; poi gli venne chiesto di andare a prendere Renzo TINNIRELLO e così fece, accompagnandolo alla villa; erano presenti anche Ciccio TAGLIAVIA,Salvatore RIINA e Giuseppe GRAVIANO. Fu quella la prima volta in cui vide Salvatore RIINA, del quale in precedenza aveva solo sentito parlare: non vi fu una presentazione, ma ugualmente egli comprese che si trattasse del RIINA; questi poi era accompagnato da BIONDINO – o forse da “Ciccio GANCI” -, a bordo di una Fiat “126” bianca.

P.M.: Ma… chi le ha detto che quella persona che è arrivata era Salvatore RIINA?

SCARANTINO: Ma si sapeva che era Salvatore RIINA ‘u’ zu’ Totò’.P.M.: Quando poi… è stato arrestato RIINA e lì vedendo le sue fotografie…

SCARANTINO: Sì… l’ho conosciuto, per questo ho fatto casino a Busto Arsizio… perché l’ho conosciuto che era lui e non volevo che mi chiedessero se lo conoscevo o non lo conoscevo… però io lo conoscevo che era lui, Totò RIINA… l’ho visto là, alla villa. (…)

P.M.: Senta, RIINA Salvatore com’è arrivato alla villa di CALASCIBETTA?

SCARANTINO: Con una “126” bianca, che era… però non mi ricordo, ma penso che è BIONDINO, o BIONDINO o Ciccio GANCI, ma sicuramente è BIONDINO, non ricordo bene.

P.M.: Cioè vuol dire che RIINA era accompagnato da BIONDINO Salvatore?

SCARANTINO: Sì, sì.

Lo SCARANTINO ha poi descritto il giardino e l’interno della villa del CALASCIBETTA. Quando la riunione era in corso ha potuto sentire che i presenti dicevano che occorreva ammazzare BORSELLINO e che occorreva fare attenzione che non rimanesse vivo, come stava per accadere per FALCONE, che per poco non era riuscito a scampare alla morte; fu lo stesso Salvatore RIINA a ribadire che BORSELLINO doveva venire ucciso. Ha detto poi SCARANTINO che, per educazione, lui e Pino LA MATTINA uscirono ed aspettarono fuori dal salone dove era in corso la riunione. Terminata la riunione, il cognato Salvatore PROFETA gli affidò un incarico di fiducia.

SCARANTINO: … siamo rimasti quelli della borgata, io, Pietro AGLIERI, Pino LA MATTINA, Natale GAMBINO, mio cognato, Peppuccio CALASCIBETTA che lo chiamano ‘kalashnikov’, Carlo GRECO e… mio cognato… ‘insomma, si deve capitare una bombola d’ossigeno’, dice, ‘così neanche facciamo trovare le bucce, non si deve trovare completamente niente’, dice, ‘Enzino, vai con Peppuccio, là sotto da Peppuccio il fabbro’, in corso dei Mille, siccome lo conosco, ci siamo più amici io e Peppuccio CALASCIBETTA con questo ‘Peppuccio il Romano’ e siamo andati in questa fabbrica dove c’è, vendono acido, tutti questi prodotti tossici…

P.M.: E scusi, tutti questi prodotti tossici tra cui l’acido, la fabbrica è di Peppuccio FERRARA?

Va rilevato per inciso che, fino a quel momento, lo SCARANTINO non aveva ancora citato il cognome del venditore di “bombole”, che viene così involontariamente suggerito dall’interrogante.

SCARANTINO: No, è dell’amante… (…) siamo andati da questo Peppuccio, gli ho detto…, con un bigliettino, mi hanno dato un bigliettino, non lo so, non mi ricordo la bombola come si chiamava, però ‘C’ tipo che c’è la ‘C’… è un nome un po’ dimenticato, però dice che una bombola potente, potentissima, è un prodotto potentissimo, non ci vuole né… né niente, non ci vuole… questa è una bombola potentissima…

Ha proseguito assicurando che il venditore di bombole aveva promesso loro di informarsi se avrebbe potuto acquistare a sua volta la bombola dal fabbricante senza registrazione e senza rilascio di fattura; in seguito, il “Peppuccio” fece sapere che la risposta era stata negativa perché, non disponendo di un’analoga bombola vuota da consegnare in cambio, per vendergliene una il fabbricante avrebbe dovuto registrare il suo nome.

SCARANTINO: E poi è ritornato Peppuccio e ha detto ‘Enzino, digli a Peppuccio che sono andato là e là ci vuole il mio nome, gli devo portare il vuoto, il vuoto dove ce l’ho! E poi come glielo metto il mio nome in una bombola di questo genere, come posso rischiare di mettere il mio nome!?’ Gli ho detto ‘Va be’, Peppuccio’, ora ah, dice, ‘diglielo a Peppuccio, queste bombole si possono andare a rubare, dove c’è la villa di Pietro AGLIERI, di fronte stanno facendo una metropolitana, non ricordo bene, se è una stazione, non ricordo bene, dice che con questo ossigeno vi tagliano i binari, si può andare a rubare là, se vuoi la possiamo andare a rubare…

Va notato qui per inciso che, da come SCARANTINO ha riferito la risposta, pare che il fabbro venditore di bombole fosse consapevole dello scopo per il quale gli era stata chiesta la fornitura della bombola e, dunque, del rischio al quale egli sarebbe andato incontro qualora glie l’avesse venduta; invero, è lo stesso SCARANTINO ad ammettere che la sua “famiglia” si riforniva abitualmente dallo stesso Peppuccio dell’acido necessario per sciogliere i cadaveri e che questi ne era consapevole; significa, perciò, che la vendita della bombola avrebbe comportato un rischio ben maggiore di quello che poteva comportare il coinvolgimento in un fatto illecito quale la distruzione di un cadavere. Anche a ritenere veritiero il racconto di SCARANTINO, è del tutto inverosimile che il venditore di bombole fosse stato messo realmente al corrente della destinazione finale della bombola. SCARANTINO ha proseguito dicendo che Salvatore PROFETA gli disse di lasciar perdere la questione della bombola, cioè che non se ne faceva nulla; però ha aggiunto che – vista la potenza dell’esplosione che si era verificata in via D’Amelio – a suo giudizio sicuramente era stata usata una bombola di quel tipo e, poiché a lui non era stato chiesto di andare a rubarla, sicuramente ci erano andati Natale GAMBINO, Nino GAMBINO, Tanino MORANA e “Peppuccio il fabbro”. Furono il cognato Salvatore PROFETA e Giuseppe CALASCIBETTA a commissionargli il furto di un’auto di piccola cilindrata.

SCARANTINO: … mio cognato e Peppuccio CALASCIBETTA mi hanno detto "Si deve andare a fare una macchina piccola, di cilindrata piccola", gli ho detto "Va be’, la macchina la vado a fare io, una 126" gli ho detto, "porto una 126" però io già la 126 ce l’avevo, me l’ha portata CANDURA e VALENTI che gli ho dato 150.000 più gli davo la droga, gli davo buste di droga e questa macchina non è che io l’ho presa per andare a fare la strage, l’ho presa così, per farla aggiustare, per fare cambiare i pezzi e l’ho messa là sotto al fiume, accanto al magazzino di Ciccio TOMASELLO… (…) L’indomani gli ho detto "La 126 l’ho fatto, la 126 l’ho fatto" e due giorni, tre giorni prima è venuto Cosimo VERNENGO e Tanino, gliel’ha detto mio cognato e Peppuccio ‘prendiamo questa 126 e la portiamo in via Messina Marine’, non subito nel garage di Giuseppe OROFINO, l’abbiamo messo in via Messina Marine posteggiata normale.

In seguito, nel pomeriggio del sabato precedente la strage la “126” venne portata da Giuseppe OROFINO nel proprio garage; c’erano anche Natale GAMBINO, Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI, Francesco TAGLIAVIA, Cosimo VERNENGO e Franco URSO (genero di Pietro VERNENGO, di professione elettricista). Mentre costoro allestivano l’autobomba, allo SCARANTINO e ad altri venne affidato l’incarico di vigilare all’esterno.

SCARANTINO: … e io, Tanino e Natale giravamo con il peugeottino là, sempre in via Messina Marine se vedevamo sbirri, li dovevamo avvisare o gli si sparava o… avevamo le pistole addosso…

Ha proseguito SCARANTINO riferendo che la mattina del sabato precedente la strage egli ebbe occasione di apprendere che era stata fatta una intercettazione telefonica al magistrato.

P.M.: Perché si è deciso di fare sabato, di imbottire la macchina e domenica portarla in via D’Amelio? Si era saputo che era quello…?

SCARANTINO: C’è stato… che è venuto, c’era, eravamo nel bar, bar BADALAMENTI alla Guadagna… ed è venuto un ragazzo, una persona, lo chiamano ‘Tanuzzo’, non mi ricordo bene, e c’ero io, Natale GAMBINO, Cosimo ed è arrivata questa persona, giovane, per parlare con Natale o con Cosimo… dice… ‘Mio fratello il lavoro lo ha fatto bello sistemato’ ed io per educazione sono entrato nel bar a prendere il caffè ed ho lasciato loro che parlavano e dopo dice "Min… stavolta ce lo inculiamo" ha detto Natale… dice "Stavolta lo fottiamo, c’è cascato con l’intercettazione del telefono, stavolta ce lo inculiamo", dopo io me ne sono andato, è venuto lui il sabato mattina, io me ne sono andato per i fatti miei…

La mattina della domenica egli partecipò alla “scorta” della “126”, che venne portata sul luogo dell’attentato; SCARANTINO era a bordo della propria Ranault “19”, c’erano anche Pino LA MATTINA con la sua Fiat “127” bianca, Natale GAMBINO con la sua “126”, Tanino MORANA con la “127” azzurra; la “126” che doveva esplodere era guidata da Renzo TINNIRELLO.

SCARANTINO: Pietro AGLIERI aspettava ai ‘Leoni’, siamo arrivati ai ‘Leoni’ e ci hanno fatto segnale che noi potevamo andarcene, questa macchina non l’avevano portata subito in via D’Amelio, o l’hanno messa in un garage o in qualche box da quelle parti, non sono sicuro se questo Peppuccio CONTORNO ha il box, perché abita in quelle vie, di viale Lazio, abita in queste vie, noi ce ne siamo andati, io me ne sono andato per i fatti miei…

Sul posto, con la “autobomba”, rimasero Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI e Francesco TAGLIAVIA. Erano circa le 7.30 quando egli li lasciò e se ne andò; più tardi al bar incontrò il cognato, al quale disse che era tutto a posto; più tardi, verso le 10.30-11 ebbe occasione di assistere ad una rissa in chiesa. Apprese in strada, poco dopo le 17, che BORSELLINO era stato ucciso; salì allora a casa del cognato, che era intento a guardare la televisione. SCARANTINO ha proseguito dicendo che a premere il telecomando in via D’Amelio erano stati Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI e Francesco TAGLIAVIA: non ha chiarito però come lo apprese, limitandosi a riferire che Natale GAMBINO gli disse che in via D’Amelio “ci sono andati tre con le corna d’acciaio”. Dunque, lo SCARANTINO non ha riferito fatti percepiti direttamente, giacché prima aveva detto di essersi allontanato dalla “126”, lasciando quelle tre persone con l’auto: è dunque probabile che si tratti di una semplice deduzione dello SCARANTINO, visto che le persone indicate sono proprio quelle che vide rimanere vicino all’autobomba quando egli se ne allontanò. Poi SCARANTINO ha ribadito di avere commissionato il furto della “126” al CANDURA prima della riunione in cui si sarebbe decisa l’uccisione di Paolo BORSELLINO e che, quando suo cognato gli chiese di rubare un’auto piccola, egli già disponeva di quella “126” ma non lo disse, invece promise che ne avrebbe procurata una quanto prima, per fare bella figura. Il CANDURA un giorno di pomeriggio gli consegnò alla Guadagna la “126” rubata; egli la parcheggiò per la strada, ma poiché gli pareva che fosse troppo in vista poi la spostò vicino al fiume Oreto, vicino al garage di Ciccio TOMASELLO. Lo SCARANTINO ha poi ribadito che, dai discorsi fatti con Natale GAMBINO e Giuseppe CALASCIBETTA e anche dall’entità dello scoppio verificatosi in via D’Amelio egli comprese che era stata adoperata una bombola.

P.M.: … lei sa per certo che poi la bombola è stata recuperata e quindi è stata messa sulla autovettura che è servita come autobomba, è sicuro di questo?

SCARANTINO: Questa bombola si cercava, si cercava di averla perché con l’esplosivo non è che poteva fare questo danno, l’unico modo di non lasciare tracce… della 126… l’unico modo era questa bombola…

P.M.: Ma lei sa se poi l’hanno, lei ha la certezza… qualcuno le ha detto che poi la bombola è stata trovata, oppure…?

SCARANTINO: No… non è che ho la certezza che poi la bombola l’hanno trovata… ma come ne parlavano… Natale, Peppuccio, ne parlavano come se ce l’avessero messa, Peppuccio… andava e veniva…

P.M.: Peppuccio chi intende?

SCARANTINO: Calascibetta… (…)

P.M.: Senta… lei sa… che tipo di esplosivo… è stato usato?

SCARANTINO: No, no.

P.M.: Sa dove è stato procurato?

SCARANTINO: Ma io penso… che l’ha portato Cosimo VERNENGO, perché ho visto arrivare Cosimo VERNENGO con una Jeep, però ho visto che è entrato a marcia indietro nel garage di OROFINO.

P.M.: Quindi il sabato pomeriggio?

SCARANTINO: Sì.

Il passo appena riportato appare estremamente eloquente. Lo SCARANTINO palesa una incompetenza assoluta in materia di esplosivi, mostrando di ritenere che l’esplosione di una “bombola” faccia un danno molto maggiore di quello che si potrebbe provocare con un comune esplosivo. Ma è evidente anche che lo SCARANTINO non sa nulla circa le modalità di confezione della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio. Pertanto il tenore delle risposte fornite fino a quel momento non giustificava affatto la domanda posta dal Pubblico Ministero sul tipo di “esplosivo” impiegato in via D’Amelio; ancor meno giustificate appaiono le ulteriori domande poste sull’argomento, a loro volta non giustificate dalla prima risposta – negativa - fornita al riguardo dallo SCARANTINO, l’unica genuina e coerente con le precedenti. Le successive risposte appaiono indubbiamente influenzate dall’interrogante, anche perché non è affatto chiaro come possa lo SCARANTINO ricollegare razionalmente la venuta del VERNENGO nell’officina dell’OROFINO con l’impiego dell’esplosivo. In ogni caso, lo SCARANTINO, anziché persistere nella propria convinzione riguardo all’uso esclusivo di una bombola per l’attentato di via D’Amelio, ha colto al volo il pensiero dell’interrogante e ha iniziato a rispondere sulla quella falsariga. Lo SCARANTINO ha poi aggiunto che alla “126” vennero sostituite le targhe, ma non ha saputo precisare dove vennero prese quelle che vi vennero montate; la domenica mattina fu Pietro AGLIERI a prelevare l’auto dall’officina di OROFINO e a condurla ai “Leoni”; inoltre, la domenica mattina Renzo TINNIRELLO suggerì all’OROFINO di rompere il lucchetto che chiudeva il portone. Va rilevato però che poco prima lo SCARANTINO aveva detto che Pietro AGLIERI la mattina di domenica 19 luglio attese il corteo delle auto ai “Leoni” e che la “126” era stata condotta fin lì dal TINNIRELLO. In conclusione, va detto che le dichiarazioni dello SCARANTINO in ordine al furto della “126” usata per la strage sono in netto contrasto con l’epoca del furto risultante dalla denuncia sporta da Pietrina VALENTI, secondo la quale l’auto le fu rubata nella notte tra il 9 e il 10 luglio: dunque, lo SCARANTINO non poteva averla già ricevuta dal CANDURA prima della riunione alla villa di CALASCIBETTA, collocata intorno al 26 giugno». Ciò posto, deve osservarsi che le suesposte dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili (come è stato successivamente ammesso dall’imputato ed è comprovato dai numerosi elementi di prova già analizzati nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio), contengono alcuni elementi di verità, che, secondo una ragionevole valutazione logica, devono necessariamente essere stati suggeriti da altri soggetti, i quali, a loro volta, li avevano appresi da ulteriori fonti rimaste occulte. In particolare, le risultanze istruttorie emerse nel presente procedimento confermano in modo inequivocabile sia la circostanza che l’autovettura fosse stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, sia l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo: due dati di fatto che lo Scarantino ha riferito sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di “collaborare” con la giustizia, e che erano sicuramente estranei al suo personale patrimonio conoscitivo. Lo Scarantino è ritornato sulla propria versione dei fatti nell’interrogatorio del 29 giugno 1994, confermandola ampiamente ma con l’aggiunta di alcune precisazioni e modifiche. […] In questo ulteriore interrogatorio, reso a cinque giorni di distanza dal precedente, dunque, lo Scarantino ha continuato ad accompagnare numerose circostanze false con taluna oggettivamente veridica (come la affermazione che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell'accensione), e ha inserito nel suo racconto alcune modifiche che potevano indurre in errore sulla sua credibilità: in particolare, l’epoca della riunione nella villa del Calascibetta in cui era stata decisa l’eliminazione del magistrato è stata spostata in avanti, collocandola tra la fine di giugno e i primi di luglio, mentre l’epoca del furto dell’autovettura è stata avvicinata a quella dichiarata nella denuncia, in quanto lo Scarantino ha riferito di avere avuto il veicolo a propria disposizione già sette giorni prima di venerdì 17 luglio. Il tentativo della Scarantino di superare alcune precedenti contraddizioni con altre fonti di prova traspare con assoluta chiarezza dall’interrogatorio reso il 25 novembre 1994 davanti al Pubblico Ministero rappresentato dal dott. Carmelo Petralia, dalla dott.ssa Anna Maria Palma e dal dott. Antonino Di Matteo. […] Nelle ultime risposte fornite dallo Scarantino è percepibile con chiarezza il tentativo, malriuscito, di superare i contrasti riscontrabili tra la sua versione dei fatti e quella esposta da altri collaboratori di giustizia, nonché le molteplici contraddizioni presenti nel suo percorso dichiarativo. […] Nella successiva sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) si è osservato che, nell’esame reso all’udienza dell’8 marzo 1997, lo Scarantino ha inserito anche Salvatore Profeta e Giuseppe Graviano tra le persone che andarono nella carrozzeria di Giuseppe Orofino mentre si stava preparando la “autobomba”, precisando di non avere rivelato prima i loro nomi perché aveva paura. Quest’ultima pronuncia ha rilevato che «tali dichiarazioni appaiono emblematiche, tanto della personalità dello SCARANTINO, quanto del suo rapporto di “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria. La dichiarazione riguardante gli SCOTTO, che mostra un insanabile contrasto con quelle rese in precedenza, evidentemente è frutto dell’ennesimo “aggiustamento” fatto per adeguare la propria versione dei fatti agli sviluppi delle indagini e del processo. Inoltre, si assiste all’ennesimo tentativo maldestro da parte dello SCARANTINO di giustificare le persistenti incertezze e contraddizioni adducendo il timore di coinvolgere determinati soggetti: in precedenza aveva detto di avere avuto paura ad accusare Giovanni BRUSCA, timore che invece non sentiva nei riguardi dei GRAVIANO, mentre appare assurdo che egli non abbia fatto il nome del cognato per paura, avendolo già accusato di avergli commissionato il furto della “126”». L’esame condotto sulle predette dichiarazioni evidenzia, dunque, come attraverso una pluralità di deposizioni lo Scarantino avesse incolpato Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe di aver partecipato alle fasi esecutive dell’attentato, attribuendo loro le condotte sopra descritte. La completa falsità di tali dichiarazioni emerge con assoluta certezza non solo dall’esplicita ammissione operata dallo stesso Scarantino, ma anche, e soprattutto, dalla loro inconciliabilità con le circostanze univocamente accertate nel presente processo, che hanno condotto alla ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato in senso pienamente coerente con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, come si è visto nel capitolo attinente alla posizione dell’imputato Vittorio Tutino. Da tale ricostruzione emerge in modo inequivocabile, oltre alla inesistenza della più volte menzionata riunione presso la villa del Calascibetta, la mancanza di qualsiasi ruolo dello Scarantino nel furto della Fiat 126, la quale, per giunta, non venne mai custodita nei luoghi da lui indicati, né ricoverata all’interno della carrozzeria dell’Orofino per essere ivi imbottita di esplosivo. A fortiori, devono ritenersi del tutto false le condotte di altri soggetti, delineate dallo Scarantino in rapporto alle suddette fasi dell’iter criminis da lui descritto.

Le calunnie del “pupo”. La Repubblica il 17 luglio 2019. All’imputato Vincenzo Scarantino viene contestato il delitto di calunnia continuata e aggravata (artt. 61 n. 2, 81 cpv. e 368, commi 1 e 3 c.p.), consistente nell’avere, nel corso degli interrogatori e degli esami dibattimentali resi nell’ambito dei procedimenti per la strage di via D’Amelio, incolpato falsamente, pur sapendoli innocenti, Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe di aver partecipato alle fasi esecutive dell’attentato, e, quindi, della commissione del delitto di strage, per il quale i medesimo soggetti furono condannati alla pena dell’ergastolo. In particolare, le condotte costitutive del delitto di calunnia, attribuito allo Scarantino, si sostanziano nell’avere accusato:

Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe e Murana Gaetano di essere stati presenti alla riunione organizzativa della strage tenutasi presso la villa di Calascibetta Giuseppe, nel corso della quale i predetti sarebbero erano rimasti fuori dal salone in compagnia del medesimo Scarantino;

Profeta Salvatore, di avere incaricato lo Scarantino, al termine della predetta riunione, di reperire un’autovettura di piccola cilindrata ed una sostanza contenuta in bombole comunemente utilizzata per tagliare i binari dei treni;

Gambino Natale, di avere avvisato lo Scarantino - il venerdì precedente alla strage - di rendersi disponibile per il trasporto della macchina all’officina di Orofino Giuseppe;

Vernengo Cosimo e Murana Gaetano, di aver trasportato, unitamente allo Scarantino, la Fiat 126 nel garage di Orofino Giuseppe il venerdì prima della strage;

Scotto Gaetano, di aver reso possibile, attraverso l’opera del fratello Pietro, l’intercettazione del telefono in uso alla madre del dott. Borsellino al fine di avere contezza degli spostamenti del magistrato alla via Mariano D’Amelio, in particolare riferendo di un incontro avvenuto, il sabato mattina precedente la strage, presso il bar Badalamenti nel quartiere della Guadagna, ove lo Scotto era giunto a bordo di una autovettura guidata dal fratello Pietro (che era rimasto in auto ad attenderlo) e dove aveva avuto un colloquio, alla presenza dello Scarantino, con Gambino Natale e Vernengo Cosimo nel quale aveva esplicitamente fatto riferimento all’avvenuta intercettazione dell’utenza telefonica attestata in via D’Amelio, e specificando altresì di averlo visto - la settimana precedente – a colloquio con le stesse persone e nello stesso bar, ove era giunto pur sempre a bordo di una vettura in compagnia del fratello Pietro;

Gambino Natale di avere avvisato lo Scarantino il pomeriggio del sabato antecedente alla strage di portarsi presso l’officina di Orofino Giuseppe;

Gambino Natale e Murana Gaetano di essere stati impegnati, unitamente allo Scarantino, nell’attività di pattugliamento nei pressi della predetta officina durante il caricamento dell’autobomba;

Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Urso Giuseppe, nella sua qualità di elettricista, e La Mattina Giuseppe, di essere stati presenti, il pomeriggio del sabato antecedente alla strage, al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe, dove il Vernengo, unico tra i presenti, avrebbe fatto ingresso a bordo di un’autovettura Suzuki Vitara di colore bianco;

La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Natale di aver infine partecipato, ciascuno a bordo della propria autovettura, la domenica del 19 luglio 1992 al trasferimento dell’autobomba dall’officina di Orofino Giuseppe a piazza Leoni.

Il tempus commissi delicti del reato continuato di calunnia è stato individuato dal Pubblico Ministero nelle seguenti date:

- il 24.6.1994 ed il 25.11.1994 (con particolare riguardo alla riferita condotta di partecipazione alla riunione tenutasi presso la villa di Calascibetta) per le dichiarazioni rese sul conto di Murana Gaetano;

- il 24.6.1994, il 29.6.1994 (in relazione alla riferita condotta di avere avvisato lo Scarantino, il venerdì precedente alla strage, di rendersi disponibile per il trasporto della macchina all’officina di Orofino) e l’8.3.1997 (con particolare riguardo alla riferita condotta di avere avvisato lo Scarantino il sabato di portarsi presso l’officina dell’Orofino per svolgere l’attività di pattugliamento durante il caricamento della Fiat 126) per le dichiarazioni rese sul conto di Gambino Natale;

- il 24.6.1994 per le dichiarazioni rese sul conto di Urso Giuseppe;

- il 24.6.1994 e l’8.3.1997 (con particolare riguardo alla riferita condotta di essere stato presente al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe il sabato pomeriggio precedente alla strage) per le dichiarazioni rese sul conto di La Mattina Giuseppe;

- il 24.6.1994 per le dichiarazioni rese sul conto di Vernengo Cosimo;

- il 24.6.1994 ed il 29.6.1994 (con particolare riguardo alle dichiarazioni relative all’incontro avuto con il Vernengo e con Gambino Natale la settimana precedente alla strage nel bar Badalamenti) per le dichiarazioni rese sul conto di Scotto Gaetano;

- il 24.6.1994 ed il 24.5.1995 (con particolare riguardo alle dichiarazioni relative alla presenza, il sabato antecedente alla strage, al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe) per le dichiarazioni rese sul conto di Profeta Salvatore.

In particolare, l’interrogatorio del 24 giugno 1994 è stato reso dallo Scarantino al Pubblico Ministero, in persona della dott.ssa Ilda Boccassini e del dott. Carmelo Petralia, e in presenza altresì del dirigente della Polizia di Stato dott. Arnaldo La Barbera. In tale occasione lo Scarantino, anzitutto, ha dichiarato “spontaneamente” quanto segue: «Effettivamente ho fatto pervenire alle SS.VV. una mia richiesta di conferire immediatamente con L'A.G. di Caltanissetta perché in questi mesi di detenzione ho maturato finalmente la decisione di collaborare con la Giustizia e di riferire con lealtà e sincerità tutto quello che è di mia conoscenza sulla strage di Via D'Amelio e su tutti gli altri reati che io ho commesso nel corso della mia vita. Premetto che sono responsabile insieme ad altri della morte del Giudice Paolo BORSELLINO. Intendo cominciare sin da oggi la mia collaborazione e prendo atto che l'odierno interrogatorio avviene alla presenza dell'Avvocato Luigi LI GOTTI del Foro di Roma; intendo quindi revocare i miei legali di fiducia». Come riportato nel verbale, lo Scarantino, quindi, ha dichiarato «l'intenzione di collaborare con la Giustizia ammettendo anzitutto di essere uomo d'onore e spiegando tempi e modalità della sua affiliazione, riferendo che era stato combinato circa due anni prima della strage di cui è processo». Egli ha riferito «della riunione in cui si decise la consumazione della strage in danno del Dott. Borsellino, indicandone tempi luoghi e partecipanti, precisando che la stessa si era tenuta nella villa di "Peppuccio" CALASCIBEITA verso il 23 giugno del 92. Ad essa, tra gli altri, partecipò Salvatore RIINA e Pietro AGLIERI che la presiedettero. La stessa ebbe termine circa 3 ore dopo». Lo Scarantino ha riferito «inoltre dell'incarico ricevuto subito dopo da PROFETA e Pietro AGLIERI in ordine all'acquisto di una "bombola" di ossigeno da utilizzarsi come mezzo deflagrante in grado di distruggere completamente l’ “autobomba”». Nel verbale si precisa che lo Scarantino «continua poi riferendo dell'incarico, ricevuto dal cognato PROFETA Salvatore, di procurare una autovettura di piccola cilindrata che doveva servire da autobomba, Dichiara di essere stato già in possesso di una FIAT 126 in quanto ricevuta da CANDURA Salvatore e VALENTI Luciano, cui egli aveva commissionato il furto in cambio di 150.000 e droga. Descrive poi che la stessa auto fu portata in via Messina Marine e parcheggiata sulla strada. Successivamente la stessa fu custodita nell'autofficina di OROFINO Giuseppe, coindagato. SCARANTINO riferisce inoltre che il sabato mattina, giorno prima della strage tale "Tanuccio" o Gaetano si presentò nel bar di BATALAMENTI dove riferì a lui stesso e a gli altri complici che, il proprio fratello aveva effettuato l'intercettazione del telefono del Giudice BORSELLINO e che "tutto era a posto". Conferma che l'autovettura è stata "preparata" il sabato pomeriggio precedente la strage nell'autofficina di OROFINO e che la stessa la domenica mattina, giorno della strage, verso le 6,00-6,30, fu portata, scortata dallo stesso, nei pressi di piazza dei Leoni. Riferisce poi di aver appreso da Natale GAMBINO che materialmente il telecomando fu premuto da "Ciccio" TAGLIAVIA, Pitero AGLIERI e Renzino TINNIRELLO in un appartamento nella loro disponibilità nei pressi del luogo della strage». Sollecitato dal Pubblico Ministero, «SCARANTINO riferisce di non avere ricordi precisi su chi ha fornito i telecomandi usati dal commando, ma dichiara che un personaggio molto importante vicino a Pietro AGLIERI, di nome Salvatore e proprietario di un'AUDI 80, potrebbe essere colui il quale fornii il materiale tecnico, persona che lo stesso SCARANTINO conobbe, indicatogli da AGLIERI, quando l'indagato doveva acquistare una cameretta per la casa. Infatti giorni dopo si recò presso il negozio di detto Salvatore che potrebbe identificarsi per SBEGLIA Salvatore arrestato per la strage di Capaci e che lo stesso SCARANTINO avrebbe rivisto sui giornali quando si trovava nel carcere di Termini Imerese». Lo Scarantino quindi ha raccontato «numerosi episodi da lui conosciuti relativi sia a fatti di sangue sia a traffico di stupefacenti». Il Pubblico Ministero ha chiesto al dichiarante come mai, visto che solamente da circa 4 anni era stato affiliato, egli poteva conoscere tutti questi fatti delittuosi, anche di notevole rilevanza. Egli ha risposto «che fin dall'età di 11 anni era il pupillo di capi famiglia e uomini d'onore ed era nelle grazie sia di Ignazio e Giovanni PULLARA' che di Pietro AGLIERI. Grazie a ciò poteva apprendere i fatti di sangue descritti». Dopo essersi soffermato sugli omicidi di Santino Amato e Salvatore Lombardo, lo Scarantino ha risposto ad una serie di ulteriori domande del Pubblico Ministero. Alla domanda «se il furto della macchina era stato commissionato in funzione della strage o per altri motivi», lo Scarantino ha risposto «che commissionò il furto al CANDURA e VALENTI per rivenderla a pezzi oppure per sostituire i pezzi ad una delle 126 di cui disponevo. Al CANDURA lo SCARANTINO consegnò in cambio della vettura rubata 150.000 lire e un quantitativo di eroina. La macchina fu portata al fiume presso un suo deposito. La macchina procurata dal CANDURA era color ruggine». Essendogli stato chiesto nuovamente se realmente la bombola era stata procurata ed adoperata per l'esecuzione della strage, «SCARANTINO riferisce di non avere la certezza dell'uso della bombola ma di aver capito che sia Natale GAMBINO che Peppuccío CALASCIBETTA si erano adoperati attivamente per ricercarla. SCARANTINO riferisce di non conoscere ne il tipo dell'esplosivo usato, ne il nome di colui che l'aveva procurato, ma ricorda che Cosimo VERNENGO il giorno prima della strage arrivo con una IEEP presso il garage di OROFINO entrando verso le cinque del pomeriggio ed uscendo verso le 21,30 e che il VERNENGO aveva disponibilità di esplosivi. Dichiara che OROFINO era presente poichè aveva aperto il cancello». Al Pubblico Ministero che gli ha domandato come mai era stato scelto proprio il garage dell’Orofino, lo Scarantino ha risposto che l’Orofino era un uomo di fiducia e che di lui rispondeva personalmente Tinnirello Renzino, ed ha aggiunto che «fu proprio OROFINO ad aggiustare il bloccasterzo rotto della FIAT 126», specificando altresì che «alla stessa furono cambiate le targhe», senza però indicare precise circostanze al riguardo. Ha inoltre affermato che «fu Natale GAMBINO a comunicare allo SCARANTINO l'ora in cui si dovevano ritrovare l'indomani per scortare l'autovettura. Il trasporto dell'auto terminò alle ore 7,20». Lo Scarantino a questo punto ha descritto «il modo in cui trascorse le ore successive della domenica sino alle 17,30 circa quando cominciò a circolare la notizia dell'esplosione in via D'Amelio». Al Pubblico Ministero che gli chiedeva di chiarire le sue precedenti dichiarazioni sull'elettricista che era intervenuto il sabato nell'autofficina dell’Orofino, lo Scarantino ha risposto «dicendo che si chiamava Pietro URSO, genero di VERNENGO, uomo d'onore, titolare tra l'altro di un deposito di bibite e proprietario di un motoscafo dove lo stesso SCARANTINO aveva viaggiato», e ha ribadito «che questi è specializzato in elettricità precisando che se era entrato nel garage quel pomeriggio doveva aver qualche compito specifico da fare». Parlando nuovamente della riunione precedente la strage, lo Scarantino ha ribadito «che fu proprio RIINA a decidere con autorità della morte del Giudice Borsellino venendo sostenuto da AGLIERI», e che tutti gli altri partecipanti non espressero nessuna opinione contrastante, né avrebbero potuto farlo, stante l’autorità indiscussa del Riina. Egli ha inoltre sostenuto di essere sicuramente in grado di riconoscere fotograficamente i partecipanti alla riunione, ha elencato i componenti della sua “famiglia” mafiosa, capeggiata da Pietro Aglieri, ed ha precisato «che per la strage di cui è processo non sa se c'è stato l'aiuto di qualcuno di altre famiglie aggiungendo che in occasione di questi fatti si mantiene il più stretto riserbo». Ha, infine, raccontato dell’omicidio Lucera ed escluso di conoscere Bagarella e Provenzano. (pagg 1665 -1671)

La “collaborazione” di Francesco Andriotta. La Repubblica il 14 luglio 2019. La collaborazione di Francesco Andriotta (intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apriva la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che iniziava a giugno 1994), ma permetteva altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998. Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella collaborazione, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino. Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino. Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:

- chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;

- proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;

- Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché uomo d’onore, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;

- col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul pizzino, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;

- nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio. Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni). Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione. Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio. Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio. In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello). L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto). Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza). L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio. Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo. Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato. A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato. In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva:

- di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”). Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;

- che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso. Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;

- che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;

- che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.

In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:

- riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);

- su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;

- nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.

Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna. Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta). Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva. I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino. In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà). Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto. In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera. Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato). In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire. Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio. Così sinteticamente riportate le mendaci dichiarazioni che l’imputato rendeva in ordine alle inesistenti confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, occorre esaminare anche le conclusioni raggiunte da talune delle sentenze dei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, in ordine alla sua attendibilità. In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea. A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: queste circostanze deponevano per l’assoluta mancanza, nella genesi della collaborazione di Andriotta, di valutazioni di personale tornaconto, che potessero far dubitare della genuinità delle sue dichiarazioni. Non risultavano, poi, elementi da cui inferire che Andriotta nutrisse nei confronti degli imputati (con i quali non aveva, in precedenza, alcun genere di rapporti), sentimenti d’astio, risentimento o vendetta, tali da far ipotizzare che potesse esser mosso da ragioni di malanimo o da intenti calunniosi. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi. Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992. Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:

- dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);

- potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;

- era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.

In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio. Vale la pena di riportare, qui di seguito, un breve stralcio della sentenza di primo grado emessa nel processo c.d. Borsellino bis, appunto, nella parte della motivazione a ciò dedicata: “Dal contesto delle dichiarazioni dibattimentali di Andriotta e, soprattutto, dall’analisi delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni appare tuttavia evidente che le dichiarazioni di Andriotta prima del pentimento di Scarantino Vincenzo sono state limitate alle confidenze di Scarantino riguardanti singoli momenti esecutivi della strage, quali il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, la custodia dell’autovettura prima della sua utilizzazione, il ruolo di Profeta Salvatore, (…), il caricamento dell’esplosivo presso la carrozzeria Orofino, il trasporto dell’autovettura sul luogo della strage e l’esecuzione di una intercettazione telefonica sul telefono della madre del dott. Borsellino ad opera di un parente di un uomo d’onore a nome Scotto, (…). Infatti risulta chiaro dalle dichiarazioni rese in dibattimento dall’Andriotta che lo stesso ha parlato della famosa riunione preparatoria della strage solamente dopo che i mezzi di informazione avevano diffuso la notizia del pentimento di Scarantino Vincenzo. (…) Orbene, per quanto attiene alla prima fase delle dichiarazioni di Andriotta è agevole osservare che hanno trovato ampio riscontro (…) tutte le indicazioni fornite da Andriotta circa la concreta possibilità che lo stesso aveva di dialogare con Scarantino (…). Assolutamente incontestabile appare, poi, lo scambio di favori e cortesie tra lo Scarantino e l’Andriotta e, in particolare, il fatto che lo Scarantino si sia avvalso della collaborazione dell’Andriotta per le comunicazioni con l’esterno del carcere (…). Alla luce di tali fatti appare ampiamente riscontrato il fatto che Scarantino Vincenzo abbia progressivamente intensificato i suoi rapporti con il compagno di detenzione, (…) ed appare credibile che possa anche avergli fatto qualche confessione, verosimilmente limitata, frammentaria e forse confusa (…). Certamente il distacco temporale tra le prime dichiarazioni di Andriotta e l’inizio della collaborazione con la giustizia di Scarantino e la divergenza di molti dettagli dagli stessi riferiti induce ad escludere un iniziale accordo tra i due (…) le dichiarazioni di Andriotta non possono certo considerarsi come prove autonome rispetto alle corrispondenti dichiarazioni di Scarantino Vincenzo, per la semplice ragione che lo stesso non ha fatto altro che riferire confidenze ricevute dal compagno di detenzione. Tali dichiarazioni (…) hanno solamente il valore di confermare, proprio per il fatto di essere state raccolte ampiamente prima dell’avvio della collaborazione di Scarantino Vincenzo, soltanto l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nella prima fase della sua collaborazione con la giustizia e di rendere per contro assolutamente inattendibile la successiva totale ritrattazione di Scarantino”.

In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado). A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.

La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto: “Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”. Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino. (pagg 1531 - 1563)

Il ruolo di Vittorio Tutino. La Repubblica il 13 luglio 2019. Già si è visto, analizzando l’articolato racconto di Gaspare Spatuzza sulla preparazione della strage di via D’Amelio, come si tratti di dichiarazioni provenienti da una fonte assolutamente credibile, che si è autoaccusata, innanzitutto, della partecipazione ad un eccidio per il quale lo stesso Spatuzza non sarebbe mai stato perseguito (attese le responsabilità già irrevocabilmente accertate nei precedenti processi per questi fatti), dando molteplici spunti all’autorità giudiziaria, per riscontare positivamente le sue dichiarazioni (logiche, coerenti, circostanziate, precise e continue) e mettendo così in discussione una parte di quanto veniva accertato dalle precedenti sentenze irrevocabili sulla strage di via D’Amelio. Del pari, sono stati diffusamente analizzati i motivi della ritenuta attendibilità delle medesime dichiarazioni, alla luce delle altre risultanze istruttorie di questo processo e di quelli precedenti, contestualmente confutando i rilievi critici avanzati dalla difesa di Vittorio Tutino, in relazione ad alcune apparenti discrasie nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia o contraddizioni rispetto ad ulteriori risultanze (ad esempio: sulla sistemazione dei freni e la chiusura della portiera della Fiat 126; sul possesso della carta di circolazione della medesima automobile, da parte della proprietaria; sulla chiusura del portone d’accesso alla carrozzeria di Giuseppe Orofino; etc…). Ancora, sono stati singolarmente analizzati e valutati anche gli ulteriori elementi di prova, richiesti dalla legge, a conferma della chiamata in correità di Gaspare Spatuzza, superando (ancora una volta) i rilievi critici della difesa sulla collaborazione di Tullio Cannella (per un suo potenziale interesse all’accusa) e su quelle, sopravvenute nel corso del dibattimento, di Vito Galatolo (per la progressione dichiarativa) e Francesco Raimo (soprattutto per la tardività della sua dichiarazione, fatta ad un anno dalla chiusura del verbale illustrativo). Inoltre, sono state prese in considerazione anche le dichiarazioni rese dall’imputato, negli esami dibattimentali (come detto, anche in quello del procedimento c.d. Capaci bis, oltre che in questo dibattimento) e nel suo confronto con due dei suoi accusatori (Gaspare Spatuzza e Vito Galatolo). A fronte del poderoso compendio probatorio a carico, l’imputato si difendeva, come detto, con la mera negazione del proprio contributo alla realizzazione della strage (e finanche -per quello che qui interessa- della propria partecipazione a Cosa nostra). Più in generale, la linea difensiva della parte processuale era volta, non già ad introdurre una propria versione alternativa degli accadimenti (ad esempio, come fatto da taluno degli imputati nei precedenti processi, contestando la realizzazione della strage mediante l’utilizzazione della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti), bensì a confutare l’esistenza di una ‘convergenza del molteplice’ a carico del proprio assistito, per un suo consapevole e volontario contributo nella realizzazione della strage di via D’Amelio, sia per alcune contraddizioni ed aporie (nell’ottica difensiva) nelle dichiarazioni accusatorie di Gaspare Spatuzza, sia per la mancanza di credibilità soggettiva ed attendibilità intrinseca delle altre fonti dichiarative, a riscontro estrinseco della predetta chiamata (vale a dire i predetti Vito Galatolo, Francesco Raimo, Tullio Cannella). Invece, la Corte d’Assise ritiene ampiamente comprovato, oltre ogni ragionevole dubbio, il rilevante contributo materiale fornito da Vittorio Tutino alla preparazione della strage del 19 luglio 1992 e -conseguentemente- nella devastazione di autovetture ed immobili, realizzata in via D’Amelio ed, ancora, il suo concorso, di tipo morale, nella detenzione e porto in luogo pubblico dell’ingente quantità di esplosivo stipato nel portabagagli della Fiat 126, appunto procurando quest’ultima autobomba ed una parte del materiale necessario a farla esplodere a distanza (le due batterie e l’antennino), oltre alle targhe da apporre alla stessa (per dissimularne la presenza), con la consapevolezza e la volontà di mettere in pericolo l’incolumità pubblica, accettando anche di devastare tutto quanto si trovasse nei pressi della deflagrazione e, come si vedrà di qui a breve, con la chiara intenzione di uccidere taluno. Quanto al contributo concorsuale dell’imputato alla realizzazione della strage, si reputa, innanzitutto, utile richiamare la giurisprudenza di legittimità in materia. La Suprema Corte, nel troncone di questo stesso procedimento celebrato con rito abbreviato, confermando l’affermazione della responsabilità di Fabio Tranchina (limitatosi, come detto, ad accompagnare Giuseppe Graviano in due sopralluoghi in via D’Amelio ed a fornirgli ospitalità, durante la sua latitanza, nel periodo della preparazione della strage), afferma -in maniera chiara- che, “ai fini del concorso nel delitto di strage, è sufficiente un contributo limitato alla sola fase preparatoria e di organizzazione logistica del reato materialmente commesso da altri concorrenti, non essendo necessario essere informati sull'identità di chi agirà, sulle modalità esecutive della condotta e sull'identità della vittima, purché vi sia la consapevolezza che la propria azione si iscriva in una più ampia progettazione delittuosa, finalizzata alla realizzazione di un omicidio di rilevante impatto sul territorio (nella fattispecie, relativa a strage mafiosa, la S.C. ha ritenuto la responsabilità dell'imputato in concorso, per aver svolto il ruolo di autista del capo cosca, organizzatore della strage, per averlo accompagnato in due sopralluoghi sul posto del delitto e per avergli offerto ospitalità, nella consapevolezza che stava preparandosi un attentato eclatante)”. Ancora: “resta da esaminare il tema giuridico (…) riassumibile nel seguente quesito: se, ai fini del concorso nel delitto di strage, è sufficiente un contributo che interessi la sola fase preparatoria e di organizzazione logistica del reato commesso da altri concorrenti neppure conosciuti dall'agente, e, soprattutto, se sia configurabile il dolo di partecipazione in colui che si limiti a prestare un contributo circoscritto alla preparazione dell'azione delittuosa senza conoscerne le modalità esecutive e la stessa vittima designata, nella sola consapevolezza di un perseguito evento omicidiario di rilevante impatto sul territorio. Ritiene la Corte che sia corretta la risposta positiva data ad entrambi i quesiti dai giudici di merito. Sul piano oggettivo, è già stato affermato che la partecipazione alle attività preparatorie del delitto e, in particolare, ai sopralluoghi nella sede della progettata esecuzione di esso, costituisce condotta concorsuale a norma dell'art. 110 cod. pen., poiché la concezione unitaria del concorso di persone nel reato comporta che l'attività del concorrente possa essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell'altrui proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera dei concorrenti (…) Sul piano soggettivo, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all'opera di un altro che rimane ignaro (Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani, Rv. 218525). Assume carattere decisivo l'unitarietà del "fatto collettivo" realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Sez. 2, n. 18745 del 15/01/2013, Ambrosiano, Rv. 255260; Sez. 6, n. 1271 del 05/12/2003, dep. 2004, Misuraca, Rv. 228424).

Discende che il contributo causale alla verificazione dell'evento criminoso non richiede la compiuta conoscenza da parte del singolo concorrente e, segnatamente, di colui che partecipi alla sola fase preparatoria, di tutti i dettagli del delitto da compiere, poiché è sufficiente la volontà dell'agente di prestare il proprio apporto nella consapevolezza della finalizzazione di esso al fatto criminoso comune; ciò che conta è la conoscenza del singolo concorrente che il segmento di condotta da lui posto in essere si inserisce in una più ampia azione criminosa, distribuita tra più soggetti investiti di compiti diversi, proporzionati per numero e qualità alla complessità dell'impresa da realizzare, di cui il proprio specifico apporto costituisce un tassello utile al conseguimento dell'obiettivo finale. Tale assunto è di particolare rilievo nelle associazioni criminali complesse, come quelle di tipo mafioso, organizzate secondo un modello rigorosamente gerarchico, con articolata distribuzione di compiti tra gli associati, e contraddistinte da un rigido vincolo di riservatezza interna, tale da precludere ai meri compartecipi la precisa conoscenza delle strategie e degli obiettivi di maggior rilievo perseguiti da capi e dirigenti, per non comprometterne la segretezza e il successo. Nel caso in esame Tranchina, allo stesso modo di Spatuzza, fu investito di specifici segmenti preparatori dell'eclatante azione criminosa, portata a compimento il 19 luglio 1992 dall'associazione di tipo mafioso di cui era membro. Il suo contributo, consistito nello svolgere il compito di autista e in genere di uomo di fiducia del capo, fu certamente efficace rispetto al delitto commesso, perché permise al principale organizzatore di esso, il latitante Graviano Giuseppe, nell'imminenza del tragico attentato, di mantenersi in costante contatto con i sodali del suo gruppo; di compiere almeno due sopralluoghi sul luogo del progettato delitto; di ricevere costante ospitalità, anche alla vigilia della strage, nella casa palermitana di Tranchina, quest'ultimo reclutato dal boss, proprio perché appartenente a famiglia estranea al contesto mafioso e all'epoca incensurato; e tutto ciò nella consapevolezza dell'imputato, come da lui stesso ammesso, che stava preparandosi un'azione omicidiaría "eclatante", tale da poter mettere in pericolo anche la pubblica incolumità, considerata la scelta del giardino come luogo dove Graviano si sarebbe personalmente appostato, come preannunziato a Tranchina, nel corso delle attività preparatorie, con le già ricordate parole: "addubbu no iardino" ("mi accomodo nel giardino", n.d.r.), tali da lasciare intendere che l'azione sarebbe stata commessa sulla pubblica via, normalmente frequentata da più persone. E tanto esclude, per la rilevanza dell'omicidio in preparazione e l'estensione del suo scenario, come tali subito percepite da Tranchina, la ricorrenza del dolo eventuale o del concorso anomalo, dedotti solo in via subordinata dal ricorrente ed incompatibili col dolo specifico postulato dal delitto di strage di cui all'art. 422 cod. pen. (con riguardo all'elemento psicologico del reato contestato, si richiamano: Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv. 235666; Sez. 2, n. 1695 del 13/01/1994, Rizzi, Rv. 196506; Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel, Rv. 188640). In sintesi, poiché Tranchina fu consapevole, nel corso dell'attività preparatoria cui prestò il suo volontario contributo, che stava per essere commesso un delitto di omicidio con modalità eclatanti, pur rimanendo a lui nascosti l'identità della vittima e il preciso piano esecutivo, risulta infondato il primo motivo di ricorso censurante il riconoscimento del concorso di Tranchina nel delitto di strage per asserito difetto dell'elemento oggettivo e soggettivo”.

Ciò premesso, in diritto, ed avuto riguardo alle emergenze istruttorie del presente processo (sopra analizzate), pur condividendo l’assunto della difesa (nella discussione finale) per cui non sarebbe affatto corretto operare un’automatica (e pedissequa) trasposizione, su Vittorio Tutino, delle consapevolezza ammessa e dimostrata, fin dalle primissime battute della loro azione, da Gaspare Spatuzza (quando Cannella, innanzi alla sua titubanza, gli diceva che si doveva rubare proprio una Fiat 126; “rincara la dose e mi dice: “La macchina si deve rubare”, quindi con questa sua insistenza mi rendo conto a quel punto a cosa servisse la macchina. Mi viene in mente ma strage in cui morì il Giudice Chinnici”), vanno evidenziati i seguenti elementi, che fanno concludere -senza alcun ragionevole dubbio- per la piena consapevolezza, da parte dell’imputato, della destinazione dell’autovettura rubata assieme a Gaspare Spatuzza al compimento di un attentato da porre in essere con l’esplosivo e sulla pubblica via, con modalità tali da mettere in pericolo l’incolumità pubblica e con la chiara e precisa intenzione di uccidere taluno, anche devastando quanto presente nei paraggi della deflagrazione. In tal senso, si deve -infatti- evidenziare che:

- già nel corso del mese di giugno del 1992, Vittorio Tutino sapeva che si doveva realizzare qualcosa di molto eclatante, proprio in via Mariano D’Amelio, e per tale motivo faceva in modo che i suoi cognati non frequentassero più, come facevano d’abitudine, prima d’allora, il parcheggio gestito dai Galatolo, ad appena 100/200 metri, in linea d’aria, dal luogo dell’esplosione, raccomandando pure a Vito Galatolo di non avere più “niente a che fare in questo posteggio”;

- appunto, dopo aver fatto in modo che i propri cognati non frequentassero più il parcheggio vicino alla via Mariano D’Amelio ed aver consigliato anche a Vito Galatolo di non recarvisi più, Vittorio Tutino, assieme a Gaspare Spatuzza, rubava la Fiat 126, nei primi giorni del mese di luglio 1992 e veniva pure incaricato, nello stesso contesto, di procurare due batterie ed un’antennino, strumenti essenziali per alimentare e collegare i micidiali dispositivi, destinati a far brillare il materiale esplosivo;

- ancora, sabato 18 luglio 1992, dopo aver consegnato le due batterie e l’antennino a Gaspare Spatuzza, Vittorio Tutino andava con lui a rubare delle targhe di un’altra Fiat 126;

-  infine, l’imputato veniva anche avvisato di “non passare per strada”, prima della strage di via D’Amelio, come commentava, durante la comune latitanza, con Gaspare Spatuzza (lamentandosi col sodale di non aver nemmeno ricevuto un analogo avvertimento, prima della strage di Capaci). Nemmeno pare ipotizzabile, alla luce delle superiori emergenze, la configurazione di un concorso c.d. anomalo dell’imputato, né di un suo mero dolo c.d. eventuale, incompatibili, com’è noto, con il dolo specifico richiesto per il delitto di strage. Infatti, sotto il primo aspetto, va rimarcato come lo schema della responsabilità ex art. 116 c.p., richiederebbe -nel caso di specie- l’ignoranza dell’imputato sulla destinazione finale della Fiat 126 che rubava, assieme a Gaspare Spatuzza, unitamente alle targhe da apporre alla medesima, procurando altresì due batterie ed un antennino: detta evenienza è assolutamente insostenibile, anche alla luce dell’organico inserimento di Vittorio Tutino in Cosa nostra e della vicinanza ai fratelli Graviano ed, ancora, delle predette risultanze in merito alla consapevolezza dimostrata, già nel corso del mese di giugno del 1992 (cioè, diverse settimane prima rispetto al furto dell’autobomba e delle targhe), del fatto che sarebbe stato realizzato un attentato eclatante, proprio nella zona di via D’Amelio, con modalità tali da mettere in pericolo chi si trovasse nelle immediate vicinanze.

Anzi, non pare un fuor d’opera evidenziare come, proprio la circostanza (pacifica) che Vittorio Tutino abitasse, in quel periodo, assieme alla moglie (peraltro, in dolce attesa) in via Don Orione, vale a dire proprio nelle vicinanze della via D’Amelio, induce a ritenere, ragionevolmente, che l’imputato (anche per il suo rapporto fiduciario con i fratelli Graviano) fosse ben più informato, rispetto al sodale Gaspare Spatuzza, persino in merito all’obiettivo specifico che si doveva colpire con l’eclatante azione delittuosa in preparazione (fermo restando che, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità sopra riportata, detta ultima consapevolezza dell’obiettivo specifico non è affatto necessaria per affermare la sua responsabilità concorsuale nella strage de qua). Le medesime considerazioni valgono pure ad escludere decisamente la configurabilità del c.d. dolo eventuale, in capo a Vittorio Tutino, posto anche quello che rileva, anche sul piano dell’elemento soggettivo del reato di strage, posto in essere in forma concorsuale, è la considerazione unitaria del fatto collettivo. Come già detto, riportando i principi di diritto affermati dalla Suprema Corte di Cassazione, anche sul piano dell’elemento soggettivo del reato, assume carattere decisivo l’unitarietà del ‘fatto collettivo’, sicché è sufficiente che ciascun agente sia a conoscenza (anche unilaterale) del contributo prestato alla condotta altrui, con la volontà di dare un apporto utile alla realizzazione dell’impresa criminale. Ciò che conta è la consapevolezza, da parte del singolo concorrente, che il segmento di condotta da lui posto in essere si inserisce in una più ampia azione criminosa, come “tassello utile al conseguimento dell'obiettivo finale”. Nessun ragionevole dubbio può, pertanto, prospettarsi sul consapevole e volontario contributo dell’imputato -in termini di causalità agevolatrice- nella preparazione della strage del 19 luglio 1992, oltre che nella volontaria devastazione posta in essere in via D’Amelio, e, ancora, nella detenzione illecita e nel porto in luogo pubblico dell’esplosivo destinato a far brillare l’autobomba. L’aggravante di cui all'art. 1 del D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, conv. nella L. 6 febbraio 1980, n. 15, deve trovare sicuramente applicazione anche nei confronti del Tutino, che partecipò alla preparazione di un attentato del quale non potevano certamente sfuggirgli la portata e le finalità, soprattutto in considerazione della recentissima commissione della strage di Capaci. I reati ascritti all’imputato Tutino vanno unificati sotto il vincolo della continuazione, essendo stati posti in essere in esecuzione di una risoluzione criminosa unitaria e in vista di un medesimo fine. La pena applicabile per il delitto di strage aggravata alla morte di più persone, è quella dell’ergastolo, ai sensi dell’art. 422 comma primo c.p.. Né si ravvisano elementi che giustifichino la concessione di circostanze attenuanti. Ne consegue che la sola discrezionalità legislativamente attribuita alla Corte, nella determinazione della pena da irrogare al predetto imputato (in applicazione del combinato disposto degli artt. 81, commi 2° e 3°, e 72, comma 2°, c.p.), riguarda la determinazione della durata dell’isolamento diurno (da un minimo di due ad un massimo di diciotto mesi, in base all’art. 72 c.p.). Alla luce di tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., e, in particolare, sia della elevatissima gravità dei fatti commessi, per i mezzi e le modalità oggettive delle azioni, oltre che per la notevole intensità del dolo, sia della rilevantissima capacità a delinquere dell’imputato, desunta dai motivi dell’impresa criminosa e dal durevole inserimento del soggetto nelle dinamiche dell’associazione mafiosa, si reputa congruo infliggere un anno di isolamento diurno. All’anzidetta condanna segue, per legge, quella al pagamento delle spese processuali e delle spese relative al proprio mantenimento in carcere durante la custodia cautelare. La condanna importa altresì, ai sensi degli artt. 29, 32 e 36 c.p., le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, dell'interdizione legale, della decadenza dalla potestà genitoriale e della pubblicazione della sentenza di condanna. La presente pronunzia dovrà essere pubblicata mediante affissione nei Comuni di Caltanissetta e Palermo, nonché pubblicata, per intero (stante la particolare rilevanza e gravità dei fatti commessi) e per trenta giorni, a spese del condannato, nel sito internet del Ministero della giustizia. (pagg. 1516- 1528)

Candura, uno dei falsi pentiti. La Repubblica l'11 luglio 2019. Si riporta qui di seguito (per maggiore comodità di lettura e consultazione) uno stralcio della deposizione dell’Ispettore Claudio Castagna, che assisteva a detti sopralluoghi (videoregistrati) con Gaspare Spatuzza e con Pietrina Valenti:

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, lei ha parlato, invece, di sopralluoghi esperiti con l'Autorità Giudiziaria assieme a Gaspare Spatuzza.

TESTE C.G. CASTAGNA - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Lei ha presenziato a questi sopralluoghi?

TESTE C.G. CASTAGNA - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Sa le modalità con le quali sono stati condotti questi sopralluoghi? Cioè da un punto di vista tecnico intendo.

TESTE C.G. CASTAGNA - Sì, tra l'altro mi sono occupato quasi... quasi totalmente, in una sola occasione credo si sia occupato un collega di tutte le videoriprese, di tutti i sopralluoghi che sono stati fatti con...

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi i sopralluoghi sono stati...

TESTE C.G. CASTAGNA - Tutti videofilmati. […]

P.M. Dott. LUCIANI - Lei ha detto di aver visto anche le immagini del sopralluogo di Candura Salvatore.

TESTE C.G. CASTAGNA - Di Candura, sì. Sì, ne ho fatto anche annotazione, tra l'altro, su questo per...

P.M. Dott. LUCIANI - Ha fatto anche annotazione per descrivere.

TESTE C.G. CASTAGNA - Sì, sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Ecco, sa che luogo ha indicato Candura Salvatore al momento del sopralluogo?

TESTE C.G. CASTAGNA - Allora, lui, invece, sosteneva che... di essere, quindi, l'autore del furto della 126 e che l'autovettura, nel momento in cui l'aveva prelevata, si trovava posteggiata proprio davanti l'ingresso dello stabile, quindi nella parte terminale della L.

P.M. Dott. LUCIANI - Davanti il portone, diciamo.

TESTE C.G. CASTAGNA - Allora, immaginando questa L immaginaria, Spatuzza e la signora Valenti la indicavano proprio nel primo parcheggio principale sul lato dello stabile, mentre Candura diceva che la macchina si trovava al termine della L, del... della L.

P.M. Dott. LUCIANI - Nel vialetto che conduce al portone di accesso.

TESTE C.G. CASTAGNA - Proprio davanti al portone di accesso.

P.M. Dott. LUCIANI - Proprio davanti al portone.

TESTE C.G. CASTAGNA - Dove c'erano questi gradini, questi gradini che conducevano verso il piazzale.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, per poter fare le attività che vi sono state delegate dalla Procura della Repubblica, avete avuto modo di visionare anche le attività che erano state fatte illo tempore?

TESTE C.G. CASTAGNA - Sì, abbiamo, praticamente, acquisito buona parte del carteggio degli accertamenti che erano stati fatti all'epoca.

P.M. Dott. LUCIANI - Per quello che ha potuto lei verificare dalla lettura di questi atti, chiaramente per poter assolvere alle deleghe della Procura, questo tipo di accertamento in via Sirillo di individuazione dei luoghi era mai stato fatto?

TESTE C.G. CASTAGNA - No, non...

P.M. Dott. LUCIANI - Da parte del Candura.

TESTE C.G. CASTAGNA - Non risultano atti.

P.M. Dott. LUCIANI - O da parte della Valenti.

TESTE C.G. CASTAGNA - Non risultano atti in cui... cioè in cui sarebbero stati fatti questi sopralluoghi.

Orbene, come emerge anche dalla testimonianza appena riportata, una tale attività istruttoria di sopralluogo non veniva mai espletata in passato, allorquando si raccoglievano le dichiarazioni di Candura e Scarantino, per la strage di via D’Amelio. Durante le pregresse investigazioni, condotte dal dott. Arnaldo La Barbera e dai suoi uomini, nonostante le naturali perplessità che potevano insorgere, in relazione alla personalità di entrambi i ‘collaboratori’ ed anche al contenuto delle loro dichiarazioni (si pensi, solo per fare un esempio, al racconto di Scarantino sulla cerimonia della sua affiliazione a Cosa nostra), non veniva mai fatto un sopralluogo con il ladro dell’automobile, né con la derubata. Anche per questo motivo, oltre che per il sopravvenuto mutamento dei luoghi, l’atto istruttorio si rivela di fondamentale importanza, andando a riscontrare, in maniera molto significativa e puntuale, le dichiarazioni di Spatuzza (e, per converso, ad escludere la credibilità di quelle rese da Salvatore Candura e da Vincenzo Scarantino, nei precedenti processi). Inoltre, l’individuazione del luogo esatto di sottrazione della Fiat 126, da parte di Gaspare Spatuzza, si rivela ancor più attendibile, in considerazione del fatto che il collaboratore indicava un punto dove, all’epoca del sopralluogo, era impossibile posteggiare un’automobile, poiché vi erano delle fioriere, installate in epoca successiva, come spiegato dalla stessa Pietrina Valenti. Quest’ultima (nella consueta maniera confusionaria), spiegava che, all’epoca dei fatti, nel posto dove venivano poi collocate le fioriere condominiali, si poteva parcheggiare (“io la posteggiavo la macchina dov'è che ora ci sono messe le piante”). […] Sempre in occasione della sua testimonianza, Pietrina Valenti precisava che, per come aveva parcheggiato la sua Fiat 126, quella sera, non aveva modo di controllarla a vista, dalle finestre del suo appartamento. […] Le dichiarazioni della Valenti trovavano anche conferma nell’attività di riscontro del Centro Operativo DIA di Caltanissetta, da cui risultava che, effettivamente, la zona dove venivano installate le menzionate fioriere condominiali (dove la teste, come detto, posteggiava la Fiat 126, prima che le venisse rubata), non era visibile dalle finestre dell’appartamento della proprietaria. Al contrario (come anticipato), Salvatore Candura, nel sopralluogo del 24 novembre 2008 (anch’esso agli atti), confermando quanto già dichiarato nei precedenti procedimenti, indicava, come luogo dove rubava la Fiat 126 di Pietrina Valenti, un posto diverso, nelle immediate vicinanze del portone d’ingresso dello stabile, peraltro in una posizione parzialmente visibile dalla camera da letto della Valenti. Venivano, poi, acquisite al fascicolo per il dibattimento, sul consenso delle parti, anche tutte le dichiarazioni rese dai condomini di via Sirillo, su tre temi di prova:

1) se i luoghi subivano o meno delle modifiche, dal luglio 1992, come affermato da Pietrina Valenti e negato da Salvatore Candura (fatta eccezione, secondo quanto dichiarato da quest’ultimo, per due archi in ferro, messi per ostruire la marcia di possibili autovetture, nel vicolo cieco d’accesso al portone condominiale);

2) se, all’epoca dei fatti, era possibile oppure no posteggiare automobili, per un tempo apprezzabile, nel predetto vicolo cieco, come escluso dalla Valenti ed affermato da Candura, che sosteneva, appunto, d’aver rubato la Fiat 126 proprio da siffatta posizione;

2) se qualche condomino notava il furto della Fiat 126 oppure la presenza di due persone nei pressi della medesima automobile, la sera in cui la stessa veniva asportata (attese le menzionate dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, secondo cui, mentre perpetrava il furto con Tutino, una coppia con due bambini transitava a piedi).

Le circostanze complessivamente desumibili dalle dichiarazioni acquisite agli atti, possono riassumersi (in maniera estremamente sintetica, considerata anche la sopravvenuta confessione, da parte di Salvatore Candura, della falsità delle proprie precedenti dichiarazioni, sul furto della Fiat 126, sotto casa di Pietrina Valenti), come segue. Effettivamente, alla fine del vicolo cieco che conduce al portone dello stabile di via Bartolomeo Sirillo n. 5, successivamente al luglio del 1992, venivano realizzate, da uno dei condomini (Passantino Vincenzo), delle opere (abusive), consistenti nella realizzazione di alcuni gradini, di fronte all’entrata per l’edificio. Detta circostanza, oltre che dal diretto interessato (che operava, come accennato, senza alcun titolo edilizio, per cui non esistono atti pubblici, per una precisa datazione delle opere), veniva confermata anche dagli altri condomini (tutti collocavano tali opere, all’incirca, negli anni 2000-2005). Inoltre, pure i paletti per impedire l’accesso al cortile prospiciente al portone d’ingresso, venivano collocati in epoca più recente, rispetto al luglio 1992 (verosimilmente, dopo l’anno 2003). Lo stesso vale per le fioriere poste nel cortile/parcheggio dello stabile, a ridosso dell’edificio condominiale, collocate nella stessa epoca dei paletti. Quanto alla possibilità di posteggiare, all’epoca dei fatti, nel vicolo cieco che conduce al portone d’ingresso condominiale, le dichiarazioni dei condomini non erano del tutto univoche: molti evidenziavano che, prima dell’installazione dei paletti, le automobili venivano parcheggiate fin davanti al portone dello stabile, ma solo per soste brevi (come per scaricare merci o per la pausa pranzo); tuttavia, la collocazione degli ostacoli si rendeva necessaria proprio per evitare che parcheggiassero lì autovetture che non consentivano l’accesso allo stabile, qualora ve ne fosse stato bisogno, per i mezzi di soccorso; con particolare riferimento alla signora Pietrina Valenti, alcuni condomini dichiaravano che la stessa era solita parcheggiare dal lato delle fioriere; altri ricordavano, genericamente, che la predetta parcheggiava dove trovava posto. Sul punto, Roberto Valenti (confermando, sia pure con qualche titubanza, le indicazioni già fornite in fase d’indagine, anche con la redazione di uno schizzo planimetrico) dichiarava che sua zia Pietrina, abitualmente, posteggiava la Fiat 126 sul lato lungo del cortile, limitrofo all’edificio condominiale, in posizione dove la stessa ne poteva controllare visivamente la presenza, affacciandosi dalle finestre dell’abitazione. Analoghe indicazioni dava Luciano Valenti, che spiegava come la sorella Pietrina era solita posteggiare, sul lato lungo dello stabile di via Sirillo (confermando, anche in tal caso, le indicazioni offerte in uno schizzo planimetrico, redatto di suo pugno, acquisito al fascicolo per il dibattimento); inoltre, quest’ultimo teste chiariva anche quanto dichiarato nel dibattimento del primo processo sulla strage di via D’Amelio: allorquando rispondeva che la Fiat 126 della sorella, prima di esser rubata, veniva posteggiata “sotto la scala” (proprio come sostenuto, all’epoca, da Salvatore Candura), non intendeva indicare (in senso letterale) proprio l’ingresso dello stabile. Peraltro, anche Salvatore Candura, allorché (nell’interrogatorio reso il 10.3.2009, acquisito al fascicolo per il dibattimento, col consenso delle parti e riportato in nota) decideva di ammettere (innanzi all’evidenza) la falsità delle sue precedenti dichiarazioni in merito al furto della Fiat 126, dichiarava (fornendo una versione, comunque, da prendere con le dovute cautele) che l’automobile della Valenti era posteggiata dalla parte delle fioriere (anch’egli redigendo uno schizzo planimetrico, allegato al verbale), riferendo che la vedeva parcheggiata lì, nella stessa sera in cui veniva, poi, asportata (poiché, a suo dire, quella sera, si recava effettivamente a casa di Pietrina, per farle visita) e che, durante il sopralluogo indicava agli inquirenti, volutamente, un posto sbagliato per lanciare loro un segnale sulla falsità delle proprie dichiarazioni (delle quali avrebbe sempre avvertito il peso). Anche in dibattimento, Candura confermava tali indicazioni. […] Infine, si deve dare atto (più che altro per completezza d’esposizione) che anche Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, dopo aver confessato -entrambi- la falsità delle loro precedenti dichiarazioni su questi fatti, tornavano sui loro passi anche sul punto specifico, spiegando che la Fiat 126 di Pietrina Valenti non si poteva affatto rubare con lo “spadino”. Vincenzo Scarantino, nel corso di un interrogatorio (acquisito al fascicolo per il dibattimento), ammetteva di aver adeguato le sue dichiarazioni alla versione di Candura circa l’utilizzo dello “spadino” per rubare la Fiat 126 della Valenti, spiegando che solo i modelli più “antichi” di detta automobile potevano essere rubati con tale arnese, mentre quelle “di 'a secunna serie in poi con uno spadino non si apre”, confermando così la versione di Agostino Trombetta e quella di Gaspare Spatuzza. Anche Salvatore Candura ammetteva che quel modello di Fiat 126 in uso a Pietrina Valenti si poteva mettere in moto solo rompendo il bloccasterzo e collegando i fili d’accensione, spiegando addirittura (ma la circostanza deve esser valutata con il beneficio dell’inventario) che, al momento della sua falsa collaborazione, dichiarava volutamente che lui utilizzava un “chiavino”, anche se ciò era un “controsenso” (così come, a suo dire, lo era pure la circostanza di avere utilizzato il medesimo attrezzo anche per aprire la portiera, poiché quella macchina si poteva aprire pure con la “chiave Simmenthal”), al fine di lanciare dei segnali agli inquirenti […]. (pagg 1220-1240)

I Graviano e le accuse di Fabio Tranchina. La Repubblica il 12 luglio 2019. Più in generale, le dichiarazioni di Fabio Tranchina, che, curando in quel periodo la latitanza del capo mandamento di Brancaccio, aveva un punto d’osservazione privilegiato su quello che accadeva in Cosa nostra, assumono notevole rilevanza nella misura in cui evidenziano la partecipazione diretta di Giuseppe Graviano alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio, ponendosi in linea con la ricostruzione operata da Gaspare Spatuzza che, in maniera più marcata rispetto a quanto emerso dai precedenti processi (basati anche sulla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino), sposta l’accento sul gruppo di Brancaccio in relazione alla gestione di un rilevante segmento della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato del 19 luglio 1992. […] Tranchina spiegava che - all’epoca dei fatti - abitava a Borgo Ulivia, nel rione Falsomiele di Palermo, con i suoi genitori, e che questi ultimi, come ogni estate, dalla metà del mese di giugno e fino ai primi giorni di settembre del 1992, si trasferivano nella casa di villeggiatura a Carini. In tale arco di tempo, rimanendo la casa vuota, egli la metteva a disposizione di Giuseppe Graviano […], affinché questi vi trascorresse la sua latitanza (il quartiere, peraltro, è ubicato a poca distanza da quello di Brancaccio e, dunque, era in un’ottima posizione affinché il capo mandamento continuasse a curare i propri interessi ed a mantenere i contatti coi sodali). Tranchina ricordava che, tra le varie persone che Giuseppe Graviano incontrava, in quel periodo estivo, all’interno della sua abitazione, c’era anche Gaspare Spatuzza […]. Tranchina riferiva anche di aver accompagnato Giuseppe Graviano, nel corso dell’anno 1992, sia prima che dopo la strage di Capaci, a Palermo, in via Tranchina, nel luogo che, come apprendeva dopo la cattura di Riina, era l’abituale punto di ritrovo tra il capomafia di Corleone ed il capo mandamento di Brancaccio. In particolare, proprio la mattina del giorno in cui veniva poi catturato Riina (o, come diceva la sorellina di Tranchina, veniva “arrestata Cosa nostra”), il collaboratore accompagnava Giuseppe Graviano nel locale di via Tranchina e, dopo aver sentito la notizia dell’arresto del boss corleonese, veniva poi contattato da Cristofaro Cannella che gli diceva di star tranquillo per Giuseppe Graviano, perché questi era con lui. Successivamente, Giuseppe Graviano commentava col Tranchina l’arresto di Riina, dicendo che potevano dirsi “tutti figli di 'stu cristianu” e che, certamente, la sua cattura non era dovuta a delle microspie piazzate nel magazzino di via Tranchina, poiché -in tal caso- avrebbero fatto il blitz in detto locale, dove vi erano talmente tanti soldi “che noi ci potevamo comprare la Sicilia” […]. In particolare, in due diverse circostanze, entrambe nel mese di luglio 1992, proprio lungo il tragitto di ritorno dal magazzino di via Tranchina verso l’abitazione di Borgo Ulivia, Giuseppe Graviano chiedeva a Fabio Tranchina di cambiare il consueto percorso, appositamente per accedere in via D’Amelio. Il primo di tali sopralluoghi, nella prima settimana di luglio, avveniva quando ancora era giorno ed era Graviano ad indicare al Tranchina di imboccare la via D’Amelio, fare il giro della strada ed uscire dalla stessa, senza arrestare la marcia. Il secondo accesso, invece, avveniva nella settimana precedente all’attentato, dopo il tramonto: in quell’occasione c’era anche Cristofaro Cannella, che li precedeva, a bordo della sua autovettura Audi 80, e Graviano raccomandava a Tranchina di non arrestare la marcia perché quella era una zona che “scottava”. Vale la pena di evidenziare come queste indicazioni di Fabio Tranchina in merito ai due sopralluoghi in via D’Amelio con Giuseppe Graviano, oltre ad esser perfettamente compatibili con i dati oggettivi del tabulato dell’utenza mobile di quest’ultimo, si compongano armonicamente con le indicazioni fornite da Spatuzza, sia in ordine al furto della Fiat 126, che ai successivi incontri con il capo mandamento, proprio nella casa messa a disposizione da Tranchina, con la raccomandazione (nel primo incontro) di rifare i freni dell’automobile e le direttive (nel secondo incontro) sulle modalità con cui rubare le targhe. Detti incontri, infatti, sono (come già detto) ragionevolmente collocabili, anche alla luce dei predetti dati di traffico telefonico dell’utenza di Giuseppe Graviano, rispettivamente, nella prima settimana del mese di luglio (prima dell’allontanamento di Graviano dalla Sicilia, nel pomeriggio del 7 luglio 1992) ed in quella precedente all’attentato di via D’Amelio (dopo il rientro a Palermo del boss, la mattina del 14 luglio 1992). Si riporta, ancora una volta, uno stralcio delle dichiarazioni rese da Fabio Tranchina, sul punto:

[...] P. M. LUCIANI - Scusi se la interrompo, la pregherei di essere estremamente dettagliato su queste circostanze.

TRANCHINA - Sì. Ricordo che ci fu una prima volta, e questo fu esattamente la prima settimana di Luglio del 1992, che Giuseppe quando uscendo da questo appuntamento mi chiese, che ero in macchina con lui ovviamente, io poco fa quando ho detto me ne andavo prendevo via Ugo La Malfa, Viale Regione Siciliana intendevo quando lasciavo lui e me ne andavo solo. Questo invece quando io poi lo andavo a prendere è successo in un paio di occasioni, uno siamo nella prima settimana di Luglio che usciamo da, cioè io lo vado a prendere in questo appuntamento in via Tranchina e Giuseppe Graviano mi dice di fare, abbiamo fatto una strada insolita, diciamo, siamo scesi dalla parte interna, Viale Strasburgo, una cosa dentro dentro, comunque gira di qua, gira a destra, vai avanti mi porta in via D'Amelia. Arrivato in via D'Amelio lui mi disse: "Entra di qua, entra proprio in via D'Amelio - Perché la via D'Amelio è una strada che non spunta perché c'è un muro là di fronte - fai il giro rallenta però non ti fermare". Quindi abbiamo fatto il giro proprio a ferro di cavallo e siamo andati via. E questa è la prima volta che mi fa passare da Via D'Amelio. Poi praticamente avviene una seconda volta, sempre un'altra volta che io sono andato a prendere il Graviano che l'avevo lasciato la mattina, quando lui finiva l'appuntamento lo andai a prendere e quindi si era fatto un po' più tardi, perché sono state due volte questi passaggi in via D'Amelio, una volta era buio e una volta era giorno, credo che la seconda volta fosse buio, io lo andai di nuovo a prendere in questo appuntamento in via Tranchina che lui aveva e ci recammo di nuovo...

AVV. - Signor Tranchina ci può dire quando fu la seconda volta?

TRANCHINA - Siamo proprio nella settimana che precede la strage di Via D'Amelio. Però questa volta davanti a noi c'è Fifetto Cannella con la sua macchina. Stessa cosa, siamo arrivati in via D'Amelio, però ho omesso un particolare dottore, che dopo il primo sopralluogo che facciamo in via D'Amelio Giuseppe mi chiede se io gli avrei potuto trovare un appartamento in via D'Amelio. Dice: "Fabio, mi serve un appartamento qua". Gli ho detto: "Qua dove?" - "Qua", proprio mentre eravamo in via D'Amelio mi disse: "Qua mi serve un appartamento, vedi se riesci ad affittarmi un appartamento, però non te ne andare alle Agenzie, non dare documenti, vedi se lo trovi casomai se vogliono pagato sei mesi, pure un anno di affitto anticipato glielo paghi, l'importante che non contatti agenzie. Privatamente". […] Al che Giuseppe Graviano, proprio nell'occasione del secondo sopralluogo mi chiese: "Fabio, ma l'hai trovato l'appartamento?". Io in verità neanche l'avevo cercato, signor Presidente, perché per le modalità in cui lui mi aveva chiesto di cercarlo, non ti fare contratto d'affitto, non te ne andare dalle agenzie, non contattare nessuno, non dare documenti, io ho detto ma dove vado? Cioè come faccio io a trovare una casa in questi termini, con queste richieste? E gli disse: "Giuseppe, no, non l'ho trovata". Perché lui mi chiese: "Ma l'hai trovata?". Ho detto: "No, sinceramente non ho trovato niente". E lui aggiunse un particolare perché mi disse che precedentemente questo compito lo aveva dato a Giorgio Pizzo. Dice: "Fabio, glielo avevo detto a Giorgio Pizzo di trovarmi una casa qua però non me l'ha trovata, vedi se me la trovi tu con quelle modalità che mi chiese". E io gli dissi che non l'avevo trovata. A quel punto gli scappa dalla bocca, dice: "Va bene, non ti preoccupare - lo dico in siciliano signor Presidente e poi lo traduco perché... Giuseppe mi disse, alla mia risposta negativa che non avevo trovato la casa: "va bene non ti preoccupare addubbunnu iardinu (pare dica)". Che tradotto sarebbe: "Mi arrangio nel giardino". Cioè una cosa del genere. E io fino là, addubbunnu iardinu non è che... Va beh l'ha detto, però nel momento in cui succedono i fatti signor Presidente, io ho realizzato che in via D'Amelio dove c'era il muretto, perché la via D'Amelio è una strada che non spunta, c'è un muro dietro c'è un giardino. E poi... […].

Le dichiarazioni di Tranchina, poc’anzi riportate, oltre a confermare l’attendibilità di quelle rese da Gaspare Spatuzza, aprono anche significativi spiragli circa il soggetto che azionò il telecomando in via D’Amelio ed in ordine al luogo dove era appostato il commando (od almeno, una parte del commando) che attendeva l’arrivo del dott. Paolo Borsellino, presso l’abitazione dove si trovava sua madre. Infatti, in occasione del primo sopralluogo, Giuseppe Graviano chiedeva a Tranchina di procurargli un appartamento proprio in via D’Amelio, raccomandandogli di non rivolgersi alle agenzie immobiliari, né di stipulare contratti e di pagare in contanti (dicendo anche che la stessa richiesta, già fatta a Giorgio Pizzo, non veniva soddisfatta). Tranchina, tuttavia, non si attivava particolarmente, attesa la prevedibile difficoltà che avrebbe incontrato per assolvere siffatto compito, in ragione delle modalità indicategli, sicché, al momento del secondo sopralluogo in via D’Amelio, quando il capo mandamento tornava sull’argomento, Tranchina gli faceva presente che non aveva trovato alcun immobile. La secca risposta di Giuseppe Graviano (“va bé addubbo ne iardinu”), da un lato, rende palese che la sua richiesta non era certamente volta a reperire un appartamento dove trascorrere la latitanza e, dall’altro lato, fornisce una indicazione circa il possibile luogo da cui gli attentatori azionavano il telecomando che provocava la micidiale esplosione (la via D’Amelio, infatti, è a fondo chiuso e termina con un muro, dietro al quale c’è, appunto, un agrumeto), tenuto anche conto di quanto rivelato da Giovan Battista Ferrante, in merito al commento di Salvatore Biondino che (durante il macabro brindisi di festeggiamento), diceva che “le uniche persone che potevano avere delle conseguenze era chi stava dietro il muro, vicino al muro, a chi poteva succedere qualcosa, perché essendo vicino al posto, dove era successa l'esplosione, gli poteva accadere il muro addosso”. […]

GIUDICE – Senta una cosa, Lei ha detto che ci fu quel commento di questo Graviano, “Hai visto ca na spirugliamu?”, questo dopo via D’Amelio, no? Ma dopo Capaci ci furono commenti di questo genere all’interno dell’organizzazione?

IMPUTATO TRANCHINA – No.

GIUDICE – C’era un’aria, come dire, di obiettivo raggiunto, di successo conseguito?

IMPUTATO TRANCHINA – Come commenti, diciamo, di quel genere no, però mi ricordo che un giorno vedendo Filippo Graviano era come a quello che cercava di giustificare quanto era successo, con riferimento parlando a Capaci, perché diceva: “Ma lo sai, io parlando con le persone mi hanno detto «intanto non è successo niente, che non è morta neanche una persona estranea al fatto», sono cose che si muore in tanti modi, può capitare di tutto”. Cioè lui cercava di giustificare come se la gente non condannava il gesto. Cioè questa cosa mi restò impressa. Cioè lui non stava parlando proprio con me esplicitamente, eravamo più di una persona, diciamo, là, e mi ricordo pure che eravamo alla zona industriale, in dei capannoni che avevano acquistato da un fallimento, e lui fece questo commento. Come a volere... come se la gente giustificava questo gesto folle che era stato commesso.

GIUDICE – O come se lui si volesse giustificare davanti alla gente che non lo capiva.

IMPUTATO TRANCHINA – Sì, “la gente non ci condanna”. Io poi mi vedevo il telegiornale e dicevo: ma mi sa mi sa che un po’ qua Filippo le cose non le vede tanto bene, perché la risposta della gente c’è stata, eccome. (pagg  1336- 1402)

Un summit che non c'è mai stato. La Repubblica il 15 luglio 2019. Allo stesso modo, non veniva ritenuta credibile nemmeno la parte del racconto di Andriotta, in cui questi si adeguava alla narrazione, sopravvenuta, della fonte primaria. Emblematico, a tal proposito, quanto affermato da Andriotta proprio sulla riunione che si teneva nella villa di Giuseppe Calascibetta, di cui egli riferiva (come già accennato), esclusivamente, dopo la collaborazione di Scarantino, senza averne mai accennato in precedenza. Andriotta, nel corso dell’esame testimoniale, specificava di aver parlato, per la prima volta, della predetta riunione, ai magistrati inquirenti, nel settembre 1994, perché -prima d’allora- aveva paura di fare dette rivelazioni. La sopravvenuta collaborazione del compagno di cella, poi, lo induceva (a suo dire) a riferire anche della predetta riunione, in quanto, diversamente, avrebbe perso di credibilità. Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della motivazione di tale sentenza d’appello del primo processo sui fatti di via D’Amelio: Andriotta Francesco, ha, dunque, dichiarato di avere, per la prima volta, parlato della riunione dopo avere saputo che Scarantino Vincenzo aveva iniziato a collaborare con lo Stato, essendosi allora preoccupato di perdere la sua credibilità se ne avesse parlato lo Scarantino. Egli ha aggiunto che non ne aveva parlato prima per paura e, perché, narrando la riunione, sarebbe stato “fin troppo attendibile”; non credeva invece che le sue accuse contro Scarantino Vincenzo e Profeta Salvatore - prima della collaborazione dello Scarantino - avrebbero potuto portare alla condanna delle persone chiamate in reità (vedi anche, supra, pag. 397). Andriotta Francesco ha, quindi, riferito di avere saputo da Scarantino Vincenzo, durante la comune detenzione nel carcere di Busto Arsizio, che la riunione era stata tenuta “in campagna, all'aperto, in una casa pubblica, privata” e che vi avevano partecipato Riina Salvatore, Aglieri Pietro, Cancemi, La Barbera e “La Mattia, Matteo o Mattia” e, forse, Profeta Salvatore; non ricordava, inoltre, se avessero preso parte alla riunione Biondino e Cosimo Vernengo dei quali lo Scarantino gli aveva, comunque, detto che avevano partecipato alla strage. Conviene riportare testualmente il brano delverbale dell'udienza del 16.10.1997, relativo alla testimonianza resa dall'Andriotta sulla riunione e su coloro che vi avrebbero preso parte (cfr. pag. 144 - 148).

Domanda Ecco, cos'ha saputo lei da Scarantino Vincenzo.... se ha saputo qualcosaa proposito di riunioni, incontri relativi alla strage?

Risposta Sì, sì. Sì, lui mi disse che ci fu questa riunione, però ora io non mi ricordo bene se fu in campagna, all'aperto, in una casa pubblica, privata; questo non glielo so dire. Mi dispiace, questo non glielo so dire nemmeno oggi. E mi disse che parteciparono dei personaggi grossi: Pietro Aglieri, Salvatore Riina e lo stesso Cancemi e La Barbera, mi disse. Questo io mi ricordo. Salvatore Profeta io non mi ricordo se era presente.

Il collaboratore ha così proseguito:

Domanda Quindi lei ricorda che Scarantino le fece i nomi di Aglieri, Riina, Cancemi e La Barbera?

Risposta Sì, sì.

Domanda Ricorda se le fece qualche altro nome, oppure le fece il nome soltanto di queste quattro persone?

Risposta No, mi sembra che c'era pure 'sto La Mania ... Matteo ... Mania:, non mi ricordo bene, dottore. Comunque mi fece dei nomi. Ecco che io so che Cosimo Vernengo è partecipante della strage ..l 'ho già detto nel primo grado di via D'Amelio e lo ripeto ancora oggi perché devo dirlo.

E ancora, su domanda del Pubblico Ministero:

Domanda Lei ricorda se fu fatto in qualche modo, e ci dica lei eventualmente per quali fatti, il nome di tale Biondino?

Risposta Ah, sì, Salvatore Biondino, però mi disse che era partecipe alla strage, ma non sono sicuro se partecipò anche lui ...ancora oggi non sono sicuro se mi disse che lui era partecipe alla riunione, oppure no...

Domanda Quindi lei ci sta dicendo: “Ricordo che mi disse che alla riunione avevano partecipato Cancemi, La Barbera, Riina e Aglieri”... mentre di Vernengo e Biondino ci dice: “Mi ha detto Scarantino che hanno partecipato alla strage”. Abbiamo capito bene ?

Risposta Sì. Però che erano presenti alla riunione non credo... non melo ricordo. Non credo che forse me l 'ha detto o no, non lo so.

Domanda A proposito del Cancemi, Scarantino le aggiunse qualche particolare, le specificò ...?

Risposta Sì, perché Scarantino era fuori da questa abitazione. Poi fu chiamato ed è entrato dentro, dove c'erano tutti questi grossi personaggi, e disse che Cancemi espresse parere praticamente... era... non consenziente, va', a questa strage. Questo è vero. Questo mi disse ... e c'erano altri, una o due persone, anche loro che avevano espresso un parere non tanto positivo per la strage di via Mariano D’Amelio. Questo me lo ricordo ...

Domanda Lo Scarantino le specificò se Cancemi avesse un qualche ruolo in Cosa Nostra ?

Risposta. Sì, disse che era una persona molto di spicco di Cosa Nostra; era una persona che comandava in Cosa Nostra.

Più avanti, sempre su domanda del Pubblico Ministero:

Domanda E di questo La Barbera del quale ...

Risposta Ah, io scherzosamente, proprio di questo La Barbera, oggi ricordo - perché il dottor Arnaldo La Barbera mi deve ancora perdonare oggi, che... gli dissi: "Ma quale LaBarbera, il poliziotto ?" . Lui mi disse: "No, quale poliziotto. Un altro La Barbera"...

Il 16 Ottobre 1997 Andriotta Francesco ha dunque riferito davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta di avere appreso da Scarantino che ad una riunione sulla strage di via D'Amelio, cui avevano partecipato Riina Salvatore, Pietro Aglieri e, forse, Profeta Salvatore - cioè alla riunione in casa Calascibetta - erano presenti anche il Cancemi e il La Barbera. E di ciò egli si mostrò sicuro perché del Cancemi lo Scarantino gli disse che «era una persona molto di spicco in ‘Cosa Nostra’; una persona che comandava» e che, nel corso della riunione, aveva manifestato il dissenso. Il nome del La Barbera, fattogli dallo Scarantino, gli era rimasto impresso nella memoria, a causa dell'omonimia con il questore Arnaldo La Barbera. Si è, tuttavia, dimostrato nel precedente capitolo che il Cancemi e il La Barbera (al pari del Di Matteo, di Ganci Raffaele e di Brusca Giovanni, quest'ultimo chiamato in correità dallo Scarantino il 25.11.1994) non hanno partecipato alla riunione nella villa del Calascibetta. Si è, inoltre, accertato che la falsa chiamata in correità di Scarantino Vincenzo nei confronti del Cancemi e del La Barbera - al pari di quella nei confronti del Di Matteo e di Ganci Raffaele - fu formulata da Scarantino Vincenzo, per la prima volta, il 6 Settembre 1994. Le false dichiarazioni sono state ricondotte ad una precisa strategia di settori esterni (riconducibili al contesto mafioso palermitano) che hanno interferito nel percorso collaborativo dello Scarantino; strategia rivolta a inquinare deliberatamente le prove e realizzata nell'estate del 1994. Ma anche nell'ipotesi - non ritenuta da questa Corte - di un'autonoma iniziativa dello Scarantino che - nel lanciare false accuse contro soggetti (che collaboravano, con la giustizia) i quali avevano partecipato alla strage di Capaci e che egli riteneva avessero potuto prendere parte anche alla strage di via D'Aurelio - pensava che avrebbero potuto allinearsi alle sue dichiarazioni sulla riunione, è certo che l'idea nacque nel 1994 e dopo i primi interrogatori dello Scarantino che dei collaboratori di giustizia di allora (Cancemi, La Barbera e Di Matteo) non aveva fatto originariamente alcuna menzione. Ne consegue che lo Scarantino non ha potuto riferire all'Andriotta che il Cancemi e il La Barbera erano presenti alla riunione nella villa di Calascibetta Giuseppe, durante il periodo di comune detenzione a Busto Arsizio e, cioè, tra il Giugno e l'Agosto del 1993. Ulteriore conseguenza è che la chiamata in reità, formulata da Andriotta Francesco, quale testimone de relato, nei confronti di Cancemi Salvatore e La Barbera Gioacchino, è una chiamata mendace, nel senso che non corrisponde al vero che Scarantino Vincenzo abbia potuto confidare all’Andriotta nel carcere di Busto Arsizio, parlandogli di una riunione prodromica alla strage di via D'Amellio, che Cancemi e La Barbera avevano partecipato ad una riunione di tal genere.Il mendacio di Andriotta Francesco si desume, inoltre, da un particolare che egli ha introdotto e che ha tratto da informazioni giornalistiche, non avendoglielo potuto riferire Scarantino Vincenzo. Il particolare si riferisce all'autovettura con a quale Riina Salvatore sarebbe stato accompagnato alla riunione. Conviene, al riguardo riportare testualmente il verbale del 16 Ottobre 1997 (vedi, supra, pag. 398 - 399 e cfr. verbale citato, pag. 215 - 216):

Domanda: E allora, signor Andriotta, Scarantino le disse come era arrivato Totò Riina alla riunione di cui ci ha parlato lei questa mattina?

Andriotta: Sì, se io mi ricordo bene, arrivò per ultimo con una Citroen lui mi disse. Se io ricordo bene la macchina era una Citroen. Disse che arrivò per ultimo; prese queste precauzioni, ecco.

Scarantino Vincenzo non avrebbe potuto mai dire ad Andriotta Francesco che Salvatore Riina era arrivato, per ultimo e con una Citroen, avendo egli sempre affermato, sin dal primo interrogatori del 24.giugno 1994, che il Riina era già giunto alla villa del Calascibetta a bordo di una Fiat 126 bianca e non avendo mai fatto riferimento a un Citroen. Andriotta ha indicato quest'ultima autovettura per averne avuto conoscenza dai mezzi di informazione: è un fatto notorio che Salvatore Riina è stato catturato a Palermo nel Gennaio del 1993 mentre viaggiava in compagnia di Salvatore Biondino a bordo di una piccola Citroen. Lo stesso Andriotta, peraltro, ha dichiarato, rispondendo alla domande di un altro difensore, di avere seguito con grande interesse le cronache televisive della cattura di Salvatore Rima ed ha aggiunto di avere così commentato l'arresto del capo di Cosa Nostra: “Va be', dopo 24 anni di latitanza, hanno preso la belva” (cfr. verb. ud. 16.10.1997, pag. 278 - 280). Se, infine, si dovesse ritenere - ipotesi non ritenuta da questa Corte per le considerazioni appena svolte - che effettivamente lo Scarantino abbia parlato all'Andriotta della riunione e della presenza dei collaboratori di giustizia, durante il periodo di detenzione a Busto Arsizio, si dovrebbe necessariamente concludere - posto che è stata raggiunta la prova della loro non partecipazione alla riunione - che lo Scarantino avrebbe raccontato una circostanza non vera. Né, infine, può ipotizzarsi che Scarantino Vincenzo abbia. potuto fare altre confidenze all'Andriotta in epoca successiva a quella della comune detenzione, posto che non risulta che i due collaboratori abbiano avuto successivi contatti e che lo stesso Andriotta, anche se sottoposto al programma di protezione, è rimasto detenuto in carcere. Inoltre, la medesima Corte d’Assise d’Appello del primo processo celebrato per questi fatti, riteneva inattendibili le dichiarazioni di Francesco Andriotta sulle minacce delle quali riferiva (come detto, ai Giudici del processo c.d. Borsellino bis), per le osservazioni di seguito riportate:

“Ritiene la Corte che non corrisponda al vero quanto riferito da Andriotta Francesco sulle minacce che avrebbe subito nel 1997 per le seguenti ragioni:

a)Non trova, innanzitutto, una plausibile spiegazione il suggerimento che, secondo il racconto dell'Andriotta, gli sarebbe stato dato dai due emissari di “Cosa Nostra” - così accorti da conoscere tutti i suoi movimenti e da essere informati anticipatamente anche dei permessi premio di cui avrebbe potuto usufruire - di non dar luogo ad una netta ritrattazione davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta ma soltanto di “traballare” e, cioè, di confermare le precedenti dichiarazioni, limitandosi a mostrare qualche incertezza, e a riservare la ritrattazione - che in ogni caso sarebbe apparsa più debole - ad un successivo ed eventuale esame davanti ai giudici (va, peraltro, rilevato che il 17.9.1997 l'Andriotta non poteva sapere che sarebbe stato chiamato a testimoniare davanti a questa Corte, poiché l'ordinanza ammissiva della relativa prova è stata pronunciata il successivo 26.9.1997).

b) Gli emissari di “Cosa Nostra” non avrebbero mai potuto fissargli un appuntamento per il 14 o il 15 Febbraio 1998 (come narrato dall'Andriotta) poiché non potevano sapere anticipatamente se l'autorità giudiziaria avesse concesso all'Andriotta il permesso premio e quando costui ne avrebbe usufruito. (…) L'Andriotta (…) non ha saputo chiarire come gli emissari di “Cosa Nostra” fossero a conoscenza del fatto che egli avrebbe usufruito del permesso premio il 14 o il 15 Febbraio 1998, se non ricorrendo a una vera e propria petizione di principio: gli emissari sapevano del giorno in cui egli avrebbe goduto del permesso premio perché “loro sapevano tutto”. L'Andriotta non ha potuto dare nessun chiarimento perché nessuno poteva conoscere la decisione che avrebbe adottato l'autorità giudiziaria non a caso il permesso non è stato concesso); neppure gli emissari di “Cosa Nostra” potevano, dunque, conoscere preventivamente il giorno del permesso, non essendo ancora stato emesso dal magistrato di sorveglianza nessun provvedimento.

c)Altrettanto priva di senso logico, ad avviso di questa Corte, è l'indicazione che gli sarebbe stata data nel Dicembre del 1997 - quando già era stato esaminato, come teste, dalla Corte di Assise e non doveva essere più esaminato da questa Corte che aveva acquisito i verbali delle dichiarazioni rese dall'Andriotta nell'altro processo (c.d. "Borsellino bis") - di nominare come propri difensori gli avvocati Scozzola e Petronio, che sono difensori di alcuni imputati nell'uno e nell'altro processo, tanto più se si considera che egli aveva già deposto il 16.10.1997 e, comunque, che, in qualità di teste, non aveva il diritto di essere assistito da un difensore, a meno di non considerare gli ispiratori delle minacce esercitate nei suoi confronti (ispiratori che secondo lo stesso Andriotta “sapevano tutto”) tanto sprovveduti da ignorare che un teste non può essere assistito dal difensore. La nomina, poi, dei difensori degli imputati della strage di via D'Amelio portava immediatamente a classificare l'operazione come una manovra ispirata dagli stessi imputati e a vanificare, dunque, il risultato che essi intendevano conseguire con le minacce rivolte ad Andriotta Francesco per costringerlo a “ritrattare”.

d)È, poi, ragionevole ritenere che chiunque avesse voluto influire sulla testimonianza di Andriotta, si sarebbe limitato a chiedergli che smentisse di avere ricevuto confidenze sulla strage di via D'Amelio nel carcere di Busto Arsizio e gli avrebbe ordinato di dichiarare di avere costruito la sua verità mettendo insieme informazioni carpite a Scarantino Vincenzo, notizie pubblicate sui giornali e voci che circolavano nell'ambiente carcerario (questa è, ad esempio, la tesi sostenuta da Scarantino Vincenzo dopo la sua ritrattazione).

e) È, infine, inspiegabile il motivo per il quale gli emissari di “Cosa Nostra” gli avrebbero ordinato di riferire una circostanza che l'Andriotta non poteva conoscere e, cioè, che Scarantino Vincenzo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti nel carcere di Pianosa: fatto, questo, di cui egli era sicuramente ignaro, essendo stato detenuto con Scarantino nell'estate del 1993, vale a dire, prima del trasferimento di quest'ultimo nel carcere di Pianosa. Non è chiaro per quale ragione Andriotta Francesco abbia raccontato di minacce mai ricevute: l'unica ipotesi che può essere formulata è quella che egli - con l'invio della nomina dei due difensori e con la richiesta di essere esaminato, avanzata ai presidenti delle due Corti innanzi alle quali si svolgevano i due processi per la strage di via D'Amelio - intendesse riallacciare i rapporti con i magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta i quali, come ha dichiarato lo stesso Andriotta, si recarono a trovarlo dopo avere preso conoscenza della nomina degli avvocati Petronio e Scozzola, attesa la singolarità della nomina. Il racconto delle minacce, sotto altro profilo, mirava a rafforzare il ruolo di collaboratore di giustizia dell'Andriotta il quale, proclamandosi vittima di un complotto e di gravissime minacce finalizzate a ottenere la sua “ritrattazione”, poteva sperare di conseguire tutti quei benefici che non gli erano stati ancora concessi. È, però, certo - quale che sia la motivazione dell'Andriotta - che gli elementi, acquisiti in questo processo, portano ad escludere l'esistenza delle minacce da lui denunciate come opera di emissari di “Cosa Nostra”. Ciò influisce negativamente sulla credibilità di Andriotta Francesco poiché dimostra che, per raggiungere i suoi scopi, egli non si è neppure preoccupato di narrare fatti che, nei termini da lui indicati, non hanno trovato il benché minimo riscontro e sono stati contraddetti da altre acquisizioni probatorie.

Possono essere, a questo punto, tratte le conclusioni sulla credibilità del collaboratore di giustizia Andriotta Francesco.

C) CONCLUSIONI.

1. E' stata dimostrata - ad avviso della Corte - non soltanto l'opportunità di comunicazione, all'interno del carcere di Busto Arsizio, ma l'effettività della comunicazione tra Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco e della verosimiglianza delle confidenze tra i due, anche in considerazione del particolare stato d'animo dello Scarantino (vedi, supra, pag. 401 - 404). Non possono, in conseguenza, essere condivisi gli assunti difensivi tendenti a negare, in generale, l'esistenza dei rapporti tra i due collaboratori e le confidenze dello Scarantino al suo compagno di detenzione.

2. Andriotta Francesco, per effetto del ruolo assunto nell'ambito dei procedimenti per la strage di via D'Amelio, ha conseguito taluni benefici che -data la sua condanna definitiva all'ergastolo - non possono essere ritenuti insignificanti. Risulta, infatti, dalle dichiarazioni rese dallo stesso Andriotta nel processo c.d. "Borsellino bis", che egli è stato ammesso il 13 Gennaio 1995 al programma speciale di protezione, per sé e per i propri familiari e che, in conseguenza di tale provvedimento, egli sconta la sua pena in speciali sezioni destinate ai collaboratori di giustizia, gode di permessi premio (in deroga alla normativa in materia che prevede la concessione di questo beneficio, per i condannati all'ergastolo, dopo l'espiazione di dieci anni di pena) e la sua famiglia mensilmente ha ricevuto un modesto contributo finanziario. Risulta, inoltre, che - già nel 1995 - Andriotta Francesco ha presentato la domanda di affidamento in prova al servizio Sociale (misura, in generale, prevista per i condannati che devono scontare pene residue non superiori a tre anni). L'istanza (respinta dal competente Tribunale di Sorveglianza, in ragione della brevità della pena già espiata) è stata riproposta da Andriotta Francesco che, al momento della sua deposizione davanti alla Corte di Assise, era in attesa della decisione dell'autorità giudiziaria. La ricerca di benefici premiali, come già si è osservato, non incide negativamente né sulla spontaneità della scelta di collaborazione né sul requisito del disinteresse (vedi, supra, pag. 405 - 406). L'affannosa ricerca di tali benefici da parte dell'Andriotta - desumibile dalla introduzione, nel corso dell'esame dibattimentale del 16.10.1997 reso nell'ambito del processo "Borsellino bis", di circostanze nuove o di modificazioni delle precedenti dichiarazioni per adeguare la sua deposizione alla narrazione della fonte primaria e dalla narrazione della vicenda relativa alle minacce che avrebbe subito perché “ritrattasse” (vedi, supra, pag. 406 - 418 e 426 - 430) - impone necessariamente una particolare cautela nella valutazione delle dichiarazioni di Andriotta Francesco al fine di stabilire quali circostanze da lui narrate siano state effettivamente apprese da Scarantino Vincenzo e quali siano, invece, patrimonio di altre conoscenze e riferite all'autorità giudiziaria per conseguire dei benefici. L'unico criterio valido per eseguire questo accertamento - come si è già osservato - è dato dalla coerenza e dalla costanza delle sue dichiarazioni (vedi supra, pag. 418 - 419).

3.Devono, in applicazione del criterio enunciato, essere ritenute inattendibili, come già si è rilevato, le parti della narrazione in cui sono contenute circostanze del tutto nuove o elementi aggiuntivi con i quali il collaboratore ha sostanzialmente modificato il suo racconto per adeguarlo alla narrazione della fonte primaria. Devono, inoltre, essere ritenuti inattendibili - attesa la complessiva modesta attendibilità di Andriotta Francesco - le dichiarazioni in cui il teste è incorso in contraddizioni delle quali non ha saputo fornire una plausibile giustificazione.

4. Nell'ambito delle dichiarazioni che presentino i requisiti della coerenza e della costanza tanto più il collaboratore deve essere ritenuto attendibile quanto più è da escludere che egli abbia attinto le sue conoscenze non dal suo confidente (Scarantino Vincenzo) ma da altre fonti. L’originalità del racconto - rispetto a fonti diverse da quella costituita dalle confidenze di Scarantino Vincenzo - è il criterio che deve essere seguito (e a questo criterio si è attenuta la Corte) per escludere che il teste abbia potuto riferire circostanze apprese da fonti di informazione diverse da quelle del suo confidente. Ne consegue che l'attendibilità delle dichiarazioni di Andriotta Francesco è tanto più alta quanto più le circostanze da lui narrate non erano altrimenti conoscibili se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (erano, cioè, circostanze nuove e mai diffuse da organi di informazione); l'attendibilità è, invece, più bassa quando il racconto di Andriotta Francesco può essere fondato su fonti diverse dalle confidenze di Scarantino Vincenzo. Deve, in applicazione di questo criterio, essere riconosciuto un alto grado di attendibilità intrinseca alle parti del discorso narrativo dell'Andriotta sul ruolo di Profeta Salvatore, poiché ciò che è stato narrato dal teste non era altrimenti da lui conoscibile se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (nessun organo di informazione aveva parlato del coinvolgimento nella strage di Profeta Salvatore e del ruolo che, secondo il racconto di Andriotta, sarebbe stato svolto dall'imputato). Nel caso in cui le dichiarazioni dell'Andriotta possano - astrattamente - essere ricondotte a fonti diverse dal suo confidente (il ragionamento si riferisce alla posizione degli imputati Orofino Giuseppe e Scotto Pietro che furono arrestati prima dell'inizio della collaborazione dell'Andriotta e dei quali erano note le imputazioni) occorre fare riferimento al criterio della precisione e della ricchezza di dettagli, per accertare se quanto riferito dall'Andriotta non era altrimenti conoscibile da lui se non attraverso le confidenze di Scarantino Vmcenzo e, quindi, potere escludere una fonte di conoscenza diversa da parte di Andriotta Francesco.

5. Va, infine, precisato che - ai fini dell’attendibilità dei due collaboratori di giustizia (Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco) - può essere riconosciuta attendibilità alle loro dichiarazioni, nei limiti della loro reciproca convergenza, a meno che non sia provato il mendacio di uno dei collaboratori. Si deve, peraltro, precisare che, ad avviso della Corte, sussiste convergenza tra le due dichiarazioni anche nel caso in cui per il racconto del teste de relato - che contenga elementi diversi rispetto alla sua fonte di conoscenza - possa essere formulato il giudizio logico di implicazione rispetto alla narrazione della fonte primaria. Tale convergenza - come si vedrà nei successivi capitoli - è stata riconosciuta relativamente alla posizione dell'imputato Profeta Salvatore ma non in quelle degli altri due imputati di questo processo”.

In conclusione, secondo i Giudici d’Appello del primo processo, residuava l’attendibilità ‘frazionata’ di Francesco Andriotta per tutte le dichiarazioni rese prima della sopravvenuta collaborazione di Vincenzo Scarantino, purché dotate dei requisiti della costanza e coerenza. Detta attendibilità, pertanto, veniva ritenuta in riferimento alle (asserite) confidenze carcerarie di Scarantino, relative al furto dell’autovettura utilizzata per la strage, al luogo di caricamento dell’esplosivo sulla Fiat 126 (la porcilaia ed il garage di Giuseppe Orofino), alla presenza di Salvatore Profeta al momento dell’arrivo o del prelievo dell’esplosivo dalla porcilaia, nonché alla sostituzione delle targhe effettuata nel garage di Orofino, all’indicazione di Scotto e così via. Invece, ogni ulteriore dichiarazione di Andriotta su altre confidenze ricevute, in carcere, da Scarantino, doveva ritenersi inattendibile, poiché esclusivamente finalizzata ad ottenere dei benefici per la propria collaborazione. Ben diverse erano le valutazioni sulla credibilità di Andriotta, da parte dei giudici dell’appello del secondo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino bis), i quali ritenevano integralmente attendibile l’apporto del ‘collaboratore’ di giustizia Andriotta. Nella sentenza, alla cui lettura integrale si rimanda (anche per economia di motivazione), nell’ampia parte dedicata alla collaborazione di Vincenzo Scarantino ed alla sua attendibilità intrinseca, si argomenta (in ben 65 pagine) in termini di “integrale valorizzabilità” delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, “con riferimento a tutti i segmenti del racconto di Scarantino”, vale a dire, oltre al furto dell’autobomba ed al caricamento della stessa, anche la riunione precedente la strage (“le soli reali novità che Andriotta apporta alle sue originarie dichiarazioni dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino”). Secondo i giudici d’appello del secondo troncone del processo per la strage di via D’Amelio, “la testimonianza di Andriotta si presenta per ogni suo aspetto attendibile e per i tempi, modi e circostanze in cui è stata resa e per i riscontri esterni che ha ricevuto (…) essa è stata giustamente ritenuta attendibile dai giudici di primo grado nelle parti concernenti le dichiarazioni rese prima dell’inizio della collaborazione di Scarantino”. Ma anche nella parte relativa alla riunione di Villa Calascibetta (come anticipato), la conclusione dei giudici d’appello non mutava (discostandosi da quella del primo grado), giacché il ritardo in tali dichiarazioni veniva giustificato da Andriotta, in maniera ritenuta plausibile, per il timore di sovraesporsi nei confronti di esponenti di primo piano di Cosa Nostra e per la necessità di non apparire reticente, dopo l’avvio della collaborazione di Scarantino. Grande rilievo, poi, veniva dato nella medesima pronuncia, anche al tentativo d’indurre alla ritrattazione Andriotta, da parte di emissari di Cosa Nostra, anch’esso ritenuto ampiamente riscontrato e pienamente credibile, con “singolari analogie con le modalità con le quali è stata realizzata la ritrattazione di Scarantino”: “la conferma delle minacce e dei tentativi di induzione alla ritrattazione che Andriotta ha subito influiscono positivamente sull’attendibilità complessiva dello stesso e in definitiva sull’attendibilità di Scarantino che l’attendibilità di Andriotta sorregge”. In sintesi, il contributo probatorio di Francesco Andriotta nel processo d’appello c.d. Borsellino bis, veniva valutato di “rilevanza decisiva nell’economia della prova”, vale a dire “un riscontro fondamentale a sostegno dell’attendibilità intrinseca di Vincenzo Scarantino il cui racconto su tutti i segmenti dell’azione dallo stesso descritti erano stati puntualmente descritti e anticipati nelle linee essenziali all’Andriotta, in un momento in cui Scarantino era ancora un mafioso a pieno titolo, sia pure in crisi, e non aveva affatto deciso ancora, anche se l’ipotesi gli balenava da tempo nella mente, di pentirsi”. Nella ricostruzione (necessariamente sintetica) delle valutazioni effettuate dai Giudici che ebbero a pronunciarsi nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, non si riportano quelle effettuate nell’ambito del processo c.d. Borsellino ter, non utili per l’analisi della posizione di Andriotta, rispetto alla calunnia, aggravata e continuata, della quale risponde in questa sede. Si passerà -di seguito- ad analizzare le dichiarazioni rese da Andriotta nell’ambito dell’odierno procedimento (sia nella fase dibattimentale, che in quella delle indagini preliminari).

Il testimone “imbeccato” a dovere. La Repubblica il 16 luglio 2019. Si devono ora analizzare le dichiarazioni rese da Francesco Andriotta nell’ambito dell’odierno dibattimento, anche rispetto a quelle rese negli interrogatori espletati in fase d’indagine preliminare (come detto, acquisite al fascicolo per il dibattimento col consenso delle parti). In primo luogo, Andriotta spiegava che veniva collocato nel carcere di Busto Arsizio, nell’estate del 1993, su sua richiesta. Dopo l’allocazione nella cella accanto a quella di Vincenzo Scarantino, che si era sempre protestato estraneo ai fatti di via D’Amelio (“Io devo ribadire che Scarantino ha sempre ribadito che era innocente”), riceveva una visita da parte del dottor Arnaldo La Barbera e dal dottor Vincenzo Ricciardi. Tale visita “importante” gli veniva anche preannunciata dal comandante della polizia penitenziaria di quel carcere. La richiesta degli inquirenti era quella di collaborare con la giustizia, sui fatti di via D’Amelio. Andriotta faceva subito presente che non sapeva alcunché della strage e gli inquirenti gli spiegavano che volevano “incastrare” e mettere con le “spalle al muro” Vincenzo Scarantino, inducendolo a collaborare, poiché erano assolutamente certi del suo coinvolgimento nell’eccidio del 19 luglio 1992. In cambio, venivano prospettati ad Andriotta, all’epoca condannato all’ergastolo con sentenza di primo grado (non ancora definitiva), benefici come il programma di protezione, per lui e la famiglia (negli Stati Uniti d’America) e la riduzione della pena perpetua con una temporanea (di diciassette o diciotto anni di reclusione). Contestualmente, gli veniva accennato, da parte di Arnaldo La Barbera, il contenuto delle dichiarazioni che doveva rendere in merito al furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio ed i nomi dei soggetti che doveva chiamare in causa per quella strage. Di fronte alle resistenze di Andriotta, il dottor Arnaldo La Barbera lo invitava a prender tempo ed a rifletterci meglio, anche se non per troppo tempo, perché in carcere “si può sempre scivolare e rimanere per terra”, mentre il dottor Vincenzo Ricciardi dava un buffetto sulla guancia di Andriotta, invitandolo ad ascoltare il collega e dicendogli che lo avrebbero aiutato e sostenuto. Sulla persona che accompagnava, in detta occasione, Arnaldo La Barbera, Andriotta spiegava (senza alcuna esitazione od incertezza) che si trattava proprio di Vincenzo Ricciardi e che detto ricordo gli affiorava gradualmente(effettivamente, l’imputato ne riferiva già in fase d’indagine preliminare). L’imputato non ricordava se, prima di fargli la suddetta proposta di rendere le false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, i due funzionari di polizia gli prospettavano anche la possibilità di divenire un loro informatore. A tal proposito, Andriotta (dietro precisa indicazione di Arnaldo La Barbera) rifiutava, anche dopo l’avvio della sua falsa collaborazione, quanto prospettatogli dal Pubblico Ministero con cui rendeva i primi interrogatori (la dott.ssa Ilda Boccassini), vale a dire di ritornare in carcere a Busto Arsizio, per registrare le sue conversazioni con Scarantino, accampando, timori per la propria incolumità personale, in caso di ritorno in quell’istituto da "collaboratore". In epoca successiva rispetto alla visita carceraria di Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, quando ancora non aveva accettato la loro proposta, Andriotta veniva prelevato dalla cella, di notte, e portato nel cortile del passeggio (analogamente a Vincenzo Scarantino), dove veniva minacciato da un giovane agente di polizia penitenziaria, con accento palermitano, che lo sollecitava “a dire le cose come ti hanno riferito”, perché Scarantino era colpevole. L’agente della penitenziaria, inoltre, gli metteva un foulard, a mo’ di cappio, attorno al collo (quest’ultimo particolare, comunque, già dichiarato dall’imputato anche nell’interrogatorio del 17.7.2009, veniva confermato al dibattimento dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Analogo trattamento veniva riservato a Scarantino, come Andriotta poteva udire in carcere (quella stessa notte, oppure in un’altra occasione). Anche in altre circostanze, Andriotta, sentiva che Scarantino urlava, perché sottoposto a maltrattamenti, nel carcere di Busto Arsizio; il compagno di detenzione gli confidava poi che i maltrattamenti erano da parte di Arnaldo La Barbera (anche su tale circostanza, non secondaria e non confermata da Scarantino, l’imputato confermava le sue precedenti dichiarazioni soltanto dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Scarantino raccontava ad Andriotta che gli facevano mangiare cibo contenente urina e che non lo curavano adeguatamente, quando stava male. Andriotta, su indicazione di Arnaldo La Barbera, parlava a Scarantino della morte in carcere di Nino Gioè, per fargli pressione psicologica, cercando d’incutergli tensione e paura (detta circostanza, peraltro, veniva negata da Andriotta, nel confronto pre-dibattimentale con Vincenzo Scarantino). Andriotta decideva, poi (non è affatto chiaro in quale momento e, soprattutto, in che modo), d’accettare le proposte ricevute dai predetti funzionari, dopo aver riflettuto sul colloquio con Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, e chiedeva d’essere interrogato dalla dott.ssa Zanetti della Procura di Milano (vale a dire il Pubblico Ministero del processo per omicidio, a suo carico) sulle vicende che lo riguardavano direttamente, per far presente, in un secondo momento, come suggeritogli da Arnaldo La Barbera, che era in condizione di riferire anche circostanze utili alle indagini sulla strage di via Mariano D’Amelio. Ancora, Andriotta parlava di un successivo incontro avvenuto alla Procura di Milano, dopo aver sostenuto un primo interrogatorio (con la dott.ssa Zanetti) sull’omicidio del quale era accusato e prima d’essere ascoltato dalla dott.ssa Boccassini, proprio in relazione alle conoscenze millantate sulla strage di via D’Amelio. In quell’occasione, Andriotta conosceva anche Salvatore La Barbera, che entrava, seguito da Vincenzo Ricciardi, nella stanza dove l’imputato attendeva d’essere condotto davanti al magistrato. L’imputato inoltre confermava (dopo la contestazione di quanto dichiarato nella fase delle indagini) la presenza di Arnaldo La Barbera (detta presenza, comunque, è documentata, in occasione dell’interrogatorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della "collaborazione" di Francesco Andriotta). In tale occasione, Salvatore La Barbera raccomandava ad Andriotta di seguire quello che gli suggeriva Arnaldo La Barbera, che era “il numero uno”, una vera e propria “potenza” ed avrebbe mantenuto le promesse. Quando Andriotta rispondeva che lui non sapeva alcunché della strage di via D’Amelio, il funzionario gli strizzava l’occhiolino, dicendo che Scarantino, nel carcere di Busto Arsizio, gli parlava della strage. Inoltre, prima che Andriotta venisse condotto davanti alla dott.ssa Boccassini, Arnaldo La Barbera entrava nella stanza dove l’imputato attendeva e gli spiegava che doveva fare i nomi di Scarantino, Profeta, Orofino e Scotto, come persone coinvolte nella strage di via D’Amelio, in base alle confidenze carcerarie ricevute dal primo, nel carcere di Busto Arsizio.

[…] Il predetto dialogo con i funzionari di polizia, prima dell'atto istruttorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della falsa collaborazione di Francesco Andriotta, non durava a lungo (appena cinque o dieci minuti circa, secondo l’imputato), a fronte di un interrogatorio di ben otto ore (il relativo verbale è composto da oltre diciassette pagine). Sul punto, Andriotta spiegava, in modo assai poco convincente e lineare, poiché molto generico e con dichiarazioni assolutamente inedite prima del dibattimento, che, in precedenza, gli giungevano (neppure è dato sapere se al carcere di Busto Arsizio, oppure in quello di Saluzzo) degli appunti, da parte del dottor Arnaldo La Barbera, con scritto quello che doveva imparare e dichiarare all’autorità giudiziaria. […] L’imputato dichiarava anche d’aver ricevuto, nel corso del tempo, in due o tre occasioni, delle somme di danaro per un totale di circa dieci o dodici milioni di Lire, ulteriori rispetto alle somme accreditategli dal Servizio Centrale di Protezione. Dette somme, a dire di Andriotta, venivano consegnate, in un’occasione, direttamente alla sua ex moglie (Bossi Arianna), da Arnaldo La Barbera e, un’altra volta, invece, nelle sue mani, da Mario Bò, durante un permesso premio (negli interrogatori pre-dibattimentali, invece, Andriotta dichiarava che riceveva, personalmente, in entrambi i casi, le somme in questione per cinque milioni di Lire). L’imputato spiegava poi che non riferiva, in precedenza, che parte di quelle somme venivano ricevute dalla sua ex moglie, perché non voleva coinvolgerla nella sua vicenda processuale. Analoga giustificazione veniva data dall’imputato ad un’altra dichiarazione inedita, relativa alla circostanza che la sua ex convivente, Manacò Concetta, a metà degli anni duemila, sapeva della falsità della sua collaborazione con la giustizia e, in un’occasione, gli sputava persino in faccia per questo motivo, dicendogli che sapeva che tutto quello che lui dichiarava sui fatti di via D’Amelio era falso, perché Scarantino non gli aveva mai fatto quelle confidenze35. Oltre alla predetta vicenda degli appunti, contenenti le dichiarazioni da imparare, in vista dell’avvio della collaborazione, l’imputato confermava che, prima di diversi interrogatori con l’autorità giudiziaria, i funzionari di polizia gli indicavano cosa doveva dichiarare ai Pubblici Ministeri. Ad esempio, prima di un interrogatorio nel carcere di Milano Opera con la dottoressa Boccassini, Andriotta aveva un colloquio con il dottor Arnaldo La Barbera (la circostanza, tuttavia, non risulta affatto riscontrata), così come incontrava il predetto funzionario, nel carcere di Vercelli, prima di un altro interrogatorio (quest’ultima affermazione dell’imputato, invece, è riscontrata: il 17 gennaio 1994, Andriotta veniva interrogato, peraltro, aggiungendo circostanze significative rispetto alle sue precedenti rivelazioni ed, in pari data, risulta un colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera). Ancora, l’imputato ricordava d’aver incontrato il dottor Mario Bò, nel carcere di Paliano, con il funzionario che gli spiegava cosa doveva dichiarare nell’interrogatorio successivo. Su quest’ultima emergenza si tornerà a breve, ma si deve subito accennare che, dagli accertamenti espletati [...], risultano documentati due accessi al carcere di Paliano del predetto funzionario, in occasione degli interrogatori resi da Andriotta il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994: la circostanza pare di non poco momento, posto che si trattava proprio dei due interrogatori immediatamente successivi alla sopravvenuta ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino, dove Andriotta, adeguandosi (in gran parte) alle dichiarazioni dell’ex compagno di detenzione, millantava, per la prima volta, delle confidenze dello stesso Scarantino sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute, sino ad allora, per timore. Inoltre, Andriotta dichiarava (non senza qualche oscillazione, [...]) d’aver ricevuto, mentre era ristretto in cella (con tale Nicola Di Comite), nel carcere di Milano Opera, agli inizi del 1996, tramite il comandante della polizia penitenziaria di detto istituto, corposa documentazione, contenente anche interrogatori resi dal ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino. Ancora, sul tema del materiale scritto che gli veniva messo a disposizione dagli inquirenti, Andriotta dichiarava, per la prima volta al dibattimento, che riceveva, personalmente, dal dottor Mario Bò, presso uno dei tre istituti dove veniva trasferito, in rapida successione, dopo il carcere romano di Rebibbia, anche il verbale contenente la ritrattazione dibattimentale di Vincenzo Scarantino. In merito ai suoi rapporti con Scarantino, Andriotta escludeva decisamente d’essersi mai accordato con lui, per rendere le sue false dichiarazioni all’autorità giudiziaria (così anche Scarantino), negando (in maniera molto decisa) d’aver mai riferito di un tale accordo (appunto, inesistente) a Franco Tibaldi ed a Giuseppe Ferone (come, invece, affermavano costoro, nei verbali d’interrogatorio acquisiti agli atti del dibattimento). A Franco Tibaldi, che faceva la socialità con lui al carcere di Ferrara, Andriotta spiegava (giacché questi era con lui, quando l’imputato riceveva la missiva) che il suo avvocato (Valeria Maffei) rinunciava al mandato, poiché assumeva la difesa di un nuovo collaboratore di giustizia (Gaspare Spatuzza), che faceva rivelazioni sui fatti di via D’Amelio e, probabilmente, si lasciava pure andare ad uno sfogo, in sua presenza, dicendo che “gli accordi non erano questi”. Tuttavia, detto riferimento del prevenuto era agli accordi con i predetti funzionari, messi in discussione dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza […]. In merito alle promesse che gli venivano fatte affinché si determinasse a rendere le false dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, Andriotta ha sostenuto che gli inquirenti gli prospettavano anche (come già esposto) la riduzione della pena dell’ergastolo di primo grado, nei successivi gradi di giudizio. Dopo che la condanna all’ergastolo diventava definitiva, senza che Andriotta ottenesse la prospettata riduzione di pena, gli inquirenti, oltre a spiegargli i benefici di cui poteva, comunque, fruire come collaboratore di giustizia, gli avrebbero parlato della possibile revisione del processo: “ne parlò la dottoressa Anna Maria Palma di una revisione, di una probabile revisione del processo e ci fu quella volta là c'è la dottoressa e c'era il dottore Antonino Di Matteo quando mi disse questa cosa” (era la prima occasione in cui Andriotta conosceva il dottor Di Matteo). Inoltre, veniva anche assicurato all’imputato che, da lì a poco, gli avrebbero concesso un permesso premio, come -effettivamente- accadeva e come gli comunicava Salvatore La Barbera, nell’aula bunker di Catania Bicocca (il funzionario sottolineava che loro mantenevano le promesse). Ancora, dopo che Scarantino ritrattava, ad Andriotta veniva richiesto di dichiarare, falsamente, d’esser stato avvicinato, in località protetta, da due mafiosi per indurlo alla ritrattazione. Il fine di tali dichiarazioni, come gli spiegavano, in occasione di due diversi permessi premio, sia Arnaldo La Barbera (a settembre 1997) che Mario Bò (a dicembre 1997), era quello di screditare la ritrattazione di Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa (per rendere tali dichiarazioni, all’imputato veniva promessa la detenzione domiciliare e, dopo due anni, la liberazione condizionale). [...] Con particolare riferimento a taluni degli interrogatori (già richiamati) che segnavano le tappe della sua falsa collaborazione con l’autorità giudiziaria, Andriotta dichiarava quanto di seguito riportato. In relazione al primo interrogatorio da "collaboratore", fatto il 13 settembre 1993, al Pubblico Ministero, dottoressa Boccassini, Andriotta spiegava che, delle circostanze in esso riportate, rispondevano al vero unicamente quelle relative al fatto che egli era detenuto nella cella a fianco di Vincenzo Scarantino e che si prestava, effettivamente, a scrivergli delle lettere destinate alla moglie (giacché il compagno di detenzione era praticamente analfabeta), nonché i bigliettini da recapitarle o da comunicarle, attraverso la propria coniuge (Bossi Arianna). Rispondeva al vero, inoltre, la preoccupazione mostrata da Vincenzo Scarantino in occasione dell’arresto del fratello Rosario: il compagno di detenzione, effettivamente, temeva che il germano fosse stato arrestato anch’egli, per il furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, pur essendo entrambi estranei a quella vicenda. Non era affatto vero, invece, che Michele Giambone chiedeva ad Andriotta di portare i suoi saluti a Scarantino (come gli suggerivano di riferire al detenuto Arnaldo o Salvatore La Barbera). Neppure rispondeva a verità che il compagno di detenzione gli confidava d’aver ricevuto, da un parente, l’incarico di rubare la Fiat 126, che doveva essere di color bordeaux come quella di sua sorella o che il furto veniva poi effettivamente eseguito da Salvatore Candura, che portava la vettura in un luogo prestabilito, con Luciano Valenti. Si trattava di circostanze che Andriotta poteva leggere negli appunti che gli venivano recapitati, prima di sostenere l’interrogatorio con la dott.ssa Ilda Boccassini. Lo stesso vale per le dichiarazioni relative ai problemi meccanici dell’automobile, alla necessità di trainarla dopo il furto e, ancora, alla sua riparazione ed al cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché al ritardo nella denuncia del furto delle targhe stesse, al lunedì successivo alla strage (tutte circostanze, peraltro, intrinsecamente vere, come visto in altra parte della motivazione, sebbene mai rivelate da Scarantino ad Andriotta). Del pari, era un suggerimento del dottor Arnaldo La Barbera quello relativo alla falsa confidenza di Scarantino che, ad accusarlo, erano proprio i predetti Candura e Valenti. Ancora, era falsa la circostanza che, dopo l’arresto del "garagista", Scarantino iniziava a temere per la propria posizione e che mutava pure la sua versione sul luogo dove l’autovettura veniva imbottita d’esplosivo (come già accennato, indicando, prima dell’arresto menzionato, la porcilaia nella disponibilità dei suoi parenti e, successivamente, proprio il garage di Orofino). Questa dichiarazione sul cambio del luogo di riempimento della Fiat 126, tuttavia, non era contenuta negli appunti predetti, ma gli veniva suggerita oralmente, da taluno degli inquirenti, prima dell’interrogatorio (l’imputato non specificava da chi). Quanto al Matteo o Mattia o La Mattia, Andriotta si limitava a ripetere al Pubblico Ministero il nominativo contenuto negli appunti che gli venivano forniti, evidenziando che le indicazioni ricevute erano proprio di fare quel nome in maniera volutamente generica ed imprecisa e che egli non chiedeva alcunché a tal riguardo. Ancora, l’imputato si limitava ad indicare, genericamente, in quel primo interrogatorio, la figura di un "telefonista", che associava poi al nome di Gaetano Scotto solo nel successivo interrogatorio del gennaio 1995, perché così gli veniva detto di fare. In relazione all’interrogatorio del 4 ottobre 1993, presso il carcere di Milano-Opera, con la dott.ssa Ilda Boccassini ed il dottor Fausto Cardella, Andriotta spiegava che era presente anche il dottor Arnaldo La Barbera; quest’ultimo non partecipava all’atto istruttorio, ma accompagnava la dottoressa e fumava anche una sigaretta con l’imputato, prima dell’atto istruttorio. Come spiegato dall’imputato, anche le dichiarazioni rese in quella circostanza erano false e, in particolare, non rispondeva affatto al vero la circostanza relativa al messaggio minatorio, dentro il panino imbottito, diretto al dott. Lo Forte (“guida forte la macchina”), che Scarantino (a suo dire) recapitava all’esterno del carcere tramite Andriotta e la moglie di quest’ultimo. Detta dichiarazione gli veniva suggerita da Arnaldo La Barbera, così come gli veniva suggerita la falsa confidenza di Scarantino (“è arrivata la Profezia”) relativa all’incarico ricevuto dal cognato, Salvatore Profeta, per rubare la Fiat 126 da impiegare nell’attentato: detta ultima circostanza, suggeritagli prima dell’interrogatorio, serviva per render più credibili le sue dichiarazioni, in considerazione dello spessore criminale del cognato di Scarantino (“perché Scarantino è un pesce piccolo, mentre ProfetaSalvatore mi dissero che era uno che contava”). Arnaldo La Barbera, come detto, suggeriva detta dichiarazione, che gli serviva per far scattare il blitz contro Profeta (“C'era il dottor Arnaldo La Barbera, mi disse: “Adesso devi dire Salvatore Profeta, il cognato di Scarantino, perché io devo fare scattare il blitz dell'arresto”. E mi sembra che fu pochi giorni dopo ilmio interrogatorio l'arresto di Profeta”). Più in generale, Andriotta spiegava che era, appunto, Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo inquirente che si occupava delle indagini sulla strage, a dare le direttive, mentre gli altri funzionari di polizia erano “diciamo dei supervisori … come glielo devo spiegare? Non so. Non erano proprio loro che mi dicevano le cose, se non in alcune occasioni, tipo Salvatore La Barbera o il dottor Mario Bo’. Però in special modo era il dottor Arnaldo La Barbera”. In relazione all’interrogatorio del 17 gennaio 1994, nel carcere di Vercelli, con la dott.ssa Ilda Boccassini, Andriotta (come anticipato) rammentava d’aver sostenuto, prima dello stesso, un colloquio investigativo, non breve, con il dottor Arnaldo La Barbera, tant’è che l’imputato terminava tutte le sigarette ‘Marlboro’ a propria disposizione, fumando poi le ‘Rothmans’ che gli offriva il funzionario, anche se non ricordava di cosa parlavano in quella specifica occasione (della quale, come detto, risulta traccia documentale, negli accertamenti espletati). Sul punto, va rilevato che nel corso dell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (come detto, acquisito agli atti), l’imputato dichiarava che il funzionario di polizia, in detta occasione, gli suggeriva le dichiarazioni da rendere all’autorità giudiziaria e, come già riportato, l’interrogatorio in questione era quello in cui Andriotta dichiarava, per la prima volta, adeguandosi ad una sopravvenuta dichiarazione di Salvatore Candura, che quest’ultimo, dopo la strage del 19 luglio 1992, contattava più volte Scarantino, telefonicamente, per sapere se la Fiat 126 che gli faceva rubare era proprio quella impiegata come autobomba in via D’Amelio. Invece, l’imputato non ricordava alcunché di un ulteriore colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera, sostenuto, sempre nella casa circondariale di Vercelli, il 2 marzo 1994 (del quale, pure, vi è traccia negli atti), non rammentando nemmeno se vi era o no un collegamento fra tale colloquio ed il successivo interrogatorio reso alla dott.ssa Boccassini il 21 marzo 1994 (nel quale Andriotta manifestava un momento di disagio per la sua situazione carceraria). Quanto al contenuto degli interrogatori del 16 settembre 1994 e del 28 ottobre 1994 (come già accennato), Andriotta evidenziava che, in occasione del primo di tali atti istruttori, il dottor Mario Bò -che vi assisteva per ragioni investigative- gli suggeriva di riferire all’autorità giudiziaria (i Pubblici Ministeri erano la dottoressa Anna Maria Palma ed il dottor Carmelo Antonio Petralia) di una riunione cui era presente anche Vincenzo Scarantino. In quella occasione, il dottor Mario Bò, durante una pausa, gli consegnava, su direttiva di Arnaldo La Barbera, due o tre fogli contenenti le circostanze che doveva studiare e riferire nell’interrogatorio successivo (quest’ultima circostanza non veniva mai menzionata prima del dibattimento, dall’imputato; infatti, negli interrogatori resi in fase d’indagine, Andriotta raccontava solo di un colloquio di circa mezz’ora con il dottor Bò, senza fare alcun riferimento a documenti od appunti che provenivano da Arnaldo La Barbera). […] Quanto alle dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 26 gennaio 1995, al carcere di Paliano (innanzi ai Pubblici Ministeri, dott.ri Anna Maria Palma e Carmelo Antonio Petralia, assistiti dall’Agente Scelto Michele Ribaudo), Andriotta non rammentava chi gli suggeriva di dichiarare, per la prima volta in occasione di tale atto istruttorio, da un lato, che alla predetta riunione di villa Calascibetta partecipavano anche Ciancio o Gancio e Matteo o La Mattia e, dall’altro lato, che anche Gaetano Scotto era coinvolto nella strage di via D’Amelio, avendo fornito il consenso della famiglia Madonia. Si trattava, comunque, di un suggerimento proveniente dagli inquirenti, vale a dire da Arnaldo o Salvatore La Barbera o, ancora, da Mario Bò (quest’ultimo, appena qualche giorno prima, andava in carcere per fare firmare ad Andriotta delle carte relative al suo programma di protezione). Quanto, poi, alle dichiarazioni rese il 29 aprile 1998, presso il carcere di Roma Rebibbia (alla dott.ssa Anna Maria Palma, coadiuvata da Mario Bò), sulle minacce (come detto, inesistenti) ricevute da due emissari mafiosi, in località protetta, affinché ritrattasse le dichiarazioni rese in precedenza, Andriotta evidenziava che era un suggerimento di Arnaldo La Barbera e Mario Bò. Quest’ultimo, in compagnia di altri due funzionari, che non Andriotta conosceva e che sembravano di livello più elevato (poiché uno di loro, ad un certo punto, zittiva Mario Bò), in occasione del permesso natalizio del 1997, durante il viaggio notturno, in automobile, dal carcere romano di Rebibbia, gli suggeriva appunto di riferire quelle false circostanze, spiegando che ciò serviva a sostenere le sue precedenti dichiarazioni ed a rendere non credibile la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa. Inoltre, Andriotta riceveva analoga sollecitazione anche da Arnaldo La Barbera, in occasione del precedente permesso premio, a settembre 1997, quando si trovava a Piacenza. Sempre per far apparire verosimili le dichiarazioni di Andriotta, screditando la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Mario Bò suggeriva all’imputato di nominare, come propri difensori, due dei legali che difendevano alcuni imputati della strage di via D’Amelio, nei processi in corso di celebrazione, vale a dire (come già detto) gli Avvocati Scozzola e Petronio. Ancora, era il dottor Mario Bò che -allo stesso scopo- spingeva Andriotta a denunciare Scarantino per calunnia, per le dichiarazioni rese da quest’ultimo con la clamorosa ritrattazione della sua "collaborazione". Ciò avveniva, forse, nel marzo/aprile 1998 (la datazione è evidentemente errata, poiché la predetta "ritrattazione" di Scarantino avveniva, come è noto, soltanto a settembre di quell’anno), all’interno del carcere di Rebibbia, allorché il dottor Bò era in compagnia della dottoressa Palma; quest’ultima, però, non assisteva a tale discorso. Inoltre, l’imputato sosteneva (in maniera assai poco convincente) la propria volontà di ritrattare le sue false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, anche prima d’esser messo innanzi all’evidenza delle risultanze successive alla collaborazione di Gaspare Spatuzza. In particolare, Andriotta sosteneva d’aver riferito ad un ispettore dell’Anticrimine di Piacenza di nome “Davio, Davico, Davini”, durante un permesso premio del marzo 1998: “mi stanno facendo girare le scatole, se voglio io, gli faccio cadere tutto il processo” (la circostanza, tuttavia, non trovava alcuna conferma, nonostante l’audizione dei poliziotti dell’Anticrimine piacentina). Ancora, durante un permesso premio nel mese di ottobre/novembre 2005, preso dal rimorso, Andriotta avrebbe fatto un’istanza al servizio centrale di protezione per poter rendere una dichiarazione alla stampa ed alla televisione, ma l’autorizzazione veniva negata. Nessun magistrato della Procura di Caltanissetta andava ad interrogarlo per comprendere che cosa voleva riferire agli organi di stampa, né Andriotta avanzava alcuna richiesta d’esser ascoltato dai magistrati, poiché intendeva ritrattare soltanto “via etere”, sentendosi più tutelato dai media (in quanto, a suo parere, i magistrati potevano insabbiare la vicenda). Ancora (per lo stesso motivo), pur venendo successivamente ascoltato dalla Procura Nazionale Antimafia, Andriotta non ritrattava le sue dichiarazioni sui fatti di via D’Amelio (chiedeva d’esser ascoltato dal dottor Pietro Grasso, ma veniva interrogato dal dottor Giordano, già in servizio alla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta). Andriotta, dettagliando un accenno fatto durante le indagini (nell’interrogatorio del 17 luglio 2009: “ci sono state delle volte che io volevo ritrattare e ho preso botte”), riferiva anche alcuni episodi di maltrattamenti personalmente realizzati dagli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Sulmona, nel 2002 e nel 2007, allorché aveva rappresentato al suo avvocato dell’epoca, a colloquio in tale carcere, che non riusciva più a sopportare il peso delle false dichiarazioni e che intendeva ritrattarle. Per tali fatti veniva anche celebrato un processo penale, presso il Tribunale di Sulmona (“Perché purtroppo in quel carcere, quando parli con il tuo legale di fiducia, ti ascoltano e io dissi in più occasioni all'Avvocato che non... non riuscivo ad andare avanti, volevo dire la verità perché non me la sentivo, mi stavo facendo io la galera e anche gli altri, non volevo più andare avanti così. Però puntualmente, come operazione farfalla, abbuscavo mazzate. Ogni volta, ogni volta!”). Sul punto, Andriotta rendeva anche un’altra dichiarazione inedita sul fatto che, dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, veniva avvicinato, nel giugno/luglio del 2009, dal comandante della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, che gli faceva domande “strane”, se corrispondeva o meno a verità che intendeva ritrattare le sue precedenti dichiarazioni. Altra dichiarazione rilevante di Andriotta era quella relativa alla circostanza che, durante uno dei processi in cui deponeva come testimone, in particolare nell’aula bunker di Torino, in una pausa dell’udienza (trattasi dell’udienza del 16 ottobre 1997, nel dibattimento di primo grado del processo c.d. Borsellino bis), il dottor Mario Bò lo rimproverava duramente perché rendeva una dichiarazione difforme da quella che gli veniva suggerita (della quale, però l’imputato non rammentava l’oggetto), rischiando, a dire del funzionario, di far saltare il processo. A tal proposito, quando gli veniva domandato se a tale “rimprovero” di Mario Bò assistevano anche la dott.ssa Palma oppure il dottor Di Matteo (che erano i due Pubblici Ministeri di quell’udienza), Andriotta rispondeva (più di una volta): “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Analoga facoltà veniva esercitata dall’imputato anche in risposta ad una domanda sulla conoscenza, da parte dei magistrati inquirenti dell’epoca, della circostanza che Scarantino si professava innocente per la strage, peraltro dopo che Andriotta aveva già affermato, spontaneamente, d’aver rivelato, anche ai magistrati inquirenti, che Scarantino si professava innocente (“Ah, questo gliel'avevo detto ai poliziotti che lui non mi aveva mai raccontato nulla e che continuava a dire che era innocente. (…) Al dottor Arnaldo La Barbera, al dottor Ricciardi e anche al dottor Mario Bo. (…) E anche ai magistrati. (…) Su questo mi avvalgo della facoltà di non rispondere, come ho detto all'Avvocato Scozzola nell'aula bunker di Torino”). Tale atteggiamento dell’imputato è legittimo, ma contraddittorio, poiché egli esercitava il c.d. diritto al silenzio, dopo una serie domande su eventuali intromissioni dei magistrati nella sua falsa collaborazione: ebbene, a dette domande (fatte appena pochi minuti prima), Andriotta rispondeva escludendo qualsivoglia ruolo o consapevolezza dei magistrati dell’epoca, per poi affermare, invece, quanto sopra riportato. Nel riesame del Pubblico Ministero, infine, Andriotta tornava sui suoi passi, sostenendo (in maniera assolutamente non convincente) che s’era avvalso della facoltà di non rispondere soltanto per un “errore di pronuncia” e specificando di non aver mai informato alcun magistrato delle falsità delle sue rivelazioni o di quelle di Scarantino. Invece, nell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (pienamente utilizzabile ai fini probatori), Andriotta spiegava che era proprio la dott.ssa Palma ad arrabbiarsi molto con lui, chiedendogli come faceva a sapere delle cose che non erano nemmeno uscite sui giornali (cfr. interrogatorio 17.7.2009, pag. 154: “E allora in una occasione è stato che durante un processo in video conferenza nell’aula bunker di Torino addirittura la dottoressa Anna Maria Palma si arrabbiò tantissimo con me, c’era la scorta dei Carabinieri quindi stiamo parlando che era 1996 o '97 (…). Perché io aggiunsi delle dichiarazioni nuove che non erano ancora uscite nemmeno sui giornali o sulla televisione e disse “Andriotta adesso mi devi dire chi t’ha detto ste cose?”, e io me le sono ricordate. In quell’occasione c’era il dottor Mario Bo insieme alla dottoressa Anna Maria Palma, non mi ricordo se c’era anche il dottore Antonino Di Matteo quel giorno come Sostituto Procuratore per la parte dell’accusa, non mi faccia dire una bugia”). Orbene, prima di passare alle conclusioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato per la calunnia continuata ed aggravata […] occorre fare alcune considerazioni generali sul contenuto delle predette dichiarazioni, palesemente autoaccusatorie. A tal proposito, va -innanzitutto- sottolineato come il percorso dell’imputato (a far data dal luglio del 2009, allorché decideva di ritrattare le dichiarazioni rese nei precedenti procedimenti) sia tutt’altro che lineare, in quanto segnato da molteplici incoerenze e contraddizioni, oltre che da significativi aspetti di progressione (e pure da qualche reticenza) nelle accuse mosse contro altri soggetti. Talune novità nelle dichiarazioni dibattimentali dell’imputato, poi, dopo ben quattro interrogatori nell’arco di un anno e mezzo (in fase d’indagine preliminare), sono assolutamente non credibili e paiono strumentali ad alleggerire la propria posizione processuale. […] Ebbene, pur con tutte le (doverose) cautele e riserve sull’attendibilità complessiva dell’imputato (le cui dichiarazioni vanno ‘maneggiate’ con estrema cautela, soprattutto ove attingano terze persone), alla luce del suddetto percorso di falso ‘collaboratore’ della giustizia ed anche della marcata progressività delle dichiarazioni stesse (evidentemente funzionali, come detto, ad alleggerire la propria posizione processuale), pare difficile, alla luce del complessivo compendio probatorio (ed al di là delle accennate ed evidenti contraddizioni ed incongruenze, su molteplici circostanze specifiche), confutare quanto da lui dichiarato in merito alla tematica generale dell’indottrinamento da parte degli inquirenti infedeli dell’epoca, sebbene sia del tutto evidente che l’imputato introduca anche circostanze non vere e, comunque, non voglia raccontare tutto quanto è a sua conoscenza in merito alla propria ed all’altrui ‘collaborazione’. Sul punto, al di là dell’evidenziata progressività delle dichiarazioni dell’imputato (che parlava, come detto, solo al dibattimento di appunti scritti consegnatigli in carcere, prima dell’avvio della ‘collaborazione’), pare assai difficile ipotizzare un’origine diversa rispetto al suggerimento degli inquirenti dell’epoca (poco importa, da tale punto di vista, se con appunti scritti o soltanto con indottrinamento orale, magari fatto con modalità assai diverse, rispetto a quelle -inverosimili- riferite dall’imputato negli interrogatori acquisiti agli atti), atteso che la collaborazione di Scarantino non era ancora iniziata (come è noto, il primo verbale del pentito della Guadagna risale al giugno 1994). […] Addirittura inquietanti (come già accennato), alla luce di quanto ampiamente accertato in questo procedimento sul furto della Fiat 126 e sulle sue condizioni meccaniche, oltre che sulla sistemazione dell’impianto frenante, a cura di Gaspare Spatuzza (tramite Maurizio Costa) e francamente inspiegabili (come si vedrà meglio, trattando della posizione di Vincenzo Scarantino), senza un apporto di infedeli inquirenti e/o funzionari delle istituzioni, la circostanza che Andriotta, già nel primo interrogatorio da falso ‘collaboratore’ della giustizia, senza sapere alcunché della strage che occupa, né ricevendo alcuna confidenza da Scarantino (totalmente estraneo alla preparazione ed esecuzione della strage), parlava di circostanze non rientranti nel suo bagaglio di conoscenze, ma oggettivamente vere (come risulta da questo procedimento), vale a dire di problemi meccanici della Fiat 126 utilizzata come autobomba e della necessità di trainarla subito dopo il furto (come oggi dichiarato da Gaspare Spatuzza), ed, ancora, della sua riparazione e del cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché del ritardo nella denuncia al lunedì successivo la strage (di tutte queste circostanze, così come dell’attendibilità di Gaspare Spatuzza e dei numerosi riscontri alle sue dichiarazioni, si è dato ampiamente atto, in altra parte della motivazione, alla quale si rimanda).

Il misterioso “Rutilius”. La Repubblica il 20 luglio 2019. Nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del SISDE relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa condotta dal Dott. Arnaldo La Barbera (il quale, peraltro, a sua volta, aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il SISDE dal 1986 al marzo 1988, con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia). Sulla base di tale attività investigativa, lo Scarantino era stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 26 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta per concorso nella strage di via D’Amelio e nei reati connessi. Gli elementi indiziari a suo carico erano costituiti dalle dichiarazioni rese da due soggetti che avevano indicato in lui la persona che aveva commissionato e ricevuto la Fiat 126 utilizzata per la strage. Si trattava, precisamente, delle dichiarazioni di Luciano Valenti e Salvatore Candura, nelle quali il Pubblico Ministero, nella sua memoria conclusiva, ha individuato «la scaturigine del depistaggio». Luciano Valenti e Salvatore Candura, insieme al fratello del primo, Roberto Valenti, erano stati sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere in esecuzione di un’ordinanza emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, commessi il 29/8/1992. I loro nominativi erano stati precedentemente posti all’attenzione degli inquirenti dalle conversazioni intercettate sull’utenza telefonica in uso a Valenti Pietrina, alla quale, come si è detto, era stata sottratta l’autovettura Fiat 126 utilizzata per la strage. Tra l’altro, la Valenti, nel corso della conversazione delle ore 23,14 del 30 luglio 1992, commentando le immagini televisive del luogo della strage di via D’Amelio con Sbigottiti Paola, moglie di Valenti Luciano, aveva pronunciato la frase: “ed in quel posto la mia macchina c’è....”. In una successiva telefonata delle ore 00,05 dell’1 agosto 1992, le due donne avevano esternato sospetti nei confronti di Salvatore, amico di Valenti Luciano, quale possibile autore del furto della Fiat 126. Tale soggetto venne identificato in Salvatore Candura. Quest’ultimo, quando era stato tratto in arresto in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, ed era stato quindi condotto presso gli uffici della Squadra Mobile, aveva lamentato di aver ricevuto minacce e di essere preoccupato perché aveva avuto modo di notare persone sospette nei pressi della propria abitazione. Tale comportamento era apparso strano agli inquirenti, che lo avevano ricollegato all’atteggiamento tenuto dallo stesso Candura alcuni giorni prima, allorché, accompagnato presso una Caserma dei Carabinieri per essere denunciato per tentata rapina ai danni di un autotrasportatore, piangendo, aveva profferito la frase “...non li ho uccisi io...” (cfr. la informativa di reato del 19 ottobre 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo). Il 12 settembre 1992 il Dott. Arnaldo La Barbera, nella qualità di Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, venne autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare un colloquio investigativo con i detenuti Candura Salvatore e Valenti Luciano. Il giorno successivo, 13 settembre 1992, Salvatore Candura fu interrogato dal Pubblico Ministero di Caltanissetta, al quale riferì che nei primi giorni del mese di luglio 1992 Luciano Valenti gli aveva comunicato che il loro comune amico Vincenzo Scarantino aveva commissionato allo stesso Valenti il furto di un’autovettura di piccola cilindrata, il quale avrebbe dovuto essere eseguito quella sera stessa, e per compensarlo gli aveva dato la somma di 150.000 lire; il Valenti aveva aggiunto che si sarebbe impossessato della Fiat 126 della propria sorella, Pietrina Valenti. Il Candura affermò di essere a conoscenza che l’autovettura, quella stessa sera, era stata trafugata e quindi parcheggiata in una strada nei pressi di Via Cavour, per essere poi consegnata alle persone che ne avevano bisogno. Il Candura riferì inoltre che cinque o sei giorni dopo la data del furto era stato contattato da Pietrina Valenti, la quale gli aveva detto che nella notte precedente le avevano rubato la sua autovettura Fiat 126. Alla discussione aveva assistito Luciano Valenti, che aveva invitato il Candura a uscire insieme a lui per cercare l’autovettura, ed aveva quindi finto di attivarsi in tal senso. Il Candura segnalò di avere avuto dei sospetti sulla possibilità che la suddetta Fiat 126 fosse stata utilizzata per la strage di Via D’Amelio, e di averne quindi parlato con Luciano Valenti, il quale però lo aveva rassicurato incitandolo a tenere un comportamento indifferente rispetto a questa circostanza. Egli inoltre sostenne di aver visto, qualche giorno prima del furto della Fiat 126, lo Scarantino parlare con uno dei fratelli Tagliavia, titolare di una rivendita di pesce in via Messina Marine. A sua volta, Luciano Valenti, dopo avere negato ogni propria responsabilità in data 17 settembre 1992 sia in sede di interrogatorio di garanzia, sia in sede di confronto con il Candura, in data 20 settembre 1992 finì per cedere alle pressioni di quest’ultimo e rese al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta un interrogatorio in cui affermava di avere sottratto l’autovettura su incarico di Vincenzo Scarantino, di avere ricevuto la somma di 150.000 lire come compenso, e di avere consegnato il veicolo nei pressi di Via Cavour. In data 26 settembre 1992 venne quindi emessa la suddetta ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico dello Scarantino, che nell’interrogatorio di garanzia del 30 settembre 1992 sostenne la propria innocenza, negando di conoscere Luciano Valenti e precisando di conoscere solo di vista Salvatore Candura, suo vicino di casa. Lo Scarantino venne quindi trasferito, in data 2 ottobre 1992, presso il carcere di Venezia, dove venne collocato nella stessa cella di Vincenzo Pipino, un trafficante di opere d’arte che il Dott. Arnaldo La Barbera aveva conosciuto nel periodo in cui aveva prestato servizio presso la Squadra Mobile di Venezia, e che aveva quindi pensato di utilizzare come una sorta di “agente provocatore” allo scopo di sollecitare e raccogliere le confidenze dello Scarantino. All’interno della cella dove si trovavano lo Scarantino e il Pipino venne anche attivato un servizio di intercettazione, che però non diede risultati significativi. A proposito delle conversazioni intercorse fra lo Scarantino e il Pipino, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno” ha rilevato che «trattasi in prevalenza di lunghi soliloqui in quanto è soltanto il Pipino a parlare, mentre il suo interlocutore non profferisce parola o accenna solamente qualche frase, il più delle volte incomprensibile», e ha evidenziato che il tenore dei colloqui «tradisce all’evidenza che il Pipino è un confidente della Polizia che era stato collocato nella stessa cella dello Scarantino allo scopo di provocarne e raccoglierne le confidenze in merito ai fatti di strage per cui è processo. All’uopo, infatti, il Pipino si adopera, spiegando allo Scarantino le accuse elevate nei suoi confronti, le incongruenze delle discolpe da lui addotte, i rischi connessi alla sua attuale posizione processuale, cercando nel contempo di sollecitarne le confidenze, prospettandogli possibili e più valide strategie difensive». Nel frattempo, invece, il Candura modificava la propria versione dei fatti. Egli, nell’interrogatorio reso il 3 ottobre 1992 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, sostenne di essersi reso autore, nei primi giorni del precedente mese di luglio, del furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti, commissionatogli dello Scarantino, e aggiunse di aver tentato di far ricadere su Luciano Valenti la responsabilità del furto per paura delle gravi rappresaglie che lo Scarantino avrebbe potuto mettere in atto nei suoi confronti. Lo Scarantino, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purché marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000. In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Pietrina Valenti (sorella dell’amico Luciano Valenti), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nelle vicinanze di Via Cavour, all’angolo tra via Roma e un’altra traversa. Il Candura inoltre affermò che, dopo avuto notizia dai giornali e dalla televisione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba per la strage di Via D’Amelio, si era recato in più occasioni dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’autovettura da lui rubata non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però altre reazioni negative. trattava del primo interrogatorio reso dal Candura dopo che, in data 19 settembre 1992 il Dott. Vincenzo Ricciardi, della Squadra Mobile di Palermo, era stato autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare colloqui investigativi con lui. Anche a fronte di queste nuove dichiarazioni del Candura lo Scarantino continuò a protestare la propria innocenza, negando, negli interrogatori resi tra il 1992 e il 1993 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, la veridicità delle accuse mossegli. Lo Scarantino in data 13/11/1992 venne trasferito dal carcere di Venezia alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, dove rimase ristretto prima nella Sezione dove si trovavano i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis O.P., e poi in una cella singola, con regime di completo isolamento e di stretta sorveglianza; non gli era consentito neppure di vedere la televisione, e poteva effettuare un solo colloquio al mese con i propri familiari. Egli cadde quindi in uno stato di depressione, rendendosi protagonista di reiterati gesti di autolesionismo (cfr. la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno”). Nell’interrogatorio reso il 6 maggio 1993 al Pubblico Ministero di Caltanissetta, lo Scarantino, oltre a contestare le accuse mossegli, segnalava il proprio stato di prostrazione morale che lo aveva indotto a un tentativo di suicidio, esplicitava di non sopportare più lo stato di isolamento, e sottolineava che altri detenuti in particolare, un ex agente di custodia e il pentito Caravelli Roberto lo sollecitavano a confessare delitti da lui non commessi. Dal 3 giugno 1993, la cella contigua a quella dello Scarantino venne occupata da Francesco Andriotta, il quale rimase nel medesimo reparto del carcere di Busto Arsizio fino al 23 agosto successivo. In data 14 settembre 1993, Francesco Andriotta iniziò la propria “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria, che forma oggetto di specifica trattazione in altro capitolo. In questa sede, è sufficiente rammentare che già nell’interrogatorio reso nella suddetta data al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta iniziò a riferire su una serie di confidenze che lo Scarantino gli avrebbe fatto durante il periodo di comune detenzione. Secondo il racconto dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva confidato di avere effettivamente commissionato al Candura, su richiesta di un proprio parente (un cognato o fratello), il furto della Fiat 126 poi utilizzata nella strage di Via D’Amelio. L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche sua sorella, Ignazia Scarantino, ne possedeva una dello stesso colore, e quindi, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto. Il Candura aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Luciano Valenti, il quale la aveva portata nel posto stabilito, dove lo Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Infine, lo Scarantino aveva portato il veicolo dal garage alla via D’Amelio. A dire dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva altresì riferito «che l’auto non funzionava e che venne trainata fino al garage», che «l’auto venne quindi riparata così da renderla funzionante», che «furono cambiate le targhe con quelle di un altro 126», e che «avevano tardato a denunciare il furto dell’auto o delle targhe al lunedì successivo all’esplosione giustificando tale ritardo con il fatto che il garage era rimasto chiuso». Diversamente da tutto il resto del racconto dell’Andriotta, queste ultime circostanze corrispondono perfettamente alla realtà: come si è visto nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage, è rimasto inequivocabilmente accertato, nel presente procedimento, che la Fiat 126 presentava problemi meccanici, che vi fu la necessità di trainarla subito dopo il furto, che si provvide alla sua riparazione e alla sostituzione delle targhe, che la denuncia del furto delle targhe venne effettuata nel lunedì successivo alla strage. Trattandosi di circostanze che mai lo Scarantino avrebbe potuto riferirgli, per la semplice ragione che non aveva avuto alcun ruolo nell’esecuzione della strage, deve necessariamente ammettersi una ricezione, da parte dell’Andriotta, di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte. Tale inquinamento si era già realizzato al momento in cui ebbe inizio la “collaborazione” dell’Andriotta con la giustizia. Nei successivi interrogatori, l’Andriotta aggiunse ulteriori particolari, arricchendo progressivamente il contenuto delle confidenze che sosteneva di avere ricevuto dallo Scarantino. Ad esempio, nell’interrogatorio reso il 4 ottobre 1993 nel carcere di Milano Opera al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta sostenne di avere appreso dallo Scarantino che colui che gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage era Salvatore Profeta, motivò l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, e specificò che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage riguardava le targhe apposte alla Fiat 126. In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, l’Andriotta affermò che nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126 era presente anche Salvatore Profeta. In occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, l’Andriotta aggiunse che, dopo la strage di via D’Amelio, il Candura aveva cercato, più volte, lo Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; ma lo Scarantino lo aveva trattato in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. E’ dunque evidente, nelle dichiarazioni dell’Andriotta, un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. Si noti, peraltro, che nella stessa data del suddetto interrogatorio, avvenuto il 17 gennaio 1994, l’Andriotta ebbe un colloquio investigativo con il Dott. Arnaldo La Barbera. Frattanto, anche lo Scarantino, trasferito presso la Casa Circondariale di Pianosa, ebbe in tale luogo una serie di colloqui investigativi: rispettivamente, il 20 dicembre 1993 con il Dott. Mario Bo’ (funzionario di polizia inserito nel gruppo “Falcone-Borsellino”), il 22 dicembre 1993 con il Dott. Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 con il Dott. Mario Bo’ e il 24 giugno 1994 con il Dott. Arnaldo La Barbera. In quest’ultima data lo Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla Dott.ssa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria “collaborazione” con l’autorità giudiziaria, con le modalità già indicate, confermando largamente il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese dal Candura e dall’Andriotta, ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico. A sua volta, l’Andriotta, negli interrogatori resi il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994 nel carcere di Paliano (dove risultano documentati, nelle medesime date, altrettanti accessi del Dott. Mario Bo’), adeguandosi in gran parte alle dichiarazioni rese dallo Scarantino dopo la scelta “collaborativa”, riferì, per la prima volta, sulle confidenze fattegli da quest’ultimo sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute per timore sino ad allora. L’analisi che si è condotta sulla genesi della “collaborazione” con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino, lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte. Altrettanto significativa è la circolarità venutasi a creare tra il contributo dichiarativo dei tre “collaboranti”, ciascuno dei quali confermava il falso racconto dell’altro, conformandovi progressivamente anche la propria versione dei fatti. Per lo Scarantino e per il Candura, è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura. Dunque, anche a prescindere dalle affermazioni compiute dallo Scarantino nel corso del suo esame dibattimentale (la cui valenza probatoria può effettivamente reputarsi controversa, considerando le continue oscillazioni da cui è stato contrassegnato il suo contributo processuale nel corso del tempo), e dalle indicazioni (decisamente generiche, oltre che de relato) offerte da alcuni collaboratori di giustizia (come Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca) sulle torture subite a Pianosa dallo Scarantino, deve riconoscersi che gli elementi di prova raccolti valgono certamente a che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose venne ingenerato in lui da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte soggezione psicologica. Era questa senza alcun dubbio la posizione dello Scarantino, un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, frattanto, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva «maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai “incastrato” sulla scorta di false prove». Dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte. Si tratta, pertanto, di una situazione nella quale è indubbiamente configurabile la circostanza attenuante dell'art. 114 comma terzo c.p., che, come chiarito dalla giurisprudenza, prevede una diminuzione di pena per il soggetto "determinato" a commettere il reato, proprio in forza dell’opera di condizionamento psicologico da lui subita.

Paolo Borsellino non voleva “trattare”. La Repubblica il 22 luglio 2019. A quanto sopra osservato deve aggiungersi che le anomalie nell’attività di indagine continuarono anche nel corso della “collaborazione” dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla “ritrattazione della ritrattazione”, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero. Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il “metodo Falcone”. Non a caso, già gli «appunti di lavoro per la riunione della D.D.A. del 13.10.94», predisposti dalla Dott.ssa Ilda Boccassini e dal Dott. Roberto Saieva», segnalavano che «l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di Via D’Amelio (…) di Cancemi, La Barbera e Di Matteo (ma anche di Ganci Raffaele) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di tale collaboratore». L’adozione di un metodo di valutazione della prova capace di unire i criteri di razionalità con la comprensione profonda dei fenomeni sociali ha condotto la Corte di Assise di Caltanissetta, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), a ritenere che allo Scarantino facesse difetto «non tanto la qualifica formale di “uomo d’onore” e una combinazione rituale con santina e pungiuta, quanto un effettivo inserimento in “Cosa Nostra”»; a considerare «scarsamente attendibili le dichiarazioni rese da Vincenzo SCARANTINO in ordine alla preparazione della strage di via D’Amelio» sulla base del rilievo che «fin dal primo interrogatorio egli ha riferito almeno due circostanze assolutamente non credibili: la ricerca di una “bombola” da far esplodere per realizzare l’attentato e la riunione nella villa del CALASCIBETTA»; a riconoscere che «nel loro complesso le dichiarazioni rilasciate dallo SCARANTINO in tutto l’arco della sua tormentata “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria vanno incontro a una valutazione sostanzialmente negativa sotto vari profili, alla luce dei criteri di giudizio dettati dalla Corte di Cassazione tanto per l’apprezzamento sull’attendibilità delle dichiarazioni costituenti chiamata in correità, quanto per la valutazione dell’attendibilità soggettiva del chiamante»; a segnalare che «il contenuto delle dichiarazioni appare spesso poco verosimile, alla luce delle regole di comune esperienza, oltre che assolutamente incostante; le giustificazioni addotte volta per volta appaiono poco credibili ed alcune volte molto ingenue; infine, il contenuto delle dichiarazioni ha conosciuto una significativa evoluzione nel tempo, venendo accresciuta la loro compatibilità con quanto emerso per altra via dalle indagini»; a esplicitare che «inoltre, le dichiarazioni dello SCARANTINO che non appaiono ictu oculi incredibili, per altro aspetto non appaiono genuine, perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa o dalle ordinanze di custodia cautelare, o comunque apprese durante le indagini, perché acquisite dagli inquirenti per altra via e poi condite con un limitato bagaglio di conoscenza diretta maturato nell’ambiente delinquenziale e mafioso della Guadagna»; e, conclusivamente, a ritenere «che delle dichiarazioni rese da Vincenzo SCARANTINO non si debba tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio». La tendenza che invece prevalse, nell’attività giudiziaria e in quella investigativa, fu ben diversa. Si è già visto come le dichiarazioni dello Scarantino abbiamo costituito il fondamento per la condanna all’ergastolo, pronunciata con sentenze passate in giudicato, nei confronti di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe. A ciò deve aggiungersi che le indagini successive alla “collaborazione” dello Scarantino furono contrassegnate da numerosi profili del tutto singolari ed anomali. Assolutamente anomala appare, ad esempio, la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino, detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia. Una evidente anomalia è riscontrabile pure nelle condotte poste in essere da alcuni degli appartenenti al “Gruppo Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato, i quali, mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia, dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. “Borsellino uno”. Tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’Ispettore Fabrizio Mattei, escusso all’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino. Risulta però del tutto inverosimile che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura, e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale.

A ciò si aggiungono ulteriori aspetti decisamente singolari segnalati da alcune parti civili. Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate. Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:

- alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziata dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà;

- ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;

- alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra "Cosa Nostra" e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato.

In proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di entrambe le vicende: si è già sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, dal Dott. Arnaldo La Barbera, il quale è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre. L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario - che portò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione - rivelatasi poi infondata - che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone e lui più vicine nel periodo che precedette la strage di Via D’Amelio. Vanno richiamati, al riguardo, gli elementi probatori già analizzati nel capitolo VI. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato». Occorre, altresì, tenere conto degli approfonditi rilievi formulati nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) secondo cui «risulta quanto meno provato che la morte di Paolo BORSELLINO non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare - cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. (…) E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come BORSELLINO avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con COSA NOSTRA e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche». Questa Corte ritiene quindi doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale (tra cui proprio quella della sottrazione dell’agenda rossa), di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata.

Accertamenti medico legali di un massacro. La Repubblica il 25 giugno 2019. Inoltre, la sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta ha riassunto nei seguenti termini i risultati degli accertamenti effettuati dai consulenti medico-legali sui cadaveri delle vittime.

«A poche ore dal fatto, il 20.7.1992 alle 00.25, il Pubblico Ministero di Caltanissetta in persona dei dott. Giovanni TINEBRA, Francesco Paolo GIORDANO e Francesco POLINO, ai sensi dell’art. 360 C.P.P., aveva affidato incarico di consulenza tecnica autoptica sui cadaveri delle vittime della strage a un collegio di esperti medici legali, costituito dal dott. Paolo PROCACCIANTE (rectius Procaccianti: n.d.e.), Direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo, e dai dott. Livio MILONE e Antonina ARGO, assistenti nel predetto Istituto. L’ispezione esterna dei cadaveri e l’esame autoptico dei medesimi, per la determinazione delle cause della morte, sono stati effettuati nell’immediatezza del conferimento dell’incarico, come appare dai relativi verbali e relazioni autoptiche.

Il cadavere di Paolo BORSELLINO, trovato con indosso una cintura in cuoio marrone con frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e frammento di stoffa di cotone verde, residuo di maglietta tipo “polo”, si presentava depezzato, risultando assenti l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori. All’esame esterno si rilevava vasta area di ustione su buona parte dell’addome e del torace, nonché al viso, con colorito nerastro sulle regioni frontali e parietali. Al capo si riscontrava soluzione di continuo lineare interessante il cuoio capelluto dalla regione frontale al padiglione auricolare destro, con distacco pressoché completo del padiglione stesso ed esposizione del condotto uditivo e della sottostante teca cranica; ferita all’arcata sopraciliare destra, frattura alle ossa nasali, ampia ferita lacero-contusa al cuoio capelluto. Inoltre, si riscontrava asimmetria dell’emitorace destro con spianamento della regione mammaria, e fratture costali multiple; deformazione del profilo dell’addome; squarcio perineale; numerose soluzioni di continuo alla superficie cutanea del dorso. L’esame con il “metal-detector” rilevava in varie sedi la presenza di numerosi frammenti metallici di varie dimensioni, ritenuti superficialmente sino ai piani muscolari, in particolare rinvenuti al capo in regione temporo-occipitale e al dorso in regione lombare. Unitamente al cadavere si rinvenivano altri residui umani, verosimilmente appartenuti al medesimo, elencati e descritti nella relazione autoptica agli atti. I medici legali concludevano che il decesso di Paolo BORSELLINO era stato determinato “da imponenti lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali da esplosione”.

Il cadavere di Walter CUSINA veniva trovato con indosso un paio di pantaloni tipo “jeans” di colore verde, camicia in cotone a righe, slip in cotone bianco. L’ispezione esterna evidenziava aree di affumicamento cutaneo alla nuca e alla regione cervicale, nonché deformazione del massiccio facciale, frattura della mandibola e delle ossa nasali; ampio squarcio cutaneo alla regione anteriore del collo, da un angolo all’altro della mandibola, “… da cui protrude grosso frammento metallico, che viene repertato; detto frammento appare penetrare in profondità pervenendo sino alla cavità orale, con ampio sfacelo delle parti molli e recisione del fascio vascolo-nervoso destro del collo”. Inoltre, si rilevava: uno squarcio in regione sternale e soluzioni di continuo al tronco e alle regioni anteriori degli arti inferiori; area di sfacelo delle parti molli alla coscia destra, con perdita di sostanza ed esposizione dei piani ossei; deformazione della coscia sinistra con aumento di volume; analoga area di sfacelo delle parti molli a carico della gamba destra. I consulenti concludevano che il decesso di Walter CUSINA era stato determinato da “lesione degli organi vascolo-nervosi del collo e da politraumatismo da esplosione”.

L’ispezione esterna del cadavere di Emanuela LOI evidenziava la copertura della superficie cutanea da induito nero, vaste aree di disepitelizzazione e carbonizzazione delle estremità; sulla superficie anteriore del tronco si riscontravano varie soluzioni di continuo interessanti il torace e il collo. Il cadavere appariva depezzato, perché mancante dell’avambraccio destro, degli arti inferiori all’altezza del terzo medio superiore femorale. Alla regione sottomammaria si trovava ampia breccia interessante i piani ossei, con esposizione dei visceri della cavità toracica; inoltre si rilevavano: un ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale; lesione da scoppio di tutto l’ovoide cranico, ampia ferita a spacco del cuoio capelluto in regione occipitale con sottostante scoppio della teca cranica; zona di distruzione delle parti molli ed ossee alla regione claveare e latero-cervicale sinistra; fratture costali multiple e squasso di tutti i visceri toracici; eviscerazione completa della matassa intestinale. Si repertavano poi alcuni resti ritenuti appartenenti al cadavere, elencati e descritti nella relazione dei consulenti. Gli stessi concludevano che la morte di Emanuela LOI era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico, depezzamento ed eviscerazione toraco-addominale da esplosione”.

Il cadavere di Agostino CATALANO veniva trovato con indosso brandelli di camicia e dei pantaloni, con la relativa cintola. Il cadavere, la cui intera superficie cutanea appariva ricoperta da induito nero, risultava depezzato, perché mancante dell’arto superiore sinistro all’altezza del terzo superiore omerale e degli arti inferiori, all’altezza del terzo medio superiore femorale, con ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale ed esposizione del piano osseo sacrale. Si rilevava un’estesa carbonizzazione alla cute del viso, alla faccia anteriore del torace e all’addome; la cute del dorso e dei glutei appariva interessata da numerose soluzioni di continuo. Inoltre, si riscontrava un’ampia soluzione di continuo alla cute della regione occipitale, con frattura della teca cranica; distacco della base di impianto del padiglione auricolare destro; soluzione di continuo in regione frontale destra. L’apertura della calotta cranica permetteva di rilevare, in corrispondenza delle lesioni sopra descritte, l’infossamento dei margini ossei con presenza di numerose schegge ossee infisse nella materia cerebrale e con fuoriuscita di materiale cerebrale; frammenti di materiale metallico si rinvenivano alla regione temporo-auricolare destra e alle parti molli residue dell’arto inferiore sinistro. I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che la morte di Agostino CATALANO era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Vincenzo LI MULI era stato trovato con indosso brandelli di stoffa appartenenti alla cintola, residuo di “slip” e frammenti di tessuto carbonizzato non identificabile. L’ispezione esterna del cadavere permetteva di rilevare una copertura pressoché totale di induito nero e il depezzamento conseguente alla mancanza dell’avambraccio e della mano sinistra, dell’arto inferiore sinistro e del terzo superiore della gamba destra. Si rilevava la presenza di vaste aree di abbruciamento agli arti superiori, con carbonizzazione completa degli strati superficiali; inoltre si osservavano: otorragia destra; ampio squarcio in regione occipitale e cervico-occipitale con esposizione dei piani ossei sottostanti; soluzione di continuo in regione frontale, con esposizione della teca cranica, apparsa fratturata con avvallamento di grosso frammento osseo; vasta perdita di parti molli alla regione pubo-perineale, con sfacelo traumatico della regione pelvica. I medici legali perciò stabilivano che la morte di Vincenzo LI MULI era stata determinata da “ustioni diffuse a tutta la superficie corporea, politraumi e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Claudio TRAINA si presentava depezzato, mancando l’arto superiore sinistro, e interamente ricoperto da induito nero. Si riscontrava lo sfacelo completo di tutto il distretto cervico-cefalico e dell’arto superiore destro, con componenti ossee pluriframmentate e vasta perdita di sostanza dell’avambraccio e della mano, ampio squarcio del cavo ascellare; inoltre si osservavano numerose soluzioni di continuo all’addome e al dorso, lo sfacelo dell’intero distretto pelvico, con eviscerazione della matassa intestinale; squasso degli arti inferiori e numerose soluzioni di continuo in tutta la relativa superficie cutanea; frattura della clavicola destra e di quattro costole; squarcio del sacco pericardico; lesione da scoppio della parete laterale del lobo inferiore del polmone sinistro; lesioni da scoppio a carico della faccia anteriore del fegato e della milza. I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che il decesso di Claudio TRAINA era stato provocato da “squasso cranio-encefalico e dal politraumatismo toraco-addominale con maciullamento degli arti, da esplosione”».

L’atrocità del delitto era, dunque, tale da evidenziare una chiara intenzione di diffondere il terrore tra la popolazione e di riaffermare nel modo più violento il potere di “Cosa Nostra”, compiendo una vera e propria azione di guerra contro lo Stato italiano attraverso l’eliminazione di un Magistrato che era divenuto un grande punto di riferimento ideale per tutto il Paese e degli uomini delle Forze dell’Ordine impegnati nella sua tutela. Questo progetto criminale di straordinaria gravità veniva portato a compimento meno di due mesi dopo la strage di Capaci, determinando così un effetto di enorme portata sull’opinione pubblica, sulla società civile e sulle istituzioni, a livello nazionale e internazionale. E’ quindi naturale domandarsi quale fosse l’obiettivo perseguito da “Cosa Nostra” con la realizzazione di due stragi a brevissima distanza di tempo. Una problematica, questa, che va ricollegata all’analisi della fase deliberativa del delitto, nonché degli eventi che la precedettero e la seguirono. (pagg 135 - 140)

I misteri di una strage. Attilio Bolzoni e F. Trotta su La Repubblica. Quello che una sentenza di Corte di Assise definisce «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» non è ancora un caso chiuso e destinato agli archivi. A ventisette anni dall'esplosivo che ha fatto saltare in aria il procuratore Paolo Borsellino e i cinque poliziotti che erano intorno a lui (i loro nomi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina) c'è qualcosa di sempre più oscuro che affiora dal passato e che fa molta paura. Per esempio: "Soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il falso pentito Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage. E poi: a quelle indagini - ("Richiesta di collaborazione decisamente irrituale”) - parteciparono su invito del procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra agenti dei servizi segreti guidati da quel Bruno Contrada che, qualche mese dopo, sarebbe stato arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. E ancora: il bersaglio del massacro, Paolo Borsellino, non fu mai ascoltato dalla magistratura che investigava su Capaci durante quei 57 giorni che separarono la sua uccisione da quella del giudice Giovanni Falcone. Ma leggendo le 1856 pagine della sentenza del cosiddetto Borsellino quater (presidente della Corte Antonio Balsano, giudice a latere Janos Barlotti, pubblici ministeri dell'inchiesta i procuratori Amedeo Bertone, Gabriele Paci e Stefano Luciani) ci sono tracce che orientano verso altri misteri e ci sono piste che dirigono al cuore dello Stato. In questa serie del Blog abbiamo selezionato (e sintetizzato per ovvie ragioni di spazio)  brani della sentenza e alcune testimonianze - scegliendo le più significative dal processo - per ricostruire l'intero affaire. Si intravedono "suggeritori” e "talpe”, mandanti ed esecutori di un'inchiesta pilotata per trasportare lontano. A giudizio ci sono già tre poliziotti come Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo,  accusati di depistaggio e con il Ministero dell'Interno che ha deciso di non costituirsi parte civile contro di loro.  Sotto indagine per concorso in calunnia aggravato dall'avere favorito Cosa Nostra sono finiti anche gli ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma (che è avvocato generale a Palermo) e Carmelo Petralia (che è procuratore aggiunto a Catania), tutti e due nel 1992 in quel pool di magistrati che stava indagando sulla strage di via D'Amelio. Fra le motivazioni della sentenza del Borsellino quater c'è più di un passaggio che punta il dito contro la magistratura del tempo: «Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata». Indagini molto complesse. Indagini sulle precedenti indagini. Con un pezzo di Stato alla ricerca della verità e un pezzo di Stato che la verità ha cercato di coprirla. E in mezzo il dolore e le grida dei familiari. Come quelle di Fiammetta Borsellino: «Il silenzio degli uomini delle istituzioni è peggio dell'omertà dei mafiosi».

Hanno collaborato Elisa Boni, Carolina Frati, Silvia Giovanniello, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Valentina Nicole Savino e Asia Rubbo

Le indagini affidate agli 007. La Repubblica 20 luglio 2019. Alla luce degli elementi di prova raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, questa Corte ritiene che allo Scarantino debba essere concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 114 comma terzo c.p., che si riferisce «all'ipotesi di colui che sia stato determinato a commettere il reato ed a cooperarvi sempre che ricorra o la fattispecie contemplata dall'art 112 n. 3 di chi nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette, o quella prevista dal numero 4 dello stesso articolo: cioè di determinazione al reato di persona in stato di infermità o di deficienza psichica» (Cass., Sez. II, n. 1696/1976 del 31/10/1975, Rv. 132226). […] Deve, infatti, ritenersi che lo Scarantino sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni sopra descritte da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione. Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità. Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di “collaborare” con la giustizia, in data 24 giugno 1994, lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell'accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto. Si tratta di un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage. E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte. Questa conclusione è rafforzata da una ulteriore elemento, cui ha fatto riferimento il Pubblico Ministero nella sua requisitoria e nell’esame del Dott. Contrada, svolto all’udienza del 23 ottobre 2014: si tratta, precisamente, dell’appunto con cui in data 13 agosto 1992 il Centro SISDE di Palermo comunicò alla Direzione di Roma del SISDE che «in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all'autobomba parcheggiata in via D'Amelio, nei pressi dell'ingresso dello stabile in cui abita la madre del Giudice Paolo Borsellino. (…) In particolare, dall'attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l'identificazione degli autori del furto dell'auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato». In proposito, il Pubblico Ministero ha persuasivamente osservato che «non è dato comprendere come, a quella data (13.8.1992), pur successiva alle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso alla VALENTI Petrina, gli investigatori avessero potuto acquisire – se non in via meramente confidenziale - notizie “sul luogo” in cui l’autovettura rubata era stata custodita. Vi era dunque una traccia in tale direzione che gli inquirenti palermitani si apprestavano a seguire ben prima del comparire sulla scena del CANDURA, prima fonte di accusa nella direzione della Guadagna. Quale fosse tale fonte nessuno ha saputo o voluto rivelarla. Residua allora il dubbio che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente “suggestionabile”, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via D’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti». La particolare attenzione rivolta allo Scarantino dai servizi di informazione, nei mesi immediatamente successivi alla strage, è ulteriormente dimostrata da alcuni elementi probatori raccolti nel processo c.d. “Borsellino uno”. In particolare, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta all’esito del primo grado di giudizio ha sottolineato quanto segue: «La piena operatività dello Scarantino Vincenzo in ambito delinquenziale, la sua appartenenza ad un nucleo familiare notoriamente inserito nel contesto criminale della Guadagna erano peraltro dati già acquisiti al patrimonio conoscitivo dei Servizi di informazione e degli Organi Inquirenti anteriormente al coinvolgimento dell’imputato nei fatti per cui è processo.

Il teste dr. Finocchiaro Mario, che all’epoca delle stragi rivestiva le funzioni di Dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta, ha riferito in dibattimento di aver trasmesso alla Procura Distrettuale in sede una informativa riservata del SISDE pervenuta al suo ufficio, nella quale si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti. Si evidenziava in particolare nella nota in questione, sul cui contenuto ha dettagliatamente riferito in dibattimento il dr. Finocchiaro Mario, che una sorella di Vincenzo Scarantino, di nome Ignazia, è coniugata con Profeta Salvatore, esponente della cosca di S. Maria di Gesù, una zia paterna, che porta parimenti il nome Ignazia, è sposata con Profeta Domenico, fratello del predetto Salvatore, una cugina paterna, anch’essa di nome Ignazia, è coniugata con Lauricella Maurizio. Il predetto è figlio di Madonia Rosaria, a sua volta figlia di Madonia Francesco, cugino omonimo del noto boss mafioso di Resuttana. Il medesimo Lauricella Maurizio è imparentato, tramite suoi stretti congiunti, con altri esponenti mafiosi della cosca di Corso dei Mille e più specificamente la di lui sorella Giuseppa è sposata con Sinagra Giuseppe, fratello del noto collaboratore di giustizia, un’altra sorella di nome Angela è coniugata con Senapa Pietro, elemento di spicco della suddetta famiglia mafiosa, condannato all’ergastolo nel maxiprocesso di Palermo. Nella stessa informativa del SISDE venivano ancora richiamati i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dei componenti la famiglia Scarantino. In essa si sottolineava in particolare che i fratelli di Scarantino Vincenzo, Rosario, Domenico, Umberto ed Emanuele, avevano riportato diverse denunce, anche per reati di una certa gravità, quali associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, tentato omicidio, detenzione di armi, rapina, furto, ricettazione ed altro; la cognata Gregori Maria Pia, moglie di Scarantino Rosario aveva precedenti per sfruttamento della prostituzione, un’altra cognata Prester Vincenza, coniugata con Scarantino Umberto, aveva precedenti per associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; gli zii paterni Scarantino Alberto e Lorenzo avevano precedenti rispettivamente per lesioni, violazione alla normativa sulle armi, furto e ricettazione; i cugini Gravante Giovanni e Chiazzese Natale avevano precedenti per associazione per delinquere e furto. Si evidenziava infine nella nota in questione che la persona più in vista, sotto il profilo delle capacità criminali e della pericolosità sociale, dell’entourage familiare dello Scarantino Vincenzo era sicuramente il di lui cognato Profeta Salvatore, già denunciato per associazione per delinquere semplice e mafiosa, per estorsione, armi, traffico di stupefacenti ed altri reati minori, implicato nel cd. blitz di Villagrazia e da ultimo nel maxi processo di Palermo».

Come ha rilevato il Pubblico Ministero nella sua requisitoria, tale nota fu trasmessa il 10 ottobre 1992 alla Squadra Mobile di Caltanissetta. Ad essa ha fatto riferimento, nella deposizione resa all’udienza del 23 ottobre 2014, il Dott. Bruno Contrada, che ha spiegato che la stessa fu redatta dal capo del centro SISDE di Palermo su diretta richiesta del Dott. Tinebra, benché non fosse possibile instaurare un rapporto diretto tra i servizi di informazione e la Procura della Repubblica («poi mi fu fatto leggere l'appunto dal direttore del centro, che il dottor Tinebra chiese personalmente al capocentro, al colonnello Ruggeri, un appunto sulla personalità di Vincenzo Scarantino e sui suoi eventuali legami con ambienti della criminalità organizzata, cioè della mafia, e di riferire direttamente a lui tutto questo. Al che il direttore del centro, sapendo bene che non poteva avere questo rapporto diretto con la Procura della Repubblica, chiese l'autorizzazione alla direzione di poter svolgere questa indagine sua, autonoma, su Scarantino»). Dalla deposizione del Dott. Contrada emerge, altresì, una ulteriore iniziativa, decisamente irrituale, del Dott. Tinebra, il quale, già nella serata del 20 luglio 1992, gli chiese di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura («Io ero a Palermo, dove (…) risiedeva ancora la mia famiglia, nonostante fossi in servizio a Roma, (…) e io spesso venivo giù a Palermo, non dico tutte le settimane, ma perlomeno un paio di volte al mese. Ero in ferie dal 12 luglio e sarei rimasto in ferie fino al primo agosto a Palermo. La sera del 19 luglio... no, forse no la sera, la mattina dopo, il 20 luglio, la mattina, ebbi una telefonata dal dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, commissario di Pubblica Sicurezza, aggregato... nei ruoli del SISDE, quindi faceva servizio al Servizio, al SISDE, ed era il genero del Capo della Polizia Vincenzo Parisi, aveva sposato una delle figlie del Prefetto Parisi, il quale mi dice che per incarico di suo suocero, il Capo della Polizia Parisi, ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, che era da pochi giorni immesso nel possesso della carica di Procuratore di Caltanissetta, da pochi giorni, da poco tempo, pochi giorni, che desiderava parlarmi. Nel contempo il dottor Costa mi disse che potevo andare la sera, perché ne aveva già parlato con il Procuratore Tinebra, al Palazzo di Giustizia a Palermo, in un ufficio che gli era stato dato provvisoriamente al dottor Tinebra, alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo, un ufficio dove lui aveva questi primi contatti, perché doveva occuparsi di questa strage, come già si occupava Caltanissetta della strage di Capaci, Falcone. Ed io andai quella sera dal dottor Tinebra, che non conoscevo, con cui non avevo avuto mai rapporti; e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, etc., etc., per le indagini sulle stragi. Io feci presente varie cose al dottor Tinebra: innanzitutto che ero un funzionario dei Servizi e quindi non rivestivo più la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria, quindi non potevo svolgere indagini in senso proprio, la mia poteva essere soltanto un'attività informativa, non operativa; che per Legge noi non potevamo avere rapporti diretti con la magistratura; che, in ogni caso, io avrei dovuto chiedere l'autorizzazione ai miei superiori diretti, e parlo del mio direttore, che era allora il Prefetto Alessandro Voci, e che anche una collaborazione sul piano informativo poteva avvenire soltanto previ accordi con gli organi di Polizia Giudiziaria che erano interessati alle indagini. Nell'occasione il dottor Tinebra mi disse anche, così, per inciso, dice: "Sa, io mi rivolgo a lei perché a Caltanissetta è stato costituito un ufficio della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ma da poco tempo e mi sono reso conto che c'è personale che di fatti di mafia ne comprende ben poco", detto dal dottor Tinebra. Io non sapevo neppure chi erano i componenti della DIA di Caltanissetta, che lavoravano con la Procura della Repubblica di Caltanissetta. Comunque, dissi: "Io sono per mia... per il mio spirito di servizio, per la mia volontà di... di rendermi utile per quello che posso fare, che è nelle mie possibilità, a questo, però devo chiedere prima di tutto l'autorizzazione al mio direttore". Non mi è sufficiente che questa richiesta mi venga dal Capo della Polizia, perché io non dipendo più dal Capo della Polizia, e che comunque sarei stato disposto a dare il mio contributo qualora si fossero osservate queste norme: autorizzazione dei miei superiori e intese con gli organi di Polizia, Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, interessate alle indagini sulle stragi». E’ appena il caso di osservare che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia.

La scomparsa dell'agenda rossa. La Repubblica l'1 luglio 2019. Ci si deve poi soffermare (come preannunciato) sulla vicenda relativa alla misteriosa scomparsa dell’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino, dalla quale (come è noto) il Magistrato, nel periodo successivo alla morte di Giovanni Falcone, “non si separava mai”, portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo “quasi maniacale”42 e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano nell’ultimo periodo della sua vita, poiché, nella vana attesa d’essere convocato dal Procuratore Capo di Caltanissetta, per essere sentito sulla strage di Capaci, riteneva che era giunto “il momento di scrivere”.

[Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013”.

TESTE CANALE C. - Sì, ci sono due circostanze, se è per questo: una, la circostanza è... eravamo a Salerno ed eravamo in albergo. (…) Al ritorno dalla... dalla Germania. (…) Una settimana prima di morire. (…) La mattina, mi riferisco alla... alla cosa principale, quello che è successo principalmente la mattina. La mattina lui, come al solito, si svegliava alle sei, cinque e mezzo, perché lui aveva... da buon palermitano sosteneva che si alzava prima per fottere almeno i palermitani di un'ora, questa era... così, proprio la diceva così. Mi venne a svegliare verso le sei - sei e mezzo. (…) non le... non le nascondo la felicità nel sentire bussare alle sei e mezzo, di farmi la sveglia, avevamo fatto tardi la sera prima, quindi... E nella circostanza mi disse di andarci a prendere il caffè, che già lui ne aveva preso uno. Naturalmente io mi alzai, mi feci in fretta e in furia la doccia, non... non lo volevo fare aspettare, e lui era... io credo che... io ho un ricordo, ricordo che era diste... no disteso, seduto sul letto che stava scrivendo proprio, o sul letto o sulla scrivania, ma io ho la certezza è sul letto, ho un ricordo... (…) Stava scrivendo. (…) E io... mi venne così, ma perché noi eravamo due palermitani, tutti e due nati alla Kalsa, avevamo questo modo di parlare, tutti e due scherzavamo, la prendevamo perché non si poteva essere seri, sennò finiva prima la vita, quindi la prendevamo scherzando, gli dissi: "Procurato', ma che fa, scrive a quest'ora? Ma che fa, 'u pentito pure lei?" E lui inizialmente accennò ad un sorriso, ma poi, molto seriamente, disse che era venuto il momento di scrivere e che ce ne sarebbe stato per tutti: "Ivi compreso anche per lei", naturalmente rideva, ma questa fu una battuta che... chiuse l'agenda, la ripose nella sua valigetta, nella sua borsa, e siamo scesi giù a prenderci il caffè in riva al mare, perché c'era... eravamo sul mare noi, era un albergo sul mare. Ecco, lo vidi però molto... non era al solito suo la mattina. Tra l'altro io mi pigliai il caffè, ma lui si mangiò il gelato, e quindi lo vidi, era un po'... era molto teso. Questo. (…) No, no, no, l'ho visto... io... allora, bisognerebbe conoscere Borsellino. Quando lui era così, c'era qualche cosa che non andava; io cercavo di... così, di rompere questo ghiaccio per farlo stare tranquillo, ma non... non è che stava poi bene bene, era proprio teso, molto teso, nervoso. (…) Andammo giù. Io presi il caffè, ma lui mangiò un gelato, se non ricordo male.(…) E lui in quella circostanza mi disse questa... questa battuta, cioè: "Sarei ipocrita - dice - a dirle che il dolore che lei, in quanto padre, ha provato per la morte di sua figlia, sia la stessa che io provo per Giovanni, per la morte di Giovanni Falcone, ma le assicuro che sono veramente colpito di questo". Cioè assimilò al dolore che io provavo come padre, che mi era venuta a mancare una bambina, rispetto alla morte di Giovanni Falcone, che aveva lui. (…) E io credo che la connessione potrebbe essere in quello che lui aveva scritto in quel diario. (…) In quell'agenda. (…) Come se lui avesse trasferito qualche pensiero legato a Falcone su quell'agenda, non c'è dubbio.

P.M. Dott. LUCIANI - Ma glielo esplicitò chiaramente o è una sua deduzione?

TESTE CANALE C. - No, no, no, è una mia intuizione, perché non avevamo altri discorsi, ecco. E andare a toccare poi mia figlia, che lui sapeva che era un argomento che mi pesava tantissimo, era appena morta la bambina, quindi era un argomento molto pesante.

P.M. Dott. LUCIANI - Certo. Giusto per chiarire, lei, proseguendo, dice: "Ma certo, per me è stato un dolore immenso - riferendosi alla morte del dottore Falcone - per questo ho deciso che è giunto il momento di scrivere".

TESTE CANALE C. - "E' il momento di scrivere", sì, questo io l'ho detto, certo.

P.M. Dott. LUCIANI - Ah, ok. Fa riferimento, comunque, al fatto.

TESTE CANALE C. - Certamente sì, di scrivere. Ed ecco perché io lo trovo mentre scrive. Guardi, poi questa sua... a questa agenda è legato un altro... un altro fatto, io ho un vago ricordo, ma io credo che ci siamo allontanati, credo, il sabato dalla... dall'albergo e Borsellino dimenticò l'agenda. Se la portava sempre dietro, e allora, arrivato a casa di Cavaliero successe l'inferno, perché dovevamo andare a prendere 'sta agenda, cioè per lui l'agenda era sacra. (…) L'aveva dimenticata in albergo. (…) Lui pensava: "Non è che l'ho persa?" Cioè aveva tutte le... secondo me aveva tutti gli appunti in quell'agenda, che gli servivano, perché lui aspettava, e lo diceva sempre, non ne faceva mistero, lui aspettava di essere sentito dal Procuratore di Caltanissetta.

P.M. Dott. LUCIANI - E si mostrò agitato per il fatto che non trovava la borsa?

TESTE CANALE C. - Certo, era agitatissimo, abbiamo dovuto ritornare nuovamente in albergo e quando ha visto che la borsa era là, l'agenda era là, insomma, si è tranquillizzato. Ma lui non se ne distaccava mai, soprattutto negli ultimi tempi”.]. Ebbene, che Paolo Borsellino avesse portato con sé l’agenda in questione anche quel 19 luglio 1992, non v’è alcun dubbio. Infatti, la figlia Lucia Borsellino, quella mattina, era con lui, nello studio di casa, quando il padre riordinava la propria scrivania e metteva proprio quell’agenda rossa dentro la sua borsa, subito prima di uscire.

[Cfr. deposizione di Lucia Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pag. 55:

TESTE L. BORSELLINO - Lo ricordo perché dormendo nel suo studio vidi proprio gli oggetti che stava recuperando, tra cui un'agenda marrone, un'agenda rossa, il costume da bagno, le chiavi, le sigarette e qualche altra cosa; non ricordo se avesse anche qualche carta con sé, però ricordo tranquillamente che ordinò il tavolo riponendo all'interno della borsa questi oggetti...

46 Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013, pag. 98:

“TESTE CANALE C. - Allora, per quelli che sono i miei ricordi, credo che sia o Agnese Borsellino o Lucia mi riferirono... mi riferirono che suo marito aveva ricevuto... o l'aveva visto il professore Tricoli, aveva ricevuto una telefonata da un funzionario e lui aveva annotato un numero lunghissimo della Germania, perché, come le dicevo poc'anzi, ci preparavamo per andare a fare la rogatoria nuovamente in Germania, e quindi lui aveva annotato il numero di telefono proprio su quell'agenda rossa.

P.M. Dott. LUCIANI - Questo il giorno della domenica, il 19 luglio?

TESTE CANALE C. - Sì, prima di... prima di andarsene a Palermo. Questo me lo riferisce o la signora Agnese Borsellino o Lucia, o qualcuno della famiglia, o lo stesso professore Tricoli, non... non ho un ricordo”.

47 Cfr. deposizione di Antonio Vullo, nel verbale d’udienza dibattimentale del 8.4.2013, pag. 34:

AVV. REPICI - La prima: ha ricordo se... o meglio, il giorno in cui andaste, il pomeriggio del 19 luglio andaste a prendere il dottor Borsellino a Villagrazia di Carini, partendo verso Palermo il dottor Borsellino aveva una borsa professionale con sé?

TESTE VULLO A. - Ma io l'ho... l'ho visto uscire con la borsa, però non... non l'ho visto se l'ha messa in auto o meno, però l'ho visto con la borsa.

AVV. REPICI - Cioè lui è uscito di casa con la borsa...

Inoltre, nel pomeriggio, quando il Magistrato riceveva una telefonata di lavoro a Villagrazia di Carini, usava proprio l’agenda rossa per annotarvi un lungo numero di telefono tedesco, in vista della nuova rogatoria che s’apprestava ad effettuare in Germania. Ancora, quando usciva dalla casa di villeggiatura di detta località, per recarsi a Palermo, dalla madre, in via D’Amelio, Paolo Borsellino aveva con sé la sua borsa, così come l’aveva quando salutava, per l’ultima volta, il figlio Manfredi.

[Cfr. deposizione di Manfredi Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg. 85 ss:

AVV. REPICI - Dottore, una precisazione: lei vide allontanarsi suo padre da Villagrazia di Carini nel pomeriggio?

TESTE M. BORSELLINO - Allora, mio padre da Villagrazia di Carini è andato via una volta che già, previ accordi con mia nonna, doveva... doveva raggiungerla per portarla dal cardiologo. Io ho trascorso buona parte della mattinata, il pranzo con mio padre; il pranzo un po' come tanti pranzi siciliani durò abbastanza, dopodiché mio padre credo che ricevette pure una o due telefonate, non ricordo bene, tant'è che forse cercava una penna per annotarsi qualche cosa, comunque dopo il pranzo, ripeto, la nostra villa era aperta, probabilmente all'interno di quella villa aveva lasciato lui la borsa, perché comunque la nostra villa rimane tutto il tempo aperta, era da molto che era chiusa, per cui l'abitudine era di aprire finestre, porte, etc. Dopo pranzo mio padre è andato a riposare. Io mi trattenni, invece, presso la villa del professore Tricoli, c'era un campo da... un tavolo da ping-pong, quindi mi misi a giocare a ping-pong, e mio padre è rimasto nella villa a riposare. In realtà lo capimmo dopo che non era andato a riposare, perché accanto... intanto non era salito sopra, dove c'era la camera matrimoniale dei miei genitori, ma si era trattenuto in una stanza giù, che, diciamo, ai tempi era adibita a... era la stanza matrimoniale dei... la camera matrimoniale dei miei nonni; e poi abbiamo notato che c'era un portacenere pieno, proprio carico di cicche di sigarette, cicche peraltro abbastanza recenti, perché lì la casa era chiusa da diverso tempo, per cui non poteva che... non potevano che essere riconducibili a lui. Si trattenne poco a riposare, perché, ripeto, il pranzo era finito tardi, abbastanza tardi; peraltro durante quelle ore abbiamo trascorso dei momenti assolutamente sereni, spensierati, anche mio padre pareva di buonumore. Poi però, ripeto, si andò a riposare. Era sua abitudine fare una (…) una piccola pausa dopo pranzo, però dovrebbe essere durata abbastanza poco, perché già era tardi, eravamo nel pomeriggio inoltrato. Quando mio padre ha deciso di... di prepararsi per fare rientro a Palermo, si è vestito lì nella casa nostra, ci ha raggiunto nella villa del professore Tricoli; ricordo che aveva questa borsa che teneva nella mano; chiese anche notizie un po' del tour de France com'era andato, come non era andato, salutò tutti i commensali di quella... perché comunque aveva detto che si sarebbe allontanato, poi però è ritornato per salutare tutte le persone con cui aveva pranzato; ovviamente salutò mia madre, i miei zii, mia nipote, dopodiché io lo aspettavo in qualche modo sull'uscio della... del cancello della villa Tricoli e lui mi fece segno come dire: "Manfredi, vieni con me, accompagnami fino alla macchina". Tra l'altro io credo che seppi in quel momento che stava andando da mia nonna, perché sapevo che sarebbe rientrato anticipatamente perché aveva necessità di... lavorava tantissimo in quei giorni e comunque lui era un momento in cui non gradiva probabilmente che noi familiari (…) entrassimo con lui nella macchina blindata o ci muovessimo con lui. Non lo so, probabilmente percepiva... anzi, no, sicuramente percepiva un pericolo maggiore dopo la morte di Falcone, ce lo disse in modo evidente: "Guardate, siamo a un punto di non ritorno, la morte... cioè Giovanni Falcone per me rappresentava uno scudo, dopo di lui io non ho più..." Ci diceva, siccome per tanti anni si era sforzato di farci condurre una vita normale, ci disse che non sarebbe più riuscito a garantirci questa vita normale, probabilmente avremmo vissuto tutti una situazione, lui in particolare, dalla quale non sarebbe più potuto sfuggire, non si sarebbe potuto sottrarre più a certi dispositivi di sicurezza. Io che in quei giorni seguivo molto mio padre anche con lo sguardo, quando andava via al Palazzo di Giustizia la mattina, quando rientrava, ero un po' ansioso devo dire, anche quella mattina effettivamente mi è venuto naturale, a prescindere che mio padre mi chiedesse di fare questi due passi insieme, che poi...

AVV. REPICI - Quindi quel pomeriggio intende?

TESTE M. BORSELLINO - Sì, sì, quel pomeriggio, quando... dico, la distanza tra la villa del professore Tricoli e dove erano parcheggiate le tre macchine blindate, inclusa quella in cui poi entrò mio padre, che guidava mio padre, dico, è una distanza veramente irrisoria, parliamo di settanta metri, però io me li feci tutti insieme a... a mio padre. Scusate, non è facile parlare di questo istante, perché... (…) Niente, quindi percorro questo tratto di strada con mio padre. Ricordo bene anche un particolare: mio padre aveva la borsa da una parte e la mano assolutamente libera dall'altra. Ho solo un piccolo... faccio solo una piccola confusione sul fatto che questa borsa per un piccolo tratto gliel'ho portata io; però, in realtà, o gliel'ho portata io o l'ha portata lui, perché poi è stato lui a metterla dentro la macchina blindata, lui aveva la borsa, tutto il contenuto all'interno della borsa, l'altra mano era assolutamente libera, lo accompagno... proprio le macchine, gli agenti di scorta, i ragazzi, erano tutti che l'aspettavano, tranne forse uno che l'ha seguito insieme a me in questi settanta metri, tutti che l'aspettavano in questo piazzale che c'è all'ingresso del residence. Mio padre mi sa... mi salutò due volte. (…) ]. Di detta agenda rossa, tuttavia, non v’era più alcuna traccia, quando la borsa del Magistrato veniva restituita ai suoi familiari, diversi mesi dopo la strage, con ancora dentro tutti gli altri effetti personali, integri (fra i quali persino un pacchetto di sigarette, oltre ad un’altra agenda marrone). L’istruttoria dibattimentale, oltre a far emergere molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati sulla sparizione dell’agenda in questione, evidenziava un comportamento veramente inqualificabile da parte del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo: infatti, il dottor Arnaldo La Barbera dapprima diceva alla vedova Borsellino che la borsa del marito era andata distrutta ed incenerita nella deflagrazione (come risulta dalla deposizione del Maggiore Carmelo Canale, sul punto, de relato dalla Sig.ra Agnese Piraino) salvo poi restituirgliela, diversi mesi dopo (come si vedrà a breve), negando -in malo modo- l’esistenza di agende rosse.

[Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013, pagg. 100 s:

P.M. Dott. LUCIANI - Questa circostanza che ora le leggo. Le ho già menzionato l'articolo apparso (…) sul settimanale "Esse".

TESTE CANALE C. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - In quella circostanza lei, è un virgolettato, quindi volevo capire se è... ma poi, diciamo, sul punto lei è stato anche specificamente sondato da questo ufficio, lei dice, o meglio, almeno è riportato virgolettato, quindi dovrebbero essere le sue parole: "Arnaldo La Barbera mi ha detto che la borsa è andata distrutta..."

TESTE CANALE C. - E' così.

P.M. Dott. LUCIANI - "...disse a Canale la signora Agnese Borsellino". E infatti sul punto lei viene escusso il 13 novembre del 2012 dalla Procura di Caltanissetta e anche in quella sede lei dichiara: "Sul punto confermo sostanzialmente, il contenuto di quanto riferito nell'intervista, precisando che la notizia secondo cui Arnaldo La Barbera aveva detto che la borsa era andata distrutta è stata da me appresa da Agnese Borsellino..."

TESTE CANALE C. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - "...che me lo disse pochi giorni dopo il 19 luglio del '92".

TESTE CANALE C. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Glielo leggo perché, diciamo, lei l'ha posta in forma dubitativa ora.

TESTE CANALE C. - Sì, sì, ma io credo... credo di aver detto questo.

P.M. Dott. LUCIANI - Qua è assertivo, invece.

TESTE CANALE C. - Io credo di aver detto questo. Io confermo integralmente questo, cioè perché io quando... quando ho avuto l'opportunità di parlare con Agnese Borsellino, lei immagini l'indomani cosa c'era a casa. Dunque, si può affermare[...] che l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro. Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste.

Tuttavia, alcuni dati possono senz’altro esser affermati, alla luce delle emergenze istruttorie:

- già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti;

- chi notava detta presenza di quella “gente di Roma” (oggettivamente anomala, se non altro per i tempi), non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici od ai Pubblici Ministeri (la circostanza, come detto, veniva affermata dal Sovrintendente Maggi, per la prima volta in assoluto, nel dibattimento di questo processo, oltre vent’anni dopo i fatti; anche il Vice Sovrintendente Garofalo veniva sentito, per la prima volta, dalla Procura di Caltanissetta, nell’anno 2005);

- ai familiari di Paolo Borsellino non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa del loro congiunto ed alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barbera le diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti (come detto) che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992;

- chi portava la borsa nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, non riteneva di dover fare alcuna relazione di servizio (almeno fino a cinque mesi dopo), né di dover far rilevare che vi erano degli appartenenti ai Servizi Segreti sullo scenario della strage;

- alcuni mesi dopo la strage, il dottor Arnaldo La Barbera riteneva di recarsi, personalmente, a casa della Sig.ra Agnese Piraino, per la restituzione della borsa del marito, che avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio);

- in detta occasione, innanzi alla richiesta della figlia, Lucia Borsellino, di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre (non presente fra gli altri suoi effetti personali, dentro la borsa), il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire;

- a fronte dell’insistenza della ragazza (che usciva persino dalla stanza, sbattendo la porta), il dottor Arnaldo La Barbera, con la sua voce roca, diceva alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto “delirava”

Cfr. deposizione di Lucia Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg. 58 s:

TESTE L. BORSELLINO - Sì, disse proprio... non era stata per niente contemplata l'ipotesi che potesse esserci un altro... un altro oggetto, per cui, al mio insistere, mi fu detto addirittura che deliravo.  o “farneticava”

[Cfr. deposizione di Manfredi Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg.156:

TESTE M. BORSELLINO - Ma io mi riferisco al modo con cui si rivolse soprattutto a mia sorella e poi a noi tutti, sostenendo che farneticava, sostenendo che si stava inventando lì per lì il discorso dell'agenda rossa quasi per farle... per fargli perdere tempo. Cioè lui ha avuto... lui, sostanzialmente, non era venuto per acquisire informazioni, per avere dei colloqui investigativi, che in quel momento penso fosse il minimo dovere avere con la moglie e con i figli di Paolo Borsellino, cioè lui è venuto là semplicemente per liberarsi del... della borsa e del contenuto che... di cui riteneva di potersi liberare, cioè che non aveva rilevanza investigativa per lui e... e andarsene (…).].

Un atteggiamento, questo, che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre. (pagg 824-829; pagg 962-964)

Il capitano con la borsa in mano. La Repubblica il 2 luglio 2019. Appare pure molto grave il comportamento tenuto dal Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano proprio la borsa del Magistrato. L’ufficiale dei Carabinieri, sotto impegno testimoniale, ammetteva la circostanza appena riportata, senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione -dal suo punto di vista- in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché. Detta affermazione, tuttavia, oltre che scarsamente credibile è anche in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa. La deposizione dell’ufficiale dei Carabinieri (al netto del suo evidente timore - palesato in diversi passaggi della testimonianza- di rendere dichiarazioni autoincriminanti), pare ben poco convincente, tanto più considerando le sue pregresse dichiarazioni, con le quali il teste spiegava (nel maggio 2005) che veniva informato, dal dottor Ayala oppure dal dottor Teresi (più probabilmente dal primo dei due) del fatto che esisteva un’agenda tenuta dal dottor Paolo Borsellino e che, su specifica richiesta, andava a controllare all’interno dell’automobile blindata, dove effettivamente rinveniva la borsa in pelle di color marrone, sul pianale dietro al sedile del conducente. Dopo aver prelevato la borsa dall’automobile blindata, portandola dove stavano in attesa i dottori Ayala e Teresi, “uno dei due predetti magistrati aprì la borsa”, dentro la quale non vi era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Dopo detta verifica, l’ufficiale dei Carabinieri incaricava uno dei propri sottoposti di mettere la borsa nella macchina di servizio di uno dei due Magistrati predetti. Si riporta qui di seguito il relativo stralcio del verbale dibattimentale, con anche la contestazione delle precedenti dichiarazioni rese da Arcangioli in fase d’indagine preliminare:

P.M. Dott. LARI - Sì, questa foto la ritrae in possesso di quella che è la borsa, diciamo, del dottor Borsellino. Lei si riconosce in quella fotografia?

TESTE ARCANGIOLI G. - Eh, certo, sono io.

P.M. Dott. LARI - Ecco, quindi allora a questa domanda risponde positivamente. Ecco, lei ci può, diciamo, ricostruire oggi le ragioni, le modalità che la portarono ad entrare in possesso di questa borsa?

TESTE ARCANGIOLI G. - Allora, Signor Presidente, anche in questo caso questa domanda mi è già stata rivolta (…). La ringrazio, ma nonostante la lettura dell'art. 63, la risposta a questa domanda molto probabilmente può contenere, diciamo così, elementi autoaccusatori, perché questa domanda mi è stata fatta in passato e l'esito è stato che sono stato accusato. Allora, anche tornando... quindi... anche tornando, diciamo così, alla premessa che ho fatto, io non me lo ricordo com'è andata a finire, cioè com'è iniziata che io avessi questa borsa e che fine ha fatto questa borsa, non me lo ricordo. E' quello che dicevo prima, che ho provato a ricostruire con l'ufficio di Procura quello che poteva essere accaduto e la conseguenza è stata che sono stato indagato in un processo e indagato e imputato in un secondo processo. Quindi non me lo ricordo. (…)

P.M. Dott. LARI - Presidente, forse potrei, per aiutare la memoria del teste, potrei leggere quello che nel 2005 egli ebbe a dichiarare all'ufficio del Pubblico Ministero, esattamente il 5 maggio del 2005, quando, e ci tengo a precisarlo, non vi era alcun indizio nei suoi confronti di essere il responsabile del furto dell'agenda, perché quegli elementi indiziari nei suoi confronti vennero fuori soltanto nel 2006, quando il giornalista Baldo di Antimafia 2000 portò in Procura... anzi, portò presso la DIA la fotografia che oggi abbiamo mostrato al teste, quindi allora venne sentito...

TESTE ARCANGIOLI G. - No, la foto era già presente nel 2005, signor Procuratore.

P.M. Dott. LARI - Nel 2005 alla DIA, scusi, nel 2005. Comunque questo primo verbale sicuramente, diciamo, è un verbale in cui egli venne sentito come persona informata sui fatti.

TESTE ARCANGIOLI G. - Anche nel secondo sono stato sentito come persona informata...

P.M. Dott. LARI - Ma io sto parlando del primo. Lei mi deve fare la cortesia, colonnello, di non interrompermi mentre parlo, è una questione di rispetto. E allora, lei ha dichiarato: "Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due e sicuramente non il dottor Di Pisa, mi informarono del fatto che doveva esistere un'agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all'interno della vettura di fosse una tale agenda, eventualmente all'interno di una borsa. Se non ricordo male, aprii lo sportello posteriore sinistro e, posata sul pianale dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottor Ayala e il dottor Teresi. Uno dei due predetti magistrati aprì la borsa e constatammo che non vi era all'interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti, per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori, di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati di cui ho detto. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso". Ecco, questa sua dichiarazione poi lei, successivamente, l'ha modificata nel successivo verbale del 2006. Ecco, serve a ricordarle qualcosa questa dichiarazione? Che sono due parole quelle che io ho letto.

TESTE ARCANGIOLI G. - Allora, Signor Presidente, la fotografia già esisteva ai tempi del verbale del 2005, era già nella... diciamo così, ce l'aveva già l'ufficio di Procura. Quel verbale come... quell'audizione come teste, come la successiva, purtroppo non sono stati registrati; se ci fossero le registrazioni oggi saremmo in ben altra situazione. Il "non ricordo" all'inizio della frase, e questi sono i miei timori che Le anticipavo prima, mi è già stata fatta la contestazione nel verbale del febbraio del 2006. Allora, quel "non ricordo" all'inizio della frase significa: non ricordo quello che poi viene detto successivamente. Quindi non ricordo tutto quello che ha letto il signor Procuratore della Repubblica, non lo ricordo. Come... sennò ricado nello stesso errore. Allora se è una ricostruzione, posso provare a farla con grandissimi limiti e dicendo che è una ricostruzione; se è un ricordo, come ho scritto lì, è non ricordo quello che avviene successivamente. Non si può togliere il "non ricordo" e prendere per una positività quello che viene dopo. Non lo ricordo, poi...

P.M. Dott. LARI - Il "non ricordo" si riferisce se il dottor Ayala o il dottor Teresi.

TESTE ARCANGIOLI G. - No, il "non ricordo", visto che l'ho firmato io, si riferisce a tutta la frase. Certo, come si redige un verbale, e anch'io ho la mia esperienza, non è che metto "non ricordo se si riferisce ad Ayala o Teresi, non ricordo..." Mette "non ricordo" all'inizio, è quello che segue che non ricordo, non è...

P.M. Dott. LARI - Allora, Presidente, io lo rileggo per chiarezza anche dei Giudici della Corte d'Assise: "Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due, mi informarono del fatto che doveva esistere un'agenda". Quindi l'affermazione su informato del fatto che vi era un'agenda, "non ricordo se ad informarmi fu il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due", questa è la dichiarazione.

TESTE ARCANGIOLI G. - No, il... no, il "non ricordo" vale per tutta la frase, tant'è che all'ultimo insistii per mettere quell'altro periodo, fortunatamente, che lei ha letto poco fa, dove dice che il ricordo è molto labile. Insistii per mettere questo periodo a suggello del "non ricordo" iniziale.

P.M. Dott. LARI - Comunque la mia domanda è: avendole letto io questa frase, al di là dell'interpretazione autentica del suo pensiero, se questo serve a rinfrescare la sua memoria.

TESTE ARCANGIOLI G. - Eh, Signor Presidente, io non me lo ricordo quando...

P.M. Dott. LARI - Quindi lei oggi, essendole mostrata una foto in cui lei viene ritratto con la borsa di Paolo Borsellino, lei risponde: "Non mi ricordo come sono venuto in possesso di questa borsa"?

TESTE ARCANGIOLI G. - E' la veri... è la verità, è la verità, con tutti i limiti che essa può essere, con tutte le fallacità che essa può contenere, ma non me lo ricordo come ne sono venuto in possesso. Era una borsa... non... non me lo ricordo.

P.M. Dott. LARI - Lei è stato anche fotografato con questa borsa mentre si allontanava, tra l'altro, dal luogo, diciamo, dove la borsa era custodita, cioè la macchina del dottore Borsellino, ad una distanza di circa... è stato fotografato anche a circa settanta - ottanta metri, sessanta - settanta metri, in direzione della via Autonomia Siciliana; vi sono immagini, appunto, che la ritraggono con questa borsa in mano dapprima nella parte opposta dell'abitazione della madre del dottor Borsellino ed in seguito quasi all'imbocco della via Autonomia Siciliana. Vi sono diversi fotogrammi, non è soltanto questo che le è stato mostrato. Adesso glieli mostriamo un attimo. Possiamo, Presidente? (…)

P.M. Dott. LARI - Sì. Allora, l'altra domanda è: lei non ricorda, ha detto, come sia venuto in possesso della borsa, ma ricorda di avere aperto la borsa e avervi guardato dentro? Le abbiamo letto la sua dichiarazione, che lei ha aperto e ha guardato dentro.

TESTE ARCANGIOLI G. - Sì, io ricordo di aver guardato dentro quella borsa; se le dovessi dire esattamente dove, non sono in grado di stabilirlo, non sono in grado di... forse dalla parte opposta, diciamo così, da dove si trovava l'abitazione del Giudice. C'ho guardato dentro, non mi ricordo di aver visto alcunché che potesse attirare l'attenzione. Ho invece un ricordo, perché.. di quello che c'era dentro, ed era un crest dei Carabinieri. Eh, il mio... la mia mente lì si è fermata, perché il Giudice dentro la sua borsa teneva un crest dei Carabinieri.

P.M. Dott. LARI - E soltanto un crest? Lei ha parlato...

TESTE ARCANGIOLI G. - Il mio ricordo si ferma al crest, poi forse probabilmente c'era anche altro, però il mio ricordo è il crest; era un crest dei Carabinieri, per questo ha colpito la mia memoria, il mio ricordo.

P.M. Dott. LARI - E lei ricorda se quando ha guardato all'interno della borsa, ha guardato da solo o era in compagnia di un magistrato? Ed eventualmente chi era questo magistrato?

TESTE ARCANGIOLI G. - Sono domande che la Corte non conosce, ma mi sono già state ovviamente rivolte e sono in atti. Io non ho la certezza, non ho un ricordo nitido con chi ho guardato all'interno della borsa. Anche all'epoca, come dico oggi, mi sembra, ma rimane un "mi sembra", che ci fosse anche il dottor Ayala, ma rimane un "mi sembra", non è un ricordo nitido, non è un'affermazione che posso fare sotto giuramento.

Le predette dichiarazioni, contestate a Giovanni Arcangioli, venivano confermate dal suo superiore gerarchico, dell’epoca, al Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, il Colonnello Marco Minicucci, che giungeva in via D’Amelio circa mezz’ora dopo lo scoppio dell’autobomba e si recava con il dott. Giuseppe Ayala a riconoscere i resti di Paolo Borsellino. Il teste, infatti, vedeva Giovanni Arcangioli in via D’Amelio ed il sottoposto -che non faceva alcuna relazione di servizio- gli riferiva, il giorno stesso oppure l’indomani, che, su disposizione di un Magistrato, prelevava la borsa del dottor Paolo Borsellino dall’automobile blindata, guardandoci dentro. Si riporta, qui di seguito, un breve stralcio della relativa deposizione:

P.M. Dott. GOZZO - Il 19 di luglio del 1992 lei ricorda se ebbe modo di recarsi in via D'Amelio e quando, soprattutto?

TESTE MINICUCCI M. - Mah, io sono arrivato a via D'Amelio... ho sentito da Carini lo scoppio, sono arrivato a via D'Amelio praticamente subito dopo insieme a tante altre persone; sul posto ho visto c'erano Vigili del Fuoco, Polizia e Carabinieri; diciamo che sono arrivato intorno alle 17.25 - 17.30.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi dopo una mezz'oretta dai fatti. (…) All'incirca. Lei ricorda chi vi era sui luoghi al momento del suo arrivo? Cioè chi era presente, come altre Forze di Polizia, nella fattispecie, chiaramente.

TESTE MINICUCCI M. - Beh, ricordare tutti è impossibile, considerato che in quel luogo c'era veramente di tutto e poi, man mano, sono aumentate le persone; riguardandolo dopo vent'anni ci accorgiamo che eravamo veramente tanti sulla scena del delitto, era impressionante, riguardando i filmati dell'epoca. Ricordo che con me è arrivato contestual... quasi contestualmente, ancorché da località diversa, il comandante della prima Sezione del Nucleo, il capitano Arcangioli; ricordo che sul posto ho visto il dottor Ayala. C'erano tante altre persone, adesso fare l'elenco sarebbe per me difficile in questo momento.

P.M. Dott. GOZZO - Altri magistrati non ne ricorda?

TESTE MINICUCCI M. - No.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, a proposito proprio del dottor Ayala, lei ricorda se ebbe modo, insieme al dottor Ayala, di fare qualcosa in via D'Amelio?

TESTE MINICUCCI M. - Ma io ricordo, e ce l'ho ben chiaro, che insieme al dottor Ayala andammo a vedere il cadavere di quello che poi è risultato essere il dottor Borsellino, quindi all'interno del... del cortile dal quale poi si accedeva al palazzo dove abitava la mamma, e quindi guardammo, ovviamente riconoscendo il magistrato che tutti noi avevamo avuto modo di... con il quale avevamo avuto modo di collaborare. Quindi questo è un atto che io ho fatto e che avevo a fianco il dottor Ayala, questo lo ricordo bene. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Senta, lei successivamente, cioè in quella occasione, diciamo, quando si è trovato là o successivamente ai fatti, ebbe mai modo di parlare o di vedere, diciamo, della borsa del dottore Borsellino con il capitano Arcangioli?

TESTE MINICUCCI M. - Io sono stato sentito... sono stato sentito sull'argomento nel 2006, se non erro, e ho ricostruito quello che ricordavo e quindi che con Arcangioli... Arcangioli mi riferì di aver prelevato la borsa e mi raccontò che all'interno aveva visto un crest e quindi questo era il particolare che mi riferì Arcangioli, e come ho avuto modo di dire qualche anno fa, non ricordo se me lo disse nella stessa giornata o qualche giorno dopo. Sicuramente mi parlò di aver prelevato la borsa.

P.M. Dott. GOZZO - Le disse anche perché aveva prelevato la borsa?

TESTE MINICUCCI M. - Mi disse che gliel'aveva detto un magistrato di prelevare la borsa, questa era l'informazione che lui mi aveva dato; informazione che lui mi dava perché ero il suo superiore gerarchico, quindi (…) ovviamente era il suo dovere quello anche di... di raccontare quello che stava facendo in quel momento. Se è stato lo stesso giorno o se è stato il giorno dopo, ripeto, questo non... non lo ricordavo nel 2006, quando ho rilasciato le mie dichiarazioni, e non lo ricordo ora. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Sì. Le fece una relazione di servizio relativamente a questi fatti?

TESTE MINICUCCI M. - No, non ho... io non ho fatto relazione di servizio, e così come mi è stato modo di... mi è stato detto quando fui sentito dalla DIA a Roma, non la fece neanche, da quello che ricordo, neanche Arcangioli questa relazione di servizio, quindi... E io non gli ho fatto neanche nessun rilievo, perché mi fu contestato di non aver fatto un rilievo ad Arcangioli per avere omesso una relazione di servizio. Non fu fatta, in quel caso di questo non se n'è...

P.M. Dott. GOZZO - Però possiamo convenire sul fatto che effettivamente, diciamo (…) normalmente una relazione di servizio...

TESTE MINICUCCI M. - Convengo, convengo su tutto.

P.M. Dott. GOZZO - Ecco, soprattutto se lei mi dice...

TESTE MINICUCCI M. - Convengo su tutto.

P.M. Dott. GOZZO - ...che la borsa è stata aperta, perché se lei mi dice che dentro c'era un crest (…) evidentemente è stata aperta.

TESTE MINICUCCI M. - No, no, no, ma sicuramente, io convengo sul fatto che la relazione andava sicuramente fatta e io... lei era a Palermo, ricordo solo quello che era via D'Amelio il 19 luglio del '92. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Dico, e lei non ricorda che Arcangioli sia venuto in qualche modo o da lei o da altre persone con la borsa in mano per sapere cosa fare? Ecco.(…) Per prendere disposizioni.

TESTE MINICUCCI M. - No, onestamente no.

P.M. Dott. GOZZO - No. Arcangioli le disse, comunque, cosa fece con la borsa dopo averla ricevuta?

TESTE MINICUCCI M. - No, lui mi disse che l'aveva presa, che aveva visto l'interno, ma non mi ha detto poi che cosa ne ha fatto.

P.M. Dott. GOZZO - Non le disse che l'aveva...?

TESTE MINICUCCI M. - No, no.

P.M. Dott. GOZZO - Le disse se poi, successivamente, aveva deciso di riposizionare la borsa dove l'aveva presa?

TESTE MINICUCCI M. - No, no, no, lui mi ha detto che l'aveva aperta su disposizione del magistrato, il contenuto all'interno e mi ricordo che parlò del crest, ma poi non ho più saputo, né ho approfondito in quella circostanza sulla borsa, perché probabilmente non ho dato il peso alla questione, quindi non...  (…)

P.M. Dott. GOZZO - Un attimo solo. Quando Arcangioli le disse di avere visto che dentro la borsa vi era un crest araldico, le disse anche, cioè, se aveva aperto la borsa su disposizione di un magistrato o se lo aveva fatto di sua iniziativa?

TESTE MINICUCCI M. - No, io ricordo che lui l'aveva presa su disposizione del magistrato; non ricordo se il magistrato gli aveva detto di aprirla. Probabilmente l'apertura è una cosa che poteva essere anche... che possa avvenire anche dall'appartenente alle Forze di Polizia per controllare quello che c'è dentro, poteva esserci un'arma, poteva esserci di tutto, dico, non... Però, dico, non mi ricordo materialmente chi; se mi raccontò: "Mi ha detto di prenderla e aprirla". Che il magistrato gli disse di prenderla, questo mi ricordo che lui me lo disse. (pagg 829-841)

Il ricordo di Giuseppe Ayala. La Repubblica il 3 luglio 2019. ...La versione del dottor Giuseppe Ayala, fra i primi a giungere nel luogo della strage, con la sua scorta, dopo avere udito il boato della deflagrazione dal vicino Residence ‘Marbella’, a pochissime centinaia di metri dalla via D’Amelio, dove il teste (all’epoca fuori ruolo dalla Magistratura), soggiornava nei fine settimana, in occasione dei suoi rientri a Palermo (da Roma, dove faceva il Parlamentare). Infatti, il teste spiegava che non sapeva nemmeno che Paolo Borsellino teneva un’agenda nella quale annotava le proprie riflessioni più delicate, anche perché, da diversi anni (cioè da quando non lavoravano più - entrambi - alla Procura di Palermo), aveva pochissime occasioni di frequentarlo. Comunque, Ayala escludeva decisamente d’aver guardato dentro alla borsa di Paolo Borsellino, che pure passava fugacemente fra le sue mani, così come escludeva d’averla portata via sulla autovettura blindata della propria scorta. Ayala giungeva in via D’Amelio con la sua scorta ed intuiva quanto poteva essere accaduto, pur non sapendo che la madre di Paolo Borsellino abitava lì, dopo notato che la blindata vicino al cratere dell’esplosione era una di quelle in dotazione alla Procura della Repubblica di Palermo. Il teste aveva conferma dei propri sospetti quando andava a riconoscere i resti di Paolo Borsellino (assieme al dottor Guido Lo Forte) e vedeva anche la sua borsa in pelle dentro alla Fiat Croma, dopo che un ufficiale dei Carabinieri apriva lo sportello (come il teste dichiarava nelle indagini preliminari) od approfittando del fatto che lo sportello posteriore sinistro era già aperto (come dichiarava, invece, al dibattimento). La borsa del Magistrato era nel sedile posteriore oppure nel pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala (come già detto) non vi guardava dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi (forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola -subito dopo- ad un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, poiché il giornalista Felice Cavallaro gli spiegava che si stava diffondendo la falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si riporta qui di seguito un ampio stralcio dell’articolata deposizione dibattimentale del teste:

TESTE AYALA G. - Guardi, io... siccome sappiamo di cosa stiamo parlando, e cioè dell'agenda di Paolo, la cui esistenza ovviamente è confermata dai familiari più stretti, dai collaboratori più stretti di Paolo, e che non essendosi trovata da nessun'altra parte è presumibile, è chiaro che era dentro quella borsa.

P.M. Dott. GOZZO - Lei ne era a conoscenza che comunque...

TESTE AYALA G. - No.

P.M. Dott. GOZZO - ...Paolo Borsellino scriveva tutto sulle sue agende?

TESTE AYALA G. - Non ne avevo idea di questo. (…)

TESTE AYALA G. - Io non potevo sapere... da sei anni non avevo contatti con Paolo di rapporti di lavoro, di ufficio, di frequentazione, da sei anni, a parte in alcune vicende occasionali, quindi non avevo idea: a), che lui avesse un'agenda, ma dico l'agenda ce l'abbiamo tutti, soprattutto di che cosa ci fosse scritto; che evidentemente, questa è una cosa, diciamo, di percezione immediata, eh, dovevano essere delle annotazioni delicate, altrimenti non si capisce perché qualcuno, tradendo le istituzioni, l'ha fatta scomparire. Ora, delle annotazioni, da quello che so io, non ne sapevano niente neanche i suoi collaboratori più stretti, più fidati, quelli con cui si vedeva quotidianamente, credo neanche i parenti più stretti. (…) Per cui io non avevo idea, a), che esistesse questa agenda di Paolo; b), che fosse nella borsa, ma meno che mai che ci potessero essere delle annotazioni delicate. Rispondo alla sua domanda sul...

P.M. Dott. GOZZO - Certo.

TESTE AYALA G. - Perché poi era pure domenica.

P.M. Dott. GOZZO - Va bene.

TESTE AYALA G. - Nella borsa non pensi che ci sia qualche cosa...

P.M. Dott. GOZZO - Ho capito questa risposta. No, volevo chiederle un'altra cosa a questo punto: ma lei comunque, a questo punto, ha cercato di verificare dove fosse la macchina? L'aveva vista, diciamo. (…) Verificare se nella macchina ci fosse qualcosa.

TESTE AYALA G. - No, no, io proprio... siccome lo sportello aperto era quello lato... come è normale che sia, perché quando tu arrivi, si apre lo sportello di dietro, o scende il Giudice, se siede dietro, o scende uno della scorta per proteggerti, quindi quello sportello avrebbe fatto notizia se fosse stato chiuso. E proprio io ho il fotogramma, quello... ho visto questa borsa che era proprio sul sedile posteriore, non c'è dubbio; ed era proprio lì, vicinissima a me. In quel momento è arrivato Felice Cavallaro, stravolto, che ove ci fossero spazi ancora, mi ha ulteriormente, come dire, proiettato in una dimensione che faccio fatica a descrivere, perché mi ha detto che si era sparsa la voce, anzi, forse qualche media palermitano aveva dato notizia che avevano ammazzato a me; credo che sia comparsa su qualche TV privata, adesso non so bene. E allora lì proprio io... io non c'è dubbio che questa borsa è transitata dalla mia mano, ma non c'è neanche dubbio che io l'abbia consegnata, ma secondi è stato, subito, a un ufficiale dei Carabinieri, perché io non avevo nessun titolo per tenerla. E poi, devo dire la verità, certo, con il senno di poi, visto quello che è successo, forse sarebbe stato meglio che non l'avessi fatto, ma in generale quando tu consegni un reperto, poi in fondo questo era, ad un ufficiale dei Carabinieri, sei convinto di averlo affidato nelle mani migliori. Quante volte noi Sostituti Procuratori interveniamo (...) e diciamo: "Maresciallo, questo lo prenda lei, lo reperti lei", oppure capitano, secondo il tipo di ufficiale che... o il sottufficiale che è presente. Quindi io, affidando... ma dico, l'ho avuta, io l'ho avuta in mano, forse neanche il tempo di stringere la mani... come si chiama, la... la maniglia. E allora...

P.M. Dott. GOZZO - Ora ci arriviamo, io vorrei che facessimo un attimo un passo indietro e poi arriviamo proprio a questo punto, che è il punto, chiaramente, nodale di tutta la vicenda. Relativamente all'autovettura, quando lei la vede la prima volta, era chiusa l'autovettura?

TESTE AYALA G. - No, no, lo sportello è aperto.

P.M. Dott. GOZZO - Io sto parlando quando la vede arrivando in...

TESTE AYALA G. - Quando io arrivo, noto questa macchina con lo sportello posteriore aperto; e ripeto, la cosa non poteva essere diversamente, perché per chi è abituato a fare una vita da scortato, quella macchina... quello sportello doveva essere aperto, perché o c'era seduto il... Io non so se Paolo era seduto dietro o davanti, lo sportello è lato cancelletto, proprio il la... quello che porta in direzione, sennò devi fare il giro della macchina o scendi dall'altro lato; o scendeva uno della scorta. Quindi... questo dello sportello aperta era...

P.M. Dott. GOZZO - Questo però, ecco, io chiedo sempre ai testi di distinguere tra quelli che sono i loro ricordi effettivi, diciamo così (...) dai ricordi ricostruiti in punto logico, diciamo così.

TESTE AYALA G. - No, no, questo è un ricordo proprio...

P.M. Dott. GOZZO - No, le spiego, perché quando lei è stato sentito nel 1998, questo lo dico anche per aiuto della sua memoria, a pagina 2 del verbale lei dice, proprio racconta di quando arriva alla via D'Amelio: "Vidi i primi cadaveri a brandelli e osservai la blindata che era ancora integra. Cercai di guardare all'interno senza risultato per via del fumo che avvolgeva tutto, cercando di capire chi fosse stato l'obiettivo. Allora mi guardai intorno e vidi il cratere causato dallo scoppio". Quindi va al...

TESTE AYALA G. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - "Frattanto i pompieri avevano spento le fiamme. Tornai indietro verso la blindata, anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto". Da queste dichiarazioni, ecco, si evince che prima la macchina era chiusa, evidentemente lei non riusciva a vedere all'interno.

TESTE AYALA G. - Guardi... guardi, può darsi che... il fatto che lo sportello era aperto è quando io faccio ritorno, diciamo, dopo avere...

P.M. Dott. GOZZO - Ecco, io questo le chiedevo poco fa.

TESTE AYALA G. - Io in questo momento... beh, insomma, e ventun anni sono passati.

P.M. Dott. GOZZO - No, lo so, questo...

TESTE AYALA G. - Per me... per me vedere quella macchina con lo sportello aperto mi sembrò la cosa più normale. Probabilmente forse nel '98 magari ricordavo meglio, insomma. Però, ripeto, quando sono ritornato dalla scoperta tremenda che avevo fatto, lo sportello era sicuramente aperto, questo è... Perché ho il fotogramma della borsa, la vedo io sul sedile posteriore, sono lì vicino; ci sono... nel frattempo erano arrivate altre persone.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi possiamo dire che la seconda volta che si avvicina alla macchina, lo sportello era aperto.

TESTE AYALA G. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Ricorda se accanto alla macchina... appunto, lei diceva, in quello che io ora le ho letto si parla dei pompieri. C'erano dei pompieri vicino alla macchina, che ricordi? Ancora stavano cercando di spegnere qualcosa?

TESTE AYALA G. - I pompieri non me li ricordo, no. Delle persone sì, perché nel frattempo c'erano... erano arrivate molte persone. Quello che mi scombinò molto in quel momento fu l'arrivo di Cavallaro, che mi dice questa cosa tremenda e mi dice: "Corri dai tuoi figli. Dove sono i tuoi figli?" "Mah, penso che saranno a Mondello". "Corri dai tuoi figli - fa - vacci subito, perché guarda che a Palermo tutti sanno che hanno ammazzato a te", questo è sicuro. E questo spiega anche perché, dico, sempre con i limiti, naturalmente, della mia memoria, legati anche a un momento, insomma, umanamente penso che non ci sia bisogno di spiegarlo, io proprio non c'ero con la testa, ero fuori di testa completamente, ma io mi sono fermato lì per pochissimo, perché dopo questa consegna della borsa, che ho fatto quasi come un gesto automatico, mi sono interrogato se per caso ho peccato di superficialità o di leggerezza, ma non avendo idea di cosa contenesse, se ci potesse essere... non ci pensi mai, una borsa, una giornata di domenica, neanche si sta uscendo dall'ufficio, chissà che carte ci sono. Dico, non mi rimprovero neanche di questo. Ma ripeto, il tutto è avvenuto in un contesto in cui io veramente ero dentro un tunnel buio, non vedevo luce, non capivo niente, proprio non capivo niente e non mi vergogno a dirlo. Questo gesto è stato quasi un automatismo; mi ha confortato il fatto che lo mettessi in mano ai Carabinieri e questo... Dopodiché sarò stato, ma due minuti, e me ne sono andato a Mondello; sono rimasto altri due minuti.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi, per riuscire a capire e quindi tornando a questo punto sul tema oggetto di questa testi... anche oggetto, oltre ad altri, di questa testimonianza: la borsa viene presa da lei, viene presa dalla persona che aveva aperto la macchina?

TESTE AYALA G. - Guardi, la borsa era lì, io me la sono ritrovata in mano. Mi sembra che ci fosse uno che me la... ma erano questione di centimetri, insomma, era proprio lì, vicinissima. Ripeto, io l'ho tenuta pochissimi secondi in mano, ho visto questo ufficiale dei Carabinieri: "Guardi, la tenga", anche perché io non avevo nessun titolo per tenerla, in ogni caso, non essendo neanche in quel momento in ruolo, non facevo il magistrato, non facevo il Sostituto. Quindi io... io ho questo ricordo, ripeto, legato al momento, proprio di un attimo, di... tanto è vero che, ripeto, mi sono poi detto: "Ma può darsi che... Ma che dovevo fare?" Poi, ripeto, io questo lo voglio ribadire, perché ognuno di noi c'ha una storia personale alla quale tiene. Se nessuno di quelli che Paolo sapeva... che sapevano che Paolo aveva questa agenda sa che cosa c'era scritto, io potevo pensare mai che fosse uno di quei documenti in cui bisogna stare molto attenti in questi casi? Cioè non avevo... non potevo avere... dico, a una dimensione dell'umano, fino ai confini estremi, qualcuno che è generoso nei miei giudizi può pensare che io ci arrivi, ma qui siamo fuori dalla... dall'umano, cioè è una cosa che ignori, non... non ne sai nulla; non ne sapevano nulla nemmeno quelli che sapevano che lui l'aveva, la portava sempre con... con sé, era... Quindi, ripeto, non mi... non mi sento di muovermi neanche un rimprovero di leggerezza, non...

P.M. Dott. GOZZO - Senta, una cosa non sono riuscito a capire: se in questa scena, diciamo così, in cui stiamo parlando proprio dell'apprensione della borsa, se trova in qualche modo spazio anche un soggetto che non è un ufficiale dei Carabinieri o comunque che è in abiti borghesi. Che lei ricordi.

TESTE AYALA G. - C'era, sì, c'era qualcuno, ma forse più di uno lì vicino. Cioè c'era molta gente che si andava avvicinando. Io avevo, quello che ricordo perfetto è, Cavallaro alla mia sinistra, che mi ripeteva 'sta storia, che era sconvolto pure lui, esagitato, e poi c'era questo ufficiale dei Carabinieri che era quasi di fronte a me e poi ho intravisto con l'altra... con l'altra parte dell'occhio, c'erano altre persone, tre, due, non me lo ricordo, insomma, ma certo non eravamo soltanto io, Cavallaro e l'ufficiale dei Carabinieri, c'era altra gente e altra ne arrivava, cioè c'era una certa... Perché ormai si era sparsa la voce, arrivavano persone, magari forse gente che abitava nei palazzi e scendeva, adesso non so, non ho idea di chi potessero essere, né li ho memorizzati, non avevo nessun motivo di memorizzarli.

P.M. Dott. GOZZO - No, no, io le faccio questa domanda, dico (...) proprio e glielo dico sempre anche in questo caso per aiuto della memoria, perché lei l'8 febbraio del 2006 ha detto che riceve la borsa da un uomo in borghese e poi lei la dà all'ufficiale, la consegna all'ufficiale.

TESTE AYALA G. - Sì, sì, quello che dicevo prima, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi ci sarebbe stata questa specie di passaggio di mano.

TESTE AYALA G. - Sì, ma una cosa proprio contestuale, che so, distanza zero, insomma. E poi io... io l'unica cosa ferma che ho sempre ricordato e che ho sempre detto, malgrado, diciamo, la particolarità del momento è che non mi sembrò vero, addirittura, che ci fosse 'sto ufficiale dei Carabinieri per consegnarmi questa borsa e scapparmene via. Dico, io vorrei molto insistere su questo, sono rimasto...

P.M. Dott. GOZZO - Ecco, inizialmente lei questo, la presenza della persona in borghese non la ricordava. Ecco, volevo riuscire a capire (...) quanto di questo suo ricordo sia suo o sia, invece, un apporto di persone che conosceva, come per esempio il dottore Cavallaro, che aveva altri ricordi, ecco.

TESTE AYALA G. - Guardi, io... io la ringrazio di questa osservazione, perché io, c'è chi mi conosce da molto tempo, sono fatto in una certa maniera, che non sempre... per carità, forse è encomiabile. Io con Cavallaro non ho parlato mai di questo, di quello che è successo, anche perché, forse ingenuamente, ritenevo di... visto quello che è stato in questo momento il mio ruolo, ritenevo, insomma, la cosa... cioè da che cosa... di che cosa mi devo preoccupare? Di una entità a me ignota, del tutto ignota? Ragionevolmente ignota, perché, insomma, quando tu con una persona da sei anni, con tutto l'affetto, la stima che Paolo mi ha dimostrato anche nel '92, perché lui nel '92 ha fatto una cosa che... cioè lui ha partecipato ad un'iniziativa elettorale a mio favore, ma non che era seduto in mezzo al pubblico, no, no, Giovanni Falcone, lui e l'allora vicesindaco... (…)

P.M. Dott. GOZZO - Senta, torniamo un attimo... mi scuso, sembro (...) settato solo su quello, ma in effetti il nostro interesse è quello. (…) La borsa, se ce la può descrivere.

TESTE AYALA G. - Ma era una borsa evidentemente un po' bruciacchiata, non era un colore omogeneo, ma quasi...

P.M. Dott. GOZZO - Questo è un ricordo che lei ha o è sempre una sovrapposizione razionale?

TESTE AYALA G. - No, mi sembra... no, grossomodo, grossomodo mi pare che fosse così. La classica borsa quella con il manico imbottito, tipica borsa dei magistrati. (…) Sì, tipo... sì, quella che abbiamo tutti, insomma, abbiamo avuto tutti. Non in condizioni ottimali, questo me lo ricordo, però chiusa, questo non c'è dubbio, chiusa, l'ho presa... per cinque secondi l'ho avuta in mano e chiusa l'ho consegnata.

P.M. Dott. GOZZO - Si ricorda dov'era esattamente posizionata la borsa?

TESTE AYALA G. - Sul sedile posteriore, lato... abbastanza vicino al lato, diciamo, dove c'era lo sportello aperto, per capirci.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi quello sinistro? Se lei era...

TESTE AYALA G. - Sì. (…) Sì, ricordavo posteriore sinistro, giusto.

P.M. Dott. GOZZO - Rispetto al sedile di guida da quale parte si trovava? Lo stesso lato del sedile di guida o l'altro?

TESTE AYALA G. - Era non proprio simmetricamente dietro il sedile di guida, ma verso il centro, ma dal lato del sedile di guida, questo è un fotogramma che ho perfettamente... questo nelle poche cose che ricordo con chiarezza.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, lei ricorda poi se la borsa venne aperta in sua presenza?

TESTE AYALA G. - Questa è un'altra cosa che... io me ne sono andato dopo due minuti, aperta in mia presenza...

P.M. Dott. GOZZO - No, è una domanda che le faccio perché qualcun altro l'ha detto, non glielo contesto...

TESTE AYALA G. - Sì, ma cioè... no, l'ho sentito.

P.M. Dott. GOZZO - ...perché non è formalmente contestabile, dico, però...

TESTE AYALA G. - Va beh.

P.M. Dott. GOZZO - Altrimenti non gliela farei la domanda, chiaramente.

TESTE AYALA G. - Io poi, voglio dire, siccome di queste cose se n'è parlato anche, insomma, in maniera a mio parere strumentale, posto che l'agenda era nella borsa, non possiamo dubitarne, posto che il contenuto di quell'agenda era ignoto, tranne che al povero Paolo, la mia... dico, io qualche indagine nella mia vita l'ho fatta e un po' di mestiere l'ho maturato. La borsa non viene svuotata, viene eliminata l'agenda. Non penso che il criterio selettivo, perché di prelievo selettivo si tratta, sia stato in base al colore dell'agenda. (…) Io credo che sia stato in base al contenuto dell'agenda. Allora ci vuole qualcuno che ha avuto il tempo di tirarla fuori, leggere e ritenere, tradendo le istituzioni, che era meglio che quella roba lì non venisse fuori. Ma dico, è un ragionamento... Tutto questo lei pensa sia possibile farlo in quel contesto, davanti a decine di persone?

P.M. Dott. GOZZO - Ragionamento deduttivo, chiaramente.

TESTE AYALA G. - Non dico estrarre l'agenda.

P.M. Dott. GOZZO - Dico, lo vorrei specificare, è un ragionamento deduttivo il suo.

TESTE AYALA G. - Ma è deduttivo fino a un certo punto, perché, vede, un approccio corretto, come certamente è quello suo, ex post è un discorso, ex ante è la valutazione che bisogna fare. Lì il contenuto dell'agenda, la presenza dell'agenda, non so, magari qualcuno lo sapeva, che ne so, lo escluderei, ma la selezione del prelievo è legata al suo contenuto, non al suo colore o alle sue dimensioni, non ad un fatto oggettivo. E quindi te la devi guardare 'sta agenda, la devi esaminare e devi decidere che non sei un servitore fedele dello Stato e che... per cui questa agenda deve rimanere da qualche parte nascosta. Tutto questo si fa davanti a decine di persone? Sia ha il tempo materiale di farlo, senza che nessuno se ne accorga? A parte il fatto che il famoso filmato è arrivato, chissà perché, tanti anni dopo, ritrae un ufficiale dei Carabinieri con la borsa chiusa che si allontana dalla macchina. Tutto questo a me, sul piano personale, della testimonianza che io sto dando, non mi riguarda, perché io non c'ero. Io consegno la borsa, mi risento 'sto Cavallaro che mi dice dei figli e mi dice anche: "Scappa a telefonare al giornale", dopo, subito dopo me ne sono andato e io non sono più tornato, naturalmente. Sono andato a Mondello dai miei figli. La notizia era fondata, tra l'altro. (…) Che lo so io come ho trovato i miei figli. [...]

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, per quello che è il suo ricordo, oltre al dottore Lo Forte, nel momento in cui lei si avvicina lì poi, insomma, diciamo, al cratere, c'erano altri magistrati? (…) Che si avvicinano in quella circostanza o anche successivamente.

TESTE AYALA G. - No, no.

P.M. Dott. LUCIANI - Altri magistrati con i quali lei è entrato in contatto in quel momento.

TESTE AYALA G. - No, non ricordo assolutamente. Il dottore Lo Forte me lo ricordo, perché... perché si è piegato assieme a me sul povero Paolo, su quello che restava del povero Paolo.

P.M. Dott. LUCIANI - Glielo chiedo perché, sempre in questo verbale dell'8 aprile del '98, lei dichiara: "Nel frattempo - dico, sta facendo riferimento, appunto, all'avvicinarsi del luogo dove era il dottore Borsellino, e lei dice - nel frattempo arrivarono, infatti, i colleghi Lo Forte e Natoli e insieme cercammo conferma del sospetto che già avevamo".

TESTE AYALA G. - Se ho dichiarato che c'era Natoli, c'era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte... lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perché, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la... l'identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c'era, c'era. [...]

P.M. Dott. LUCIANI - La domanda successiva è questa: la borsa, prescindendo comunque da questi segni di bruciatura che lei ha notato e ha riferito, ma era integra o era parzialmente distrutta?

TESTE AYALA G. - No, distrutta sicuramente no, ma ho già risposto.

P.M. Dott. LUCIANI - No...

TESTE AYALA G. - Aveva dei segni.

P.M. Dott. LUCIANI - Dei segni.

TESTE AYALA G. - Sì, sì, sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Però era integra, non era mancante di parti o eccessivamente danneggiata, ecco, questo.

TESTE AYALA G. - No, ecco, ecco, non era particolarmente danneggiata, sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, se ho capito bene, la borsa era sul sedile.

TESTE AYALA G. - Posteriore.

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi poggiata proprio sul sedile.

TESTE AYALA G. - Poggiata sul sedile, più verso il retro posto guida, diciamo.

P.M. Dott. LUCIANI - Perché sempre in questo verbale dell'8 aprile, per capire se è un... dell'8 aprile del '98, lei dice: "Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore, dove notammo, tra questo e il sedile anteriore", quindi sembrerebbe però, per chiarire un po' il suo pensiero, sembrerebbe da questa verbalizzazione che era poggiata in terra, almeno questa.

TESTE AYALA G. - No, no, ha ragione lei a dire questo, ma io... il mio ricordo è che era... non credo che differenza comporti, per la verità, ma il mio ricordo... cioè o era tra il sedile anteriore e il sedile posteriore o era posata sul sedile posteriore, tutto sommato...

P.M. Dott. LUCIANI - No, le chiederei di fare uno sforzo di memoria, perché magari, diciamo, sono altre risultanze processuali. Quindi, diciamo, il suo ricordo è quello del sedile posteriore.

TESTE AYALA G. - Il mio ricordo oggi è che fosse poggiata sul sedile posteriore.

P.M. Dott. LUCIANI - Mi perdonerà, ma io ancora non ho compreso se, per quello che è il suo ricordo oggi, cioè lei ricorda di essere stato lei materialmente a prendere la borsa o se la borsa le venne consegnata da altri.

TESTE AYALA G. - Guardi, il tutto è avvenuto in un contesto talmente di confusione mentale, che l'unica cosa di cui sono sicuro e ho sempre detto è che questa borsa è transitata per le mie mani ed è stata consegnata immediatamente ad un ufficiale dei Carabinieri. Che poi l'abbia presa io da lì o c'era questo in borghese che me l'ha avvicinata, io francamente non lo so.

P.M. Dott. LUCIANI - Ma anche qua le sembrerà banale, dico, ma il fatto che fosse un ufficiale dei Carabinieri da cosa lo ha ricavato?

TESTE AYALA G. - Guardi, dal fatto che aveva un'uniforme, perché quando... in un primo momento dico: ma come ho individuato 'sto ufficiale dei Carabinieri? Poi c'ho riflettuto ed era un'uniforme non estiva, cioè non, sa, di queste camicia azzurra, diciamo; era un'uniforme, un'uniforme classica.

P.M. Dott. LUCIANI - Cioè, quindi, quella nera, per intenderci.

TESTE AYALA G. - Sì, sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Quella...

TESTE AYALA G. - Sì, sì. Comunque, l'ho riconosciuto certamente come ufficiale dei Carabinieri.

P.M. Dott. LUCIANI - E il dato che fosse un ufficiale e non...

TESTE AYALA G. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Perché un ufficiale intendiamo, no? capitano, colonnello.

TESTE AYALA G. - Il grado non glielo so dire assolutamente, ma insomma, era un ufficiale, ho capito che era un ufficiale. Così mi è sembrato. Che era un carabiniere è sicuro, cioè che io in quel momento ero sicuro di dare la borsa ad un esponente dell'Arma dei Carabinieri è sicurissimo.

P.M. Dott. LUCIANI - Oh, ora le posso dare lettura integrale, perché, come le dicevo prima, da questo verbale del '98 sembrerebbe che la successione degli eventi sia inversa, nel senso che... Allora: "Cercando di capire, cercai di guardare all'interno, senza risultato per via del fumo che avvolgeva tutto, cercando di capire chi fosse stato l'obiettivo dell'attentato, mi guardai intorno e vidi il cratere. Frattanto i pompieri avevano spento le fiamme. Tornai indietro verso la blindata, anche perché nel

frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto. Guardammo insieme", etc., etc., posso saltare perché, diciamo, le sue dichiarazioni le ha rese.

TESTE AYALA G. - Sì, ma questo "torno indietro" vuol dire dopo il riconoscimento di Paolo.

P.M. Dott. LUCIANI - Aspetti, però proseguendo lei dice: "Subito dopo - quindi subito dopo aver descritto le fasi della borsa, lei dice - subito dopo mi diressi verso lo stabile. In prossimità dell'ingresso, sulla sinistra per chi lo guardava, inciampai in un troncone umano", etc., etc. Quindi da questa verbalizzazione sembrerebbe che la successione degli eventi sia inversa rispetto a quella che ha descritto oggi.

TESTE AYALA G. - No... sì, sì, lei...

P.M. Dott. LUCIANI - E che, per la verità, poi lei ha descritto esattamente come oggi nelle verbalizzazioni successive, quindi per capire.

TESTE AYALA G. - Sì, sarà stato... guardi, è sicuro che... ma poi c'era il collega Lo Forte, ci siamo ricordati anche oggi di Natoli, eravamo lì assieme, abbiamo... la prima cosa, ma insomma, la cosa della macchina, della borsa, è successiva.

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi il suo ricordo è che la borsa è successivo.

TESTE AYALA G. - Sì. Io cercavo di capire chi era questa... non avendo, come dire... a parte l'indicazione dell'antenna, che mi portava alla Procura, beh, lì, insomma, già cominci a capire chi poteva essere. (…) [...]

P.M. Dott. LUCIANI - Ma lei complessivamente, più o meno, quanto ritiene di essere stato in via D'Amelio?

TESTE AYALA G. - Pochissimo, pochissimo.

P.M. Dott. LUCIANI - Pochissimo?

TESTE AYALA G. - Pochissimo, pochissimo.

P.M. Dott. LUCIANI - Più o meno quanto?

TESTE AYALA G. - Mah, arrivo, percorro questo pezzo di via D'Amelio, arrivo lì, succede quello che succede, riconosco, eh, mi si avvicina Guido Lo Forte, probabilmente c'era anche Gioacchino Natoli. Va beh, è superfluo dire che scoppiamo a piangere tutti, proprio assolutamente in maniera... va beh, questo c'è stato. Esco, mi trovo la macchina vicino, lo sportello aperto, delle persone, uno o due, sì, sicuramente c'erano. Poi mi ritrovo... arriva Cavallaro, mi ritrovo 'sta borsa in mano e questo ufficiale dei Carabinieri a cui la consegno. Dopo ma sarò rimasto ma neanche un minuto, perché c'era il problema di andare ad avvertire i miei figli, questo; cosa che io, naturalmente, non potevo sapere essendo lì, perché non è che guardavo la televisione, ovviamente. Quindi mi arriva la notizia che addirittura avevano dato questa notizia come probabile vittima, e questo crea in me un ulteriore... Va beh, insomma, non ci sono... non c'è bisogno di spiegare.

P.M. Dott. LUCIANI - Perché in questo verbale (...) dell'8 aprile del '98 lei fa una stima di questo tempo e dice: "Complessivamente, pertanto, rimasi sul posto circa un'ora, forse anche meno".

TESTE AYALA G. - Un'ora?

P.M. Dott. LUCIANI - E questa è la verbalizzazione.

TESTE AYALA G. - Ma questo è un errore clamoroso, bisogna leggere i verbali prima di firmarli. Ma quale un'ora? (…) Questo è un errore di verbalizzazione clamoroso.

P.M. Dott. LUCIANI - Siccome...

TESTE AYALA G. - E nel verbale del 2005 che cosa ho detto?

P.M. Dott. LUCIANI - No, no, in effetti, poi, nel verbale del 2005 lei dichiara di essere rimasto sul posto (...). Io l'ho segnato, che è quello del settembre del 2005, lei dice per non più di venti minuti.

TESTE AYALA G. - Che già sono troppi. Va beh, forse dall'inizio, da quando sono entrato nella strada, ho camminato. Venti sono... venti sono molti. Quelli che... adesso credo che ai fini, diciamo, del mio esame sia più rilevante stabilire che dal momento in cui ho capito che era Paolo, al momento in cui apprendo la notizia e c'è questa assoluta priorità dei miei figli, saranno passati due minuti; dal momento in cui ho questa notizia, altri due e me ne sono andato. Poi complessivamente magari sarà stato un quarto d'ora da quando sono arrivato in via D'Amelio. [...]

AVV. REPICI - Senta, a proposito del frangente in cui le passa la borsa in mano, la borsa del dottor Borsellino, lei ricorda se la borsa passò anche nella mano del dottor Felice Cavallaro?

TESTE AYALA G. - Non credo. Eravamo accanto proprio, a me mi sembra che... che sia stata... era soltanto nella mia mano; forse Cavallaro era accanto, non glielo so dire. Ma insomma, è stata una cosa molto breve, perché subito mi è sembrato 'sto ufficiale dei Carabinieri e gliel'ho data. Vede, anche qui vale il discorso ex post. Era un oggetto... cioè era un reperto ai miei occhi insignificante, perché...

AVV. REPICI - Eh!

TESTE AYALA G. - No, e lo sapevo che lei faceva questo gesto, perché oggi sappiamo che probabilmente dentro c'era la...

AVV. REPICI - No, ma è stato lei che l'ha affidata ad un ufficiale dei Carabinieri, quindi un qualche rilievo gliel'avrà dato pure, gliel'avrà pure dato.

TESTE AYALA G. - Era un reperto. Allora, io diciamo che sono intervenuto come Sostituto Procuratore della Repubblica, non so, in occasione di un centinaio perlomeno di omicidi ed è un classico della nostra professionalità, il reperto lo affidi all'ufficiale di Polizia Giudiziaria. (…) Non ho visto mai un magistrato che si porta il reperto.

AVV. REPICI - In quanto reperto.

TESTE AYALA G. - In quanto reperto, poi la Polizia Giudiziaria vede che cos'è.

AVV. REPICI - In quanto reperto astrattamente utile.

TESTE AYALA G. - Allora, lei pensa che una borsa che presumibilmente era di un mio collega, io... me la tengo in mano io, che non avevo nessun titolo?

AVV. REPICI - No.

TESTE AYALA G. - L'affido ad un ufficiale dei Carabinieri.

AVV. REPICI - Giusto.

TESTE AYALA G. - Ma non avendo idea del significato che poi - sennò non staremmo qui a parlarne - la cosa ha avuto, perché non sapevo che c'era dentro questa... questo delicato oggetto, chiamiamolo così, né potevo saperlo.

AVV. REPICI - Nel senso che lei, ex ante, pensava che qualunque cosa ci fosse nella borsa del dottor Borsellino, doveva essere cosa di nessuna rilevanza?

TESTE AYALA G. - Guardi...

PRESIDENTE - No, no, la domanda in questi termini è troppo riferita ad uno stato soggettivo, non la possiamo ammettere in questi termini. (…) [...]

PRESIDENTE - Un chiarimento (...) su una risposta di questa mattina. (…) Per quanto riguarda la consegna della borsa. Lei ricorda come fosse vestita la persona a cui lei l'ha consegnata?

TESTE AYALA G. - Se io ho dato per certo che era l'identità di ufficiale dei Carabinieri, penso che avesse la divisa. Sicuramente non era ufficiale dei Carabinieri, perché lo conoscevo e magari era in borghese; avrà avuto la divisa sicuramente. (…) Perché sono andato a colpo sicuro proprio.

PRESIDENTE - E invece la persona da cui lei ha ricevuto la borsa si ricorda se indossava la divisa...

TESTE AYALA G. - Secondo me era in borghese.

PRESIDENTE - ...o era in abiti civili?

TESTE AYALA G. - Secondo me era... no, era in abiti civili.

PRESIDENTE - Era in abiti civili, secondo...

TESTE AYALA G. - Però... mi fa piacere fare capire, la borsa era qua, io ero qua, questa persona era lì, non è che l'ho guardata; manco in faccia l'ho guardata, credo. Mi sono trovato 'sta cosa che mi veniva consegnata. Forse... forse anche Cavallaro ci mise mano pure lui, dopodiché ho trovato 'sto ufficiale dei Carabinieri. Ora, vede, il punto è questo, ecco perché dico il discorso ex ante ed ex post. Quando un... Io non ero magistrato in quel momento, ma insomma, avevo fatto molti anni. Quando consegni un reperto ad un ufficiale dei Carabinieri sei sicuro che l'hai messo nelle mani migliori, quindi anche in forza di questo, io non... sommato all'assoluta ignoranza da parte mia del contenuto della borsa, questo fa capire proprio che è stato un atto, quasi un automatismo: va beh, questa la diamo ai Carabinieri e siamo a posto. Poi i Carabinieri faranno... non certamente con me, che ero in Parlamento, con i miei colleghi, faranno il loro verbale, la relazione di servizio, tutti quegli atti di Polizia Giudiziaria. Quindi... Poi, se invece dobbiamo ricostruire tutto, c'era l'agenda, nell'agenda c'erano annotazioni...(pagg 841- 877)

La testimonianza dell'appuntato. La Repubblica il 4 luglio 2019. Parzialmente divergente rispetto alle predette deposizioni del giornalista Felice Cavallaro e del dottor Giuseppe Ayala, anche sulla durata della permanenza di quest’ultimo in via D’Amelio, oltre che su diversi altri particolari, tutt’altro che secondari, si rivela la deposizione del Carabiniere che faceva da capo scorta ad Ayala, quel pomeriggio, vale a dire l’Appuntato Rosario Farinella. Il Carabiniere, infatti, ricordava che, subito dopo la deflagrazione, quando si muovevano, con l’automobile blindata, dal residence ‘Marbella’, per andare ad accertarsi dell’accaduto, parcheggiando poi all’incrocio fra la via dell’Autonomia Siciliana e la via D’Amelio, Ayala faceva presente che in quella strada abitava la madre di Paolo Borsellino (circostanza che contrasta con quanto affermato dallo stesso Ayala, in merito al fatto che, prima della strage, non era al corrente della circostanza appena menzionata). Dopo il riconoscimento dei resti di Paolo Borsellino e delle altre vittime, il militare si recava presso la Croma blindata, unitamente ad Ayala, che non perdeva mai di vista. Vi era qualche fiammata dal lato posteriore destro ed un vigile del fuoco la spegneva. Poi, Farinella e il vigile del fuoco aprivano la portiera posteriore destra della Croma, forzandola, poiché Ayala si accorgeva che dentro vi era la borsa di Paolo Borsellino. Lo stesso Farinella, inoltre, prelevava direttamente la borsa dal sedile posteriore e, dopo un certo lasso di tempo in cui la teneva in mano, su indicazione di Ayala, la consegnava ad una persona -in abiti civili- conosciuta dal Parlamentare (anche questo ricordo del teste contrasta decisamente con quanto affermato da Ayala ed anche da Cavallaro, in merito alla consegna della borsa ad un ufficiale in uniforme, neppure conosciuto). Il soggetto che riceveva la borsa non era Giovanni Arcangioli (la cui fotografia veniva mostrata al teste) ed era una persona (si ripete) conosciuta da Ayala. Quest’ultimo spiegava al consegnatario che si trattava della borsa del Magistrato (“Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino”) e veniva rassicurato dall’interlocutore, prima che questi s’allontanasse verso via dell’Autonomia Siciliana (“lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”).

Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della deposizione:

P.M. Dott. GOZZO - Sì, buonasera, appuntato, buongiorno. Le volevo fare in primo luogo la domanda specifica, diciamo, orientiamoci nel tempo e nello spazio: lei dove prestava servizio il 19 luglio del 1992?

TESTE FARINELLA R. - Ero in servizio al Nucleo Radiomobile di Palermo, però in servizio provvisorio presso le scorte di Palermo. (…) Scortavo il dottor Ayala.

P.M. Dott. GOZZO - Seguiva, quindi, il dottor Ayala. Si ricorda se in particolare proprio il giorno 19 luglio del 1992 lei era in servizio di scorta al dottor Ayala?

TESTE FARINELLA R. - Sì, come caposcorta.

P.M. Dott. GOZZO - Come caposcorta. Nella fattispecie, nel momento in cui... lei dove si trovava nel momento della strage, diciamo al momento dello scoppio?

TESTE FARINELLA R. - Circa cinquanta metri, cento metri in linea d'aria, eravamo all'hotel Marbella, se ricordo male. (…) Perché la personalità abitava lì.

P.M. Dott. GOZZO - La personalità abitava là. Quindi stavate aspettando la personalità, doveva scendere?

TESTE FARINELLA R. - Sì. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Cosa avete fatto subito dopo lo scoppio?

TESTE FARINELLA R. - Subito l'abbiamo avvisato e abbiamo capito che veniva il fumo di là. Lui diceva che là ci abitava la... la mamma e siamo andati subito lì.

P.M. Dott. GOZZO - La mamma di chi?

TESTE FARINELLA R. - Del Giudice Borsellino.

P.M. Dott. GOZZO - Dunque il dottor Ayala sapeva di questo fatto.

TESTE FARINELLA R. - Sì.

P.M. Dott. GOZZO - Una cosa le volevo chiedere: se ci può descrivere, se può descrivere alla Corte, che potrebbe anche non saperlo, quanto dista l'hotel Marbella da via D'Amelio. (…)

TESTE FARINELLA R. - In linea d'aria nemmeno cento metri, perché deve passare la ferrovia, il palazzo e quello. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Quindi nel momento in cui il dottore Ayala ha ricostruito che poteva essere il dottore Borsellino la vittima dell'attentato, perché diceva...

TESTE FARINELLA R. - No, no, no.

P.M. Dott. GOZZO - Cioè che, insomma, proveniva comunque dai pressi...

TESTE FARINELLA R. - Proveniva di là.

P.M. Dott. GOZZO - Cosa avete fatto?

TESTE FARINELLA R. - Mica avevamo la sfera magica.

P.M. Dott. GOZZO - Cosa avete fatto?

TESTE FARINELLA R. - Niente, ci siamo portati su quella parte e poi siamo entrati; non potevamo entrare, perché siamo entrati i primi di tutti quasi là, perché eravamo vicino. Siamo arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco, quindi nemmeno potevamo entrare con le fiamme che c'erano.

P.M. Dott. GOZZO - Può quantificare all'incirca quanto tempo era passato dall'esplosione che lei ha sentito da lontano?

TESTE FARINELLA R. - Non lo saprei dire. (…) Poco tempo.

P.M. Dott. GOZZO - ...cronologicamente quando siete arrivati, siete arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco.

TESTE FARINELLA R. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Chi c'era lì di altre Forze di Polizia lo ricorda?

TESTE FARINELLA R. - No.

P.M. Dott. GOZZO - Quando siete arrivati voi.

TESTE FARINELLA R. - No, perché noi siamo arrivati, io mi... stavo dietro; c'era tanta gente, quindi ho dato ordine al mio carabiniere di lasciare la macchina, chiudere la macchina e stare con me, insieme con la personalità, cosa che è fuori dalla regola, visto la gravità della situazione.

P.M. Dott. GOZZO - Certo. Senta, che cosa avete fatto una volta arrivati in via D'Amelio? Quindi arrivate insieme ai Vigili del Fuoco. Cosa fate con il dottor Ayala?

TESTE FARINELLA R. - Andiamo dove è successo il cratere, camminando vedevamo dei corpi dei colleghi della scorta.

P.M. Dott. GOZZO - Sì. E in particolare vi siete diretti ad un posto specifico?

TESTE FARINELLA R. - Sì, siamo entrati dentro, abbiamo visto...

P.M. Dott. GOZZO - Dentro il cortiletto, stiamo parlando...

TESTE FARINELLA R. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - ...dei numeri 19 e 21 di via D'Amelio.

TESTE FARINELLA R. - Ma... sì, sì. Poi abbiamo visto il dottore che era lì per terra, l'abbiamo conosciuto tramite i baffi.

P.M. Dott. GOZZO - Parliamo del dottore Borsellino, evidentemente.

TESTE FARINELLA R. - Sì, perché era senza gambe e senza arti.

P.M. Dott. GOZZO - Il dottor Ayala l'ha riconosciuto da questo.

TESTE FARINELLA R. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Dopo avere visto queste scene terribili, dove siete andati? Se lo ricorda.

TESTE FARINELLA R. - Ma abbiamo visto un po' sia la collega, la poliziotta, era sul marciapiede, vicino la macchina, e altri colleghi.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi, diciamo, avete fatto un giro dei luoghi per riuscire a verificare qual era lo stato.

TESTE FARINELLA R. - Sì.

P.M. Dott. GOZZO - E ricorda se vi siete avvicinati all'autovettura (…) che doveva essere del magistrato?

TESTE FARINELLA R. - No, dopo. (…) Al momento pensavamo soltanto alle persone (…) Alle vittime.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi, diciamo, c'è stato un periodo in cui avete pensato a verificare dov'erano i corpi, essenzialmente.

TESTE FARINELLA R. - Sì, vedere tutti i colleghi che, cioè, conoscevamo e uscivamo insieme.

P.M. Dott. GOZZO - Dopo avere fatto questa cosa tremenda, diciamo, siete andati poi sulla macchina, vicino alla macchina?

TESTE FARINELLA R. - Poi, appena siamo usciti, le due macchine erano posizionate al centro della strada e guardando le macchine il dottor Ayala ha notato che c'era la borsa dentro il sedile posteriore.

P.M. Dott. GOZZO - Ci può descrivere la macchina com'era? Prima di tutto se vi erano delle fiamme, se non vi erano delle fiamme, se era chiusa, se era aperta.

TESTE FARINELLA R. - Ma no, la macchina era chiusa, chiusa ma non forse a chiave, era chiusa e c'era un po' di... di fiamma nel lato destro, la ruota, non mi ricordo bene. Abbiamo chiamato i Vigili del Fuoco e abbiamo fatto spegnere. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Dico, il vigile del fuoco in particolare cosa ha fatto?

TESTE FARINELLA R. - Abbiamo... ha spento la... quell'incendio che c'era all'esterno e poi abbiamo... ha forzato la macchina per aprire lo sportello posteriore.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi per aprire la porta, l'ha fatto da solo o lei lo ha aiutato?

TESTE FARINELLA R. - Non ricordo se l'ho aiutato io o l'abbiamo fatto insieme o l'ha fatto solo lui, non... è impossibile ricordare queste cose.

P.M. Dott. GOZZO - E allora, per aiuto del suo ricordo, il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 1: "Con l'aiuto dello stesso vigile del fuoco abbiamo aperto la portiera posteriore".

TESTE FARINELLA R. - Sì, dico... può essere, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Si ricorda dove il dottor Ayala aveva visto la borsa? Va beh, l'ha vista anche lei, immagino, facendo...

TESTE FARINELLA R. - Sì, passando da là, vicino le macchine.

P.M. Dott. GOZZO - Dov'era la borsa del dottore Borsellino?

TESTE FARINELLA R. - Nel sedile posteriore.

P.M. Dott. GOZZO - Nel sedile posteriore. Dove ci si siede, diciamo così, o sotto, diciamo, dove si poggiano i piedi?

TESTE FARINELLA R. - No, no, dove... nel seggiolino.

P.M. Dott. GOZZO - Nel seggiolino.

TESTE FARINELLA R. - Altrimenti, se era sotto, come facevamo a vederlo?

P.M. Dott. GOZZO - Senta, l'operazione di aprire la porta è stata difficile, facile? Da che cosa dipendeva?

TESTE FARINELLA R. - Sì, era un po' incastrata dall'onda d'urto, naturalmente.

P.M. Dott. GOZZO - Dal calore anche?

TESTE FARINELLA R. - Non sono un esperto per questo.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, l'ha prelevata lei la borsa poi dall'autovettura?

TESTE FARINELLA R. - Sì.

P.M. Dott. GOZZO - Ma l'ha fatto autonomamente o su disposizione del dottor Ayala?

TESTE FARINELLA R. - Io l'ho presa la borsa, se ricordo... se non ricordo male, l'ho presa io, perché aprendo la porta ho preso la borsa e volevo darla a lui; lui non l'ha voluta prendere perché non era più magistrato, quindi mi ha detto di tenerla io, e l'ho tenuta io.

P.M. Dott. GOZZO - Tenerla in attesa di qualcosa o tenerla definitivamente?

TESTE FARINELLA R. - No, tenerla in... che lui individuasse qualche persona da dare la borsa e dire la borsa di chi era.

P.M. Dott. GOZZO - Sì. E a chi dovevate... cioè aveva già individuato a chi dovevate consegnarla? No nel senso della persona, dico, dovevate consegnarla alle Forze dell'Ordine?

TESTE FARINELLA R. - Mah, di questo non me ne ha parlato e non abbiamo parlato, mi ha detto, dice, di tenerla, che... di consegnarla a qualche persona, o qualche ufficiale o qualche ispettore di Polizia e di darla, a qualche persona.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi a qualcuno delle Forze dell'Ordine.

TESTE FARINELLA R. - Certo. Che noi non avevamo il potere, cioè la cosa per tenerla, non è che la possiamo tenere una borsa.

P.M. Dott. GOZZO - Una volta che il dottor Ayala ha individuato questa persona... l'ha individuata questa persona? Domanda preliminare che non ho fatto. Dico, ha individuato questa persona appartenente alle Forze dell'Ordine a cui darla?

TESTE FARINELLA R. - Sì, lui ha individuato una persona, che mi... mi disse, dice: "Appuntato, dia la borsa", mi avrebbe detto il nome, ma non ricordo, e io ho consegnato la borsa alla persona che mi ha detto il dottor Ayala. Io non conoscevo.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, il dottor Ayala le disse che si trattava di una persona delle Forze dell'Ordine o le disse semplicemente di darla a questa persona?

TESTE FARINELLA R. - Mi ha detto allora che era o un ufficiale o un ispettore, non ricordo. Mi ha detto che era un funzionario, appartenente o alla Polizia o ai Carabinieri, non ricordo.

P.M. Dott. GOZZO - Si trattava di una persona, che lei rico... prima di tutto se ricorda come era fatta, diciamo, questa persona e poi com'era vestita anche.

TESTE FARINELLA R. - Come era vestita non... non ricordo.

P.M. Dott. GOZZO - No, non intendo dire se aveva un vestito rosso o verde.

TESTE FARINELLA R. - Ah.

P.M. Dott. GOZZO - No, non le sto chiedendo questo. (…) Le sto chiedendo, visto che le è stato presentato come un ufficiale, se era vestito, diciamo così, d'ordinanza o se invece era in abiti civili.

TESTE FARINELLA R. - Adesso ho capito. No, in abiti civili. (…) Se era in divisa, era facile capirlo.

P.M. Dott. GOZZO - Certo. Che lei sappia, il dottor Ayala lo conosceva o si è qualificato lui come persona appartenente alle Forze di Polizia?

TESTE FARINELLA R. - No, penso che lo conosceva.

P.M. Dott. GOZZO - Pensa che lo conoscesse.

TESTE FARINELLA R. - Perché mi ha detto: "Dagliela a lui", che è una persona che conosceva lui, perché... Gli ho detto: "Devo darla a lui?" "Sì - dice - è una persona che conosco io". "Ecco qua la borsa".

P.M. Dott. GOZZO - Nel consegnare la borsa, il dottor Ayala spiegò di che cosa si trattava all'ufficiale?

TESTE FARINELLA R. - Certo, ha detto, dice: "Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino".

P.M. Dott. GOZZO - Quindi che era la borsa di Borsellino, essenzialmente.

TESTE FARINELLA R. - Certo, quella era.

P.M. Dott. GOZZO - Si ricorda se vi disse qualche cosa, a questo punto, questo ufficiale che lei non conosceva?

TESTE FARINELLA R. - No, perché non... io ho consegnato, loro si sono parlati e basta. Non è che... io non conoscevo, quindi ho stato in fiducia del dottor Ayala e basta.

P.M. Dott. GOZZO - Sempre per aiuto alla sua memoria, le ricordo che il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 2: "Lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa".

TESTE FARINELLA R. - Certamente, una volta che la... prende la borsa, è normale che...

P.M. Dott. GOZZO - Quindi lo conferma questo, che vi disse: "Non vi preoccupate, ci penso io".

TESTE FARINELLA R. - E certo.

P.M. Dott. GOZZO - E voi vi siete disinteressati di questa vicenda.

TESTE FARINELLA R. - Certamente, eh, certo.

P.M. Dott. GOZZO - Avete aperto la borsa mentre l'avevate nella vostra disponibilità? Sto parlando di lei e del dottor Ayala, chiaramente.

TESTE FARINELLA R. - Assolutamente no, perché l'avevo io soltanto.

P.M. Dott. GOZZO - Quando il dottor Ayala ha avuto la borsa, ricorda se si sono avvicinate... quando lei aveva la borsa, diciamo, si sono avvicinate delle persone, degli amici del dottor Ayala che lo hanno salutato?

TESTE FARINELLA R. - No, no, ma...

P.M. Dott. GOZZO - Le faccio una domanda specifica: ricorda se si è avvicinato il giornalista Cavallaro? Con cui oltretutto la personalità stava scrivendo in qualche modo un libro e quindi lei avrà avuto modo di vedere altre volte.

TESTE FARINELLA R. - No.

P.M. Dott. GOZZO - Non ricorda il dottore Cavallaro nel...

TESTE FARINELLA R. - Assolutamente. Ma lì c'erano una calca di persone, quindi parlava con tante persone, non è che parlava solo con una persona in una parte da soli, allora vedevo con chi parlava. Si parlava con tante persone che... in divisa, colleghi, quindi non è che era... Deve pensare che eravamo avvolti da... da una folla di persone.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, lei ricorda se vi erano dei magistrati sul luogo del...? Degli altri magistrati, perché il dottore era in quiescenza, ma era ancora magistrato. C'erano degli altri magistrati in servizio che lei conosceva lì sui luoghi?

TESTE FARINELLA R. - No, no.

P.M. Dott. GOZZO - Il dottore Lo Forte, nella fattispecie.

TESTE FARINELLA R. - No, no, no.

P.M. Dott. GOZZO - Non lo ricorda. Quanto tempo siete rimasti sui luoghi? Se ricorda.

TESTE FARINELLA R. - Un'ora, non ricordo con... circa un'oretta o di più o di meno, non... non saprei dire, perché non è che stavamo lì a guardare l'orologio in quei momenti, una cosa...

P.M. Dott. GOZZO - Lei aveva detto nel 2006: "Almeno un paio d'ore". (…) Ecco, le volevo fare una domanda: prima di tutto se lo conferma questo, almeno un paio d'ore, che aveva detto allora.

TESTE FARINELLA R. – Dico (…) non saprei quantificare. Se allora ho detto così, io adesso non riesco a quantificarlo.

P.M. Dott. GOZZO - Certo.

TESTE FARINELLA R. - Dopo ventun anni come facciamo?

P.M. Dott. GOZZO - Dico, ma ricorda se vi siete allontanati per recarvi da qualche altra parte?

TESTE FARINELLA R. - Poi siamo andati... ce ne siamo andati di lì e siamo andati a Mondello.

P.M. Dott. GOZZO - Volevo riuscire a capire. Quindi è stato successivo questo fatto, dico, non è stata una parentesi, cioè prima siete stati in via D'Amelio, siete andati là e poi siete tornati? (…)

TESTE FARINELLA R. - No, no, siamo andati via e non siamo più ritornati.

P.M. Dott. GOZZO - Una volta che l'ufficiale ebbe la borsa, lei ricorda cosa fece l'ufficiale? Al di là di quello che ha detto. Che cosa fece? Dove si recò?

TESTE FARINELLA R. - Ha preso la borsa ed è andato verso l'uscita.

P.M. Dott. GOZZO - Aprì la borsa?

TESTE FARINELLA R. - No.

P.M. Dott. GOZZO - Non lei, l'ufficiale.

TESTE FARINELLA R. - No, assolutamente.

P.M. Dott. GOZZO - E' un'altra domanda rispetto a quella che ho fatto prima.

TESTE FARINELLA R. - No, no, no, assolutamente. Davanti a noi ha preso la borsa, si è parlato con il dottor Ayala, ha girato, ha salutato e se n'è andato verso l'uscita.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi verso via D'Amelio, verso l'uscita di via D'Amelio, diciamo.

TESTE FARINELLA R. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Verso via Autonomia Siciliana.

TESTE FARINELLA R. - Sì, verso via Autonomia Siciliana.

P.M. Dott. GOZZO - Io le volevo mostrare, a questo punto... Presidente, sono le stesse foto che ho mostrato, quelle allegate (…) Quelle esibite già ieri, sì. (…) allora, le volevo fare le domande specifiche: se riconosce qualcuno nelle prime due foto che... quindi nella prima pagina che le viene mostrata, la pagina 3 di questa relazione.

TESTE FARINELLA R. - Il dottor Ayala.

P.M. Dott. GOZZO - Sì. E l'altra persona, invece, quella vestita con...

TESTE FARINELLA R. - Arcangioli.

P.M. Dott. GOZZO - Eh.

TESTE FARINELLA R. - No, no, non la ricono... non la ricordo, perché non... completamente. (…)

P.M. Dott. GOZZO – (…) E io questo le volevo chiedere, non gliel'ho chiesto immediatamente. Un'altra cosa le volevo chiedere: quella persona a cui avete consegnato la borsa, se lo ricorda, ricorda, prendendo a base la sua altezza, se fosse della sua altezza, altezza superiore, altezza inferiore?

TESTE FARINELLA R. - Guardi, in quel momento io ho avuto solo ed esclusivamente fiducia del dottor Ayala; mi sono disinteressato della persona, chi poteva essere e chi non poteva essere, quindi non ho fatto tanta attenzione alla persona in cui io ho consegnato la borsa, perché il dottor Ayala ha garantito lui, dice: "Dagliela a lui, è una persona che conosco io", basta, per me... non dovevo... cioè la mia idea, la mia mente non doveva stare... avevo tante cose in testa all'infuori di quella persona. (…) Ha garantito lui, me l'ha detto lui, per me...

P.M. Dott. GOZZO - Per lei va bene. Senta, un'altra cosa le volevo chiedere: lei ricorda se, diciamo, quando avete aperto l'autovettura vi erano delle fiamme all'interno?

TESTE FARINELLA R. - No.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi non è stato necessario utilizzare l'idrante per...

TESTE FARINELLA R. - Era... no.

P.M. Dott. GOZZO - Per la macchina, per l'interno della macchina intendo.

TESTE FARINELLA R. - No, all'interno non c'era...

P.M. Dott. GOZZO - No, glielo chiedo relativamente allo stato della borsa. Lei ricorda in che stato era la borsa? Perché lei l'ha tenuta per un po' di tempo, ha detto.

TESTE FARINELLA R. - Perfetto.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi era assolutamente intonsa, diciamo così, non era...

TESTE FARINELLA R. - Integra, ma si vede come... si evince anche nelle foto, quindi... La borsa...

P.M. Dott. GOZZO - E no, adesso le mostro le foto, perché, diciamo, lo stato della borsa è un po' diverso poi, successivamente. Ecco, volevo sapere prima di tutto se riconosce il tipo di borsa. Presidente, chiederei di mostrare questo, è un album fotografico che era allegato al verbale di s.i.t. di una persona che dovremmo sentire oggi, cioè Maggi. (…) E' la fotografia della borsa del dottore Borsellino. (…) Dico, io le specifico che dalle fotografie si evince che la borsa è da un lato, diciamo, abbastanza direi carbonizzata, mentre dall'altro lato è perfetta. Dico, quando lei l'ha presa era in queste condizioni o era in condizioni perfette, come ha detto lei?

TESTE FARINELLA R. - No, la borsa era integra. (…)

AVV. REPICI - Quando, quindi, fermate la macchina, il dottor Ayala vi spiega che cosa ci fosse lì nei pressi, nella zona dell'esplosione, in via D'Amelio? Se ci abitasse qualcuno.

TESTE FARINELLA R. - Quando siamo entrati, dice: "Ma qua c'è... - dice - abita la mamma del dottor Borsellino".

AVV. REPICI - Ah, quindi ve lo dice lui.

TESTE FARINELLA R. - Sì. (…)

TESTE FARINELLA R. - Io ricordo che passando di là, il dottor Ayala ha detto: "C'è la borsa all'interno". Poi se hanno detto gli altri o gli altri hanno visto, non lo so, non l'ho sentito io.

AVV. REPICI - A lei l'ha detto il dottor Ayala?

TESTE FARINELLA R. - Sì, certo.

AVV. REPICI - Può riferire le modalità pratiche con cui fu forzata la portiera?

TESTE FARINELLA R. - Avvocato, come faccio a saperlo adesso? Se è stata forzata, c'era un vigile del fuoco. (…) Aveva... non so, in quel momento aveva un attrezzo e l'ho aiutato pure io ad aprire la portiera, non...

AVV. REPICI - Non ha ricordo.

TESTE FARINELLA R. - E' impossibile, cioè è impossibile ricordare quegli attimi di...

AVV. REPICI - Lo capisco.

TESTE FARINELLA R. - Queste piccolezze che... visto la gravità della situazione andavo...

AVV. REPICI - Lo capisco, appuntato, lo capisco, cerchiamo di riuscire a recuperare ogni dettaglio. Mentre lei fa questa operazione, cioè cerca di aprire la porta, poi si avvale dell'aiuto del vigile del fuoco e poi, infine, una volta aperta la portiera, estrae dalla macchina la borsa, il dottor Ayala è rimasto lì al suo fianco?

TESTE FARINELLA R. - Certamente. Mica posso lasciare la personalità. Il mio compito era la personalità, non la borsa. (…)

AVV. REPICI - E' chiaro. In quel frangente lei sentì il dottor Ayala o chiunque altro parlare di un'agenda del dottor Borsellino?

TESTE FARINELLA R. - Assolutamente no, nessuno ha parlato di questo finché avevo la borsa io, o successivamente non abbiamo mai parlato, che non c'è stato nessun motivo. (pagg 891-908)

Quegli uomini dei servizi segreti. La Repubblica il 5 luglio 2019. Un altro contributo alla ricostruzione della vicenda in esame, difficilmente compatibile con tutti quelli sopra analizzati, veniva fornito con la deposizione (in parte già anticipata) di Francesco Paolo Maggi, Sovrintendente della Polizia di Stato, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo.

Il poliziotto era uno dei primissimi rappresentanti delle forze dell’ordine ad intervenire in via D’Amelio ed arrivava sul posto, con il funzionario di turno (dottor Fassari della Sezione Omicidi), con l’automobile di servizio (fondendone il motore), appena una decina di minuti dopo la deflagrazione. Al momento del suo arrivo, il poliziotto notava l’Agente Antonio Vullo, unico superstite fra gli appartenenti alla scorta del dottor Paolo Borsellino, in evidente stato di shock, seduto sul marciapiede, con il capo fra le mani. Il poliziotto, dunque, confidando di poter trovare qualcun altro ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti, mettendo un panno bagnato sul naso. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta: i corpi, infatti, erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. I resti del dottor Paolo Borsellino erano riconoscibili solo dai tratti somatici del viso e dai baffi. I resti di Claudio Traina erano finiti addirittura sull’albero rampicante che si trovava all’ingresso dello stabile di via D’Amelio, mentre Eddie Walter Cosina era carbonizzato dentro l’automobile. I resti di Emanuela Loi erano riconoscibili unicamente per un seno rimasto intatto, mentre i resti delle altre due vittime della Polizia di Stato, vale a dire Agostino Catalano e Vincenzo Li Muli erano irriconoscibili. Il Sovrintendente Maggi si metteva alla ricerca di eventuali tracce o reperti, anche scavalcando un muretto di recinzione posto alla fine (del lato chiuso) della via D’Amelio. Nel frattempo, le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio. Uno di questi interessava proprio la Croma blindata del Magistrato. Mentre si diradava il fumo, si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava, a dire del teste (come già anticipato nel precedente paragrafo), di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci (come detto, la circostanza, prima della deposizione dibattimentale era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare). Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via D’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della Via D’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile (“Ancora qua sei? -dice- Piglia 'sta borsa e portala alla Mobile”). Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio. Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della relativa deposizione, dalla quale risulta anche che la relazione di servizio sulla propria attività di polizia giudiziaria (come appena visto, tutt’altro che secondaria), veniva redatta soltanto 5 mesi più tardi, su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta, dottor Fausto Cardella:

P.M. Dott. GOZZO - Sovrintendente, perfetto. Le volevo chiedere se lei ebbe modo, il 19 luglio del 1992, di intervenire presso via D'Amelio.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, le spiego: io quel giorno non dovevo lavorare, mi hanno chiesto un turno di servizio perché periodo di ferie e quindi ho acconsentito a questa cosa. Mi trovavo negli uffici dove noi espletavamo servizio normalmente, a disposizione del funzionario di turno, di...

P.M. Dott. GOZZO - Quindi stiamo parlando, mi scusi, degli uffici della Squadra Mobile di Palermo?

TESTE MAGGI F.P. - Della Squadra Mobile di Palermo. Ora non ricordo bene l'orario, all'incirca è quello che sappiamo tutti, la... quando sono successi i fatti. Ho sentito un po' di trambusto e quindi... la cosa era abbastanza grave, perché c'erano colleghi abbastanza concitati, chi correva a destra. Io, così, istintivamente presi le chiavi e mi recai subito a prendere il funzionario di turno; quel giorno era il dottor Fassari della Sezione Omicidi, e subito mi recai sul posto, presi contatto con la Sala Operativa, gli dissi che avevo il funzionario a bordo e quindi mi portavo in via... in via D'Amelio. Avrò messo pochissimo, Signor Presidente, ora non riesco a quantificare, fatto sia che il Ministero addirittura mi voleva addebitare l'auto, in quanto ho bruciato il motore e quindi... saranno passati minuti, non... Arrivato, giunto sul posto, notai subito che c'erano i Vigili del Fuoco che già stavano operando, una coltre di fumo e ancora vetri che... che saltavano in aria, macchine andate a fuoco. Mi addentrai per vedere, cioè, se c'era qualcosa da fare; subito mi sono reso conto che per i colleghi purtroppo non c'era niente da fare e mi misi alla ricerca subito di prove, di qualche indizio che poteva servire. Non potendo fare altro, feci quello; solo che lo feci in più riprese, perché il fumo era così denso che non mi permetteva di permanere molto tempo sul posto e quindi trovai uno straccio, lo bagnai e mi feci spazio. Arrivato a un certo punto, notai... presumo che era l'auto del magistrato, una Croma azzurra. I miei ricordi sono sfuocati, la mia relazione di servizio al tempo è abbastanza dettagliata.

P.M. Dott. GOZZO - Eh, ma siccome non si può acquisire, io, Presidente, chiederei, visto che è una nota a firma proprio del... del 21 dicembre '92, di mostrarla al teste. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Perfetto. E allora, la prima domanda che le vorrei fare, perché adesso vorrei che... lei già ha dato, diciamo così, una prima descrizione dei fatti come li ricorda. Io le volevo chiedere, ma è un dato, diciamo, che salta agli occhi: questa nota ha una data, che è quella del 22 dicembre del 1992, stiamo parlando del 21 dicembre 1992, stiamo parlando, quindi, di -mi scusi- cinque mesi dopo i fatti. Può specificare alla Corte per quale motivo venne fatta questa relazione (….) tutto questo tempo dopo?

TESTE MAGGI F.P. - ...al momento poi io subentrai a far parte del gruppo di lavoro Falcone - Borsellino, che è stato instaurato. 'Sta relazione non so perché non... non la feci al momento, l'ho fatta successivamente e la consegnai al dottor La Barbera personalmente, il capo della...

P.M. Dott. GOZZO - Ecco, infatti, questa è un'altra cosa che le volevo chiedere: la relazione è diretta al signor dirigente della Squadra Mobile sede. Ebbe una richiesta in questo senso da parte del dottore La Barbera?

TESTE MAGGI F.P. - Una richiesta in che senso? Mi scusi.

P.M. Dott. GOZZO - Una richiesta di redigere dopo tutti questi mesi, insomma...

TESTE MAGGI F.P. - Sì, magari lui si... si incavolò su questa cosa, dice: "Come mai ancora non l'hai fatta la relazione?" "Dottore, fra una cosa e un'altra mi... non l'ho fatta", mi... mi giustificai così.

P.M. Dott. GOZZO - E si ricorda, appunto, quali erano i motivi per cui le venne chiesta la relazione? Si ricorda se in quei giorni...?

TESTE MAGGI F.P. - E perché dovevo essere sentito a... al tempo mi sentì il dottor Garofalo, mi pare, se non...

P.M. Dott. GOZZO - Il dottore Cardella.

TESTE MAGGI F.P. - Cardella, mi scusi, Cardella.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi doveva essere sentito il 29 dicembre dal dottore Cardella. (…) Quindi fu questo il motivo.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - E il dottore La Barbera lo sapeva, evidentemente, e quindi...

TESTE MAGGI F.P. - Sì, esatto.

P.M. Dott. GOZZO - ...le chiese di fare questa relazione.

TESTE MAGGI F.P. - Sì.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, lei ricorda... ecco, lei già ha riferito su quello che ricordava oggi, diciamo, relativamente a quello che le venne detto quando avvenne lo scoppio. Lei ricorda, in particolare, se venne detto dove vi era stato questo scoppio? Subito, diciamo così.

TESTE MAGGI F.P. - No, subito no, lo appresi tramite... tramite radio, dando la mia sigla radio, ho chiesto più... più informazioni alla Sala Operativa e... mi specificò che c'era stata una deflagrazione, si presume che fosse la scorta del dottore Borsellino.

P.M. Dott. GOZZO - Ma visto che lei si è recato a prendere il dottore Fassari, doveva avere un'idea su dove recarsi. (…) Dico, è sicuro? E' sicuro, e per questo. (…) a suo ricordo, la invito a leggere la sua relazione, che inizialmente non venisse riportata, anche se genericamente, la zona in cui era avvenuta l'esplosione?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, qua io lo menziono che lo apprendevo dalla Sala Operativa che...(…) Via Autonomia Siciliana.

P.M. Dott. GOZZO - Via Autonomia Siciliana, perfetto. Poi, successivamente, in macchina apprendeste di via D'Amelio.

TESTE MAGGI F.P. - E' chiaro, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Avete appreso proprio che si trattava di via D'Amelio.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, e quand'è che ha avuto la consapevolezza che si trattava, ecco, di una blindata, che si trattava di un magistrato, che si trattava del dottore Borsellino e degli uomini della scorta del dottore Borsellino?

TESTE MAGGI F.P. - Subito, subito, nell'immediatezza, quando sono arrivato.

P.M. Dott. GOZZO - Cioè che cosa attirò la sua attenzione?

TESTE MAGGI F.P. - Io quando... quando arrivai sul posto, ho visto davanti all'ingresso del... dell'edificio dei corpi smembrati; tutti i corpi presentavano mutilazioni sia degli arti superiori che degli arti inferiori, a terra c'erano solo tronchi. Riconobbi subito il dottor Borsellino, perché i dati somatici del viso erano rimasti intatti, anche se il corpo era carbonizzato lo riconoscevo, l'ho riconosciuto dai baffetti, e quindi senza ombra di dubbio ho riconosciuto il dottor Borsellino. I colleghi un po' meno, erano più dilaniati.

P.M. Dott. GOZZO - Sì. Lei poco fa ha detto, appunto, che la prima cosa che ha fatto non appena è arrivato, prima di tutto ha visto i Vigili del Fuoco che già spegnevano...

TESTE MAGGI F.P. - Prima... prima mi accertavo che... di quello che era successo, se c'era ancora qualche... qualcuno che bisognava aiuto, che... subito dopo mi sono reso conto che per i colleghi non c'era... e per il dottore non c'era più niente da fare.

P.M. Dott. GOZZO - Ma erano già presenti i Vigili del Fuoco?

TESTE MAGGI F.P. - Mi pare... erano presenti, un'autopompa già era presente quando sono arrivato.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi quando lei è arrivato, anche per collocare temporalmente, diciamo, il suo arrivo, erano arrivati già i Vigili del Fuoco.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, un'autopompa me la ricordo benissimo.

P.M. Dott. GOZZO - Perfetto. Ricorda se c'erano delle Volanti presenti, oltre a voi?

TESTE MAGGI F.P. - Questo non lo so, non glielo so dire, dottore, perché io, come ripeto, mi sono proiettato immediatamente sul posto dove è successo l'attentato e quindi davanti a me... cioè cercavo solo tracce e non... Subito dopo che...

P.M. Dott. GOZZO - Perfetto. E allora, andiamo su queste cose, anche per cercare di quantificare il periodo di tempo che lei ha speso, diciamo, prima di arrivare sulla macchina del Procuratore Aggiunto Borsellino. Nella fattispecie le volevo chiedere: quindi, lei ha detto che la prima cosa che ha fatto è verificare se c'erano, appunto (…) le condizioni dei colleghi. Anche perché c'era un collega vivo lì presente, lei lo ricorda?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, era... era all'ingresso del... di via D'Amelio, con le mani giunte sul capo, seduto sul marciapiede, sconvolto, non... Non mi sono preoccupato di fargli domande, perché ho capito lo stato in cui versava e quindi (…) non c'ho fatto caso. Cioè ho riconosciuto il collega Vullo, però ho tirato avanti e...

P.M. Dott. GOZZO - E quindi ha fatto questa prima verifica sui corpi. Li ha rinvenuti tutti? Cioè...

TESTE MAGGI F.P. - Mancava solo Traina, perché era rimasto attaccato, quel che restava del collega, in un albero; forse era un rampicante che adornava l'ingresso dell'edificio, era...

P.M. Dott. GOZZO - Quindi, diciamo, non vorrei sembrare macabro, ma è sempre per calcolare il tempo necessario. (…) Lei è riuscito a trovare sei corpi.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, gli altri... Cosina era dentro l'auto, carbonizzato, mi ricordo. Poi c'era Manuela Loi che a terra era proprio... l'ho riconosciuta che era rimasto un seno intatto e ho capito che si trattava della ragazza. Gli altri, Catalano e gli altri, non... non riuscivo a distinguerli; ho riconosciuto il dottore Borsellino, come gli ho detto, che il viso proprio era... era solo carbonizzato, però si vedeva che era il dottore Borsellino, dai dati somatici, ecco.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, per riuscire a comprendere: in tutto questo lei seguiva il dottore Fassari oppure era per i fatti suoi?

TESTE MAGGI F.P. - No, il dottor Fassari l'ho perso di vista, perché il dottor Fassari aveva acciacchi. Io mi... mi sono dato molto da fare, non... non so che fine ha fatto il dottor Fassari. (…) Ah, faccio una premessa: subito dopo il mio istinto mi ha portato... via D'Amelio è una strada chiusa, confina con un giardino. Qualcosa mi faceva dire che se... qualcuno che aveva progettato tutto questo fosse ancora là e quindi, così, magari inconsciamente, magari subito dopo mi sono reso conto di quello che stavo facendo. Mi sono addentrato pure dentro il giardino, a rischio e pericolo mio; poi sono ritornato sui miei passi, sono ritornato ancora sul posto dell'accaduto, dell'attentato.

P.M. Dott. GOZZO - E ha visto qualcosa di interessante all'interno del giardino?

TESTE MAGGI F.P. - Non ho visto niente, anche perché la vegetazione era fitta, c'erano spine, non mi permetteva più di andare avanti.

P.M. Dott. GOZZO - Mi scusi se a questo punto intervengo su questo punto, ma il cancello era aperto? Quindi lei è riuscito ad entrare.

TESTE MAGGI F.P. - Non lo so, perché io ho scavalcato una recinzione, mi sono strappato il pantalone. (…) non sono entrato da un ingresso.

P.M. Dott. GOZZO - Glielo chiedo perché nelle fotografie il cancello appare aperto, quindi volevo capire se lei aveva (…) Se lei mi dice che ha scavalcato (…) evidentemente non era aperto. Ricorda anche se c'era un muro oltre al cancello? Forse è passato dal muro.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, mi pare che c'è un muro di contenimento.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi forse sarà passato da là.

TESTE MAGGI F.P. - Non sono sicuro, ma mi pare... mi sembra di sì.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, quindi, per riuscire a comprendere, lei arriva quando ci sono già i Vigili del Fuoco, quindi siamo...

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Questo lo data, da quello che sono le sue conoscenze (…) una decina di minuti dopo il fatto. (…) Già stavano spegnendo, quindi forse qualcosa di più.

TESTE MAGGI F.P. - Stavano spegnendo le auto.

P.M. Dott. GOZZO - E poi ha visto tutte queste persone, quindi aggiungo un'altra... Quindi possiamo dire che a questo punto siamo a circa venti minuti dal fatto e lei comincia a verificare che cosa c'è...

TESTE MAGGI F.P. - Qualche minuto prima, un quarto d'ora. Eh, ma ero molto concitato io, non (…) tutto quello che... che mi si mostrava agli occhi era una cosa proprio...

P.M. Dott. GOZZO - Sconvolgente.

TESTE MAGGI F.P. - Sì. (…) Ma io in quel momento cercavo un qualcosa di utile, perché non c'era più niente da fare là, e l'unica cosa era la ricerca di prove, di indizi, di qualcosa, va'. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Senta, e quindi dopo avere cercato, diciamo così, i colleghi e il magistrato che erano state vittime di questo fatto, lei che cosa ha fatto?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, ho visto il... il vigile del fuoco che stava spegnendo l'auto, l'auto azzurra, presumo che era quella del magistrato.

P.M. Dott. GOZZO - Si ricorda dov'erano le fiamme? Cosa stava spegnendo?

TESTE MAGGI F.P. - Già era quasi spenta l'auto, perché già l'aveva domato.

P.M. Dott. GOZZO - Ricorda se la macchina era aperta o era chiusa?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, la portiera era aperta.

P.M. Dott. GOZZO - Quale era aperta?

TESTE MAGGI F.P. - Sennò non potevo vedere la borsa.

P.M. Dott. GOZZO - Quale portiera era aperta?

TESTE MAGGI F.P. - Lato sinistro, lato di... del guidatore, posteriore... no, sinistro, sì.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi non quello del guidatore, l'altro sarebbe quello di sinistra.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, quello... quella dietro, la portiera dietro. (…) E scorsi la borsa. Gli dissi ai Vigili del Fuoco di indirizzare... siccome era fumante, quella borsa mi sembrò l'unica cosa che potevo recuperare.

P.M. Dott. GOZZO - Dov'era posizionata la borsa esattamente? Se lo ricorda.

TESTE MAGGI F.P. - La borsa non era posizionata come di solito uno entra in auto e poggia la borsa e la fa poggiare nello schienale; la borsa era riversa di mezzo lato tra il sedile anteriore e posteriore, come se fosse caduta la borsa, inclinata. (…)

P.M. Dott. GOZZO - (…) Senta, quindi poi, effettivamente,il vigile del fuoco bagnò la...?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì, seguì le mie indicazioni.

P.M. Dott. GOZZO - Lei ricorda se la borsa era vuota, piena? Come le sembrava?

TESTE MAGGI F.P. - La borsa, sì, già mi è stata fatta più volte quella (…) La borsa era piena, sicuramente, e abbastanza pesante, perché questo me lo ricordo, va', non è che... è normale che me lo ricordo. La borsa, sì, conteneva materiale all'interno.

P.M. Dott. GOZZO - Conteneva materiale all'interno. Lei ha avuto modo di aprirla?

TESTE MAGGI F.P. - No, non... non mi è passato, dottore, perché a me mi interessava nell'immediatezza, cioè, recuperare la borsa e quindi avvertire il funzionario che... del rinvenimento della borsa, e poi prodigarmi assieme agli altri a prestare sempre là assistenza a chi... C'erano persone che sgombravano, bambini, mi trovai con un neonato in mano, gente che urlava, si può immaginare le scene. (…) Una bambina di... di un paio di mesi, io l'avevo in braccio, l'ho portata all'ambulanza.

P.M. Dott. GOZZO - Questo prima o dopo la borsa? Se lo ricorda.

TESTE MAGGI F.P. - Dopo la borsa.

P.M. Dott. GOZZO - Dopo. E' sicuro di questo?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, perché poi fui avvicinato dal funzionario, dice: "Ancora qua sei? - dice - Piglia 'sta borsa e portala alla Mobile".

P.M. Dott. GOZZO - Quindi lei aveva avuto modo di interloquire sul fatto della borsa con il funzionario?

TESTE MAGGI F.P. - Sì. (…)

P.M. Dott. GOZZO - E che cosa vi siete detti, diciamo, relativamente alla borsa?

TESTE MAGGI F.P. - Niente, e... di portare la borsa alla Mobile e consegnarla al... all'ufficio del dottore La Barbera.

P.M. Dott. GOZZO - Fu una disposizione del funzionario di non aprire la borsa e di portarla immediatamente in...?

TESTE MAGGI F.P. - No, non ci furono disposizioni in tal senso, ma a me non mi... non mi passava proprio per la testa di aprirla, non...

P.M. Dott. GOZZO - Sì. Senta, e una volta che lei poi si è... Quindi, se ho capito bene, mi corregga se sbaglio, la successione degli eventi, voi arrivate quando ci sono già i Vigili del Fuoco in operazione; lei prima vede i corpi, poi vede la borsa.

TESTE MAGGI F.P. - Sì. (…)

P.M. Dott. GOZZO - Poi la bambina e poi Fassari le dice: "Ma ancora qua sei? Vai".

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì.

P.M. Dott. GOZZO - A questo punto lei va via, quindi, diciamo, siamo all'incirca mezz'ora - tre quarti d'ora dopo l'evento, diciamo. (pagg 908-939)

I primi arrivati sulla scena del crimine. La Repubblica il 5 luglio 2019.

TESTE FRANCESCO PAOLO MAGGI: - Dottore, io vorrei aggiungere una cosa, che a distanza di tempo non ho detto, però 'sta cosa ora sta andando per le lunghe, non me la sento più. (…) Preme pure a me la ricerca della verità, perché... Io questo lavoro l'ho fatto veramente con il senso del dovere, ho fatto ventisette anni in questa amministrazione. (…) A me la cosa strana, dottore, più che strana, pure infastidito, perché purtroppo anche all'interno da noi ci sono queste cose, però poi sono ritornato su questo pensiero. Cioè lei sa benissimo che in un'emergenza si allerta il 113 e quindi il 113 dirama la nota di una cosa e quindi... (…) Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: "Ma questi come hanno fatto a... a sapere già...?" Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano.

P.M. Dott. GOZZO - Lei ha ricostruito che si trattasse dei Servizi o...?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, perché un paio li conosco, di Roma. Io ho lavorato sette anni a Roma.

P.M. Dott. GOZZO - E a questo punto la invito a fare i nomi di queste persone, se li riconosce.

TESTE MAGGI F.P. - E non li conosco, conosco di... di faccia, è gente questa che... manco ti dà confidenza.

P.M. Dott. GOZZO - E quando ha notato queste persone? Dal punto di vista del timing, diciamo così.

TESTE MAGGI F.P. - Dopo dieci minuti che era avvenuto tutto il fatto.

P.M. Dott. GOZZO - E quindi quando siete arrivati voi, praticamente.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì, subito dopo. Io uscii da... da 'sta nebbia che... e subito vedevo che arrivavano tutti 'sti... tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu' 'u stesso abito, una cosa meravigliosa.

P.M. Dott. GOZZO - Ho capito. E questa cosa ebbe modo di riferirla a qualcuno?

TESTE MAGGI F.P. - No, me la sono tenuta sempre dentro, dottore.

P.M. Dott. GOZZO - Perché? C'è un motivo? Ce lo dica.

TESTE MAGGI F.P. - Non lo so, ora sta venendo fuori 'sta cosa, perché 'sta cosa mi... mi sta dando fastidio, perché sono stato sentito più volte e mi... mi lede la mia moralità, se permette, dottore, non... E quindi mi sono promesso a me stesso che tutto... Oggi sono qua proprio per questo.

P.M. Dott. GOZZO - Mi scusi se le faccio questa domanda (…) ma evidentemente essendo passati vent'anni io devo indagare anche sul fatto perché lei queste cose le dica oggi. Lei aveva timore a dire questo fatto?

TESTE MAGGI F.P. - No, nessun timore, solo che (…) al tempo non... non pensavo che fosse rilevante questa cosa, trattandosi di poliziotti e carabinieri.

P.M. Dott. GOZZO - E perché oggi pensa che sia rilevante,invece?

TESTE MAGGI F.P. - E non lo so, perché ci sono molti punti oscuri. 'Sta borsa chi l'ha trovata? Ma quante borse c'erano?

P.M. Dott. GOZZO - No, va beh, una ce n'era. Quante ce n'erano?

TESTE MAGGI F.P. - Cioè non... veramente, alle volte dico: ma è successo veramente? Cioè veramente, non... Mi sento un po' frastornato da 'sta storia.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, ecco, io volevo che lei ricordasse se oltre ai Vigili del Fuoco vi erano anche delle ambulanze quando lei è arrivato.

TESTE MAGGI F.P. - Una - due sicure. (…) Si sentivano le sirene di ambulanze che arrivavano.

P.M. Dott. GOZZO - Sempre per calcolare quando lei è arrivato (…). Un'altra cosa: quando lei è arrivato, c'erano degli scoppi?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, erano le auto parcate sempre là, nella zona, che giustamente i vetri, riscaldando, esplodevano e quindi dovevo fare pure attenzione a districarmi.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, un'ultima cosa, scusi se ritorno di nuovo su questi fatti (…) che non sono certo piacevoli da ricordare, però per completezza lo devo fare. Quando lei si è occupato delle vittime dell'attentato, ricorda il giro che ha fatto qual è stato? Se lo ricorda, chiaramente, mi rendo conto che sono passati vent'anni, però può darsi che le sia rimasto impresso. (…)

TESTE MAGGI F.P. - Io la prima persona che ho visto era... è stato il collega Vullo, come ho detto, all'inizio della strada, seduto sul ciglio del marciapiede, con le mani... con il capo tra le mani, che implorava, che... era sconvolto. Poi, addentrandomi, ripeto a dire che non era... cioè non era agevole andare avanti, perché il fumo era denso; anzi, più volte io mi... mi inoltravo e ritornavo, perché mi mancava l'aria, non... non mi potevo addentrare.

P.M. Dott. GOZZO - Sì, oltretutto lei ha detto che...

TESTE MAGGI F.P. - E quindi quando i vigili operavano e si diradava, io mi... a più riprese andavo avanti, fino ad inoltrarmi dentro l'androne e dall'altro lato notai il dottor Borsellino. (…) Con vicino... poi ho capito che era Catalano quello vicino (…) al dottor Borsellino.

P.M. Dott. GOZZO - Il caposcorta. Lei ha notato altri oggetti, oltre alla borsa che bruciava, all'interno dell'autovettura? Che aveva un inizio di incendio, diciamo, nell'autovettura?

TESTE MAGGI F.P. - Direi una bugia, a me attirò subito l'attenzione la borsa, perché l'ho capito subito che era la borsa del magistrato, era l'unica cosa da... da salvare là, perché non c'era più niente là da... da recuperare, e quindi mi concentrai sulla borsa. C'era un... un M12, un... è una pistola mitragliatrice, un M12.

P.M. Dott. GOZZO - Ah, c'era un'arma dentro. (…) Ma carte e cose di questo genere non le ricorda?

TESTE MAGGI F.P. - No, carte sciolte, così, no, niente. Sciolte, dico... cioè buttate lì, non ne ho notato.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, lei è sicuro di non aver fatto relazione nell'immediatezza? Dico, non c'è nel suo ricordo di averla fatta, magari non consegnata?

TESTE MAGGI F.P. - No, dottore.

P.M. Dott. GOZZO - No, non l'ha fatta. E anche se le chiedo di ricordare qual è l'orario presunto, all'incirca, in cui la borsa arriva alla Squadra Mobile, diciamo, non lo ricorda, cioè non ha un ricordo. Non le sto chiedendo di ricostruire, quello ho cercato di farlo io; cioè se lei ha un ricordo magari sopra, dove...

TESTE MAGGI F.P. - Minuti.

P.M. Dott. GOZZO - ...quando lei arriva, ha visto l'orologio e ha visto l'ora, non lo so, dico.

TESTE MAGGI F.P. - No. (…) Minuti sono passati, perché mi ricordo benissimo che ho fatto velocemente, ho lasciato la borsa e mi sono recato di nuovo sul posto. Incontrai al collega Di Franco, la borsa l'ho consegnata a lui.

P.M. Dott. GOZZO - Il collega Di Franco chi è?

TESTE MAGGI F.P. - Era l'autista quel periodo, perché mi pare che quello del dottor La Barbera era in ferie, era l'autista del dottor La Barbera (…). Entrammo assieme nella stanza del funzionario, del capo della Mobile, e la pose... sulla destra c'era un divano con delle poltrone e l'ha messa sul... sul divano. (…) Gli ho detto: "Mi raccomando di 'sta borsa, io sto ritornando sul posto". E lui mi fa: "Va beh, Ciccio, vai".

P.M. Dott. GOZZO - Senta, vorrei che ritorni un attimo al momento in cui lei vede la borsa. Successivamente cosa fa, la prende lei o la prende il vigile del fuoco la borsa dall'autovettura?

TESTE MAGGI F.P. - La prende... la prende il vigile del fuoco, anche se io cerco di entrare, però... di questa cosa, ecco, non ne sono certo, ma presumo che l'ha presa lui, perché lui aveva la pompa e quindi...

P.M. Dott. GOZZO - Io glielo devo chiedere, chiaramente: ma lei il nome di questo vigile del fuoco o lo sa o non lo sa?

TESTE MAGGI F.P. - Non mi... non gliel'ho chiesto, poi ho riflettuto e ho detto: "Potevo chiedere il nome al vigile del fuoco".

P.M. Dott. GOZZO - Ma era un giovane o una persona un po' più avanti negli anni?

TESTE MAGGI F.P. - No, all'epoca poteva avere qualche anno più di me. (…) Nel '92 ne avevo 36 - 37.

P.M. Dott. GOZZO - Va bene. Che lei ricordi, le venne poi... Lei ha avuto modo di parlare comunque con questo vigile del fuoco?

TESTE MAGGI F.P. - No, non... quando sono ritornato... perché avevano tutti i caschi e poi avevano la visiera, erano tutti uguali, non...

P.M. Dott. GOZZO - Tra le persone che lei ha visto sui luoghi, ricorda se vi era l'allora Onorevole Ayala, ex magistrato della Procura di Palermo?

TESTE MAGGI F.P. - Dopo, perché poi, dottore, arrivavano persone, poi, autorità da tutte le parti. Quel giorno l'ho... l'ho scorto il Giudice Ayala.

P.M. Dott. GOZZO - Ma quando lei si reca all'autovettura non c'è il Giudice Ayala o c'è?

TESTE MAGGI F.P. - Penso di no, perché, ripeto, io sono stato uno dei primi ad arrivare là. E poi in questo andirivieni, che saranno passati cinque - dieci minuti, forse pure un quarto d'ora, non riesco a quantificare i minuti, notavo questa gente giacca e cravatta che... che si avvicinava, che cercava, che... (…) In primo tempo mi volevo avvicinare a queste persone per chiedere: "Ma voi che state facendo? Che state cercando?" Poi ho visto che era gente di Roma, perché li conoscevo di vista, e ho lasciato perdere.

P.M. Dott. GOZZO - Eh, ma mi scusi, ecco, allora a questo punto esploriamo meglio questa cosa. Stavano cercando cosa? Cioè non dico che lei sapesse cosa stavano cercando, dico, ma cosa facevano?

TESTE MAGGI F.P. - No, tipo che si aggiravano in tutto... in tutta la... come vogliamo dire. (…) In tutta l'area, sì. (…) Ecco, nelle macchine parcheggiate.

P.M. Dott. GOZZO - Anche vicino a questa macchina azzurrina che lei...?

TESTE MAGGI F.P. - Certo, qualcuno si avvicinò pure là. Va beh, si avvicinarono quando il fumo già forse era un po' meno, sennò i vestiti si sporcavano.

P.M. Dott. GOZZO - Quindi forse cercavano qualche traccia, come stava facendo lei.

TESTE MAGGI F.P. - E penso di sì, essendo... essendo poliziotti pure loro. (…) Non è che gli posso dire a un collega: "Oh, ma che stai facendo? Che fai qua?" Non glielo posso dire. (…) ho detto: "Ma chissi... ma che ci avevano la radio?" Non lo so io, va', mi sono posto questa domanda, ho detto: "Ma come mai?" E me la sono posto ora. Ai tempi non lo so perché, forse ero troppo giovane, ora, con il tempo, 'sta cosa. (…).

P.M. Dott. GOZZO - Senta, a questo punto, visto che lei ha un ricordo abbastanza nitido, mi pare, se può specificare, ecco, adesso quante sono queste persone, se può in qualche modo quantificarle.

TESTE MAGGI F.P. - Perché arrivavano man mano, diventarono poi un esercito.

P.M. Dott. GOZZO - Allora, diciamo, nell'immediatezza lei già ha individua...?

TESTE MAGGI F.P. - Quattro o cinque potevano essere. (…) E c'era qualcuno pure che non conoscevo, ah? Solo che parlavano tra di loro e ho detto: "Mi', su' puru colleghi", erano vistuti uguali, avevano ddocu 'a spilletta, perché poi...

P.M. Dott. GOZZO - Avevano anche la spilletta di riconoscimento?

TESTE MAGGI F.P. - Penso del Ministero degli Interni o (…) dell'ufficio che facevano parte questi, non lo so.

P.M. Dott. GOZZO - Senta, riesce a descriverli, cioè a dire com'erano, insomma, che...? Oppure ha un ricordo semplicemente numerico, diciamo così?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, grossomodo è numerico, dottore, io non... non riesco a vedere... a riconoscere i visi. Mah, statura normale, tipo la mia. (…) Non mi ricordo i volti, perché... non lo so, non mi interessava. Poi la mente elabora con il tempo, ti fai tante domande, acquisisci magari attraverso i giornali riscontri, e quindi ti fai pure tu delle domande. Dico: "Ma se la chiamata arrivò al 113, questi..." Minchia, ma erano belli freschi, proprio senza una goccia di sudore, proprio questi... proprio come se erano dietro l'angolo, non lo so io. Da chi hanno appreso la notizia questi? Dopo dieci minuti sul posto, un quarto d'ora. Vularu? Chissi di Roma vularu? Erano qua, boh! Non lo so che ci facessero a Palermo. Questo ci tengo a dirlo, eh? (…)

P.M. Dott. LUCIANI - (…) Lei oggi ha detto che fu lei a prelevarla, dice: "Anche se non ne sono certo al 100%". Questo, in realtà, è quello... Lei ricorda di essere stato sentito più volte, ce l'ha detto, no? su questa circostanza. (…) In realtà, nella relazione di servizio che lei ha avuto modo di visionare, lei relazionava che: "Lo stesso - sta parlando del vigile del fuoco che ha spento il principio di incendio che interessava la borsa, quindi - lo stesso, dal sedile posteriore del mezzo in questione, prelevava una borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale, dopo avergli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnò al sottoscritto". Cioè in questa relazione di servizio che lei fa a dicembre in realtà sembrerebbe dire che è il vigile del fuoco che la preleva e gliela dà. Dico, facendo mente locale, io capisco che è difficile, facendo mente locale lei...

TESTE MAGGI F.P. - Dottore, sono passati ventun anni, e no perché voglio divagare, però nella mia vita sono successe troppe... troppe cose brutte.

P.M. Dott. LUCIANI - No, lo capisco, dico, per quello che è il suo ricordo, oggi qual è? Che la preleva lei o che la preleva questo vigile del fuoco? Sposta poco, ma per cercare di essere quanto più precisi.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì, comprendo. Non ne sono certo al 100%, ma al  90% il mio ricordo... il vigile del fuoco, perché era lui che stava operando e quindi (…) me la passò lui.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, un'altra cosa, mi perdonerà se le faccio delle domande... io non ho assistito proprio ai primi cinque minuti della sua deposizione. Quando lei preleva questa borsa e la porta al dottor Fassari, il dottor Fassari dov'era fisicamente, se lo ricorda lei?

TESTE MAGGI F.P. - Il dottor Fassari era un po' distanziato dov'è successo, dove... dove c'era tutto...

P.M. Dott. LUCIANI - Distanziato, quindi dove, verso il muro o verso via Autonomia Siciliana?

TESTE MAGGI F.P. - Verso Autonomia Siciliana. (…) Parlava via radio, era con altri funzionari.

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi, diciamo, era quasi alla fine di via D'Amelio?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, quasi alla fine.

P.M. Dott. LUCIANI - Poi lei ha detto al Procuratore di aver provveduto a soccorrere persone, ha ricordato l'episodio della bambina.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, mi ricordo... mi ricordo una signora mi passò una bambina.

P.M. Dott. LUCIANI - Oh, e ha collocato questo fatto dopo la circostanza della borsa.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, penso proprio di sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Questo sempre, diciamo, per cercare un po' di fare mente locale (…) il 13 ottobre del 2005 lei alla DIA dichiara questo: "Ricordo di aver prestato soccorso ad una bambina, che verosimilmente insieme ad altre persone usciva dal palazzo danneggiato e di averla accompagnata fuori della strada, ove erano le ambulanze". Lo leggo perché da questo verbale, almeno per come è verbalizzato, sembrerebbe, invece, che questo fatto avvenga prima del fatto della borsa, perché lei dice: "Dopo che i Vigili del Fuoco hanno iniziato a spegnere i primi incendi, ricordo peraltro che si udivano anche gli scoppi, verosimilmente provocati da vetri che esplodevano a causa del calore, abbiamo iniziato a perlustrare la zona e la macchina". Quindi, per come è verbalizzato qua, sembrerebbe che lei prima soccorre questa bambina, la porta fuori da via D'Amelio e poi si addentra e succede quello della borsa.

TESTE MAGGI F.P. - Può anche darsi che è successo prima, dottore, sono state fasi molto concitate. (…) Poi, a distanza di ventun anni, la mente... Io pure ho una certa età, sa, mi... mi sto sforzando ora, questi giorni proprio ho cercato di... di ritornare indietro nei ricordi e quindi di attingere più... più ricordi possibili.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, sempre per questa relazione di servizio, lei oggi ha detto: "Io sono certo che all'epoca non l'ho fatta", e poi è stato sollecitato, come già ci ha detto, in previsione di una escussione. In realtà, nel verbale del 13... sempre di questo, del 13 ottobre del 2005, lei dichiara: "Sono certo che all'epoca ho redatto una relazione di servizio in cui ho raccontato l'episodio. Sono altrettanto sicuro che è stato redatto un verbale di sequestro, ma non so se tale atto fu redatto da me o da qualche altro collega che si occupò delle indagini".

TESTE MAGGI F.P. - No, no, è stato redatto...

P.M. Dott. LUCIANI - Aspetti, scusi, scusi, scusi. (…) Ed è una circostanza in cui poi si torna in un successivo verbale del 3 settembre del 2007, in cui appunto le chiedono il motivo per il quale questa relazione di servizio è successiva, e lei dice: "Non ricordo assolutamente questo particolare, io ero sicuro di aver redatto qualche atto inerente la borsa nell'immediatezza dei fatti". Ora questo è quello... per completezza, perché gliele debbo leggere tutte le dichiarazioni, questo è quello che lei dichiara il 13 ottobre del 2005 e successivamente, quindi da questi s.i.t. che lei rende, sembrerebbe che lei era sicuro di aver redatto questa relazione di servizio. In realtà, poi, quando lei viene sentito a dicembre del '92 innanzi al dottore Cardella, lei, appunto, dice di non aver redatto la relazione di servizio, dice: "Sul momento non ho ritenuto necessario redigere relazione scritta, del resto, data la concitazione degli eventi, devo dire che non ho nemmeno pensato a farla. Poi non ho più pensato all'opportunità di fare relazione, fino a quando non sono stato citato".

TESTE MAGGI F.P. - Sì, perché partirono subito (…) le indagini, dotto', quel... quell'atto lì mi sfuggì, non... infatti il dottore La Barbera mi fece proprio una lavata di testa, dice: "Ma..."

P.M. Dott. LUCIANI - Ma questa è una circostanza che ha ricordato dopo? Perché nel 2005, quando viene sentito, lei dice: "Ma io sono certo di averla fatta 'sta relazione di servizio".

TESTE MAGGI F.P. - Mi sono contraddetto (…). Comunque è chiaro che non l'ho fatta nell'immediatezza, di questo ne sono certo; è stata fatta cinque mesi dopo.

P.M. Dott. LUCIANI - E conferma che gliela chiese il dottore La Barbera?

TESTE MAGGI F.P. - Sì, sì, e infatti...

P.M. Dott. LUCIANI - E lei la consegnò poi al dottore La Barbera questa relazione anche?

TESTE MAGGI F.P. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Al dottor La Barbera, parliamo di Arnaldo La Barbera, chiaramente.

TESTE MAGGI F.P. - Arnaldo La Barbera.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, per tornare al tempo che trascorre, diciamo, tra quando lei arriva e quando poi lei agisce sull'autovettura prelevando la borsa, lei in questo verbale sempre del 2005, il 13 ottobre, dice: "Ritengo che nel periodo in questione..." quindi il periodo che trascorre tra quando lei arriva in via D'Amelio, fa tutte quelle operazioni di cui ha detto e poi arriva e prende la borsa, dice: "Ritengo che nel periodo in questione siano trascorsi circa dieci minuti". Poi, in un verbale successivo, lei specifica questo, ridice tutto quello che ha fatto da quando è arrivato in via D'Amelio fino a quando poi è arrivato alla Squadra Mobile e ha depositato la borsa, ma dice: "Come ho detto nelle mie precedenti dichiarazioni, per me questo è stato un tempo abbastanza breve, tanto che ho indicato in circa dieci minuti dopo il mio arrivo e il rinvenimento della borsa, ma chiaramente di ciò non può essere certo. La situazione disastrosa sui luoghi che inizialmente non ci ha consentito di entrare in via D'Amelio e l'attività di soccorso da me svolta subito dopo, non mi consentono di individuare con certezza l'ora del rinvenimento della borsa e di conseguenza l'ora in cui sono arrivato alla Squadra Mobile. Posso ribadire che quando ho prelevato la borsa, il grosso dell'incendio era stato spento, ma vi era ancora qualche focolaio, uno dei quali interessava anche l'auto blindata che conteneva la borsa". Quindi le volevo chiedere se conferma queste indicazioni che lei aveva dato all'epoca.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, confermo questo.

P.M. Dott. LUCIANI - Cioè il fatto che aveva indicato in dieci minuti come un tempo di massima, però circostanza della quale lei non può essere certo, ecco.

TESTE MAGGI F.P. - Sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, l'ultima cosa: le vorremmo mostrare, a questo punto... Lei poi sa che esito ebbe questa...? Cioè lei dice: "Io l'ho portata alla Squadra Mobile". E poi lei ha avuto più modo di vederla questa borsa successivamente?

TESTE MAGGI F.P. - No, questa borsa non mi è stata più mostrata.

P.M. Dott. LUCIANI - Ma negli uffici della mobile lei l'ha più vista poi, nel periodo successivo? Sa che fine ha fatto?

TESTE MAGGI F.P. - No, dottore, e che fa, andavo a vedere la borsa? Non c'è stato modo di... (…) Non l'ho vista più la borsa.

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi da quando lei poi la mette, diciamo, nell'ufficio del dottore La Barbera, lei non l'ha più vista questa borsa in epoca successiva. E' corretto?

TESTE MAGGI F.P. - Sì. A me poi mi è stata mostrata, mi scusi, dottore. (…)

P.M. Dott. LUCIANI - Ecco, e allora visto che le è stata mostrata per foto, gliela rimostriamo anche oggi. Si tratta, Presidente, dello stesso album fotografico che abbiamo mostrato al dottore Cavaliero. (…) Esatto, che peraltro è allegato proprio ad un verbale di sommarie informazioni rese dal teste il 13 ottobre 2005.

PRESIDENTE - Sì, va bene, può essere esibito, sì.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, presumibilmente la borsa è questa. Però la borsa, io devo essere proprio... proprio sincero proprio al massimo, devo... non era piegata così, la borsa era bella piena. Non lo so se 'sta foto se è stata fatta con la borsa piena e la borsa vuota.

P.M. Dott. LUCIANI - No, va beh, credo che sia stata fatta in epoca successiva. Comunque la differenza che lei nota qual è?

TESTE MAGGI F.P. - Che è sgonfia.

P.M. Dott. LUCIANI - E invece quando lei la prende è piena?

TESTE MAGGI F.P. - Era bella... bella...

P.M. Dott. LUCIANI - Senti, ma (…) per quella che è stata la sua percezione, visto che ha dichiarato di non averla aperta, questo suo essere piena dipendeva dal contenuto della borsa o dal fatto che la borsa fosse stata attinta dall'acqua?

TESTE MAGGI F.P. - No, penso dal contenuto della borsa. Eh, e quanta acqua...? Avrà fatto in tempo a... ad assorbire tutta 'st'acqua? (…) No, ma una borsa di questa per riempirsi d'acqua deve stare a bagno cinque ore, dottore, impossibile.

P.M. Dott. LUCIANI - Quindi la sua percezione era che fosse piena per il contenuto.

TESTE MAGGI F.P. - Sì, c'era il materiale all'interno, sì.

P.M. Dott. LUCIANI - Per il materiale che c'era all'interno.

TESTE MAGGI F.P. - Sì. Una borsa buona, di cuoio. (…)

AVV. FARACI - Una domanda di precisazione, se naturalmente riesce a collocarlo nel tempo. Lei, facendo uno sforzo di memoria, può dirci se incontrò o se pensa di avere incontrato il dottor Ayala prima che lei prelevava la borsa o dopo?

TESTE MAGGI F.P. - Penso dopo, dopo l'ho incontrato.

AVV. FARACI - Dopo quanti minuti?

TESTE MAGGI F.P. - Eh, non riesco. Quando si tratta di minuti, veramente, io mi sforzo di... ma vi giuro che è impossibile, un evento di quello quantificare i minuti, quanto passa.

AVV. FARACI - E lo capisco. (…) Ma se ricorda, dopo che portò la borsa in Questura e tornò?

TESTE MAGGI F.P. - Alla Mobile l'ho portata.

AVV. FARACI - Alla Mobile. Cioè incontrò il dottor Ayala dopo aver portato la borsa...?

TESTE MAGGI F.P. - No, l'ho incontrato prima che io portassi la bora.

AVV. FARACI - Quindi l'aveva in mano lei questa borsa?

TESTE MAGGI F.P. - No, l'ho data al funzionario. Poi sono passati un po' di minuti e dice: "Dai, forza, piglia 'sta borsa e portala alla Mobile". Perché io la borsa al funzionario, e a me non mi compete; ho rinvenuto questo, metto a conoscenza il mio diretto superiore, così a me mi hanno insegnato, perciò... attendevo disposizioni da lui, io, da sempre, mai preso iniziativa.(…)

AVV. CRESCIMANNO - E la borsa, se non ho sentito male, non l'ha prelevata lei direttamente.

TESTE MAGGI F.P. - Di questa cosa non... non ne sono molto certo. Io sono sicuro che mi sono pure abbassato, cioè chinarmi come se... se volessi entrare nell'abitacolo, però non sono sicuro se il gesto di allungare la mano l'ha fatto lui, perché tutti e due contemporaneamente, assieme al vigile del fuoco, e me l'ha passata lui, di questo non ne sono...

AVV. CRESCIMANNO - E che la portiera posteriore di destra fosse chiusa, lei ne ha un ricordo o...?

TESTE MAGGI F.P. - Era aperta.

AVV. CRESCIMANNO - Quella di...

TESTE MAGGI F.P. - Di questo ne sono proprio...

AVV. CRESCIMANNO - No, scusi...

TESTE MAGGI F.P. - Qua al 100%

AVV. CRESCIMANNO - No, mi scusi, io le ho chiesto della portiera posteriore destra, non quella sinistra, lei ha già detto che era aperta.

TESTE MAGGI F.P. - No, quella posteriore destra era chiusa.

AVV. CRESCIMANNO - Era chiusa.

TESTE MAGGI F.P. - Quella aperta era quella sinistra.

 Un misterioso uomo che parla di una borsa. La Repubblica il 7 luglio 2019. La presenza di appartenenti ai Servizi Segreti, in via D’Amelio, a pochi minuti dalla deflagrazione, risulta anche (come già esposto nel precedente paragrafo) da un’altra deposizione dibattimentale, di seguito riportata per stralcio. Infatti, il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Questura di Palermo, Sezione Volanti, arrivava sul posto appena cinque minuti dopo la deflagrazione e, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: vi era persino un veloce e secco scambio di battute fra i due, sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano. Si riporta (come anticipato) uno stralcio della deposizione:

P.M. Dott. PACI - Allora, nel 1992 lei prestava servizio?

TESTE G. GAROFALO - Alla Volante, alla Sezione Volanti della Questura di Palermo.

P.M. Dott. PACI - Ecco, che qualifica aveva allora?

TESTE G. GAROFALO - Ero vice-sovrintendente ed ero al comando di un'unità operativa, di una Volante.

P.M. Dott. PACI - Quindi era il capopattuglia.

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - Senta, da quanto tempo svolgeva servizio presso l'ufficio Volanti?

TESTE G. GAROFALO - Eh, forse neanche un anno; non ricordo ora di preciso, ma penso che... di essere stato assegnato alle Volanti di Palermo il '92 stesso, se non... se non erro, o il '91, comunque un breve periodo. (…)

P.M. Dott. PACI - Ho capito. Senta, veniamo al giorno della strage di via D'Amelio.

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - Lei era in servizio?

TESTE G. GAROFALO - Sì, ero in servizio, ero sulla 32, sulla Volante 32.

P.M. Dott. PACI - Il turno qual era?

TESTE G. GAROFALO - E il turno era 13.00 - 19.00. La Volante 32 abbracciava la zona da Mondello, orientativamente, verso via Autonomia Siciliana, e quelle zone, insomma, limitrofe. Ricordo che... ora non... (…)

P.M. Dott. PACI - Certo. Allora, veniamo alla strage e al deflagrare della bomba. La notizia voi l'apprendete come?

TESTE G. GAROFALO - Allora, noi l'apprendiamo via radio. Sul posto viene inviata subito la Volante 21, che era quella più... più vicina al... alla zona. Noi, come 32, eravamo nella zona di Mondello o comunque, insomma, nella nostra zona di competenza.

P.M. Dott. PACI - Quindi nella zona di Mondello vi trovavate quando avete...

TESTE G. GAROFALO - Sì, Mondello, sì, in quella zona lì.

P.M. Dott. PACI - Ma avete sentito l'esplosione o...?

TESTE G. GAROFALO - Allora, si è sentito un boato, solo che logicamente è stata inviata dalla Sala... da parte della Sala Operativa la Volante 21, che evidentemente era quella più vicina o comunque era quella di zona. Noi di fatto abbiamo deciso di... di avvicinarci verso... verso il luogo dov'era stata segnalata questa... questa esplosione. All'inizio, come prima notizia, era stata fornita dalla Sala Operativa un'esplosione di una bombola, qualcosa del genere, solo che, insomma, il... conoscendo i luoghi, insomma, orientativamente sapevamo che in quella zona lì vi era un obiettivo sensibile, che era evidentemente un luogo legato al dottore Borsellino, e quindi ho... ho invitato il mio autista ad accelerare la marcia.

P.M. Dott. PACI - Senta, e dal momento in cui c'è stata questa segnalazione della Sala Operativa, o meglio, voi il boato l'avete sentito, quindi...

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - ...prendiamo come punto di riferimento il momento in cui sentite l'esplosione e il boato. Al momento in cui arrivate in via D'Amelio quanto sarà passato?

TESTE G. GAROFALO - Ma saranno passati cinque minuti, anche di meno, perché, insomma, era domenica, le strade erano sgombre, non c'era traffico, quindi di fatto è stata una... quasi immediato il nostro arrivo.

P.M. Dott. PACI - Quindi entro cinque minuti siete arrivati.

TESTE G. GAROFALO - Sì, più o meno, cinque - dieci minuti, insomma, quello, i tempi erano quelli.

P.M. Dott. PACI - Allora, senta, siccome nella sua deposizione, che si è svolta in due momenti, no? Lei ha già raccontato (…) e adesso lo racconterà alla Corte, che alcuni elementi poi lei li ricordò a seguito di un colloquio avuto con un suo collega.

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - Ecco, allora vorrei, innanzitutto, che lei esprimesse e riferisse alla Corte quello che è il ricordo di allora, poi parleremo di quello che le ha riferito il suo collega; però noi vorremmo che lei, per quanto capisco sia difficile, insomma, selezioni quello che è il ricordo di quella giornata, per come lei... Poi parleremo di quelli che sono gli elementi che poi il suo collega le ha rammentato. (…) Però questo in un secondo momento. In questo momento vorrei che lei riferisse alla Corte quello che è il ricordo visivo di quel giorno e dei particolari che lei ha, diciamo, memorizzato.

TESTE G. GAROFALO - Niente, siamo arrivati sul luogo della... dell'attentato, ricordo che già era arrivata la Volante 21.

P.M. Dott. PACI - Quindi quante pattuglie o uomini delle Forze dell'Ordine erano già presenti?

TESTE G. GAROFALO - Allora, al momen... quando sono arrivato io, ho visto solo la Volante 21, ma potrei anche sbagliarmi, perché, insomma, la... la situazione emotiva era parecchio... parecchio pesante. Di certo la Volante 21 era già lì sul posto, quindi era un'auto con tre... tre agenti, tre poliziotti. Siamo arrivati noi come 32 e ci siamo resi conto di quello... di quello che era successo e abbiamo... abbiamo notato... abbiamo visto parecchie autovetture in fiamme e...

P.M. Dott. PACI - Ecco, le autovetture erano in fiamme quando arrivate?

TESTE G. GAROFALO - Sì, sì, sì.

P.M. Dott. PACI - In particolare le chiedo: lei ha ricordo della vettura del dottor Borsellino?

TESTE G. GAROFALO - Allora, non... non so se... abbiamo visto le due autovetture, le due... le due Croma blindate. Sì, le abbiamo viste, cioè le ho viste, me le ricordo. Di fatto l'attenzione è rivolta ai... alle persone, insomma, ai colleghi che erano morti, al dottore Borsellino, è stata quasi immediata, nel senso che ci siamo resi conto che, insomma, non... non c'era nulla da fare e... e quello che abbiamo deciso di fare... di fare sul momento era quello di aiutare le persone che si trovavano all'interno delle abitazioni che erano state devastate, perché oltre alla... all'impatto nel... cioè l'esplosione ha creato dei danni enormi sulle abitazioni che circondavano il luogo del... dell'attentato, e quindi io ricordo di essere salito insieme ad altri colleghi, ora non... non so se sono venuti insieme a me o sono partito da solo, siamo saliti all'interno dell'abitazione del... del dottore Borsellino proprio per vedere com'era la... se c'era bisogno di aiutare delle persone. I miei ricordi lì sono così, vaghi, io ho percezione di essere addirittura entrato a casa del dottore Borsellino e di avere preso la mamma del dottore Borsellino e di averla portata giù, però sono dei... dei frame, dei... dei flash di memoria. Questa, insomma, è la situazione.

P.M. Dott. PACI - Lei ha notato, ha individuato persone, magistrati, persone conosciute? Insomma, se ha individuato volti in qualche modo conosciuti a lei o personaggi dell'entourage giudiziario.

TESTE G. GAROFALO - Nell'immediato, quando siamo... quando siamo arrivati noi, non c'era nessuno evidentemente, perché il nostro è stato il primo intervento. Poi, con l'andar del tempo, si sono presentati sul luogo della...

P.M. Dott. PACI - Sì.

TESTE G. GAROFALO - ...dell'esplosione parecchi personaggi noti: magistrati, Giudici.

P.M. Dott. PACI - Sì, sì, sì, però, diciamo, nell'immediatezza, cioè quando lei arriva, trova solamente gli uomini della Volante 21?

TESTE G. GAROFALO - Sì, sì, per come io ho dei ricordi. Poi c'è quella...

P.M. Dott. PACI - Ci arriviamo. (…) Un attimo, volevo un attimo che focalizzasse, se è possibile, la memoria e l'attenzione su questi particolari: sullo stato delle vetture, delle due vetture blindate. Se lei è in grado di riferire qual era lo stato di queste vetture quando arrivate, cioè se erano ancora in fiamme, se c'erano dei focolai, se c'erano i Vigili del Fuoco.

TESTE G. GAROFALO - Quando siamo arrivati, le auto... c'erano dei focolai evidentemente, quello che ricordo parecchio bene era il fumo, cioè il fumo che scaturiva da... da quella zona.

P.M. Dott. PACI - La domanda gliela devo fare, però lei deve capire la mia intenzione che è quella di cercare di, da un lato, ravvivare il ricordo, ma senza cercare di, diciamo, forzare il dato. Cioè mi rendo conto che, come dice lei, ci sono dei frame, ci sono dei particolari che sono importanti, sarebbe oggi importante capire. Quando lei arriva, ricorda se all'interno delle due vetture blindate c'erano delle fiamme? Se c'era un principio di incendio anche all'interno delle vetture.

TESTE G. GAROFALO - No, non...

P.M. Dott. PACI - Non è in grado di dare questa informazione?

TESTE G. GAROFALO - Non mi pare che c'erano delle... delle fiamme all'interno delle... dei mezzi blindati.

P.M. Dott. PACI - Dei mezzi blindati. Ricorda la presenza di personale dei Vigili del Fuoco?

TESTE G. GAROFALO - Non... non nell'immediatezza.

P.M. Dott. PACI - Non nell'immediatezza. Oltre a personale della 21 ricorda se c'era personale dei Carabinieri, personale...

TESTE G. GAROFALO - Questo non... no, non lo ricordo, onestamente.

P.M. Dott. PACI - ...della Croce Rossa? Se già, insomma, c'era...

TESTE G. GAROFALO - No, no, c'eravamo solo noi e la 21.

P.M. Dott. PACI - Quindi, diciamo, il primo intervento è della 21.

TESTE G. GAROFALO - E il nostro.

P.M. Dott. PACI - E subito dopo arrivate voi.

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - Quindi la zona non è transennata.

TESTE G. GAROFALO - No, no, è proprio...

P.M. Dott. PACI - La visibilità?

TESTE G. GAROFALO - E' pessima, perché c'era fumo, c'era fuliggine, c'era un po' di tutto, è una sorta di... un film da guerra, né più e né meno.

P.M. Dott. PACI - Quando lei dice la visibilità era pessima, vuol dire che c'era una visibilità pari a un raggio di...?

TESTE G. GAROFALO - No, ma non... non si può quantificare, perché le autovetture che sono state coinvolte non erano solo quelle delle... del dottore e della scorta, erano anche altre autovetture che erano parcheggiate nella zona, quindi i fumi, l'olio bruciato, quindi era un... non so neanche io come poterlo spiegare visivamente. Era... la visibilità... non siamo di fronte a una visibilità ridotta a causa di un banco di nebbia, siamo di fronte a un... a una zona di guerra, quindi fumo, si usciva da una zona dove c'era... non si poteva vedere, in altre zone non si vedeva, in altre zone non potevamo neanche respirare, cioè non... non c'era una netta non visibilità o una visibilità in alcune zone, era un misto di... di situazioni.

P.M. Dott. PACI - Ho capito. Allora, tra i flash che lei ha di quel giorno (…) ricorda qualcosa? Oltre, appunto, a questa carneficina a cui lei assiste, ricorda qualcosa di specifico, di qualcosa che ha attirato la sua attenzione?

TESTE G. GAROFALO - Questo è il... la situazione. Non ricordo, non riesco ad inserirlo in un... in un lasso di tempo preciso, se immediatamente prima del nostro arrivo... cioè se immediatamente dopo del nostro arrivo o dopo dieci - venti minuti, questo non... non riesco a capirlo, non riesco a ricordarlo; di fatto nella zona dove c'erano le macchine di via D'Amelio...

P.M. Dott. PACI - Le macchine intende le blindate?

TESTE G. GAROFALO - Sì, le blindate, le autovetture, insomma, tutte le... i mezzi danneggiati, comunque sul teatro dei fatti, diciamo così. Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente la nostra... il nostro intento era quello di mantenere le persone al di fuori della... della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno, anche per un problema di natura... di ordine pubblico, perché c'era il rischio che altre autovetture... i serbatoi di altre autovetture potessero esplodere. E incontro questa... un soggetto, una persona, al quale... ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede della... della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia.

P.M. Dott. PACI - Quindi c'è un riferimento alla valigia.

TESTE G. GAROFALO - C'è un contatto, questo.

P.M. Dott. PACI - Ecco, c'è un contatto con una persona.

TESTE G. GAROFALO - Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su quel... su quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere... di appartenere ai Servizi.

P.M. Dott. PACI - Ai Servizi?

TESTE G. GAROFALO - Ai Servizi.

P.M. Dott. PACI - Scusi, dice appartenente ai Servizi o dice SISDE, SISMI? Cioè la parola...

TESTE G. GAROFALO - No, Servizi.

P.M. Dott. PACI - La parola la ricorda qual era?

TESTE G. GAROFALO - Ai Servizi.

P.M. Dott. PACI - Ai Servizi.

TESTE G. GAROFALO - L'ho lasciato andare perché sono sicuro, e questa è l'unica cosa di cui sono veramente certo, mi avrà mostrato dei documenti di riconoscimento.

P.M. Dott. PACI - Quindi, ecco, questa era la domanda che le volevo fare.

TESTE G. GAROFALO - Sì.

P.M. Dott. PACI - Lei accerta che questa persona, dopo che si è presentata come personale dei Servizi, è accreditato, insomma, le mostra un tesserino, qualcosa?

TESTE G. GAROFALO - Sì, perché altrimenti avrei perso più tempo con lui, nel senso che lo avrei accompagnato da parte, lo avrei... lo avrei preso e consegnato ad altri colleghi. Cioè, voglio dire, io avevo prestato servizio a Palermo anche in altri tempi, ero alla Mobile, alla Squadra Mobile, alla Sezione Omicidi, e non era una cosa al di fuori dal normale che in occasione di eventi delittuosi particolari si presentassero dei soggetti appartenenti a dei Servizi sul luogo di un omicidio, quindi, insomma (…) per noi era una cosa normale. Quindi, all'atto in cui io ho avuto contezza che questo soggetto fosse dei Servizi...

P.M. Dott. PACI - Che effettivamente appartenesse ai Servizi di Sicurezza.

TESTE G. GAROFALO - Ai Servizi, riscontrato cioè anche da un... dalla presentazione di un tesserino, io non ho più avuto contatti con quel soggetto, cioè non... la mia attenzione è stata... si è focalizzata su altri... su altre emergenze.

P.M. Dott. PACI - Allora, detto che è una persona che lei incontra in prossimità del teatro (…) di questa azione di guerra, detto che si presenta come una persona appartenente ai Servizi e che le dà dimostrazione di questa sua appartenenza, la cosa che lei ha detto è che faceva riferimento alla borsa del dottor Borsellino. (…) Questo particolare adesso dobbiamo scavare.

TESTE G. GAROFALO - E' un particolare... io ribadisco, non so se lui mi abbia chiesto qualcosa sulla borsa o se io l'abbia visto in possesso della borsa o... o altre... altri particolari, perché, ripeto, è stata una frazione di secondi.

P.M. Dott. PACI - Voglio capire questo: il riferimento ad una borsa, che è incerto, cioè se è stato oggetto di colloquio o se questo avesse una borsa, in riferimento alla borsa del dottor Borsellino, cioè che questa fosse la borsa che apparteneva al magistrato, qual è? Qual è l'aggancio?

TESTE G. GAROFALO - E l'aggancio... i motivi per cui... allora, io ripeto, non... a distanza di tanti anni i ricordi si affievoliscono, poi un fatto così tragico comunque si tende a cancellare quelli che sono i ricordi legati a questi... a questi fatti. Ripeto, non... non so se lui mi abbia chiesto, tra virgolette: "La borsa del dottore Borsellino è all'interno della macchina", oppure, tra virgolette, io gli abbia chiesto: "Cosa qui con la borsa in mano?" Oppure... (pagg 939-962)

Su 7 Fiammetta Borsellino:  «Sapevo che mio padre  poteva morire ogni giorno». Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Corriere.it. Questa è un’anteprima della testimonianza di Fiammetta Borsellino raccolta da 7. La donna, 46 anni, è la figlia minore del magistrato siciliano ucciso 27 anni fa. Trovate l’articolo completo sul numero di 7 in edicola (da oggi fino a giovedì prossimo) e in Pdf sulla Digital Edition del Corriere della Sera.Era la piccola di casa, è diventata la testimone più ingombrante. Era la più attaccata a suo padre, ogni volta che lui diceva «Esco» lei si accodava, «Vengo anch’io», ma quando tutto s’è consumato era la più lontana, addirittura in un altro continente. Sembrava la più debole, s’è rivelata la più determinata nella ricerca della verità. Certamente la più esposta. «Ma noi eravamo e siamo una famiglia», precisa. «Quella di Paolo e Agnese Borsellino, i nostri genitori; di mia sorella Lucia e di mio fratello Manfredi, dei nostri figli. Eravamo la forza di mio padre, siamo la nostra». Fiammetta Borsellino è l’ultima figlia del magistrato ucciso dalla mafia - e forse non solo dalla mafia - ventisette anni fa, insieme ai cinque agenti di polizia che gli facevano da scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Era il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio, nemmeno due mesi dopo quella di Capaci che aveva portato via Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta. Fiammetta aveva 19 anni quando suo padre saltò in aria. Oggi ne ha 46, ed è diventata un’infaticabile accusatrice del depistaggio che ha inquinato e continua a inquinare la verità su quella bomba: bugie di Stato servite a infliggere sette ergastoli contro altrettanti innocenti (oltre alle 26 condanne confermate) e coprire qualche colpevole mai individuato. Un mistero nel mistero che questa donna ha cominciato a denunciare da un palco televisivo nel venticinquesimo anniversario della strage, e da allora non s’è più fermata. Cominciando un cammino che l’ha portata nei tribunali e nelle aule delle commissioni d’inchiesta, ma anche nelle scuole, nelle parrocchie e ovunque la chiamino per ascoltare la sua domanda di giustizia, fino al carcere dove ha incontrato due carnefici di suo padre. Un percorso lungo e accidentato, ricostruito in questo racconto che è uno sfogo ma anche un segnale di speranza. «In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati». «Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita». 

Tutti i piani per uccidere Paolo Borsellino. La Repubblica il 27 giugno 2019. Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, “Cosa Nostra” portò avanti una pluralità di progetti di omicidio nei suoi confronti, con il compimento di una serie di attività preparatorie. Uno di questi piani criminosi avrebbe dovuto realizzarsi presso la residenza estiva del Magistrato, nella zona di Marina Longa. Tale episodio è stato ricostruito nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si è evidenziato che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha riferito di una concreta attività posta in essere dall’organizzazione mafiosa per seguire i movimenti del magistrato, all’epoca Procuratore della Repubblica a Marsala, e studiarne le abitudini di vita durante la sua permanenza estiva a Marina Longa, in vista dell’esecuzione di un attentato ai suoi danni. A tal fine Salvatore Riina aveva dato incarico a Baldassare Di Maggio - in quel periodo sostituto per il mandamento di San Giuseppe Jato di Brusca Bernardo, detenuto dal 25 novembre 1985 al 18 marzo 1988 e successivamente agli arresti domiciliari sino al 22 ottobre 1991 - di recarsi a Marina Longa, servendosi come punto di appoggio per l’attività di osservazione della vicina abitazione di Angelo Siino. Tale attività era stata poi sospesa per ragioni che il Brusca non ha precisato. Questo racconto ha trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale ha riferito che in "Cosa Nostra" vi erano stati commenti assai negativi perché Paolo Borsellino aveva pubblicamente denunciato un calo di tensione nell’attività di contrasto alla mafia e che Pino Lipari aveva espresso la convinzione che il magistrato, che aveva un temperamento più irruente, avesse dato voce al pensiero dell’amico Giovanni Falcone, più cauto di lui, tanto che in "Cosa Nostra" venivano indicati rispettivamente come “il braccio e la mente”. Subito dopo, e cioè intorno al luglio del 1987 o del 1988, egli aveva visto a Marina Longa il Di Maggio, che era venuto a trovarlo con una scusa che egli non faticò a riconoscere come pretestuosa e che successivamente tornò in quel luogo, sicché egli comprese che l’interesse del Di Maggio era rivolto al magistrato. Il Siino aveva successivamente appreso da Francesco Messina, inteso “Mastro Ciccio”, che il progetto di uccidere Borsellino aveva incontrato l’opposizione dei marsalesi di "Cosa Nostra", i quali avevano lasciato trapelare quel progetto all’esterno, sicché erano state predisposte delle rigorose misure di sicurezza, come egli stesso aveva potuto constatare a Marina Longa. A loro volta le indicazioni del Siino sull’opposizione dei marsalesi all’uccisione del Magistrato ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di Antonio Patti, appartenente proprio alla “famiglia” mafiosa di Marsala. Quest’ultimo collaborante ha, infatti, riferito che dopo il duplice omicidio di D’Amico Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, e di Craparotta Francesco, consumato l’11 gennaio 1992, suo cognato Titone Antonino, persona assai vicina al D’Amico, gli aveva confidato che la reale motivazione della soppressione dei due andava ricercata nell’opposizione che essi avevano manifestato al progetto di uccidere Borsellino quando questi era Procuratore della Repubblica a Marsala. Un ulteriore progetto omicidiario era destinato a trovare realizzazione nei pressi dell’abitazione del Dott. Borsellino, sita a Palermo in Via Cilea.

Sul punto, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si rileva come dalle dichiarazioni sostanzialmente conformi di Anselmo Francesco Paolo, Cancemi Salvatore, Galliano Antonino, Ganci Calogero e La Marca Francesco, appartenenti ai “mandamenti” della Noce e di Porta Nuova, emerga che nel corso del 1988 ebbe a concretizzarsi un altro progetto di attentato in danno di Paolo Borsellino da attuarsi questa volta a Palermo, nei pressi della sua abitazione di via Cilea, approfittando sia del fatto che si erano attenuate le misure di protezione nei suoi confronti, essendo stato revocato il presidio di vigilanza fissa sotto la sua abitazione, sia dell’abitudine del magistrato di recarsi la domenica da solo presso la vicina edicola per l’acquisto del giornale. In un’occasione gli attentatori ebbero a mancare solo per pochi secondi la loro vittima, dopo essere partiti dal vicino negozio di mobili di Sciaratta Franco, sito in Viale delle Alpi, perché erano giunti sul posto a bordo di un motociclo poco dopo che Paolo Borsellino aveva richiuso il portone di ingresso del palazzo. L’attentato doveva essere eseguito con una pistola cal. 7,65, in modo da non attirare l’attenzione su "Cosa Nostra" e da far pensare piuttosto all’opera di un isolato delinquente, tenuto conto della pendenza in grado di appello del maxiprocesso di Palermo, di cui si confidava in un esito favorevole per il sodalizio mafioso. Tale progetto era stato poi abbandonato dopo gli appostamenti protrattisi per circa quattro domeniche consecutive, verosimilmente per non pregiudicare l’esito di quel giudizio, non essendo stata possibile una rapida esecuzione.

Questo secondo episodio ha formato oggetto delle deposizioni rese, nel presente procedimento, dai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, Francesco La Marca (escussi all’udienza del 25 settembre 2014) e Antonino Galliano (esaminato all’udienza del 7 ottobre 2014). In particolare, l’Anzelmo (già sotto-capo della "famiglia" della Noce, il cui rappresentante era Raffaele Ganci) ha dichiarato che, intorno al 1987-88, mentre egli si trovava in stato di latitanza e il Dott. Borsellino era Procuratore della Repubblica di Marsala, approfittando di una riduzione delle misure di protezione attorno all’abitazione di quest’ultimo, le "famiglie" della Noce e di Porta Nuova ricevettero il mandato di uccidere il Magistrato. L’esecuzione del progetto criminoso era affidata allo stesso Anzelmo, a Francesco La Marca, a Raffaele e Domenico Ganci, a Salvatore Cancemi. Come base operativa venne utilizzato un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi, di proprietà di Franco Sciarratta, dove i killer - ruolo, questo, assegnato all’Anzelmo e al La Marca - erano appostati, in attesa della “battuta” che avrebbe dovuto essere data da Raffaele o Domenico Ganci, o Salvatore Cancemi, o Antonino Galliano. L’agguato avrebbe dovuto scattare di domenica, quando il Dott. Borsellino si recava presso un pollaio per acquistare delle uova, oppure presso un’edicola per prendere il giornale. Si sarebbe dovuto trattare di un omicidio da commettere recandosi immediatamente sul luogo con un motoveicolo ed utilizzando le pistole per uccidere il Magistrato. Tuttavia, dopo un paio di appostamenti, Raffaele Ganci comunicò che bisognava sospendere l’esecuzione del delitto, e il progetto quindi si bloccò. Il collaborante ha specificato che, secondo le regole di "Cosa Nostra", sia il progetto omicidiario, sia la sua sospensione, sia l’inizio di una nuova fase esecutiva, dovevano essere decisi dalla “Commissione”. Ha, inoltre, precisato che la motivazione del progetto criminoso si ricollegava all’attività giudiziaria del Dott. Borsellino e al maxiprocesso. Le dichiarazioni dell’Anzelmo sono di seguito trascritte:

AVV. SINATRA - Le chiedo anche: lei ha mai sentito parlare di un progetto che riguardava l'uccisione di alcuni magistrati di Palermo, nella specie il dottore Falcone, il dottore Borsellino?

TESTE F.P. ANZELMO - Risale a molto tempo prima di quando poi sono stati effettivamente uccisi.

AVV. SINATRA - E quando?

TESTE F.P. ANZELMO - Sicuramente il dottor Borsellino quando si trovava a Marsala, che si vide che ci avevano levato... che lui sotto casa aveva un furgone sempre là piantonato e poi, tutta ad un tratto, ce l'hanno tolto 'sto furgone e quindi noi, in particolar modo noi della Noce, con la collaborazione di Porta Nuova, di Totò Cancemi, avevamo avuto questo mandato di uccidere il dottor Borsellino. E anche... e anche per Falcone si cercava, però non ricordo il periodo preciso quello del dottor Falcone; si parlava di fare in tanti modi.

AVV. SINATRA - Sì, dico, un attimino, parliamo per il momento di questo progetto nei confronti del dottore Borsellino prima. Me lo sa indicare nel tempo? Quindi, lei ha detto che nel... [...]

TESTE F.P. ANZELMO - Allora, io sono andato latitante dall'84 all'89 e quindi non lo so, penso verso l'87, l'88, una cosa del genere.

AVV. SINATRA - Anni '87 - '88. E può essere più preciso in ordine a questo progetto? Cioè era un progetto che lei l'aveva saputo da chi precisamente?

TESTE F.P. ANZELMO - Io dal mio capomandamento, da Ganci Raffaele l'avevo saputo.

AVV. SINATRA - Cosa le disse di specifico Ganci Raffaele?

TESTE F.P. ANZELMO - Che dovevano ammazzare il dottor Borsellino e ci dovevamo organizzare, e così abbiamo fatto, ci siamo organizzati.

AVV. SINATRA - Aspetti, aspetti un attimo. Quando le disse che si doveva ammazzare il dottore Borsellino e quindi poi si doveva passare alla fase esecutiva, le ha fatto riferimento chi decise?

TESTE F.P. ANZELMO - Quelli erano decisioni di commissione, perché non è che lo decideva Ganci Raffaele, quelle erano decisioni prese dalla commissione e avevamo avuto mandato noi di farlo. [...]

AVV. SINATRA - Eh, quindi gliel'ha riferito e si passa alla fase, diciamo, organizzativa. Può essere più preciso su questo?

TESTE F.P. ANZELMO - Sì, siamo passati alla fase organizzativa e si... si doveva fare di domenica, perché lui durante la settimana era là; lo dovevamo fare quando usciva di casa, perché lui mi ricordo che...

AVV. SINATRA - Dove? In quale casa?

TESTE F.P. ANZELMO - In via Cilea, abitava nel nostro territorio, non come territorio di Noce, ma come territorio Malaspina, però era... Malaspina faceva mandamento da noi, quindi eravamo noi. [...]

TESTE F.P. ANZELMO - Si doveva fare di domenica, quando lui... siccome c'erano 'ste notizie che lui andava da un pollaio a prendere le uova, per quello che ricordo, oppure da... dall'edicolante, che c'era un edicolante là, e lui si andava a prendere il giornale là e lo dovevamo fare in questo frangente. E noi come base avevamo un magazzino di mobili, dove si vendevano dei mobili, che faceva capo a Franco Sciarratta, che era un uomo d'onore della nostra famiglia, ed eravamo appostati là. Nel momento in cui ci arrivava la battuta, uscivamo, perché quelli che avevamo incarico era io... che lo dovevamo fare materialmente ero io e Ciccio La Marca.

AVV. SINATRA - Quindi lei e La Marca.

TESTE F.P. ANZELMO - Sì.

AVV. SINATRA - Sì, dico, lei e La Marca. E come doveva essere fatto questo attentato materialmente?

TESTE F.P. ANZELMO - Non era un attentato, era un agguato, un omicidio con le pistole. [...]

AVV. SINATRA - Oltre a lei e a La Marca vi furono altri che in quel preciso frangente, ovviamente con riferimento a questo segmento, ebbero un ruolo?

TESTE F.P. ANZELMO - Sì, c'era Ganci Raffaele, Totò...

AVV. SINATRA - Esecutivo.

TESTE F.P. ANZELMO - Sì, c'era Ganci Raffaele, Totò Cancemi, se non ricordo... se non ricordo male c'era... c'era pure Calogero Ganci. Mi sente?

AVV. SINATRA - Sì, sì, la sento. Tutti lì appostati eravate?

TESTE F.P. ANZELMO - Sì, eravamo tutti in questo magazzino dove si vendevano i mobili, che facevamo la base là. Mentre c'era Ganci Raffaele o Totò Cancemi, o non mi ricordo se c'era pure il Galliano Nino che giravano per... per portarci poi la battuta a noi per dire: "E' uscito", e noi partivamo con la moto, perché noi eravamo appostati in via delle Alpi, quindi via delle Alpi - via Cilea è un tiro, con la moto arrivavamo in un baleno. [...]

AVV. SINATRA - Lei sa le ragioni per cui era stata deliberata la morte del dottore Borsellino?

TESTE F.P. ANZELMO - Ma la morte del dottor Borsellino e del dottor Falcone è tutta unica, era la situazione che... cioè non... non davano tregua e poi c'era il fatto del maxiprocesso, tutto di lì parte. Quella era la motivazione, per questo si dovevano uccidere.

AVV. SINATRA - Non davano tregua, nel senso dal punto di vista giudiziario, dico, per...

TESTE F.P. ANZELMO - Dal punto di vista giudiziario, sì, certo. [...]

TESTE F.P. ANZELMO - Ma negli anni precedenti se ne... se ne parlava che si doveva uccidere il dottor Falcone e il dottor Borsellino. Mi ricordo che c'erano dei progetti, si facevano dei progetti che certe volte si parlava e si doveva fare con un lancia-missile, con un bazooka, con un... cioè c'erano tanti...(…)

AVV. SINATRA - Ma lei non può escludere che ci siano stati anche precedentemente, per averlo saputo, dico, se gliene ha mai parlato Ganci, anche altri fatti e altri episodi dove c'erano stati degli appostamenti già con le armi, pronti per uccidere il dottore Falcone o in questo caso a noi interessa il dottore Borsellino?

TESTE F.P. ANZELMO - No, no, no.

AVV. SINATRA - Lei di questo ne sa proprio di appostamenti?

TESTE F.P. ANZELMO - No, io questo appostamento so questo, dove c'ho partecipato io.

AVV. SINATRA - Ecco, chiaro.

TESTE F.P. ANZELMO - Le ripeto, c'erano... c'erano progetti omicidiari sia ai danni del dottor Falcone che del dottor Borsellino, ma già da anni prima, però io mi sono trovato in questo.

[...] Il collaboratore di giustizia Francesco La Marca ha riferito che, intorno al 1988, Salvatore Cancemi (capo della "famiglia" di Porta Nuova, cui egli apparteneva) lo incarico di recarsi presso un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi per commettere un omicidio.

[...] Dal canto suo, il collaboratore di giustizia Antonino Galliano ha affermato che, nel periodo in cui il Dott. Borsellino prestava servizio a Marsala, egli insieme a Raffaele Ganci, Domenico Ganci, Salvatore Cancemi, e qualche volta anche Francesco La Marca effettuarono una serie di appostamenti presso l’abitazione del Magistrato, soprattutto nei giorni di sabato e domenica, nei quali la vittima designata si recava in chiesa per assistere alla Messa e poi presso un pollaio per acquistare alcune uova. Dopo uno o due mesi i predetti appostamenti vennero però sospesi. […] si desume, quindi, che intorno al 1988 venne attuata, con una precisa organizzazione di mezzi e di persone, tutta la fase preparatoria di un progetto di omicidio del Dott. Borsellino, che avrebbe dovuto essere realizzato tendendogli un agguato nelle vicinanze della sua abitazione di Palermo, con modalità non eclatanti (verosimilmente, per non compromettere le aspettative di un esito favorevole del maxiprocesso), mentre egli era intento a compiere atti della propria vita quotidiana. Tuttavia, dopo una serie di appostamenti, il progetto venne accantonato, per decisione della stessa “Commissione” che lo aveva deliberato. Anche questo piano delittuoso era motivato dall’attività giudiziaria svolta dal Dott. Borsellino, il quale non dava tregua a "Cosa Nostra". (pagg 145-164)

Il magistrato nel mirino dei Madonia. La Repubblica il 26 giugno 2019. L’intento di “Cosa Nostra” di uccidere Paolo Borsellino aveva iniziato a manifestarsi già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Capitano Emanuele Basile, che avevano consentito, tra l’altro, di pervenire all’arresto di Pino Leggio e di Giacomo Riina nella zona di Bologna, nonché di far luce su alcune delle attività criminali svolte dall’emergente gruppo dei corleonesi. A tale primo movente se ne aggiungeva un secondo, rappresentato dalla circostanza che dopo l’omicidio del Capitano Basile, consumato il 4 maggio 1980, il Dott. Borsellino aveva emesso dei mandati di cattura nei confronti, tra gli altri, di Francesco Madonia, capo del “mandamento” di Resuttana, e del figlio Giuseppe Madonia. La vicenda si trova puntualmente ricostruita nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”). In particolare, nelle dichiarazioni rese il 19.6.1998, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha riferito che Salvatore Riina dopo l’omicidio del Capitano Basile e la conseguente attività di indagine del magistrato aveva commentato che “l'aveva BORSELLINO il capitano BASILE sulla coscienza, perché era stato BORSELLINO a mandare il capitano BASILE a Bologna ad arrestare i suoi”. Inoltre, il collaborante Gaspare Mutolo, come evidenziato nella suddetta pronuncia, ha riferito che, mentre si trovava detenuto nel corso del 1981 insieme a Francesco e Giuseppe Madonia, Leoluca Bagarella e Greco, aveva avuto occasione di sentire le loro esternazioni in ordine alla necessità di uccidere il Dott. Borsellino. Sempre nella sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si è sottolineato come il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca abbia dichiarato che l’omicidio del Dott. Borsellino era già stato deliberato da “Cosa Nostra” sin dagli inizi degli anni Ottanta, allorché Salvatore Riina aveva vanamente cercato di farlo contattare per risolvere alcuni problemi giudiziari del cognato Leoluca Bagarella, constatandone in quell’occasione l’incorruttibilità. Da allora il Brusca aveva più volte sentito il Riina ripetere che Borsellino doveva essere eliminato perché “faceva la lotta a Cosa Nostra assieme al dottor Falcone in maniera forte e decisa”. Tali vicende sono state ricostruite, nel corso del presente procedimento, durante l’incidente probatorio, all’udienza del 6 giugno 2012, dallo stesso Giovanni Brusca, il quale ha fatto risalire l’intenzione di Salvatore Riina di eliminare il Dott. Borsellino al 1979-80, spiegando: «Totò Riina lo voleva uccidere prima quando fu del cognato, poi quando fu del Capitano Basile... ». Sul punto, Giovanni Brusca ha reso le seguenti dichiarazioni:

P.M. DOTT. MARINO – Senta, mentre il Dottor Borsellino?

TESTE BRUSCA – Il Dottor Borsellino invece le esternazioni di Salvatore Riina che voleva uccidere... in quanto lo voleva uccidere cominciano con la vicenda del cognato Leoluca Bagarella del Capitano Basile.

P.M. DOTT. MARINO – E perché?

TESTE BRUSCA – Perché mi aveva chiesto di poterlo più di una volta avvicinare per ottenere un trattamento di favore, insabbiare in qualche modo le indagini, per poterlo scagionare dall’accusa.

P.M. DOTT. MARINO – Ma ci furono tentativi di contattare il Dottor Borsellino all’epoca?

TESTE BRUSCA – Sì, allora... l’ho detto, allora ci sono stati dei tentativi e ci fu un rifiuto totale.

P.M. DOTT. MARINO – Ma lei ricorda chi e in che maniera si fecero questi tentativi, se l’ha mai saputo?

TESTE BRUSCA – Guardi, ora non mi ricordo chi lui... a chi lui abbia incaricato, però di solito si comincia da dove è nato, le amicizie, le amicizia di scuola... un po’ conoscendo la città di Palermo si cerca di vedere con chi si può avvicinare. Ripeto, io conosco le esternazioni che lui si è rifiutato di fargli questa cortesia, però con che soggetti abbia...

P.M. DOTT. MARINO – E lei da chi lo apprende?

TESTE BRUSCA – Da Riina.

P.M. DOTT. MARINO – Da Riina direttamente?

TESTE BRUSCA – Sì, perché in quel momento io sono una delle persone più vicine con Leoluca Bagarella. Sono vicino a lui, conosco dove abita, ci vado a casa tutti i comuni, quindi sono quasi a disposizioni... no sono, sono a disposizione... tolgo questo quasi, ero a disposizione sua ventiquattro ore su ventiquattro ore. La mia...  allento un pochettino quando vengo tratto in arresto per le dichiarazioni di Buscetta, ma fino a quel momento gli facevo da autista, lo andavo a prendere, lo accompagnavo da Michele Greco quando andava a Mazara, ci dormivo a casa... tutti i giorni. Difficilmente io avevo qualche momento libero».

Il Brusca ha, poi chiarito che, in epoca anteriore al “maxiprocesso”, le ragioni poste alla base della intenzione di eliminare il Dott. Borsellino si ricollegano al suo intransigente rifiuto di ogni condizionamento e alla sua mancanza di ogni “disponibilità” rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti il Bagarella e l’omicidio del Capitano Basile («Il Dottor Borsellino sì, ma nella sua qualità di Giudice... ancora non era successo il maxiprocesso, non era successo... successivamente poi si sono aggiunti gli altri elementi, però fino a quel momento era perché non si era messo a disposizione, credo per il fatto di Bagarella e qualche altro fatto che in questo momento non mi ricordo. (…) Del Capitano Basile... c’era qualche altra cosa che non si era messo a disposizione»). Nella medesima deposizione, Giovanni Brusca ha affermato che l’intenzione di uccidere il Dott. Borsellino aveva radici lontane nel tempo e ad essa erano interessati i Madonia, proprio in relazione all’omicidio del Capitano Basile, per il quale era imputato Giuseppe Madonia, fratello di Salvatore Mario Madonia. (pagg 142-145)

·         Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi. Luigi Ferro per Focus Storia Biografie l'1 luglio 2019. La storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due vite intrecciate, uno stesso destino. Affrontato a testa alta.

La strage di via D’Amelio fu provocata da 100 kg di tritolo nascosti in una Fiat 126, che devastarono quell’angolo di Palermo. Con Paolo Borsellino morirono 5 agenti della sua scorta. Improvvisamente, l’inferno.

In un caldo sabato di maggio, alle 17:56, un’esplosione squarcia l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, nei pressi dell’uscita per Capaci: 5 quintali di tritolo distruggono cento metri di asfalto e fanno letteralmente volare le auto blindate. Muore Giovanni Falcone, magistrato simbolo della lotta antimafia. È il 23 maggio 1992.

19 luglio, 57 giorni dopo. Il magistrato Paolo Borsellino, impegnato con Falcone nella lotta alle cosche, va a trovare la madre in via Mariano D’Amelio, a Palermo. Alle 16:58 un’altra tremenda esplosione: questa volta in piena città. La scena che si presenta ai soccorritori è devastante. Seguono giorni convulsi. La famiglia Borsellino, in polemica con le autorità, non accetta i funerali di Stato. Non vuole la rituale parata dei politici. E alle esequie degli agenti di scorta una dura contestazione accoglie i vertici istituzionali. Il neo-presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è trascinato a stento fuori dalla Cattedrale di Palermo, con il capo della polizia Vincenzo Parisi che gli fa da scudo. Sono passati venticinque anni, eppure nuovi colpi di scena hanno aperto squarci di luce su queste vicende su cui non c’è ancora completa chiarezza. Ma chi erano i due magistrati-simbolo che hanno sacrificato la vita al servizio dello Stato? E perché sono stati uccisi in modo così efferato?

NEL QUARTIERE ARABO. Le vite di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino risultano intrecciate fin dall’inizio. Entrambi nacquero a Palermo: Giovanni il 20 maggio 1939, Paolo 8 mesi dopo, il 19 gennaio. Ed entrambi crebbero nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia. Abitavano a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro e furono amici fin da bambini: si ritrovavano a giocare in piazza della Magione. La fototessera di Giovanni Falcone all’Accademia navale di Livorno, nel 1957. Vi andò dopo la maturità classica, ma poi cambiò idea e si iscrisse a Giurisprudenza. Nella vita del piccolo Giovanni c’erano la scuola, l’Azione cattolica e pochi divertimenti. Per il padre, un uomo molto austero, viaggi e villeggiatura non esistevano. “Mio padre stava molto in casa” raccontava Falcone nel libro di Francesco La Licata Storia di Giovanni Falcone (Feltrinelli). “Per lui era un punto d’orgoglio non aver mai bevuto al bar una tazzina di caffè”. E anche la madre era una “donna energica e autoritaria. Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta”. In casa Borsellino, invece, l’ambiente era più vivace: c’erano spesso amici in visita e si discuteva di libri e di filosofia. A scuola Paolo non sbagliava un colpo. In greco aveva 10, si alzava alle 5 del mattino per studiare e la sua memoria prodigiosa faceva il resto. I suoi genitori possedevano una farmacia in via della Vetreria, e anche per questo il padre era un’autorità nel quartiere. Stesso liceo, stessa laurea. Giovanni e Paolo frequentarono tutti e due il liceo classico. Per il primo le scuole secondarie furono particolarmente importanti: grazie al suo professore di Storia e filosofia, Franco Salvo, imparò a sfuggire ai dogmi e a coltivare il dubbio, fino ad abbandonare il rito della messa domenicale con la madre. Dopo la maturità entrò all’Accademia militare di Livorno, poi ci ripensò e si iscrisse a Giurisprudenza. Borsellino invece optò subito per gli studi di Legge, ma mentre frequentava l’università gli morì il padre, e le condizioni economiche della sua famiglia peggiorarono. Nonostante le difficoltà, a 22 anni si laureò con 110 e lode.

STUDENTI MODELLO. Anche Falcone si laureò a pieni voti. E l’anno successivo conobbe una donna di nome Rita: fu un colpo di fulmine, al quale seguì il matrimonio. I primi passi della sua carriera Falcone li mosse a Lentini (Siracusa) come pretore, per poi trasferirsi nel 1966 a Trapani, dove rimase per 12 anni. Così, un po’ alla volta, il magistrato si emancipò definitivamente dalla famiglia (tanto che la sorella Anna raccontò di averlo ritrovato “comunista”) e cominciò a entrare in contatto con la realtà della mafia. Non era ancora costretto a vivere sotto scorta, quindi trovò il tempo per dedicarsi ad alcune attività sociali e si impegnò a favore del referendum sul divorzio. Paolo Borsellino riceve i complimenti della commissione d’esame: si laureò in Giurisprudenza con 110 e lode a soli 22 anni. Pochi mesi prima era morto il padre Diego.

DI NUOVO INSIEME. Nel frattempo Paolo aveva cominciato la sua carriera al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ebbe il primo incarico direttivo – pretore a Mazara del Vallo (Trapani) – e nel dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, dalla quale avrà 3 figli. Nel 1969 fu trasferito a Monreale, vicino a Palermo, dove lavorò fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Quest’ultimo, però, fu ucciso dalla mafia nel 1980. “Mi hanno ammazzato un fratello” disse Borsellino in quell’occasione, e si mise a indagare sull’omicidio. Falcone, intanto, si era trasferito anche lui a Palermo, dove lavorò al processo al costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Fu così che i due vecchi amici tornarono in contatto e cominciarono a scambiarsi informazioni sulle inchieste. Il processo Spatola mise tra l’altro in luce le qualità di Falcone, che accompagnò l’istruttoria con indagini bancarie e societarie: un metodo di indagine innovativo che si rivelò efficacissimo.

I “VIDDANI” DI CORLEONE. La situazione a Palermo era in rapido cambiamento. Falcone si era accorto che spesso gli indagati e i membri delle cosche sotto inchiesta venivano uccisi o sparivano misteriosamente. Il motivo? Era cominciata una guerra di mafia, che tra gli ultimi mesi del 1981 e i primi del 1982 causò nel capoluogo siciliano un morto ogni tre giorni. Alla fine le vittime furono circa 1.200, una cifra da guerra civile, che andarono ad assottigliare le file delle cosche nemiche del boss dei boss Totò Riina. Si scoprì, infatti, che dietro gli omicidi c’erano i “viddani” (villani, cioè contadini) di Corleone, circa settanta persone provenienti dal paese vicino a Palermo. E Riina era il loro capo. Per Giuseppe Ayala, pubblico ministero al Maxiprocesso di Palermo che seguirà, il successo criminale di Riina fu «frutto della straordinaria violenza con la quale egli agì: senza precedenti anche per Cosa nostra». La “guerra” finì nel 1983, ma già l’anno prima la violenza dei corleonesi si era rivolta contro lo Stato: la mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della Commissione antimafia, fu ucciso a Palermo mentre si recava in auto alla sede del partito. Per rispondere alla violenza mafiosa, il governo inviò in Sicilia come prefetto antimafia il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, protagonista della lotta al terrorismo delle Brigate rosse. Per Cosa nostra era una minaccia seria. Così, il 3 settembre, anche Dalla Chiesa fu freddato a Palermo con la moglie Emanuela Setti Carraro. Le immagini di quei due corpi riversi uno sull’altro dentro un’A112 bianca, crivellati di colpi, sono rimasti per sempre nella mente di molti. E sul luogo della strage comparve un cartello: “Qui muore la speranza dei palermitani onesti”.

NASCE IL POOL ANTIMAFIA. L’omicidio del generale Dalla Chiesa fu solo una tappa della strategia di Totò Riina, che voleva lo scontro frontale con lo Stato. Il 29 luglio 1983 il passo successivo: un’autobomba ammazzò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Per sostituirlo, il Consiglio superiore della magistratura (Csm) scelse Antonino Caponnetto, 63 anni. Siciliano di Caltanissetta, Caponnetto lasciò la famiglia a Firenze per sottoporsi a una vita da recluso tra la caserma della Guardia di finanza e il suo ufficio. Il magistrato non aveva esperienza di processi di mafia, ma era nota la sua serietà professionale. Falcone lo chiamò subito per dirgli di arrivare in fretta a Palermo. “Quello che mi colpì della telefonata di Giovanni” avrebbe raccontato Caponnetto nel libro Nella terra degli infedeli, di Alexander Stille “fu il tono assolutamente confidenziale e amichevole che usò nei miei confronti. Come se ci conoscessimo da una vita, e invece non ci conoscevamo affatto”. Caponnetto si rese conto della necessità di costituire un pool di magistrati per frazionare i rischi dei singoli e avere una visione unitaria del fenomeno mafioso. Il primo a essere scelto fu proprio Falcone, che già all’epoca era un protagonista della lotta a Cosa nostra. Poi arrivò Giuseppe Di Lello Finuoli, che vantava una certa esperienza di processi di mafia ed era stato il pupillo di Rocco Chinnici. Su consiglio di Falcone, fu scelto anche Borsellino. E qualche tempo dopo si aggiunse Leonardo Guarnotta, uno dei procuratori con più anni di esperienza.

MOMENTO MAGICO. Il pool iniziò a lavorare a gran ritmo, mentre sulla scena stava arrivando la stagione dei pentiti. A partire da Tommaso Buscetta, “don Masino”, che nella guerra scatenata da Totò Riina aveva perso due figli, un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Trafficante di droga, riparò in Brasile dove fu arrestato e poi estradato in Italia. Iniziò a collaborare, ma voleva parlare solo con il numero uno del pool palermitano: Giovanni Falcone. Buscetta dichiarò di fidarsi solo di lui e del vicequestore Gianni De Gennaro. E disse a Falcone, come raccontò il magistrato stesso nel libro Cose di Cosa nostra: “L’avverto signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”. Falcone lo interrogò e Buscetta parlò. Risultato: il 29 settembre 1984 vennero spiccati 366 mandati di arresto. Nello stesso libro, Falcone mette in evidenza l’importanza storica delle confessioni di Buscetta: “Prima di lui non avevamo che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo iniziato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, le tecniche di reclutamento, le funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno”. Era il momento magico del pool. “Tra il settembre 1984 e il maggio 1985 avevamo il massimo della tensione e dell’appoggio” ricordò Borsellino nel libro I disarmati, di Luca Rossi. “Si sentiva una particolare atmosfera di consenso anche tra i colleghi del Palazzo di giustizia. Bastava aprire bocca e il ministero concedeva tutto: aerotaxi, segretarie, materiale”. L’aula-bunker in cui si sarebbe svolto il Maxiprocesso fu costruita nel giro di un anno. 1984: Tommaso Buscetta, pentito di mafia, torna dal Brasile dopo l’estradizione nel nostro Paese. Voleva parlare solo con Falcone. E gli disse: “Cercheranno di distruggerla”. Il maxiprocesso basatosi anche sulle sue confessioni fu il più grande attacco a Cosa nostra in Italia: 475 imputati, 360 condanne. E Totò Riina non perdonò.

A PROPRIE SPESE. Nel frattempo però, nell’ombra, Totò Riina stava preparando un’estate di sangue. Il 28 luglio 1985 fu ucciso Beppe Montana, capo della Sezione latitanti della polizia di Palermo, e pochi giorni più tardi Ninni Cassarà, vicedirigente della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone. “Uccisero Cassarà” disse Borsellino sempre ne I disarmati “e venne fuori che la Mobile non esisteva, che non era una struttura, ma un impegno di pochi. Il lavoro di Cassarà e il nostro erano già il massimo di quanto lo Stato volesse fare”. La paura di altri attentati era forte. I due magistrati, con le rispettive famiglie, furono trasferiti in fretta e furia all’Asinara, l’isola-carcere a nord-ovest della Sardegna, per concludere l’istruttoria del Maxiprocesso, che fu depositata l’8 novembre di quello stesso anno. Alla fine di quel periodo, durato 33 giorni effettivi, lo Stato ebbe l’ardire di presentare ai magistrati il conto del soggiorno: “Prima di andarcene ci fecero pagare 415.800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno” rivelò ancora Borsellino nel libro di Rossi. Fu uno dei momenti di maggiore amarezza per i due magistrati. Non solo. Scossa dagli eventi, Lucia, la figlia quindicenne di Borsellino, fu colpita da una grave forma di anoressia che la portò a pesare soltanto 30 chili.

A GIUDIZIO. Il Maxiprocesso, con ben 475 imputati, fu il più grande attacco alla mafia mai realizzato in Italia. Ebbe inizio il 10 febbraio 1986. Ma a maggio Paolo Borsellino fu nominato procuratore della repubblica a Marsala (Trapani). «Senza Paolo» ricorda Ignazio De Francisci, uno dei nuovi membri del pool «si accentuò la distanza tra noi e Falcone. Borsellino aveva l’esperienza professionale per parlare con lui da pari a pari. Nello stesso tempo era più umano, più simile a noi». Il Maxiprocesso si chiuse il 16 dicembre 1987 con 360 condanne e 114 assoluzioni. E, con questo, Caponnetto ritenne chiusa la sua esperienza palermitana. Era ragionevolmente sicuro che il suo posto sarebbe stato preso da Falcone. Ma così non fu. Il clima politico era sfavorevole. Alle elezioni di giugno il partito socialista aveva raddoppiato i suoi voti e il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli si era dichiarato contro il programma di protezione dei pentiti. Tutto questo ebbe riflessi anche all’interno del Csm, che il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, bocciando Falcone. Quel giorno l’anzianità vinse sulla competenza: Meli, infatti, aveva scarsa esperienza in fatto di processi di mafia. E da quel giorno, disse lo stesso Caponnetto, “Falcone ha iniziato a morire”. Falcone e Borsellino sorridenti durante un dibattito a Palermo nel 1992. Da piccoli si incontravano nel quartiere arabo di Palermo. Da grandi, nel 1983, si ritrovarono insieme nel Pool Antimafia. Nel 1992 morirono entrambi da eroi.

LA FINE DEL POOL. Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire, nonostante lavorasse a Marsala. In un’intervista all’Unità disse: “Hanno tolto a Falcone la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate da anni. La squadra mobile di Palermo non è mai stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”. Falcone era sempre più isolato. Un’altra sconfitta arrivò quando il governo nominò Domenico Sica alto commissario per la lotta antimafia, bocciando la sua candidatura. Falcone si candidò allora al Csm, ma non fu eletto. Lettere anonime lo accusarono di una gestione discutibile del pentito Salvatore Contorno, e nel giugno del 1989 fu sventato un attentato ai suoi danni. Lo scontro con Meli raggiunse livelli altissimi in seguito all’inchiesta sulle confessioni del pentito Antonino Calderone: Meli voleva dividere il processo tra 12 procure diverse (secondo la competenza territoriale) mentre Falcone insisteva che dovesse occuparsene il pool (per non disperdere le indagini, dal momento che unica era l’origine mafiosa).

DA PALERMO A ROMA. Ancora una volta vinse Meli. Era la fine del pool: Falcone chiese di essere destinato ad altro ufficio e fu nominato procuratore aggiunto presso la Procura della repubblica. Appoggiò la nomina di Pietro Giammanco, il suo superiore, a procuratore capo di Palermo, ma da questi fu lentamente messo da parte e ostacolato. Infine Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e fino ad allora in ottimi rapporti con lui, lo accusò di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Per Falcone fu un periodo molto duro e maturò allora la scelta di accettare la proposta del nuovo ministro della Giustizia Claudio Martelli, lasciando Palermo per la direzione degli Affari penali a Roma. Nella capitale, però, Falcone non allentò il suo impegno contro la mafia. Con un decreto da lui ideato, infatti, tornarono in carcere gli imputati di Cosa nostra scarcerati da una sentenza di Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione soprannominato “Ammazzasentenze”. Per disinnescare la possibile influenza di quest’ultimo sull’esito finale del Maxiprocesso, inoltre, Falcone ideò la rotazione dei giudici della corte suprema. In questo modo Carnevale fu assegnato ad altro incarico e la Cassazione confermò le condanne. Inoltre il governo approvò un piano di Falcone per riorganizzare la lotta a Cosa nostra. Nel frattempo Paolo Borsellino era tornato a Palermo come procuratore aggiunto e con un ruolo direttivo nelle indagini di mafia. Falcone, scortato come sempre, arriva a Marsiglia nel 1986 per incontrare i colleghi che stavano indagando sulla cosiddetta Pizza Connection.

LA VENDETTA. Sconfitto nel Maxiprocesso che gli costò l’ergastolo, Totò Riina volle vendicarsi tanto per cominciare di chi non gli aveva garantito l’impunità: il 12 marzo 1992, a Mondello, la spiaggia dei palermitani, fu assassinato Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia. Era il primo passo verso la strage di Capaci del 23 maggio, nella quale persero la vita, oltre a Falcone, anche la moglie Francesca Morvillo – che aveva sposato nel 1986, dopo il divorzio da Rita – e tre uomini della scorta. Solo, ferito dalla morte del suo amico, ostacolato dal capo della procura palermitana Giammanco, nei due mesi successivi Paolo Borsellino lavorò con frenetica intensità. Sentì pentiti importanti, viaggiò in continuazione – lui che aveva paura dell’aereo – ed ebbe un incontro (dal quale uscì turbato) con il ministro dell’Interno Nicola Mancino, che però ha sempre dichiarato di non ricordare quel colloquio. Dietro le quinte, intanto, circolava un “papello”, un documento nel quale Totò Riina avanzava 12 richieste allo Stato. Si andava dalla revisione della sentenza del Maxiprocesso all’annullamento del 41 bis (l’articolo di legge sul carcere duro per i mafiosi) fino alla riforma della legge sui pentiti. Borsellino fu avvisato della trattativa da Liliana Ferraro, che aveva sostituito Falcone alla Direzione affari penali del ministero, e sicuramente lui si oppose, firmando per sé una condanna a morte. 23 maggio 1992: allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccidono Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Sono le 17.58: un boato terribile, un intero lembo di autostrada che si solleva, una nube nera altissima, il muro di asfalto e cemento. L'istituto nazionale di geofisica registra l'esplosione.

UN MURO DA SCAVALCARE. La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. Perché Totò Riina aveva detto: “Bisogna scavalcare un muro”. E quel muro era Paolo Borsellino. “La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra” scrissero i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che concluse quasi quattro anni di indagini. Il presunto tradimento di un generale dei carabinieri suo amico aumentò lo sconforto del magistrato, che sapeva di andare incontro alla morte. Secondo il colonnello dei carabinieri Umberto Sinico, inoltre, Borsellino chiese che fosse lasciato “qualche spiraglio” alla sua sicurezza, perché altrimenti sarebbe stata colpita la sua famiglia. Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Alla moglie Agnese disse: “La mafia mi ucciderà quando gli altri lo decideranno”. E il 17, fra lo stupore di tutti, salutò uno a uno i colleghi abbracciandoli. Il 19 luglio faceva molto caldo a Palermo. Il magistrato decise di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Due minuti prima delle 17, l’esplosione dell’autobomba che uccise lui e 5 uomini della scorta si sentì in tutta Palermo. “È tutto finito” fu il commento di Antonino Caponnetto. 

NON ARRENDERSI MAI. Ma lo stesso Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando: “Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”. Oggi Totò Riina è in carcere, mentre Bernardo Provenzano è morto mentre scontava l'ergastolo in regime di 41 bis (il carcere duro). I corleonesi sono stati disarticolati. Ma la lotta alla mafia è ancora lunga. La nebbia in Sicilia, insomma, è ancora fitta. Luigi Ferro per Focus Storia Biografie

LE VITTIME DELLA STRAGE DI CAPACI. Allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Ecco chi erano:

FRANCESCA MORVILLO, 46 anni, nata a Palermo, era la seconda moglie di Giovanni Falcone e morì al suo fianco. Sorella di Alfredo Morvillo, sostituto procuratore che fece parte del pool antimafia, aveva conosciuto Falcone a Palazzo di giustizia e lo aveva sposato nel 1986.

ROCCO DI CILLO 30 anni, di Triggiano (Bari.) Quando superò il concorso in polizia, interruppe gli studi universitari e partì per Bolzano, prima sede di servizio. Nel 1989 iniziò a fare parte della scorta di Falcone, e con altri colleghi contribuì a sventare l’attentato alla villa dell’Addaura.

ANTONIO MONTINARO 30 anni, di Calimera (Lecce). Agente scelto, era stato inviato in Sicilia e temporaneamente assegnato al servizio scorte di Falcone. All’inizio sognava di tornare a casa, poi decise di rimanere e aprì un piccolo negozio di detersivi per la moglie. Da quando Falcone lavorava a Roma seguiva altre personalità, ma non mancava mai all’appuntamento quando il magistrato tornava in Sicilia nel weekend. Era padre di due figli piccoli.

VITO SCHIFANI 27 anni, di Ostuni (Brindisi). Guidava la prima delle tre Fiat Croma che scortavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Lasciò la moglie di 22 anni, Rosaria, e un figlio di 4 mesi. L’immagine di Rosaria ai funerali è rimasta nella memoria di molti. Sull’altare, piangendo, urlò ai mafiosi: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare...”.

GLI ANGELI CUSTODI DI BORSELLINO. Ecco le storie dei membri della scorta di Paolo Borsellino, morti nella strage di Via D'Amelio:

AGOSTINO CATALANO 43 anni, di Palermo. Era un veterano dell’Ufficio scorte. Da molti anni garantiva la sicurezza dei magistrati, si era appena risposato e aveva 2 figli. Poche settimane prima aveva salvato un bimbo che stava per annegare dinanzi alla spiaggia di Mondello.

WALTER EDDIE COSINA 31 anni, Norwood (Australia). Da una decina di giorni era stato assegnato alla scorta del magistrato. Era arrivato nel capoluogo siciliano da Trieste dove per 10 anni aveva lavorato nella Digos, frequentando corsi speciali di addestramento per fare parte delle scorte. Dopo la strage di Capaci aveva chiesto di andare come volontario a Palermo nell’Ufficio scorte. Era sposato e aveva un bimbo in tenera età.

VINCENZO LI MULI 22 anni, di Palermo. Era entrato nel gruppo dopo la strage di Capaci per sostituire i colleghi caduti. L’aveva chiesto lui al giudice e non aveva detto niente ai suoi genitori, perché sapeva che sarebbero stati in pena. Quel giorno sua madre sentì alla televisione che Borsellino era morto con la scorta e disse: “Poveri ragazzi e povere mamme”. Non sapeva che fra loro c’era anche suo figlio.

EMANUELA LOI 24 anni, di Sestu (Cagliari). Dopo la strage di Capaci fu assegnata al nucleo scorte di Palermo. Bionda, fisico minuto, è stata la prima donna a entrare a far parte di una scorta assegnata a obiettivi a rischio e la prima a morire. Quando arrivò a Palermo disse: “Se ho scelto di fare la poliziotta non posso tirarmi indietro. So benissimo che fare l’agente di polizia in questa città è più difficile che nelle altre, ma a me piace”. Quella domenica non doveva essere lì. Era a disposizione e fu aggregata alla scorta all’ultimo minuto.

CLAUDIO TRAINA 27 anni, di Palermo. Agente scelto, era padre di un bambino. Nel corso di un viaggio in Brasile aveva conosciuto una ragazza e l’aveva portata in Italia. Il loro figlio, al momento dell’attentato, aveva pochi mesi.

·         La strage di Capaci 27 anni dopo. Chi era Giovanni Falcone.

La strage di Capaci 27 anni dopo.  Edoardo Frittoli il 22 maggio 2019 su Panorama. Il pomeriggio del 23 maggio 1992 il giudice antimafia Giovanni Falcone atterrava a Punta Raisi, su un volo da Roma. Lo attendevano la sua scorta e la moglie, Francesca Morvillo. Pochi minuti dopo le Fiat Croma e la Thema blindate imboccavano con sirena e lampeggianti l'autostrada A2 verso Palermo. Al volante di una delle auto c'è Falcone, a cui piace guidare veloce . Accanto a lui la moglie e dietro l'autista Giuseppe Costanza. Alle 17,56 il convoglio è all'altezza dello svincolo di Capaci, a tutta velocità su un cavalcavia che già due settimane prima era stato imbottito di tritolo dagli uomini di Cosa Nostra. Agli ordini della cupola dei Corleonesi, i "picciotti" agivano già in un quadro di guerra mossa dalla mafia allo Stato. Pochi mesi prima era stato ucciso Salvo Lima e le condanne del maxiprocesso di Palermo erano state confermate. La situazione politica del paese passava attraverso la bufera di tangentopoli e tra le picconate del dimissionario Francesco Cossiga. Falcone, uno dei protagonisti della stagione del processo, è già condannato a morte. Avrebbero potuto ucciderlo a Roma, ma la morte in Sicilia e l'esplosione avrebbero avuto un effetto maggiore, da vera e propria dichiarazione di guerra da parte di Cosa Nostra. Passano solo sei minuti dall'uscita della scorta dall'aeroporto all'esplosione sul cavalcavia. Giovanni Brusca, appostato sulla collina di fronte all'autostrada,  preme il detonatore con un minimo ritardo. 500 chili di tritolo cambiano la storia del Paese. La prima macchina di scorta è scagliata a quasi 100 metri di distanza. Muoiono gli agenti di scorta Vito Schifano, Antonio Montinari e Rocco Dicillo. La macchina guidata da Giovanni Falcone si schianta nel cratere profondo oltre un metro scavato dalla bomba. Il motore della Croma lo investe, la moglie Francesca è riversa sul cruscotto. L'autista Giuseppe Costanza è ferito, così come gli agenti della terza auto e altre 20 persone coinvolte nell'esplosione mentre transitavano sull'autostrada. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo muoiono un'ora dopo in ospedale. Il più grave attacco della mafia dei Corleonesi alle istituzioni era cominciata e proseguirà fino all'anno successivo con gli attentati di Firenze, Roma e Milano.

«Quella dannata estate del 1992 in cui la mafia mostrò la sua forza lasciandoci inermi». Sono passati 27 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino. Ancora oggi la rabbia per quello che è accaduto non si è placata. E ancora chiediamo di avere giustizia. Lirio Abbate il 22 maggio 2019 su L'Espresso. Nel pomeriggio di sabato 23 maggio 1992 nelle redazioni a Palermo arriva l'eco della notizia di un'esplosione avvenuta nell'autostrada all'altezza dello svincolo per Capaci. Le informazioni sono frammentarie. Fino a quando non apprendiamo che si tratta di un attentato al dottor Giovanni Falcone. Si scatena il panico, la corsa verso il luogo in cui è esplosa la bomba. Lungo la strada si apprende che è rimasta coinvolta anche la moglie, Francesca Morvillo e con loro gli agenti della scorta. Arrivati sul posto la scena è devastante, il terreno ha ricoperto interamente l'asfalto per oltre un chilometro e il cratere fa paura, ma ancora di più terrorizza l'auto blindata di colore bianco, con il davanti troncato di netto, che penzola nel vuoto, ricoperta di terra. Paura e rabbia. Ho visto in questo luogo oltre agli agenti, anche fotografi e giornalisti piangere. E questa atmosfera di morte e terrore ci ha fatto sentire inermi e deboli. Ecco la forza della mafia. Sappiamo che il dottor Falcone e la moglie sono stati tirati fuori dall'auto e sono ancora vivi. Sono sopravvissuti l'autista Giuseppe Costanza e i poliziotti dell'ultima auto di scorta, Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello. Nessuno sa nulla della prima auto in cui c'erano i tre agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La blindata accartocciata dall'esplosione si troverà alcune ore dopo a centinaia di metri dal cratere, in mezzo ad un uliveto. Si corre verso l'ospedale dove è stato portato il magistrato e la moglie, il giudice simbolo della lotta alla mafia il cui volto era noto in tutto il mondo per essere comparso sulle prime pagine dei quotidiani e le copertine dei settimanali in tutti i continenti, dopo qualche ora dall'esplosione finisce di vivere. La notizia commuove tutti – compreso Paolo Borsellino che è in ospedale e il suo visto è sconvolto - quelli che sono davanti al pronto soccorso dell'ospedale, accorsi dopo aver saputo dell'attentato hanno gli occhi pieni di lacrime. E poi arriva pure la triste notizia che i diversi tentativi fatti in sala operatoria dai medici non sono riusciti a salvare la vita a Francesca Morvillo. È stata una giornata straziante, in cui siamo stati disorientati e straziati dal dolore. Sono seguite giornate di immenso lavoro, con una produzione incessante di notizie. Palermo sembrava essere diventata “il centro del mondo” dei mass media. Erano centinaia gli inviati provenienti da tanti Paesi. 23 maggio 1992. Ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Capaci. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare dai mafiosi sotto l'autostrada. L'esplosione viene segnalata alle sale operative di polizia e carabinieri che inviano sul posto uomini e mezzi. Questo sono le loro conversazioni radio, che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo nel tragitto fino al'ospedale. Dove perderanno la vita. (a cura di Beatrice Dondi e Leonardo Sorregotti)

Il giorno dei funerali intorno ai corpi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Di Cillo c'era tutta l'Italia che contava. Ero riuscito a entrare in chiesa affollatissima, nonostante da quattro ore la gente si accalcasse davanti alla Basilica di San Domenico. In piazza, sotto la pioggia, fra ali di poliziotti e carabinieri messi lì a proteggere gli irritanti simboli di uno Stato lontano, si levavano urla di rabbia e disperazione. Le foto e le cronache di allora raccontano questo dolore. Ricordo chiaramente che mentre il cardinale Salvatore Pappalardo terminava l'omelia, che era soprattutto un anatema, da fuori si sentiva giungere gli insulti, gli slogan, gli echi della rabbia della Palermo per bene. Poi è toccato a lei, alla fragile Rosaria. E quel che per me pareva un rito già consumato, è tornato a ravvivarsi, si è ribaltato un copione già scritto con il suo “mafiosi vi perdono ma inginocchiatevi”. Al termine, mentre gli applausi scrosciavano, lei è scoppiata a piangere, ha abbracciato il sacerdote che le stava accanto, ed è svenuta. Proprio negli stessi attimi, mentre agli applausi si sovrapponeva il grido di “giustizia, giustizia”, vedevo che nel gruppo delle autorità cominciavano le defezioni, provocandomi una sensazione di tristezza e rabbia. Da siciliano mi sentivo abbandonato. Ma quella dannata estate del 1992 non aveva finito di riservarci altri brutti momenti. Il 19 luglio. Una domenica che ha scosso ancora Palermo. Un nuovo attentato, quasi preannunciato, nel quale viene ucciso il procuratore aggiunto Paolo Borsellino con i suoi agenti di scorta. Cronisti, fotografi e cineoperatori prendono d’assalto via d’Amelio dove il magistrato è saltato in aria insieme ai suoi angeli custodi. La città è scossa. E il 21 luglio, nel giorno dei funerali, ne ho certezza. Ricordo la folla schiacciata all’ingresso della chiesa che preme e urla. Il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo vedo un po' più piccolo e un po' più stanco mentre entra nella navata da una porta secondaria, con cipiglio fiero e passo veloce. Sono le 16,03 quando arriva lo Stato. C'è un cielo bianco là fuori, che pesa sulla città in stato d'assedio. Fuori da questa chiesa così strana, da questo tempio dove il dolore ritorna sempre come un appuntamento tragico, senza pace. Proprio mentre l'ex capo del pool antimafia Antonino Caponnetto entra in chiesa, ci sono gli agenti delle scorte, i colleghi delle vittime, che vengono espulsi, spintonati, cacciati dai carabinieri in servizio d'ordine. Le sento ancora quella urla, nella grande navata, mentre sono costretti a uscire: «Bastardi, bastardi... questa messa è per noi, questa è la nostra messa, bastardi». E Caponnetto china la testa. Non parla. E i poliziotti gli urlano: «Dottore, dottore, lei è come noi, venga con noi, dottore, non ci lasci soli». No, non li ha lasciati soli. Si era già pentito Caponnetto di quella frase pronunciata 24 ore prima quando aveva detto ai microfoni della Rai: «È finita, è tutto finito». Lo aveva detto all'uscita dalla camera ardente: «Mi sono pentito di quello che ho detto ieri, è stata una giornata di grande sconforto». La messa è finita. E scoppia la contestazione diretta all’allora capo della polizia Parisi. Scoppia improvvisa. Ormai inaspettata. Sono le urla dei parenti che la fanno partire. D'un colpo, la chiesa diventa quasi una bolgia, rimbomba di urla. Scalfaro passa in mezzo a due ali di poliziotti. Calci ne partono tanti, anche qualche schiaffone che supera la barriera umana degli agenti in divisa. Il Presidente è sfiorato da una manata, Parisi colpito da una sberla così come altri lì attorno. Il cardinale alza la voce: «State calmi, che fate? State calmi». Sotto il cielo diventato grigio, davanti a questa Cattedrale del dolore, la rabbia e la disperazione non si sono placate. E ancora oggi a distanza di 27 anni la rabbia ancora c'è per quello che è accaduto, per gli errori commessi, e si chiede ancora di avere giustizia.

Ecco chi era Giovanni Falcone. Pietro Grasso il 23 maggio 2019 su Repubblica. Ex magistrato e politico italiano, viene designato giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra nell’85 da Francesco Romano, presidente del Tribunale di Palermo. Cos’è stato il maxiprocesso? Per rispondere al quesito si consideri una stanza blindata con all’interno centoventi faldoni contenenti più di quattrocentomila fogli processuali, quattrocentosettantacinque imputati e quattrocentotrentotto capi di imputazione che comprendono non solo l’associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti criminali collegati a Cosa Nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e centoventi omicidi. Servono trecentoquarantanove udienze e milletrecentoquattordici interrogatori per permettere, l’11 Dicembre 1986, agli otto membri della Corte d’Assise di ritirarsi in camera di consiglio. La più lunga camera di consiglio della storia giudiziaria, trentacinque giorni al termine della quale, dopo otto mesi, lo stesso Grasso ha steso la sentenza, un documento di circa settemila pagine. Durante il maxiprocesso Grasso, tra gli altri,  collabora fruttuosamente con Falcone ma il loro primo incontro risale al ’79 quando, entrambi giovanissimi, sostituto della Procura di Palermo l’uno e giudice istruttore del Tribunale di Palermo l’altro, seguono insieme il caso di un ciclomotore rubato. Per quanto piccolo possa essere il caso in questione, immediatamente il giovane palermitano proietta la sua attenzione e minuziosità nell’indagine: è il preludio di quello che viene chiamato “metodo Falcone”. Il metodo Falcone è Falcone stesso. A questo punto viene da chiedersi: “Chi era Giovanni Falcone?” , ed è proprio questa la domanda con cui Pietro Grasso in un capitolo de “ Giovanni Falcone: l’uomo, il giudice, il testimone” snocciola le sue personali memorie del rapporto con Falcone ed in particolare di tutte quelle voci sibilline che più che corridoi hanno abitato beatamente pagine di quotidiani, uffici e tribunali. Falcone era: la straordinaria capacità lavorativa, il dettaglio, la morbosità, la visione prospettica, l’anticipazione di ogni possibile mossa, l’instancabile voglia di lottare. Se il Maxiprocesso è il fiore all’occhiello schiusosi nel ’92 è bene tenere a mente, per afferrare tutte queste sfaccettature, l’inchiesta giudiziaria "Pizza connection" chi si svolge negli Stati Uniti d’America ma coinvolge la magistratura italiana e non solo, con indagini sui traffici internazionali di eroina e cocaina che investono la Thailandia, la Sicilia nonché la Svizzera per il riciclaggio di denaro. Falcone garantisce reciprocità nella collaborazione oltreoceano, spulcia ogni singolo movimento bancario e qualunque rapporto di “comparatico”, si sposta dovunque ce ne sia bisogno e tesse la sua trama pronto a disfarla in caso di errori. Si rincontrano ancora, questa volta a Roma, quando il ministro Martelli accoglie Falcone e lo nomina dirigente dell’ufficio affari penali, dove chiama a lavorare con sé Grasso e compie uno straordinario lavoro per organizzare a livello nazionale la lotta alla mafia, creando la DNA (Direzione Nazionale Antimafia, con relativa banca dati), le DDA (Direzioni Distrettuali Antimafia) e la DIA (una specie di FBI italiana antimafia). Anche questo trasferimento però non viene visto di buon occhio e viene infatti accusato di voler limitare l’autonomia della magistratura e di essere in combutta con il potere politico. Siamo nel ‘90 ma le calunnie e il sabotaggio sembrano partire già dall’88 con la mancata nomina successiva a Caponnetto, la quale viene affidata a Meli basandosi sull’obsoleto criterio dell’anzianità. Con Meli si dà il via ad un cambiamento che si riflette in primo luogo sulla stabilità del pool, infatti i dirigenti degli uffici interessati nella lotta alla mafia non sono più nominati in modo ‘mirato’ tenendo conto della professionalità e della specializzazione ma i casi vengono distribuiti con il solo obiettivo di spalmarli su quanta più gente possibile per far occupare tutti di indagini mafiose. Borsellino denuncia questo sfaldamento a cui seguirà l’apertura di un procedimento paradisciplinare contro di lui; siamo nell’89, anno in cui viene accolta la domanda di Falcone per la nomina di procuratore aggiunto a Palermo che non alleggerisce l’aria sempre più pesante il cui massimo punto di rarefazione  è l’insinuazione che il fallito attentato dell’Addaura sia stato organizzato da Falcone stesso per farsi pubblicità. Probabilmente è qui che crolla Giovanni, prima che Falcone, e insieme a sé una stagione fruttuosa del lavoro antimafia, tanto da richiedere dopo l’ennesimo rifiuto una specie di asilo politico-giudiziario a Roma. Un lavoro che comprendeva magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, più le intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e dai collaboratori di giustizia. Crolla quello che in molti chiamano minimizzandolo “metodo”, che lasciava ben poco al caso, e tanto doveva allo studio meticoloso, al lavorio instancabile, addolcito nelle ultime testimonianze da immagini familiari che lo associano ad un sorriso, ad una battuta di spirito, ad una giovialità improvvisa, un misto di gentilezza e severità che lascia un ricordo agrodolce. Era anche questo, in fondo, che chi lo circondava aveva imparato ad apprezzare: il beverone di Coca-cola e whisky retaggio delle trasferte americane e  la minestra della moglie di Grasso che elogiava tanto. Un gusto, un’abitudine, un vizio, una zuppa di broccoli e riso e un bicchiere sul cui fondo solo ghiaccio e qualche pensiero, a sciogliersi insieme. (sintesi di Annamaria Nuzzolese)

Memorie di un'amicizia. Giuseppe Ayala il 22 maggio 2019 su Repubblica. La testimonianza di chi ha vissuto in prima persona quel periodo che erroneamente i giornalisti chiamarono guerra di mafia e che, di fatto, non ebbe mai due eserciti contrapposti a fronteggiarsi, porta sempre con sé un alone di fascino ed epicità, soprattutto se a darla è Giuseppe Ayala, in quegli anni chiamato a collaborare con il pool antimafia in qualità di pubblico ministero. Incisivo e graffiante come di consueto, in Giovanni Falcone. “L'uomo, il giudice, il testimone”, ripercorre le tappe di quella straordinaria avventura professionale intrapresa insieme a Falcone presso la Procura di Palermo. Innegabilmente diversi, l’uno trasgressivo e l’altro quasi bacchettone, a legarli era non solo il medesimo orizzonte di valori e ideali, ma una profonda amicizia, un sentimento fraterno in cui Falcone svolgeva il ruolo del fratello maggiore protettivo e complice. Fu proprio lui, infatti, a fiutare il potenziale del giovanissimo Ayala e a sceglierlo nonostante la sua trascurabile esperienza, cambiandogli la vita per sempre. Consigliere e maestro al tempo stesso, Falcone diventa da quel momento una presenza costante nella vita di Ayala, come lui stesso ammette, ed è proprio a partire da una provocazione del più anziano che nel 1992 Ayala deciderà di candidarsi come capolista in Sicilia occidentale per il Partito repubblicano. In virtù della sua esperienza in Parlamento, il magistrato, pur consapevole dei diffusi casi di malgoverno, ammette, tuttavia, la lungimiranza della politica in alcuni momenti cruciali della storia d’Italia, come nel caso della legge Rognoni-La Torre o della costruzione in tempo record di quella straordinaria struttura chiamata aula bunker, voluta dal ministro di Giustizia, al fine di facilitare la celebrazione del Maxiprocesso, che, inevitabilmente, prendeva spunto dal metodo-Falcone. Infatti, fu proprio una grandissima intuizione di Falcone che portò alla necessità di costruire il pool: egli aveva intuito che i delitti di matrice mafiosa sono intimamente legati tra loro perché frutto di una logica associativa e, per questo, era necessario lavorare in sinergia per trovare quel sottile filo rosso che li univa. Così, prima sotto la guida di Rocco Chinnici e poi con la guida di Antonio Caponnetto, si creò un gruppo di giudici composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe di Lello. La cooperazione tra questi intellettuali e Giuseppe Ayala viene da lui ricordata con un simpatico aneddoto che sintetizza l’atmosfera di grande intesa e complicità che impregnava il loro operato. Egli racconta, non senza un po' di nostalgia, che Falcone, conclusasi la sua requisitoria al maxiprocesso, dopo essersi complimentato con lui gli aveva detto “Tu sei The voice come Frank Sinatra, però non ti scordare che la canzone l’abbiamo scritta noi”. Ed era così: il loro contributo era reciprocamente necessario. Di questo Ayala ne era pienamente consapevole e riconosceva i grandi meriti attribuibili a Falcone, da lui ritenuto un grande innovatore fin da quella intuizione che è riassumibile nel suo motto Follow the money. Falcone ebbe il coraggio di seguire il denaro per davvero, promuovendo la sburocratizzazione ed il superamento dei confini che la mafia aveva già tempo abbattuto con i suoi traffici. A tal fine promosse la cooperazione giudiziaria con i vari Paesi coinvolti, moltiplicando i suoi viaggi all’estero per verificare le prove e ricercarne ulteriori. Tutto questo, che Falcone aveva fatto per amor di verità, non trovò altro che sferzanti critiche. Le sue rogatorie vennero ridotte da alcuni media ad un singolare tipo di Turismo giudiziario e lui stesso venne accusato con malizia di essere un giudice sceriffo. Il grande valore della cooperazione giudiziaria sarebbe stato poi confermato dalle innumerevoli prove raccolte, che permisero con il tempo di fare luce sugli enigmi della mafia e dei suoi affari, di cui alcuni particolarmente suggestivi vengono svelati da Ayala attraverso la sua avvincente narrazione. Del resto, a strumentalizzare il caso-Falcone non furono solo i giornali. Falcone divenne il bersaglio facile di alcuni ambienti della politica italiana collusi con la mafia e, subito dopo la storica sentenza del Maxiprocesso, l’organo di autogoverno della magistratura, il CSM, in virtù della sua anzianità, preferì Antonino Meli a Falcone come successore di Caponnetto a capo dell’Ufficio istruzione. Finiva così la straordinaria esperienza del pool antimafia, proprio quando lo Stato aveva ottenuto una schiacciante vittoria contro la mafia. Non è un caso se il Tribunale di Palermo era definito a quell’epoca il palazzo dei veleni, giacché la notorietà e il merito di questi magistrati suscitavano in molti un sentimento di invidia. A tal proposito, Ayala ricorda con un pizzico di orgoglio quanto scritto da Attilio Bolzoni, il quale in un articolo ha sostenuto che nella Procura della Repubblica Falcone aveva un solo amico: proprio lui, Giuseppe Ayala. Quella di questi intellettuali è una delle perentesi più felici della storia del nostro Paese e tutti noi abbiamo il dovere di conoscerla e perpetuarla. A questo scopo la testimonianza di Ayala è preziosa, avvincente e interessante. Egli non scade mai in una narrazione cronachistica e fredda: il suo racconto è ricco di aneddoti ed episodi che, seppur con apparente leggerezza, colpiscono il lettore e fanno breccia nella sua memoria. Ricche di verve e di brio, le sue parole meritano di risuonare nella mente di chi legge perché frutto di un’esperienza fondamentale per quegli anni in cui, grazie al contributo di grandi uomini, anche i progressi della magistratura furono grandi, come mai prima era accaduto. (sintesi di Sofia Trisolino)

Un cartesiano in terra di Sicilia. Marcelle Padovani il 24 maggio 2019 su La Repubblica. Mi è capitato spesso di scrivere di libri. Anche questa storia non fa eccezione: si comincia da un libro. Un piccolo volume che occupa un posto speciale in casa mia da quasi venticinque anni. All’inizio era solo uno tra i tanti sistemati negli scaffali, con la sua copertina verdognola e quel titolo stravagante, ma oggi, dopo centinaia di inchieste e documentari, quel piccolo volume mi sembra ancora il documento più prezioso nella divulgazione della lotta alla mafia. Ma questa non è solo una storia personale. Perché Cose di Cosa Nostra (BUR, 1991) è qualcosa che va al di là del caso editoriale. È un’opera – specialmente l’edizione collaterale del Corriere della Sera nel 1995 – entrata in milioni di altre case, le case degli italiani che, con tremende ferite all’anima, sono sopravvissuti a quegli anni di stragi mafiose. Noi giovani non possiamo ricordarli, ma riecheggiano in noi come racconti del terrore. Ma uno di questi mi ha segnato davvero nel profondo: ogni 23 maggio, una volta spente le candeline e finita la torta di compleanno, i telegiornali della sera mi ripropongono le immagini delle automobili incenerite e dell’asfalto divelto nello svincolo autostradale di Capaci. Dopo ventotto anni dalla pubblicazione di Cose di Cosa Nostra (e ventisette dalla strage di Capaci), Marcelle Padovani non ha ancora smesso di cercare nuove parole per rendere onore a Giovanni Falcone, un uomo, un magistrato che, insieme a Paolo Borsellino, è per tutte le generazioni, in particolare la mia, il vero e proprio baluardo della libertà e del sacrificio in nome della giustizia. La giornalista francese offre un ricordo intimo e appassionante di quell’uomo con cui ha lavorato per anni alla stesura del libro. I primi contatti avvengono nel 1983, a pochi mesi di distanza dall’assassinio di Rocco Chinnici. Il libro sarà dato alle stampe nel 1991. Quegli anni sono stati i più intensi nella vita di Falcone: il primo grado del Maxiprocesso, il trasferimento a Roma e il fallito attentato dell’Addaura. In tutto questo tempo, Marcelle Padovani ha rincorso il magistrato in lungo e in largo per l’Italia nel tentativo di ottenere delle interviste, e gran parte del capitolo è dedicata alla preziosa aneddotica riguardante la nascita del libro, un enorme successo editoriale prima in Francia e poi nel nostro paese. Ma la Padovani ha intessuto uno strettissimo rapporto con Falcone ed è riuscita a carpire nel profondo la personalità del suo intervistato. In quei ventidue incontri che hanno dato vita al libro la giornalista ha conosciuto un uomo razionale, un illuminista, un cartesiano che, in una terra come la Sicilia, definita da Sciascia: «Una dimensione fantastica», è destinato a rimanere isolato. Ma la solitudine di Falcone non è confinata solo alla sua terra d’origine: «Nella sua lotta alla Mafia fu molto solitario», racconta la Padovani, e di questo il magistrato ne era ben consapevole, e accettava il peso dell’isolamento – in Sicilia e poi a Roma – in ragione di una lotta portata avanti con tenacia ed estremo pragmatismo: «Non si perdeva mai in aneddoti superflui, cercava riscontri, studiava i bilanci delle società sotto inchiesta, controllava e rivedeva tutte le dichiarazioni dei suoi indagati». Essere minuziosamente logici, agire con fermezza e serietà al punto di venire giudicati con inezia dai colleghi meno pronti all’azione; questa era l’unica soluzione per annichilire una struttura organizzata in modi perversamente logici e rigorosi: «Questi mafiosi a volte mi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo di pazzi», diceva con fare provocatorio Falcone. Questo è forse il fatto più sconcertante, per una persona che non ha vissuto quell’epoca: com’è possibile che gli uomini che hanno contribuito a rivoluzionare il sistema giudiziario italiano, grazie al quale siamo all’avanguardia nella lotta al terrorismo odierno, siano stati trattati con così poca considerazione? Perché lo Stato non ha voluto riconoscere fino in fondo il merito a chi combatteva il suo vero grande nemico? Dov’erano i garibaldini che avrebbero dovuto accompagnarlo nell’impresa titanica? Rimane solo tanta amarezza quando si leggono le parole disilluse e profetiche di Falcone nelle ultime pagine di Cose di Cosa Nostra: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Ma se dopo quasi vent’anni il ricordo di quell’uomo così lucido e schietto è ancora commovente e appassionato, anche grazie alle parole di chi gli è stato vicino, significa che Falcone non è morto invano, anzi, vive dentro ognuno di noi, oggi più che mai. (sintesi di Emanuele Malpezzi)

Gli dissi: «Dottore Falcone, non entri nel Palazzo…». Ero un giovane studente, non condividevo la sua scelta di andare a Roma. Lui mi rispose…Vincenzo Musacchio, Giurista e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise, il 23 Maggio 2019 su Il Dubbio. Scrissi a Giovanni Falcone da giovane laureato una lunga lettera nella quale lodavo il suo lavoro e quello di tutto il pool antimafia di Palermo, non condividevo però il fatto che lui andasse a Roma al ministero di Grazia e Giustizia. Ovviamente non mi aspettavo risposta, sia per il momento storico in atto, sia per gli impegni di Falcone. I fatti mi smentirono. Il 21 febbraio 1992 arrivò la lettera di Giovanni Falcone. L’ho tenuta in uno scrigno da allora, nessuno ne conosceva l’esistenza, neanche la mia famiglia. Poi ho deciso di leggerla esattamente ventitré anni dopo agli studenti del liceo Romita di Campobasso alla presenza di Pino Arlacchi, amico e collaboratore stretto di Falcone e Borsellino. C’è stata una grandissima commozione in sala ed ho capito che era ingiusto tenerla solo per me. Soprattutto per il suo messaggio finale che, se fosse vivo Falcone, sarebbe ancora una volta rivolto a tutti i giovani com’ero io all’epoca: “Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”. L’insegnamento di Falcone e il suo esempio sono stati, sono e saranno guida preziosa per il mio cammino lavorativo e di vita. La professionalità di Giovanni Falcone e la sua rettitudine sono ancora oggi esempio mondiale di come si possa sconfiggere la mafia. Tutto profondamente giusto e storicamente innegabile. Peccato che fra chi oggi pronunci queste frasi, magari tentando di piangerlo, ci siano anche coloro che, prima della sua tragica morte, lo uccisero più volte pur lasciandolo in vita. Queste parole le ho sentite dalla voce flebile di Antonino Caponnetto con il quale ho condiviso un breve periodo della mia vita. Per ricordare il ventisettesimo anniversario della strage di Capaci che costò la morte a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, voglio evidenziare quest’aspetto che non tutti conoscono anche per questioni anagrafiche. È giusto e moralmente corretto che tutti sappiano. In special modo i giovani Alessandro Pizzorusso, componente "laico" del CSM designato dall’allora PCI, firma sull’Unità un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe "governativo", avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l’amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Rivela: «So che è arrivato il tritolo per me». A due colleghi magistrati confida, in lacrime: «Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire». Questa, nella sua essenza, la storia. Ora arriveranno le storie, il meccanismo descritto da Atwood. Procomberà chi non c’era: ci spiegherà, come già ci ha spiegato, il come, il quando, il chi, il perché. Non c’era. Quell’aria, in quei giorni delle stragi di Dalla Chiesa e di Falcone, di Borsellino e delle altre, non le ha respirate. Non ha visto quei corpi devastati, quegli sguardi smarriti, le bestemmie e le invettive. Non c’era, ma dice di sapere; e ora ci spiega, racconta fin nei dettagli. I particolari che ignoriamo, le spiegazioni. Conosce. Forse, magari, è davvero convinto di sapere. E sommessamente ti dici: quanto ci manca Leonardo Sciascia, quel suo “I professionisti dell’antimafia” così attuale, pre/ veggente, così capace di vedere e capire in anticipo quello che accade, è accaduto… devono sapere che il giudice istruttore che col maxiprocesso e i suoi metodi investigativi distrusse “Cosa Nostra” dell’epoca, ancor oggi faro per la lotta alle mafie a livello internazionale, in vita fu odiato e disprezzato. Nel 1988, il Csm gli preferì Antonino Meli come giudice istruttore di Palermo. L’attentato all’Addaura del 20 luglio 1989 fu trasformato in una farsa messa in piedi dallo stesso magistrato. Falcone, in sostanza, se lo sarebbe organizzato da solo. Le cose per Falcone peggiorarono sempre di più con il passare del tempo. Nonostante il clima ostile nei suoi confronti Falcone crea la Procura nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafia. In tantissimi, anche dopo i suoi numerosi successi giudiziari, puntarono nuovamente il dito contro Falcone, accusandolo di tenere le carte su alcuni delitti eccellenti chiuse nei cassetti. Leoluca Orlando e gli uomini del suo entourage si scagliarono più volte contro Falcone, che a loro dire non dava il giusto valore alle versioni dei pentiti e si affidava solo alle prove fattuali. Il 9 gennaio 1992, Sandro Viola, in un articolo intitolato “Falcone, che peccato…”, scrisse che non riusciva più a “guardare a Falcone con rispetto”, lo accusò di essere affetto da “febbre di presenzialismo”, giunse a dire che avrebbe fatto meglio ad “abbandonare la magistratura” e lo descrisse come preda di una “eruzione di vanità” come quelle che colgono i “guitti televisivi”. Persino la scelta naturale e scontata che fosse Falcone a guidare la Procura nazionale antimafia, provocò moltissime critiche oggi tutte dimenticate. Armando Spataro, ex procuratore di Torino, affermò: “Ha fatto una ferraglia e ora vuole guidarla lui”, e poi firmò una lettera per rimproverare Falcone di “apparire pubblicamente a fianco del ministro”. Ilda Boccassini, infine, magistrato a Milano, ammonì così Gherardo Colombo: “Con che coraggio vai ai suoi funerali, tu che diffidavi di lui”. Questa era la vita di Giovanni Falcone in quel periodo. Favorevole alla separazione delle carriere fra giudici e pm, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale. Lo osteggiavano anche per questo. Non ha mai avuto una vita facile ma per tanti italiani onesti è, e sarà sempre, un modello cui ispirarsi. I veri nemici di Falcone, purtroppo, ancora oggi lo celebrano per poi “trattare” come se nulla fosse con la mafia che lui ha combattuto e che lo ha ucciso.

Tutto iniziò con la morte di Rocco Chinnici. Giuseppe Di Lello il 21 maggio 2019 su La Repubblica. “La vicenda umana e giudiziaria di Falcone, quella che più conta e che può interessare, inizia la mattina del 29 luglio 1983, quando il consigliere istruttore Rocco Chinnici viene ucciso da un’autobomba”. Con queste parole Giuseppe Di Lello ci guida nella memoria di Giovanni Falcone e del suo innovativo metodo di lavoro. Lo fa partendo dall’assassinio di Rocco Chinnici, il primo che iniziò un rinnovamento nell’azione di contrasto alla mafia. Sotto la sua direzione venne, infatti, abbandonato il vecchio metodo basato sull’analisi di statistiche per focalizzare invece l’attenzione sui molti procedimenti penali in corso. Chinnici ebbe chiara l’importanza di preparazione e motivazione nella conduzione dei processi. Alla sua tragica morte fu nominato dal CSM, quale suo successore, Antonino Caponnetto, fino a quel momento in forze presso la procura di Firenze. Caponnetto diede al cambio di passo una forte accelerazione: molti processi furono unificati per essere poi delegati a un pool di Magistrati. Il primo pool era composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dallo stesso Di Lello; ai quali si sarebbero poi aggiunti altri grandi Giudici. Falcone era di fatto, anche se non poteva esserlo di diritto, il capo indiscusso del pool, per la capacità che gli riconoscevamo e senza nessuna riserva mentale. La sua professionalità e le sue capacità erano riconosciute senza riserve da tutti i membri. Inoltre, la sua visione innovativa della mafia, considerata come un’associazione unitaria rigidamente strutturata con sede a Palermo, divenne il primo caposaldo delle indagini. La competenza per giurisdizione spettava dunque al capoluogo siciliano al quale erano riconducibili tutti i fatti criminosi di Cosa Nostra. Il lavoro svolto fu immane, gestendo un numero impressionante di imputati (il Maxiprocesso ne contò ben quattrocento), viaggiando spesso anche all’estero, analizzando intercettazioni telefoniche, prenotazioni alberghiere, biglietti aerei, società, imprese e movimentazioni bancarie fino ad allora trascurate. Si operava con grande serietà, questo era il fulcro del metodo Falcone. Niente superficialità nelle indagini ma una puntuale verifica di tutto ciò che poteva essere rilevante. Niente missive burocratiche, deleghe solo alla nostra polizia giudiziaria e poi contatti con le polizie e gli uffici giudiziari in Italia e all’estero. Il fulcro del metodo Falcone risiedeva proprio nella grande serietà e meticolosità delle indagini. A quella enorme competenza, si aggiunse la regola dell’assoluto riserbo sulle inchieste così da non permettere ai mafiosi di insospettirsi e prendere provvedimenti. Di Lello non dimentica l’interrogatorio del pentito alla base dell’istruttoria del Maxiprocesso, Tommaso Buscetta, che venne interrogato per due mesi nella Questura di Roma nel massimo riserbo. Questi furono gli ingredienti che sancirono il successo del Maxiprocesso scatenando le ire della Cupola e di Totò Riina. Nonostante gli indiscussi meriti Falcone venne ostacolato dai cosiddetti “amici”, che intralciarono il suo operato rendendo difficile il suo compito. Ma Falcone non si scoraggiò e da uomo instancabile proseguì il suo lavoro ricoprendo la carica di direttore generale degli affari penali presso il Ministero di Giustizia salvando il Maxiprocesso e dando a Cosa Nostra il duro colpo che sancì la sua condanna a morte. Da quel lontano 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, è nato un forte dibattito sulle cause e sui reali mandanti. Si è discusso a lungo sui possibili attori esterni alla mafia ma senza mai trovare prove e i teoremi senza riscontri sono utilizzabili solo per le polemiche e Di Lello ne è ben consapevole quando afferma che la mafia: di ragioni autonome per uccidere Falcone ne aveva in abbondanza. Anche le dicerie sull’isolamento dei suoi ultimi anni di vita vengono scacciate con forza. Di Lello ci regala un giudizio cristallino sull’operato di Falcone, attribuendogli tutti i meriti dovuti senza trascurare il suo grande lascito: Oggi, grazie anche all’esempio del suo metodo, ci sono in Italia centinaia di processi contro le organizzazioni criminali, proprio perché ha fatto cadere l’alibi di una mafia imprendibile e invincibile. Questo è il più grande contributo che poteva dare sul piano giudiziario e lo ha dato con il sacrificio della vita, consapevole com’era che la mafia gliel’avrebbe fatta pagare. (sintesi di Alberto Clementi)

Mafia, l’ultima verità sulla strage di Capaci: “Un ex poliziotto mise l’esplosivo sotto l’autostrada”. La strage di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Il pentito Riggio ha chiesto di fare nuove dichiarazioni ai pm nisseni. “Ho avuto sempre paura di parlare di queste cose”. Vertice alla procura nazionale sulle sue dichiarazioni. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 ottobre 2019. CALTANISSETTA. E’ stato agente della polizia penitenziaria e mafioso del clan di Caltanissetta, collabora con la giustizia dal 2009, ma alcuni mesi fa, dopo la sentenza sulla “trattativa Stato-mafia”, ha chiesto di tornare nuovamente davanti ai magistrati che indagano sulle stragi Falcone e Borsellino. Lui è Pietro Riggio, 54 anni, uno dei pentiti che hanno parlato anche del leader di Confindustria Antonello Montante. Adesso, racconta una storia misteriosa, in cui il protagonista è un ex poliziotto che chiamavano il “turco”. “Mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva delle strage Falcone – ha messo a verbale Riggio davanti ai pm di Caltanissetta – si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skate-bord”. Dichiarazioni pesanti, che hanno lasciato perplessi i magistrati nisseni, da sempre scettici sull’ipotesi che a Capaci ci sia stato un “doppio cantiere” per la strage del 23 maggio 1992: le sentenze fin qui emesse annoverano solo uomini delle cosche attorno all’autostrada dove furono uccisi Falcone, la moglie e gli agenti di scorta. “Ma perché non ha mai parlato prima di questo ex poliziotto?”, hanno chiesto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, il 7 giugno dell'anno scorso. Riggio ha risposto così: “Fino ad oggi ho avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma, adesso, i tempi sono maturi perché si possano trattare certi argomenti”. E giù con una serie di dettagli su quel misterioso agente, che hanno convinto la procura nazionale antimafia a convocare una riunione sulle nuove rivelazioni. Per approfondire il caso. Nei giorni scorsi, attorno al procuratore Federico Cafiero De Raho si sono ritrovati i magistrati delle procure di Palermo, Caltanissetta, Catania, Reggio Calabria e Firenze, che si occupano a vario titolo di filoni riguardanti le bombe del ’92-’93. Riunione, naturalmente, dai contenuti top secret. Quel che sappiamo su Riggio arriva dal processo bis d'appello per la strage di Capaci, dove il procuratore generale Lia Sava ha depositato alcuni verbali del collaboratore. L'ex boss fa il nome del "turco", spiega di averlo conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel 2000, la scarcerazione: l’ex poliziotto recluta il mafioso per fare parte di una non ben identificata struttura dei Servizi che si occupa della ricerca di latitanti. Riggio passa qualche notizia. Intanto, in quel periodo, anche alcuni investigatori della Direzione investigativa antimafia agganciano il mafioso nisseno. Pure di questo parla Riggio nei verbali di Caltanissetta. “Avrei dovuto dare loro una mano per la cattura di Provenzano, indicando le persone che erano in contatto con lui, insomma diventando una sorta di infiltrato”. Riggio era cugino di Carmelo Barbieri, mafioso legato all’entourage del padrino di Corleone, cosa che non era sfuggita neanche a Gabriele Chelazzi, il pubblico ministero della procura nazionale antimafia che indagava sui misteri delle stragi di Roma, Milano e Firenze. “Pure lui mi convocò – dice oggi Riggio – ma allora mi avvalsi della facoltà di non rispondere”.

“A Capaci l'artificiere di John Gotti”. Ventisette anni dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone, le rivelazioni del pentito Avola. È il nuovo indagato con un altro boss catanese. Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 21 maggio 2019. Ventisette anni dopo, ci sono due nuovi indagati per la strage Falcone: sono i boss della mafia catanese che avrebbero portato a Palermo una parte dell' esplosivo. Ma c' è, soprattutto, una nuova pista su cui hanno iniziato a lavorare i magistrati della procura di Caltanissetta, attorno a un misterioso esperto di esplosivi inviato in Sicilia dalla mafia americana per addestrare gli stragisti di Capaci. «Il forestiero arrivò a Palermo nei primi mesi del 1992»: il pentito Maurizio Avola - è lui uno dei nuovi indagati - ne aveva già parlato all' inizio della sua collaborazione, nel 1994, dopo aver confessato 80 omicidi. Ma, all' epoca, aveva detto di non sapere chi fosse. Di recente, invece, l' ex killer catanese ha deciso di aprire anche questo capitolo, svelando al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone che il «forestiero» era un uomo di John Gotti, il capo della famiglia Gambino di New York: «Aveva circa 40 anni, capelli castani, occhi scuri, alto 1,85, corporatura robusta, vestito in maniera molto elegante. Lo incontrai a Catania, a casa di Aldo Ercolano, che mi disse: "Oggi hai conosciuto una persona importante"». In quei giorni, Avola avrebbe portato «una certa quantità di esplosivo e dei detonatori a Termini Imerese », anche questo ha raccontato di recente. A fargli da staffetta sarebbe stato Marcello D' Agata, il suo capo, pure lui adesso indagato per Capaci dall' aggiunto Gabriele Paci, dai sostituti Pasquale Pacifico e Matteo Campagnaro. I verbali di Avola sono stati depositati nel processo bis d' appello per la strage Falcone: secondo l' accusa, un altro pezzo di verità, che non mette in discussione quanto già delineato dalle sentenze. E l' indagine continua. Ci sono da scoprire i rapporti tra l' americano e l' artificiere di Capaci, il messinese Pietro Rampulla, legato ad ambienti della destra eversiva. «Ercolano mi disse che il forestiero aveva collaborato all' attentato», dice Avola. C' è da scoprire, soprattutto, quale ruolo avrebbe avuto Cosa nostra americana nella stagione delle stragi. Il telefonino Il pomeriggio della bomba di Capaci (scoppiata alle 17,56), uno dei telefonini (clonati) degli stragisti chiama tre volte un' utenza del Minnesota: "00161277746***"»: alle 15,17, 40 secondi; alle 15,38, 23 secondi; alle 15,43, 522 secondi. Le indagini dicono che sarebbe stato Antonino Gioè (poi morto suicida in cella) a chiamare, ma chi era il suo interlocutore? Il pentito Antonino Giuffrè ha invece raccontato che poco prima delle stragi i cugini americani della famiglia Gambino avevano inviato un loro avvocato a Palermo, ufficialmente per cercare delle contromisure ai danni causati oltreoceano dalle dichiarazioni dei pentiti Buscetta e Mannoia. All'epoca, quell' avvocato era stato casualmente pedinato dalla squadra mobile che indagava sul libro mastro delle estorsioni del clan Madonia: il legale aveva preso una suite all' hotel Villa Igiea e riceveva diverse persone. È rimasto l' ennesimo giallo sull' asse Palermo- New York. Ce n'è un altro. L'albergo Al centralino del bellissimo albergo palermitano telefonava un cellulare utilizzato dal boss di Castellammare del Golfo Gioacchino Calabrò. Era un telefonino clonato alla ignara signora Antonietta Castellone: anni fa, il consulente informatico Gioacchino Genchi scoprì che alcune conversazioni con Villa Igiea erano avvenute pochi giorni prima della strage Borsellino, il 13 e il 17 luglio 1992. I boss di Castellammare non sono stati comunque mai indagati per l' eccidio di via D' Amelio. Però, oggi, il filo degli indizi ci fa tornare al mese di luglio che inghiottì Borsellino e la sua scorta. «Il giorno prima della strage - ha spiegato il pentito Gaspare Spatuzza - nel garage di via Villasevaglios dove si caricava la 126 di esplosivo, c' era un uomo che non conoscevo ». Un altro misterioso artificiere. Lo stesso di Capaci?

“A Capaci l’artificiere di John Gotti”. Le rivelazioni del pentito Avola. Ventisette anni dopo 2 nuovi indagati per la strage Falcone: sono i boss della mafia catanese che avrebbero portato a Palermo una parte dell'esplosivo. Affari Italiani. Martedì, 21 maggio 2019. "Il forestiero arrivò a Palermo nei primi mesi del 1992, aveva circa 40 anni, capelli castani, occhi scuri, alto 1.85, corporatura robusta e vestito in maniera molto elegante. Lo incontrai a Catania, a casa di Aldo Ercolano, che mi disse: ‘Oggi hai conosciuto una persona importante’”. Questa è la rivelazione del pentito Maurizio Avola che apre un nuovo scenario sulla strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la sua compagna Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Come scrive la Repubblica, i magistrati della procura di Caltanissetta hanno iniziato a lavorare su una nuova pista circa un misterioso esperto di esplosivi inviato in Sicilia dalla mafia americana per addestrare gli stragisti di Capaci. Avola ne aveva già parlato all’inizio della sua collaborazione con la giustizia, nel 1994, dopo aver confessato 80 omicidi. All’epoca però, aveva detto di non sapere chi fosse ma ora l’ex killer catanese ha deciso di raccontare fino in fondo quanto sa, svelando al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone che il “forestiero” era un uomo di John Gotti, il capo della famiglia Gambino di New York. Per questa ragione, oltre ad Avola è indagato anche Marcello D’Agata, il suo “capo decina” ai tempi della strage. In quei giorni, Avola avrebbe portato “una certa quantità di esplosivo e dei detonatori a Termini Imerese” e a fargli da staffetta sarebbe stato proprio Marcello D’Agata. I verbali di Avola sono stati depositati nel processo bis d’appello per la strage Falcone: secondo l’accusa, un altro pezzo di verità, che non mette in discussione quanto già delineato dalle sentenze. Come riporta ancora la Repubblica. C’è da fare luce sui rapporti tra l’americano e l’artificiere di Capaci, il messinese Pietro Rampulla, legato ad ambienti della destra eversiva. “Ercolano mi disse che il forestiero aveva collaborato all’attentato”, dice Avola. Il pomeriggio della bomba di Capaci, uno dei telefonini (clonati) degli stragisti chiama tre volte un’utenza del Minnesota (Stai Uniti) fra le 15.17 e le 15.43.

"Nell'attentato dell'Addaura ci sono state circostanze che lasciano molto riflettere. E' pacifico che qualcuno appartenente a organi istituzionali ha tradito Giovanni Falcone". Lo ha detto Alfredo Morvillo, procuratore di Trapani e fratello di Francesca, moglie di Giovanni Falcone, partecipando stasera alla manifestazione dell'Anm nel Piazzale della memoria del Palazzo di giustizia di Palermo. Morvillo ha preso parte a un dibattito – coordinato da Giovanna Nozzetti, presidente dell'Anm di Palermo – assieme a Umberto Santino, presidente del Centro Impastato e il giornalista Salvatore Cusimano nell'ambito della manifestazione intitolata "l'80° non compleanno di Giovanni Falcone". "Durante tutta quella stagione estiva (era il 1989, ndr) Giovanni Falcone non aveva ancora mai fatto un bagno, la prima volta doveva essere proprio quel giorno in cui fu trovata la borsa con l'esplosivo sulla scogliera. Una decisione presa dopo un invito formulato alla collega Carla Del Ponte – ha detto Morvillo - una sera a cena qualche giorno prima. A quella cena ero presente e vi erano altri rappresentanti istituzionali. Non ho prove che potrebbero reggere al dibattimento, ma faccio un semplice ragionamento: che Falcone e Del Ponte condividessero uno o più segreti – ha aggiunto - e se l'attentato fosse riuscito li avrebbero portati nella tomba".

"Mio fratello Giovanni al cinema si innamorò di Zorro così che mio padre gli comprò la maschera, lo spadino... Tornato a casa pensò bene di fare la zeta di Zorro nelle pareti di raso, a piazza Magione. Mia madre lo rimproverò aspramente. Mio padre invece, non disse nulla, ma la sera non gli diede il bacio della buonanotte perché – gli disse – bisogna avere rispetto per le cose degli altri e a ciò che pensano gli altri e lui quella sera non si era meritato il bacio. Giovanni mi disse che quello fu un insegnamento che lo ha guidato in tutto ciò che faceva. E come Zorro, anche lui, era il difensore dei deboli e degli oppressi dalla mafia". E' uno dei ricordi di infanzia che la professoressa Maria Falcone, una delle sorelle del magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie e agli agenti della scorta, ha offerto agli studenti di elementari e medie del Convitto nazionale “Giovanni Falcone” e del Gonzaga. Aneddoti del giovane Falcone, studente del Convitto Nazionale. Ancora la professoressa Falcone: "Andavamo a scuola mano nella mano, e lui indossava il cappellino con le iniziali del Convitto Nazionale (CN) Io per farlo arrabbiare lo chiamavo cretino nazionale. E lui si che si arrabbiava si e volavano cartellate...". Un dibattito – veloce e gradevole – quello che si è tenuto al cinema Gaudium di Palermo, dove era in programma l'incontro su "L'eredità morale di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e padre Pino Puglisi", organizzato nel giorno di nascita di Giovanni Falcone, che oggi avrebbe compiuto 80 anni. Proiettato il film “Convitto Falcone” del regista Pasquale Scimeca, musica e teatro con Alessia Bonura, Antonio Tancredi Cadili, Salvatore Bumbello, Linda Di Dio, Pietro D'Agostino, Riccardo Perniciaro e i ragazzi del Centro Tau, lattrice Lorena Cacciatore e gli Agricantus. Al dibattito hanno preso parte, oltre a Maria Falcone, Pasqale Scimeca, Felice Cavallaro e Francesco Di Giovanni. In platea anche Vincenzo Agostino, il papà di Nino, l'agente di polizia ucciso assieme alla moglie Ida, nel 1989. "Giovanni, mio fratello, Giovanni aveva la religione del dovere, appresa nell’ambiente in cui viveva, in famiglia e a scuola. Ai miei figli diceva che per sconfiggere la mafia – ha proseguito Maria Falcone rivolgendosi ai giovani studenti – basta fare sempre e semplicemente il proprio dovere, a scuola, a casa, al lavoro".

Quando Falcone finì sotto accusa per il ritorno del pentito Contorno in Sicilia. L’Antimafia pubblica i verbali. Le carte che raccontano l'isolamento del giudice. Le domande incalzanti di alcuni commissari a De Gennaro e all’ex boss. E intanto nessuno si occupava del fallito attentato dell'Addaura. Salvo Palazzolo il 27 settembre 2019 su La Repubblica. Il 9 agosto 1989, la commissione antimafia allora presieduta da Gerardo Chiaramonte convocò il pentito Salvatore Contorno per chiedergli del suo ritorno in Sicilia dagli Stati Uniti, mentre a Palermo c’erano diversi omicidi. Ma sotto accusa non sembrava lui, in quel momento arrestato (e poi scagionato), piuttosto il giudice Giovanni Falcone. Le domande fatte al collaboratore e poi anche all’ex capo della Criminalpol Gianni De Gennaro raccontano di un clima di sospetti attorno al magistrato che a giugno i boss di Cosa nostra avevano tentato di far saltare in aria sulla scogliera dell’Addaura. Di quel fallito attentato neanche si parlava a Palazzo San Macuto. I verbali di quei giorni sono stati pubblicati oggi della commissione parlamentare antimafia presieduta da Nicola Morra: raccontano la solitudine di Falcone e dei suoi più stretti collaboratori. Mentre a Palermo tirava addirittura il venticello della calunnia, “forse il giudice se l’è fatto da solo l’attentato”. Falcone era davvero isolato. Come Paolo Borsellino. Altre carte desecretate dall’Antimafia nelle scorse settimane ricordano oggi cos’era la lotta alla mafia in quegli anni difficili. Un recupero della memoria che la commissione parlamentare sta facendo grazie a un certosino lavoro di studio e ricostruzione fatto dall’ex pubblico ministero del processo Trattativa, Roberto Tartaglia, che Morra ha voluto suo consulente. In questi giorni Tartaglia è candidato alla successione di Cantone al vertice dell’autorità anticorruzione. Quella mattina del 9 agosto, il deputato del Pci Luciano Violante chiedeva al collaboratore Salvatore Contorno: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, o ha visto il dottore Falcone nel periodo in cui era in Italia?”. Risposta: “Andavo spesso alla Criminalpol, l’ho incontrato al bar con un paio di altri magistrati”. Violante incalzava: “Io ho fatto un’altra domanda. Lei è stato interrogato dal giudice Falcone?”. Contorno: “Non ricordo perché sono venuti diversi magistrati”. Un fuoco di fila di domande. Il verde Gianni Lanzinger: “Poco fa lei affermava di essersi incontrato con Falcone al bar. Si ricor­da cosa vi siete detti?”. Risposta di Contorno: “Era un bar all’interno della Criminalpol, frequentato da molti poliziotti. Ero andato alla Criminalpol perché avevo bisogno di un dentista e io non avevo né soldi né assistenza sanitaria per cercarmene uno. Andando al bar con un agente ho visto che c’era Falcone”. E quell’episodio, del tutto banale, diventò presto un altro sospetto. “Vi siete solo salutati?”, chiedeva il deputato. “Sì”. Anche il deputato Franco Corleone, pure lui dei Verdi, chiedeva: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, oltre che vederlo al bar?”. Contorno: “Quando?”. Corleone: “Non lo so, chiedo a lei… perché a noi risulta che ci sia stato l’interrogatorio”. Il deputato Salvo Andò puntava invece De Gennaro: “Lei aveva parlato col giudice Falcone del ritorno di Contorno?”. Il poliziotto chiariva che il “giudice Falcone lo ha anche interrogato nel mio ufficio”. Non c’era davvero nessun mistero in quel ritorno in Italia del pentito, che lamentava di non avere assistenza, all’epoca non c’era ancora la legge sui collaboratori:  “Contorno manifestò la sua situazione di insofferenza già negli Stati Uniti… voleva tornare in Italia”, spiegava De Gennaro. Ancora Violante: “Ci è risultato strano che Contorno, che su tante cose è preciso nel ricordare, non ricordava di essere mai stato interrogato in procura”. Risposta del poliziotto: “Forse da Falcone è stato interrogato più volte, non so, questa può essere una spiegazione”. E a quel punto Violante sbotta: “Lei si è reso conto che il problema delicato della permanenza di Contorno in Sicilia e quello relativo al rapporto tra Contorno e l’organizzazione mafiosa per un verso e in secondo luogo dei rapporti fra Contorno e settori istituzionali in quel periodo è il punto delicato della vicenda. In sostanza bisogna capire se Contorno è stato in quel periodo fonte informativa consapevole, se è stato lì per acquisire notizie e passarle a qualcuno”. E dopo questa considerazione, un’altra domanda: “E’ accaduto questo?”. Risposta netta di De Gennaro: “Ho già risposto di no per quanto riguarda il mio ufficio. Anche teoricamente ne ho spiegato la ragione. Posso dire che per quanto mi riguarda non ho avuto informazioni, tranne quelle di ordine generico”. Poi, l’Antimafia chiuse il caso. Ma intanto il tam tam dei sospetti, alimentato in quei mesi dalle lettere anonime del Corvo, aveva reso ancora più solo Giovanni Falcone.

L' Autista di Falcone all' Antimafia. L'unico superstite, "mi disse diventerò procuratore nazionale". (ANSA 26 settembre 2019). "Avrei sperato di essere su questi banchi molto prima: non ho avuto possibilità di dare il mio contributo". A distanza di 27 anni dal terribile attentato di Capaci che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti di scorta, l'unico testimone diretto sopravvissuto a quella strage ha deposto davanti alla Commissione parlamentare. Una "amnesia" inspiegabile per Giuseppe Costanza, l'autista di Falcone con cui il magistrato aveva un rapporto strettissimo di stima e fiducia. Tanto da confidargli una notizia non ancora ufficiale che doveva restare riservata. "E' fatta: io sarò il procuratore nazionale antimafia prenditi il brevetto per l'elicottero". A riferire questo particolare, raccontato da Costanza ai commissari durante l'audizione svoltasi a porte chiuse e il cui contenuto è stato in parte 'secretato', è stato un altro magistrato che conosceva molto bene Falcone, il senatore Pietro Grasso, ex procuratore a Palermo e alla Dna.

·         In ricordo di Cesare Terranova.

In ricordo di Cesare Terranova. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta il 25 settembre 2019 su La Repubblica. Sono passati quarant'anni. Era la fine di una di quelle estati infami di Palermo e, fra le vie della città nuova, la mafia sparava ancora. Un altro “delitto eccellente”. Dopo il giornalista Mario Francese, dopo il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina, dopo il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il 25 settembre 1979 era toccata al giudice Cesare Terranova. Ucciso insieme al fedele maresciallo di polizia Lenin Mancuso che era la sua ombra, ucciso due giorni prima del suo ritorno nel tribunale palermitano come consigliere istruttore. Un omicidio di tipo “preventivo”. Faceva paura il suo arrivo in Sicilia. Era stato il giudice che fra il 1955 e il 1960 aveva “scoperto” i Corleonesi, prima fra tutti Luciano Liggio ma anche quei due "contadini” cresciuti ai piedi della Rocca Busambra che avrebbero conquistato un quarto di secolo dopo una sinistra notorietà nel mondo: Totò Riina e Bernardo Provenzano. Li trascinò tutti a giudizio per associazione a delinquere di tipo semplice (l'associazione mafiosa allora non esisteva per la legge italiana) e, come tradizione giudiziaria voleva , vennero tutti assolti per insufficienza di prove. Terranova era uno di quei magistrati - pochi, pochissimi in verità - che aveva compreso sino in fondo e già allora la pericolosità della mafia siciliana. Uomo colto, appassionato, fu deputato come indipendente di sinistra nella lista del Partito Comunista nel 1972 e nella successiva legislatura fu rieletto e nominato segretario della Commissione Parlamentare Antimafia. Proprio quella di Pio La Torre, quella della straordinaria relazione di minoranza che ancora oggi è il primo documento da studiare per capire le mafie. Se in quel lontano settembre Cesare Terranova fosse davvero diventato consigliere istruttore a Palermo e se Gaetano Costa fosse rimasto procuratore capo della repubblica (anche lui ucciso nell'agosto del 1980), la storia di quel Tribunale con due uomini così forse sarebbe stata un'altra ancora prima del pool di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Ma quei due magistrati erano “troppo” per Palermo e per la Sicilia, troppo onesti, troppo rigorosi, troppo lucidi. Da eliminare a tutti i costi. Per anni e anni si è alimentata l'idea che a volere la morte di Cesare Terranova fosse stato solo Luciano Liggio per consumare la sua vendetta. Una visione molto semplicistica e restrittiva, banale. Terranova è stato uno dei bersagli di un piano politico-mafioso che l'anno successivo - il giorno dell'Epifania - avrebbe portato anche all'uccisione del Presidente della Regione Piersanti Mattarella e poi all'assassino di tanti altri poliziotti e carabinieri. Sino all'autobomba del luglio 1983, quella che fece saltare in aria anche il suo successore: Rocco Chinnici. Una strategia della tensione che dal fronte Nord del Paese si era spostata al fronte Sud, nell'isola. Figura troppo spesso dimenticata dalla propaganda antimafiosa come se fosse una vittima di serie "B”, vogliamo dedicare a lui questa serie del Blog con la testimonianza dei familiari e con il ricordo di qualche suo collega. Ma apriamo la serie riprendendo i testi di un piccolo volume che gli hanno dedicato nel 1982 (“Cesare Terranova in memoria") con il patrocinio dei comuni di Castellana Sicula, Petralia Soprana, Petralia Sottana, Polizzi e Scillato, tutti paesi della Madonie, le radici di Cesare Terranova. Il volume ha una prefazione preziosa di Leonardo Sciascia. Ci sono una dozzina di interventi, firmati anche dal pittore Bruno Caruso, da Emanuele Macaluso, dal cardinale Salvatore Pappalardo, dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e dalla Presidente della Camera dei Deputati Nilde Jotti. C'è anche qualche scritto del giudice, ci sono un paio di interviste rilasciate alla vigilia della sua morte, c'è il testamento di Cesare Terranova consegnato alla moglie Giovanna. E i ricordi di tre nipoti. Un omaggio all'uomo e un omaggio al magistrato. (Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo e Valentina Nicole Savino).

Uomo di grande coraggio civile. Sandro Pertini riportato su La Repubblica il 29 settembre 2019. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini - Il suo intervento tratto dal volume "Cesare Terranova in memoria”. Con Cesare Terranova fummo colleghi in Parlamen­to nella VI e VII legislatura. Quale Presidente della Camera seguivo con particolare attenzione i neoeletti perché ho sempre pensato che tanto più le istituzioni democratiche possono consolidarsi quanto è maggiore il numero dei cittadini integri e preparati che scelgono di servire la Repubblica al meglio delle loro possibilità. Compresi subito che la personalità di Cesare Terranova, magistrato della Corte di Cassazione, eletto nel 1972 in entrambe le circoscrizioni della Sicilia, avrebbe arricchito la Camera di un'esperienza umana e professionale preziosa. Terranova, anzitutto, era Uomo di grande coraggio civile e di esemplare onestà. Aveva, quale giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo, affondato il bisturi nella piaga purulenta della mafia, senza riguardi per alcuno; nuovamente si era imposto come magistrato scrupoloso ed impavido quale Procuratore della Repubblica a Marsala. Egli accettò di proseguire la lotta contro il crimine organizzato nella Commissione d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, alla quale dette un contributo che giudico determinante per la conoscenza dell'ambiente sociale e politico, delle forze oscure e dei legami internazionali che alimentano il cancro della mafia. Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l'isola attraversava dall'economia del feudo e rurale all'economia industriale e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo. Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, anche da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d'animo: speranza nel futuro dell'Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della  sua vita, fervida integra ed operosa, non è stato vano. Ancor una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia.

La sua “preziosa” esperienza in Parlamento. Nilde Jotti su La Repubblica il 2 ottobre 2019. Il primo vivido ricordo che ho di Cesare Terranova risale  ad  una  diecina  d'anni  prima  che  lo  conoscessi. Erano  gli  anni roventi  della mafia palermitana,  e proprio le inchieste e le sentenze  di Terranova furono elemento decisivo per trovare la chiave risolutrice degli interrogativi che mi ponevo ogni volta che mettevo piede a Palermo: perché la distruzione del liberty di via Libertà? Come si può abbattere in una notte un gioiello come Villa Deliella? Perché la pianta della nuova città è stata  tracciata  a raffiche di mitra dalle bande mafiose? Cesare  Terranova aveva non  solo  intuito ma anche dimostrato che dietro i gangsters e i divoratori della città - e a farne la vera forza - c'era un potere politico reale, c'erano uomini e forze dell'amministrazione comunale di Palermo. E aveva chiamato in causa i responsabili, con determinazione, rigore e coraggio: non denunciava il potere solo a parole, o solo genericamente. A  quella del giudice onesto e intemerato, un'altra e ancor più sorprendente immagine di Cesare Terranova più tardi si aggiunse: e oltre l'intelligenza critica stavol­ta colìi anche il mio  cuore. Fu in occasione della  sua lunga inchiesta per un fatto di cronaca che angosciò tutta l'Italia:  la scomparsa  e l'uccisione  delle tre povere bambine di Marsala. Mi colpì, allora, l'assoluta discrezione e l'intelligente umanità con cui non solo aveva resistito e reagito alle suggestioni inquisitorie e al clima da caccia alle streghe che, nell'impasse di quella difficile inchiesta, si andavano creando; ma aveva alla fine anche risolto il caso con una  sagacia ed un tatto francamente insoliti. Potei dirgli di questi miei sentimenti solo nell'estate del '72 quando Cesare Terranova, da poco eletto a Montecitorio, pronunciò in aula un breve intervento con quel suo tono discreto ed essenziale che aveva subito colpito molti e più vecchi colleghi. Ero vice­presidente della Camera, allora, ed era toccato a me, quel giorno, dirigere i lavori. Lo feci chiamare al banco della presidenza,  mi felicitai, gli augurai buon lavoro anche fra noi. Vinse a stento la timidezza. Lo rividi piu volte in quella breve legislatura; ed in quella successiva, ancor piu breve ma cosi intensa, che fu  segnata  dall'esperienza  della  solidarietà  nazionale. Cesare Terranova era assai impegnato nei lavori conclusivi  della commissione parlamentare  Antimafia. Assolveva al suo mandato parlamentare con impegno, con scrupolo. Non era comunista, certo; ma esprimeva con grande coerenza i sentimenti di quella parte - così significativa in Sicilia - della borghesia intellettuale che non si rassegna, che opera attivamente, che sa collegarsi con le forze nuove della democrazia e del progresso. Eppure colsi in lui - sotto sotto - una riserva mentale: considerava l'incarico parlamentare non come uno scopo ma come un'esperienza che gli sarebbe stata utile, «preziosa» mi disse anzi una volta, al momento della ripresa del suo impegno in magistratura.  Che venne da lì a poco. Non lo rividi. Seppi soltanto, nell'estate del '79, che avrebbe assunto uno dei più alti e delicati uffici giudiziari della Sicilia. Ma alla ripresa dei lavori parlamentari, un pomeriggio di fine settembre, toccò ancora a me pronunciare nell'aula di Montecitorio il nome di Cesare Terranova, per annunciare il barbaro assassinio suo e del maresciallo Lenin Mancuso consumato appena poche ore prima a Palermo; e per denunciare come e quanto fossimo di fronte ad un'azione criminale che metteva in forse la libertà della politica e che per questo colpiva e colpisce tutti noi. Avvertimmo subito quel delitto come strumento, come pratica di intervento nella vita politica e sociale, per condizionarla profondamente e per imporle inammissibili limiti. Per questo, la scelta di Cesare Terranova non appariva e non era casuale: a chi ha bisogno di una Sicilia addormentata e dove nulla si muova, la sua tenacia e la sua passione facevano paura. Non avemmo nemmeno molto tempo per le lacrime e le condanne: sentimmo - e altri tragici segnali ne diedero la conferma, ultimo nel tempo l'assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, cosf tragicamente simile - che l'attacco aveva potuto ulteriormente dispiegarsi perché non era stato fatto tutto quel che si poteva e doveva fare per combattere il terrorismo politico-mafioso. A cominciare dalla definizione e dall'uso di quei pm adeguati e moderni strumenti di lotta cui tra i primi aveva pensato Cesare Terranova, forte di una esperienza che è stata e resta preziosa per quanti continuano a battersi, anche in suo nome, per una Sicilia ed un'Italia moderna e civile.

Quell'incontro nel 1963, Rocco Chinnici il 28 settembre 2019 su La Repubblica. Il consigliere Rocco Chinnici con il giudice Falcone e il commissario Cassarà - Il suo ricordo del giudice tratto dal volume "Cesare Terranova in memoria”. Conobbi Cesare Terranova nell'ormai lontano 1963. Ero allora Pretore in un Comune della provincia di Tra­pani; a seguito di gravi fatti delittuosi (omicidi, rapine) mi ero occupato, nella fase delle indagini preliminari di due associazioni per delinquere, in una delle quali figu­rava uno dei piu grossi personaggi della mafia del tra­panese. Avevo seguito attraverso la stampa l'opera te­nace e coraggiosa  di Cesare Terranova, e pur senza averlo conosciuto, nutrivo per lui sincera ammirazione. Nel 1963, credo nel mese di maggio, era pervenuta in Pretura  da  parte  di  Terranova,  una  richiesta  di  atti istruttori. Ritenni necessario incontrarmi con lui per dei chiarimenti. L'incontro avvenne nel suo ufficio, a Palazzo di Giu­stizia. Ero, in certo modo, imbarazzato; Terranova, al culmine della notorietà, io, modesto pretore di una piccola Pretura. Gli diedi del Lei. Egli, con cordialità e con naturalez­za, mi diede del tu e mi chiese di dargli del tu. Venuto a Palermo, nello stesso ufficio, stabilimmo un rapporto di cordialità e di amicizia. L'uomo dall'aspetto severo, aveva una carica di umanità che conquistava; e perciò non esitai durante l'istruzione di uno dei piu gravi processi dell'ultimo ventennio, a chie­dergli qualche consiglio. Lo ricordo e lo ricorderò, finché avrò vita, come uno dei migliori magistrati che ho avuto modo di conoscere. Nel Suo ricordo, assieme ai giudici dell'Ufficio istruzio­ne al quale egli era tanto legato, continueremo la Sua azione per l'affermazione dei principi di giustizia e di ci­viltà.

Una voce inascoltata. Aldo Rizzo su La Repubblica l'1 ottobre 2019. Aldo Rizzo, alla sinistra di Giovanni Falcone - Magistrato, deputato della Sinistra Indipendente, vice sindaco della prima giunta Orlando a Palermo. I miei primi incontri con Cesare Terranova risalgono ai tempi in cui ero uditore giudiziario al Tribunale di Palermo.  Allorché fui assegnato all'ufficio di istruzione per compiere il tirocinio, chiesi di lavorare con Cesare Terranova, che già conoscevo per fama. Mi aspettavo un magistrato duro, severo, poco incline al dialogo ed invece venne fuori, sin dai nostri primi incontri, l'immagine di un uomo aperto, dotato di grande umanità, pronto alla discussione. Trovai in Cesare Terranova un uomo giusto, leale, comprensivo con i deboli, inflessibile con i potenti e un sincero amico, disposto a dedicare parte del suo tempo prezioso per trasmettere a me uditore l'alto concetto che egli aveva della funzione del giudice. I nostri contatti si diradarono allorché egli lasciò l'ufficio di istruzione di Palermo per ricoprire l'incarico di Procuratore della Repubblica a Marsala. Ripresi a frequentare Cesare Terranova quando egli fu eletto al Parlamento e svolse un ruolo di primaria importanza nella Commissione giustizia della Camera dei Deputati e nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia. Era il Cesare di sempre. Volle numerosi incontri con me e con altri magistrati per sentire il nostro parere su sue proposte, su sue iniziative parlamentari che erano sempre nel senso di garantire al massimo la credibilità e l'efficienza delle Istituzioni, e della Magistratura in particolare, e di assicurare, nel più ampio rispetto dei diritti di libertà dei cittadini, la capacità dello Stato a combattere tutte le pili gravi forme di criminalità, prima fra tutte la mafia. Nei tanti discorsi che avemmo, affiorava spesso in Cesare Terranova una preoccupazione che i tempi si sono incaricati di dimostrare quanto fosse fondata. Egli aveva netta la consapevolezza che la mafia, se non fosse stata prontamente ed adeguatamente affrontata, ogni giorno di più avrebbe aumentato le dimensioni delle sue attività, dei suoi interessi, la sua penetrazione nei settori più delicati della vita economica ed istituzionale, avrebbe aumentato il suo potenziale criminoso, la sua tracotanza sino al punto di sfidare lo Stato in tutte le sue  articolazioni. Una preoccupazione che egli manifestò in Parlamento innanzitutto. Ma il suo monito rimase inascoltato come se non fosse la meditata riflessione di chi aveva una profonda conoscenza del fenomeno mafioso, e una chiara percezione della sua pericolosità, attraverso la notevole esperienza che aveva maturato con l'istruzione di numerosi e gravosi processi di mafia. A me che adesso ripercorro quella strada che fu la sua, è dato di constatare, di toccare con  mano, quanto sia stata notevole l'impegno profuso in Parlamento da Cesare Terranova, quanto fosse grande la sua sete di giustizia, quanto egli abbia lottato, anche in quella se­de, con fermezza, lucidità e concretezza di proposte, per richiamare l'attenzione del Parlamento e del Gover­no sulla gravità e pericolosità del fenomeno mafioso. Per questo suo impegno Cesare Terranova è stato ucciso. La mafia lo ha vilmente e barbaramente assassinato perché era un simbolo, un chiaro punto di riferimento per chi crede nei valori della giustizia, per chi non si rassegna a considerare la cancrena mafiosa un male inestirpabile della nostra terra di Sicilia. Ed era un simbolo perché la sua era una battaglia solitaria, portata avanti nella completa inerzia e indifferenza di chi aveva responsabilità di governo. A tutti noi che gli fummo vicini, che crediamo nei valori di libertà e democrazia e nel riscatto morale della nostra isola, non rimane che un preciso dovere: quello di continuare il suo lavoro, con la stessa tenacia, con lo stesso vigore. Questo è il modo migliore di onorare la memoria di Cesare Terranova, e, con la sua, quella di Giuliano, di Russo, di Basile, di Costa, di Mattarella; di La Torre, di Dalla Chiesa e di tutti coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno contro la mafia, al servizio del popolo siciliano.

Un omicidio “preventivo”,  di Emanuele Macaluso su La Repubblica il 27 settembre 2019. Ricordo sempre quel giorno del 1972 che incontrai a casa sua Cesare Terranova per offrirgli la candidatura come indipendente nella lista del PCI per la Camera. Sapevo che egli non era uomo impegnato nella battaglia politica e che certamente era distante dalle posizioni ideologiche del Partito comunista. Ma sapevo anche dai suoi comportamenti del suo eccezionale impegno civile e morale e della sua determinazione per fare trionfare la giustizia. Proprio in quei giorni il suo nome era su tutti i gior­nali per la tragica vicenda delle tre bambine scomparse e uccise a Marsala dove Terranova esercitava la funzio­ne di Procuratore della Repubblica e dove come tale condusse, con grande sagacia e umanità l'indagine che portò alla identificazione dell'assassino. Ma Cesare Terranova a Palermo era ben noto da tempo come il giudice istruttore dei processi più clamo­rosi e più difficili contro la mafia. Io non lo conoscevo personalmente a quel tempo, ma ero rìmasto colpito dalla lettura della sentenza istruttoria con la quale egli aveva incriminato il potente e feroce gruppo dei La Barbera. Per la prima volta con questa sentenza un magistrato ha indicato nel comune di Palermo il centro d'in­teressi che alimentava la speculazione edilizia e mafiosa. Terranova restò sorpreso dalla mia proposta, ma capii subito che apprezzava il fatto che un grande partito operaio si rivolgesse a uomini come lui per condurre al­la Camera, in piena indipendenza, la stessa battaglia che aveva condotto nelle aule giudiziarie. Terranova assolse per due legislature il suo mandato parlamentare con scrupolo e capacità da tutti riconosciuti. Ma restava il giudice Terranova. Anzi, tutti continuavano a chiamarlo solo «il giudice Terranova», quasi come un simbolo dell'incarnazione della giustizia nella sua accezione più ampia e più profonda. Cesare Terranova è stato assassinato per il suo impe­gno politico e per quello che avrebbe fatto in uno dei più alti e delicati uffici giudiziari di cui si apprestava ad assumere la responsabilità. Egli conosceva bene, molto bene i nemici che combatteva e quindi i rischi che correva. Ma mai, nemmeno per un momento, pensò di tirarsi indietro.

Una mutilazione familiare. Vincenzo Terranova riportato da La Repubblica il 9 ottobre 2019. L'autore del testo è il nipote Vincenzo Terranova. Ci sono eventi funesti che restano impressi nella memoria per immagini forti e dense, con una potente valenza simbolica ed evocativa del dramma vissuto. Ecco, a quel 25 settembre 1979 mi riportano con immediatezza un paio di occhiali neri, indossati da mio padre Tullio, che mai li aveva portati, subito dopo avere appreso dell’assassinio del fratello. Quel gesto, tra la rabbia e il dolore fu accompagnato da laconiche parole: schermate dalle lenti scure forse anche per non accentuare l’ansia mia e della più piccola, sorella. Il nero di quelle lenti aveva improvvisamente oscurato una bellissima giornata di settembre. Dopo un lungo viaggio in macchina il sole si riaffacciò durante il passaggio sullo Stretto ma ormai eravamo soli con noi stessi, muti, squassati dalla sofferenza: questa era per noi figli moltiplicata pensando al dolore di mio padre, per il quale il fratello maggiore era un riferimento forte, un approdo sicuro, un gioioso inesauribile compagno di vacanze e di momenti ludici, una rappresentazione vivente della sua Sicilia, da cui Tullio si era allontanato dopo la laurea, per le nebbie del nord e l’avvio al lavoro. Cesare, con la sua fierezza, la sua solare energia e passione, la sua umanità era in effetti un monumento alla terra sua e del fratello. E per il fratello dovette essere terribile il vile abbattimento di tale monumento e noi avvertimmo la mutilazione violenta patita da nostro padre. Spesso la morte sortisce un effetto moltiplicatore, legato alla rete di rapporti nella quale siamo avvinti e all’intensità di essi. Ci sono nelle abitazioni i cosiddetti muri portanti, quelli che non si possono rimuovere, che è pericoloso anche solo intaccare: ecco, Cesare era per Tullio, per la sua famiglia di origine, per tutti noi un muro portante. E alla caduta di un ‘muro portante’ e così al crollo della casa noi tutti pensammo dietro e accanto a quelli occhiali neri di Tullio. Probabilmente la mafia uccise Cesare Terranova proprio perché era un muro portante, come poi ne colpì altri, rappresentati da valenti e coraggiosi servitori dello Stato.

Noi bimbi lo vedevamo come un eroe. Francesca Terranova su La Repubblica il 10 ottobre 2019. Il giudice Cesare Terranova - L'autrice del testo è una delle nipoti del magistrato. Noi nipoti a Roma dello zio a Palermo sentivamo raccontare la nonna, e papà Tullio. Ero bambina, era il 1971: mi colpirono i terribili racconti dell’omicidio delle tre bimbe di Marsala, ascoltati qua e là. Antonella Valente, Ninfa e Virginia Marchese, 9, 6 e 8 anni. Lasciate agonizzare e morire di fame in un pozzo da Michele Vinci, zio delle sorelle Marchese, che nei giorni delle ricerche si era sempre mostrato preoccupato, addolorato. Il mostro di Marsala, come lo definirono i giornali. Furono successivamente considerate altre implicazioni, ma Vinci resta l’unico colpevole accertato, condannato a 28 anni di carcere, oggi in libertà. A casa si raccontava degli estenuanti e drammatici interrogatori dello zio che portarono alla confessione. Lo vedevo come un eroe, che aveva fatto giustizia per tre bambine come me. C’erano poi le estati siciliane, quelle dell’adolescenza, a Marina Longa, vicino Palermo. Lo zio Cesare e la zia Giovanna ci venivano a trovare al mare, spesso con amici, ad esempio Emanuele Macaluso, Renato Guttuso. Era il mondo dei grandi, ma io spesso mi mettevo sugli scogli vicino a loro, perché quello zio non lo vedevo mai e mi affascinava il suo sorriso ironico e buono. D’inverno, durante l’esperienza parlamentare, lo vedevo a Roma da noi, lo ricordo nel mio salotto, oppure al piano terra, a casa della nonna Maria. Che gioia per lei e per noi il suo arrivo! Quel 25 settembre 1979 ero in classe, quando entrò un bidello, la professoressa mi chiamò alla cattedra e mi disse che dovevo tornare subito a casa, mio zio aveva avuto un incidente. Il flash stampato nella mente è quello della nonna, della mamma Maria, come la chiamavano i figli, in aeroporto: piangeva muta, curva. Poi il volo per Palermo, la casa degli zii colma di gente, la zia in camera sua, gli amatissimi sempre sul letto. Il funerale in cattedrale, le tante parole. So che Cesare Terranova, rifiutando la candidatura alle elezioni europee, e tornando a indossare la sua toga, forte di una più profonda comprensione del fenomeno mafioso, aveva una visione, intendeva perseguire Cosa Nostra con strumenti più affinati, con determinazione, e coraggio. Sì, perché quando a 56 anni scrivi il tuo testamento, avendo cura di sistemare ogni piccola cosa, sai che non ti vuoi fermare. Gli assassini e i mandanti lo hanno fisicamente fermato, ma il suo sacrificio e quello della fidata guardia del corpo Lenin Mancuso sono certamente serviti, hanno ispirato il lavoro di chi è venuto dopo, e hanno contribuito a minare le fondamenta della struttura di Cosa Nostra.

Mio zio Cesare. Fabrizio Zanca su La Repubblica l'11 ottobre 2019. L'autore dell'articolo è uno dei nipoti del giudice Cesare Terranova. “Nino, non aver paura di tirare un calcio di rigore...” è il refrain di una canzone di De Gregori che m’ha fatto capire che solo chi ha il coraggio di tirarli, ‘sti calci di rigore, può sbagliarli, assumendosene tutte le responsabilità e le conseguenze. Insomma, bisogna avere coraggio per fare e ancora più coraggio di accollarmi lo sbaglio quando si sbaglia, la gloria quando si fa gol. E le persone che sono in grado di fare (e magari di sbagliare) sono poche, si contano sulle punta di due mani, sono quelle che fanno la storia, a volte la propria storia personale. Una di queste era mio zio Cesare. L’uomo che sapeva fare, che sapeva prendere la gente per il loro verso, che raramente sbagliava ma se lo faceva se ne assumeva le responsabilità fino alla fine, che sapeva cioè essere coerente col proprio modo di pensare la vita, la professione e le persone. Oggi, a quarant’anni dalla sua morte, mi trovo a rivederne i gesti quotidiani e quelli ufficiali davanti le telecamere, i sorrisi luminosi di una persona sicura di sé e quelli da gatto mammone che si divertiva per celia a fare l’orco coi bambini, ma che rimaneva comunque sempre candido e trasparente. A metà estate, con la complicità di una notte serena è illuminata dalle stelle, mi piacerebbe che una di quelle cadenti, restasse in cielo più a lungo per lasciarmi esprimere un semplice desiderio: ritornare indietro ai miei dodici anni (l’età è approssimativa, ma poco importa), a quella volta in cui lo zio Cesare mi prese con sé a bordo della sua macchina di servizio, mi pare fosse una Alfa Romeo, e mi portò in giro fino a Mondello, dove credo la zia ‘Na lo aspettava. Zia ‘Na era la zia Giovanna, quella donna straordinaria che, quando la chiamai da Parigi dopo l’uccisione di zio Cesare e le chiesi se avesse voluto che tornassi per i funerali, mi rispose che avrebbe voluto tantissimo solo non vedere i miei occhi lucidi, quasi pregandomi di rimanere al largo da quella barbarie. Dunque io e zio Cesare eravamo in macchina, noi dietro, il maresciallo Mancuso alla guida, e andavamo verso Mondello in una giornata di mezza estate per passare una giornata al mare. Mi raccontava, per strada, della sua stanza in tribunale, quella stanza a piano terra piena di carte e con una immancabile macchina da scrivere, (la stessa che ritrovai sulla sua scrivania a casa e che ebbi come ultimo suo ricordo), piena di gagliardetti dei Carabinieri o della Polizia, di foto, ritratti, faldoni e carpette, piena di quella sua vita così intensa e così pericolosa che il solo pensarci metteva un po’ di paura, quasi fosse l’anticamera della giustizia quella vera, con la G maiuscola. Mi raccontava che in quella stanza erano passate persone famose che venivano a trovarlo soprattutto dopo la vicenda del ritrovamento delle bambine di Marsala, magari facendogli perdere tempo che avrebbe voluto dedicare a qualche altro caso più impellente, ma erano visite alle quali non sapeva dire di no perché, seppure gli facessero perdere tempo, lo distraevano e rilassavano. Aveva tempo di fumarsi la sua ennesima sigaretta sorseggiando un whisky (che immagino avesse sempre a portata di mano, magari dentro un cassetto, o forse se lo portava in tasca in una delle sue centomila bottigliette colorate formato mignon di liquori di cui faceva collezione). Lo zio Cesare era per me un signore a volte burbero e severo, mi ammoniva, mi prendeva in giro, mi faceva piccole angherie fanciullesche, e mi trattava al tempo stesso da bambino grande ed io ne avevo non dico paura, ma soggezione, si. Io mi chiedevo perché mai un uomo della sua stazza (me lo ricordo come un gigante forzuto, dietro a un paio di occhiali fumé, con mani enormi in grado di stritolarti ma che non avrebbe mai alzato contro nessuno) si metteva a parlare di storie così complicate con un ragazzino adolescente col quale, mi sembrava, avesse poca confidenza e che non era in grado di articolare una risposta sensata alle sue argomentazioni. Poi, ad un tratto, senza alcuna premeditazione, gettò lì, nel bel mezzo della Favorita, una domanda che mi sembrava covasse da un po’ di tempo, come se non riuscisse a trovare un modo per farmela. Insomma, ad un certo punto, mi chiese, a bruciapelo: “Ma tu, non hai paura di venire in macchina da solo con me?”

“Perché?” Risposi di getto, senza pensarci.

“Ma, che so, se mi capitasse qualcosa, se ci fosse un incidente...”

Capii anni dopo a che tipo di incidente lui facesse riferimento e ripensai anche alla stupidità da dodicenne con la quale risposi al suo dubbio: “Ma tu sei forte, a te non possono capitare gli incidenti...” risposta che mi dà, oggi per allora, il senso della sua fragilità nascosta dietro un sorriso che diceva e non diceva, dentro a un’anima aperta più verso gli altri che a se stesso, a cui pensava solo incidentalmente, non curandosi del fatto che potesse avere “un incidente”, ma preoccupandosi soprattutto che in quell’incidente potesse rimanere coinvolto qualcun altro, un suo caro, una persona amica.

“Hai ragione”, mi rispose, “a me gli incidenti non capitano, e poi non bisogna averne paura...” e mi guardò lasciandosi dietro una risata roboante, quella stessa che rivedevo a Natale a casa della nonna quando organizzava il mercante in fiera per i nipoti o nel giardino della zia Mimmi a Pasqua per la cerca delle uova.

Questo suo amabile modo di fare con tutti, lo rivedo nelle tante cose che della sua vita che a poco a poco vengono a galla, con puntualità: la casa di Scillato col suo aranceto, lo studio di casa a Palermo tappezzato di disegni d’autore e riconoscimenti d’ogni genere, la curiosa sensazione nel ritrovare blocchetti di carta e carpettine in cartoncino intestate al Senato della Repubblica, i libri di storia che affollavano disordinatamente le sue librerie, le spade appese all’ingresso di casa che intimorivano e ammonivano, le persone che lo circondavano, zia ‘Na, gli amici del bridge, quelli della Vela, quelli del Tribunale, e poi il curioso straniamento di ritornare in quella casa e non trovarlo più. A volte - e me ne ricordo soprattutto dopo il caso di Marsala - appariva in tv per rilasciare qualche breve intervista e allora era una festa; “venite c’è lo zio Cesare in tv” urlava mamma dal suo salottino e noi figli a precipitarci per ascoltare parole che magari non capivamo in pieno, ma che ci sparavano addosso quell’aura di notorietà che ci faceva grandi e delle quali il giorno dopo avremmo potuto vantarci con i compagni di scuola. Mi raccontava zia ‘Na, che una volta, lui e Lenin Mancuso, erano andati da soli a Corleone, a snidare Luciano Liggio e camminavano, quasi fosse una sorta di spaghetti western, nella strada principale del paese, al centro della carreggiata che era assolutamente deserta, mentre da dietro gli scuri probabilmente le donne scrutavano l’andatura di quello strano personaggio e gli uomini fingevano indifferenza e insofferenza. Immagino quella scena come un frame di un film mai girato da Tarantino, in un pomeriggio afoso e col solo sottofondo del frinire delle cicale, mentre due uomini, di cui uno con la giacca appoggiata sulla spalla e tenuta da un solo dito, attraversano il centro senza che si muova una mosca. Dal fondo della scena si vede la strada assolata tremolante di vapore acqueo e poi, come da un orizzonte prossimo, due figure sembrano apparire come sorge il sole, prima le teste, poi il resto del corpo. Uno ha una sigaretta fumante fra le labbra, l’altro è più guardingo, ma spavaldo anch’esso; si fermano in un bar, fanno qualche domanda a cui non ricevono risposta e proseguono oltre, certi che questa loro visita nel sancta sanctorum del nemico, questo passeggiare ostentato a casa di chi potrebbe con uno schiocco delle dita, li e subito, farti fuori, è più importante di qualsiasi atto d’accusa, è una presa di posizione coraggiosa e feroce al tempo stesso, un dirti io sono qua, a casa tua, vengo e non ho alcuna paura perché tanto a me gli incidenti non capitano e io non ho alcuna paura di tirare i calci di rigore. Così, in questa tiepida serata di metà agosto, a quarant’anni di distanza, ripassando la storia e le storie che mi hanno attraversato la strada, rivedo una dietro l’altra, le sensazioni e le paure, le angosce e le sorprese, la fama e la notorietà di quello che fu mio zio Cesare, assassinato da coloro di cui non ebbe mai paura.

La lettera-testamento alla moglie Giovanna. Cesare Terranova pubblicata da La Repubblica  il 4 ottobre 2019. Istituisco erede universale mia moglie Giovanna Giaconia e intendo, con questa decisione, manifestarle ancora una volta l'affetto e la stima profondi che ho sempre nutrito per Lei, la riconoscenza per tutte le cose belle e buone che mi ha dato, la gratitudine per essermi stata vicina in tutti i momenti importanti o dolorosi della nostra vita, rammaricandomi soltanto di non essere sempre riuscito a darle quello che avrei voluto e a capirla come desiderava e come meritava. È in me indelebile il ricordo dei lunghi anni felici trascorsi insieme in armonia ed in piena comunione di spirito, ricchi di affetto e di comprensione reciproca, anche negli errori e nei dissapori, mai più forti del legame sincero e profondo che ci ha unito. Prego mio nipote Gianni Maniscalco di volersi assumere il fastidioso onere di esecutore testamentario e di occuparsi soprattutto della sistemazione delle mie attività e passività, di riscossioni e pagamenti, delle pratiche relative alla pensione ed alla indennità di liquidazione (come deputato e come magistrato), alle assicurazioni (comprese, eventualmente quelle per infortuni) spettanti a Giovanna, in modo da evitarle preoccupazioni e fastidi. Prego, altresì mio nipote Gianni di volere, d'intesa con Giovanna, provvedere alla conservazione o alla destinazione o alla distruzione dei miei numerosi documenti (quasi tutti custoditi nello stipetto della libreria vicino alla poltrona) relativi alla mia attività giudiziaria soprattutto nel decennio «caldo»...Non possiedo beni immobili. Quanto ai beni mobili, desidero che restino tutti in assoluta proprietà di Giovanna, alla quale rivolgo preghiera di donare a ciascuno dei miei fratelli, delle mie cognate (più Chicco), dei miei migliori amici (Giovanna li conosce bene tutti) uno dei miei tanti oggetti personali, più o meno di valore, ai quali, beninteso, lei non tenga o che desideri trattenere e sempre secondo il suo insindacabile criterio di scelta (orologi, medaglie, monete, penne, accendisigari, ciondoli, armi, francobolli, mignon e tanti altri oggetti utili e inutili che mi dilettavo di raccogliere e conservare). In particolare desidero che mio nipote Gianni riceva il mio orologio d'oro e qualche altro oggetto di suo gradimento e vorrei che di ciò si prendesse cura Giovanna come pure di destinare un pensiero a Claudia (in particolare), a Susanna e a Geraldina . ( ...omissis...) Desidero che i miei libri giuridici (compresi quelli appartenuti a mio padre) vengano dati a mio nipote Vincenzo di Tullio, al quale chiedo, qualora non vi abbia interesse o non intenda tenerli, di donarli all'Istituto Giuridico della Università di Messina, in onore ed in memoria  di mio padre. Raccomando a Giovanna di prendersi cura della nostra piccola biblioteca e di far sì che non vengano mai disperse le numerose opere letterarie e storiche, di un certo pregio, che insieme abbiamo raccolto. Vorrei pure che Giovanna dedicasse qualcosa, come meglio lei crede, alle organizzazioni per la protezione e la difesa degli animali e per la conservazione della natura. Infine desidero che Giovanna , prima di tutto e di tutti, provveda a dare a mia madre - alla quale auguro lunga e lunga vita - un mio ricordo, a mia madre alla quale va costante il mio pensiero pieno di affetto e di nostalgia degli anni sereni della giovinezza, quando erano vivi mio padre e la indimenticabile amata Franca, la cui scomparsa immatura ha lasciato nel mio animo un vuoto incolmabile. Un altro mio ricordo desidero che vada alla cara zia Maria, che tanto affetto ha avuto sempre per tutti noi. Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine.

L'onorevole giudice dei casi difficili. Marcello Cimino su La Repubblica il 5 ottobre 2019. L'autore dell'intervista (pubblicata dal giornale "L'Ora” del 15 dicembre 1972 è il giornalista scrittore Marcello Cimino. Antimafia terza edizione. All'esordio c'è stata maretta: un senatore democristiano si è dimesso dalla nuova commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso per protestare contro l'inclusione in essa di due deputati palermitani i quali - a suo avviso - non avrebbero dovuto esservi inclusi per formale incompatibilità essendo stati ambedue in passato chiamati a testimoniare di fronte alla stessa: articolo 61 del Codice di procedura penale. I due contestati sono l'on. Matta, democristiano, e l'on. Terranova, indipendente eletto nelle liste del PCI: un accostamento del quale, ad essere ottimisti, non altro si può dire che si tratta di uno scherzo del formalismo giuridico. Di fronte alla commissione riunita per esaminare il caso, la scorsa settimana, l'on. Terranova è intervenuto per fatto per­sonale, ed ha dichiarato tra l'altro: «Il senatore Torelli ha attribuito all'on. Matta ed a me il medesimo ruolo di testimonio senza informarsi e documentarsi sulla sostanziale diversità delle rispettive posizioni. Se ciò avesse curato non gli sarebbe sfuggito certamente che l'on. Matta è stato sentito dalla commissione su fatti inerenti alla sua attività di amministratore del Comune di Palermo, mentre io sono stato piu volte, e sin dal 1964, sentito dalla Commissione in seduta plenaria, dal Consiglio di Presidenza, da comitati o sottocommissioni, da singoli commissari informa ufficiale o non, non per dare conto della mia opera ma per fornire il contributo, anche se modesto, dell'esperienza acquisita in anni di lotta condotta contro il fe­nomeno mafioso nelle sue manifestazioni essenzialmente criminose. Ritengo cioè di non avere assunto la veste di testimonio in senso tecnico e tanto meno di inquisito, ma di avere svolto per la commissione ed a richiesta di essa una attività di collaborazione e di cooperazione che spero sia stata apprezzata e soprattutto sia riuscita in qualche misura utile». E 'abissale la differenza dalla posizione dell'on. Matta del quale la Commissione Antimafia si è occupata in passate e sa­rà costretta ad occuparsi ancora in relazione alle cariche da lui ricoperte nella amministrazione comunale di Palermo. Insomma, mentre Terranova inquisitore era e inquisitore resta, Matta era inquisito e resta inquisito ma contemporaneamente è diventato inquisitore per designazione del suo partito, la D.C.: una situazione assurda, insostenibile. Sulle dichiarazioni dell'on. Terranova non c'è stato da discutere, argomento chiuso. (Il caso Matta invece, come tutti sanno, è rimasto aperto: decideranno i presidenti della Camera e del Senato). Ha destato tuttavia interesse, dopo questa sua prima sortita nelle cronache parlamentari, e anche una certa curiosità la figura di questo giudice con la fama di più duro dei duri mafiosi e di abile risolutore di casi intrigati, passato repentinamente dall'ambito del potere giudiziario a quello del potere legislativo. Val la pena sentire le sue impressioni a sette mesi dal suo ingresso alla Camera dei deputati (eletto il 7 maggio nelle due circoscrizioni  siciliane optò per  quella orientale).

«Il mio primo contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Per circa un mese mi trovai a non aver nulla da fare. Avevo la sgradevole sensazione della inutilità. Avvertivo per di più dietro la formale cortesia del linguaggio parlamentare rapporti di freddezza e di distanza, come se ognuno tirasse avanti per  proprio  conto in un ambiente estraneo». Era una sensazione personale o generale? Voglio dire: avvertiva lei una particolare ostilità nei suoi confronti proprio per la scelta di campo a sinistra fatta da lei uomo di legge, magistrato?

« Non direi proprio, anche se avvertivo aperta simpatia nei miei confronti soltanto negli ambienti della sinistra e anche se sapevo che non soltanto in Sicilia durante la campagna elettorale mi erano stati rivolti attacchi bassi e velenosi da parte  di alcuni oratori democristiani, sia di piccolo che di alto rango».

E il caso di ricordare a questo punto che la notizia della candidatura del giudice Terranova nelle liste del PCI in Sicilia non fu soltanto un colpo elettorale ma qualcosa di pili: fu il sintomo di una profonda  debolezza della Democrazia Cristiana nei rapporti con una componente  della società italiana non fascista né  comunista  in  rivolta  contro  la  conduzione  clientelare mafiosesca  del potere.  Terranova,  pur  entro i limiti delle sue facoltà e competenze, aveva messo in difficoltà parecchi amministratori comunali democristiani di Palermo sia con alcune inequivocabili affermazioni contenute in  sentenze  istruttorie sia con le sue deposizioni davanti all'Antimafia in qualità di testimonio e di esperto, e per questo era considerato come il fumo negli occhi  dagli apparati di potere  democristiani. Ostilità e reazioni dispettose raccolse la candidatura Terranova anche in una parte dell'ambiente palermitano prevalentemente conservatore da lui frequentato.

« È vero - dice Terranova - ma ora, passato il fuoco della campagna elettorale certe freddezze e incomprensioni sono scomparse, molti rapporti si sono ripristinati e si sono avuti utili  chiarimenti».

Ma torniamo all'iniziazione parlamentare.

«Quel senso di inutilità - riprende il mio interlocutore - ebbe fine ben presto. In rappresentanza del gruppo misto del quale faccio parte ... ».

Chi altri c'è nel gruppo misto?

«Siamo in otto. Il presidente è Anderlini, un parlamentare esperto e preparato, socialista indipendente. Poi c'è il rappresentante del Partito sardo d'azione, tre rappresentati del Volk­spartei e il neo eletto rappresentante della Valle d'Aosta, più il professor Masullo, un filosofo, ed io. Siamo bene affiatati. Il gruppo funziona bene. Ora ho l'impressione di fare  qualcosa di utile».

Utile più o meno che nella veste di magistrato? La sua candidatura è stata discussa non soltanto dagli avversari  politici del PCI anche sotto il profilo dell'utilità sociale. C'è chi si chiedeva se fosse conveniente perdere un buon giudice per guadagnare  un  deputato  fra tanti.

« Se più o meno non saprei dire. Comunque tutto è molto diverso. Nella mia precedente funzione il lavoro che ognuno deve svolgere è maggiore quantitativamente ma soprattutto è più responsabilizzato in senso personale. Nella mia qualità di giudice istruttore, per esempio, dovevo prendere  molto spesso e sempre da solo decisioni gravissime, riguardanti le procedure e anche la libertà personale dei cittadini sottoposti al procedimento penale.  Oppure  dovevo risolvere casi sui quali l'opinione pubblica era sensibilizzata a volte morbosamente. Ricordo per esempio il caso  del prof. Rognoni, sospettato di avere ucciso lui la moglie e che invece risultò innocente. O il delitto Ciuni, fra i cui mandanti fu identificato un mafioso in­filtratosi  negli organici di un centro economico regionale. non ricordare l'angoscioso caso delle bimbe assassinate a Mar sala. Ora debbo dire che, facendo  parte di un organo collegiale il senso della responsabilità personale è  meno  incombente. Ora non. ho più da decidere io solo. La mia responsabilità personale si ferma ai pareri che mi si chiedono, alle proposte che formulo, all'apporto di studio che debbo dare. C'è però da ag­giungere che ora non si tratta più di casi particolari, ma di questioni di portata generale, attinenti alla vita dell'intera nazione. Sotto questo profilo sento che la responsabilità di far parte  di un corpo legislativo è enorme».

In che cosa consiste concretamente il suo lavoro parlamentare?

«In rappresentanza del gruppo misto io faccio parte della commissione permanente per gli affari della giustizia e della commissione straordinaria per l'inchiesta sulla mafia. In seno alla Commissione giustizia faccio poi parte del comitato pareri di cui sono vicepresidente. L'attività di commissione mi impe­gna molto. Specialmente la commissione giustizia cui è demandata una grande mole di lavoro. Il comitato pareri, per esempio, deve esaminare sotto il profilo della giustizia tutti i provvedimenti assegnati alle altre commissioni. C'è sempre un addentellato: per  quanto  riguarda le sanzioni col diritto pe­nale, o col diritto d1 famiglia, o comunque col codice civile, ecc.

« Le riunioni della commissione impegnano due giorni alla settimana. Ma c'è tutto il lavoro di studio e di preparazione che va molto al di là. È un lavoro serio e interessante. Debbo dire che alla commissione giustizia, a parte le divergenze po­litiche, c'è un concorso di apporti tecnico-giuridici di alta qualità. Le discussioni sono molto approfondite e serie».

Ci sono argomenti grossi sul tappeto in questo momento?

«Si, c'è la legge delega per il codice di procedura penale. È un argomento molto grosso. La discussione è già avanti. Ab­biamo avuto una relazione generale,  di impostazione teorica del professore Dell'Andro. In base alla legge delega il governo dovrà entro due anni. emanare il testo del nuovo codice, rispettando tutti i principi indicati dal Parlamento e contenuti appunto nella legge delega ora all'esame della commissione giustizia».

In questo ruolo trova utile la sua precedente esperienza di operatore del diritto, la sua pratica cioè di far vivere la norma scritta nel caso concreto?

« Si certo. Proprio in vista della discussione sul nuovo codici procedura penale sto elaborando tutta una serie di osserva­zioni in buona parte dettate anche dalla mia esperienza giudiziaria durata oltre un quarto di secolo».

Una lunga carriera. L'on. Terranova entrò nella magistratu­ra appena rientrato dalla guerra e dalla prigionia, nel 1946. Fu dapprima pretore a Messina, poi a Rometta dove rimase fi­no al 1953 e dove gli fu conferita la cittadinanza onoraria. Passò poi al Tribunale di Patti e nel 1958 al Tribunale di Palermo, dove fu assegnato all'ufficio della istruzione penale attraverso il quale passarono i famosi processi di mafia degli anni '60, dai terribili di Tommaso Natale a Luciano Liggio, dai Rimi a La Barbera. Nel 1971 passò alla Procura della Repubblica di Marsala dove gli fu conferita la cittadinanza onoraria e dove ha chiesto di essere collocato in aspettativa prima di presentare la sua candidatura per le elezioni del 7 maggio di quest'anno.

Ci sono altri argomenti interessanti oltre alla legge delega di cui si sta occupando? Della gravissima questione del fermo di polizia, per esempio?

«La proposta di ripristinare il fermo di polizia è stata pre­sentata dal governo al Senato, non alla Camera e non se ne co­nosce ancora il preciso testo. Ho già dichiarato a «L'Ora» la mia opinione politica in proposito. In termini tecnici voglio ora confermare la radicale incostituzionalità  della proposta per quanto si riferisce all'articolo 13 della Costituzione il quale prescrive l'indicazione di casi tassativi e precisi mentre la proposta governativa allarga oltre ogni limite la discrezionalità del fermo addirittura arrivando ad ammetterlo in base alla presunta  intenzione di commettere  reato. In quanto agli altri argomenti all'esame della commissione ricorderò le proposte di modifica della immunità parlamentare. È un argomento molto delicato sul quale sono state presentate cinque diverse proposte di legge che sono state affidate a me per la relazione al comitato pareri poiché la materia è di competenza della commissione affari costituzionali. Attraverso lo studio di questa questione sono arrivato a formulare dalle proposte nuove che ritengo possano meglio risolvere i problemi aperti e cosi ho aggiunto alle cinque precedenti una mia sesta autonoma proposta di legge per la modifica dell'immunità parlamentare. Un altro argomento delicato e complicato è la riforma della previdenza degli avvocati. Io faccia parte di un ristretto comitato di studio cui la materia  è stata affidata».

Vi sono altre sue proposte di legge?

«Si. Ho presentato  una proposta  riguardante gli orfani di guerra tendente ad eliminare una anomalia dell'attuale ordinamento secondo il quale due fratelli che hanno perduto il padre in guerra quello che era maggiorenne al momento della morte non viene considerato orfano di guerra mentre il fratel­ lo che era minorenne lo è. Un'altra mia pro posta riguarda l'istituzione di un «commissario alle forze armate», emanazione del Parlamento, col compito di vigilare sul rispetto della Costituzione in seno alle forze armate. È un istituto già sprimentato i alti paesi come la Germania occidentale e alcuni stati scandinavi».

Oltre al lavoro nelle commissioni ci sono altri aspetti dell'attività  parlamentare? 

«C'è il dibattito in aula. È l'attività che più facilmente arriva a conoscenza della opinione pubblica. M l'aula  è riservata generalmente ai parlamentari di più spiccata caratterizzazione politica. Può però capitare anche ad un novellino come io sono di intervenire in aula. Nella prossima discussione sul bilancio dello Stato, per esempio, io dovrò intervenire quale relato­re di minoranza per la parte riguardante la amministrazione della giustizia. La mia è una relazione di minoranza, diversa dalle relazioni di minoranza dei partiti di opposizione».

E alla Commissione Antimafia come vanno le cose?

«Ho avuto all'inizio un'impressione deludente che si prolunga. Mi aspettavo un ritmo piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione funziona da ben 9 anni ma non può dirsi che abbia se non in piccola parte corrisposto all'attesa dei cittadini. Mi pare che si proceda con eccessiva lentezza, in modo dispersivo. Ci sono ancora da decidere varie questioni procedurali, per esempio il segreto istruttorio o la pubblicità dei lavori, le competenze del consiglio residenza, ecc.».

E il bridge? L'on. Terranova fondatore e presidente dell'associazione bridgistica prima di Messina e ora di Palermo, un campione di questo gioco, di fama nazionale.

«L'intervista è già abbastanza lunga -  risponde lui - di bridge ne parleremo un'altra volta».

La sua ultima intervista sulla mafia. Anna Pomar su La Repubblica il 30 settembre 2019. Cesare Terranova, magistrato di Corte  d'Appello, già procuratore capo a Marsala, già deputato al Parlamento italiano come indipendente nelle liste del Pci, componente della commissione antimafia, dopo sette anni di lontananza dalla vita giudiziaria torna a presiedere la seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo. A lui, come è noto, si deve la paternità di alcuni fra i più grossi processi di mafia degli anni che vanno fra il '63 e il '68. Ma la mafia in questi ultimi anni ha cambiato obiettivi, ha cambiato metodi, ha cambiato struttura. Di questo vorremmo parlare col presidente Terranova, considerato uno fra i maggiori esperti del problema mafioso, in occasione del suo rientro nelle aule del Palazzo di Giustizia.

Presidente Terranova, che ne pensa lei di questa nuova, violenta esplosione  di criminalità  mafiosa?

«L'accentuarsi di certe forme di criminalità mafiosa rientra in un problema più generale della diffusione  della criminalità in tutta Italia. Qui la mafia, altrove i sequestri, rapine o altro. Purtroppo questo è un dato della società del benessere, del consumismo che come ogni cosa presenta i suoi aspetti positivi e quelli negativi. In una società socialmente ed economicamente evoluta (lo possiamo constatare in America, in Inghilterra cosi come in Svezia) la criminalità ingigantisce».

Si parla oggi di nuova mafia. Che cosa è la nuova mafia, in cosa si differenzia dall'antica?

«Anche  nel '63 si parlava  di nuova mafia.  Ma la mafia è una, ed  è sempre  la stessa.  Come fenomeno   delinquenziale, come costume, non  muta.  Quello  che  cambia sono i metodi, l'inserimento  in una  certa  realtà  sociale ed  economica.  Potremmo dire che si muove secondo  le esigenze  del momento. Una volta avevamo la mafia rurale. Nel dopoguerra vediamo la mafia fare il suo ingresso nel mondo politico, e nel mondo degli affari. Poi abbiamo la mafia dell'edilizia, quando comincia a prendere consistenza il fenomeno dell'urbanizzazione. Un tempo la mafia delle campagne controllava la città (Cascio Ferro era solo il capomafia di Bisacquino ma esercitava la sua influenza su Palermo) in seguito quella della città si rivolgeva all'entroterra».

Quale connotazione  darebbe alla  mafia cosiddetta «nuova»?

«È difficile dirlo. Come ho già detto, la mafia è allineata con i tempi. Furti, scippi, rapine prosperano nei rioni cittadini sotto l'ala del capo mafia locale. E chi non sta alle regole paga, come si è visto più volte, in occasione di spietate esecuzioni di giovani pregiudicati. Ma la più grossa connotazione che io darei alla mafia di oggi è quella degli appalti. L'appalto delle opere pubbliche - e non tanto l'appalto vero e proprio ma tutto quanto c'è dietro: forniture, cottimi, guardiani - è certamente, al momento, l'argomento più interessante. Destinato a svilupparsi ancora di più negli anni futuri».

Ma la droga, non è anch'essa in espansione?

« La droga intanto non è un fatto di tutti. È limitata a gruppi molto elevati ed altamente specializzati. Il traffico della droga comunque non è un fatto nuovo per  la mafia siciliana, che lo ha sempre controllato. Dall'America si fidavano solo dei mafiosi siciliani, delle organizzazioni mafiose siciliane che provvedevano allo smistamento della droga che giungeva nella Francia del sud e, in Spagna, verso gli Stati Uniti. Quello che c'è di nuovo è il consumo locale della droga, una volta qui da noi ignorato. Ma io credo che in questo campo, al momento, esistano pochissime  conoscenze».

Quali sono gli elementi nuovi del costume mafioso?

«L'impiego dei killer, per esempio.  Una volta le esecuzioni erano opera dei gregari. Ricordo, ad esempio, ai primi del '63 la sparatoria alla pescheria di via Empedocle Restivo. Il killer era certamente noto. Fu quasi riconosciuto. E precedentemente negli anni  '50, Eugenio  Ricciardi fu ucciso  da Angelo La Barbera  e Gaetano Calatolo,  meglio  noto  come  Tano Alati, che erano allora solo dei giovani gregari. Di li poi ebbe inizio la loro ascesa».

E il loro declino da quale data?

«Fra il '63 e il '68 si verifica una interruzione del fenomeno mafioso in Sicilia. Forse perché i grossi processi che si celebrano in quegli anni portano inevitabilmente alla eliminazione dei personaggi più noti, quasi tutti arrestati o latitanti. Una interruzione che si conclude però a Catanzaro, con le assoluzioni a tutti note. Da quel momento si verifica  una specie di movimento  tettonico, come  quello dei terremoti, direi,  di assestamento. I vecchi quadri dirigenti tentano il ripristino della loro autorità, ma non hanno più la forza di un tempo, e non riescono quindi a tenere sotto controllo la situazione. Ai primi del '70 la vecchia guardia o è stata eliminata o è messa da parte. L'elenco degli uccisi si allunga: Michele Cavatajo (viale Lazio), La Barbera, Sirchia, Di Martino (luogotenente di Torretta), Cancelliere, Matranga (ucciso a Milano). Nicoletti, dopo un attentato nel quale resta ferito,  esce di scena.  Si verifica cosi un  totale  sconvolgimento degli equilibri. L'edilizia, fra l'altro, non è più un settore portante. Si delinea il miraggio degli  appalti delle  opere  pubbliche.  E  qui puntano  le  nuove leve».

Presidente Terranova che ne pensa della «lupara bianca »? Una volta la mafia uccideva. Perché oggi sequestra senza dare pili notizie degli scomparsi?

«Anche nel passato esisteva la lupara bianca. Ma era indubbiamente un fenomeno  limitato. Ricordo,  ad  esempio,  intorno al '54 '55, la scomparsa dei fratelli Prester. I Prester erano nomi ben noti a Palermo.  Una mattina partirono  in macchina per  Messina dove c'era un processo a loro carico, ma non vi giunsero mai. Non se ne seppe più nulla, mai. Fu il primo caso che fece molta impressione. In seguito scomparvero altri: Pellerito, Mansueto, Marino, quest'ultimo davanti al Palazzo di Giustizia. Aveva parlato con l'avvocato  Pugliese, poi salì in una macchina dove l'attendevano due persone e si perdettero  per sempre le sue tracce. Ricordo che sparirono anche dei personaggi del corleonese, Governale, Trombadori, Listi ... Ma non erano certo tanti, come oggi. Perché  la lupara bianca? Certo una esecuzione è molto più  semplice e più immediata. Me lo sono chiesto tante volte anch'io. Spero di potere approfondire il problema ».

Presidente, vorrei farle osservare che i killer non corrono molti pericoli. Uccidere, i fatti lo hanno dimostrato, finora non è stato più rischioso di quanto non lo sia fare sparire un cadavere.

«In effetti è cosi».

Presidente, perché tanti delitti impuniti?

« Ci sono pochi informatori, la gente non collabora alle in­dagini. E la polizia oggi ha pochi poteri, non riesce più a ottenere quello che otteneva una volta».

Perché tante assoluzioni?

« Troppi rinvii a giudizio. Ma d'altro canto se ci sono dubbi sulla colpevolezza o sull'innocenza il magistrato deve per forza rinviare a giudizio perché decida il tribunale. A tutto ciò si potrebbe ovviare solo con la auspicata riforma. L'istruzione, a mio parere, dovrebbe essere solo formale e il processo poi farsi nel corso del dibattimento. Perché oggi si verifica l'assurdo che si fanno due processi veri e propri. L'istruzione dovrebbe invece essere solo la preparazione degli elementi pro e contro, da sottoporre al tribunale».

Un'ultima domanda, presidente. Si riuscirà mai a debellare il fenomeno mafioso in Sicilia? Lei è stato componente dell'Antimafia, ma i risultati della commissione non hanno soddisfatto l'opinione pubblica. E stato tutto inutile?

«L'antimafia ha concluso il suo mandato presentando una serie articolata di proposte che riguardavano il settore giudiziario, il settore economico (mercati, licenze ecc.), il settore amministrativo (appalti, concessioni). Ma queste proposte an­davano poi sviluppate. Ed invece dal gennaio 1976, sono rimaste inutilizzate. Le forze politiche non hanno creduto di doversene servire. Il materiale c'è, è ricco ed interessante. Periodicamente ne vengono pubblicati volumi.  Ma  tutto  finisce qui. Fino  a quando non verrà  qualche studioso  inglese che «scoprirà» le conclusioni dell'antimafia e le utilizzerà per i suoi lavori».

Nessun  ottimismo  allora per  il futuro?

«lo sono ottimista per temperamento. M a purtroppo c'è da constatare che il parlamento italiano non funziona più. Esi­stono solo le segreterie dei partiti. Non è facile tuttavia dare inizio ad un rinnovamento degli organismi democratici. Non è facile ed è pericoloso pensare di toccare la Costituzione nei suoi punti più  delicati».

·         Cesare Terranova. Lotta alla mafia? Polizia più efficiente e niente leggi speciali.

Un'avanguardia della guerra alla mafia. Leonardo Agueci su La Repubblica il 12 ottobre 2019. L'autore del testo è Leonardo Agueci, già procuratore aggiunto della Procura di Palermo. Non è semplice oggi comprendere fino in fondo il ruolo di precursore, ricoperto da Cesare Terranova nella storia della lotta alla mafia, e l’importanza della traccia da lui lasciata. E per poterlo farlo ritengo indispensabile collocarsi mentalmente nella realtà della Palermo – e dell’Italia – degli anni 60/70; una realtà che appare inimmaginabile agli occhi di chi oggi ha acquisito consapevolezza del fenomeno mafioso ed è abituato a manifestazioni di conclamata contrapposizione (peraltro, in molti casi, strumentali ed ingannevoli), tipiche dei nostri tempi. All’epoca la concezione predominante che si aveva della mafia, non solo in Sicilia ma nella totalità del paese, era quella di un fenomeno certamente criminale, ma localmente circoscritto e per certi versi anche pittoresco, riguardante una limitata sfera di persone, con le quali però si poteva tranquillamente convivere, rispettandosi reciprocamente e “facendosi i fatti propri”. Un atteggiamento del genere era prevalente anche negli ambienti medio ed alto borghesi, che comunque sapevano, all’occorrenza, trarre vantaggio dai rapporti intrattenuti con uomini d’onore, per utilizzarne “i servizi” e risolvere beghe personali. Totalmente assente era l’idea che la mafia potesse costituire un pericolo per il futuro della società e che fosse necessaria una educazione ai valori che ad essa si contrapponevano, ritenuti anzi totalmente estranei alle tradizioni locali. Al contrario, alla mafia venivano perfino attribuite benemerenze non di poco conto, come quella (diffusa in molti ambienti, anche influenti) di avere impedito che in Sicilia attecchisse il terrorismo politico, negli stessi anni in cui imperversava in molte altre parti d’Italia. Gli aspetti più violenti ed i fatti più eclatanti (come la strage di Viale Lazio del dicembre 1969) venivano sempre ricondotti nell’ambito esclusivo di conflitti interni (si diceva sempre: “..s’ammazzanu tra iddi…”) che non interessavano minimamente le persone per bene; si trattava di un’interpretazione utilizzata anche in occasione dei primi delitto “eccellenti” contro valorosi servitori dello Stato, la cui memoria veniva sistematicamente infangata, con insinuazioni del tipo “…chissà cosa c’è sotto…!” Le poche voci che si levavano per denunciare la reale pericolosità della mafia, ed i gravi rischi della sua costante espansione, venivano confinati nelle categorie degli scrittori in cerca di pubblico, degli intellettuali fantasiosi e soprattutto degli ispiratori di strumentalizzazioni politiche (quasi esclusivamente di sinistra). Ma invece era proprio attraverso il canale degli accordi con vasta parte del mondo della politica che si veniva a realizzare, proprio in quegli anni, la completa occupazione di ogni centro di potere da parte della mafia e la sua capacità di inquinare e condizionare tutti i settori di crescita economica, di sviluppo sociale, di prospettive di vita della popolazione siciliana. Tutto ciò avveniva nel silenzio, nell’indifferenza e talvolta nella connivenza di tanti, soprattutto di quelli che istituzionalmente avrebbero dovuto reagire contro questa grave deriva e contrapporvisi energicamente. Nei Palazzi di Giustizia, in particolare, quasi non si parlava di mafia e – quando era necessario occuparsene – veniva trattata in termini di semplice criminalità comune. Nelle relazioni inaugurali dell’Anno Giudiziario la stessa parola era sistematicamente ignorato, anche perché circolava un generale scetticismo sulla utilità - e persino sulla stessa opportunità - di svolgere indagini dirette ad individuare reati associativi. Nell’ambiente giudiziario quindi un magistrato come Cesare Terranova – che, fin dal suo insediamento all’Ufficio Istruzione, si era messo in luce per la forte determinazione nel volere conoscere, approfondire e contrastare il fenomeno mafioso, come mai avvenuto in passato – costituiva una figura assolutamente eccezionale ed isolata, oggetto di insinuazioni e malevolenze di ogni genere, e di scarse manifestazioni autentiche di sostegno ed incoraggiamento. Nel trattare poi, quale Giudice Istruttore, i rari procedimenti avviati a carico di imputati di associazione a delinquere (all’epoca non esisteva l’art. 416 bis Codice Penale), oltre che dei vari – e spesso efferati - delitti che ne manifestavano l’esistenza, aveva saputo individuare con lucidità i connotati di violenza, tracotanza e pervasività dell’organizzazione mafiosa, in termini analoghi a quelli tratteggiati, negli anni successivi, da chi avrebbe raccolto la sua eredità. Aveva così compreso perfettamente che la mafia era soprattutto un fenomeno unitario, da trattare come tale anche sul piano giudiziario, e che occorrevano massimo impegno e determinazione per fronteggiarla efficacemente ed arrestarne la progressiva espansione. Occorreva soprattutto, però, fare chiarezza sui rapporti tra la mafia e la classe dirigente siciliana e quindi stroncare ogni forma di convergenza di interessi con la politica e di compenetrazione nelle Istituzioni. Ciò che affermava, a questo proposito, nelle sue sentenze di rinvio a giudizio, (all’epoca si chiamavano così), pronunziate nella seconda metà degli anni ’60, appare ancora oggi particolarmente significativo. Egli infatti scriveva: “… (la mafia) costituisce …una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica e sociale sono solo in minima parte documentati dalle risultanze processuali...”; ed ancora: “… la mafia, con i suoi tenebrosi tentacoli, spesso utilizzando l’attiva collaborazione di persone qualificate e insospettabili, si inserisce in tutti i settori della vita sociale, nel campo commerciale e industriale, nel mondo degli affari e delle speculazioni, nelle competizioni politiche, portando in essi i propri sistemi violenti ed intimidatori ed inquinando così profondamente la nostra società...”. Colpisce profondamente la constatazione che tali analisi, riportate in provvedimenti di oltre cinquanta anni fa, risultino quanto mai pertinenti ed attuali ancora oggi, alla luce delle montagne di informazioni acquisite nei decenni successivi. Cesare Terranova aveva dunque chiaramente compreso, con largo anticipo, come la mafia costituisse, per la sua profonda natura oppressiva, il principale ostacolo al benessere della società siciliana e come, di conseguenza, nessuna forma di tolleranza o compromesso potesse essere consentita nei suoi confronti. Ed aveva parimenti ben chiaro che le numerose compiacenze e complicità pubbliche e private, delle quali la mafia godeva in vasti settori delle politica, avrebbero di fatto frenato – come l’esperienza successiva ha ampiamente confermato – qualsiasi efficace attività di contrasto. Con lo stesso impegno e determinazione destinati alle indagini, si dedicò quindi a denunziare pubblicamente la necessità che tutte le Istituzioni, a cominciare da quelle politiche, si assumessero le loro responsabilità, a fronte della gravità del fenomeno mafioso, in modo da potere effettivamente attrezzarsi a contrastarlo sul piano normativo, operativo e funzionale. Non va infatti dimenticato che, all’epoca, le risorse a disposizione degli inquirenti erano antiche ed inadeguate, sia sul piano delle acquisizioni investigative (fondate esclusivamente su scarne informazioni acquisite forzando il muro granitico dell’omertà) sia su quello dei mezzi e delle metodologie d’indagine (non si parlava nemmeno di indagini patrimoniali) sia infine su quelli processuali ed ordinamentali (non vi era la minima differenza tra il trattamento dei delitti di mafia e quello di ogni altra figura di reato); per non parlare poi della totale assenza di norme e regolamenti, nell’ambito della pubblica amministrazione, che potessero fungere da ostacolo alle infiltrazioni mafiose. Il suo impegno in tal senso sarebbe poi proseguito, con altrettanta determinazione, durante la sua attività parlamentare, soprattutto nell’ambito della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui ha fatto parte tra il 1972 ed il 1976. Su tale esperienza certamente contava di fare grande affidamento nel momento in cui decideva di porre termine all’attività parlamentare e rientrare tra i ranghi della magistratura attiva. Il suo ritorno però non poteva certo essere gradito né accettato da coloro che proprio sulle compiacenze alla mafia avevano fondato posizioni di potere ormai acquisite, da coloro che avevano trovato più comodo adagiarsi sui predominanti atteggiamenti di sottovalutazione e tolleranza, da coloro che guardavano alla sua risolutezza con diffidenza, attribuendovi recondite ambizioni personali. Senza dimenticare infine proprio le famiglie mafiose, e soprattutto quella corleonese, che da tempo lo avevano bene individuato tra i (pochi) avversari veramente pericolosi, all’epoca presenti nelle Istituzioni. Le iniziative in suo ricordo, nel 40° anniversario della sua uccisione, ce lo hanno presentato come un uomo estroverso, cordiale, esuberante, amante della vita, desideroso di comunicare con gli altri. Viene allora da pensare come abbia subito con grande sofferenza la condizione di isolamento morale cui dovette rassegnarsi in tutti gli ambienti che frequentava – giudiziari e non – ogni volta che constatava come le sue convinzioni ed il suo impegno in materia di mafia ricevessero ben poco apprezzamento e considerazione tra i suoi interlocutori, al di là di quelli manifestamente ipocriti e “di maniera”. Anche per questa esperienza di isolamento dobbiamo allora ricordarlo come uno straordinario precursore dell’opera delle grandi figure venute dopo di lui.

Cosa è la mafia e come va combattuta. Cesare Terranova riportato su La Repubblica il 7 ottobre 2019. Intervento in Commissione parlamentare antimafia - Seduta del 16 luglio 1975.

"La Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, istituita nel lontano 1963, sembra ormai decisamente avviata alla conclusione dei suoi lavori dopo una attività di circa tredici anni, attività che per la sua lunga durata è stata oggetto di quelle critiche e di quelle pesanti osservazioni che ci sono ben note. Ritengo però che, indipendentemente dal modo con cui riusciremo a consegnare al paese un documento significativo ed incisivo sui risultati del nostro lavoro, resta il fatto che la Commissione, durante questi lunghi anni ha svolto una notevole mole di lavoro, e che la sua presenza, nonostante il discredito di cui, dobbiamo riconoscerlo, è oggi circondata nella opinione pubblica, è stata di indubbia efficacia ed utilità quanto meno per la funzione di freno esercitata sulle attività mafiose. Ma su questo argomento mi propongo di tornare più avanti, quando accennerò alla maniera in cui la società italiana in generale e quella siciliana in particolare hanno reagito di fronte al problema della mafia. Tredici anni sono certamente molti e credo che noi siamo i primi a riconoscerlo, come pure dobbiamo ammettere che questa eccessiva dilatazione nel tempo è la causa della stan­chezza e dello scarso entusiasmo con cui adesso si va avanti, come giorni fa ha osservato il senatore Adamoli. Quindi la decisione unanimamente adottata di mettere un punto fermo alle indagini, alle inchieste, alle ricerche e di stabilire, in tempi abbastanza ravvicinati, l'iter della discussione conclusiva in modo da arrivare al più presto alla presentazione della relazione definitiva, è stata di una opportunità incontestabile. Però l'esigenza di fare presto non deve fare passare in seconda linea la necessità di formare un documento approfondito sul problema della mafia, specialmente in ordine a quello che ne costituisce l'aspetto caratterizzante, che è il rapporto mafia-pubblici poteri. Desidero risparmiare agli onorevoli colleghi una ennesima ripetizione di considerazioni sulla origine e sulla evoluzione della mafia, ricordando che, a parte quanto qui è stato da altri pregevolmente detto, da almeno una quindicina di anni vi è stata sulla mafia una fioritura di libri e di pubblicazioni in cui studiosi, scrittori e dilettanti, giornalisti più o meno qualificati, si sono dedicati all'esame di questo caratteristico fenomeno delinquenziale, con minore o maggiore competenza, con argomenti più o meno seri e convincenti, con indagini approfondite o con superficialità, con il risultato, certamente positivo di avere dato un ampio contributo all'arricchimento del materiale di studio sulla mafia e di avere sollecitato l'attenzione di tutta la opinione pubblica su questa piaga della Sicilia, ma anche con risultato, che non ritengo positivo, di avere contribuito alla deformazione ed all'inquinamento del concetto di «mafia», per cui oggi molto spesso questa etichetta viene con facilità assegnata a fenomeni di corruzione, di malcostume, di violenza, che pur presentando aspetti gravemente pericolosi o dannosi per le nostre strutture sociali, non hanno nulla da vedere con la mafia vera e propria, cosicché vengono a crearsi confusioni ed annacquamenti che si risolvono unicamente a vantaggio dei mafiosi. Fatta questa premessa, ritengo che compito della Commissione non sia quello di risalire alle origini della mafia, di stabilire quindi se la mafia si formò e si sviluppò come strumento di oppressione della classe contadina al servizio dei grandi latifondisti oppure come struttura intermedia e parassitaria tra la classe dirigente ed il resto della popolazione o piuttosto come organismo nato dalla necessità di difesa dei ceti poveri contro le angherie e le sopraffazioni dei potenti. Compito della Commissione è quello di identificare il fenomeno nella sua natura delinquenziale con le sue ripercussioni nella struttura sociale e politica della società siciliana, di individuare quegli aspetti peculiari che differenziano questa forma di criminalità organizzata da altre consimili forme esistenti nel nostro paese, come in Calabria, in Campania o nelle grandi città del Nord, di sottoporre al Parlamento i risultati di tali indagini e soprattutto di formulare precise e concrete proposte sui rimedi più idonei a combattere efficacemente e a stroncare il fenomeno della mafia in Sicilia. Ed il capitolo delle proposte resta a mio avviso, e mi pare che la mia opinione sia condivisa da tutti gli onorevoli colleghi, il più importante, il più delicato, quello forse determinante ai fini di una conclusione positiva e soddisfacente dei nostri lavori. Nel sottolineare l'esigenza di una rigorosa delimitazione dei confini del fenomeno della mafia, confini che includono unicamente la Sicilia Occidentale, poiché tali confini non si sono allargati per effetto dell'esportazione di questo prodotto deteriore in altre parti d'Italia, non vorrei che si ricadesse nel vecchio errore di adombrare una concezione razzista della mafia, quasicché la mafia esiste in Sicilia poiché esistono i siciliani. La vivace reazione dell'on. Nicosia ad una non molto felice espressione del sen. Bertola, il quale, ne sono certo, non inten­deva dare alle sue parole il significato che apparentemente avevano, mi è sembrato opportuna e tempestiva, e comunque personalmente la approvo pienamente, come giusta reazione a certe impostazioni culturali retrive e infondate, smentite dalla realtà storica. E queste mie osservazioni non devono sembrare superflue, se si pensa che errori di tal genere sono stati commessi e numerosi ed anche in tempi recenti, o si è cercato di commetterli. Ricordo che durante il fascismo, venne deciso che funzionari ed impiegati dello Stato siciliani non venissero più destinati in Sicilia; durante la guerra, alla vigilia dell'invasione alleata, il comandante in capo delle forze armate in Sicilia, gen. Roata lanciava un proclama, rimasto famoso, con cui, per risollevare il morale depresso della popolazione e per rafforzarne lo spirito di resistenza, si incitavano i siciliani a combattere accanto ai militari italiani e tedeschi. In epoca molto più recente, due componenti di questa Commissione, presentarono una relazione nella quale, tra le altre cose, prospettavano la opportunità di allontanare dalle zone mafiose i magistrati siciliani. E non più tardi di due anni fa, all'epoca della crisi della Commissione per il caso dell'on. Matta, venne avanzata la proposta, e con serietà, di escludere da questa Commissione tutti i parlamentari eletti nei collegi siciliani. Sono tutti fatti significativi i quali confermano, è bene dirlo chiaramente, le tendenze razziste, più o meno latenti, di certi ambienti o comunque di alcuni personaggi. E queste tendenze vanno respinte con assoluta decisione se si vuole evitare l'insorgere di fenomeni come quello del separatismo nel dopoguerra e se si vuole abbattere il clima di diffidenza, sospetto ed anche di rancore, che ancora oggi continua ad inquinare i rapporti tra Stato e Sicilia. Il fatto vero è che vi sono gravissime responsabilità dello Stato verso la Sicilia e intendo parlare sia dello Stato liberale sabaudo, dello Stato fascista e di quello democristiano, responsabilità determinanti, a causa del distorto esercizio del potere, ai fini dello sviluppo della mafia e della virulenza da essa mantenuta nonostante le periodiche repressioni. Tralasciando di parlare delle responsabilità dello Stato liberale sabaudo e di quello fascista, che ormai appartengono alla storia, e parlando invece di quelle dello Stato democristiano, io mi chiedo quali siano mai le ragioni, per le quali da anni e anni non vi è compagine governativa nella quale non siano presenti esponenti politici di primo piano, che la opinione pubblica con insistenza accusa di collusione o di connivenza o quanto meno di rapporti con la mafia. E sia ben chiaro che non intendo affatto mettere in discussione la onorabilità di questi uomini, anche perché la indicazione proveniente dalla voce pubblica potrebbe essere del tutto erronea, ma non faccio altro che rilevare una situazione obiettiva che il partito di maggioranza ha sistematicamente ignorato, continuando a imporre nei posti di governo uomini che, a torto o a ragione, godono fama di essere implicati in cose di mafia. E lo stesso dicasi, per quanto si tratti di una vicenda di proporzioni minori, della inclusione dell'on. Matta in seno a questa Commissione, inclusione che si cercò di mantenere con ogni sforzo, anche contro le reazioni di parlamentari come i senatori Torelli e Varaldo, che pagarono con l'allontanamento dalla Commissione, il prezzo della loro rettitudine. Ora, ripeto, non mi permetto minimamente di mettere in dubbio la onorabilità dell'on. Matta e desidero ricordare al riguardo quanto, a suo tempo, ebbe molto opportunamente a dire il senatore Adamoli e altri colleghi, ma non c'è dubbio che quel deputato, in conseguenza della sua attività di amministratore del Comune di Palermo in un periodo molto discusso, non avrebbe mai dovuto entrare a far parte di questa Commissione. La sua designazione, che sin dal primo momento formò oggetto di polemiche e di critiche, fu una vera e propria imposizione, vorrei dire per usare un termine appropriato che fu un atto di mafia. Evidentemente tutto ciò non può che accrescere la sfiducia del cittadino verso lo Stato, che nello stesso momento in cui dice di operare e combattere contro la mafia, appare rappresentato da uomini che, di fronte all'opinione pubblica, a torto o a ragione, si presentano in qualche misura legati alla mafia. E probabilmente si deve a questa situazione la mancata formazione, nella società siciliana, di una forte e diffusa coscienza antimafiosa, anche se bisogna riconoscere che oggi l'atteggiamento del cittadino verso il fenomeno della mafia non è più quello di quindici anni fa, allorché la presenza, la influenza e le interferenze del mafioso in tutti i settori venivano accettate come qualcosa di naturale, allorché i capimafia godevano di prestigio e di autorità ed essi stessi erano convinti di avere una effettiva posizione di preminenza nell'ambiente in cui vivevano. Ed in proposito mi ricordo della risposta che ebbe a darmi il capomafia di Marineo e del bosco della Ficuzza una volta che lo interrogavo su certi suoi asseriti cordiali rapporti con un maresciallo dei Carabinieri, in relazione ad un procedimento penale in cui era marginalmente implicato. Ricordo che mi rispose, con fare borioso e con aria di dignità offesa: «E lei pensa che Vincenzo Catanzaro possa essere amico di un maresciallo dei Carabinieri», ponendo un accento di disprezzo su queste ultime parole. Per inciso, anni dopo, incontrai nuovamente Vincenzo Catanzaro che non era più il soggetto borioso e tracotante che avevo conosciuto, ma che si era trasformato in una persona umile e remissiva, preoccupata di mettere in evidenza le sue benemerenze presso quegli stessi organi dello Stato, un tempo cosi apertamente disprezzati. Era capitato a Catanzaro quello, che nello stesso periodo capitò a tanti altri capimafia; avevano perduto la fiducia nella loro autorità e nel loro potere, si sentivano senza protezione e senza difese, esposti quindi come un qualsiasi comune delinquente, ai rigori delle leggi di quello Stato, di quelle leggi che tante volte avevano impunemente ignorato o sfidato. Questa è una prova, se ve ne fosse bisogno, che quando lo Stato fa un giusto uso della sua forza, non trova certo resistenza in questi esponenti della criminalità mafiosa, il cui potere, il cui prestigio sono quasi sempre da ricollegare alle carenze dello Stato stesso. Ritornando al mutato atteggiamento del cittadino verso il fenomeno della mafia, bisogna dire che oggi le cose sono notevolmente cambiate, e forse anche per merito della presenza di questa Commissione, perché oggi nessuno osa più vantarsi di essere amico di un capomafia, perché oggi la credibilità e la influenza del mafioso sono decisamente venute meno, come pure è crollato il mito del mafioso considerato uomo coraggioso, uomo d'onore; oggi il mafioso viene visto nelle sue esatte dimensioni di delinquente pericoloso e senza scrupoli; verrà guardato con timore ma non certamente col rispetto di una volta. Tutto ciò certamente fa sperare bene perché quella coscienza antimafiosa, di cui ho detto, si formi e si consolidi nella società siciliana, ma sino ad oggi essa è mancata cosi come è mancata la collaborazione della intera società italiana, come ha rilevato pure il senatore Adamoli, e finché questi fattori, coscienza antimafiosa e collaborazione di tutta la società, non saranno presenti in misura determinante, non sarà mai possibile portare a termine il difficile compito di stroncare il fenomeno della mafia. Non è la prima volta che lo Stato affronta la mafia con l'intento di distruggerla e bisogna riconoscere che sino adesso lo Stato non è riuscito nello scopo che si era prefisso. La repressione più dura, della quale oggi si parla soprattutto per criticarla, fu quella operata sotto il fascismo, legata al nome del Prefetto Mori, inviato in quell'epoca in Sicilia con poteri eccezionali. Mori era convinto della sua missione alla quale si dedicò con ogni energia ricorrendo anche a sistemi che oggi sarebbe­ro inconcepibili in un paese democratico e che devono essere disapprovati per il loro contenuto di coercizione e di sopraffa­zione delle libertà e dei diritti del cittadino, ma il fatto è che l'opera di Mori, per quanto si riferisce al compito affidatogli, fu coronata da successo nel senso che egli riuscì a distruggere le bande armate, collegate agli aggregati mafiosi, che infestavano le plaghe interne della Sicilia, specialmente nella zona delle Madonie e delle Caronie, a stroncare l'attività delle associazioni mafiose che pullulavano nei centri urbani e in quelli rurali, a ripristinare l'ordine pubblico sia nelle città che nelle campagne. Ciò che fece completamente difetto fu l'attuazione di una politica sociale ed economica idonea a rimuovere le cause del fenomeno mafioso, senza la quale nessuna operazione repressiva è destinata ad un successo definitivo, come infatti si verificò per quella del Prefetto Mori, i cui risultati furono rapidamente annullati nell'immediato dopoguerra, quando i gruppi di mafia si ricostituirono con una virulenza forse maggiore rispetto al passato. Ma di questa carenza la responsabilità non può certamente essere fatta ricadere su Mori, il quale svolse il suo ruolo con competenza, con energia e con efficacia. E dimostrò di essersi reso conto degli aspetti più delicati del problema della mafia, quando cominciò a interessarsi dei protettori e dei complici collocati ad alto livello e già collusi col regime fascista. Ma fu allora che egli venne rimosso brutalmente dal suo incarico per cui non gli restò che sfogare la sua delusione e la sua indigna­zione nelle lettere scritte ad un Ministro che gli era amico. Comunque dell'opera di Mori, a distanza di una quindicina di anni, non rimase letteralmente nulla. E nemmeno può essere ritenuta effetto di questa opera, come qualcuno sostiene, la sparizione della mafia dalle Madonie, poiché tale fatto in realtà è la conseguenza dello sviluppo e della evoluzione della popolazione di quella zona e soprattutto della presa di coscienza delle classi contadine che, nel dopoguerra, lottarono a lungo per sottrarsi alla oppressione e allo sfruttamento dei latifondisti e per il trionfo dei loro diritti, a lungo calpestati o ignorati. Durante la lunga vita di questa Commissione, nel periodo iniziale, che può collocarsi tra il 1963 ed il 1968, le organizza­zioni mafiose furono scardinate e disperse, principalmente nel palermitano, per effetto di una energica azione condotta sia dagli organi di polizia sia dalla magistratura, che prese lo spunto dalle cruente lotte scatenatesi tra due opposte cosche mafiose, culminate nella nota strage di Ciaculli del 30 giugno 1963. È un periodo di cui conservo un ricordo vivissimo in tutti i particolari e i dettagli, perché ebbi la ventura di essere incari­cato della istruzione di tutti i più importanti processi contro le associazioni mafiose. Ed è un periodo emblematico perché è allora che si verifica quel mutamento della opinione pubblica verso la mafia, del quale ho parlato e in cui crollano certi miti collegati al fenomeno mafioso, come quello della impunità. E il periodo in cui a palazzo dei Normanni si discute sulla opportunità dello scioglimento del Consiglio Comunale di Palermo, proprio in relazione alle vicende della speculazione edilizia ed alle pesanti infiltrazioni mafiose in queste vicende. È il periodo in cui la tranquillità e l'ordine sembrano nuovamente ristabiliti in cui i reati di tipo mafioso subiscono una contrazione, mai prima registrata, in cui in paesi come Corleone, la gente riprende l'abitudine, quasi dimenticata, di uscire la sera per le strade. Questa azione fu indubbiamente agevolata e incoraggiata dal semplice fatto che esisteva una Commissione parlamentare di inchiesta, che rappresentava il simbolo autorevole della volontà politica di perseguire e stroncare il fenomeno mafioso. Senonché anche in questa occasione vennero a mancare quegli interventi idonei a sradicare il malcostume mafioso dai diversi settori della vita pubblica, forse anche a cause della mancata tempestiva presentazione di una adeguata relazione in Parlamento da parte della Commissione. Inoltre le deludenti ed anche sorprendenti conclusioni dei grossi processi contro le associazioni mafiose, processi caratterizzati da assoluzioni in serie o, nel migliore dei casi, da condanne inflitte con lo stesso metro che poteva essere usato contro bande di ladruncoli e non certamente contro criminali ritenuti colpevoli di appartenere alle più sanguinarie e temibili associazioni mafiose, dicevo le conclusioni di quei processi annullarono praticamente gli sforzi e i sacrifici compiuti negli anni precedenti e i mafiosi ritornarono in libertà col maggiore prestigio loro conferito dalla vittoria riportata contro lo Stato. E da quel momento ha inizio la ripresa di una campagna sempre più aggressiva e audace che non si arresta di fronte ad alcun ostacolo; si comincia con l'omicidio Bologna e si continua con la strage di viale Lazio, con il sequestro e la soppres­sione del giornalista De Mauro, con l'omicidio dell'albergatore Ciuni, ucciso nell'ospedale dove era stato ricoverato per un precedente attentato, con l'assassinio del Procuratore della Repubblica Scaglione sino alla recente ondata di delitti di ogni genere; tutto questo dà la misura della inutilità della lotta che sino ad oggi si è tentato di condurre contro la mafia. Anche le misure di prevenzione, considerate in un primo tempo come il sistema più efficace, in mancanza di altro per stroncare le attività mafiose, si sono rivelate, alla prova dei fatti, o inutili o controproducenti; infatti i mafiosi, superato lo sbandamento iniziale si sono adattati alle diverse condizioni di vita loro imposte ed hanno continuato a mantenere i loro legami, a curare i loro interessi, avvalendosi dei numerosi ritrovati della tecnica più avanzata; inoltre, approfittando della vicinanza. di grossi e ricchi centri urbani hanno esteso le loro attività in campi nuovi, dando luogo ad un processo di espansione in località. ed in settori, dove mai in precedenza avevano operato, e suscitando cosi un giustificato allarme nella opinione pubblica. In definitiva il quadro che viene fuori da questa sommaria analisi è tutt'altro che confortante, perché la constatazione obiettiva da fare è che non si è fatto nulla o che quanto si è fatto è stato inutile. Aggiungo, anzi. che i pochi dati positivi che possono non trars1, consistono soprattutto nell'attenuarsi di certe inf1ltrazi0ni della mafia nei centri di potere, sono da attribuirsi alla influenza, diretta o indiretta, esercitata da questa tanto criticata Commissione. Ma a parte ciò, la realtà amara è che la situazione odierna non differisce da quella di quindici anni fa, se non per la diversità degli obiettivi criminosi e delle tecniche adottate dai mafiosi. La mafia continua ad esistere cosi come esisteva in passato; ha subito semplicemente un processo di trasformazione e di adeguamento alle mutate condizioni economiche e sociali dell'isola: l'abigeato è soltanto un ricordo; la speculazione edi­lizia ha fatto il suo tempo; il contrabbando delle sigarette si è ridotto a proporzioni trascurabili, mentre si sono sviluppati il traffico della droga, e la cosiddetta industria dei sequestri. Si parla oggi di una nuova mafia rispetto a quella degli anni '60 e a quella degli anni '50 ed in effetti la mafia di oggi è nuova in quanto si sono rinnovati capi e gregari ed in quanto certi aspetti delinquenziali sono molto più marcati che nel passato, però sotto il profilo di organizzazione criminale con scopi di illecito lucro, da realizzare mediante la intimidazione e la violenza, con la tendenza a inserirsi con funzioni parassitarie nelle strutture della società e ad avvalersi di complicità conniven­ze e protezioni nei diversi settori della vita pubblica, la mafia è sempre quella di una volta, con tutte le caratteristiche di estrema pericolosità sociale. La recente uccisione del sindacalista Morreale, commessa a Roccamena, la cui matrice è certamente di natura mafioso-politica e che deve essere fatta risalire, in base alle risultanze delle indagini sino ad ora svolte, come ebbi l'onore di riferire alla Commissione una settimana fa, al gruppo di mafia da anni im­perante in quella località, costituisce una dimostrazione delle mie considerazioni ed altresì una smentita a coloro che sostengono, non capisco in base a quali dati, che la mafia è pratica­mente scomparsa dalle campagne. E la situazione non è affatto migliore nelle città; a Palermo le estorsioni consumate o tentate, precedute o accompagnate da attentati dinamitardi e violenze di ogni genere, sono all'ordine del giorno e costituiscono un preoccupante problema. Il recente tragico episodio in cui perse la vita la guardia di P.S. Cappiello e rimase ferito l'industriale Randazzo mi pare sia una evidente dimostrazione che dietro il gruppo operativo costituito da comuni delinquenti vi è di regola, con funzioni organizzative o di semplice copertura, il gruppo locale di mafia; infatti dalle indagini svolte in occasione di quel delitto è emerso il nome di Riccobono Rosario, capomafia di Partanna Mondello, da tempo latitante al quale si attribuisce, tra l'altro la eliminazione dei vecchi capi della zona. Per chiudere sull'argomento desidero richiamare l'attenzione della Commissione sullo stato d'animo della popolazione di fronte alla recrudescenza della criminalità di marca mafiosa, come aspetto caratteristico della ondata di criminalità abbattutasi su tutto il paese; è uno stato d'animo depresso e scoragiato è lo stato d'animo di chi si sente completamente abban­donato dallo Stato, da quello Stato che non riesce, non dico a risolvere, ma nemmeno ad affrontare in maniera conveniente un problema di tali dimensioni. La gente oggi ha paura ed è questa una senazione che si coglie sia nelle città sia nelle campagne e ciò mi pare che sia un preoccupante regresso nella via dello sviluppo civile e demo­cratico della nostra società. A questo punto, per coerenza logica, bisogna porsi l'interrogativo su quello che bisogna di fare. Certo la Commissione ha poteri limitati, ma è l'espressione del Parlamento e in questo momento decisivo e conclusivo della sua attività, è nelle condizioni migliori per dare una risposta alle aspettative del paese, attraverso la indicazione decisa ed aperta dei centri infetti e delle strutture inquinate dal fenomeno mafioso, in modo da consentire quel profondo processo di rinnovamento che è indispensabile per ristabilire la fiducia del cittadino nello Stato e conseguentemente per la formazione di una diffusa coscienza antimafiosa. Questa è la premessa necessaria perchè sia possibile colpire la mafia alle radici, distruggendo l'alone di intangibilità di cui sono circondati coloro che la proteggono, coloro che con essa colludono e che da essa ricavano benefici e vantaggi di ogni genere. È poi necessario proporre misure idonee al fine di reprimere e di prevenire le attività mafiose, che costituiscono uno degli ostacoli principali al progresso econo­mico e sociale della Sicilia. Questa, secondo me, è la strada sulla quale si dovrebbe avviare la Commissione e ritengo che lo schema di relazione che ci è stato sottoposto e che, ad ogni modo, costituisce un documento di indiscutibile serietà e pregio, debba essere approfondito nella parte attinente al delicato argomento del rapporto mafia-potere. Quanto alle proposte, mi pare che il discorso vada rinviato al momento in cui esse verranno articolate e presentate alla Commissione, in base al programma di lavoro già concordato. Concludo queste mie brevi osservazioni augurandomi che il documento finale risponda nel modo più soddisfacente alle aspettative di tutti, e dei parlamentari e dei cittadini in genere, e che esso sia formulato in modo da poter ricevere il consenso di tutti i componenti della Commissione e di acquistare quindi l'autorevolezza necessaria per imporsi alla responsabile attenzione di coloro ai quali compete il grave dovere di tradurre in concrete realizzazioni le indicazioni e le proposte della Commissione".

Cacciare tutti i complici. Cesare Terranova riportato da La Repubblica l'8 ottobre 2019. Nel vasto archivio della Commissione esiste una significativa dichiarazione che mi auguro sia possibile rendere pubblica, sui metodi di autentica marca mafiosa usati nel Consiglio comunale di Palermo per scoraggiare, in seno alla maggioranza, qualsiasi tentativo di ribellione o di opposizione contro sistemi di gestione della cosa pubblica contrari ai più elementari principi, non dico di democrazia, ma di civile comportamento. Nomi se ne potrebbero fare tanti, sia di Palermo che di altri centri e di tutte le dimensioni, sia di chi ha avuto uno sporadico incontro con la mafia, sia di chi può essere ritenuto un autentico esponente della mafia con un ruolo pressoché analogo a quello che, verso la fine del secolo scorso, fu del senatore Palizzolo, mandante dell'omicidio del direttore generale del Banco di Sicilia Notarbartolo. Ma non si può dare il via ad una indiscriminata caccia all'uomo, perché potrebbe avere conseguenze pericolose e certamente non utili ai fini che interessano. E occorre considerare che qualcuno potrebbe essere, al limite, vittima di circostanze e coincidenze a lui sfavorevoli. Ciò però non esclude che, se si vuole dare un significato concreto e serio alla lotta contro la mafia, è indispensabile anzitutto ripristinare la fiducia del cittadino nelle istituzioni, cominciando con l'allontanamento da tutti i posti di potere di tutti coloro che, non esito a dire, a torto o a ragione, siano stati in qualche misura compromessi o invischiati con la mafia. E questo vale non soltanto per gli uomini politici, ma per tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano preposti ad uffici pubblici di elevata responsabilità. Quest'opera di risanamento, affidata soprattutto alle forze politiche interessate, è la premessa indispensabile di una seria azione contro la mafia  e le sue infiltrazioni.

Polizia più efficiente e niente leggi speciali. Cesare Terranova riportato da La Repubblica il 6 ottobre 2019. L'ordine pubblico costituisce un problema assillante della nostra società, a causa dei continui reiterati e pericolosi episodi di criminalità, che hanno gravemente allarmato la pubblica opinione:  omicidi, sequestri di persona, rapine, estorsioni, fatti brutali di teppismo dettati soltanto da pura malvagità, attentati continui alla incolumità ed alla sicurezza del cittadino. Il delitto è un male sociale da cui la società si deve difendere e proteggere, cercando, con tutti i mezzi, di prevenirlo e provvedendo, quando ciò non è stato possibile, alla emarginazione di colui che delinque, di colui che ha attentato all'ordine sociale. Si tratta quindi di attuare, nella maniera più efficace la difesa sociale e questo costituisce uno dei doveri fondamentali dello Stato democratico, anche allo scopo di evitare che, nel tempo, di fronte e come reazione a inopportune manifestazioni di lassismo e di debolezza, si cerchi di sostituire alla difesa pubblica, insufficiente e insoddisfacente, la difesa privata, con tutti i pericoli che questo implica per la vita stessa della democrazia. Con ciò non si vuole dire che il cittadino deve rimanere inerte e indifferente, perché egli, al contrario, deve dare il suo contributo, con ogni forma di lecita cooperazione con i poteri dello Stato, che ne hanno la responsabilità diretta, alla realizzazione di quella finalità. Sono necessarie, quindi, leggi adeguate alla situazione contingente, perché la mancanza di esse porta al disorientamento, alla confusione e, alla fine, alle ingiustizie; è necessario che tali leggi vengano applicate nel modo più corretto, perché la cattiva applicazione della legge porta alla vanificazione degli sforzi del legislatore; occorre, infine, un efficiente funzionamento degli organi di polizia sia giudiziaria sia di sicurezza. Non si può dire che, nell'attuale momento, queste condizioni si realizzino in maniera soddisfacente. Da alcuni anni la nostra legislazione penale è stata squassata da una congerie di leggi e leggine, ispirate dal nobile intento di adeguare i nostri Codici ai principi della Costituzione, ma emanate senza l'indispensabile coordinamento con altre disposizioni e senza tenere conto della realtà di tante nostre strutture, non adatte  ancora a recepire tante innovazioni. La conseguenza è che si è dovuto correre frettolosamente ai ripari, per cui recentemente sono state emanate due leggi - mi riferisco a quella dell'aprile 1974 sui termini della custodia preventiva e a quella del mese scorso sulle nuove norme contro la criminalità - che, attraverso un testo oscuro, farraginoso e a volte contraddittorio, hanno modificato in senso peggiorativo istituti modificati appena qualche anno fa, senza, peraltro, dare un contributo concreto alla soluzione del problema che ci interessa. Un solo esempio: nell'ultima legge tre articoli sono dedicati all'aumento delle pene per i reati di rapina, estorsione, e sequestro di persona a scopo di estorsione, allo scopo evidente di scoraggiare, mediante l'inasprimento della sanzione penale, dal commettere quel tipo di reati. Senonché l'aumento di pena si riferisce soltanto ai massimi e non ai minimi, rimasti pressoché inalterati. Questo significa che la modifica apportata è del tutto inutile ed inidonea ad avere una conseguenza pratica nella realtà processuale, dal momento che, come sa benissimo chiunque abbia esperienza di cose giudiziarie, le pene vengono, di regola, inflitte parten­do dalla previsione minima. Con quello che ho detto non intendo certamente criticare lo sforzo e la volontà di correggere certe storture - e ve ne sono - della nostra legislazione penale, anzi sono convinto della necessità di una radicale riforma dei Codici Penali, come pure della riforma dell'ordinamento giudiziario, dell'ordinamento penitenziario, delle circoscrizioni giudiziarie ed in genere di tutta quella parte della nostra legislazione attinente alla Giustizia Penale. E tale riforma si sarebbe dovuta realizzare già da tempo, in maniera organica e approfondita. Il fatto che ciò, sino ad oggi, non sia stato attuato, non giustifica per nulla le affrettate e disordinate innovazioni di questi ultimi anni, spesso dettate da motivi contingenti estranei alla esigenza di quel rinnovamento da tutti auspicato, innovazioni che in definitiva non hanno giovato al cittadino. In particolare nel campo della procedura penale, che rappresenta il filtro indispensabile e determinante, attraverso il quale lo schema astratto, della norma di diritto penale viene adattato al caso concreto, nelle sue innumerevoli sfaccettature oggettive e soggettive, dicevo nel campo della procedura penale solo pochi mesi fa il Parlamento è riuscito a portare a compimento il lavoro iniziato sin dalla quarta legislatura, mediante l'emanazione della Legge-Delega, a cui tra qualche anno, almeno, si spera, seguirà il testo del Nuovo Codice di Procedura Penale. Certo si è fatto un passo avanti, però penso che si è ancora molto lontani da quello che, secondo me, è il modello ideale del processo, vale a dire un processo rapido, semplificato, spoglio di tutti i formalismi inutili, non inceppato da adempimenti ed obblighi, che non  siano  strettamente indispensabili. Questo obiettivo non può  dirsi raggiunto e ciò ha delle ripercussioni negative nella lotta contro la criminalità, perché, come la esperienza storica insegna, non è tanto la durezza della pena quanto la rapidità e la certezza con cui essa viene inflitta, a esercitare un freno validissimo  al delitto. Il rischio di una sanzione più o meno grave di solito non scoraggia il delinquente, mentre lo scoraggia la consapevolezza di poter ben difficilmente restare impunito o sottrarsi alla pena, ricorrendo ai cavilli ed agli espedienti di cui oggi può disporre con  larghezza. Le sole leggi, considerate in astratto, però non bastano; si richiede che siano applicate con la dovuta correttezza e con il rigore o la indulgenza imposte dalle diverse situazioni. Scriveva un illustre studioso di diritto che non esistono leggi buone o leggi cattive; esistono soltanto leggi; è il modo di applicarle che le rende buone o cattive. È questo un principio che ha una sua grande validità e che richiama l'attenzione su coloro che hanno il compito di applicare la legge, cioè sui giudici. Quella del giudice è una funzione di estrema importanza nella vita di una società democratica, perché il giudice - mi riferisco ovviamente al giudice penale - ha la grandissima responsabilità di disporre della libertà e della reputazione del cittadino, beni che sono assolutamente insostituibili o irreparabili. Non mi dilungo qui sui compiti e sui doveri complessi e numerosi del giudice; mi limito a dire che per una efficace difesa della società dalla criminalità occorre da parte del giudice una presa di coscienza della situazione, quale è obiettivamente senza volere né esagerare né minimizzare, occorre un impegno particolarmente serio tale da tranquillizzare il cittadino sulla corretta applicazione delle leggi. Infine bisogna parlare della Polizia; l'Italia dispone di tre grandi servizi di Polizia: Carabinieri, Pubblica Sicurezza e Guardia di Finanza, nonché di altri minori, ognuno autonomo rispetto all'altro. Questa autonomia, la mancanza di coordinamento, sia sul piano locale che sul piano nazionale, le diversità funzionali e organizzative, incidono negativamente sulla efficienza di tali servizi, determinando una deprecabile dispersione di forze e vanificando spesso gli sforzi e i sacrifici dei singoli. Non si dice nulla di nuovo quando si denunzia questo stato di cose che non accenna a mutare e di cui nessun Governo della Repubblica si è mai curato o preoccupato. Addirittura nessun intervento è stato mai operato per stroncare le manovre tendenti a mantenere privilegi e prerogative del passato non più compatibili con lo spirito della democrazia, tendenti eludere l'attuazione di principi stabiliti dalla legge. Per chiudere il discorso sulla Polizia, sono contrario alla creazione di un corpo di Polizia Giudiziaria, come è stato sostenuto da qualcuno, perché in tal caso finiremmo con l'avere quattro anziché tre servizi di Polizia, però ritengo indispensabile la creazione di un organo di coordinamento delle forze di polizia, allo scopo di evitare contrasti, dispersione di forze conflitti di competenze, gare di emulazione più dannose che proficue; ritengo indispensabile che questo venga realizzato per la P.S. come ho avuto occasione di sostenere - in verità senza successo in Parlamento - in modo tale che l'attività di essa venga diretta e indirizzata in maniera organica ed efficace verso il suo obiettivo istituzionale, nell'interesse della della collettività - che degli stessi ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, i quali dovrebbero essere messi in grado di operare senza essere condizionati da preoccupazioni estranee ai loro compiti. E a proposito degli uomini della Polizia bisogna convincersi della  grande utilità  sociale della loro attività, dei rischi e dei pericoli ai quali sono esposti, dei sacrifici che affrontano e bisogna  quindi riconoscere alle  forze di polizia il trattamento che meritano, che non è certo quello usato oggi dal Governo. Il migliore strumento per la lotta contro la criminalità è una polizia bene organizzata, efficiente, dotata di mezzi e attrezzature moderne e funzionali, con i poteri occorrenti per svolgere nel modo migliore i propri compiti, retribuita in maniera ade­guata e sottoposta al controllo degli organi competenti dello Stato. Per una efficace lotta contro il crimine non penso che si debba ricorrere a delle leggi speciali sia perché non mi pare che ce ne sia la effettiva necessità sia perché la emanazione di leggi speciali, prima o dopo, si risolve a danno della libertà del cittadino. Ritengo sufficiente l'aggravamento delle pene per alcuni reati, ma un aggravamento operato con criteri di estre­mo rigore e non col criterio adottato con la legge dell'ottobre scorso. Tale aumento dovrebbe essere previsto per i sequestri di persona, per tutti i reati commessi con l'uso delle armi, per la delinquenza organizzata, in cui rientrano anche le associazioni mafiose, la cui virulenza non è affatto cessata, anche se sono cambiati sistemi e obiettivi. Non basta, però, aumentare le pene; occorre che queste vengano inflitte e con un giudizio rapido, nelle diverse fasi, indipendentemente dalla previsione del giudizio direttissimo nei casi previsti dalla legge. Certo non è facile passare con facilità da un processo, come il nostro, che si protrae per anni, ad un processo il cui iter, in tutte le fasi, si esaurisca in pochi mesi. Però qualche cosa si può e si deve cominciare a fare, come, ad esempio, ridurre drasticamente i termini per tutte le perizie, innovazione questa che non importa alcuna difficoltà, a condizione, beninteso, che si provveda al pagamento dei periti non secondo l'attuale anacronistico sistema delle vacazioni ma secondo il merito. In secondo luogo bisogna fornire agli uffici giudiziari, in misura adeguata alle diverse necessità, personale d'ordine e attrezzature meccaniche, in modo da snellire ed ac­celerare al massimo il compimento di una sequela di adempimenti, di quegli adempimenti che oggi costituiscono un grosso ostacolo alla rapidità da tutti auspicata; naturalmente occorre anzitutto e con urgenza provvedere alle lacune e alle deficienze attuali, perché non si può pretendere che un ufficio giudiziario funzioni, se manca il personale minimo indispensabile. Il discorso sulla criminalità non si può dire completo se non si parla anche della delinquenza politica o pseudo politica, le cui più recenti imprese sono semplicemente agghiaccianti per la ferocia con cui sono state compiute ai danni di cittadini inermi e indifesi. Lo Stato, attraverso tutti i suoi poteri, ha il dovere preciso di intervenire con ogni mezzo a disposizione per combattere senza compromessi e indulgenze il terrorismo di origine politica, come pure per stroncare le trame eversive, che minacciano l'esistenza della Repubblica, colpendo con inflessibilità ese­cutori e mandanti, a qualsiasi livello costoro possano trovarsi. Solo adottando ferme e intransigenti posizioni si può sperare, come si desidera da tutte le parti, di superare questo perio­do travagliato, che è stato funestato da delitti di ogni genere, da stragi, uccisioni e violenze, di ripristinare l'ordine sociale cosi gravemente minacciato e turbato.

·         5 Aprile 1973 – Attentato Al Questore Angelo Mangano.

5 Aprile 1973 – Attentato Al Questore Angelo Mangano, scrive il 5 Aprile 2019 Carmelo Carbone su  Mafiathemisemetis.com. Roma. Mercoledì 5 aprile 1973, ore 20. Il questore Mangano esce dall’ufficio dell’Interpol e a bordo della “1100” di rappresentanza, guidata dall’appuntato Casella, si dirige verso casa, in via Tor Tre Teste. Vi arriva intorno alle 20:30. L’appuntato si è accostato con l’auto al marciapiede sulla sinistra, il dott Mangano scende dall’auto, nello stesso istante un’ “Alfa Romeo 1750” si ferma a qualche metro di distanza dalla “1100” e subito dopo il questore e l’autista, quest’ultimo fermo al volante e col motore acceso in attesa che il questore entri in casa, vengono investiti da una pioggia di proiettili esplosi da pistole e lupare, sparati dai quattro uomini a bordo di un’auto. Il questore colpito al torace, alla spalla, al braccio ed alla mano, in preda ad un dolore lancinante si accascia sul marciapiede, a questo punto dall’”Alfa Romeo” scende uno dei quattro per dargli il colpo di grazia, gli spara in fronte, Mangano riesce a deviare il colpo che lo ferirà alla mano destra e finirà la sua corsa poco sopra l’occhio sinistro all’altezza del sopracciglio. Sicuro di aver portato a temine il proprio sporco lavoro, il killer sale in auto, dove ad attenderlo ci sono i tre complici, l’auto parte a fortissima velocità e si dirige verso la Casilina. L’appuntato, nonostante fosse stato colpito da due proiettili, uno alla mascella e l’altro al torace, fu in grado di trascinare il questore gravemente ferito ma cosciente sino all’auto, facendolo sdraiare sul sedile posteriore e messosi al volante, riuscì a raggiungere la vicina “Villa Irma”. I colpi nel frattempo erano stati uditi dalla cameriera di casa Mangano che si trovava in cucina intenta a preparare la cena. “Ha sentito signora?” – ha domandato – correndo nell’altra stanza dove si trovava la moglie, – “sembra una sparatoria”. – “ma che ti prende? Sarà il tuono” – rispose la moglie del questore. Anche il cognato del questore che abitava nella casa accanto aveva udito gli spari. La moglie del questore uscì nella via, e vide a terra sul marciapiede un mazzo di chiavi, che subito riconobbe essere quelle del marito. Con un urlo si precipitò in casa invocando soccorso. Dalla clinica “Villa Irma”, questore ed appuntato, vennero subito trasportati all’ospedale San Giovanni, dove i medici in un primo momento giudicarono gravissime le condizioni del dott. Mangano e meno gravi quelle dell’appuntato Casella. In sala operatoria il professor Grassi incominciò un difficile intervento sul questore. I proiettili che lo avevano colpito alla testa ed al torace erano ritenuti, mentre quelli che lo avevano ferito alla mano sinistra ed al braccio destro presentavano foro di entrata e di uscita. Si accertò successivamente che i proiettili erano stati esplosi da un fucile calibro dodici a canna mozza e da una pistola. Intanto il Ministro dell’Interno Mariano Rumor ed il prefetto di Roma dottor Ravalli arrivarono in ospedale. Il ministro dirà: “ha una forte fibra, è quasi certo che se la caverà”. L’indomani un nuovo bollettino medico rettificava il numero di colpi d’arma da fuoco che avevano colpito il questore, non quattro, bensì cinque (un’altra pallottola lo colpì alla mano destra; ferita provocatagli dal riuscito tentativo di deviare il colpo che avrebbe dovuto finirlo). Il professor Grassi fra l’altro annunciò che sarebbero trascorsi tre o quattro giorni prima di sciogliere la prognosi. Intanto le condizioni dell’appuntato Casella considerate in un primo momento come non gravi, furono giudicate più gravi del previsto, in quanto era probabile che un proiettile avesse potuto ledere una vertebra cervicale. Questore e appuntato ricoverati nella stessa stanza, erano sorvegliati da agenti di polizia in camice da infermieri, non vengono mai persi di vista, neppure durante il trasporto dalla stanza di degenza alla sala operatoria o di medicazione. Altri poliziotti erano di guardia nei corridoi e all’ingresso dell’ospedale, per evitare che i criminali portassero a termine il loro lavoro. Nel frattempo, furono recapitate presso l’ospedale San Giovanni, indirizzate al questore Mangano due lettere minatorie. In un primo momento come atto dovuto la magistratura istruì la pratica a carico di ignoti. Dopo qualche giorno dalla data del fallito attentato, Mangano indicò agli inquirenti, dal letto dell’ospedale presso il quale era ancora ricoverato in convalescenza, in Frank Coppola il mandante e in Ugo Bossi e Sergio Boffi gli esecutori materiali dell’attentato. Il movente del delitto, disse il questore agli inquirenti, andava ricercato nel desiderio di Coppola di dimostrare alla mafia di non essere una spia di Mangano. Il questore, a tal proposito, dichiarò agli inquirenti che fin dai tempi immediatamente successivi alla fuga di Liggio, aveva cercato di convincere Coppola a fargli qualche rivelazione che potesse essergli utile per catturare il bandito, e che in un colloquio del 2 aprile 1973, si era convenuto che Coppola avrebbe dovuto dargli queste notizie per il 5 aprile. Senonché Coppola, messo alle strette dai mafiosi (in particolare da Gaetano Badalamenti) per allontanare da sé ogni sospetto e anche per conservare la posizione di prestigio che aveva nel mondo della droga, avrebbe organizzato e fatto attuare l’agguato. Il procedimento a carico degli imputati li vedrà assolti per non aver commesso il fatto. Il pentito collaboratore di Giustizia Antonino Calderone, ritenuto attendibile dal giudice Falcone, racconterà moltissimi anni dopo i dettagli dell’attentato, riferitigli dal fratello Pippo allora capo di Cosa nostra a Catania. “Vi ricordate il famoso attentato al questore Angelo Mangano di cui tanto si è parlato sui giornali? Ebbene sono in grado di riferirvi come si sono svolte le cose. Uno degli autori dell’attentato fu Liggio, ma gli altri partecipanti non erano siciliani ma napoletani. Ho appreso queste circostanze da Pippo, il quale commentò con Stefano Bontade – per fortuna nessun palermitano è coinvolto in una cosa fatta così male” – e ancora: “i napoletani che stavano con Liggio erano Ciro Mazzarella e Michele Zaza, entrambi contrabbandieri. Mazzarella guidava l’automobile che si avvicinò all’ingresso della casa di Mangano. Liggio scese dalla macchina per sparare in testa al Mangano da una distanza ravvicinata per essere sicuro di non sbagliare, senonché o per difetto dell’arma o per difetto delle cartucce o per altri motivi, Mangano non fu ferito mortalmente… Nello Pernice mi disse anche che Liggio non riusciva a darsi pace per questo fallimento”. Il questore Angelo Mangano, dopo aver lottato con tutte le proprie forze la mafia, dopo aver fatto emergere collusioni di quest’ultima con alcuni apparati dello Stato, dopo il fallito attentato dal quale si salvò per miracolo, dopo la discutibilissima “relazione” redatta dell’onorevole Francesco Mazzola comunicata alla Presidenza della Camera il 26 febbraio 1975, viene assalito da una profonda amarezza, per come è stato trattato da quello Stato che ha servito senza risparmiarsi, mettendo continuamente a repentaglio la propria vita. Infatti, l’onorevole Mazzola, nella suddetta relazione avente per argomento la vicenda della manipolazione delle bobine relativa alle intercettazioni telefoniche connesse alla latitanza ed alla irreperibilità di Liggio, critica aspramente il comportamento di Mangano, dando di fatto maggior credito alle farneticanti dichiarazioni del mafioso Frank Coppola piuttosto che alle verità del questore. Prosegue poi, dando quasi per scontato che Mangano avesse chiesto dei soldi a Coppola per far cancellare alcuni passaggi contenuti sui nastri che lo compromettevano. Ricordiamo che nel 1981 in sede giudiziaria la vicenda vedrà il questore Mangano prosciolto in istruttoria da questa infamante accusa, mentre Coppola verrà rinviato a giudizio per diffamazione. Il processo a suo carico si interromperà per la morte del mafioso avvenuta l’anno successivo. L’onorevole Mazzola continua insinuando che l’attentato subito da Mangano non era sicuramente di matrice mafiosa; accusa quasi il questore di essere colluso con Liggio e di aver fallito tutte le operazioni antimafia che ha fatto. Fortemente amareggiato, dunque, Mangano redige a sua volta un documento che invia alle maggiori cariche statuali, ovvero: all’onorevole presidente della Commissione Antimafia, al presidente della Camera dei Deputati, al presidente del Senato, al Ministro degli Interni e al Capo della Polizia, con cui chiede: «di acclarare la realtà dei fatti storici» in modo da riabilitare agli occhi dell’opinione pubblica la sua figura di uomo e di funzionario. Infatti si tentò di far sparire Mangano dalla scena italiana, incaricandolo “di recarsi a Manila nelle isole Filippine per compiti di studi e ricerca sull’organizzazione dei servizi di Polizia” La misura era oltremodo colma! Mangano rifiutò l’incarico! Ricordiamo quel che disse Buscetta al giudice Falcone nel momento in cui iniziò a collaborare con la giustizia. “Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa nostra non si chiuderà mai”.

Intervista al questore Mangano. Da “L’EUROPEO” del 5 luglio 1973 (tre mesi dopo il gravissimo attentato a Mangano) di Enzo Magrì.

Magrì: “Questore Mangano , lei lo sa che fino a qualche giorno fa alcuni pensavano che fosse stato lei a organizzare la messinscena dell’attentato”?

Mangano: “Questo si che lo so. So che circolavano queste voci. Qualcuno l’ha addirittura scritto. Si è vero, si è parlato di una messinscena. Di tante messinscena: la messinscena della cattura di Luciano Liggio; del conflitto a fuoco col bandito Graziano Mesina; della cattura del mafioso Panzeca. Tutte messinscena. Tutte finzioni. Tutte “verità di Mangano”.

Magrì: “Questore Mangano, un’ultima domanda: Perché lei, tra tanti importanti poliziotti, è l’uomo più discusso, diciamo invidiato? Perché i suoi nemici sono arrivati al punto di pensare che lei si fosse organizzato persino un attentato?”

Mangano: “Forse perché ho dei meriti che altri non hanno. Di Liggio c’è ne uno solo e l’unico a catturarlo sono stato io. Forse per questo mi odiano”.

Magrì: “Chi?”.

Mangano: “La mafia non sempre spara” (palese riferimento alla “macchina del fango” che l’ha investito. n.d.a.).

Il 25 febbraio 1975, nell’articolo intitolato “Nastri nostri”, apparso sul settimanale “Panorama”, Roberto Fabiani descrive in questo modo la figura del questore Angelo Mangano. “Dice raramente la verità, e nessuno si spiega il perché, sul suo luogo di nascita: è di Giarre Riposto, in provincia di Catania, ma di solito dice che è nato a Catania. Nel ‘67 davanti alla Corte d’Assise di Cagliari dichiarò di essere nato a Greve, provincia di Enna. (Mangano è nato a Giarre e non a Giarre Riposto che alla data di nascita del questore ed anche oggi sono due comuni autonomi, inoltre non esiste alcun comune denominato Greve in provincia di Enna.-n.d.a.). Ha precedenti inquietanti: nel ’41 venne condannato dal Tribunale militare a tre anni di reclusione per diserzione continuata, ma nel suo fascicolo personale, al Ministero dell’Interno, il certificato penale dichiara il classico “nulla”. (Il curriculum del questore Mangano depositato presso il Ministero dell’Interno è immacolato. Il dott. Mangano fu promosso applicato di Pubblica Sicurezza il 1° aprile 1942. Durante il periodo nazifascista, conseguì la nomina a funzionario ausiliario e venne destinato alla questura di Torino, che, però, non raggiunse. Fu quindi dichiarato rinunciatario.- n.d.a.). .Nel 1967, durante il suo soggiorno in Sardegna, dove lo aveva spedito Vicari per dare la caccia ai banditi, collezionò una serie di denunce per falso in atto pubblico e calunnia. E al processo contro Graziano Mesina, il pubblico ministero disse testualmente: “Mangano dovrebbe comparire in quest’aula nella stessa gabbia in cui sono rinchiusi i banditi”. (visto il tono dell’articolo dubitiamo molto sul fatto che il pubblico ministero abbia potuto fare tale dichiarazione.-n.d.a.) Frugando negli archivi dell’Antimafia, per giunta, i commissari hanno trovato un pacco di rapporti spediti dai procuratori della Repubblica di mezza Sicilia (nell’isola Mangano ci ha passato quasi due anni, ancora una volta inviato speciale di Vicari per dare la caccia ai mafiosi) che dicono del questore tutto il male possibile. (casomai è vero il contrario, il dott. Mangano fece pervenire alla Commissione Antimafia “rapporti riservati” con i quali accusava alcuni organi delle istituzioni, magistrati e politici di essere collusi con la mafia.-n.d.a.) Come ha fatto allora Mangano a salire nella carriera senza trovare nessun ostacolo? La Commissione ha risposto: protezione ad oltranza da parte di Vicari, a cui Mangano è legato da rapporti che sono ancora tutti da chiarire e che risalgono ai tempi roventi dell’assassinio del bandito siciliano Salvatore Giuliano. (Mangano ebbe il suo primo incarico in Sicilia nel novembre del 1963, quindi con la vicenda del bandito Giuliano che ebbe il suo epilogo il 5 luglio 1950 con la messinscena del finto conflitto a fuoco con i carabinieri , non ebbe nulla a che fare.-n.d.a). Di questo suo singolare collaboratore prediletto Vicari diede solo una volta, anni fa, un giudizio a mezza bocca: “I delinquenti non si combattono con i galantuomini’…” (Non ci risulta che Vicari abbia mai fatto questa affermazione. Ci risulta da atti e fatti invece il contrario, ovvero che Vicari nutrisse una smisurata fiducia nell’uomo e nel funzionario Angelo Mangano.- n.d.a.).

Dal giorno dell’attentato e per il resto della sua vita soffrì di quotidiani e fortissimi mal di testa a causa delle schegge dei proiettili che gli rimasero conficcate in testa e che non fu in alcun modo possibile rimuovere. Si spense improvvisamente all’età di 85 anni, il primo aprile del 2005, a causa di un’ emorragia cerebrale causata dalle schegge rimaste l’encefalo. Nessuna via gli è stata intitolata e nessun luogo porta il suo nome. Molti oggi ignorano chi sia questo impavido, onesto e probo servitore dello Stato. Fu un uomo che spese e sacrificò la propria vita alla ricerca delle verità. Verità che in quel contesto storico sarebbe stato più comodo e conveniente non cercare. Fu per questo un uomo scomodo da vivo, il suo ricordo, una “scomoda” verità da morto.

Angelo Mangano, la storia di un poliziotto scomodo. «Oppositore della mafia, oggi purtroppo dimenticato». In una lunga intervista a MeridioNews lo scrittore Carmelo Carbone ricorda la figura del questore di origini giarresi, «integerrimo servitore dello Stato che arrestò il boss di Cosa nostra Luciano Liggio». Il volume, che raccoglie alcuni tra gli aneddoti più importanti della vita del funzionario, sarà presentato domani a Giarre, scrive Salvo Caniglia il 29 giugno 2017. «Impavido, onesto e probo servitore dello Stato». Non ha dubbi Carmelo Carbone, autore di Angelo Mangano, un poliziotto scomodo, che sarà presentato venerdì 30 giugno a Giarre, nella sala Messina, quando ricorda la figura del suo conterraneo. Nato nel 1920 Mangano è stato commissario di pubblica sicurezza, questore e membro dell’ufficio affari riservati del Ministero dell'interno, prestando servizio in diverse città del nord Italia, prima di essere inviato in Sicilia, nel 1963, a seguito della strage di Ciaculli, un attentato di matrice mafiosa in cui persero la vita quattro uomini dell'Arma dei carabinieri, due dell'Esercito Italiano e un sottufficiale del Corpo delle Guardie dell’attuale Polizia di Stato. Ad appena un mese dal suo insediamento a Corleone, Mangano cattura Totò Riina e l’anno successivo diventa protagonista dell’arresto della primula rossa di cosa nostra, Luciano Liggio. «Pur avendo letto molti libri su mafia e antimafia, fino a quattro anni fa non conoscevo la figura di Mangano - racconta Carbone -. L’ho scoperto per caso, nella bottega di un rigattiere, quando ho trovato una copia libro di Giuseppe Fava Processo alla Sicilia. Il giornalista catanese, durante una delle sue inchieste, incontrò Mangano a Palermo, quando era vicequestore». Una coincidenza che ha spinto Carmelo Carbone a documentarsi su una figura di spicco delle forze dell’ordine italiane, molto discussa in vita e dimenticata dopo la sua morte. Atti della commissione Antimafia, documenti e foto fedelmente riportati nel volume, che segna l’inizio del suo cammino da scrittore, con l’intento di conoscere i fatti e giudicare. «Sono riuscito a stendere questo libro con grande fatica - aggiunge Carbone - perché le fonti erano davvero ristrette. Ho sentito comunque l’esigenza di andare avanti perché, man mano che studiavo, mi rendevo conto che Mangano fosse una persona integerrima, tutta d’un pezzo e che, per quei tempi, aveva fatto cose straordinarie». Dopo aver prestato servizio a Corleone, a metà degli anni Sessanta a Mangano viene affidata la direzione del centro di coordinamento regionale di Polizia criminale, con il compito di coordinare l’azione dei vari organi di polizia. Un incarico che gli permise di riaprire, tra i tanti, il caso del giornalista di Termini Imerese Cosimo Cristina, trovato morto, sei anni prima, in circostanze misteriose. «È una storia che, per le tante anomalie del caso, ricorda quella di Peppino Impastato -prosegue Carbone -. Cosimo Cristina fu ucciso a soli venticinque anni e i carabinieri cassarono l’episodio come suicidio. Mangano riaprì il caso perché aveva capito che si trattava di un delitto di stampo mafioso, in quanto il giornalista stava conducendo un’inchiesta sull’omicidio del pregiudicato Agostino Tripi». «Oggi - aggiunge Carbone - Cosimo Cristina è universalmente riconosciuto come il primo giornalista a essere stato ucciso dalla mafia e il suo nome compare nella lista, redatta dall’ordine dei giornalisti, dei martiri assassinati dalla mafia». Un’attività investigativa e un impegno che, in pochi anni, avevano condotto all’arresto dei vertici di cosa nostra, prima che i giudici di Catanzaro e Bari, con due sentenze emesse tra il 1968 e il 1969, rimettessero in libertà quasi tutti gli imputati, tra i quali Luciano Liggio. «Quando assolsero i sessantaquattro imputati, Mangano chiese il trasferimento a Roma e, secondo alcune testimonianze che mi sono state riferite, non volle più occuparsi di mafia. Insieme al giudice istruttore Cesare Terranova, aveva raccolto prove e testimonianze schiaccianti, lavorando in maniera scrupolosa. Al processo testimoniò in favore dell’accusa e fu presente in tre sedute. Dopo quelle sentenze, in cui si trova anche una dura reprimenda rivolta alle autorità di polizia giudiziaria, accusate di trascuratezza e superficialità, Mangano perse la fiducia in quelle istituzioni». Smantellato il nucleo anticrimine, Mangano fu trasferito in Sardegna e successivamente, nel 1971, promosso questore a Roma, dove continuò la sua attività investigativa, sfociata nel cosiddetto scandalo Rimi, in cui furono coinvolti anche diversi magistrati. Continuò a indagare anche sulle attività di Luciano Liggio, dopo aver scoperto che uno dei suoi uomini, il boss Frank Coppola, si trovava nelle vicinanze di Roma. Un’indagine che spinse Coppola ad assumere dei sicari per eliminare Mangano. La sera del cinque aprile del 1973 il questore viene raggiunto da cinque colpi di pistola.  «Mangano uscì miracolosamente vivo da quell’attentato - spiega Carbone - grazie alla sua stazza, non comune, e alla capacità che ebbe nel deviare, con la mano destra, un colpo di pistola indirizzato alla fronte. Alcuni organi di stampa, subdolamente, insinuarono che lui stesso avesse organizzato l’attentato. Un’accusa che ricorda il fallito attentato all’Addaura ai danni del giudice Falcone. Sarà poi il pentito Antonino Calderone, che è stato ritenuto attendibile dalla magistratura, a svelare le modalità e gli esecutori dell’attentato, tra i quali c’era anche Luciano Liggio, che voleva vendicarsi dell’arresto a Corleone, nel 1964».«Con questo libro - aggiunge - ho voluto raccontare l’uomo, la sua storia, il suo tempo e il suo esempio di onestà e rettitudine morale. Una figura scomoda fatta cadere artatamente nel dimenticatoio. Ancora oggi - conclude l’autore - nella stessa Giarre, Mangano è un personaggio quasi sconosciuto e in tutta Italia non ci sono vie o piazze intitolate a questo fedele servitore dello Stato».

Carmelo Carbone dalla sua pagina Facebook. Post del 10 aprile 2019. ARTICOLO A FIRMA DI FABRIZIO CARBONE APPARSO SUL QUOTIDIANO "LA STAMPA" DI TORINO IL 13 APRILE 1973. "Il giudice Terranova parla di Mangano dei probabili attentatori e della mafia - doveva incontrare il questore il giorno dopo l'attentato"."E' grave, per gli esecutori, che l'agguato sia fallito", dice il magistrato che ha lavorato a lungo con il questore - Chi aveva motivi per uccidere Mangano? - "Liggio ha altri problemi, la sua latitanza è costosa". (Nostro servizio particolare) Roma, 12 aprile. «Dobbiamo tenere i piedi puntati per terra: sul caso Mangano si sono dette troppe cose. Bisogna indagare a fondo su una sequela di episodi e innumerevoli personaggi, partendo dal presupposto che l'attentato al questore ha tutti i crismi dell'agguato mafioso». Cesare Terranova, magistrato palermitano, oggi deputato della sinistra indipendente, aveva un appuntamento con Angelo Mangano venerdì 6 aprile, il giorno dopo la fallita imboscata di quattro killers al funzionario di polizia, davanti alla sua abitazione di via Tor Tre Teste. Lo abbiamo intervistato perché Terranova è un siciliano che combatte la mafia, conosce tutte le «cosche» dell'isola, gli intrecci e le rivalità che legano e dividono i loro «boss». Terranova e Mangano erano a Partinico (Corleone - l''autore del pezzo ha sbagliato) dall'autunno del '63 alla primavera del '64. Il 16 maggio dello stesso anno Luciano Liggio venne arrestato. «Dirigemmo le indagini insieme». Il discorso con il magistrato è difficile: Terranova è uomo di legge; ha già avuto un lungo colloquio in ospedale con Angelo Mangano; si trincera dietro il segreto istruttorio. Andiamo avanti per esclusione. «Partiamo dall'attentato. Come mai è fallito? E' possibile che l'organizzazione che voleva eliminare il questore si sia servita di sicari della "mala" romana?». Risponde: «Premetto che la mafia è soltanto un concetto; in realtà esistono le mafie e i loro capi. E loro non si fidano se non dei "picciotti". Al massimo si possono servire di appoggi di altre località. Ricordiamoci che nel '56 il vice del capomafia Galatolo, fuggito a Como, venne giustiziato da killers venuti dalla Sicilia. E' grave, per gli esecutori, che l'attentato a Mangano sia fallito. Hanno sparato con piombo dolce e avevano fretta. Quando Scaglione fu ucciso il killer sfondò con un mitragliatore il lunotto posteriore della macchina del procuratore e poi centrò il magistrato e l'autista con precisione assoluta». «Lei è a conoscenza del lavoro di Mangano di questi ultimi tempi? Si interessa a Luciano Liggio?». «So che l'ufficio di Angelo Mangano è quello degli "affari riservati". Credo si interessi a Liggio come tanti altri». «E la "Primula di Corleone" aveva motivi per ucciderlo?». «Credo di no. Mangano lo arrestò dieci anni fa. Liggio ha altri problemi: la sua latitanza è costosa; deve curarsi e farsi proteggere. Non credo che Liggio sia all'estero: per me è in Italia, al sicuro. C'è il clan dei Greco che lo aiutò a sgominare la "cosca" dei Navarrà e lo continua ad aiutare. Ma Liggio non è il mandante, à mio avviso». «Si è parlato del vecchio Frank Coppola. Può essere stato lui?». «Coppola è in pensione, anche se ha costituito un suo "clan" a Pomezia. Fu potente quando tornò dall'America. Le faccio un esempio: Michele Alduino, un assassino spietato oggi all'ergastolo, riuscì a farsi mandare a Pomezia in soggiorno obbligato, per stare vicino all'amico. Ma oggi Coppola è controllato e non ha alcun interesse ad eliminare un uomo della polizia». «Allora dove si deve guardare, per arrivare ai mandanti?». «Alla Sicilia. Il motivo può essere vendetta o interesse. La cosca che ha fallito il colpo può avere agito tramite personaggi confinati o al sor/ giorno obbligato. Sono tanti, sd sparsi dovunque. Un tempo si giustiziavano persone partendo da Misilmeri e andando a Palermo. Oggi si prende l'aereo e si torna nella stessa giornata, in tempo per firmare il registro di presenza dei carabinieri ». «Pensa che il tentato omicidio del questore avrà un seguito?». «Non mi stupirei se si ritrovasse il cadavere di uno sconosciuto nelle campagne della Sicilia o del Lazio. E' lo stile mafioso». «Chi voleva Mangano morto, ci riproverà?». «E' un grosso punto interrogativo. A Palermo, Ciuni, un mafioso, subì un attentato e fu poi finito in ospedale da sicari in camice, bianco. E c'è il caso Cucciardi, ferito una prima volta e ucciso a 5 mesi di distanze».

Carmelo Carbone. Sono nato a Catania il 5 febbraio 1974 e vivo a Riposto, sempre in terra catanese. Ha frequentato il locale Istituto Tecnico Commerciale dove ho conseguito il diploma di "Ragioniere e perito Commerciale". Nel 2017 ho pubblicato  il libro "ANGELO MANGANO UN POLIZIOTTO SCOMODO" Edizioni indipendenti. Ho scritto alcuni articoli sull'aperiodico dell'associazione culturale "RIPOSTO BENE COMUNE". Attualmente mi occupa di ricerca storica contemporanea.

Angelo Mangano e l’Intreccio De Mauro, Mattei, Eni, scrive il  27 Dicembre 2018 Carmelo Carbone su  Mafiathemisemetis.com.  Prosegue il racconto del  Questore Mangano e delle sue indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Al dottor Mangano, viene riferito confidenzialmente che il marchese siciliano Emanuele De Seta potrebbe essere a conoscenza di qualche fatto importante circa la vicenda del rapimento De Mauro. De Seta è spesso a Roma dove ha un’abitazione e il dottor Mangano decide di incontrarlo proprio nella capitale. Il funzionario crede che incontrandolo fuori dalla Sicilia e dal pesante clima omertoso che vi aleggia potrebbe aiutarlo nel farsi dare utili indicazioni sul rapimento del giornalista. Prima dell’incontro, Mangano redige un appunto riservato del quale invia una copia alla Squadra Mobile di Palermo unitamente a quello successivo compilato pari data. Inoltre il 26 marzo 1971 copia dello stesso appunto fu fatto pervenire da Mangano all’onorevole Cattanei Presidente della Commissione Antimafia.- Copia del documento in questione è agli atti della Commissione Antimafia.

Roma, 10/11/1970 – “APPUNTO RISERVATO”. “Il noto avvocato Guarrasi durante la Guerra era Capitano dell’Autocentro in Libia. Rientrato in patria divenne aiutante di battaglia del generale Castellano in Sicilia, con il quale fece parte, poi della Commissione di Armistizio. Al termine della guerra divenne avvocato, consulente del principe Lanza di Trabia al quale fece fare una serie di errate operazioni. Il Guarrasi politicamente in un primo tempo si portò con la lista di Vittorio Emanuele Orlando, poi con quella comunista, e quindi con quella del Partito Radicale. Successivamente divenne consigliere dell’On. Milazzo e fu l’artefice della nota “operazione Milazzo”. Divenne molto amico di Gioia e Lima. Al tempo dell’armistizio il Guarrasi unitamente al resto della Commissione, sostò ad Algeri per circa sei mesi e durante tale periodo ebbe la possibilità di conoscere tale Scamporino, del Servizio Segreto americano, addetto allo spionaggio militare. Lo Scampolino per tale ragione era in contatto con elementi mafiosi siciliani, i quali tramite il predetto Scampolino rimasero poi amici del Guarrasi. Infatti quest’ultimo negli anni successivi, cioè dal 1944 al 1946, con molta frequenza riuniva nella sua abitazione i capi mafiosi siciliani tra cui il noto Genco Russo. Interruppe i rapporti con la mafia, almeno ufficialmente, soltanto negli anni in cui egli era divenuto comunista, per il cui partito fece notevoli operazioni finanziarie. E’ stato anche consocio di Guarnaschelli per il Casinò di Taormina. Fin dalla nascita dell’ENI divenne consulente di tale ente, carica che conserva tutt’ora; divenendo tra l’altro amico personale del Presidente Cefis. E’ consulente dell’Ente Minerario Siciliano, ed è naturalmente amico del Presidente Verzotto, nonché molto amico del rag. Buttafuoco. Mattei negli ultimi tempi aveva stretto amicizia con l’On.le D’Angelo, con il quale aveva preso accordi circa il programma dell’ENI in Sicilia, per cui, essendo il Guarrasi in contrasto con D’Angelo, era stato estromesso da Mattei dall’Ente. Il Guarrasi è ritornato poi in auge con L’ENI dopo che ha assunto la carica dell’Ente il dr Cefis. E’ ritenuto persona capace di commettere qualsiasi illegalità pur di raggiungere il proprio scopo. Capace anche di mettersi d’accordo con l’avversario del proprio cliente, senza scrupoli, mente tortuosa, intelligente ed opportunista. Non risulta che egli sia diventato proprietario di beni immobili dei Lanza di Trabia o che abbia fatto acquisti direttamente da questi ultimi.” Il 10 novembre 1970 Mangano incontra il Marchese De Seta a Roma; subito dopo redige il presente “appunto riservato”, che unitamente al precedente sarà inviato alla Squadra Mobile di Palermo Copia del presente appunto Mangano la farà pervenire inoltre al Presidente della Commissione Antimafia Onorevole Cattanei il 26 marzo 1971. Il presente appunto così come quello sopra riportato è agli atti della Commissione Antimafia.

“Roma 10 novembre 1970 – APPUNTO RISERVATO”. “Da un colloquio odierno con il Marchese De Seta Emanuele si ha avuta la possibilità di confermare il contenuto dell’appunto precedente di pari data. Infatti il Guarrasi Consigliere d’Amministrazione del giornale L’ORA” di Palermo per circa una ventina di anni era legatissimo a Verzotto ed a La Cavera. Entrambi erano devotamente legati al primo che per la sua posizione stava al vertice del trio e manovrava a suo piacimento i primi due. Il giorno successivo alla scomparsa del giornalista De Mauro, il sig. Giuggi Brucato telefono (segue numero utenza telefonica n. d. a) dell’abitazione e n. (segue numero utenza telefonica n. d. a.) della Galleria D’Arte di Palermo, parlando telefonicamente con il Marchese De Seta di tale sequestro alludeva al Guarrasi quale responsabile, senza però dare alcuna precisazione. Il Verzotto era stato sistemato dal Guarrasi a presidente dell’Ente Minerario Siciliano, mentre La Cavera a Direttore generale della SOFIS, al tempo dell’Amministrazione Milazzo. (…). Il Guarrasi era anche amico del proprietario del Giornale di Sicilia Pirri, in quanto lo aveva sistemato quale Presidende della Bianchi Sicilia, società finanziata dalla SOFIS. Il Guarrasi inoltre è socio con il Guardaschelli del Casinò di Taormina per il 10% ed è sempre stato legato al Guarcione eminentissimo mafioso, con il quale ha fatto importanti affari finanziari, tra cui una compravendita di circa trecento milioni da parte della “Meditteranea”. Il Buttafuoco era legato al Guarrasi in quanto entrambi avevano una particolare amicizia con il noto Salafia Emilio, ex campione olimpionico di scherma, che frequentemente alloggiava dal Guarrasi. Erano così stretti i legami di amicizia tra Guarrasi e Buttafuoco, che un giorno quest’ultimo ospitò nel tempo in cui era ricercata dalla Polizia la signora Ugonj cugina del Guarrasi, ospitalità sollecitata da parte di quest’ultimo. Altro legame era costituito dall’avvocato Pietro Allotta che si serviva come triburitarista di Buttafuoco e che nello stesso tempo era sostituto ed avvocato del Guarrasi. Il Guarrasi a sua volta ha sistemato il detto Allotta presso l’Ente Minerario Siciliano in qualità di consulente. Il Guarrasi ha in atto un procedimento per bancarotta fraudolenta a Roma per il fallimento della “Mediterranea Assicurazioni”; altro procedimento pure per bancarotta fraudolenta è in corso di istruttoria a Palermo presso il giudice Chinnici in ordine al fallimento della società mineraria “La Valsasso” di Caltanissetta per un ammontare di sei miliardi di lire circa. Il Buttafuoco tra il 1939 e il 1940 fu condannato per furto in danno di un consorzio, forse quello Agrario, alla pena di due anni di carcere che pare abbia scontato. Il La Cavera nei giorni del sequestro De Mauro se ne andò a Parigi, ufficialmente per una questione di pittura, giustificazione non ritenuta valida in quanto non è mai stato un esperto di pittura e non si è mai interessato a tale attività. Guarrasi nella zona di Alcamo possiede la tenuta “Rapitalà”, proprietà ereditata dal padre. Tra il 1962 ed il 1966, l’ex giudice Vigneri istruì un procedimento penale a carico della zia di Guarrasi per stupefacenti, Il predetto magistrato, su vive sollecitazioni del Guarrasi ha assolto la donna affermando nella sentenza che essendo stata la predetta precedentemente intossicata, non aveva commesso il fatto con dolo. Subito dopo tale assoluzione il Guarrasi per riconoscenza ha immesso il Vigneri come socio nel “circolo della Vela”. Inoltre negli anni successivi gli ha preparato su misura il concorso per L’Ente Minerario Siciliano, concorso fatto in maniera tale che il solo vincitore fosse il Vigneri. Si ritiene che detto Ente esplichi anche qualche attività poco chiara. Come precedentemente accennato i due suddetti “rapporti”ovvero quello riguardante Vito Guarrasi e l’altro sulle dichiarazioni di De Seta furono da Mangano inviati alla Squadra Mobile di Palermo. Colpo di scena! I funzionari di Palermo asseriscono di non aver mai ricevuto quegli appunti da Mangano, oppure di non ricordare; qualcuno arrivò al punto di insinuare che Mangano si fosse inventato l’invio di quei documenti dei quali si trova solamente quello relativo a Antonino Buttafuoco inviato un mese prima e riportato nella precedente puntata. Solo moltissimi anni dopo, ovvero nel 1988 durante le indagini sulla morte del Presidente dell’ENI Enrico Mattei e la scomparsa del Giornalista Mauro de Mauro, svolte dal sostituto Procuratore di Pavia dott. Vincenzo Calia i “rapporti” di Mangano vengono rinvenuti”. Il mistero viene svelato dalla “Relazione conclusiva riguardante gli accertamenti svolti sul sequestro Mauro de Mauro avvenuto a Palermo il 16/9/1970”: consegnata all’autorità giudiziaria nell’anno 2000, e che per la parte che riguarda l’argomento trattato è sotto riportata. Il contenuto completo di detta relazione trovasi nel link di cui alla nota (1).

“Ulteriore azione depistante nell’ambito del “movente ENI/ Mattei” emerge dalle dichiarazioni rese a questa P.G. Da Angelo Mangano. Questi, nel 1970, era dirigente della Polizia Criminale del Ministero dell’Interno in servizio a Roma. Si era attivato per svolgere accertamenti sul sequestro De Mauro. L’alto dirigente ministeriale ha riferito a questa P.G. che le investigazioni da lui condotte, all’epoca del sequestro, lo avevano portato a ritenere che Mauro De Mauro era stato rapito ed ucciso per avere scoperto qualcosa di rilevante sulla morte non accidentale di Mattei. Inoltre, partendo da fonti confidenziali, aveva inviato alla Squadra Mobile di Palermo un appunto riservato, con il quale aveva attribuito la responsabilità del sequestro all’ avvocato Vito Guarrasi, all’onorevole Graziano Verzotto (indicati anche quali responsabili della morte di Mattei), a Luciano Liggio e a Antonino Buttafuoco. Con tale appunto Mangano aveva sollecitato la Squadra Mobile ad eseguire degli accertamenti tendenti a verificare le confidenze ricevute su tali persone.

In merito il dott. Mangano ha riferito che “…queste ipotesi di investigazione non erano mai state prese in considerazione da Palermo. … è poi risultato che il documento, che evidentemente era scottante per le persone implicate, non era mai arrivato alla Squadra Mobile: almeno così avevano detto alla questura di Palermo. … Sul fatto che il documento era arrivato alla Squadra Mobile ne ho certezza anche perché qualche giorno dopo l’invio, avevo telefonato ad un funzionario di quel reparto, credo che fosse Bruno Contrada, ma sul punto non ho memoria certa, per chiedere se avevano provveduto ad interrogare una persona indicata nel mio appunto. Il funzionario aveva risposto evasivamente dicendomi che non avevano ancora avuto tempo e confermandomi così indirettamente che l’appunto lo avevano ricevuto. “Sulle affermazioni del questore Mangano va precisato che il documento da lui ricordato non è stato trovato nel fascicolo della Squadra Mobile, attentamente visionato presso la Questura di Palermo, ma è stato rinvenuto solo il 29/10/1998 agli atti in uno dei fascicoli dell’inchiesta parallela. Inoltre, la persona indicata nell’appunto riservato, tale Giuggi Brucato di Palermo (che aveva ricevuto delle confidenze secondo le quali Guarrasi poteva essere responsabile del sequestro De Mauro), non risulta essere mai stata effettivamente interrogata dalla polizia di Palermo”.

Alla fine della relazione alla voce “conclusione” si legge: “Il sequestro del giornalista Mauro De Mauro, alla luce del presente documento, deve essere virtualmente considerato risolto, sia sotto il profilo della causale – movente che per ciò che concerne il mandante. Non è un caso che questa polizia giudiziaria non abbia preso in considerazione le persone che materialmente hanno attuato il rapimento, pur in presenza di ampia documentazione in merito, perché non vi è alcun riscontro concreto, attendibile e utilizzabile. Del resto gli esecutori indicati dalle cronache (con qualche elemento oggettivamente valido) sono deceduti. Essi erano Luciano Leggio (detto Liggio), per i suoi collegamenti con Antonino Buttafuoco evidenziati dal questore Mangano…”

·         21 luglio 1979. Boris Giuliano: il nodo irrisolto del delitto.

Boris Giuliano, 40 anni fa l’omicidio di Cosa Nostra:  il nodo irrisolto del delitto. Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Felice Cavallaro su Corriere.it. Non ebbe il coraggio di affrontarlo guardandolo in faccia e Leoluca Bagarella preferì scaricare un intero caricatore di revolver colpendo alle spalle Boris Giuliano, il poliziotto che nel 1979 aveva messo le mani negli affari dei Corleonesi, ma anche sulla vecchia mafia di città non ancora sconfitta dai “viddani”, dai villani, di Totò Riina. Uno di loro, il cognato del grande capo, fu scelto per un’esecuzione vile nel cuore di Palermo, la mattina del 21 luglio, al Bar Lux, sotto casa di Giuliano. Ed è lì, su quella strada, che dopo quarant’anni si ritrova un pezzo dello Stato per rendere onore al segugio “laureato” alla scuola americana di Quantico, apprezzato dai vertici del FBI, ucciso dieci giorni dopo il delitto di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore del pianeta finanziario di Michele Sindona, lo spregiudicato faccendiere vicino alla mafia e a Giulio Andreotti. Riemerge un pezzo di oscura storia italiana nel giorno della commemorazione. Gonfaloni e corone, autorità e picchetto d’onore, note del Silenzio e un messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pronto a spiegare come lo Stato si inchini davanti al valore di un servitore del quale esalta “il coerente impegno per la legalità e la giustizia”. Parole che echeggiano fra la moglie di Giuliano, Maria Leotta, le due figlie e il figlio che ha seguito la carriera del padre, da poco tempo questore a Napoli dopo aver diretto il Servizio centrale operativo. Si abbracciano tanti familiari di vittime di mafia. E c’è pure Maria Mattarella, nipote del presidente e figlia del governatore della Sicilia eliminato da Cosa nostra nel gennaio 1980, vittima di un potere politico-mafioso sul quale non si è mai fatta piena luce. Restano tante ombre anche sul sacrificio di Piersanti Mattarella, ma il fratello è al vertice del Quirinale e la figlia è segretario generale della Regione Sicilia per scelta del governatore Nello Musumeci, presente a Piazza Armerina quando nel pomeriggio di una domenica infuocata vedova e parenti si trasferiscono per una visita al cimitero di famiglia. Una Sicilia meno ostile di quella in cui operava lo “sceriffo” ucciso nel 1979, guida di una squadra che dichiarò guerra ai Corleonesi. Una squadra composta da prefetti, dirigenti ministeriali e questori con i capelli bianchi, la maggior parte in pensione, alcuni andati via. Tutti protagonisti di un nodo irrisolto dei travagli di Palermo. Perché di quella squadra facevano parte due uomini umiliati da condanne per mafia in Cassazione. La prima subita da Bruno Contrada, il “gemello” che prese il posto di Giuliano e che adesso, forte di una sentenza europea, invoca un risarcimento. La seconda incassata da Ignazio D’Antone, suo successore, ormai defunto. Pagine amare segnate da dubbi legati alle insidie dell’epoca. Muoveva allora le fila un altro siciliano al vertice dei Servizi segreti, il direttore del Sid Vito Miceli, un generale con radici a Trapani. Fu Tullio De Mauro, il linguista fratello del giornalista soppresso nel 1970, Mauro De Mauro, a raccogliere una confidenza di Giuliano e a ricordarla: “Mi sento come un vigile urbano mandato in un aeroporto a regolare il traffico aereo con una paletta”. E’ la storia di un servitore dello Stato che non si sentiva sempre le spalle coperte da pezzi dello stesso Stato. Ma è su un altro aspetto che il figlio Alessandro pone l’accento ricostruendo la bontà d’animo del padre: “E’ riuscito a essere un poliziotto importante e bravo senza mai dimenticare di essere un uomo, cioè una persona con un forte carico di umanità. Ricordo che si portava a casa i bambini perduti per strada a giocare con me e le mie sorelle per evitare di lasciarli in sala attesa in questura. E’ la parte rivoluzionaria di lui. E accadeva in una città difficile come Palermo, spesso allora non vicina ai tutori dell’ordine...”. Questa somma di sensazioni anche private sono alla base di una serie di lettere reali e immaginarie al centro di uno spettacolo in programma per lunedì 22, alle 20.30. Testi interpretati nell’atrio della questura di Palermo, ancora una volta palcoscenico aperto alla città, come vuole il questore Renato Cortese. Per l’occasione in scena Vincenzo Pirrotta, interprete di Luciano Liggio nel film di Marco Bellocchio “Il traditore”, e Cinzia Maccagnano. Si muoveranno nell’atrio dove l’anno scorso era stata riprodotto l’ufficio di Giuliano e di quella squadra, comunque rimasta nel mito della lotta alla mafia.

·         Il Papa, la Mafia, le mafie. L’ignoranza dell’origine del termine.

IL PAPA, LA MAFIA, LE MAFIE. E L’EVIDENTE IMBARAZZO DELLA COMUNICAZIONE DELLA SANTA SEDE, scrive il 9 Aprile 2019 Marco Tosatti. L’intenzione – perché Stilum Curiae ha anche dei momenti di malriposta benevolenza e bontà – era quella di passare sopra le improvvide esternazioni compiute dal Pontefice regnante in tema di immigrazione, mafia e così via. Anche perché in quei giorni ero fuori sede, impegnato in vicende gravi e non allegre, e non avevo seguito con attenzione la vicenda. Ma un articolo dell’amico Giuseppe Rusconi, sul sito Rosso Porpora, che vi consiglio di andare a leggere nella sua interezza, mi stimola a uscire dal silenzio.

Scrive Giuseppe Rusconi: <Sabato 6 aprile papa Francesco ha ricevuto in udienza docenti e allievi del collegio San Carlo di Milano. Assai curiosa (oltre che offensiva della verità dei fatti e della storia d’Italia) la sua risposta a una domanda su società multietnica e identità…tanto è vero che quanto riportato ufficialmente sul Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede non corrisponde in contenuti rilevanti a quanto documentato originariamente da "Vatican News".

Così parlò papa Francesco sabato 6 aprile 2019 nell’Aula Nervi, ricevendo in udienza studenti e docenti del collegio San Carlo di Milano. (Jorge Mario Bergoglio ha risposto a quattro domande, tra cui quella della professoressa Silvia Perucca su società multietnica e identità. Quella che segue è una trascrizione del video di  Vatican News del 6 aprile 2019  -durata 2’07”, titolo: Papa: no alla paura dei migranti. Migranti siamo noi”- accompagnata da un articolo riassuntivo di Debora Donnini con citazioni fedeli all’originale- titolo: Papa: chi vende le armi ha sulla coscienza la morte di tanti bambini): “Non avere paura. E qui tocco una piaga. Non avere paura dei migranti. ‘Ma, Padre, i migranti …’ – I migranti, siamo noi! Gesù è stato un migrante. Non avere paura dei migranti. ‘Ma sono delinquenti!’ – Anche noi, ne abbiamo tanti, eh: la mafia non è stata inventata dai nigeriani; è un … un valore ”nazionale”, eh? La mafia è nostra, made in Italia, eh: è nostra. Tutti siamo… abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti sono coloro che ci portano ricchezze, sempre. Anche l’Europa è stata fatta da migranti! I barbari, i celti, tutti questi che venivano dal Nord e hanno portato le culture,  si è accresciuta così, con la contrapposizione delle culture. State attenti a questo, oggi:  c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti”.

Così parlò papa Francesco sabato 6 aprile 2019 nella medesima occasione, secondo il bollettino ufficiale della Sala Stampa della Santa Sede (pubblicato domenica 7 aprile 2019): “Non avere paura. E qui tocco una piaga: non avere paura dei migranti. I migranti sono coloro che ci portano ricchezze, sempre. Anche l’Europa è stata fatta da migranti! I barbari, i celti… tutti questi che venivano dal Nord e hanno portato le culture, l’Europa si è accresciuta così, con la contrapposizione delle culture. Ma oggi, state attenti a questo: oggi c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti.”

Già a occhio il "passo" della risposta papale ha subito un dimagrimento evidente dall’originale alla trascrizione ufficiale. Le differenze principali? Nel testo ufficiale sparisce la definizione di Gesù come “migrante”; sparisce l’accenno corposo alla mafia non “inventata dai nigeriani”, ma "made in Italia". valore “nazionale”. Sparisce il seguito sul “tutti siamo, abbiamo la possibilità di essere delinquenti”. E’ facile intuire i motivi di opportunità politica e religiosa che hanno portato la Segreteria per la Comunicazione (in collaborazione magari con la Segreteria di Stato e con chissà chi altri) a indossare le vesti da prestigiatore, conservate sicuramente in qualche armadio a portata di mano per occasionalmente incantare gli sprovveduti. Per chi ammonisce continuamente e ieraticamente il mondo massmediatico a riferire i fatti con correttezza – evitando dunque di cadere nella manipolazione degli stessi -questo è proprio un bell’incidente di percorso. Nascostamente il quotidiano ex-cattolico "Avvenire"  ne sarà certo lieto. Presumiamo la gioia maligna del Turiferario Direttore e del Turiferario Guastalamessa: “Hanno voluto rubarci il copyright delle fake news? Ben gli sta… la gente capirà così che bisogna diffidare degli imitatori e abbeverarsi invece direttamente alla fonte originale di Avvenire!”>.

Carino, no? C’è un proverbio arabo, visto, che siamo in tema di migrazioni, che mi è sempre piaciuto molto: “’àdaa Alìma ià iadatihà al kadìma” : “È tornata Alìma alle sue abitudine antiche”…e per una comunicazione della Santa Sede che era arrivata a fare dei bellissimi giochetti delle tre carte con addirittura una lettera del papa emerito Benedetto XVI direi che la tentazione antica è troppo forte, talvolta…Li capiamo, però. E capiamo anche come sia sempre più difficile gestire, e rendere plausibili, certe affermazioni desolanti per il panorama di ignoranza, genericità e superficialità che svelano. Chiacchiere da bar, più che Sala Clementina. Tanto per cominciare: parlare della mafia come di un “valore nazionale” italiano è una sciocchezza colossale. Chissà se quella persona ha mai sentito parlare della Mafia Cinese, della Mafia Irlandese, della Mafia Ebraica e delle Società Segrete della Costa occidentale dell’Africa, molte delle quali intrise di magia ed esoterismo, con rituali anche sanguinari, che hanno trasmesso la loro eredità alla Mafia (o alle Mafie, visto che ne esistono diversi tipi) nigeriane? Per non citarne che alcune. Ed essendo argentino, dovrebbe sapere che cosa è stato lo Zwi Migdal, l’organizzazione gestita da un gruppo di ebrei argentini che dai primi del ‘900 ha messo in piedi il più grande traffico di prostituzione dell’America Latina. Secondo. C’è chi, più istruito di chi scrive, sostiene che il termine “mafia” provenga, guarda un po’, dall’arabo; “Altre teorie farebbero risalire la parola ancora più in là nel tempo e nello spazio, pensan­do a un’influenza dall’arabo “ma-yā-” (smargiasso) e dal corrispondente sostantivo “ma-ya-a”. Altrettanto convincente l’idea secondo cui la derivazione sarebbe, piuttosto, “mo’a­fiah”, che letteralmente designa un’azione o un comportamento arrogante”. Guarda guarda…proprio i prediletti (dal Pontefice) musulmani, di cui difende l’immigrazione a gogò nel nostro Paese. E sui social come potete vedere dalla foto, c’è chi lo ha voluto sottolineare. E poi: ignorare che la Mafia (come la Camorra, come la ‘Ndrangheta) abbia un’origine storica e sociale regionale e circoscritta ad alcune parti d’Italia è offensivo, oltre che per l’intelligenza, verso altre regioni e culture della penisola. Capiamo che il crollo verticale degli affari della Chiesa e delle organizzazioni ad essa collegate dovuto al blocco del traffico di esseri umani verso le nostro coste bruci, come vediamo dalle sfuriate di Bassetti & C. Però, teniamoci. E comunque il riferimento alla Mafia da parte di qualcuno che è stato eletto al Soglio di Pietro grazie al lavoro della “Mafia di San Gallo” (fonte ineccepibile: il card. Danneels) non pare di buon gusto. Capiamo e solidarizziamo con i registi della comunicazione vaticana. A quello che mi dicono Benedetto XVI, pur in una crescente e devastante fragilità fisica, mantiene una mente lucida e acuta. Un grande dono, una grazia. L’esperienza ci insegna che purtroppo non per tutti l’età ha gli stessi frutti.

L’ignoranza di Papa Bergoglio. Vuol fare impropriamente il professore di sociologia e non sa far bene il Papa, scrive Carlo Franza il 12 aprile 2019 su Il Giornale. Beh, il vaso è colmo, come sento dire fra i cattolici. Sproloquiare, parlare a vanvera, senza cognizione di causa, forse in malafede. Papa Bergoglio se  le attira tutte. Dimostra una vasta ignoranza nonostante sia gesuita  e  sia stato eletto Papa ( con il divieto dei suoi superiori gesuiti che non lo volevano vescovo)  e dimostra di essere lontano mille miglia dalla cultura di Papa Benedetto XVI, non solo mio Papa, ma Santo per acclamazione popolare. Sabato 6 aprile papa Bergoglio ha ricevuto in udienza docenti e allievi del collegio San Carlo di Milano. Jorge Mario Bergoglio ha risposto a quattro domande, tra cui quella della professoressa Silvia Perucca su società multietnica e identità. Quella che segue è una trascrizione del video di  Vatican News del 6 aprile 2019  -durata 2’07”. La  risposta di Bergoglio a una domanda su società multietnica e identità… è assai curiosa  e offensiva dei fatti e della storia d’Italia, tanto è vero che quanto riportato ufficialmente sul Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede non corrisponde in contenuti rilevanti a quanto documentato originariamente da "Vatican News". “Non avere paura. E qui tocco una piaga. Non avere paura dei migranti. “Ma, Padre, i migranti …” – I migranti, siamo noi! Gesù è stato un migrante. Non avere paura dei migranti. “Ma sono delinquenti!” – Anche noi, ne abbiamo tanti, eh: la mafia non è stata inventata dai nigeriani; è un … un valore ”nazionale”, eh? La mafia è nostra, made in Italia, eh: è nostra. Tutti siamo… abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti sono coloro che ci portano ricchezze, sempre. Anche l’Europa è stata fatta da migranti! I barbari, i celti, tutti questi che venivano dal Nord e hanno portato le culture,  si è accresciuta così, con la contrapposizione delle culture. State attenti a questo, oggi:  c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti”. Parole difficili da  gestire -queste del Papa argentino-, desolanti per il panorama di ignoranza, genericità e superficialità che svelano. Paiono chiacchiere  più da bar che da  Sala Clementina. Ha scritto Stilum Curiae: “Primo : parlare della mafia come di un “valore nazionale” italiano è una sciocchezza  colossale. Chissà se Bergoglio  ha mai sentito parlare della Mafia Cinese, della Mafia Irlandese, della Mafia Ebraica e delle Società Segrete della Costa occidentale dell’Africa, molte delle quali intrise di magia ed esoterismo, con rituali anche sanguinari, che hanno trasmesso la loro eredità alla Mafia (o alle Mafie, visto che ne esistono diversi tipi) nigeriana? Per non citarne che alcune. Ed essendo argentino, dovrebbe sapere che cosa è stato lo Zwi Migdal, l’organizzazione gestita da un gruppo di ebrei argentini che dai primi del ‘900 ha messo in piedi il più grande traffico di prostituzione dell’America Latina”. Non sa Papa Bergoglio  che il termine “mafia” proviene, guarda un po’, dall’arabo; altri studiosi  farebbero risalire la parola ancora più in là nel tempo e nello spazio, pensan­do a un’influenza dall’arabo “ma'yā'” (smargiasso) e dal corrispondente sostantivo “ma'ya'a”. Altrettanto convincente l’idea secondo cui la derivazione sarebbe, piuttosto, “mo’a­fiah”, che letteralmente designa un’azione o un comportamento arrogante”. Pensate che la mafia deriva proprio dai prediletti (dal Pontefice in carica) musulmani, di cui Papa Bergoglio difende l’immigrazione a gogò nel nostro Paese. Ignorare che la Mafia (come la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra Corona Unita ) abbia un’origine storica e sociale regionale e circoscritta ad alcune parti d’Italia è offensivo, oltre che per l’intelligenza, verso altre regioni e culture della penisola. Bergoglio parla così perché nota il crollo verticale degli affari della Chiesa e delle organizzazioni ad essa collegate dovuto al blocco del traffico di esseri umani verso le nostro coste,  gli costa un po’ non solo a lui ma a tutta la consorteria che gli gira attorno ad iniziare dal Cardinale  Bassetti & C. E comunque il riferimento alla Mafia da parte di Bergoglio che è stato eletto al Soglio di Pietro grazie al lavoro della “Mafia di San Gallo” (fonte ineccepibile: il card. Danneels) non pare di buon gusto. Dire che  la mafia non è sta inventata dai nigeriani significa escludere la mafia nigeriana che ormai stringe l’Italia, e dire  -parole  di Bergoglio- che tutti siamo delinquenti, vuol dire che la Chiesa Cattolica  è gestita oggi dalla delinquenza che fa di ogni erba un fascio. E  ormai non c’è predica giornaliera di Bergoglio che non parli di migranti, e anche qui cala giù lo strafalcione che Gesù era un migrante. Nulla di più falso.  Secondo la narrazione dei due vangeli  di  Matteo e di Luca, raccolta dalla successiva tradizione cristiana, il luogo di nascita è Betlemme di Giudea (Mt 2,1; Lc 2,4,7), mentre Nazaret di Galilea è il luogo dove ha trascorso l’infanzia e la giovinezza, guadagnandosi l’epiteto di  Nazareno. Durante la sua vita pubblica invece la sua residenza più frequente era probabilmente a Cafarnao ( Mt 4,13 e passim).  Gesù  nacque  a Betlemme in virtù del  censimento indetto dall’Imperatore Augusto, al tempo di Quirinio (vedi Censimento di Quirinio).  Il censimento di Quirinio fu disposto dal governatore romano  Publio Sulpicio Quirinio nelle province di  Siria e Giudea nel 6 d.C., quando i possedimenti di Erode Archelao  passarono sotto diretta amministrazione romana.  Nel Vangelo secondo Luca (2,1-2) viene nominato un “primo censimento” di Quirinio realizzato “su tutta la terra” dietro ordine dell’imperatore Augusto, in occasione del quale avvenne la nascita di Gesù a Betlemme al tempo di re Erode (morto probabilmente nel 4 a.C.). Ha parlato Bergoglio da ignorante già in passato. A Eugenio Scalfari dichiarò che “non esiste un Dio Cattolico”, e lo dice proprio lui che dovrebbe essere  il   Papa dei cattolici. Il 16 giugno 2016, aprendo il Convegno della Diocesi di Roma, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, se ne uscì affermando che Gesù, nell’ episodio dell’ adultera, “fa un po’ lo scemo”; poi aggiunse che Gesù – sempre nell’ episodio in cui salvò la donna dalla lapidazione – “ha mancato verso la morale” (testuale anche questo). Infine addirittura che Gesù non era uno “pulito”, e con questo  non si sa che intendesse. E il mio pensiero è riandato a quel titolo “ Il diavolo in Piazza San Pietro” del vaticanista Aldo  Maria Valli.  Monsignor Antonio Livi a chi gli chiedeva se in tv e nella maggior parte dei media, per commemorare i cinque anni del pontificato di Francesco, non si sono sentite voci critiche o per lo meno non sono state interpellate… ha detto: “ Dimostra che l’ eresia è al potere . E abbiamo canonizzato anche l’ ignoranza”. Peggio di così era impossibile immaginare un papa! Volgare, ignorante nella  Dottrina (non ha neanche conseguito il dottorato in teologia) e nella storia…non conosce  nemmeno il latino (e neanche l’inglese). Non crede in un Dio cattolico (parole sue) e, secondo me, in nessun Dio, pugni a chi gli offende la mamma, calci ai corruttori (sempre parole sue), braccia ciondoloni, e pronto a schernire e staccare le mani giunte di un giovanissimo chierichetto. Vendicativo e sprezzante verso coloro (vescovi, sacerdoti, giornalisti) che osano criticarlo. Gesto ignobile quello di aver spedito il  Cardinale Burke  in un isolotto della Micronesia, non parliamo, poi, della persecuzione disgustosa nei confronti dei Francescani dell’Immacolata e del suo fondatore ultranovantenne Padre Manelli. Carlo Franza

Da dove viene la parola “mafia”: la Crusca risponde, scrive Alberto Nocentini il 27 ottobre 2014 su linkiesta.it. La comparsa di mafia è più o meno coeva a quella di camorra, ma priva di precedenti anteriori al periodo postunitario: il derivato mafioso figura nel testo teatrale di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la Vicaria di Palermu (1863) e la sua registrazione ufficiale nella lessicografia si deve al Nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina (Palermo, 1868-1873) coi significati di “braveria, baldanza, tracotanza, pottata, spocchia” e infine “nome collettivo di tutti i mafiosi”. La presenza di una -f- in posizione interna, estranea alla tradizione latina, e la sua peculiarità di voce siciliana, hanno indirizzato la ricerca delle origini verso l’arabo e in questa direzione, la proposta che riscuote più consensi è quella dell’adattamento del prestito maḥyāṣ “smargiasso”, col derivato maḥyaṣa “smargiassata millanteria”, nella riformulazione di Salvatore Trovato (Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza, Vol. III, Tübingen, Niemeyer, 1998, pp. 919-925). Mafia viene dall’arabo mo’afiah: "arroganza, tracotanza, prevaricazione". Meno fortunata, ma non per questo meno degna di considerazione, è la proposta avanzata a suo tempo da G.M. Da Aleppo e G.M. Calvaruso (Le fonti arabiche del dialetto siciliano. Vocabolario etimologico, Roma, Loescher, 1910) e rilanciata con qualche correzione da M. Salem Elsheikh (Gli interscambi culturali e socio-economici fra l’Africa Settentrionale e l’Europa mediterranea, Napoli, 1986, pp. 943-951), secondo la quale mafia sarebbe la resa dell’arabismo mo’afiah ‘arroganza, tracotanza, prevaricazione’. Se dovessimo propendere per l’arabismo, questa seconda ipotesi ci sembrerebbe preferibile, perché comporta un adattamento minimo in quanto il segmento iniziale mo’a– si riduce facilmente a ma–. Ma le difficoltà dell’arabismo sono altre, prima di tutte la datazione: è difficile accettare una trasmissione sotterranea di almeno otto secoli, se si attribuisce il prestito al periodo della dominazione araba della Sicilia, e d’altra parte, se si sostiene la sua adozione recente, si ha l’obbligo di indicarne e motivarne il tramite attraverso i documenti. Bisogna poi tener conto di due fatti di ordine semantico: il primo è che gli scrittori siciliani del secondo Ottocento sono concordi nel sostenere che in Sicilia il significato primitivo di mafiaera “eleganza, braveria, eccellenza”; il secondo è che fuori di Sicilia la voce è diffusa nei dialetti centro-meridionali col significato di ‘spocchia’ e prevalentemente nella variante maffia con doppia -f-. Una ricerca più accurata fa emergere il bergamasco mafia “donna di età mezzana”, l’elbano maffiona “(donna) colla faccia piena e tonda” e la locuzione far (la) maffia “sfoggiare lusso”, propria del gergo militare. Al maschile troviamo il torinese mafi, mafiu “tanghero” e il milanese brüt mafee “uomo brutto”, che Angelico Prati (Voci di gerganti, vagabondi e malviventi, Supplem. II a L’Italia Dialettale, 1940, pp. 125-128) riconduce senza difficoltà al nome proprio Maffeo, variante di Matteo, appartenente alla serie dei nomi biblici in -èo, che hanno acquisito un significato dispregiativo, descritti a suo tempo da Bruno Migliorini (Dal nome proprio al nome comune, Genève, Olschki, 1927, pp. 274-275). La stessa origine il Prati attribuisce di conseguenza alle voci femminili citate sopra, ma questa sua conclusione ha incontrato scarsa approvazione. Vale invece la pena d’insistere sull’origine del nome proprio Maffeo per almeno tre buone ragioni: fornisce una base lessicale accertata maf(f)-, altrimenti estranea al lessico italiano, rende conto dell’oscillazione -f-/-ff- tipica dei nomi propri che derivano da Matthaeus, permette di vedere nella Sicilia un centro di espansione recenziore della voce nella sua accezione più nota, ma non necessariamente il luogo della sua formazione. Stando ai dati forniti dai dialetti italiani, maf(f)ia è in partenza una vox media che significa ‘braveria, baldanza’, suscettibile di assumere accezioni positive o negative secondo l’etica e il costume dei parlanti: così in Sicilia, dove l’esibizione delle proprie ricchezze e del proprio stato sociale elevato è considerato un comportamento legittimo e naturale, la voce ha preso il significato di "eleganza, eccellenza", mentre in Toscana, dove è vista come un’ostentazione inopportuna da guardare persino con sospetto, ha preso quello di "spocchia, boria". Il nodo mancante è quello che lega questo comportamento al nome di Maffeo e il personaggio di riferimento non può che essere l’apostolo Matteo. A guardar bene nel racconto della sua conversione secondo il Vangelo di Luca ci sono tutti gli elementi utili, considerando non tanto il suo significato profondo quanto piuttosto le reazioni prodotte nell’immaginazione e nei sentimenti dell’uditorio. A differenza degli altri apostoli, semplici pescatori che avevano seguito Gesù senza cerimonie, Matteo, da ricco pubblicano, solennizza l’avvenimento con un atto di magnificenza: "Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola" (Luca 5, 29). Per gli ascoltatori delle letture domenicali questi elementi erano più che sufficienti a caratterizzare il tipo che trasforma un evento personale in un’esibizione di lusso e di superiorità, che fa la maffia. Il significato può essere legato al nome Maffeo e all’apostolo Matteo, l’unico a esibire lusso e superiorità. Del resto il Vangelo di Luca è il più ricco di particolari narrativi, recepiti e rielaborati sia dalla tradizione dotta che da quella popolare, come le figure del ricco epulone, prototipo del gaudente dissoluto, e del povero Lazzaro, prototipo dello straccione miserabile, che ha dato il napoletano (e italiano) lazzarone ‘pezzente, vagabondo, canaglia’. Un riflesso dell’immagine popolare dell’apostolo Matteo, conseguenza della sua magnificenza, si coglie con evidenza in un detto che mi è stato riferito da un informatore di Torremaggiore (Foggia): quando qualcuno a tavola si abbuffa oltre misura, si usa rimproverarlo dicendo eh, Sande Mattèe! Alberto Nocentini

Da dove viene il termine "MAFIA"? di Marco Antilibano su Sintesi Dialettica il 20/05/2007. Non è esercizio banale il cercare di capire meglio il significato di una parola molto famosa e molto usata, soprattutto all’estero, e che, indegnamente, viene utilizzata dai superficiali per descrivere il nostro Paese. É risaputo che all’estero l’Italia è luogo di pasta, pizza e mafia. Volendo fare un’analisi etimologica della parola mafia, si può ricorrere a due dizionari: lo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana 1994 (XXII ed. a cura di Dogliotti e Ruscello), edizioni Zanichelli e il Dizionario della lingua italiana a cura di Tullio De Mauro, edizioni Paravia. Dalla ricerca emerge che le due definizioni tendono ad equivalersi: la mafia (o maffia) è un’ organizzazione criminosa sorta in Sicilia nella prima metà  del XIX secolo e che pretende di sostituirsi ai poteri pubblici nell'attuazione di una forma primitiva di giustizia, che si regge sulla legge della segretezza e dell'omertà  e che ricorre a intimidazioni, estorsioni, sequestri di persona e omicidi allo scopo di interessi economici  privati o di procurarsi guadagni illeciti. Estendendo il concetto, si definisce mafia anche un gruppo, una categoria di persone unite per conseguire o conservare con ogni mezzo lecito e illecito i propri interessi privati particolari, anche a danno di quelli pubblici. La parola può assumere anche un significato psicologico: essa infatti viene usata per descrivere episodi o comportamenti prepotenti, arroganti o violenti. Esiste anche un significato “familiare” del termine: la mafia è infatti anche un’eleganza ostentata e volgare. Il termine mafia ha inoltre diverse possibili origini etimologiche, più o meno verificabili o realistiche, come la derivazione dalla parola araba Ma Hias, "spacconeria", che sta in relazione con la spavalderia mostrata dagli appartenenti a tale organizzazione; la derivazione dalla lingua araba mu'afak, "protezione dei deboli", o maha, "cava di pietra"; la derivazione dall’espressione dialettale toscana maffia significante "miseria" oppure "ostentazione vistosa, spocchia"; la derivazione dai moto di rivolta dei Vespri Siciliani ed adottato come sigla per Morte Ai Francesi (Angioini) Indipendenza Anela, o anche Italia Avanti (lo storico Santi Correnti ritiene però che il termine sia precedente alla dominazione angioina); un'altra ricostruzione, connessa all'andata in Sicilia di Mazzini alla vigilia dell'Unità, è quella fatta nel 1897 dallo storico William Heckethorn: anche se non condivisibile, considera il termine Mafia come acronimo di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. Tale appello sarebbe stato rivolto alle organizzazioni segrete che nascevano sull'isola; infine, un’altra tradizione ancora narra che, sempre sotto il dominio angioino, un soldato francese chiamato Droetto violentò una giovane e che la madre terrorizzata per quanto accaduto alla figlia corse per le strade, urlando «Ma – ffia! Ma - ffia!» ovvero «mia figlia! mia figlia!» . Il grido della madre, ripetuto da altri, da Palermo si diffuse in tutta la Sicilia. Il termine mafia diventò così parola d'ordine del movimento di resistenza ed ebbe quindi genesi dalla lotta dei siciliani. L'espressione mafia diviene un termine corrente a partire dal 1863, con il dramma “I mafiusi de la Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, diffondendo il termine su tutto il territorio nazionale. Attraverso queste definizioni appare scontato consegnare la paternità di questa organizzazione alla Sicilia e dunque all’Italia. Tuttavia è bene ricordare che la mafia non è un fenomeno esclusivamente italiano. Anche in altri paesi esistono forme di criminalità organizzata. Dai documenti che ho trovato si evince però che è in Italia che il sistema dell’illegalità organizzata si è storicamente definito in precise organizzazioni, ciascuna con proprie caratteristiche e precisi radicamenti regionali. Il fenomeno di gran lunga più diffuso - e che negli anni dell’emigrazione è stato esportato in paesi come gli Stati Uniti - è dunque quello della mafia siciliana, che va anche sotto il nome di Cosa nostra. Fenomeni di criminalità organizzata, con varie ramificazioni, esistono da più di un secolo anche in Campania (la camorra), in Calabria (la ‘ndrangheta) e da tempi molto più recenti anche in Puglia (la sacra corona unita). La nascita della mafia siciliana coincide con la nascita dello Stato moderno e rappresenta uno stratificarsi di potere in alternativa alla debolezza mostrata dal radicamento del potere legale dello Stato stesso. In alcune regioni è nata e si è radicata la mafia perché queste regioni non sono state adeguatamente intergrate o supportate nel e dal sistema nazionale. É vero che per più di cinquant’anni le istituzioni repubblicane hanno cercato di risolvere il problema, creando ad esempio istituzioni come la Cassa per il Mezzogiorno o attivando una commissione bicamerale d’inchiesta rivolta al fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. Tuttavia il problema persiste.

Mafia, etimologia ed origine del termine, scrive l'1 Agosto 2015 Lupo sumafieitaliane.it. Mafia: l’etimologia e l’origine di un termine diffusosi in Italia già nella seconda parte dell’Ottocento. Il termine “mafia” e l’aggettivo “mafioso” che ne deriva non sempre hanno avuto lo stesso significato nel corso dei secoli. Pare, infatti, che in passato, molto prima dell’Unità d’Italia, essere mafiosi volesse dire essere sicuri di se stessi, spavaldi e coraggiosi. Per quanto concerne l’etimologia pare che l’origine della parola mafia sia araba. La parola mafia compare per la prima volta in pubblico nel 1863, in un’opera teatrale intitolata “I mafiusi di la Vicaria“. La Vicaria è un carcere di Palermo e già allora era forte il sospetto che la prigione fosse il luogo ideale per la nascita di clan criminali e per la recluta degli affiliati. In realtà, il termine “mafiosi” compare solo nel titolo di questa commedia ma i personaggi non pronunciano mai questa parola. Piuttosto, si parla spesso di “pizzo“, termine con cui già allora ci si riferiva alle estorsioni. Nel 1865, però, fu proprio lo Stato a parlare per la prima volta di mafia. Il prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio inviò un rapporto al ministro dell’interno sulle preoccupanti condizioni della città e della Sicilia. Nel rapporto si diceva che i rapporti tutt’altro che sereni tra le autorità ed il Paese non avevano fatto altro che favorire la “maffia”. Il termine utilizzato era proprio “maffia”, non “mafia” come si suol dire oggigiorno. Nell’analisi del prefetto, si insisteva molto sul fatto che quest’organizzazione stesse agendo per contrastare il governo. In realtà, i mafiosi non si trovavano solo all’opposizione. Furono inviati anche 15.000 soldati per cercare di risolvere l’emergenza criminalità ma la campagna non ottenne riscontri. Sta di fatto che, grazie al prefetto Gualterio, per la prima volta si incominciò a parlare di mafia con riferimento ad organizzazioni criminali. Vi era, però, ancora chi disapprovava questo concetto, ribadendo che essere mafiosi significasse solo un modo di comportarsi tipicamente siciliano e che non avesse nulla a che vedere con la criminalità. Lo Stato aveva già diversi elementi, a partire negli ultimi anni dell’Ottocento, per eliminare e combattere seriamente la mafia ma non volle farlo. Vi era il documento del barone Turrisi Colonna, il memorandum del dottor Galati, lo studio diLeopoldo Franchetti ed altre tracce che permettevano di studiare abbastanza a fondo il problema mafioso. Nulla, però, fu fatto. Forse, lo Stato non riteneva prioritaria questa questione. Un errore che verrà ripetuto più volte anche nel secolo successivo e che verrà spesso pagato a caro prezzo dai cittadini onesti e da chi si prodigava per estirpare questo male.

MAFIA di Giuseppe Giarrizzo - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993) treccani.it. MAFIA (XXI, p. 863). La parola e l'immagine. − La storia della m. è stata, e continua a essere in gran parte, storia del ''concetto'' di m. − un concetto in cui peraltro l'immagine ha prevalso e prevale tuttora sull'idea. Le oscillazioni interpretative, connesse alla polemica costante sulla portata socio-culturale del fenomeno, ne sottolineano tuttavia la forte dimensione ideologica, legata a sua volta a momenti significativi della lotta politica in Italia, tutte le volte che la Sicilia e il Mezzogiorno hanno avuto nelle successive crisi una parte rilevante. Da qui la convinzione che della m. come soggetto politico possa darsi storia, e non − come sarebbe forse più corretto − l'impegno a risolvere il fenomeno m. nel mutevole contesto della storia sociale della Sicilia e del paese. Lo suggerisce l'evoluzione semantica della parola (Lo Monaco 1990); mafia (maffia) deriverebbe da ''mafioso'' (mafiusu), a sua volta derivato dall'arabo marfud, marfuz, donde il siciliano marpiuni (impostore, malandrino)-marfiuni-marfiusu (marfusu, 1862)-ma(r)fiusu (1863-65). ''Mafia'' (ma già negli anni Sessanta è corrente il termine capomafia) potrebbe allora derivare da ''mafioso'', forse per suggestione della coppia camorra/camorrista (ove però ''camorrista'' viene da camorra): chi ha conoscenza della camorra napoletana, e come associazione criminale e come abito, può dedurre dal ''mafioso'' la m. e come modello associativo criminale e come spirito e comportamento. Peraltro è provata la discendenza diretta del mafioso come tipo dal tipo del camorrista: prima che i termini mafioso/m. divenissero correnti (dalla metà degli anni Sessanta dell'Ottocento), le fonti ufficiali e quelle letterarie chiamano camorrista proprio il tipo che presto sarà detto mafiusu. Un guappo, un camorrista è il ''mafioso'' protagonista de Li mafiusi di la Vicaria (1863?) di G. Rizzotto − ripresa da La Camorra (1862) di M. Monnier; e al guappo-paladino rinvia il colorito ritratto del mafioso siciliano disegnato nel 1886 da G. Pitré e destinato a eccezionale fortuna polemica. Più tardi (1901) G. Mosca avrebbe perciò distinto tra la m. come associazione per delinquere ("non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell'associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi"), e la mafiosità o ''spirito di mafia'', che è una particolare maniera di sentire, caratterizzata dall'onore (rispetto e pretesa di rispetto per l'onorata società e per il picciotto onorato) e dall'omertà, che è il rifiuto di denunciare e di affidare alla forza legale del pubblico ragioni o atti privati di violenza e di offesa ("quella regola, secondo la quale è atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l'opinione mafiosa crede che si debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella offesa"). Come per la camorra, così per la m. il carcere è lo spazio in cui il modello associativo si struttura e si diffonde, mentre per la definizione e la diffusione dell'ideologia dell'onore mafioso, dell'omertà, dello ''spirito di m.'' un ruolo decisivo hanno i processi, dove non solo la difesa assume un'immagine forte del modello ma ancor più il criminale interiorizza i valori reclamizzati e s'identifica negli aspetti del modello sulla cui riconosciuta positività la cultura alta legittima i comportamenti e i valori della cultura plebea. Le origini. - C'è oggi, in singolare coincidenza con le origini e la cronologia della camorra, largo consenso su un'origine ottocentesca della m. in Sicilia. E se ne assume, primo documento del fatto senza ancora il nome, la lettera (3 agosto 1838) al ministro Parisi del procuratore generale di Trapani, P. Calà Ulloa, nel quadro di una denuncia (ideologica) della diffusa corruzione e di abusi legali nel circondario e della congiunta inclinazione alla privata giustizia: "Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi [del Trapanese] delle fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senza colore e scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo". La cassa comune è alimentata col furto del bestiame o coi sequestri di persona a fini estorsivi. È il modello che sarebbe stato illustrato da L. Pirandello in una novella, La lega disciolta(1912): un modello che lo scrittore agrigentino riprende a sua volta dal primo, vero processo di m., quello contro La Fratellanza o Mano fraterna di Girgenti (1882-85). Ora, sia questo il nome comune o quello proprio dell'associazione, la ''fratellanza'' rinvia al più prestigioso modello massonico. Si è indotti a credere che le coincidenze tra camorra/m. e massoneria, presto notate (Monnier, Colacino, Lombroso, Alongi) nelle procedure iniziatiche e nei simboli e giuramenti ("come si brucia questa santa e queste poche gocce del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la Fratellanza; e come non potrà tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue un'altra volta nel proprio stato, così non posso rilasciare la Fratellanza"; e ''infame'' è dichiarato, anche fuori di Sicilia, il delatore massonico), risalgano a questo periodo di fondazione − quello cioè in cui labili associazioni criminali prendono forma ''settaria'' e si radicano nel territorio, per opera certo di soggetti esperti nella configurazione e gestione di strutture di potere parallele. Giacché il nome torna nei fratuzzi di Bagheria degli anni Settanta, o nei più tardi fratuzzidi Corleone, quasi associazione dei fraticelli, di terziari francescani o di membri di confraternita, per i quali tutti sono documentati casi di estorsione, di sequestro di persona, di furto e di banditismo. E non stupisce che tra i fratuzzi di Bagheria sia stato accolto negli anni Ottanta B. Verro, un capo carismatico dei Fasci siciliani, se ''fratelli'' si diranno i soci stessi dei Fasci e vorranno praticare forme istituzionalizzate di mutuo soccorso. "Anche la classe operaia, fin qui la più moralmente sana, comincia a dare il suo contributo alla mafia, minimo forse, ma che accenna ad incremento per l'accedere di essa alle lotte dei partiti locali che l'adulano, la incoraggiano e ne fomentano le ambizioni. Non sono rare le società operaie che nei loro statuti sanzionano apertamente questo principio: sarà provveduto a spese del sodalizio l'avvocato e il mantenimento alla famiglia del socio che venisse imputato di qualche delitto". Così scrive (1886) G. Alongi, che commenta: "non so quanto vi sia da lodare in questo sentimento di solidarietà, ma rammento benissimo che questo è uno dei tanti articoli fedelmente osservati dalle associazioni di malfattori fin qui scoperte". Sarà questo appunto il terreno sul quale meglio si verrà definendo, alla fine dell'Ottocento, il rapporto tra m. e politica, con l'ascesa di mafiosi al potere locale e lo scambio tra voti e favori col deputato governativo. Mafia parassitaria, mafia imprenditrice: 1885-1905. − Altrettanto importante, per la nascita e lo sviluppo del modello mafioso, è stata la contiguità con le bande armate, che sono associazioni meno stabili, d'incerto gregarismo, più della m. dipendenti da circostanze temporali e locali, e che dalla m. sono ora protette ora usate, ora contrastate se interferiscono sull'equilibrio dei poteri informali in un dato territorio. Più della ''setta'' e della banda armata, la m. sa comunque imporre la regola dell'omertà in coerenza col principio dell'onore mafioso, e assume la vendetta (''una vera specialità della delinquenza siciliana''), per sentenza dei propri interni tribunali, come strumento della giustizia interna. Sicché, anche rispetto alle bande, all'attività dei fiancheggiatori e alla ''guerriglia'', la m. finirà per costituire un fenomeno associativo più organico e continuo, a carattere massonico-settario, con un rapporto di dominio/protezione del territorio in cui la ''cosca'' opera. Fino a G. Mosca e oltre, pur riconoscendo all'associazione mafiosa persino i caratteri di ordinamento giuridico (S. Romano 1918), magistrati e studiosi del fenomeno hanno escluso l'esistenza di strutture accentrate di coordinamento e comando, pur ammettendo rapporti tra le cosche, casi di cooperazione per singole imprese criminali: e se "scarsissimi sono gli esempi di cosche diffuse per parecchi comuni dell'isola, e che hanno raggiunto il numero di 80 o 100 e più affiliati", il riconoscimento rispettivo tra affiliati di cosche diverse (e lontane) avverrebbe quasi per istintiva affinità, anziché per segni segreti o per tratti distintivi. Già alla fine dell'Ottocento, prende forma (come vedremo) la ''m. dei giardini'', che controlla fitti, acque, forzalavoro, commercializzazione dei prodotti della Conca d'Oro. Ma è il crescente prestigio del ''modello americano'' che concorrerà a promuovere la m. dalla mediazione parassitaria a un impiego in proprio della ''risorsa fiducia'', da una partecipazione privilegiata al controllo dei mercati, del lavoro e della produzione. Tra politica e mafia: 1890-1920. − G. Mosca, che studia negli anni Ottanta il fenomeno per l'Alongi, coglie subito il nesso tra l'associazionismo imposto dall'ampliamento del suffragio elettorale (in particolare le società di mutuo soccorso, che hanno nel Sud un'importante funzione di centrali elettorali) e l'associazione mafiosa, laddove esiste. Le elezioni ''giolittiane'' del 1892, le prime col collegio uninominale dopo tre elezioni generali fatte con lo scrutinio di lista, sono nelle province mafiose dell'isola (Trapani, Palermo, Agrigento, Caltanissetta) una prova importante; non lo è meno, negli anni di Codronchi e del Commissariato Civile, il ricorso generalizzato alla malavita isolana (mafiosa e no) per intimidire gli elettori, o per sconsigliare l'accesso ai seggi di elettori non governativi. Restano famosi gli episodi denunciati per Caltagirone e Giarre da G. De Felice: e, aiutato dalla congiunta analisi delle pressioni e dei brogli elettorali effettuati in Campania dalla camorra, N. Colajanni dà corpo ad analoga denuncia amplificando le tesi e i casi su cui (Nuova Antologia, 16 novembre 1899) P. Villari aveva richiamato l'attenzione. Era quel modello dell'''ascarismo'' che da lì a pochi anni G. Salvemini avrebbe individuato e sviluppato ne Il ministro della malavita (1912). Poi, con l'assassinio di E. Notarbartolo − del quale sono sospettati come esecutore un mafioso dei Colli, il Fontana, e come mandante un deputato di Palermo, già regionista e poi crispino, R. Palizzolo − la m. appare come un ''tenebroso sodalizio'', al quale appartengono anche affaristi e uomini pubblici, che fanno della violenza e del crimine strumento di successo nell'economia e nella politica. Tra il processo di Bologna che condanna Palizzolo e il processo di Milano che l'assolve, il paese s'interroga sul fenomeno, sulla sua natura e sulle sue cause: sono molte le voci che si provano a dar risposta ai quesiti più inquietanti (ancora De Felice, Colajanni, Alongi, Cutrera; e soprattutto M. Vaccaro e G. Mosca). Appare chiaro che Notarbartolo è stato ucciso quando le voci di un suo ritorno alla direzione del Banco di Sicilia si erano fatte insistenti, e il comitato d'affari che regge l'Istituto (e ruota attorno a Palizzolo) teme che una gestione spregiudicata dei fondi possa − nel clima eccitato degli scandali bancari − essere scoperta e portare alla sua rovina. È difficile escludere una diretta responsabilità di Palizzolo, che con la ''cosca'' mafiosa che avrebbe eseguito il delitto aveva avuto rapporti continui non solo per il controllo clientelare del voto, ma più nella protezione di banditi, per ricettazione in un fondo da lui tenuto in fitto di animali e merce rubata, per l'avvio clandestino di questa merce e di animali nel mercato di Palermo. Sono questi, tra il 1890 e il 1910, gli anni in cui si afferma nella Conca d'Oro la ''m. dei giardini'' che controlla i fitti, la guardiania, l'irrigazione, la produzione della zona − ove, alla fine di una selvaggia guerra di m., i Badalamenti l'avranno vinta sugli Amoroso (e un Badalamenti progetta persino di estendere il metodo nello Stato di Palagonia nella Sicilia Orientale conteso tra i contadini socialisti di G. de Felice e le cooperative cattoliche di L. Sturzo). Emergono personaggi come C. Vizzini e G. Genco-Russo, "non più guardiani, bensì i becchini del feudo" (Lupo). Nel Trapanese, fra il 1904 e il 1914, C. Mori fa le sue prime prove contro la m. abigeataria, i sequestri di persona, e presto la conversione, assistita dalla m. locale, della diserzione militare in brigantaggio: per questa via, gli sarà dato avvertire il carattere di massa del fenomeno mafioso e le ragioni profonde del rapporto speciale tra l'élite mafiosa e la comunità che ne è al tempo stesso vittima e beneficiaria. Una percezione nuova, che differenzia la sua analisi da quella dell'Alongi e consiglierà il ritorno ai metodi della ''retata'', in cui parenti e fiancheggiatori dei mafiosi vedono intercettato e reciso il cordone che nutre e rassicura gli uomini d'onore. Gli anni della prima guerra mondiale, quando il peso dell'elettoralismo è scarso e la lotta anti-diserzione impone di scrutare più a fondo nel sistema di relazione delle province mafiose della Sicilia, saranno perciò decisivi. Quando, nel 1905, il presidente degli Stati Uniti, Th. Roosevelt, chiederà notizie della m. siciliana ad A. di San Giuliano, allora in visita agli emigrati italiani, ne riceverà, forse con sorpresa, l'immagine folklorica creata vent'anni prima da Pitré e dallo stesso rinverdita e arricchita di particolari in occasione del processo Palizzolo. Ma nel 1909 a Palermo, in piazza Marina, sarà assassinato J. Petrosino, il poliziotto di New Orleans venuto a indagare in Sicilia sul vertice della m. italo-americana. Il ponte Sicilia-USA già in quegli anni è saldo e continuo, e i mafiosi lo possono percorrere agevolmente in entrambe le direzioni. La m. di Sicilia si modernizza e si addensa, eppure sino alla prima guerra mondiale non è uscita in Sicilia dalle zone di antica origine: a quanto ne sappiamo, si limita a colmare alcune enclaves delle stesse province mafiose, con qualche penetrazione nella provincia di Enna e nella zona delle Caronie nel Messinese. Il modello associativo, con qualche innovazione ''americana'' (proverrebbe dagli Stati Uniti l'impiego di esplosivi a fini intimidatori, soprattutto nel racket), è sempre quello locale; ma se diminuiscono i sequestri, resta importante l'abigeato in più stretto collegamento con la macellazione clandestina, e cresce l'interesse nelle imprese edili (appalti di opere pubbliche, ecc.), nel mercato dei fitti e nell'usura, nel collocamento e nei consorzi agrari e di bonifica. Con la prima guerra mondiale, e i gruppi di disertori-banditi, la m. della Sicilia occidentale controlla la guerriglia, il contrabbando e le forniture militari, e recupera un ruolo forte di radicamento e controllo territoriale e una dimensione di massa che il dopoguerra avrebbe consolidato. Il periodo tra le due guerre (1925-45): trasformismo mafioso?. − Il primo dopoguerra conosce, soprattutto nelle province del latifondo, una forte pressione contadina e s'apprestano misure legislative dirette a soddisfare la ''fame'' di terra. Nelle zone in cui la m. è presente, fittuari e campieri mafiosi assumono un ruolo decisivo: regolano, con interventi mirati, ora eccitando ora reprimendo, il conflitto locale; e aumentano il loro tradizionale potere d'intermediazione parassitaria tra proprietari e contadini, ricavandone prestigio locale, danaro e soprattutto terre a condizioni di favore. Il modello prebellico di C. Vizzini (1887-1955), organizzatore di cooperative cattoliche, si espande e si consolida: nelle stesse aree, sono dei mafiosi intraprendenti a introdursi nelle strutture consortili di gestione delle acque e dei prodotti, nell'assistenza tecnica e finanziaria. Si tratta di un modello che si sarebbe consolidato negli anni Trenta, quando l'effetto Mori è già esaurito e il parastato si innerva nei tessuti della produzione e del lavoro. Tra guerra e dopoguerra Mori, prima organizzatore dei nuclei antiguerriglia, poi (1925-28) prefetto di Palermo, può cogliere il nuovo carattere di massa della m., anche se non riesce a valutare la novità e la portata dell'insediamento nelle istituzioni: da un lato egli intercetta i tradizionali legami con la politica locale, si tratti di vecchi notabili, di fiancheggiatori o di ''gente nuova''; dall'altro − interpretando l'utopia ''statalista'' del fascismo − tenta di dissolvere la m. nel tessuto della nuova statualità. Lo stato rivendica il monopolio della violenza e si fa garante dell'ordine: e l'azione di Mori aggredisce la cintura spessa ed elastica dei fiancheggiatori, imbottiglia e assedia i mafiosi, tende a colpirli nell'onore e nell'invincibilità; all'istituto del domicilio coatto preferisce la deportazione ora in luoghi di pena ora in centri lontani e diversi dal luogo di radicamento. Si discute da tempo dei successi e degli insuccessi di Mori: la liquidazione di talune cosche, la metastasi di altre. Negli stessi anni nel Catanese (non ancora a Catania) sono documentate presenze mafiose di estrazione siculo-occidentale. In ogni caso, negli anni Venti e Trenta, si assiste a un trasformismo mafioso, a significativi mutamenti nella cultura dei soggetti e nel campo di attività mafiosa: ai canali tradizionali di avanzamento si è aggiunto ora il ''partito'' con le sue organizzazioni periferiche, e soprattutto la fitta rete del parastato che ridefinisce, non solo in Sicilia, il rapporto città-campagna, e che nella Sicilia occidentale offre alle vecchie e nuove famiglie mafiose occasioni di potere e ricchezza. Non solo la terra e la commercializzazione dei suoi prodotti, ma anche gli enti preposti agli ammassi, alla vendita dei concimi, alla bonifica e alla distribuzione delle acque, alle facilitazioni nei trasporti, ecc. saranno negli anni Trenta il campo di attività, ove la m. − in proprio e per conto di ''collaterali'' − svolge un'azione mediatrice, di affari e di sostegno. Il centro della politica locale si è spostato dal municipio alle sedi di questi enti, e la m. ha con collaudata prontezza seguito la ricchezza e il potere. L'apparato tecnico del nuovo Ente per la riforma del latifondo (1940) s'incontrerà e scontrerà con la m., quella dei pascoli e delle acque, in ogni fase della sua pur breve attività. La pressione di Mori aveva coinciso con le restrizioni statunitensi all'immigrazione: con il risultato di consegnare alla m. d'America il pieno e sempre più fruttuoso controllo dell'immigrazione clandestina di Siciliani (e in genere di meridionali), avvenisse direttamente o attraverso stazioni intermedie, canadesi o sud-americane. Gli anni Trenta, anche in relazione con questi sviluppi, saranno gli anni grandi della criminalità siculo-americana, mentre in Sicilia si registra − senza contraddizioni col nuovo − una significativa regressione ad attività tradizionali della criminalità organizzata. Gli spazi politici della mafia (1945-60). − Già nel 1899 P. Villari aveva scritto: "i prefetti divennero non altro che agenti elettorali. Non si chiese loro che governassero bene, si chiese solamente che facessero eleggere deputati sicuri. E il modo più facile per riuscirvi parve che fosse sempre: impadronirsi delle clientele, consorterie o camorre che si vogliano chiamare". La procedura era nota da mezzo secolo, e a essa guardano − a guerra finita − i restauratori e i superstiti del vecchio ceto politico prefascista. La guerra (1939-43), con la diserzione e il contrabbando, e il secondo dopoguerra, caratterizzato anche in Sicilia da un clima da guerra civile, saranno campo di nuove prove. La lotta politica riprende in un curioso intreccio di restaurazione/rivoluzione, e i partiti, vecchi e nuovi, si attrezzano: gruppi di centro-destra a più saldo radicamento locale riattivano, nelle zone tradizionali della m., il circuito dello scambio tra favori e voto (e le cosche lavorano a ricostituire rapidamente il patrimonio elettorale), e contribuiscono − assai più che talune improvvide e non sempre coscienti scelte del Governo Militare Alleato − a restituire prestigio a cosche e a boss locali, in fase di riorganizzazione e di recupero, tra banditismo vecchio e nuovo e sovversivismo separatista. Quando la Democrazia Cristiana siciliana scenderà in campo, con una presenza vieppiù determinata tra il 1945 e il 1948 nel fronte ''occidentale-atlantico'' di contenimento e contrasto della sinistra socialcomunista, prevale la scelta d'integrare nel suo corpo politico quel che restava del collasso indipendentista, della morte annunciata della Destra monarchica, delle minori formazioni di centro-destra (travolte dallo scrutinio di lista), e con questo di assorbire i settori ''rispettabili'' dell'associazionismo mafioso, o per trattativa diretta o per mediazione dei superstiti delle aree di originaria appartenenza. Fu l'opera di politici autorevoli ed esperti come S. Aldisio nel Nisseno ed E. La Loggia nell'Agrigentino, B. Mattarella nel Trapanese e A. Ruffini nel Palermitano. Ma non sarà la m. a conquistare i partiti (secondo una formula abusata della polemica politica degli anni Cinquanta), saranno piuttosto i partiti, e in particolare la DC, a tentare − peraltro in coerenza con la tesi socio-antropologica, che ha trovato sostenitori sino ai giorni nostri, della m. come risposta difensiva della società isolana alla modernizzazione − la conversione del tradizionale associazionismo mafioso in strutture legali e moderne di sociabilità politica. Nello scontro, durissimo, con le Sinistre impegnate a sostenere rivendicazioni e strutture del movimento contadino (ove non sono assenti uomini e gruppi contigui alle cosche), la DC e la Destra scelgono di coprire o minimizzare − di contro alle vantaggiose scelte di politici mafiosi o di boss − le tolleranze dei pubblici poteri nei confronti di violenze o crimini di stampo mafioso. Al centro di numerosi scontri, punteggiati dagli assassinii di dirigenti e sindacalisti d'area, assunsero tragico rilievo l'attacco del bandito S. Giuliano a Portella della Ginestra (1° maggio 1947), e il caso politico della morte del bandito (luglio 1950), con la macabra messa in scena accreditata da false versioni ufficiali e avallata dallo stesso ministro degli Interni, il siciliano M. Scelba. In questo clima, mentre le cosche locali si radicano e si espandono nel nuovo tessuto degli enti regionali e nel vasto apparato della nuova Regione Siciliana, avviene il rientro (per espulsione dagli Stati Uniti) in Italia e in Sicilia di mafiosi siculo-americani, che abilita la Sicilia a centrale mediterranea del narco-traffico e del traffico di armi, sulla rotta Medio Oriente-USA. Un ruolo, questo, che la destabilizzazione del Libano, ''paradiso'' del maggiore affarismo internazionale, avrebbe reso negli anni Sessanta ancora più importante. È in funzione di un ruolo siffatto che la m. del Palermitano si struttura − anche per sollecitazione reiterata (1956-60) della m. nord-americana, della quale si fa terminale − in ''cupola'' (Cosa Nostra) e può avviare un non agevole né rapido processo di espansione e controllo della criminalità organizzata della Sicilia (e dagli anni Settanta, di quella del Mezzogiorno), sì da adeguarsi al quadro internazionale dei traffici illeciti. Negli anni in cui studi, inchieste, dibattiti e delitti sospingono in direzione di indagini parlamentari sul fenomeno che viene percepito ormai come m. ''imprenditrice'' (appalti, speculazioni sulle aree, sacco urbanistico), la prima Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della m. in Sicilia (1962-76) indaga per quindici anni, con esiti contraddittori, regolati sempre dai tempi della politica, in costante ritardo sulle modificazioni e sulla ''modernizzazione'' della m. nella struttura, nei poteri, negli uomini. Mentre la DC è impegnata a contenere entro limiti politicamente non devastanti le denunce incalzanti delle Sinistre, e il PCI è bloccato su una percezione localistica del fenomeno, diffidente di ogni proposta di allargare al quadro internazionale l'attenzione per l'attività e il ruolo della m., la cultura, siciliana e non, oscilla tra modello antropologico ''tradizionale'' (ambiguo vagheggiamento di ''sicilianità'' perduta) e scoperta di aspirazioni politiche della mafia. L'internazionale mafiosa (1965-90). − Di una ''cupola'' o ''commissione'' della m. siciliana si ha comunque notizia solo dal 1965, nel corso dell'inchiesta seguita alla ''prima guerra di m.'' (Palermo, 1961-63). La commissione avrebbe il compito di coordinare l'attività delle famiglie (cosche) di una provincia, ed è composta dei capimandamento (1 capo ogni tre cosche); la sua costituzione può aver influito sulla recente omologazione della struttura delle cosche. Gli uomini d'onore, gli affiliati (da 20 a 150) eleggerebbero ora il capofamiglia, che si sceglie a sua volta un vice e dei consiglieri; il corpo è diviso in decine, coordinate da un capodecina − che farebbe anche da intermediario tra il soldato e il capofamiglia. Improprio appare dedurre da una struttura siffatta l'esistenza di un esercito della mafia: allo stato degli atti, per lo meno fino alla metà degli anni Ottanta, la ''commissione'' ha svolto funzioni di coordinamento interno, piuttosto che di azione politica o strategica verso l'esterno. Negli stessi anni, L. Liggio elimina Navarra e attrezza i ''Corleonesi'' alla guerra di m. degli anni Settanta, che gli avrebbe consegnato lo scettro di Cosa Nostra siciliana: nella versione di comodo del pentito T. Buscetta, questa spietata ''nuova'' m. avrebbe avuto nel 1981 ragione della ''vecchia'', rispettabile e patriarcale, con l'assassinio di P. Bontate. Ma la tesi non è sostenibile, giacché dal 1979 la cupola sceglie la linea dura della rimozione violenta degli ostacoli esterni (giornalisti, funzionari di polizia, magistrati, politici) e degli interni, con una nuova strategia delle alleanze, sia politiche che mafiose. La guerra di m. e gli omicidi eccellenti smentiscono in modo clamoroso le previsioni ottimistiche della prima Commissione antimafia, conclusa nel 1976, che si basavano su alcune presunte convergenze tra il declino americano di Cosa Nostra e la riduzione quantitativa delle cosche. Se la ''fuga'' di M. Sindona in Sicilia (tra il luglio e l'ottobre 1979) può essere interpretata come un riconoscimento del rango di Cosa Nostra siciliana, l'assassinio del generale C.A. Della Chiesa (settembre 1982), preceduto dall'assassinio del deputato comunista P. La Torre (aprile 1982) e seguito da quello del giudice R. Chinnici (luglio 1983), apparve all'opinione pubblica non solo italiana una sfida tracotante. Il dibattito politico si fa quindi più aspro: si approntano nuovi strumenti legislativi, ma restano insufficienti la qualità e la quantità dell'intervento di repressione sia della polizia e dei carabinieri, sia della magistratura, divisa da conflitti e rivalità sconcertanti (il palermitano Palazzo di giustizia diventa il cosiddetto ''palazzo dei veleni''). E nondimeno il magistrato G. Falcone riesce a istruire il ''maxi processo'' di Palermo (1986), che porta alla sbarra i vertici della m. siciliana e riesce per la prima volta a consegnarne al paese i volti, l'ampiezza delle attività, la ricchezza, in una parola la potenza. Frattanto il 16 aprile 1985 la Commissione antimafia nominata per un bilancio della lotta alla m. e presieduta da A. Alinovi, aveva ''scoperto'' − con l'evoluzione della m. siciliana ("da un ruolo passivo di mediazione parassitaria ad un ruolo attivo, di accumulazione del capitale") − la ''trasformazione in impresa'' della camorra napoletana e della 'ndrangheta calabrese. Sicché la seconda Commissione antimafia presieduta da G. Chiaromonte sarebbe stata chiamata (l. 23 marzo 1988) a indagare "sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali". L'indagine accertava l'insufficienza delle risorse, in uomini e strumenti, per la lotta alla criminalità organizzata; la coesistenza accanto al narcotraffico, al contrabbando delle sigarette, al mercato delle armi, di tradizionali attività della m., in Sicilia e fuori (racket, sequestri di persona, appalti, ecc.); e soprattutto la crescente presenza di capitali ''mafiosi'' nell'economia legale e forme di affarismo politico-mafioso. Su questo terreno maturano esperienze di collaborazione internazionale che − se non ottengono risultati decisivi − consentono tuttavia di disegnare, con buona approssimazione, la mappa internazionale della m. e il ruolo in essa di Siciliani e di Napoletani, interessati peraltro al crescente mercato europeo e orientale della droga e delle armi − ora alleati ora rivali delle potenti m. (colombiana, turca, indocinese, giapponese, ecc.), delle quali si vengono conoscendo negli anni Ottanta le attività e la struttura. La legislazione degli anni Ottanta non solo ha mirato a definire il delitto di m., ma ha anche dotato la polizia e la magistratura di strumenti atti a colpire le fortune illecite attraverso il sequestro dei patrimoni (spesso ingenti) dei mafiosi e contrastando il riciclaggio di denaro sporco. Sul piano amministrativo, il ministro dell'Interno ha potuto sospendere amministratori locali sospettati di collusioni mafiose e sciogliere consigli comunali e provinciali ''per sospetto inquinamento mafioso''; una miglior vigilanza è stata esercitata su interessi mafiosi in appalti pubblici per costruzioni, forniture, servizi (e sono in corso adeguamenti di norme relative); il rafforzamento degli apparati di repressione (carabinieri, polizia, guardia di finanza) ha reso possibile − anche per una migliore prontezza delle vittime a collaborare − l'arresto di latitanti di rango, di estortori, di killersin Italia e all'estero. Anche se da più parti si lamentano smagliature persistenti nell'attività dei servizi segreti nel coordinamento, la recente istituzione di magistrature centrali e periferiche specializzate nell'indagine e prosecuzione di associazioni e crimini di m. ha consentito una lotta più efficace a livello locale, un'intesa tra affini organismi di altri stati europei ed extra-europei, e una miglior comprensione del fenomeno su scala nazionale e mondiale. Lo scenario mondiale della criminalità associata, che ha collegamenti e rapporti attorno a comuni interessi nel narcotraffico, nel contrabbando di armi (e in genere di materiale bellico), nella cosiddetta ''economia sporca'', è affollato da vecchi e nuovi soggetti: se sono tradizionali le m. orientali (cinese, giapponese, indocinese, libanese) con le loro propaggini medio-orientali e americane, più aggressive sullo scacchiere europeo appaiono − con la m. siciliana − la m. turca con i terminali balcanici, la m. colombiana e ora la m. russa. Difficile è districarsi nell'intreccio aggrovigliato di questo mondo segreto; su talune rotte della m. ci sono sovrapposizioni e sostituzioni ma, come per la m. siciliana, la letteratura in proposito è pressocché esclusivamente giudiziaria e giornalistica. Impraticabile può apparire al sociologo o politologo italiani (o interessati al caso italiano) procedere, allo stato delle nostre conoscenze, a utili confronti: suggestivo resta il rapporto che in taluni di questi paesi (dagli Stati Uniti e Canada alla Colombia, dall'Indocina alla Turchia) lega le associazioni criminali a gruppi terroristici o a politici 'trasversali', mentre si dilatano e mutano i rapporti tradizionali con i servizi segreti dello stato e di altre potenze. Una miglior conoscenza di siffatti legami può chiarire quello che rimane oggi in Italia il lato più oscuro e controverso della 'modernizzazione mafiosa': la natura vera del rapporto con il potere politico (politici, apparati pubblici, gruppi terroristici, ecc.). La cooperazione internazionale, la scelta più precisa di metodi di contrasto, la legislazione sui 'pentiti' (il cui numero cresce con ritmo esponenziale in pochi anni da 30 a 500) hanno consentito comunque − anche sull'onda di una generosa mobilitazione della piazza, attivata dall'indignazione per gli assassinii (1992) di G. Falcone e di P. Borsellino, e per la creazione di pools specialistici di magistrati e di centrali di coordinamento a livello centrale e locale − risultati significativi, soprattutto nell'arresto di latitanti eccellenti, nel sequestro dei loro patrimoni e nell'intercettazione di alcune tradizionali 'protezioni' e tolleranze. Ma il capitolo m.-politica resta fra i più oscuri e dagli incerti confini: non è ancora provata la affiliazione 'mafiosa' di politici di rango, le compromissioni venute in evidenza riguardano soprattutto politici locali; e il terrorismo mafioso non pare risponda a un progetto politico, ma è piuttosto confinato ad azioni di disturbo e di provocazione. Tutto ciò ha creato, e continua a creare, a opera della stampa e della letteratura giornalistica, curiosità e interesse: tuttavia alla crescita fuor di misura dell'immagine non ha corrisposto un altrettanto significativo sviluppo delle conoscenze. E la cultura politica, italiana e no, stenta a trovare un approccio adeguato a un fenomeno, su cui più che nel passato è ricca e diversificata la documentazione, ed esistono le condizioni per una valutazione su base comparativa: ciò si riflette nel profilo culturale della terza Commissione antimafia (Violante presidente), che appare prigioniera di vecchi modelli e ancor più di vecchie scelte. Ma non c'è stato un mutamento nella mutazione? È ancora adeguato il termine 'mafia' a rappresentare la cosa, oggi che essa appare tanto diversa − per soggetti, attività, estensione, contaminazione di modelli, ecc. − dall'originario modello siciliano o siculo-americano; se non è certo che i caratteri settari, e le regole che ne hanno garantito per un secolo l'identità valgono ancora per designarla e individuarla tra le forme di ''associazione per delinquere di stampo mafioso'' che da almeno venti anni attorno al narcotraffico e alla ''economia sporca'' hanno trovato terreno comune di cooperazione e di scontro? Non ci sono studi comparativi, ma non ci sono neppure dati affidabili sulle diversità. L'evoluzione è certa, non altrettanto le forme e gli esiti prevedibili: è un fatto che, se la tipologia del modello siciliano ha trascinato nella sua evoluzione le altre grandi società criminali verso l'omologazione, le difficoltà di Cosa Nostra negli Stati Uniti hanno avuto in questi ultimi anni riflessi pressoché immediati sulla gerarchia della m. (con l'avvento dei Colombiani, non solo la più vecchia camorra ma persino 'ndrangheta e Nuova Corona Unita hanno guadagnato posizioni), e sono ricomparse le stidde mafiose, minori formazioni a più saldo e circoscritto radicamento locale ora rivali ora alleate, tra loro e con le m. centralizzate, in imprese criminali o in affari.

L' IRRESISTIBILE FASCINO DEL SANTO SEPOLCRO, scrive l' inviato di Repubblica, Alberto Stabile,  il 21 gennaio 1988. Sfilano i cavalieri con la spada al fianco. Passano le dame velate avvolte nei mantelli con le cinque croci fiammeggianti di Gerusalemme. Il grande organo esplode sotto le navate del duomo di Monreale: Veni creator spiritus... Mentes tuorum visita. I mosaici spettacolari vibrano nella luce incerta delle lampade ad olio. Tintinnano gli incensieri. Nell' aria annota un cronista c' è un vago sentore di Medioevo... Il meglio della borghesia palermitana si è data appuntamento il 1ø novembre dell' 84 per assistere ad una cerimonia suggestiva e irripetibile. Politici e magistrati; imprenditori e alti funzionari dello Stato; ufficiali d' Arma e docenti universitari: una folla di potenti è accorsa al richiamo dell' Ordine del Santo Sepolcro per far corona all' iniziazione di 39 nuovi cavalieri e dame. Emozionati, irrigiditi nell' abito scuro coperto dal mantello candido lungo fino ai piedi, i cavalieri si schierano su un lato dell' altare. C' è il generale Umberto Cappuzzo, c' è il prefetto Emanuele De Francesco, già commissario dell' Antimafia, c' è l' ex questore di Palermo Giovanni Epifanio, c' è l' ex ministro Attilio Ruffini. E ancora: il gioielliere Emanuele Fiorentino, fratello maggiore di Claudio, rapito dall' Anonima e riconsegnato alla famiglia un anno e mezzo dopo; il professor Gullotti, vicerettore; il rettore magnifico Ignazio Melisenda Giambertoni; il generale dei carabinieri Ignazio Milillo, il professor Salvatore Orlando Cascio, noto avvocato amministrativista e padre del sindaco; il presidente degli industriali Salvino Lagumina, il direttore generale del Banco di Sicilia Savagnone, il presidente della Zecca Giuseppe La Loggia, uno dei notabili della prima generazione della Dc siciliana; il ragioniere generale del Comune Armando Celone, l' ex questore, oggi prefetto, Nino Mendolia, per citare soltanto alcuni dei nomi di maggior spicco. Fra il pubblico e, come egli stesso ha precisato, assieme ad altri due magistrati, c' è il procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno che nega di aver mai fatto parte di questo olimpo cittadino dei crociati. Il suo nome, però, è presente nell' annuario dell' Ordine del 1984 con aggiunta la data di ammissione: 26 novembre 1981. Officia il patriarca di Gerusalemme monsignor Giacomo Beltritti, assistito dal priore dell' Ordine, l' arcivescovo di Monreale monsignor Cassisa. Ma tutti gli sguardi, i sorrisi, le strette di mano, sono per il luogotenente della Sicilia, il conte Arturo Cassina, il più influente e gratificato degli imprenditori palermitani, a cui tutti riconoscono tra l' altro il merito d' aver rianimato i destini dell' Ordine, fondato nel 1096 e piombato, almeno in Sicilia, in una morta gora. Solenne e un po' bizzarra nel suo esasperato simbolismo la cerimonia va avanti. A coppie, i nuovi cavalieri si inchinano davanti al patriarca di Gerusalemme. Che cosa chiedi?. Sei pronto con le parole e con il cuore ad osservare le costituzioni di questa santa milizia?. Alla risposta affermativa il patriarca consegna agli iniziati gli speroni dorati, la spada, la croce potenziata simboli dei difensori del Santo Sepolcro, che gli vengono porti dal luogotenente. Poi, come ai tempi delle Crociate, un triplice tocco di lama sulla spalla destra del novizio in ginocchio: In virtù del mandato ricevuto io ti costituisco e ti proclamo soldato e cavaliere del Santo Sepolcro di nostro Signore. Uguale procedura ma con la consegna della sola croce per dame e sacerdoti. Così, quel giorno, si inginocchiano e promettono il prefetto di Palermo Antonio Basso, il colonnello Andrea Castellano, il dottor Bruno Contrada, già dirigente della Criminalpol e poi del Sisde, il tenente colonnello Giovanni Ferraro, il colonnello Serafino Licata, il questore Giuseppe Montesano, il professor Antonio Palazzo, l' onorevole democristiano Ferdinando Russo, il capo della Mobile Nicola Salerno, il questore Giuseppe Samperisi, il colonnello Natale Viola. Un applauso fragoroso segna la fine della cerimonia e scioglie la tensione accumulatasi con tutto quel baluginare di spade e speroni dorati. Poi, tutti a villa Malfitano, sede della fondazione Whitaker, in quel periodo presieduta da Armando Celone, tutti invitati all' agape fraterna, cioè ad un ricco ricevimento. Questo raccontano le cronache di quel 1ø novembre di quattro anni fa. Tutto chiaro, tutto liscio, tutto trasparente? Un sodalizio di bei nomi legati soltanto da un' orificenza di prestigio e votati unicamente come precisa lo statuto dell' Ordine a rafforzare la pratica della vita cristiana, e a sostenere ed aiutare le istituzioni della Chiesa in Terra Santa? Ma se è così, perché il sindaco Insalaco parlava dell' Ordine del Santo Sepolcro con timore reverenziale e adombrando coincidenze che creano grosse perplessità e ammonendo che in momenti così particolari è preferibile rinunciare a rapporti di fratellanza e d' associazionismo? E basta l' aspirazione a difendere la Terra Santa per spiegare il massiccio reclutamento di banchieri e politici, amministratori e investigatori, giudici e professori, controllori e controllati, responsabili di uffici pubblici e privati imprenditori? Dall' annuario dell' 86 un documento pubblico, come tutti gli annuali dell' Ordine si capisce che deve esserci stato una vera e propria gara, una corsa a ricevere le sacre insegne; dopo anni, secoli di inattività l' Ordine è infatti rifiorito sotto l' impulso di Cassina. Col gran patron della Lesca che per 40 anni ha gestito la manutenzione delle strade di Palermo, presenti negli elenchi dell' Ordine sono anche due suoi figli (Duilio e Ilario) e il suo inseparabile braccio destro, il cavalier Gaetano D' Agostino, il funzionario addetto ai rapporti con gli uffici pubblici di cui si dice che negli assessorati comunali era di casa. Tra i magistrati si è parlato di Paino. Si può aggiungere Antonio Osnato. Mentre tra i funzionari della procura c' è il dirigente più alto in grado, Lorenzo Lomonaco. Poliziotti e carabinieri, una gran rappresentanza: in pratica i vertici dell' Arma e della questura che sono transitati in quegli anni per Palermo hanno avuto l' investitura. Gli annali dell' Ordine ci dicono anche che ricca e prestigiosa è la rappresentanza di alti prelati: i cardinali arcivescovi di Palermo Celesia, Ruffini, Carpino e Pappalardo; il vicario episcopale Giuseppe Carcione, una delle più ascoltate eminenze della Curia palermitana e vari altri monsignori. Il mondo imprenditorile, oltre che con Lagumina è presente con gli industriali Virga e Stancampiana. Il preside di medicina Antonino Gullotti, il rettore magnifico Melisenda, il professor Antonio Palazzo di Diritto del lavoro, il professor Pietro Virca e altri professori rivelano che tra i docenti universitari quelle insegne equestri erano particolarmente ambite. Le banche, soprattutto il Banco di Sicilia, con l' ex presidente Ciro De Martino, il direttore generale Savagnone, il vice direttore Micciché; l' esercito; la Guardia di Finanza con il vice comandante della zona centrale Fulvio Toschi, la scuola allievi carabinieri, diretta dal generale Salvatore Rizzo e la simmetrica scuola di polizia con il generale Natale Viola. Fra i politici locali i deputati regionali democristiani Raffaele Rubino, Ferdinando Russo, Carmelo Mantione e il sindaco di Messina Antonio Andrò. Insomma, una lobby che attraversa tutti i settori della vita pubblica, un gruppo di competenze e di poteri che non si manifesta con caratteri di segretezza ma che finisce con il costituire una rete potenziale di punti di riferimento. I potenti, si sa, amano stare vicino ad altri potenti. Ma entrare nell' Ordine non doveva essere facile. Gli interessati, naturalmente, negano qualunque intendimento men che lampante, qualunque strategia trasversale. So che l' Ordine viene continuamente alimentato da nuove leve che ambiscono ad entrare dice l' ingegner Luciano Cassina, figlio di Arturo . Naturalmente si scelgono i dirigenti dei settori, i migliori, i più autorevoli, quelli che rappresentano l' élite con requisiti di moralità. Solo i comunisti vengono esclusi non essendo impegnati nella fede, e a riprova della credibilità dell' Ordine, il fatto che anche il generale Dalla Chiesa, in anni lontani, quando comandava il gruppo di Palermo ricevette le insegne di cavaliere. Per non dire poi di Emanuele De Francesco, l' alto commissario per la lotta alla mafia. Eppure, a quanto pare, è lì, negli elenchi dell' Ordine che l' ex sindaco Insalaco cercava una delle chiavi della sua vicenda politico-giudiziaria. Al sindaco che aveva provato a contrastare il passo al comitato d' affari che dominava il Comune di Palermo non piacevano quelle coincidenze di persone, quegli incontri tra potenti che si realizzavano sul terreno apparentemente neutrale, extraterritoriale, dell' Ordine del Santo Sepolcro. In quell' inverno dell' 84 Insalaco aveva imparato a conoscere fin dove poteva spingersi la vendetta dei suoi avversari politici. Aveva provato a cambiare l' andazzo che si era determinato con gli appalti rinnovati automaticamente alla Lesca e all' Icem. E la Lesca, si sa, vuol dire Cassina. E Insalaco accusava prorio quei gruppi economici di esercitare pressioni insopportabili, di costituire una forza inquinante sugli apparati pubblici. Certo quel giorno di novembre dell' 84 avrà fatto un salto sulla sedia nel leggere le cronache di quelle investiture, nel vedere funzionari, questori e generali inginocchiarsi davanti al gran vecchio dalla barba bianca e giurare fedeltà, seppure a un' idea un po' tramontata.

·         Mafia esercito della Cia.

LA MAFIA FU DECISIVA NELL’ELEZIONE DI KENNEDY, HOFFA IN QUELLA DI NIXON. Gabriele Santoro per ''Il Messaggero'' il 3 dicembre 2019. Senza il corpo, senza nessuna prova. Dal 30 luglio 1975 l' America s' interroga sulla sparizione di Jimmy Hoffa, che il 14 ottobre 1957 dopo un' ascesa prepotente era stato eletto capo dell' International Brotherhood of Teamsters, il sindacato più influente della nazione. Qual è stata la fine di Hoffa, spregiudicato protagonista per vent' anni della vita economica, politica e criminale degli Stati Uniti? La domanda è tuttora irrisolta, nonostante i decenni d' indagini dell' Fbi e le miriadi d' ipotesi. In questo vuoto, che è un' ossessione nell' immaginario della società nordamericana, si è inserito con forza il lavoro del newyorchese Charles Brandt, avvocato ed ex Procuratore generale dello Stato del Delaware. Il suo libro I heard you paint the houses, pubblicato per la prima volta nel 2004, è uscito in una nuova edizione e oltreoceano è in vetta alle classifiche di vendita. La storia e la scrittura di Brandt hanno conquistato Martin Scorsese e Robert De Niro, con cui l' autore ha collaborato per la trasposizione cinematografica. In Italia l' ha portato la casa editrice Fazi col titolo The Irishman (traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini, 469 pagine, 18 euro). Brandt, ospite d' eccezione di Più libri più liberi (Sabato 7, ore 17.45, con Pif nella Nuvola all' Eur), ha cercato le risposte che mancano nella confessione di Frank Sheeran, raccolta in una serie d' interviste dal 1991 al 2003. L' irlandese, al ritorno dai campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale, era un autotrasportatore che cercava una vita migliore. Nella sua ricostruzione, questa ricerca lo ha reso un killer del crimine organizzato e poi un uomo di Hoffa. Al crepuscolo dell' esistenza, malato di cancro, Sheeran ha rivelato a Brandt di essere l' assassino di Hoffa su ordine di Cosa nostra.

Brandt, in quale modo il reduce Sheeran ottenne la fiducia di un capomafia della caratura di Russell Bufalino?

«È una domanda fondamentale, che ho posto più volte a Frank nei cinque anni d' incontri con lui. Bufalino gli affidava commissioni importanti, perché ne apprezzava la determinazione e l' obbedienza. Le famiglie mafiose di New York erano quasi esclusivamente italiane, mentre Russell aveva un' attitudine aperta nei confronti dei non italiani. Si erano conosciuti casualmente nel 1955 in un' area di servizio. Il camion di Sheeran era in panne e Bufalino si offrì di aiutarlo. Da quel momento svilupparono un rapporto solido di reciproca utilità».

Perché Bufalino è stato il ponte tra Sheeran e Hoffa?

«Frank voleva sistemarsi nel sindacato. Teamsters era il più potente a livello nazionale, poiché controllava il settore nevralgico dei trasporti. Hoffa non si pose scrupoli riguardo allo spessore criminale degli uomini con cui si alleò per raggiungere i suoi obiettivi mediante la violenza e l' intimidazione mafiosa. Il fondo pensioni dei Teamsters, creato da Hoffa, divenne una ricchissima fonte di finanziamento degli affari di Cosa nostra».

Qual è stato il ruolo di Hoffa nelle elezioni presidenziali del 1960?

«Quando si diffuse la notizia dell' assassinio del presidente John F. Kennedy, Hoffa fece innalzare la bandiera americana che sventolava sul tetto della sede Teamsters. Nel 1971 Hoffa uscì dal carcere per la grazia concessagli dal presidente Nixon, di cui aveva finanziato la campagna elettorale. La morte di JFK interruppe il lavoro del fratello Robert, che prima come consigliere della Commissione d' inchiesta McClellan e poi nella veste di Procuratore generale è stato il suo acerrimo nemico. Robert F. Kennedy perseguì l' infiltrazione di Cosa nostra nel sindacato».

Hoffa è stato il tentativo di corrompere l' anima degli Stati Uniti o parte di un sistema?

«Per un ventennio è stato al centro delle relazioni pericolose tra economia, politica e mafia. Il sindacato Teamsters, presieduto oggi dal figlio di Hoffa, si trasformò in un possedimento personale. Al costo della vita non seppe rinunciarvi. Una volta uscito dal carcere, Hoffa voleva riprendersi la guida del Teamsters, mentre i boss erano soddisfatti del compromesso di Under Fitzsimmons e commissionarono l' omicidio preventivo. Il fantasma di Hoffa corrisponde all' incapacità dell' America di fare pienamente luce e i conti con un' epoca decisiva della propria storia».

Sheeran è un testimone pienamente credibile?

«La sua biografia è parte integrante della storia americana. È stato una delle poche persone davvero vicine a Hoffa. La prima volta si parlarono al telefono mediante Bufalino. Ho saputo che dipingi le pareti, gli disse Hoffa. Sapeva che Sheeran era un killer. Lo fece diventare un alto dirigente del Teamsters, ma soprattutto era uno della famiglia Hoffa e il tradimento lo ha lacerato».

Lei com' è diventato il confessore di Sheeran?

«Da avvocato sono riuscito a ottenere la sua scarcerazione per motivi di salute. L' irlandese era stato educato da una famiglia cattolica praticante. Mi ha usato come se fossi un sacerdote, dopo averne incontrato uno vero. Mi ha rivelato numerosi delitti irrisolti dalla giustizia e presentato a boss di alto calibro come il suo biografo. Dall' alba delle indagini, l'Fbi non aveva mai collegato Sheeran alla scomparsa di Hoffa, poi ha acquisito il materiale delle nostre conversazioni».

Scorsese l' ha coinvolta nell' intero processo creativo del film?

«Sì. La prima volta mi ha telefonato De Niro, che voleva interpretare Sheeran. A Manhattan Scorsese mi ha dato la sceneggiatura con la richiesta di mandargli le mie osservazioni. Ho partecipato anche ad alcune riprese. Le due opere vivranno in simbiosi».

Così zio Sam ringraziò Cosa Nostra. I padrini si presero New York. Paolo Delgado il 18 luglio 2019 su Il Dubbio. Quando i boss varcarono l’oceano. Il pezzo da novanta dei boss d’oltreoceano era "Lucky" Luciano. Fu lui a ispirare le saghe cinematografiche di Coppola e Scorsese.

Zio sam ringraziò Cosa Nostra. L’onorata società è nata in Sicilia ma quella che abbiamo conosciuto, quella descritta da Masino Buscetta, con la sua Cupola, le sue Famiglie, i suoi ‘ mandamenti’, Cosa nostra insomma, quella è invece maturata dall’altra parte dell’Atlantico ed è tornata in patria, dopo la guerra, con i padrini messi fuori dalle carceri americane e rispediti nel Paese d’origine come premio per i servizi resi allo zio Sam durante la guerra, in particolare grazie al controllo capillare del porto di New York. Il pezzo da novanta era Salvatore Lucania, nato a Lercara Friddi nel 1897, emigrato con la famiglia a New York a 8 anni: Charlie "Lucky" Luciano. La Cosa nostra che ha occupato schermi, pagine stampate e teleschermi colonizzando l’immaginario di intere generazioni, quella di Puzo, Coppola e Scorsese, la aveva creata lui.

I Mustache Petes. La guerra che dilaniò la mafia italo-americana tra il 1930 e il 1931 è passata alla storia come "guerra di Castellammare" perché il grosso dei soldati venivano da lì, da Castellammare sul Golfo, provincia di Trapani. Si fronteggiavano i mafiosi all’antica guidati da da Joe "the Boss" Masseria, i "Mustache Petes" come venivano definiti per l’abitudine di sfoggiare i baffoni, e i nuovi uomini d’onore agli ordini di Salvatore Maranzano, immigrato di fresco da Castellammare, più moderni, spregiudicati, imprenditoriali. Appassionato di storia romana, fu Masseria a organizzare le truppe sul modello di quelle romane, lo stesso descritto cinquant’anni più tardi da Buscetta a proposito della Cosa nostra siciliana.

La vittoria di Lucky Luciano. La spuntò Maranzano ma si godette la vittoria per pochissimo. Lucky Luciano aveva organizzato l’assassinio di Joe The Boss dopo averlo invitato a cena, in una scena riprodotta poi alla perfezione da Mario Puzo nel Padrino. Meno di un anno dopo fece uccidere anche Maranzano. In entrambi i casi si avvalse dell’appoggio della malavita ebrea con la quale era cresciuto: Meyer Lansky, il genio della finanza che in tutta la vita riuscì a non passare un solo giorno in galera, e Benny Siegel, il boss spericolato che adorava occuparsi di persona delle esecuzioni e che una quindicina d’ani dopo avrebbe creato Las Vegas. Una visione, quella della città del gioco gestita direttamente da Cosa nostra, che gli costò la pelle, probabilmente per le spese eccessive e lo scarso rientro iniziale. Luciano e Lansky, che con Siegel e Frank Costello erano cresciuti nel Lower East Side hanno però sempre negato di aver dato loro l’ordine fatale. Masseria e Maranzano si erano scannati per la corona di "capo dei capi". Lucky Luciano capì che quella corona avrebbe comportato guerre civili infinite. Pur avendo la guerra rinunciò al regno, fece di Cosa nostra una democrazia, assegnò a ogni famiglia il comando sulla città di appartenenza ma divise New York in cinque zone, ciascuna sotto il controllo di una delle principali "cinque famiglie". Al governo fu posta una "commissione" composta da un rappresentante per ciascuna delle cinque famiglie newyorchesi e altri due soli rappresentanti per tutte le altre. Il primo presidente fu Charlie Lucky.

Il modello delle 5 famiglie. L’assetto definito in quel vertice del settembre 1931 avrebbe dominato il crimine organizzato negli Usa e non solo negli Usa per una cinquantina d’anni, fornendo il modello per le organizzazioni criminali di tutto il mondo. Le famiglie di Cosa nostra controllavano tutte le fonti di guadagno illegale, inclusa, dopo qualche resistenza iniziale, la più lucrosa di tutte: gli stupefacenti. Le famiglie prosperarono anche perché le forze dell’ordine fecero ben poco per contrastarle. J. Edgar Hoover il potentissimo capo dell’Fbi era sbrigativo: ‘ La mafia non esiste’. Dopo l’irruzione quasi casuale, nel 1957, in un supervertice ad Appalachin, nello Stato di new York, al quale partecipavano un centinaio di boss e dopo che il primo pentito di mafia, Joe Valachi, ebbe svelato nel 1963 gli altarini di Cosa nostra insistere nella tesi della mafia inesistente diventò impossibile. Ma l’Fbi continuò ad andare giù leggerissima, almeno fino al varo nel 1970 del Rico Act, legge che introduceva per la prima volta il reato associativo per reati di mafia. Le famiglie si sono combattute a volte, ma molto più spesso gli omicidi eccellenti sono serviti a liquidare i vertici delle singole famiglie. Luciano aveva assegnato la zona di Brooklyn a Vincent Mangano, un ‘ Mustache Pete’ abbastanza sveglio per adeguarsi ai nuovi tempi. Nel 1951 fu fatto sparire dal suo vice, Albert Anastasia. Anastasia fu a sua volta assassinato dal barbiere nel 1957, probabilmente per ordine di Mayer Lansky. Lo sostituì Carlo Gambino cugino del capofamiglia di Passo di Rigano Totuccio Inzerillo, fatto uccidere nel maggio 1981 da Totò Riina. Per sfuggire allo sterminio ordinato da Totò U Curtu gli Inzerillo ripararono in massa negli Usa, ospiti dei Gambino. Sono tornati alla spicciolata dopo la morte del corleonese. La maxiretata sulle due sponde dell’Atlantico ha di nuovo decimato entrambe le famiglie.

MAFIA ESERCITO DELLA C.I.A., SPUNTANO LE PROVE, di Giuseppe Barcellona il 20 marzo 2017 su difesaonline.it. Nel 1942 la guerra pendeva dalla parte dei nazifascisti, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt non dormiva sogni tranquilli; i sottomarini di Hitler erano appostati poco fuori la baia di Hudson pronti a silurare qualunque convoglio che dall’America partisse a sostegno degli alleati d’oltreoceano, i cittadini della grande mela osservavano preoccupati l’ammasso di ferraglia e residui oleosi che si estendeva lungo tutta la baia, testimonianza dell’efficacia militare dei nazisti probabilmente supportati da un’efficace rete di spionaggio di immigrati tedeschi e soprattutto italiani, specie quelli di origine siciliana che avevano in mano la flottiglia di pescatori del porto. Quando venne appiccato un incendio all’interno della baia al transatlantico Normandie (foto), il presidente andò su tutte le furie, convocò il comandante della Marina Militare Haffenden e fu categorico: “A qualunque costo dobbiamo cambiare il corso della guerra”. Haffenden convocò gli informatori dei servizi segreti i quali all’unisono gli indicarono i mangia spaghetti quali responsabili dei recenti eventi bellici, erano loro a rifornire gli U-Boot nazisti appostati poco fuori le acque territoriali americane ed i pescatori quasi tutti siciliani a fornire indicazioni sulla data di partenza dei vari convogli. Il porto di New York era tutto in mano alla mafia siciliana, Lucky Luciano (foto apertura), il capo dei mammasantissima, era stato arrestato ed erano stati presi provvedimenti durissimi verso l’organizzazione criminale che poteva vantare centinaia di migliaia di affiliati e fiancheggiatori in tutto il Nord America; questa era la vendetta dei siculo americani verso il governo degli Stati Uniti. Haffenden aprì immediatamente un canale con Lucky Luciano e si pervenne ad un accordo segreto; immediatamente fu smantellata la rete di spionaggio e nessun sommergibile tedesco si avvicinò più alla rada del fiume Hudson; in cambio la mano nera americana vide allentarsi il cappio del governo centrale. Cominciò così il connubio mafia-servizi segreti americani e quando l’estate successiva si dovette pianificare lo sbarco alleato in Europa i vertici militari americani non ebbero dubbi sulla scelta; in Sicilia le famiglie mafiose avevano radici solide ed attendevano con ansia la fine del fascismo per tornare ai fasti di un tempo; quando Lucky Luciano chiamò a raccolta tutte le famiglie d’America e di Sicilia fu un plebiscito di consensi e lo sbarco, pianificato dagli Yankee con l’ausilio di migliaia di picciotti fu un successo. In cambio di questo appoggio il governo americano promise il governo dell’isola, la nomina di sindaci, funzionari, amministratori appartenenti alle famiglie mafiose; un segno di riconoscenza verso i padrini ma anche la costituzione di un avamposto americano nel mediterraneo in previsione della disputa con l’Unione Sovietica di Stalin. Erano i tempi in cui il braccio destro di Winston Churchill definì il maresciallo Tito “Un mascalzone, ma il nostro mascalzone” ed il leader britannico liquidò le rimostranze di un suo funzionario sul futuro dei Balcani così “Ha per caso intenzione di trasferirsi in Jugoslavia nei prossimi anni?” Insomma a qualunque costo si doveva fermare l’avanzata rossa in Europa, così nacque in Italia il connubio Democrazia Cristiana-mafia, un progetto anticomunista costantemente supportato dai vari governi stelle e strisce che sarebbe durato fino alla caduta del muro di Berlino; in questa operazione segreta (ma non tanto) che durò quasi quarant’anni gli americani hanno sperimentato le tecniche di infiltrazione in un paese straniero, concetto poi esteso ad altre nazioni dove gli americani hanno esteso la loro influenza, spesso con azioni militari più eclatanti. In Italia grazie alla mafia sono riusciti ad arrivare alla politica, ancora oggi molti si chiedono come è stato possibile un così stretto connubio tra due realtà che in teoria avrebbero dovuto essere antitetiche, a distanza di anni sono arrivate le ammissioni da parte degli uomini della C.I.A., ed in una certa parte sono spuntati i documenti che comprovano questa scottante verità. William Colby ex capo della C.I.A. in una intervista rilasciata a Gianni Bisiach ha riconosciuto l’incredibile errore del governo americano che ha stretto rapporti troppo stretti con l’organizzazione criminale italiana condizionando in negativo la storia del paese, segnatamente della Sicilia. “Noi abbiamo avuto rapporti con la mafia, questo è stato un terribile errore”, la clamorosa ammissione dell’ex capo C.I.A. riscrive la storia, il potere enorme concesso alla mafia nell’immediato dopoguerra è stato il terreno di coltura di una pletora di criminali che hanno insanguinato l’isola del mediterraneo condizionandone in negativo lo sviluppo e la storia, i Bontate, i Riina, i Provenzano, i Badalamenti, i Leggio, si formano in quegli anni di impunità garantita per legge dallo stato italiano.

Si, per legge, oggi possiamo affermarlo. Sepolta tra cumuli di polvere, dimenticata (volutamente) negli archivi segreti, riaffiora dal passato il documento incriminante, quello che ha condannato a morte la Sicilia e con essa l’Italia ad un quarantennio di mafia e di connubio tra istituzioni e malavita e del quale ancora oggi non riusciamo a liberarci, perché dopo la Democrazia Cristiana venne un imprenditore milanese ed i successori di costui coinvolti in scandali di corruzione infinita sembrano gli ideali continuatori di una storia che cominciò tanti anni fa. Ne parlò il presidente della Commissione Antimafia Carraro il 20 giungo 1974 rivolgendosi al ministro degli esteri Aldo Moro: “La commissione è stata informata dell’esistenza di un documento, fino ad ora non reso pubblico, che sarebbe allegato all’articolo 16 del trattato di armistizio (l’armistizio lungo) stipulato nel 1943 tra l’Italia e le potenze alleate. Poiché detto documento- che conterrebbe l’indicazione di numerosi elementi mafiosi cui sarebbe stata assicurata l’impunità- si rivela di enorme interesse ai fini della ricostruzione del fenomeno mafioso in Sicilia …, la Commissione ha deliberato di acquisirlo agli atti”. Si fa riferimento all’armistizio siglato da Badoglio ed Eisenhower il 29 settembre 1943 a Malta, ma dalla ricerca negli archivi che ne susseguì si scoprì la strana mancanza di questa postilla, ovviamente da allora non se ne parlò più, la carriera di Carraro venne stroncata all’istante. Ma nel trattato di pace stipulato a Parigi nel febbraio 1947 l’articolo 16 imposto dagli Stati Uniti recita così: “L’Italia non perseguirà, ne disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giungo 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle potenze Alleate ed Associate od avere condotto un’azione a favore di detta causa”. Il riferimento ai civili e non ai soli militari non lascia dubbi, si tratta dei mafiosi e di tutta la pletora di massoni, ex-fascisti ed anticomunisti riuniti dai servizi segreti americani nel complotto anticomunista. L’impunità di cui ha goduto la mafia è presto spiegata, quella stessa impunità che oggi hanno ereditato i politici italiani, specie quelli coinvolti negli scandali legati alla corruzione; dunque non deve sorprendere l’andazzo delle cose italiche, in Italia l’impunità è legge, il nostro paese è una vasta area criminale dove gli americani in mezzo secolo e le multinazionali oggi imperversano indisturbate. Negli anni che seguirono il dopoguerra la C.I.A. (costituita daTruman nel 1947, riformando l'Office of Strategic Services, ndr) fidelizzò i picciotti della mafia anche in altre operazioni militari e paramilitari, celeberrima l’operazione Mongoose nota anche come The Cuban Project dove è provato il coinvolgimento di un piccolo esercito di picciotti che avrebbero dovuto spazzare via Fidel Castro; l’operazione fallì miseramente e John Fitzgerald Kennedy abbandonò sull’isola i siculo americani che vennero successivamente rimpatriati in cambio di viveri, trattori e medicine. La mafia se la legò al dito. Nella ricostruzione di Gianni Bisiach nel suo libro “Il presidente, la lunga storia di una breve vita” sono evidentissime le prove che collegano l’assassinio di tutti e due i Kennedy alla mala siciliana, segnatamente nelle figure dei boss Sam Giancana e Charles Nicoletti; si tratta di personaggi legati a doppio filo alla C.I.A. opportunamente tolti di mezzo assieme ad un’infinità di testimoni morti in circostanze strane poco prima di deporre nelle aule dei tribunali. Si arriva al Golpe Borghese in Italia nel 1970, vi sono prove certe del coinvolgimento della mafia nelle operazione militari del golpe fallito, prove innegabili nel libro di Camillo Arcuri, Colpo di Stato; si parla di migliaia di picciotti armati di tutto punto; da chi? Si arriva alle stragi del 92, due magistrati siciliani stavano arrivando alle alte sfere del connubio stato mafia, l’esplosivo utilizzato in ambedue le stragi era di tipo militare e di produzione americana o inglese; un’altra incredibile coincidenza.

I mafiosi siciliani negli Stati Uniti sono più di quelli a Palermo. Secondo la stima fatta dall'Fbi negli States è stato superato il numero degli affiliati, rispetto agli arrestati e indagati a piede libero che ci sono nel palermitano. Per i Federali in America sono attive oltre a Cosa nostra anche camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita, scrive Lirio Abbate il 4 febbraio 2019 su "L'Espresso". I mafiosi siciliani emigrano verso gli Stati Uniti formano una comunità di Cosa nostra molto più grande di quella che oggi si trova a Palermo. Il Federal bureau of investigation «stima che la mafia siciliana, la camorra, la 'ndrangheta e la sacra corona unita, sono tutte attivamente presenti negli Stati Uniti, e in particolare la mafia siciliana ha più di tremila affiliati negli Usa, per lo più sparsi nelle città del Nord-Est; 100-200 sono quelli della 'ndrangheta e 200 sono gli affiliati alla camorra». Fino al 2013 una rilevazione riservata fatta dagli analisti del ministero dell'Interno aveva calcolato che l'esercito di Cosa nostra a Palermo e provincia, fra arrestati e soggetti in libertà, era di 2.366 persone. L'Fbi ci dice adesso che negli Usa ce ne sono molti di più rispetto al territorio palermitano. I federali collaborano alle indagini con gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia di Stato, diretto da Alessandro Giuliano, ed hanno sotto controllo le famiglie americane. In passato Sco ed Fbi hanno condotto insieme indagini utilizzando agenti sotto copertura che hanno poi portato all'arresto di decine di italo-americani. Come racconta il capo dell'Fbi in Italia, Kieran Ramsey, intervenendo all'incontro “Investigando 2.0” organizzato dalla Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato guidata dal Prefetto Vittorio Rizzi: «La collaborazione con la polizia si è evoluta e questo ha permesso di capire meglio come sono cambiate le organizzazioni criminali nel tempo. Le inchieste hanno indebolito la mafia a New York, ma non l'hanno distrutta, ed oggi è in grado di ricostruirsi e rigenerarsi e lo fa in modo meno appariscente rispetto al passato», continua Ramsey, e aggiunge: «La mafia negli Stati Uniti ha evoluto le tecniche di riciclaggio e queste organizzazioni continuano a trafficare anche in armi e in esseri umani. Controllano il gioco d'azzardo, usano violenza ed estorsioni». Le attività investigative dell'Fbi hanno visto «gruppi criminali italiani collaborare con altri gruppi provenienti da tutto il mondo. In particolare con i cartelli della droga Sudamericana e con la criminalità organizzata Russa». Dei mafiosi americani aveva parlato ai magistrati italiani e all'Fbi alcuni anni fa il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè. Raccontava di questo ponte dell'illegalità che collega la Sicilia agli Usa che non è mai stato interrotto. I padrini americani, come spiega Giuffrè a verbale ai magistrati della procura Federale di New York Est, avevano tentato di riprendere il traffico di droga con Cosa nostra già nel 2001, così come era stato fatto negli anni Ottanta. Ed avevano tentato di riprendere gli investimenti negli Usa per evitare il sequestro dei beni in Italia. Giuffré ha svelato dieci anni fa agli agenti del Federal bureau investigation il modo con il quale i mafiosi siciliani riuscivano ad entrare nel territorio degli Stati uniti con falsi documenti: «Non c'è problema ad entrare negli Usa con falso nome. La cosa importante è arrivare in Inghilterra. Una volta arrivati in Inghilterra per raggiungere gli Stati Uniti non è un problema: o direttamente o indirettamente tramite il Canada o qualche altro Paese. Posso tranquillamente dire che non c'è difficoltà. Nemmeno ad avere documento sotto falso nome». I magistrati di New York e gli agenti dell'Fbi hanno mostrato a Giuffrè diverse foto scattate negli Stati Uniti a gruppi di persone sospettate di far parte delle famiglie mafiose americane e, alcune delle quali, sono anche di origine siciliana. Il pentito ha riconosciuto molte di loro e per ognuna racconta la storia mafiosa, i collegamenti con i siciliani e gli affari illegali che hanno fatto in passato. L'ex mafioso siciliano ha ricordato un particolare, e cioè che “picciotti” americani nei passati decenni sono andati a lezione di mafia in Sicilia per diventare uomini d'onore. Gli agenti federali in una vecchia indagine hanno scoperto che affiliati al clan dei Bonanno erano arrivati negli anni Novanta in provincia di Trapani per seguire le “lezioni” dei capimafia siciliani. Giuffrè descrive quella che sembra una scena del Padrino: «Li mandano in Sicilia per farli diventare uomini d'onore, per fargli fare pratica, perché in America non c'è quell'attaccamento ai valori, non c'è più rispetto. E allora li mandano in Sicilia per formarli e per fargli capire cosa vuol dire diventare uomo d'onore, perché la mafia americana è diversa ed ha bisogno delle nostre qualità». E a quanto pare queste lezioni di mafia sono servite molto ai padrini americani che adesso sembrano essersi rafforzati e proliferano.

·         L’Antimafia Parla troppo.

Peculato, chiesti 4 anni per Ingroia. «Parlerò  a tempo debito». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 da Corriere.it. Il pm Piero Padova ha chiesto la condanna a quattro anni di carcere in abbreviato nei confronti dell’ex magistrato della procura del capoluogo siciliano Antonio Ingroia. È accusato di peculato: si sarebbe appropriato di indennità non dovute quando era liquidatore della società partecipata regionale Sicilia e servizi. «Parlerò a tempo debito. Ogni cosa a suo tempo» è stato il commento dell’ex pubblico ministero sulla decisione dei suoi ex colleghi Pierangelo Padova e Enrico Bologna. Secondo i magistrati, Ingroia si sarebbe appropriato della somma complessiva di 117 mila euro, una parte nel 2013 come indennità di risultato, non dovuta al liquidatore, carica che ricopriva in quel momento, e una parte (10 mila euro) come rimborso spese forfettario. A questi soldi si aggiungono altri 7.000 euro che furono versati per i rimborsi delle spese per gli alberghi. Secondo l’accusa era dovuto soltanto il rimborso per i viaggi e non anche per l’alloggio.

"Ha sottratto 117mila euro". Chiesti 4 anni di carcere per Ingroia. La Procura di Palermo ha chiesto 4 anni di reclusione per l'ex giudice Antonio Ingroia. L'accusa è di peculato: si sarebbe appropriato di 117mila euro che non gli spettavano. Lui si difende: "La verità verrà a galla". Roberto Bordi, Mercoledì 09/10/2019, su Il Giornale. La Procura di Palermo ha chiesto 4 anni di carcere per l'ex giudice Antonio Ingroia. L'accusa è di peculato. Ingroia, che oggi fa l'avvocato dopo una tanto breve quanto fallimentare esperienza in politica, si sarebbe appropriato di 117mila euro non dovuti durante la sua esperienza come liquidatore di Sicilia e-servizi, la società che gestisce i servizi informatici della Regione siciliana. Secondo i pm, Ingroia avrebbe ricevuto l'indennità spettante all'amministratore e non al liquidatore. Inoltre, per soli tre mesi di attività, si sarebbe fatto pagare il compenso spettante per l'intero anno. Lui si giustifica: "Sono fiducioso, la verità verrà a galla".

La vicenda. L'inchiesta della Procura palermitana ha svelato il lato nascosto dell'incarico che Ingroia ha svolto per la e-servizi, la società che gestisce i servizi informatici della Regione Sicilia. Nel 2013, l'ex pm era stato nominato dall'allora governatore Crocetta liquidatore della società. Carica mantenuta per un anno e sostituita da quella di amministratore unico dell'assemblea dei soci. Secondo gli investigatori, Ingroia si sarebbe auto-liquidato circa 117mila euro a titolo di "indennità di risultato per la precedente attività di liquidatore". Soldi che si sarebbero ggiunti al "compenso omnicomprensivo" che gli era stato riconosciuto dall'assemblea, per un importo di 50mila euro. La buonuscita che l'ex pm si era riconosciuto aveva determinato per il gip "un abbattimento dell'utile di esercizio" di e-servizi "da 150mila euro a 33mila euro".

Il processo. Nel 2017 l'ex giudice Ingroia era fitito nel mirino della Procura di Palermo, che aveva aperto un indagine su due filoni: non solo i 117mila euro di auto-liquidazione, ma anche altri 34mila euro di rimborsi non dovuti. In base alla ricostruzione dei pm, infatti, Ingroia si sarebbe fatto rimborsare anche le spese di vitto e alloggio durante le sue missioni, nonostante fossero previsti soltanto rimborsi per i viaggi. L'indagine si è poi concretizzata in un rinvio a giudizio, con l'apertura del processo con rito abbreviato. Fino alla richiesta di 4 anni di carcere presentata nelle ultime ore dai pm Pierangelo Padova ed Enrico Bologna.

Ingroia: "Contro di me accanimento. Ma sono fiducioso". "La richiesta della procura non mi sorprende dato l'accanimento e l'evidente ostilità nei miei confronti. Quello che è importante - ha detto Ingroia ad Adnkronos - è che io so di aver operato nel giusto e di avere la coscienza a posto. Ho capito che c'è un'interpretazione alla rovescia dei fatti. Sono fiducioso - ha continuato l'ex giudice - che alla fine la verità verrà a galla. Ora che faccio l'avvocato, ho visto tanti casi di mala giustizia per l'Italia ma credo anche che i giudici sapranno riconoscere la verità", il commento del fondatore di Rivoluzione Civile e Lista del Popolo per la Costituzione, che ha concluso: "Io ho la coscienza a posto".

Parigi, Antonio Ingroia bloccato in stato d’ebbrezza in aeroporto a Parigi. L’ex pm è stato costretto a prendere un volo successivo. È stato fermato dagli agenti sicurezza dello scalo, allertati dal personale della compagnia aerea, mentre stava entrando nell’aereo, scrive il 20 aprile 2019 Il Corriere.it. L’ex pm Antonio Ingroia è stato fermato venerdì scorso all’aeroporto parigino di Roissy mentre si stava imbarcando su un volo per l’Italia, secondo le autorità francesi sarebbe risultato in stato di ebbrezza. Ingroia è stato bloccato da agenti della sicurezza dello scalo, allertati dal personale della compagnia aerea, mentre stava entrando nell’aereo. L’ex pm palermitano sarebbe quindi tornato nell’aeroporto senza creare nessun problema. Interpellati dal Corriere, i collaboratori di Ingroia hanno detto di non sapere nulla della vicenda, ma hanno escluso che l’ex magistrato possa essere stato fermato in stato di ebbrezza: «In ogni caso sarebbe una vicenda privata che nulla ha a che fare con il lavoro e l’impegno del dottor Ingroia».

Parigi, Antonio Ingroia bloccato all'aeroporto di Roissy in stato di ebbrezza. L'ex pm fermato venerdì mentre tentava di imbarcarsi su un volo per l'Italia: "Troppo ubriaco per volare". Informato il consolato, è potuto rientrare qualche ora dopo, scrive Anais Ginori il 20 aprile 2019 su La Repubblica. L’ex pm Antonio Ingroia è stato fermato ieri all’aeroporto parigino di Roissy mentre si stava imbarcando su un volo per l’Italia. Il personale della compagnia aerea ha dovuto chiamare gli agenti aeroportuali perché l’ex magistrato antimafia era in visibile stato di ebbrezza. Ingroia, che aveva già effettuato tutti i controlli e il check-in, stava salendo a bordo ma le hostess hanno ritenuto che il suo stato non gli permettesse di viaggiare. È stato così costretto a uscire dall’aereo e tornare indietro. Secondo fonti aeroportuali, il rifiuto dell’imbarco è una prassi applicata in casi come questo. Ingroia non avrebbe opposto resistenza ed è stato portato in una zona di Roissy non lontano dai cancelli dell’imbarco dove è entrato in contatto con il consolato italiano a Parigi che gli ha fornito assistenza. È stato fatto partire qualche ora dopo, una volta ripresi i sensi e verificato che fosse in grado di viaggiare per rientrare in Italia. La piccola disavventura parigina rappresenta l’ultimo episodio della parabola di un personaggio pubblico che ha sempre fatto discutere e parlare di sé, dapprima con le sue inchieste giudiziarie e poi con le sue avventure politiche. Nato a Palermo sessant’anni fa Ingroia, ex magistrato e adesso avvocato, ha iniziato la sua carriera con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da pm ha seguito i processi su Mauro Rostagno e Marcello Dell’Utri, e ha avviato quello sulla trattativa Stato-mafia insieme a Nino Di Matteo. Nel 2013 è tra i fondatori del movimento Rivoluzione Civile e si candida alle elezioni politiche. Non viene eletto e dopo essere stato trasferito ad Aosta lascia la magistratura. Alle scorse elezioni politiche aveva ritentato l’avventura politica attraverso la “Lista del Popolo per la Costituzione”, fondata insieme a Giulietto Chiesa che però non aveva ottenuto nessun seggio in Parlamento. Con il governo Crocetta in Sicilia viene nominato alla guida di una società regionale, Sicilia e-servizi. La procura di Palermo lo indaga per peculato per essersi attribuito dei compensi maggiori in qualità di amministratore della società e adesso rischia il rinvio a giudizio. Al momento fa l’avvocato con il suo studio legale, che l’ha portato a viaggiare molto negli ultimi tempi anche in America Latina. Non è ancora chiaro se Ingroia si trovasse a Parigi per questioni professionali o private. Secondo alcune testimonianze era comunque solo. Dall’anno scorso, aveva perso la scorta. Una decisione presa dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, confermata dal successore Matteo Salvini. Nonostante numerosi appelli dei suoi sostenitori contro la decisione del Viminale, per ricordare le minacce che ancora pesano sull’ex pm che ha condotto diverse indagini sulla mafia e i legami con lo Stato, e un ricorso al Tar dello stesso Ingroia, non c’è stato nessun ripensamento sulla protezione.

Antonio Ingroia ubriaco fradicio all'aeroporto, cosa non sapevate: retroscena da Parigi, scrive Enrico Paoli il 21 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. No, non dev'essere affatto facile essere l' ex pm preferito da Marco Travaglio, diventato poi l' ex politico che avrebbe dovuto cambiare la politica, finendo con l' essere solo un ex fra i tanti. Senza aver cambiato nulla. Perché Antonio Ingroia, alla vigilia di una Pasqua piuttosto «calda», sotto tutti i punti di vista, è tornato alla ribalta per essere passato dai codici ai fiaschi, e non solo quelli inanellati nella sua altalenante carriera politica, per finire atterrato all' aeroporto di Parigi. Una triste, o forse solo farsesca, storia raccontata dal quotidiano La Repubblica (bei tempi quelli in cui il giornale-partito fondato da Eugenio Scalfari era l' organo ufficiale delle Procure, prima di vedersi scippare il primato dal Fatto Quotidiano), che ha pescato la notizia. L' ex pm, oggi solo avvocato, è stato fermato all' aeroporto parigino di Roissy mentre si stava imbarcando su un volo per l' Italia perché era «visibilmente in stato di ebbrezza». Come racconta Repubblica.it, l' ex esponente politico, leader di Rivoluzione civile, è stato costretto a «tornare indietro». Secondo fonti aeroportuali il rifiuto di imbarco non avrebbe provocato resistenza da parte di Ingroia, che è stato portato in una zona dello scalo non lontana dai gate. Il consolato italiano a Parigi è stato avvertito. Ingroia è stato fatto partire qualche ora dopo, una volta ripresi i sensi e in grado di viaggiare per rientrare in Italia. Come un tifoso qualunque, insomma. Eppure con passato simile certe sceneggiate andrebbero pure evitate. Ma la carne è debole e l' alcol forte, come narrano certe leggende metropolitane legate a Jean-Claude Juncker, avvocato lussemburghese e attuale presidente della Commissione europea. È un po' come se un sottile filo rosso, magari di Chianti doc, legasse i due. Entrambi avvocati, entrambi legati alla politica. Juncker, però, sino ad oggi non è mai stato fermato in aeroporto. Magari in altri luoghi, chissà. Mettendo da parte il commissario europeo, croce e delizia dei nostri conti, la notizia del stop di Ingroia a Parigi ha fatto il giro dei siti, diventando virale. Difficile far finta di nulla. Dal diretto interessato nessuna replica, nessuna risposta. Del resto in certi casi meglio tacere. Non è bello dover spiegare perché accadano certe cose. Soprattutto se di mezzo ci possono essere questioni personali. Però passare così dalle stelle alle stalle, anzi alle cantine, dai...

Antonio Ingroia: «Io fermato  come Assange, non ero ubriaco in aereo». Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019 da Alfio Sciacca su Corriere.it. «Ma quale ubriaco è stato solo un banale litigio». Questa la versione dell’ex pm Antonio Ingroia sull’incidente che lo ha visto protagonista tre giorni fa all’aeroporto Roissy di Parigi, dove è stato costretto a scendere dall’aereo in partenza perché in «stato di ebbrezza». «Una sciocchezza — replica a muso duro dall’America latina, dove si trova «per lavoro anche nel giorno di Pasquetta» — non ero per niente sbronzo. C’è stata una lite con uno steward per una banale questione di assegnazione di posto. A quel punto il comandante si è vestito di autorità e per difendere un membro dell’equipaggio che si era comportato male si è inventato che ero un pericolo» (Qui la video-difesa pubblicata su Facebook). L’ex magistrato, che in serata ha anche diffuso un video assieme alla moglie per fare «gli auguri ad amici e nemici che diffondono false notizie», ammette comunque che ha reagito urlando. (Qui l’articolo sulle statistiche della Iata sui passeggeri in stato di ebbrezza che sono la seconda causa dei problemi in volo). «Ho aperto un diverbio verbale, ma a quel punto ho subito un secondo torto: hanno affermato che avevo bevuto troppo...che poi sarebbero un paio di bicchieri di vino durante il pranzo consumato a terra». Insomma tutto verrebbe derubricato ad una «piccola disavventura». E si paragona a Julian Assange : «Anch’io sono stato vittima di un uso pretestuoso della sicurezza». Disavventura che è solo l’ultima tra le tante che lo hanno visto protagonista da quando ha lasciato la procura di Palermo. Tanto da finire per accumulare una lunga serie di insuccessi politici e persino guai giudiziari. E dire che tutto era cominciato con ben altri propositi e ambizioni. «Nella mia seconda vita — confessò in un’intervista — metto a frutto gli errori della prima e anche i sacrifici». Nel 2012 decide di lasciare Palermo nel bel mezzo di una delle sfide più ardue (il processo sulla trattativa Stato-Mafia) per volare in Guatemala a presiedere un’unità di investigazione voluta dall’Onu contro il narcotraffico. Una missione rapidamente sopraffatta da un’altra cocente folgorazione, quella per la politica. Con l’ambizione di arrivare addirittura a Palazzo Chigi. Candidato premier con un cartello che andava dall’Idv ai Comunisti Italiani mette il suo nome sotto il simbolo di «Rivoluzione Civile», che però si ferma intorno al 2%. Non più fortunata la successiva esperienza di «Azione civile». Lasciata definitivamente la toga, dopo una fulminea esperienza ad Aosta, inizia la sua vita di amministratore e avvocato. È il governatore Rosario Crocetta a volerlo alla guida della società regionale Sicilia E-Servizi. Ma l’esperienza finisce malissimo. Con i suoi ex colleghi di Palermo che lo indagano per peculato con l’accusa di aver pagato esose note spese per cene in ristoranti e alberghi a cinque stelle. Segue anche il sequestro di beni per 150 mila euro. Anche il ritorno di fiamma della politica è un flop. Nel 2018 il movimento Popolo per la Costituzione, fondato con Giulietto Chiesa racimola appena lo 0,02%.  Oggi Antonio Ingroia fa il legale a tempo pieno. Ma oltre a difendere cause nobili, come quella dei familiari dell’urologo Attilio Manca, morto forse per ordine di Provenzano, o dell’ex direttore di Telejato Pino Maniaci, non disdegna di assistere anche personaggi collusi con la mafia. Come nel caso di Benedetto Bacchi, il re delle slot machine, accusato di concorso associazione mafiosa e riciclaggio. O ancora Raffale Valente e il romeno Victor Dombrovski accusati di aver riciclato all’estero il patrimonio di Ciancimino. Sui giornali ci è finito anche per le storia d’amore con l’attuale compagna, l’imprenditrice argentina Giselle Oberti. Da anni vive a Roma senza scorta, mentre a Palermo può ancora contare solo su pochissimi amici ed ex colleghi. Gli ultimi due post sul suo profilo Facebook sono una foto insieme al Papa e soprattutto i suoi ringraziamenti per i sostenitori che ancora lo ricordano per le sue inchieste antimafia ed hanno comprato mezza pagina su un giornale per fargli gli auguri per il compleanno «La tua scorta siamo noi».

La versione di Ingroia: "A Parigi non ero ubriaco, ho solo litigato sull'aereo". In un video su Facebook l'ex pm si dice "vittima della disinformazione come Assange". Sostiene di essere stato cacciato dal comandante dopo un diverbio a bordo. E annuncia querele, scrive il 22 aprile 2019 La Repubblica. "Siamo qui per smentire le false notizie che sono state date sul mio conto. Uno dei problemi maggiori del nostro Paese è quello della disinformazione". A parlare, in un video postato su Facebook, seduto accanto alla moglie, è Antonio Ingroia, l'ex pm di Palermo che venerdì sera non ha potuto prendere l'aereo Air France per un presunto "stato di ebbrezza", che però adesso l'ex magistrato smentisce. "Io mi sono sempre battuto contro le false notizie e per la libertà di Julian Assange - dice Ingroia - E' ancora arrestato, è accusato in nome di una pretesa sicurezza dell'informazione, mentre lui ha smascherato le menzogne del sistema". "Nel mio piccolo anch'io sono stato vittima dell'uso pretestuoso della sicurezza per false informazioni e false notizie - dice Ingroia - quello che è successo è stato un banale litigio su un aereo. Il comandante dell'equipaggio di Air France ha detto che costituivo un pericolo per la sicurezza proprio come per Assange, così sono stato cacciato via", dice. "Si è detto che io sarei stato ubriaco - dice - tutto falso, tutto quello che è uscito sui giornali è falso. A partire dal fatto che sono stato rispedito in Italia, come vedete non è vero. Sono in America Latina per lavoro. E addirittura hanno detto che ero così ubriaco che ero svenuto. Lo possono testimoniare pure i funzionari dell'ambasciata". "Queste false notizie hanno campeggiato su molte prime pagine di giornali, che saranno querelati. Ma per ora pensiamo alla Pasqua", conclude l'ex pm. Anche la moglie interviene: "Cosa diranno adesso i giornali che hanno detto falsità? Non mi rivolgo a loro ma alle persone di buon cuore, ho fede nella verità e nella giustizia divina". E Ingroia aggiunge: "Si può avere giustizia anche dalla giustizia terrena".

Vittorio Sgarbi infierisce su Antonio Ingroia sbronzo in aeroporto: "Cosa faceva a Parigi", il critico gode, scrive il 20 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La vicenda è tragicomica. Si parla di Antonio Ingroia, a cui è stato negato l'imbarco in aereo all'aeroporto di Parigi perché troppo ubriaco per poter salire a bordo. L'ex pm, fermato dagli agenti, è potuto partire soltanto qualche ora dopo, quando ha ripreso i sensi. Una vicenda curiosa e clamorosa, brutta fine quella che ha fatto il fu leader di Rivoluzione civile. E su questa vicenda interviene a gamba tesissima un "nemico" storico di Ingoria, Vittorio Sgarbi, che sparge sale sulla ferita dell'ex magistrato su Twitter. Il critico d'arte, infatti, lo infilza con una battuta fulminante: "Ingroia era in Francia per la 'trattativa' Nero d'Avola-Cabernet Sauvignon". Chiaro il riferimento di Sgarbi alla trattativa Stato-mafia teorizzata dall'ex pm, teoria che il critico d'arte ha sempre combattuto e smontato.

Ingroia sembra ubriaco pure quando è sobrio. L'ex magistrato ora fa la vittima di Wineleaks. Ridotta a una banale lite la cacciata dall'aereo. E si paragona ad Assange. Scrive Andrea Cuomo, Mercoledì 24/04/2019, su Il Giornale. La migliore l'ha scritta Vittorio Sgarbi, che ha così twittato: «Ingroia era in Francia per la trattativa Nero d'Avola/Cabernet Sauvignon». Che alla fine - par di capire - secondo il critico d'arte avrebbe molto più senso di quella tra lo stato e la Mafia a cui l'ex magistrato ha dedicato un bel pezzo della sua carriera. Di Ingroia Antonio da pochi giorni sessantenne (auguri. Anzi cin cin) si è tornati a parlare qualche giorno fa e tutto sommato ne avremmo fatto anche a meno. L'ultima volta che aveva dato sue notizie era quando aveva fallito l'ennesimo assalto elettorale con la Lista del popolo per la Costituzione, i cui frontmen erano lui e Giulietto Chiesa e che prese una percentuale da principio attivo nel bugiardino (lo zerovirgolazerodue per cento) alle politiche del 2018. Quello che si è riaffacciato alle cronache è un Ingroia santo bevitore. Cacciato da un aereo al Charles de Gaulle di Parigi perché ubriaco (dice Air France) o per una banale litigata (dice lui). Lui che in un video reso noto ieri in cui siede sulle rive di un fiume sudamericano con la moglie Giselle si autoproclama vittima di quella «disinformazione che regna sovrana ormai in Italia». Le cose, secondo lui, sarebbero andate così: avrebbe avuto un alterco con uno steward per una sciocca questione di posti. Il comandante del volo avrebbe «ovviamente dato ragione al membro dei suo equipaggio» e lo avrebbe fatto scendere dall'aereo. E la presunta ubriachezza su cui tutti i giornali italiani hanno fatto il titolo? «Il comandante - spiega Ingroia nel video - mi ha chiesto: lei ha bevuto prima di salire sull'aereo? Io avevo bevuto due bicchieri di vino a pranzo...». L'ex gestore della legge non poteva certo mentire alla domanda del pubblico ufficiale. In vino veritas, poi. La compagnia di bandiera francese, interpellata, non si sbilancia per ragioni di privacy, ma chiarisce: «Non rifiutiamo, senza una valido motivo, a bordo dei nostri aerei passeggeri che sono in possesso di un biglietto». Ma Ingroia è convinto: sarebbe stato vittima di un abuso. Come Julian Assange, il controverso giornalista e attivista australiano al centro di una spy story che coinvolge mezzo mondo. Assange può considerato uno spione senza scrupoli, un pericoloso cialtrone, oppure un eroe della libertà di pensiero, ma si trova agli arresti a Londra per avere rivelato centinaia di migliaia di documenti secretati sui potenti della Terra e sulle guerre americane; Ingroia si paragona più volte a lui per una gazzarra sul drammatico dilemma etico: corridoio o finestrino? Da Wikileaks a Wineleaks il passo è breve, come quella dal bicchiere alla bocca. Ma che volete, alla fine il povero Ingroia ci sta quasi simpatico (ehi, abbiamo scritto quasi). Chiunque sia costretto a giustificarsi con un video autoprodotto in cui il vento disturba le voci e la camera si affloscia con passare dei minuti, merita ogni umano sostegno. Chiunque debba render conto di due calici di vino a pranzo in un aeroporto è vittima di un'ingiustizia, a meno che non si metta alla cloche di comando del velivolo. Però avremmo un paio di domande per Ingroia: quei bicchieri erano davvero solo due? E che vino era? Non sarà mica uno di quelli che beve lo Champagne con la tarte tatin? Ingroia pare uno di quei personaggi da fumetto che si caccia sempre nei guai e non gliene va mai bene una. Fonda un partito, gli trova un nome con il generatore automatico di luoghi comuni di sinistra, e riesce a non essere votato nemmeno da zia Concettina. Si fa spedire dall'Onu in Guatemala per indagare sui narcos e dopo due mesi rinuncia perché ha altro da fare, facendo una gaffe internazionale. Viene nominato commissario della società Sicilia e Servizi e finisce indagato per peculato. Fossimo in lui, due bicchieri di Amarone ce li faremmo anche noi. Anche tre. 

WIKIDRINKS. DAGONOTA. Il 23 aprile 2019. Feltri scrive che chi è ubriaco “trascina la lingua mentre favella”. Ecco allora un video per dimostrare che Ingroia ha un rapporto molto ''cordiale'' con l'alcol. Risale al 2012, quando fu chiamato in Guatemala al servizio dell’Agenzia ONU contro il traffico di droga, agenzia cui ha tirato il pacco per candidarsi nel 2013 in Italia (con risultati infelici). Alfio Sciacca del ''Corriere della Sera'' gira un’intervista nel suo ufficio in procura in cui l'allora pm appare decisamente ''rilassato'' dal bicchiere di vino che agita mentre parla di cose molto serie, ma sbiascicando…

Mario Ajello per ''Il Messaggero'' il 23 aprile 2019. Ha banalizzato Bacco - e questo è peggio di un errore, è un crimine - l' ex pm Ingroia, e attuale non-si-sa-che-cosa, anche se avvocato e reduce del più gustoso pasticcio pseudo-rivoluzionario, quello della mancata Rivoluzione Civile con cui pensava (da sobrio?) di cambiare il mondo. E che risate. Ha fatto torto a Bacco il povero Antonino perché, come diceva Gianni Brera, sommo giornalista e grande estimatore di vino e di whisky, bisogna distinguere tra «il cultore del buon bere» - che fa onore a Bacco e ha lo sguardo fermo e «un' altra forma di lucidità» - e il «beone», «impresentabile e tremolante». Che non fa onore né a se stesso né al Dio alcol. Un piccolo personaggio così è quello a cui è stato impedito, all' aeroporto di Parigi, di salire sul velivolo per l' Italia. «Lei no, dottore Ingroia», gli hanno detto allo scalo di Roissy: «Si dia un contegno e torni quando ha smaltito la sbornia, in queste condizioni le impediamo l' imbarco». Sarà stato ubriaco, l' ex magistrato-cilecca, il sacerdote dell' inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, l' improbabile leader politico con parentesi guatemalteca prima di scendere in campo per risalirne subito dopo battuto e rifiutato, l' indagato per appropriazione indebita, per la somma dei flop di cui ha disseminato la propria biografia? E la parabola della star di ogni giustizialismo, poi giustiziato dalla pochezza della sua epopea, ora fa registrare questa sorta di discesa agli inferi della bottiglia (più di una?) mal bevuta dall' inventore di quel ballista di Ciancimino junior e di altre derive senza approdi, da questa icona dell' antimafia sbugiardata poi messo a capo da Rosario Crocetta di Sicilia e-Servizi (con esiti disastrosi per il funzionamento del web della regione). La sua parabola è emblematica. Basta dare un' occhiata superficiale alla storia del nostro Paese, per accorgersi che gli italiani fanno presto ad invaghirsi del Girolamo Savonarola di turno, e fanno anche presto a disfarsene. Alla fine del Quattrocento, il frate domenicano si presentò al popolo fiorentino come il moralizzatore di una chiesa simoniaca e corrotta e di una società lasciva e viziosa, per fondare una Nuova Gerusalemme mondata dal vizio e dal peccato. Conosciamo l' infausto destino a cui andò incontro il «profeta disarmato», come lo definì Niccolò Machiavelli. Ma no, basta: il piccolo Ingroia non merita paragoni così. Ha solo brandito l' etica pubblica, pasticciando con la morale privata. E si è bevuto tutto. C' è l' uomo forte che riesce a bere e bere senza mai sbronzarsi, per esempio Socrate, Confucio e in parte anche Stalin. C' è il personaggio forte che è perennemente ubriaco, come Pietro il Grande e, si narra, come Alessandro Magno che conquistò il mondo allora conosciuto «immerso in una sorta di foschia» (come ha scritto Mark Forsyth in Breve storia dell' ubriachezza). Per non dire di Winston Churchill. Era solito tenere un bicchiere di whisky sulla propria scrivania, mentre non terminava pranzo e cena senza aver sorseggiato champagne e brandy, e il suo genio tra una sorsata e l' altra si moltiplicava. Mentre in Italia, scendendo di livello ma non fino al livello Ingroia, restano gustosi i giochi di parole riguardanti Giuseppe Saragat, di cui si diceva «fa l' alzabarbera», invece dell' alzabandiera, e il cui destino era «cinico e bar». E Antonino? Un passo falso dietro l' altro, più le cene palermitane al Gran Hotel Villa Igea e in altri posti chic e spese ricreative per oltre 37mila euro che, secondo in suoi ex colleghi della Procura di Palermo, avrebbe dovuto pagare di tasca sua. Sempre ubriaco? «Ubriaco mai», è il suo nuovo grido di battaglia. Ingroia ora si difende in un video lunare postato su Facebook dal Sudamerica, con sullo sfondo il mare e la moglie Gisella al fianco. «La disinformazione regna sovrana in Italia, non è successo niente all' aeroporto, è tutta una fake news». Porta gli occhiali scuri da sole l' ex pm, mentre fa il suo annuncio annunciando querele a raffica. E chissà se dietro le lenti si possono vedere le occhiaie prodotte dalla bevutina.

Da Il Fatto Quotidiano il 27 maggio 2019. Quarantadue minuti di intervista televisiva – con elementi noti sulla strage di Capaci – sono costate a Nino Di Matteo, il pm che ha istruito il processo sulla Trattativa Stato-mafia e che vive sotto scorta da anni perché minacciato dalla mafia, l’allontanamento dal nuovo pool sulle stragi che è stato costituito, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero de Raho, per far luce “sulla presenza di “entità esterne nei delitti eccellenti di mafia”. Il magistrato, invitato a rispondere alle domande di Andrea Purgatori nella puntata del 20 maggio di Atlantide su La7, ha parlato della strage di Capaci come un “momento indelebile nelle menti delle persone perbene”, ma anche spiegato che è “altamente probabile che insieme agli uomini di cosa nostra abbiamo partecipato alla strage…  anche altri uomini estranei a Cosa nostra”. Una riflessione, come ha spiegato in premessa la toga, che arriva dalla letture delle sentenze già emesse. L’estromissione è stata decisa dal procuratore de Raho, secondo quanto riporta La Repubblica, perché Di Matteo avrebbe interrotto il “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia”, con le quali fra l’altro era già cominciata una fitta rete di colloqui. Il magistrato avrebbe reso pubblico il contenuto di alcune piste di lavoro di cui, invece, si sta discutendo all’interno di riunioni private. Ma i contenuti del colloquio finti nel mirino, sono legati alla strage di Capaci che il 23 maggio 1992 portò alla morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. E sarebbero, secondo il quotidiano, il ritrovamento, accanto al cratere di Capaci, di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti e di un guanto con Dna femminile; ma anche la scomparsa del diario di Falcone da un computer del ministero della Giustizia e infine l’ipotesi che alcuni appartenenti a Gladio, un’organizzazione paramilitare, abbiano avuto un ruolo nella fase esecutiva della strage. Tutti riferimenti già noti: basta cercare con Google e si trovano decine di articoli su questi elementi che non sono affatto inediti. Il pm, che nel pool era affiancato da un altro paio di magistrati palermitani, Franca Imbergamo e Francesco Del Bene, tornerà al vecchio incarico della Direzione Nazionale Antimafia. Il provvedimento dovrebbe essere esecutivo da martedì. La comunicazione è stata inoltrata anche al Consiglio Superiore della Magistratura, anche se il fascicolo non è ancora stato incardinato nella commissione che si occupa di assegnazioni e revoche. Unico commento, in una giornata di silenzio elettorale, il coordinamento di Azione civile e il presidente del movimento Antonio Ingroia esprimono la loro “solidarietà e sostegno al pm Nino Di Matteo, rimosso, pare a causa di un’intervista televisiva, dal pool della Procura nazionale antimafia che indaga sulle stragi mafiose. Stupisce e amareggia che un magistrato serio, esperto e coraggioso come il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, abbia preso un provvedimento del genere sottraendo a Di Matteo la possibilità di approfondire temi di indagine come quelli sulla trattativa Stato-mafia e gli altri misteri ancora irrisolti, spesso legati a quella scellerata trattativa”.

Di Matteo parla troppo: via dal pool. Il procuratore de Raho gli revoca l'incarico: rivelazioni in tv su indagini. Mariateresa Conti, Lunedì 27/05/2019, su Il Giornale. Parlare troppo coi giornalisti è la sua bestia nera. E le interviste sulla trattativa Stato-mafia sono il tallone d'Achille del pm Nino Di Matteo. A giugno del 2012, quando era a Palermo, nel pieno della bufera per le telefonate intercettate dell'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, parlando con Repubblica si lasciò scappare una smentita che suonava come una conferma («Negli atti depositati non c'è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti») che gli costò l'avvio di un procedimento disciplinare, poi finito nel nulla. E ora un'altra intervista sulla trattativa, ad Andrea Purgatori per «Atlante», su La7, gli è costata il posto nel neonato pool stragi della Direzione nazionale antimafia. Il procuratore nazionale, Federico Cafiero de Raho, non ha gradito il suo disquisire in tv di mandanti esterni e scenari vari che sono tuttora al vaglio di varie procure. Di qui la rimozione del pm dal pool, con effetto immediato. E anche una segnalazione al Csm. A rivelare l'ennesimo scivolone dell'ormai ex pm della trattativa è stata Repubblica. Che racconta che Cafiero de Raho avrebbe contestato a Di Matteo la violazione del «rapporto di fiducia all'interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia» tuttora impegnate in indagini sulle stragi del '92 e del '93. Insomma, di avere rivelato filoni d'indagine tuttora in corso. Ma cosa ha detto Di Matteo? La puntata di «Atlante» è quella del 18 maggio, alla vigilia del ventisettesimo anniversario della strage di Capaci in cui Falcone fu ucciso. È proprio parlando della strage di Capaci che Di Matteo, nei 42 minuti di intervista, definisce «altamente probabile che insieme agli uomini di cosa nostra abbiamo partecipato alla strage anche altri uomini estranei a Cosa nostra». E quindi ricorda alcuni elementi, non inediti: un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti sul luogo della strage; un guanto che presenta tracce di dna femminile; la scomparsa dal computer del diario di Falcone: il possibile coinvolgimento di Gladio. Temi oggetto di incontri del pool stragi (composto, oltre che da Di Matteo, dai pm Francesco Del Bene e Franca Imbergamo) con le procure di Palermo, Caltanissetta, Firenze e Reggio Calabria. In attesa delle decisioni del Csm, Di Matteo è fuori dal pool. Tornerà ad occuparsi delle inchieste antimafia della procura di Catania.

Cambiare pool a Di Matteo? Un potere del procuratore. Il “trasferimento” del pm ordinato da de Raho. È il capo dell’ufficio a scegliere il piano organizzativo: lo stabilisce una circolare del Csm e vale anche per il vertice della direzione nazionale antimafia. Giovanni M. Jacobazzi il 28 Maggio 2019 su Il Dubbio.  Il “trasferimento” di Nino Di Matteo dal neo costituito pool che deve occuparsi delle “entità esterne nei delitti eccellenti di mafia” offre lo spunto, oltre che per una riflessione sui compiti della Dna, anche per un approfondimento sull’applicazione della circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura emanata lo scorso anno dal Csm. A partire da un dato: come prevede la normativa, la Direzione nazionale Antimafia non ha funzioni investigative ma di coordinamento delle indagini delle Procure distrettuali. Anche se va ricordato come le sia anche possibile avocare le indagini condotte da una Procura che abbia dimostrato grave inerzia o che non si sia coordinata con le altre. Riguardo l’organizzazione dell’ufficio, invece, la Dna, come ogni altra Procura, deve trasmettere al Csm il proprio progetto organizzativo – comunque immediatamente esecutivo una volta adottato dal procuratore – per le valutazioni di competenza. Valutazioni che non possono in ogni caso incidere sulle scelte del capo che devono limitarsi al massimo a un’attività di “moral suasion”. Di Matteo, da circa due anni in servizio presso la Dna come sostituto, è stato allontanato la scorsa settimana dal procuratore nazionale, Federico Cafiero de Raho, dal pool sui “mandanti esterni” per aver raccontato durante la trasmissione televisiva “Atlandide” alcuni dettagli di vicende giudiziarie passate. In particolare, la presenza di un guanto con tracce di Dna femminile e di un foglietto con il numero di un funzionario dei servizi trovati sul luogo della strage di Capaci. O che Pietro Rampulla, l’uomo che fornì il telecomando per la strage, fosse un estremista di destra. E infine l’interesse di Giovanni Falcone per gli elenchi di Gladio. Elementi non nuovi alle cronache che sono stati di contro sufficienti a disporre il trasferimento di Di Matteo dal pool in questione, composto da Francesco Del Bene e Franca Imbergamo. Come è stato fatto rilevare, tecnicamente non ci sarebbero state violazioni del dovere di riserbo, non avendo Di Matteo raccontato dettagli di indagini in corso. Il trasferimento rientrerebbe, quindi, nella predetta discrezionalità del procuratore nell’organizzare il suo ufficio. Un segnale, forse, verso la sovraesposizione mediatica di qualche toga e un invito alla sobrietà su una materia di estrema delicatezza come quella del contrasto alla mafia.

Appello di 118 magistrati al Csm in difesa di Di Matteo. "Venga reintegrato nel pool stragi". Il magistrato palermitano oggi in servizio della Direzione nazionale era stato sospeso dopo un'intervista sui misteri delle bombe del 1992. Salvo Palazzolo il 23 giugno 2019 su La Repubblica. Scendono in campo 118 magistrati di tutta Italia in difesa di Nino Di Matteo, l'ex pm del processo "Trattativa Stato-mafia" oggi sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia che a fine maggio è stato estromesso dal pool stragi per un'intervista sui misteri delle stragi del 1992. “Senza aver rivelato alcun segreto o notizia riservata”, è scritto in una lettera appello indirizzata al presidente del Csm, il Capo dello Stato Sergio Mattarella, al vice presidente David Ermini e a tutti i consiglieri. “Pur non avendo intenzione di sindacare un provvedimento che, peraltro, non è stato diffuso nel dettaglio, e che dunque neppure conosciamo, né volendo in alcun modo ingerirci nelle competenze del procuratore nazionale antimafia - dicono i firmatari - sentiamo tuttavia l’esigenza di esprimere il forte turbamento che la notizia dell’estromissione del dottor Di Matteo ha provocato in tutti noi”. Parole accorate quelle inviate a Palazzo dei Marescialli. “Forte turbamento, non solo per la stima e l’ammirazione che riponiamo nei confronti del collega, per lo spirito di abnegazione, i sacrifici personali e familiari, l’elevato senso delle istituzioni, l’eccelso grado di professionalità e l’equilibrio, che lo hanno contraddistinto in tutta la sua carriera e che ne fanno uno dei magistrati più in grado di trattare la materia in questione, ma soprattutto perché temiamo che tale estromissione possa delegittimarlo agli occhi della criminalità e del potere mafioso, acuendo ulteriormente i già elevatissimi rischi per la sua incolumità”. I 118 magistrati chiedono al Csm “eventualmente anche con la fattiva partecipazione del procuratore nazionale antimafia, che si possa favorire una composizione costruttiva della vicenda, affinché il dottor Di Matteo venga al più presto reinserito nel pool sulle stragi a cui era stato destinato”. Il caso, rivelato da Repubblica, vede al centro l'intervista rilasciata da Di Matteo ad Andrea Purgatori, nel programma Atlantide, andato in onda il 18 maggio su "La 7". Dopo quella puntata, il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho ha deciso la rimozione del magistrato dal neonato pool stragi, che da tre mesi indaga sulle "entità esterne nei delitti eccellenti di mafia". Un provvedimento immediatamente esecutivo. E anche comunicato al Consiglio superiore della magistratura: il fascicolo è stato affidato alla commissione che si occupa di assegnazioni e revoche, dunque la decisione potrebbe essere rimessa in discussione. Cafiero de Raho contesta a Di Matteo di aver interrotto il "rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia" impegnate nelle indagini sulle stragi. Ovvero, di avere risposto all'intervistatore con analisi che ricalcano le piste di lavoro riaperte sulle stragi, su cui si sta discutendo in riunioni riservate. Di Matteo ha già inviato le sue osservazioni al Csm. Sostiene di aver fatto riferimento esclusivamente ad elementi noti. Ovvero: il ritrovamento, accanto al cratere di Capaci, di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti, e poi anche di un guanto con un Dna femminile. Il magistrato ha ricordato pure la scomparsa del diario di Falcone da un computer al ministero della Giustizia e ha ribadito l’ipotesi che alcuni appartenenti a Gladio abbiano avuto un ruolo nella fase esecutiva della strage del 23 maggio 1992. Tutti punti che per Di Matteo fanno sospettare presenze esterne sul teatro dell’attentato.

I davighiani fanno quadrato intorno a Nino Di Matteo: pronti a candidarlo al Csm. Il magistrato siciliano aveva incassato la solidarietà di un centinaio di colleghi, firmatari di un appello al Presidente della Repubblica. Giovanni M. Jacobazzi il 25 giugno 2019 su Il Dubbio. Ci sarà anche il magistrato antimafia Nino Di Matteo fra i candidati alle elezioni suppletive di ottobre indette per completare la compagine togata del Consiglio superiore della magistratura, rimasta vacante di due consiglieri dopo le dimissioni dei pm Luigi Spina (Unicost) e Antonio Lepre ( Magistratura indipendente). La candidatura del pm del processo “Trattativa Stato- mafia” viene richiesta con sempre maggiore insistenza da un ampio fronte di magistrati. Di Matteo, un passato da toga progressista vicino a Magistratura democratica, si candiderebbe con Autonomia& Indipendenza. Fondata nel 2015 da Piercamillo Davigo, dopo le dimissioni dei consiglieri accusati di pilotare le nomine di alcune uffici giudiziari con i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti, A& I è ora il gruppo più numeroso a Palazzo dei Marescialli. Il magistrato siciliano ha già incassato nei giorni scorsi la solidarietà di oltre un centinaio di colleghi, firmatari di un appello al presidente della Repubblica, nella veste di presidente del Csm, al vicepresidente dello stesso organo, il dem David Ermini, ed a tutti i consiglieri, in cui auspicano che il suo “allontanamento” dal pool della Dna che cura le indagini sulle stragi degli anni ‘ 90 «possa trovare una bonaria composizione nelle sedi competenti». Di Matteo, da circa due anni in servizio presso la Dna come sostituto, era stato spostato d’incarico il mese scorso dal procuratore nazionale, Federico Cafiero de Raho, per aver raccontato durante una trasmissione televisiva alcuni dettagli di vicende giudiziarie passate. In particolare, la presenza di un guanto con tracce di Dna femminile e di un foglietto con il numero di un funzionario dei servizi segreti, trovati sul luogo della strage di Capaci, il 23 maggio 1992. O che Pietro Rampulla, l’uomo che fornì il telecomando per la strage, fosse un estremista di destra. Ed infine l’interesse di Giovanni Falcone per gli elenchi di Gladio. Tutti elementi, va detto, non nuovi alle cronache. «Pur non avendo intenzione di sindacare un provvedimento che, peraltro, non è stato diffuso nel dettaglio e che neppure conosciamo, né volendo in alcun modo ingerirci nelle competenze procuratore nazionale Antimafia, sentiamo tuttavia l’esigenza di esprimere il forte turbamento che la notizia dell’estromissione del collega ha provocato in tutti noi», scrivono le toghe pro Di Matteo. «Non solo – aggiungono – per la stima e l’ammirazione che riponiamo nei confronti di Di Matteo, per lo spirito di abnegazione, i sacrifici personali e familiari, l’elevato senso delle Istituzioni, l’eccelso grado di professionalità e l’equilibrio, che lo hanno contraddistinto in tutta la sua carriera e che ne fanno uno dei magistrati più in grado di trattare la materia in questione, ma soprattutto perché temiamo che tale estromissione possa delegittimarlo agli occhi della criminalità e del potere mafioso, acuendo ulteriormente i già elevatissimi rischi per la sua incolumità». Di Matteo è già stato candidato per ruoli di prestigio. I grillini, dopo un suo intervento ad un convegno sulla giustizia organizzato alla Camera dal M5s due anni fa, lo volevano ministro dell’Interno. «Non rispondo su un eventuale mio impegno politico, ma non sono d’accordo con chi pensa che l’esperienza di un magistrato non possa essere utile alla politica», disse allora il pm. Insediatosi il governo gialloverde, si era pensato a lui come capo del Dap. Ma l’opzione sfumò. Il diretto interessato, pur non confermando la candidatura, è intervenuto questo fine settimana, durante la presentazione del suo ultimo libro Il Patto sporco, per stigmatizzare le recenti vicende che hanno coinvolto il Csm, «Da molti anni, purtroppo, il tarlo della degenerazione correntizia e di gruppi di potere che si sono annidati, al di là delle correnti, anche nella magistratura e il tarlo di un certo collateralismo con la politica, ha minato il corretto funzionamento della magistratura». Non voglio entrare nello specifico delle singole posizioni – ha aggiunto – ma quello che è venuto fuori fotografa un momento particolare, cioè quello di oggi. Ma sono certo che ciò che emerge dalle intercettazioni riguarda un contesto che da molti anni è viziato». E infine: «Ma sono altrettanto convinto di una cosa: che non è solo malcostume. Questo modo illecito di condurre alcune attività, anche all’interno della magistratura, ha riguardato molti momenti degli ultimi anni». Di Matteo con il Csm ha un "conto aperto" dal 2015, quando il Plenum bocciò la sua prima candidatura alla Dna.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Quattromila mafie spadroneggiano in Europa.

Quattromila mafie spadroneggiano in Europa. Alla Ue servirebbe un Procuratore anti crimine. Vincenzo Musacchio il 30 luglio 2019 su Il Dubbio. Le autorità di contrasto al crimine organizzato dell’Unione europea non sono preparate per affrontare una nuova emergenza. Europol, descrive la presenza della criminalità organizzata italiana in Europa come in crescente aumento e più potente rispetto all’ultimo quinquennio. Nell’Unione europea sono attive circa quattromila organizzazioni criminali di stampo mafioso. Le più potenti militarmente ed economicamente sono quelle italiane poiché collegate tra di loro e unite da obiettivi comuni quali i profitti di natura economica. Queste organizzazioni sono attive in Europa soprattutto nel campo del commercio internazionale, del trasporto globale, nella comunicazione mobile e nei settori dei media, internet compreso, generando una vera e propria rete criminale organizzata. Le nuove mafie hanno compreso che cooperare tra di loro conviene. Le autorità di contrasto al crimine organizzato dell’Unione europea, di contro, non sono preparate per affrontare questa nuova emergenza. Europol, descrive la presenza della criminalità organizzata italiana in Europa come in crescente aumento e più potente rispetto all’ultimo quinquennio. La pervasività delle nostre mafie sta crescendo vertiginosamente in Spagna, in Bulgaria, in Gran Bretagna, in Germania, in Austria, in Svizzera e in Portogallo. I nuovi gruppi criminali sono particolarmente attivi in molteplici attività delittuose: droga ( cocaina, cannabis, droghe sintetiche ed eroina), traffico di esseri umani, traffico di organi e di armi nonché in una serie di operazioni di natura economica che hanno a che fare con le sovvenzioni e gli aiuti comunitari ai vari Stati membri dell’Unione europea. Nell’ultimo decennio le nostra mafie si sono specializzate proprio in frodi comunitarie, reati finanziari e commerciali e spesso utilizzano tecniche talmente sofisticate, come la contraffazione di beni e prodotti di tutti tipi, da essere difficilmente scoperte. Chi studia i fenomeni mafiosi sa che le mafie hanno la tendenza ad ampliare il loro raggio di azione verso nuovi settori economici con attività sempre più redditizie. La ndrangheta, che è oggi una delle mafie più potenti d’Europa, può contare su un’ampia rete ramificata con protezioni e complicità anche a livello internazionale. La globalizzazione dei mercati finanziari, la crescente deregolamentazione dei capitali, le nuove tecnologie e l’informatizzazione dei sistemi finanziari hanno agevolato la crescita dell’economia legale, ovviamente, tale incremento si è verificato anche nel campo dell’economia illegale. Le mafie sono sempre state in grado di sfruttare i cambiamenti geopolitici nel contesto europeo e ne hanno tratto vantaggi soprattutto economici e finanziari. Alcuni Stati membri, in effetti, svolgono il ruolo di una zona franca per molti guadagni illegali delle nostra mafie e ne consentono spesso il reinserimento nell’economia legale europea. Per comprendere la forza economica e criminale delle nostre mafie in Europa è sufficiente guardare la crescente presenza della ndrangheta in Germania. In Spagna, invece, ci sono basi logistiche di Cosa Nostra, Camorra e Ndrangheta che gestiscono il traffico di droga, di armi, di esseri umani in Sud America e Nord Africa e investono il denaro sporco, in attività commerciali, immobiliari, catene di ristoranti e altre attività connesse al riciclaggio di capitali. Le nostra mafie sono presenti anche in Svizzera, Austria e in altri paesi dell’Europa centrale. In Inghilterra, invece, controllano il mercato delle droghe provenienti da Turchia, Afghanistan e Pakistan. Le mafie hanno stabilito le loro attività criminali anche nei Paesi Bassi, dove vi sono basi logistiche della camorra, della ndrangheta e recentemente sono presenti anche clan provenienti dalla Puglia tra Amsterdam e Rotterdam. Il porto di Rotterdam, che è il più grande in Europa, è stato spesso teatro di operazioni anti- droga che testimoniano come gli stupefacenti dal Sud America arrivano in questo porto per essere smistati in tutta Europa. Nel vicino Belgio, e in particolare a Bruxelles, ci sono famiglie appartenenti a Cosa Nostra, alcuni clan della Camorra, originari di Napoli. Nella zona tra Anversa, ci sono molti clan della ndrangheta. Cosa Nostra e ndrangheta sono presenti anche in Lussemburgo e nel Principato di Monaco. In Bulgaria, Slovenia, Croazia e sono attivi molti clan di camorra, ndrangheta e clan criminali pugliesi che sono tutti in contatto con i clan dell’Europa orientale, coinvolti, in particolare nel contrabbando di merci, nella gestione del traffico di droga e del commercio illegale di armi, nel traffico di rifiuti tossici. La situazione è drammatica ma a quanto pare l’Europa non vuole dare battaglia alle mafie poiché sono cadute nel nulla le leggi sull’introduzione del delitto di associazione mafiosa europeo e quelle sulle confische e gli organismi specifici di lotta al crimine organizzato. All’Unione europea serve una Procura antimafia europea, l’estensione del delitto di associazione criminale di stampo mafioso a tutti gli Stati membri, l’implementazione del reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni. Questo sarebbe un buon inizio e uno stimolo fondamentale per la lotta all’attuale predominio delle mafie in Europa.

·         L’integrazione delle mafie straniere in Italia.

Fabio Amendolara per ''la Verità'' il 2 dicembre 2019. In Lombardia l'hanno chiamato «patto di non belligeranza». In Campania è «tolleranza». A Bari lo definiscono «accordo mafioso». Su Palermo parlano di «integrazione criminale e sociale». Le mafie straniere sono ormai ben integrate. E alcune, come quella nigeriana, sono riuscite a scalare così tanto la classifica criminale italiana da entrare nella top five della mala. E se in Lombardia il «patto di non belligeranza» riguarda tutte le espressioni criminali, si va dagli albanesi in joint venture con i romeni per gestire il business della prostituzione, ai nigeriani che controllano piazzole delle grandi città, ai clan della 'ndrangheta che trafficano in droga, fanno pagare il pizzo alle imprese e riciclano a go go, mentre nel resto dello Stivale gli accordi, di solito, si fanno in due. Nel capoluogo lombardo è questione di mercato: «È così ampio che ce n' è per tutti», sostiene il tenente colonnello Piergiorgio Samaja, capo centro a Milano della Direzione investigativa antimafia. Ma è l' unico esempio di relazione paritaria. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ritiene che i gruppi criminali stranieri, compresa la mafia africana, «operino in subappalto rispetto alle mafie nostrane».

Da lagos nella «top 5». «Se la mafia nigeriana entra nel nostro territorio», sostiene il numero uno dell' antimafia, «è evidente che le è consentito dalle mafie già presenti: è da escludere una mafia nigeriana che possa partecipare e operare autonomamente, così come quella albanese. Oggi sono le nostre mafie che comandano, che si dedicano agli affari e che hanno raggiunto un livello superiore». Hanno messo da parte coppola e lupara, insomma. «La mafia nigeriana, invece», afferma de Raho, «è dedita al traffico di stupefacenti e allo sfruttamento della prostituzione. La mafia albanese fa altrettanto. Le nostre mafie reinvestono e sono le più pericolose perché in modo più insidioso entrano nei mercati e nell' economia. Sono soggetti che non si muovono più con i comportamenti tradizionalmente criminosi ma con comportamenti da industriali, imprenditori, professionisti». Lo spazio per la manovalanza e per quelli che ormai sono considerati degli affarucci da 'ndrangheta, Cosa nostra e camorra, è stato coperto dagli stranieri. Che pagano per poter stare sul territorio. E che, a quel punto, non solo vengono tollerati, ma anche protetti. Un' integrazione criminale che è arrivata prima di quella sociale. È il caso di Palermo, dove tra gli uomini di Cosa nostra e quelli della mafia di Benin City, Black Axe, Viking ed Eye, sono in sintonia. C' è un luogo, il mercato di Ballarò, in pieno centro del capoluogo siciliano, in cui i boss della mafia che fecero saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato il posto ai «don» neri della mala africana. Quella fetta di territorio è cosa loro. E proprio come è accaduto a Cosa Nostra, anche tra i nigeriani sono saltati fuori i collaboratori di giustizia. Sono due, in particolare, quelli che hanno messo in crisi il sistema: Don Emeka e Austine Johnbull. Il primo, tra il 2014 e il 2015, cominciò a spifferare ciò che sapeva dei suoi compari, dopo aver subito un' aggressione per la quale Johnbull fu condannato a 12 anni e 4 mesi per tentato omicidio.

I primi pentiti. La condanna ha convinto anche Johnbull a vuotare il sacco. Ed è stato il primo a svelare i riti d' affiliazione e gli affari dei Black Axe. E, altra coincidenza con Cosa nostra, si è meritato il nomignolo di Buscetta della mafia nigeriana. Ormai anche durante i processi lo chiamano così. Ma dalla cupola messa su da Bernardo Provenzano, Totò Riina e Matteo Messina Denaro, la mafia nera nigeriana ha mutuato anche l' organizzazione interna: piramidale. E forse anche per questo motivo si è integrata con più facilità. In Triveneto, invece, è in atto un altro esperimento: lì, nei territori controllati dalle famiglie di 'ndrangheta emigrate negli anni Ottanta e Novanta, i gruppi albanesi e nigeriani sono accomunati da reciproco rispetto, non solo nell' attività di sfruttamento della prostituzione, ma anche nel traffico di stupefacenti. In particolare, le arterie interne dei centri di Padova, Mestre, Verona, Vicenza, Treviso, Bolzano, Udine e quelle di grande viabilità, che collegano i vari capoluoghi di provincia, sono battute da prostitute nigeriane e albanesi, che operano in territori contigui e senza conflitti. Fenomeni dello stesso tipo sono stati registrati anche nel Lazio e in Campania. Dove questo meccanismo viene definito dagli analisti come «una inusuale promiscuità». In Campania, d' altra parte, il meccanismo è ben rodato. Castel Volturno, nel Casertano, è l' esempio più noto: lì la mafia nigeriana gestisce in modo autonomo rispetto alla camorra il traffico di droga e piccoli racket. I clan camorristi, poi, a volte sfruttano la collaborazione dei neri per reati minori. A Napoli, addirittura, come ricostruito dal sito web Stylo24.it, per suggellare definitivamente il patto tra mafia nera e Scissionisti di Secondigliano, i nigeriani hanno affidato in modo illegale un bambino di colore a un componente di spicco degli Scissionisti. Il bimbo pare faccia da garante al patto scellerato chiuso tra la cosca dei ribelli dell' area Nord di Napoli e la mafia siciliana con base a Castel Volturno. Di solito, però, non c' è bisogno di un atto così eclatante. Basta intendersi sugli interessi. Tra i modelli di cooperazione c' è quello triestino, dove i sodalizi criminali stranieri a volte sono partecipati da pregiudicati italiani. Come nel caso del caporalato: lì prospera una importante comunità di etnia serba, la cui componente criminale è tendenzialmente dedita alla gestione del lavoro nero, in prevalenza nel settore dell' edilizia, attraverso lo sfruttamento della manodopera di operai e manovali provenienti dall' Est Europa. Gli italiani di solito fanno i mediatori tra i datori di lavoro e i caporali serbi. In Calabria e in Puglia, invece, la mafia tradizionale ha scelto come alleata quella albanese. Relazione che, spiega il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rende le mafie globalizzate. Gratteri ricorda il caso di un trafficante di San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, che non aveva pagato una partita di droga ai cartelli colombiani e che è stato intercettato dai terroristi spagnoli dell' Eta. È la prova che varie forme di criminalità collaborano e trovano intese sugli affari comuni. E tra questi interessi comuni c' è la difficile gestione criminale dei porti. Gioia Tauro, Taranto, Napoli. Lì gli interessi si intrecciano. E le mafie straniere convivono con quelle locali. «In molti casi», scrivono il procuratore aggiunto Giovanni Russo e il sostituto Cesare Sirignano nell' ultima relazione antimafia al Parlamento, «è stato accertato il pagamento di un quantum da parte delle mafie straniere a quelle tradizionali come riconoscimento della sovranità territoriale, ma il dato non può essere esteso a tutto il territorio nazionale». C' è poi ancora molto che sfugge agli investigatori. Della mafia nigeriana, sottovalutata per anni, solo oggi si comincia a scoprire qualcosa in più. E il bacio della morte tra mafie straniere e clan tradizionali fa ancora parte della metà oscura del fenomeno criminale.

·         Pecunia non olet: Le Mafie del Nord Italia.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 20 luglio 2019. Le mafie sono sempre più a caccia di soggetti che sappiano usare l'indice non per sparare ma per fare click su un mouse e spostare ingenti quantità di denaro da un paradiso off shore all'altro. Le organizzazioni criminali «cambiano pelle» e, grazie a «facilitatori» e «artisti del riciclaggio» si insinuano sempre più nel mondo della finanza, eleggendo il nord Italia come loro capitale finanziaria. L'allarme contenuto nella relazione sul secondo semestre del 2018 che la Direzione investigativa antimafia ha consegnato al Parlamento conferma quello che il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero de Raho ripete diverso tempo. Un modus operandi che funziona in Italia e all'estero, dove ormai le cosche - la ndrangheta soprattutto ma anche Cosa nostra - hanno impiantato strutture permanenti. Come veri e propri broker finanziari dunque, i mafiosi del 2019 variano il paniere dei propri investimenti. Ma per fare questo le cosche hanno bisogno di professionisti più che di picciotti. Ci sono decine di colletti bianchi, scrivono gli investigatori, «che prestano la loro opera proprio per schermare e moltiplicare gli interessi economico-finanziari»: personaggi capaci di gestire transazioni internazionali da località off shore. Mafia, Ndrangheta e camorra, dice la Dia, operano sempre più «secondo modelli imprenditoriali variabili», si legge nella relazione.

I DATI. La conferma di questa mutazione è nei dati: il maggior numero di operazioni sospette si registra al nord Italia, nella parte più produttiva del Paese. Sono quasi la metà di quelle analizzate: il 46,3% contro il 33,8% del sud e il 18,7% del centro Italia. Uno scenario che sta mettendo in difficoltà la stessa legislazione antimafia. In sostanza, spiega la Dia, i fascicoli tendono a finire sempre nei distretti giudiziari in cui le mafie si sono storicamente sviluppate ma così facendo si ha una «limitata possibilità di perseguire l'azione illecita da parte dei distretti del centronord».

GRUPPI STRANIERI. La relazione indica poi un altro aspetto, le mafie straniere. Tra le organizzazioni criminali di matrice straniera presenti in Italia, quella albanese «continua ad apparire tra le più pericolose». La criminalità cinese, invece, è riuscita, nel tempo, a mantenere una fitta rete di rapporti ramificati su buona parte del territorio nazionale: la Toscana, innanzitutto con Prato e Firenze, la Lombardia, ma anche il Veneto, l'Emilia Romagna ed il Piemonte sono le regioni che annoverano le comunità cinesi più numerose. Per la criminalità romena il traffico di stupefacenti, anche in concorso con soggetti criminali italiani, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l'intermediazione illecita dello sfruttamento della manodopera rimangono i reati di maggior interesse. Per quanto riguarda la criminalità sudamericana (boliviana, colombiana, venezuelana, dominicana, peruviana ed ecuadoriana) si confermano gli interessi nei traffici internazionali di droga, nello sfruttamento della prostituzione e nei reati contro il patrimonio e la persona. Questi gruppi, evidenzia la Dia, «rappresentano un costante punto di riferimento, anche per la mafia autoctona». Tra i vari gruppi, resta alta la pericolosità delle «gang» dei latinos, le cosiddette pandillas, diffuse nelle aree metropolitane di Genova e Milano. Anche i gruppi criminali del centro- nord Africa stanziati nel nostro Paese interagiscono, spesso, con cittadini italiani o di altre nazionalità, in particolare per il traffico e lo spaccio. Inoltre dalla relazione emerge come i sequestri e le confische eseguiti dalla Dia sono aumentati nel 2018, rispetto al 2017, rispettivamente di oltre il 400% e di oltre il 1000%. Si tratta di «risultati importanti che, sommati a quelli conseguiti dal 1992, hanno permesso alla Dia di sequestrare patrimoni per oltre 24 miliardi di euro e di confiscarne per oltre 11 miliardi di euro, con più di 10.500 persone arrestate». «L'aggressione ai patrimoni, sia che maturi in ambito penale o della prevenzione, rappresenta il vero punto di forza per contrastare le mafie nel mondo».

·         La mafia, conviene, ma non esiste. O almeno come oggi ce la propinano.

Cosa è la legalità?

La legalità è ogni comportamento difforme da quanto previsto e punito dalla legge. Si parla di comportamento e non di atteggiamento. Con il primo si ha un’azione o omissione, con il secondo vi è neutralità senza effetti. Per quanto riguarda la legge c’è da dire che un popolo di “coglioni” sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie.

Cosa significa comportamento mafioso?

Prendiamo per esempio il nostro modo di chiamare i prepotenti violenti che vogliono affermare la loro volontà: diciamo “so’ camburristi”, ossia: sono camorristi. Quindi mafia significa prepotenza.

Contro il “Subisci e Taci”. Il dettato normativo. L. 13 settembre 1982 n. 646 (Rognoni-Latorre) L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Quella mafia delle coppole è finita. «Quella mafia delle coppole che ho fotografato è finita». Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 su Corriere.it. «Gli ho detto: accetto solo se mi fai fare una vecchia prostituta». Letizia Battaglia, 84 anni, fotografa tra le più grandi, per il New York Times «una delle 11 donne che hanno segnato il nostro tempo», svela i retroscena della sua presenza in La mafia non è più quella di una volta, il film di Franco Maresco il 6 settembre in concorso a Venezia.

Perché quella richiesta?

«Le squillo mi piacciono, ho gran rispetto per il loro mestiere. Se poi sono vecchie, anche di più. Amo quei visi segnati da tante storie, tutte da raccontare. Franco mi ha dato retta. E così nel film compaio in una scena truccata e scollata come non mai».

Come si è sentita?

«Bellissima. Non lo sono mai stata, ma stavolta, con tutti i miei anni, le mie rughe, le mie follie, mi piaccio davvero».

Che rapporto c’è tra lei e Maresco?

«Lo ammiro da sempre, ho corteggiato a lungo la sua intelligenza lucida e disperata. Finché lui mi ha ritratta in un documentario, La mia Battaglia, dove abbiamo discusso di vita e morte, di amore e vecchiaia. Ci siamo confrontati sulla nostra “palermitudine”, su questa città bella e impossibile devastata dalle guerre di mafia».

Guerre che lei ha immortalato in tante immagini magnifiche e terribili. Davvero non è più come una volta?

«Il titolo è ironico, ma dice il vero. La mafia che ho fotografato io, quella dei Corleonesi, delle coppole, del sangue nelle strade, non c’è più. I mafiosi di oggi sono antropologicamente diversi, sono andati all’università, conoscono le lingue, si profumano. Li trovi nelle banche, nelle istituzioni, nella polizia... Non più poveracci con la lupara ma manager. Della sola industria florida di questo Paese, la droga. E non stanno neanche più a Palermo, dove oggi si vive benissimo. Si sono trasferiti al nord, hanno esportato il modello in Russia, in Cina».

Come racconterà tutto questo il film di Maresco? 

«Non l’ho ancora visto, né lui mi ha spiegato troppo di che si trattava. Gli ho detto sì a scatola chiusa, ho fatto tutto quello che mi ha chiesto, ho girato per Palermo, sono andata all’Albero Falcone a gridare la mia indignazione davanti le commemorazioni ipocrite dei politici, sono entrata nella cripta dei Cappuccini a fumarmi una sigaretta tra tutti quegli scheletri. Io viva, loro morti».

La sua Palermo. E poi c’è quella di Ciccio Mira, impresario dei neomelodici, che mandano in visibilio periferie e mafia.

«Lui è l’altra voce del film, il mio antagonista. Ciccio è uno che si barcamena in un mondo di omertà ma ora, per nausea o per sdegno, dà fondo al suo patrimonio per organizzare allo Zen un evento inaudito: i neomelodici per Falcone e Borsellino, mai ricordati prima in quel quartiere. Una follia bellissima».

Tra i suoi scatti più famosi quello dove Sergio Mattarella stringe tra le braccia il fratello Piersanti appena ucciso da Cosa Nostra. Quando fu eletto, lei disse: «Un presidente che ha questa storia sarà sicuramente rivoluzionario».

«La rivoluzione si può fare anche a piccoli passi, in modo nascosto. Mattarella è una persona per bene. Mi aspetto da lui un gesto forte».

Mafia: Nascita ed evoluzione.

Il fenomeno delle organizzazioni criminali in tutta Italia prendevano il nome di Brigantaggio. La struttura era orizzontale con nuclei locali autonomi ed indipendenti.

In tutto il Sud Italia con l’unificazione e l’occupazione Sabauda, se prima il brigantaggio ha favorito l’ascesa di Garibaldi, successivamente è diventato un piccolo esercito partigiano di liberazione di piccola durata 1860-1869. La struttura orizzontale è rimasta, ma si formò una sorta di coordinamento. Se da una parte vi fu la soppressione del brigantaggio politico meridionale, dall’altra parte in Sicilia si sviluppò il fenomeno di Cosa Nostra e del separatismo.

Mafiosi erano i potentati locali, sia essi amministratori periferici dello Stato, sia i latifondisti o potentati economici. Il loro braccio armato erano i componenti delle famiglie locali più pericolose e numerose. La mafia ha agevolativo di eventi storici: lo sbarco dei mille di Garibaldi, che ha permesso l’invasione dell’Italia meridionale da parte dei settentrionali; lo sbarco degli Alleati che ha agevolato la cacciata dei tedeschi.

La strage della portella della Ginestra a Palermo si deve ricondurre ad un tentativo di ristabilire l’ordine che veniva turbato da manifestazioni sindacali. Il fenomeno mafioso nel centro-nord Italia non era sviluppato, perché il Potere era molto più vicino alle periferie ed il controllo era più stringente.

Quel potere si sosteneva con le estorsioni, le mazzette, giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame. L’affare della droga verrà successivamente.

Il sistema mafioso aveva una struttura orizzontale, sia in Sicilia, sia in Calabria, sia in Campania e nel resto del Sud Italia. La Stidda e Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta, La Sacra Corona Unita, i Basilischi, la Camorra, la Società foggiana.

Cosa Nostra, in Sicilia, rispetto alla Stidda, era il braccio armato dei potentati locali: al servizio della politica e dell’economia. Il Clan dei Corleonesi era una fazione all’interno di Cosa Nostra formatasi negli anni settanta, così chiamata perché i suoi leader più importanti provenivano dalla famiglia di Corleone: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella. Cosa Nostra aveva struttura piramidale.

La Camorra, in Campania, da sodalizi criminali locali strutturati in linea orizzontale, agevolati dalla scarsità di risorse rispetto alla demografia del territorio, ha avuto un incremento con l’avvento di Raffaele Cutolo (Nuova Camorra Organizzata) con l’influenza e la supervisione di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Con il culto della personalità degli esponenti delle fazioni in lotta la Camorra prende una struttura verticistica.

La Camorra influenzerà la Società Foggiana a struttura orizzontale.

La mafia pugliese e la mafia  lucana, invece, sono creature delle famiglie calabresi.

Il sistema statale di contrasto.

Se dal Regno Sabaudo fino al Fascismo la magistratura era sotto l’egita governativa, con l’avvento della Repubblica i Magistrati sono sotto effetto politico.

La lotta al brigantaggio era più che altro una lotta politica contro gli oppositori della monarchia Sabauda ed impegnava tutte le risorse governative. In tal senso la criminalità comune e disorganizzata ne veniva avvantaggiata. Da sempre c’è stato il problema della sicurezza. Già oggi noi riscontriamo il problema della sicurezza. In caso di reati diffusi e ritenuti a torto bagatellari (furti, aggressioni, minacce, ingiurie, ecc.). Figuriamoci nei tempi andati, dove la struttura amministrativa aveva maglie molto più larghe e meno capillari, specialmente nei territori più remoti e lontani dal Centro del Potere. Se oggi abbiamo pochi agenti delle forze di polizia, figuriamoci allora. In questi territori lontani dal controllo burocratico il potere del Governo era affievolito perché non poteva contare su risorse adeguate di mezzi e persone. Ciò arrecava anarchia e corruzione, dove il prepotente, spesso al soldo dei ricchi, la faceva da padrone. In queste terre lontane si commettevano abusi e violenze di ogni specie, specie nei campi, lontani da occhi indiscreti. La mancanza di prove o la complicità delle istituzioni locali produceva impunità. L’impunità creava omertà.

Nella stessa America, nel Far West, per esempio si assoldavano pistoleri, spesso loro stessi criminali,  per incutere rispetto al ruolo, al fine di affermare l’Ordine e la Sicurezza.

In Italia le terre più remote erano la Sicilia e la Calabria. In questi territori il rispetto, la sicurezza e l’ordine era delegata dai rappresentanti dello Stato o dai latifondisti a gruppi di cittadini, che oggi potremmo chiamare “vigilanza o ronda privata”. A questi, spesso galeotti o criminali, veniva riconosciuta una sorta di impunità dei loro crimini, nel nome dell’interesse comune.

Gli affari della Mafia.

L’attività criminale del Brigantaggio era fondata da rapine, estorsioni, furti. giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame.

La loro struttura solidale portava intimidazione e quindi soggezione ed omertà.

Poi è arrivata il traffico di droga ed armi, lo smaltimento di rifiuti illeciti e la tratta degli esseri umani. E cosa più importante sono arrivati gli appalti pubblici: la mafia-appalti.

L’Evoluzione della Mafia. Da coppola e lupara a penna e calcolatrice.

Nel 1950 Il Governo De Gasperi istituì La Cassa per il Mezzogiorno, ossia un fondo per finanziare lo sviluppo del meridione. Con questo strumento finanziario si ebbe la scissione tra mente e braccio armato della gestione criminale della cosa pubblica. E di conseguenza si ebbe una dicotomia del sistema mafioso tra armato e colletti bianchi. In Sicilia la struttura capillare territoriale rimase con il nome “Stidda”. Al contempo nella zona di Palermo, partendo da Corleone, si impose una struttura piramidale chiamata “Cosa Nostra” che si espanse in Italia e nel mondo. Avere a che fare con un singolo capo dei capi, era più comodo che interloquire con centinaia di capetti. Ora la gestione del potere non era più improntata sulla gestione del territorio e la commissione di reati comuni, ma sui flussi finanziari del denaro che servivano per lo sviluppo del Sud Italia. La gestione illecita di quei flussi, inoltre non era prevista e punita come illegale da nessuna norma. Quella mafia era perseguita con l’art.416 c.p.

La mafia appalti aveva appetiti enormi ed aveva tante bocche: La politica, la Massoneria deviata, le caste e le lobby. Queste componenti avena la mafia come braccio armato.

L’evoluzione dell’attacco al sistema.

Con l’avvento degli anni 80 si ebbe il salto di qualità. La torta di Mafia Appalti non era più distribuita in modo equitativo. Cominciarono a cadere le vittime eccellenti, ossia gli uomini dello Stato con alte cariche.

Lo Stato rispose con la Legge antimafia Rognoni-La Torre. Negli anni 90 si ebbe il periodo stragista.

Il Periodo Stragista e la morte di Falcone e Borsellino.

Fino a che non si è toccato il potere politico istituzionale e fino a Mani Pulite, cioè fino al tentativo di coinvolgere il PCI nelle malefatte politiche di Tangentopoli, il fenomeno mafioso rimaneva sottaciuto.

L’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, è sostituita da una famiglia più allargata: quella dei partiti che si finanziano con i fondi illeciti perché destinate per altre finalità. Questo per perpetuare il potere e le poltrone.

La gestione dell’ingente flusso di risorse finanziarie statali destinate al Sud era in mano alla politica (meno il MSI): Da Roma di decideva a chi destinare i fondi. La politica locale amministrava quei fondi. Tutti erano coinvolti.

Probabilmente il Pci, nella suddivisione della torta, era meno favorito della DC, al governo da sempre, a Roma come in Sicilia, per questo Berlinguer nel 1981 parlo di Questione morale.

Giovanni Falcone con il nuovo 416 bis c.p. istruì il Maxi Processo. Ma di questo enorme flusso di denaro se ne era accorto, come si era accorto, anche, che la faccia della mafia era cambiata. Il potere dalla Coppola e la Lupara di gente ignorante, era passato in mano ai colletti bianchi. I colletti bianchi rappresentavano i poteri dello Stato: la politica che gestiva il denaro; l’economia che riciclava quel denaro; la magistratura che insabbiava le notizie di reato. Per questo Falcone diceva che per sconfiggere la mafia bisognava seguire i soldi: quelli della Cassa del Mezzogiorno, in seguito quelli dei fondi europei. E per questo nacque la collaborazione con Antonio Di Pietro a Milano. Ma Falcone diceva anche un’altra cosa che ai magistrati dava molto fastidio perché lesiva delle loro prerogative: creare un’entità nazionale che potesse far applicare la legge in quei porti delle nebbie che erano i palazzi di giustizia.

Quell’essere diverso è costata cara a Giovanni Falcone. Su quei soldi non si doveva indagare. Il fatto che Falcone potesse avere un più alto grado di Responsabilità e Potere nei palazzi romani era osteggiato da tutti, specialmente dalla sinistra e da quei magistrati di riferimento. Falcone, che con quel ruolo al Ministero della Giustizia, aveva fatto nascere la Procura Nazionale Antimafia, era da calunniare e denigrare. Lo stesso Leoluca Orlando, “eterno” sindaco di Palermo ed esponente di quella sinistra della Dc, poi tramutata in La Rete, è stato il più acerrimo nemico di Giovanni Falcone con i suoi molteplici esposti penali contro il magistrato. L’inchiesta “Mafia appalti”, assolutamente non si doveva fare. O lo si fermava con le calunnie. O lo si fermava in alto modo.

Il Penta Partito acquisiva ed impiegava i fondi illeciti Italia su Italia. Il Pci li acquisiva e li inviava a Mosca. Qui le somme di denaro si convertivano in Rubli, ed in questa forma rientravano come finanziamenti leciti dall’Urss che li riciclava e li lavava. Finanziamenti ignorati dal Pool di Milano

Agli inizi del 1992 inizia Mani Pulite. Al Penta Partito ci pensa il Pool di Mani Pulite di Milano, che sui rubli del PCI rimane inattivo, ma che, sicuramente, Falcone non avrebbe avuto remore ad andare avanti, o chi per lui, anche attraverso gli incarichi ministeriali. Ma non doveva.

Infatti il 23 maggio 1992 con la sua morte la pista dei rubli di Mosca si ferma definitivamente.

Con la morte di Falcone e di Paolo Borsellino, che sicuro ne avrebbe proseguito le orme, il Pci è uscito indenne dal ciclone di Mani Pulite, dove addirittura la Lega ha pagato lo scotto.

E l’immagine del Pci è rimasta illibata a scanso di tutte le inchieste. Quelle inchieste in cui gli investigatori hanno trovato candidatura nei partiti da loro inquisiti, o comunque alleati: Di Pietro, Emiliano, Maritati. 

Gli affari dell’antimafia.

Con la Morte di Falcone e Borsellino gli affari della mafia sono diventati affari dell’antimafia.

L’apparato statale in mano alla sinistra: Le istituzioni, i media, la cultura, l’associazionismo e il sindacalismo hanno impiegato tutto il loro impegno nella propaganda, sfruttando al meglio la possibilità di finanziarsi economicamente con il business dell’antimafia.

Oggi con le leggi del Cazzo si attua quell’espropriazione proletaria che ha sempre ispirato il Pci (tu sei ricco perché sei mafioso ed hai rubato), ma il meridione paga un danno enorme, perché in nome della lotta alla mafia si lede la libera concorrenza. Perché il meridionale è mafioso a prescindere, ovunque esso sia.

Nel nome della lotta antimafia l’azienda meridionale non può lavorare perché se si ha sentore di mafiosità scatta l’interdittiva antimafia. Anche sol perché si ha un parente lontano ritenuto mafioso o un dipendente vicino o con parenti vicini ad esponenti mafiosi.

Nel nome dell’antimafia si sequestrano i beni di imprenditori ritenuti mafiosi da indagini aperte per delazione di pentiti fasulli. Imprenditori che alla fine risultano innocenti. Ciò nonostante quei beni vengono confiscati.

Nel nome dell’antimafia gli appalti tolti alle aziende meridionali (cessate o interdette) vanno a finire per lo più assegnati alle Cooperative Rosse, ed in minima parte ad altre aziende settentrionali.

Oggi con le leggi del Cazzo la sinistra ha pensato bene di finanziare la sua attività politica e di propaganda anche con attività extraeconomiche. Lo stesso Sciascia nel 1987 puntava il dito sui professionisti dell’antimafia.

Oggi ci ritroviamo Libera ad essere il collettore monopolista di tutte le associazioni antimafia prefettizie che costringono i loro assistiti alla denuncia, per non essere cancellati, da cui scaturisce il business delle costituzioni di parti civili e dei beni sequestrati e confiscati.

Oggi ci ritroviamo Libera ad avere il monopolio della gestione dei beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi o presunti tali. Gestione oltretutto sostenuta con progetti e fondi finanziati dallo Stato.

Oggi ci ritroviamo apparati giudiziari ed associativi che

Perché si è Sciasciani.

Prima degli anni ‘80 a dare carattere di mafiosità al sistema criminal-burocratico vi era solo un grande conoscitore della questione: il comunista Leonardo Sciascia. Sciascia con il suo “Il Giorno della Civetta” suddivideva la realtà contemporanea in “uomini (pochi) mezzi.

Tutte le mafie. Oggi l’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, con la coppola e la lupara, è sostituita da una famiglia più allargata e dalla faccia pulita:

Quella dei partiti che continuano a finanziarsi non più con fondi illeciti, ma con fondazioni.

Quella delle caste e delle lobby, composte da ordini, collegi, e gruppi economici, che per pressione elettorale  inducono a legiferare per i loro tornaconti

Quella delle Massonerie deviate, i cui componenti, portatori di interessi lobbistici e di gruppi economici finanziari, influenzano le scelte politiche nazionali e locali.

Queste entità spostano l’attenzione, attraverso i media a loro asserviti su falsi problemi.

Il Caporalato. Parlano di caporalato, tacendo sullo sfruttamento addirittura del magistrati onorari, ricercatori universitari, praticanti e portaborse parlamentari.

L’Usura ed i fallimenti truccati. Parlano di Usura, tacendo su quella bancaria e quella di Stato e sui fallimenti truccati e sulle aste truccate.

gestiscono in modo approssimativo ed amicale i beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi.

Le mafie in Italia. In questo stato di cose oggi ci troviamo ad avere oltre le nostre mafie bianche e nere, anche le mafie di importazione: nigeriana, cinese, albanese, rumena, russa, ecc.

Oggi intanto gli arroganti saccenti col ditino alzato continuano a menarla con “avversario politico  = ignorante-mafioso

Brigantaggio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il brigantaggio fu una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, mentre in altre circostanze esso assunse risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale. Sebbene il fenomeno abbia origini remote e riguardi periodi storici e territori diversi, nella storiografia italiana questo termine si riferisce generalmente alle bande armate presenti nel Mezzogiorno tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del regno d'Italia nel 1861. L'attività brigantesca assunse connotati politici e anche religiosi all'inizio del XIX secolo, con le sollevazioni sanfediste antifrancesi. Fu duramente repressa all'epoca del Regno di Napoli e durante l'occupazione napoleonica, borbonica e risorgimentale, quando, dopo essersi ulteriormente evoluta, si oppose alle truppe del neonato Stato italiano. In questa fase storica, sia all'interno che al di fuori di queste bande e mossi anche da motivazioni di natura sociale e politica, agivano gruppi di braccianti ed ex militari borbonici.

Etimologia e definizioni. Il termine brigante descrive generalmente una persona la cui attività è al di fuori della legge. Spesso sono definiti briganti, in senso dispregiativo, combattenti e rivoltosi in particolari situazioni sociali e politiche. L'origine della parola non è ancora chiara e diverse sono le ipotesi sulla sua etimologia.

Origini e cause. Il brigantaggio sin dalla sua genesi aveva - e ha tuttora - come causa di fondo la miseria. Oltre a vera forma di banditismo (soprattutto nel Medioevo), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare. In età moderna, furono coinvolti vari strati sociali, con connessioni e complicità tra signori e banditi, investendo indifferentemente zone urbane e rurali. Il brigantaggio iniziò così a presentare una forza tale da vincere quella dello stesso Stato, incapace ancora di mediare tra i diversi ceti. Francesco Saverio Sipari, che fu tra i primi a considerare anche l'origine sociale del fenomeno, nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata» e, anticipando anche analoghe osservazioni di Giustino Fortunato, riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la "rottura" dell'isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l'affrancamento dai canoni del Tavoliere. Francesco Saverio Nitti considerava il brigantaggio (in particolare nel Meridione) un fenomeno complesso, che poteva assumere i connotati di banditismo comune, di reazione alla fame e alle ingiustizie o di rivolta di natura politica (es. alla piemontesizzazione). Egli riteneva che il brigante, in gran parte dei casi, si rivelava un paladino del popolo e simbolo di rivoluzione proletaria: «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.» (Francesco Saverio Nitti)

Giustino Fortunato lo considerò «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali». Accanto alla miseria, alcuni identificano il brigantaggio come un fenomeno di resistenza, soprattutto in epoca risorgimentale. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli». Tuttavia il fenomeno era ben presente anche in altri stati preunitari all'alba dell'unità d'Italia, tra cui lo Stato Pontificio in cui ancor oggi si ricorda la figura de "il Passatore", il Lombardo-Veneto con Carcini, il Regno di Sardegna con Giuseppe Mayno e Giovanni Tolu.

Storia del Brigantaggio in Italia.

Impero Romano. Si inizia a parlare di brigantaggio già nell'antica Roma, quando a Taranto intorno al 185 a.C. avvenne un'insurrezione sociale composta perlopiù da pastori, che arrivarono a formare vere e proprie bande. Per risolvere la questione, il pretore Lucio Postumio Tempsano attuò una dura repressione in cui furono condannati circa 7.000 rivoltosi, alcuni dei quali furono giustiziati mentre altri riuscirono ad evadere. Anche Lucio Cornelio Silla prese provvedimenti contro i briganti (a quel tempo chiamati sicari o latrones) con la promulgazione della Lex Cornelia de sicariis nell'81 a.C., che prevedeva pene capitali come la crocifissione e l'esposizione alle belve (ad bestias) Giulio Cesare affidò nel 45 a.C. al pretore Gaio Calvisio Sabino il compito di combattere con decisione il brigantaggio che si manifestava durante la sua governanza. Strabone ricorda la figura di Seleuro, chiamato figlio dell'Etna, che per molto tempo razziò le città dell'area etnea prima di essere catturato e ucciso nei giochi gladiatori nel 35 a.C.. Nel 26 a.C., Ottaviano Augusto combatté le rivolte brigantesche in Spagna dove agiva Corocotta, un legittimista della Cantabria, mentre Tiberio trasferì 4.000 ebrei in Sardegna per opporre i ribelli, nel timore che le loro bande si trasformassero in insorgenze, istigate da rivali politici. Settimio Severo dovette inviare un distaccamento di cavalleria impegnato in Britannia in una guerra di frontiera per catturare dopo due anni (207 d.C.) il brigante Bulla Felix una sorta di Robin Hood dell'epoca.

Medioevo. In età medievale il brigantaggio si sviluppò in particolar modo nell'Italia centro settentrionale. Si formarono bande composte non solo da comuni banditi ma anche da avversari politici o persone agiate che venivano cacciati dalla loro residenza in seguito alla confisca dei loro patrimoni. Per sopravvivere queste persone furono costrette a darsi alla macchia, aggredendo mercanti e viaggiatori. Nella seconda metà del XIV secolo, si registrarono numerose attività di banditismo nel Cassinate, ad opera di briganti come Jacopo Papone da Pignataro e Simeone da San Germano, i quali, con azioni vessatorie e spoliazioni, perseguitarono le popolazioni locali. In Toscana operò il senese Ghino di Tacco, rampollo della nobile famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai che non esitava anche a depredare uomini clericali come l'abate di Cluny, sebbene personalità come Giovanni Boccaccio non lo considerarono crudele con le sue vittime, tanto da essere definito, da una parte della storiografia, un "brigante gentiluomo", Dante lo cita nel sesto canto del Purgatorio della sua Divina Commedia. Queste due citazioni letterarie faranno sì che Ghino di Tacco sia il brigante medioevale italiano la cui fama sia ben sopravvissuta al suo tempo.

Secoli XVI e XVII. In età moderna proliferarono gruppi di fuorilegge costituiti particolarmente da soldati mercenari sbandati; contadini ridotti alla fame e pastori che si dettero alla macchia, rubando capi di bestiame ai latifondisti. Alle attività di brigantaggio parteciparono anche preti di campagna - simbolo di malcontento e malessere molto diffusi nel clero rurale - che andarono ad ingrossare le file dei banditi. Secondo L. Colombo «Nella seconda metà del XVI secolo il brigantaggio in tutta l'area mediterranea diventa una vera e propria marea sociale. Ondate di briganti si abbattono sulle campagne italiane arrivando a stringere in una morsa persino Roma».

Ducato di Milano. Nel secolo XVI bosco della Merlata che si estendeva a nord della città di Milano, dal borgo di Villapizzone a includere la Certosa di Garegnano era infestato da una banda di briganti che trovavano rifugio presso l'osteria Melgasciada,]capitanati dai briganti Giacomo Legorino e Battista Scorlino che finirono catturati nel maggio 1566, quindi processati con 80 complici e condannati a morte crudele e esemplare: legati alla coda di un cavallo e trascinati da questo al galoppo. Tuttavia, nonostante le ferite e probabili ossa rotte dopo due ore di supplizio il Legorino era ancora vivo, per cui fu sottoposto al supplizio della ruota a cui resistette, la conclusione venne quando per la salvezza dell'anima, il cappellano chiese al boia di sgozzarlo. Il ricordo di questi due briganti rimase nei secoli nel milanese, da Giovanni Rajberti sappiamo che le loro gesta erano ricordate e rappresentate al vecchio teatro della Stadera, in corso Venezia, ancora nel 1841]. Nel secolo XVII la situazione dell'ordine pubblico peggioro' per l'indisciplina della soldatesca al soldo degli spagnoli, che secondo Cesare Cantù: «Dopo la pace convertivansi in masnadieri; e la brughiera di Gallarate n'era sì piena, che il governo offrì 100 mila scudi di taglia a chi li distruggesse. Date a noi quella mancia, dissero essi, e vennero a incorporarsi ne' reggimenti! I banditi scorrazzavano la campagna, principalmente presso ai confini, terribili ai tranquilli ed all'autorità. Bisognava tener sentinelle sui campanili... Capi non ne erano soltanto malfattori vulgari, come i famosi Battista Scorlino e Giacomo Legorino, ma personaggi di nome, i Martinengo di Brescia; il conte Borella di Vimercato, un Barbiano da Belgiojoso, un Visconti di Brignano, i cavalieri Cotica e Lampugnano, e il marchese Annibale Porrone, "uom temerariamente contumace (dice una grida) che ha mostrato non esser altro il suo istituto che di rendersi famoso nelle più precipitose et inumane risolutioni, con sì poco timore della divina e sprezzo dell'humana giustitia".» Malfattori contro i quali le autorità non riuscivano a imporre un freno e di cui in altri casi approfittavano, come quando incaricarono il marchese Porrone di scortare con cento suoi bravi fino ai confini col granducato di Toscana un certo Rucellaj che era stato minacciato di morte in Milano.

Romagna. Alla fine del Cinquecento nei territori al confine fra la Romagna toscana e quella pontificia agiva Alfonso Piccolomini, di nobile famiglia duca di Montemarciano la cui banda armata era composto da malfattori toscani, romagnoli e marchigiani. Inizialmente amico del granduca di Toscana che lo salvò dalla cattura facendolo rifugiare in Francia ritornò in Italia, probabilmente al soldo dei nemici dei Medici e favorito dall'appoggio degli spagnoli attestati nei Presidii, minacciò dalle montagne di Pistoia la Maremma e approfittò della fame causata dalla carestia del 1590 per «sollevare i popoli», e fare «delle scorrerie». Sia il Granducato di Toscano che lo Stato Pontificio gli diedero lungamente la caccia impiegando ingenti risorse di uomini e mezzi fino a riuscire ad giustiziarlo il 16 marzo del 1591.

Stato della Chiesa e Italia Centrale. Nella seconda metà del Cinquecento, operò nell'Italia centrale e meridionale il brigante abruzzese Marco Sciarra che, raccolti attorno a sé circa un migliaio di uomini, compì scorrerie e assalti; inimicandosi sia gli spagnoli che lo stato della Chiesa. Nello stesso periodo agiva Alfonso Piccolomini, un nobile appartenente a illustre famiglia senese, che scelse la strada del brigantaggio per combattere lo stato Pontificio, messosi a capo di persone misere egli commetteva atti fuorilegge tra Umbria, Marche e Lazio. Alla fine del Cinquecento, altre bande operarono nell'Italia Centrale, capeggiate da Battistello da Fermo, Francesco Marocco, Giulio Pezzola e Bartolomeo Vallante; mentre nello stesso periodo agiva in Calabria Marco Berardi noto col nomignolo di Re Marcone. Le cronache di questo periodo riportano pure le gesta di un certo capitano Antino Tocco, nativo di San Donato Val di Comino, il quale da guardiano di pecore con l'armi in mano divenne capitano del Regno di Napoli combattendo i briganti nelle aree di confine fra il Frosinate, l'Abruzzo e il Regno di Napoli, di costui le cronache ricordano che: «fu gran Persecutore di gente scelerata, Banditi e ladri di strada de quali ne fece gran strage, dissolvendoli a fatto». Nel 1557 con una notificazione del commissario di papa Paolo IV si ordina la distruzione del paese di Montefortino vicino a Roma; i suoi abitanti sono dichiarati fuorilegge come "briganti", e i resti dell'abitato distrutto sono cosparsi di sale. Decenni dopo emerse sulla scena del brigantaggio Cesare Riccardi (noto come "Abate Cesare"), costretto alla vita clandestina per aver ucciso un nobile nel 1669 e che, nonostante la sua efferatezza, era ricordato da alcuni come un eroe dei più poveri. Nella lotta contro il brigantaggio s'impegnò con energia papa Sisto V: migliaia di briganti furono trascinati davanti alla giustizia e molti di loro vennero condannati a morte. Il papa inoltre promulgò il divieto di portare indosso armi di media e grossa taglia. Nel giro di un breve periodo il pontefice poteva affermare che il paese fosse in perfecta securitas. La repressione del brigantaggio avvenne con tre metodi: -A) piccoli reparti armati che combattevano i briganti nascosti nei boschi; -B) pagamento di taglie a delatori, disposti a svelare i covi dove si celavano i capibanda; e -C) ai briganti che si erano macchiati di delitti minori era offerta, come alternativa alla pena, la possibilità di arruolarsi nelle truppe pontificie. Alla fine del secolo XVI la campagna romana, particolarmente nelle province di Frosinone e Anagni fu soggetta a frequenti incursioni di bande di briganti, contro le quali nel 1595 papa Clemente VIII inviò alcune compagnie di cavalleria; analoga azione repressiva venne ordinata dal viceré di Napoli - conte Olivarez - contro briganti che infestavano il regno omonimo. Costoro agivano principalmente aggredendo i viandanti e corrieri nei boschi o nei tratti montuosi delle strade, derubandoli e spesso uccidendoli; in altri casi catturando persone facoltose per estorcerne riscatto. In questo periodo, tra i sequestrati le cronache riportano due nobili ecclesiastici romani: Giambattista Conti vescovo di Castellaneta e Alessandro Mantica arcivescovo di Taranto, che furono liberati dopo il pagamento d'un riscatto ingente. La persistenza del brigantaggio, che rimaneva sempre vigoroso nonostante la repressione a cui era sottoposto, era in gran parte dovuta all'appoggio che esso trovava, ora in questo ora in quello, fra i governi del granduca di Firenze, di Roma e di Napoli. Tale da rappresentare arma nascosta dei diversi governi, poiché come conseguenza dei frequenti dissidi fra il Papa e il Granduca, o il Papa e il Viceré; alle ostilità diplomatiche si accompagnavano silenziosamente attività brigantesche, favorite a turno dall'uno ai danni dell'altro: da Napoli o Firenze ai danni di Roma e viceversa. Nel 1594 papa Clemente VIII si lamentava col Nunzio di Napoli sul comportamento del Viceré dello stesso regno, dicendo che «mostrandosi favorire i banditi di questo Stato [n.d.r. ossia quello papalino] mette S. B. nella necessità di continuare nelle gravi spese che si son fatte fin adesso nella persecuzione loro».

Vicereame spagnolo di Napoli. In Aspromonte e nella Sila nel cinquecento, agiva il brigante Nino Martino, il cui ricordo, nella tradizione orale calabrese, ha portato a confonderlo con san Martino il santo dell'abbondanza. Secondo Rovani, durante i due secoli di dominazione spagnola nel napoletano, i banditi dominavano la campagna ed i nobili, se non volevano subirne vessazioni si vedevano obbligati a proteggerli, utilizzandoli come scherani quando possibile, attirandoli a Napoli in momenti politicamente torbidi, come i sussulti filofrancesi del 1647 e 1672. Nel marzo 1645 a Napoli venne promulgato un indulto generale verso tutti i briganti su cui pendesse la condanna di morte; a condizione che si arruolassero nella milizia. Un contemporaneo stimò che ad arruolarsi fossero circa 6000, su di una popolazione di 2 milioni. Nella seconda metà del secolo XVI, in Calabria nel Crotonese divenne famoso Re Marcone, soprannome di un brigante che radunò una banda armata in lotta contro il viceré spagnolo ed il potere ecclesiastico; autoproclamatosi re su una vasta area della Sila pose una taglia di duemila scudi sopra il Marchese spagnolo che lo combatteva, e dieci per ogni testa di spagnolo ucciso.

Secolo XVIII e periodo preunitario.

Regno di Sicilia. Nel Regno di Sicilia, i primi briganti apparvero, negli anni venti del '700, in particolare nell'agrigentino. Secondo Giuseppe Pitrè il fenomeno assunse rilevanza regionale nel 1766, dopo la grave siccità che colpì la Sicilia nel 1763, che portò la carestia. Il famigerato brigante Antonino Di Blasi di Pietraperzia, detto Testalonga, guidava tre bande sparse per tutta la Sicilia meridionale, insieme a Antonino Romano di Barrafranca e Giuseppe Guarnaccia di Regalbuto. Il viceré Giovanni Fogliani Sforza d'Aragona mise su ciascuno una taglia di 100 onze e inviò tre compagnie di soldati e una di dragoni e entro il marzo 1767 furono tutti catturati e giustiziati. Il brigante Pasquale Bruno visse alla fine del '700 operando nel messinese, e fu giustiziato nel 1803. Alexandre Dumas si ispirò alla sua storia per il romanzo "Pascal Bruno, il brigante siciliano". Dal 1817 il regno di Sicilia, fu unito con quello di Napoli, nel Regno delle Due Sicilie.

Regno di Napoli. Nei territori del regno borbonico gli episodi di brigantaggio furono manifesti ben prima dell'invasione francese del Regno di Napoli. Nel 1760 squadre di banditi arrivarono al punto di ordinare che le tasse fossero pagate a loro anziché al fisco, nella seconda metà del secolo XVII, mentre si recava a Roma per il conclave il cardinale Innico Caracciolo  fu catturato e liberato solo dopo il pagamento di 180 Doppie come riscatto. Un famoso brigante fu Angelo Duca (noto come Angiolillo) che si distinse tra Campania, Puglia e soprattutto in Basilicata. Catturato nel 1784 fu impiccato a Salerno e quindi, smembratone il cadavere, la testa venne esposta a Calitri. Le sue gesta furono ricordate positivamente da Pasquale Fortunato (avo del meridionalista Giustino), che compose un poema su di lui, e da Benedetto Croce che lo definì «di buona pasta, coraggioso, ingegnoso e di una certa elevatezza d'animo». Secondo lo storico inglese Hobsbawm, Angiolillo rappresenta «l'esempio forse più puro di banditismo sociale». La complicità fra nobili locali e banditi rendeva difficile combatterne le attività, per cui spesso la lotta contro i loro protettori veniva trascurata. Il processo ai banditi spesso si svolgeva ad modum belli, ovvero in forma sommaria e veloce: al reo veniva sollecitata la confessione dei crimini di cui era accusato ( di solito si trattava di appartenenza a banda armata in campagna, omicidi, ricatti...), qui si ricorreva alla tortura (sospensione e tratti di fune) per verificare quando confessato dall'imputato; dopodiché all'avvocato difensore era permessa un'ora per organizzare la difesa; a questa seguiva il pronunciamento della sentenza, che veniva eseguita immediatamente. Le teste mozzate dei condannati, erano portate in mostra per le vie di Napoli come ammonimento e conferma dell'avvenuta giustizia. Questa esibizione del cadavere avveniva un po' dappertutto in Italia fino al XIX secolo: per esempio, il cadavere di Stefano Pelloni, detto il Passatore, ucciso in Romagna nel 1851, fu posto su un carretto e portato di paese in paese a dimostrazione del cessato pericolo.

Età napoleonica. Il brigantaggio venne fortemente combattuto nel periodo napoleonico. Nel 1799 numerosi banditi dell'epoca si aggregarono ai combattenti antigiacobini noti come sanfedisti, capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo per la riconquista del Regno di Napoli, divenuto Repubblica Napoletana, da parte della corona borbonica. Tra i capi briganti si ricordano : Pronio, Sciarpa e (Fra Diavolo), il più' famoso fra questi, un pluriomicida che accettò di arruolarsi nell'esercito napoletano, in cambio della remissione della pena e Gaetano Mammone, descritto da fonti dell'epoca come una persona estremamente crudele e il suo luogotenente Valentino Alonzi, zio di Chiavone che sarà uno dei maggiori briganti postunitari; gran parte di costoro furono promossi al grado di colonnello dell'armata regia e insigniti di onorificenze. Tra le azioni di queste bande vi fu la sanguinosa reazione alla Rivoluzione di Altamura contro la popolazione favorevole ai repubblicani. Decaduta la repubblica, durante il periodo della prima restaurazione borbonica molti di questi briganti proseguirono nelle loro attività violente e di rapina, scontrandosi contro le truppe borboniche, Mammone venne catturato e mori' in carcere nel 1802. Lo stesso Fra Diavolo venne temporaneamente imprigionato nell'ottobre 1800, dopo che la sua banda aveva saccheggiato alcuni paesi per approvvigionarsi, venendo quindi liberato da re Ferdinando IV e poté tornare al suo paese come Comandante Generale del dipartimento di Itri. Durante il decennio francese, vennero attuate dure repressioni contro i briganti, soprattutto in Basilicata e Calabria, regioni in cui si concentrò maggiormente la reazione legittimista alla presenza francese. Nel 1806, i generali francesi Andrea Massena e Jean Maximilien Lamarque, durante la repressione delle rivolte saccheggiarono le città lucane di Lagonegro, Viggiano, Maratea e Lauria, dove numerosi rivoltosi vennero impaccati e fucilati sommariamente. Lo stesso anno fra Diavolo venne catturato dai francesi ed impiccato a Napoli. Durante il regno di Gioacchino Murat, nel secondo periodo napoleonico, il brigantaggio antifrancese rimase sempre attivo e tra le bande più temute del periodo vi era quella di Domenico Rizzo noto come "Taccone" che arrivo' a proclamarsi "Re di Calabria e Basilicata". È nota l'opera repressiva contro il brigantaggio calabro-lucano da parte del colonnello francese Charles Antoine Manhès, ricordato da Pietro Colletta per i suoi metodi violenti e crudeli e che per la sua determinazione nel reprimere il fenomeno fu confermato nel suo incarico anche dopo il ritorno al potere borbonico.

Seconda restaurazione borbonica. In seguito alla seconda restaurazione borbonica, il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti. Il sovrano borbonico, in particolare nell'aprile 1816, aveva infatti emanato un decreto per lo sterminio dei briganti che infestavano Calabria, Molise, Basilicata e Capitanata, conferendo speciali poteri ai vertici dell'esercito. Il 4 luglio 1816 fu stipulato tra il governo papale e quello borbonico, un accordo di collaborazione sullo sconfinamento reciproco delle truppe, tra i territori pontifici e quello del regno borbonico, durante le azioni di repressione del brigantaggio. Questo accordo, poi rinnovato e ampliato il 19 luglio 1818, aveva lo scopo di evitare che lo stato confinante divenisse rifugio per briganti in fuga. Nella Puglia settentrionale, in Capitanata, il brigantaggio era particolarmente attivo (soprattutto nel distretto di Bovino) «...fino ad assumere connotati di massa. Ad esso si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell'assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento». Nell'ottobre 1817 l generale inglese Richard Church ebbe il comando della sesta divisione militare, comprendente le province di Bari e di Lecce, per combattere il brigantaggio ] fiorente nelle Puglie spesso associato a società segrete antiborboniche come nel caso di Papa Ciro, sacerdote e brigante delle Murge. Gli furono dati ampi poteri, sulla falsariga di quanto era stato fatto nel periodo napoleonico nei confronti di Manhès. La sua azione di Church fu dura ed efficace. Commenta Pietro Colletta: «De' quali disordini più abbondava la provincia di Lecce, così che vi andò commissario del re coi poteri dell'alter ego il generale Church, nato inglese, passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli, quindi obliate per miglior fama. Il rigore di lui fu grande e giusto: centosessantatré di varie sette morirono per pena; e quindi spavento a' settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati, resero a quella provincia la quiete pubblica. Ma senza pro per il regno perciocché i germi di libertà rigogliavano, animati dalla Carboneria.»

Nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1818, trasferito Church in Sicilia, fu inviato in Puglia il generale Guglielmo Pepe per organizzare le milizie provinciali da impiegare contro i briganti di Rocco Chirichigno. Nella sua cronaca di viaggio da Napoli a Lecce, pubblicata nel 1821, Giuseppe Ceva Grimaldi (marchese di Pietracatella) scrisse a proposito di questa lotta contro il brigantaggio: «Il ponte di Bovino è la nostra Selva-nera, per lungo tempo è stato luogo diletto agli scherani masnadieri, ed occupa nei canti de'nostri Bardi del Molo lo stesso posto luminoso che le balze ed i boschi della Scozia nelle croniche dell'Arcivescovo Turpino e nei canti dell'Ariosto. Oggi però questi luoghi sono perfettamente tranquilli: sedici teste di banditi chiuse in gabbie di ferro coronano da una parte e dall'altra le sponde del ponte, e questa muta ma eloquente guardia parla potentemente all'immaginazione degli scellerati.» Nel 1817 nel Cilento la banda dei Fratelli Capozzoli iniziò le sue scorribande, che proseguirono fino al 1828, quando costoro si unirono ai Filadelfi durante i Moti del Cilento, la dura repressione ad opera di Del Carrettostroncò la rivolta, i Capozzoli furono catturati l'anno seguente, giustiziati a Salerno e loro teste mozzate portate in mostra nei paesi circostanti.

Leggi speciali per la repressione del brigantaggio. Nel 1821 re Ferdinando I emise un decreto reale contenente norme severissime per la repressione del brigantaggio nei territori continentali del Regno di Napoli. Nei territori del Sud continentale venivano istituite quattro corti marziali, la Campania al maresciallo Salluzzi; l'Abruzzo, Molise, Terra di Lavoro al maresciallo Mari; Basilicata e Puglia meridionale al maresciallo Roth; la Calabria al maresciallo Pastore. In tutti i comuni borbonici venivano pubblicate delle liste di banditi, dette “Liste di fuor bando”, contenenti i nomi dei ricercati per brigantaggio, che potevano essere uccisi da chiunque, ricevendo anche un premio in denaro, rispettivamente di 200 ducati per il capobanda e di 100 per il semplice componente la banda. Le norme del Decreto reale borbonico 110/1821 prevedevano la pena di morte per chiunque facesse parte di una banda armata (era sufficiente essere membri di un gruppo anche di soli tre uomini, di cui anche uno solo armato) che commettesse crimini di qualsiasi natura. Era prevista la pena di morte anche per tutti i “manutengoli”, ovvero per quelli che, in qualunque modo, aiutassero, favorissero o si rendessero complici dei briganti: informatori, ricettatori, etc. Veniva concessa l'amnistia, ma solo per i briganti che eliminavano altri briganti. Ad esempio, un bandito otteneva l'impunità per i propri reati uccidendo un altro bandito della stessa banda, mentre un capobrigante era amnistiato soltanto se uccideva tre banditi. Se invece un bandito uccideva un capobanda, otteneva la grazia ed era anche premiato. Si cercava in questo modo d'istigare i briganti ad eliminarsi a vicenda. Il brigantaggio interessò in genere, tutta la permanenza della dinastia borbonica sul trono napoletano: «... La crisi economica del 1825-1826 prostrò il mondo delle campagne diede via alla ripresa della guerriglia rurale e a clamorosi episodi di brigantaggio» Spagnoletti segnala, in età borbonica, un «...ribellismo endemico, spesso sfociato nel brigantaggio di estese zone delle Calabrie e del Principato Citra...». Per l'abilità dimostrata durante il periodo murattiano, Ferdinando I confermò nel suo incarico il generale Charles Antoine Manhès, promosso nel 1827 a inspecteur général de gendarmerie. Ancora nell'ottobre 1859, pochi mesi prima della fine del Regno delle Due Sicilie, il re Francesco II con il Decreto n. 424 del 24 ottobre 1859 conferì a Emanuele Caracciolo, comandante in seconda della gendarmeria, destinato nelle tre Calabrie, il potere di arrestare e far processare dagli ordinari consigli di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria coloro che si macchiavano dei seguenti reati:

Comitiva armata;

Resistenza alla forza pubblica;

brigantaggio;

favoreggiamento al brigantaggio.

Il procedimento giudiziario avrebbe dovuto svolgersi secondo l'articolo 339 e seguenti dello Statuto Penale Militare e le condanne eseguire secondo l'articolo 347 del medesimo statuto, entrambi facenti parte del capitolo IX "Della processura subitanea". L'articolo 339 affermava la necessità di un "pronto esempio" per quei reati che possono «interessare la militar disciplina e la sicurezza delle truppe», e per «impedire le funeste conseguenze di simili reati» si adopererà «un più spedito giudizio che si chiamerà subitaneo». L'articolo 347 recita: "Le decisioni de' Consigli di guerra radunati con modo subitaneo non ammettono richiamo all'alta Corte militare e vengono eseguite nello stesso termine che il rispettivo Consiglio stabilirà", ossia le condanne sono inappellabili. Nel 1844 il brigante calabrese Giuseppe Melluso, rifugiato a Corfù in quanto ricercato per omicidio, partecipo' come guida allo sbarco a Cosenza della spedizione antiborbonica dei fratelli Bandiera. Il brigantaggio calabrese di questo periodo ispirò nel 1850 a Vincenzo Padula il dramma Antonello capobrigante calabrese.

Stato pontificio. Costumi dei briganti della campagna romana all'inizio del secolo XIX. Tavola da: Maria Calcott , Maria Graham, Three months passed in the mountains east of Rome, 1820. In testa un alto cappello conico adorno con bande alterne rosse bianche; il corpo ricoperto da un ampio mantello; una giacchetta di velluto blu, gilet ornata con bottoni di filigrana d'argento; camicia di lino; brache aderenti, allacciate sotto il ginocchio; ai piedi le caratteristiche cioce. L'abbigliamento è completato da una cartucciera in cuoio, attorno alla vita (detta "padroncina"); un'altra cintura di cuoio scende dalla spalla a mo' di bandoliera e porta un fodero per coltello, forchetta e cucchiaio; un grosso coltello da caccia posto di traverso sul davanti; un cuore d'argento, contenente una immagine della Madonna e Bambin Gesù, appuntato all'altezza del cuore (un altro simile spesso era appeso al collo). Grossi orecchini d'oro e ed altri oggetti (come anelli, catene, orologi) sempre d'oro arricchivano il costume. Il continuo imperversare dei briganti negli stati pontifici obbligò il cardinale Fabrizio Spada, segretario di stato di Innocenzo XIIIad emanare il 18 luglio 1696 un apposito editto contro "Grassatori, banditi, facinorosi e malviventi", per obbligare la popolazione alla delazione dei tali, minacciando galera o pena della vita per chi avesse taciuto; promettendo un premio di 100 scudi d'oro per chi avesse causato la cattura di un criminale ricercato. Nonostante questo editto, la situazione non sembrò cambiare e, agli inizi del secolo XIX, l'area inclusa fra l'Aquila, Terracina, i fiumi Tevere e Garigliano era ancora sempre, soggetta alla frequente attività di briganti. Nei dintorni di Terracina imperversava per circa 40 anni il brigante Giuseppe Mastrilli, quando questi venne catturato, la sua testa fu esposta a Terracina, rinchiusa in una gabbietta di ferro, a Porta Albina che quindi venne popolarmente chiamata "Porta Mastrilli", la testa rimase esposta fino al 19 ottobre 1822, quando fu rimossa in conseguenza a petizione popolare. Lo storico Antonio Coppi, così descrive al situazione nello stato pontificio, al tempo della Restaurazione: «Le provincie prossime a Roma furono per molti anni tormentate dagli assassini (detti volgarmente briganti), male comune colle vicine [aree] napoletane degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e della Puglia. Nelle sollevazioni di molte popolazioni contro i Francesi, allorquando essi occupavano queste regioni, non pochi erano corsi alle armi, più per amore della rapina che della patria. Alcuni si assuefecero in tal guisa al ladroneccio e vi persistettero anche dopo terminati i popolari tumulti. Formati così diversi nocchj di ladri, che scorrevano armati per le campagne, recavansi ad unirvisi molti di coloro che avevano la stessa perversa inclinazione, o che per commessi delitti divenivano fuggiaschi... Uniti in bande costringevano i contadini ed i pastori a somministrar loro il vitto. Violavano le femmine che potevano raggiungere. Assaltavano i doviziosi, e non contenti di rapir loro quanto portavano, li conducevano sulle montagne e gli imponevano enormi taglie pel riscatto. Se non ricevevano il chiesto denaro li trucidavano fra' più orribili tormenti». Fra questi il brigante più famoso fu Antonio Gasbarrone detto Gasparrone il cui aiutante Tommaso Transerici fu l'artefice del tentato sequestro di Luciano Bonaparte dalla sua villa tuscolana in Frascati nel 1817. Sei banditi penetrarono in tale villa e, non trovandolo rapirono il suo segretario, per il quale chiesero il pagamento di un riscatto entro 24 ore, pena l'uccisione dell'ostaggio; al rapito spiegarono che, sia pur con rincrescimento sarebbe stato ucciso in caso di non pagamento, in quanto i briganti dovevano salvaguardare la loro fama di uomini d'onore nel mantenere la parola data; i banditi nei loro rapimenti non distinguevano fra uomini e donne, tant'è vero che nello stesso periodo una giovane donna, rapita tra Velletri e Terracina, fu uccisa non essendo stato pagato il suo riscatto. A seguito di queste azioni delittuose il cardinale Ercole Consalvi emise un proclama invitando i banditi ad arrendersi, promettendo loro una debole pena di sei mesi di prigionia a Castel Sant'Angelo, il pagamento loro di una somma di denaro per i giorni di imprigionamento e quindi il loro rilascio. Un certo numero di costoro si consegnarono, furono imprigionati nel castello, dove furono posti in mostra al popolo come animali selvaggi in gabbia ma, promesse nonostante, non furono liberati al termine del periodo stipulato. Tali misure, tuttavia, non servirono a ridurre il brigantaggio, particolarmente attivo nella provincia di Campagna e Marittima al confine col Regno di Napoli, e il 18 luglio 1819 il cardinale Consalvi emise un duro editto, con il quale decretava la distruzione del paese di Sonnino, nel basso Lazio, giudicato principale luogo di rifugio dei briganti locali e attirante anche malfattori del vicino regno borbonico, e punto di riferimento per bande di fuorilegge di Fondi e di Lenola. Simultaneamente tale editto imponeva lo sfratto forzato degli abitanti. Il comune sarebbe stato suddiviso fra quelli circostanti non coinvolti nel brigantaggio. La distruzione del comune venne sospesa dopo l'abbattimento di venti case; l'ordine di distruzione totale del paese definitivamente annullato l'anno seguente. Con lo stesso editto il Consalvi, tentando di coinvolgere i comuni nella lotta contro il brigantaggio, li obbligò a difendere il loro territorio dalle incursioni dei briganti e a rimborsare i derubati del denaro pagato a seguito di estorsioni. Contemporaneamente decretò riduzioni temporanee di due anni delle imposte sul sale e sul macinato, per quei paesi che avessero collaborato nella cattura o uccisione dei briganti; incremento delle taglie poste sulla testa dei ricercati e pena di morte per chi li aiutasse. Le guardie armate antibrigantaggio, già istituite nel 4 maggio 1818, vennero rafforzate e fu concesso il porto d'armi gratuito a tutti i loro appartenenti. Ad ogni comune venne richiesto di munirsi d'una torre campanaria per segnalare incursioni banditesche e chiamare a raccolta per la difesa. Chiunque non rispondesse all'appello della campana, era da considerarsi complice dei malviventi e soggetto a pene pecuniarie e corporali. La resistenza alla forza armata e l'aiuto ai briganti erano punibili fino alla pena di morte, ogni azioni militare completata con successo contro i briganti comportava un automatico avanzamento di grado dell'ufficiale al comando, mentre viceversa, degradazione o espulsione erano previste nei casi di codardia e/o disonore nel corso del servizio. L'editto annunciava che nessun ulteriore amnistia sarebbe stata concessa, ma lasciava un mese di tempo per arrendersi ed appellarsi alla clemenza del Pontefice. Nel 1821 vennero assaliti il monastero dei frati camaldolesi dell'Eremo di Tuscolo e un collegio per fanciulli alle porte di Terracina. Perdurando il brigantaggio nella provincia di Campagna e Marittima, nel 1824 vi fu appositamente inviato il cardinale Antonio Pallotta con pieni poteri, con la nomina a "legato a latere" per combatterlo. Il cardinale si insediò a Ferentino e il 25 maggio emise un editto al fine di estirpare il brigantaggio e rendere sicure le vie di comunicazione, lungo le quali avvenivano numerose aggressioni contro i viaggiatori. Alcune aggressioni furono perpetrate contro viandanti stranieri, provocando così azioni di protesta da parte dei rappresentanti del corpo diplomatico accreditato a Roma. Nell'editto il cardinale condannava a morte chiunque fosse indicato come brigante, senza alcun processo e chiunque poteva giustiziarlo e consegnato il cadavere alle autorità ricevere un premio di mille scudi:

«I. I malviventi, e i rei di qualunque delitto compreso sotto il titolo del così detto Brigantaggio mai avranno amnistia, minorazione, o commutazione di pena.

II. Quelli, che la nostra Legazione avrà pubblicato come tali, s'intenderanno con questo solo atto condannati a Morte; tutti i loro Beni confiscati, e chiunque potrà ucciderli impunemente. Fin d'ora intanto per la sua speciale notorietà si pubblica il Capo Banda Gasbarrone.

III. I Contumaci così dichiarati, cadendo in potere della Giustizia identificata la persona, nel perentorio termine di 24 ore, senza altro Processo, formalità, e Giudizio saranno esecutati colla Forca.

IV. Un solo mezzo avrà ognuno de' tali Delinquenti per esimersi dalla pena , quello cioè di darne un altro in mani alla Forza pubblica, vivo o morto in ogni modo. Sarà egli allora assoluto per Grazia, e solamente gli verrà assegnata una Città, Terra, o luogo dello Stato fuori della Legazione, da estendersi ancora ad un intera Delegazione o Provincia, se il malvivente consegnato sia un capo di conventicola, detto Capo Banda....

IX. Qualunque Individuo non Possidente darà vivo, o morto un Malvivente dichiarato , conseguirà il premio di Scudi Mille , che gli verrà immediatamente pagato da Noi sulla semplice verificazione del Fatto.»

(A. Card. Pallotta Legato., Editto del cardinale Pallotta contro i Malviventi di Marittima e Campagna)

L'operato di Pallotta si rivelò inefficace e dopo due mesi dall'incarico Leone XII, vista anche la necessità di provvedere alla sicurezza nelle strade per i pellegrini che sarebbero giunti a Roma per la celebrazione dell'anno santo 1825; lo sostituì con monsignor Giovanni Antonio Benvenuti affiancato da Ruvinetti, colonnello dei carabinieri papalini. Venne imposto il coprifuoco ai parenti dei briganti e a tutti i sospetti; questi ultimi inoltre, per poter uscire dal loro comune, dovevano essere muniti di apposito permesso. Furono controllati anche i movimenti dei cacciatori e pastori; imposto l'obbligo di denuncia della presenza di briganti e tutti i delitti attribuibili al brigantaggio vennero sottoposti al giudizio sommario d'un tribunale, presieduto dallo stesso Benvenuti. Nel 1825 viene infine posto termine alle attività di Gasbarone, che a seguito di una trattativa col vicario generale di Sezze, don Pietro Pellegrini, viene convinto a consegnarsi con la promessa del perdono pontificio, viceversa una volta catturato sarà imprigionato, senza esser mai processato, ma spostato di tempo in tempo nelle diverse prigioni dello stato pontificio e, causa la sua fama che travalicava le Alpi, oggetto di visite curiose ad parte degli stranieri in transito a Roma; Gasbarone sarà infine graziato dalla stato italiano nel 1870, quando a seguito della breccia di Porta Pia i detenuti comuni nelle carceri passeranno sotto la custodia italiana. È in questo periodo (inizi del secolo XIX) che maggiormente si diffuse in Europa la fama del brigantaggio nelle regioni italiane, Stendhal, nel suo breve scritto I briganti in Italia, pubblicato nel 1833 nel "Journal d' un voyage en Italie et en Suisse pendant l'année 1828 da Romain Colomb", dopo una rapido excursus storico che inizia citando i bravi che agivano nella Lombardia spagnola, Alfonso Piccolomini e Marco Sciarra, scrisse riferendosi al suo tempo: Tutta l’Italia è stata, contemporaneamente o di volta in volta, infestata dai briganti: ma è soprattutto negli Stati del papa e nel regno di Napoli che essi hanno regnato più a lungo e hanno proceduto in maniera più metodica e costante insieme. Là essi hanno un’organizzazione, dei privilegi e la certezza dell’impunità e, se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo, la loro fortuna è fatta. È dunque a questo fine che tendono costantemente per tutto il tempo in cui esercitano il loro infame mestiere. Molti furono anche i pittori e gli incisori che illustrarono - soprattutto con tavole litografiche spesso acquarellate a mano - la vita e le gesta dei briganti di quel periodo, attivi nel Lazio e nelle regioni circostanti. Fra tali artisti, i più famosi furono Bartolomeo Pinelli - il maggiore - F. Cerrone, Muller, Horace Vernet, Léon Cogniet, Louis Léopold Robert, Audot, e successivamente da Anton Romako, le opere di costoro sono spesso erroneamente utilizzate per illustrare testi che sono limitati al brigantaggio post-unitario, cioè posteriore alle vicende raffigurate.

Legazione delle Romagne. L'area romagnola a metà del secolo XIX risultava afflitta da bande di briganti che secondo il Giornale di Roma "invadevano le case, rapinavano i viandanti e grassavano ognora diligenze e corrieri, estorcendo migliaia e migliaia di scudi", in risposta a queste azioni le autorità reagirono con una colonna mobile di gendarmeria effettuando arresti e processi con giudizio statario; in due soli processi svoltisi a Faenza e Imola furono condannate e fucilate 82 persone, 10 ebbero la pena capitale commutata a carcere e altri 13 pene detentive fino al carcere a vita e, nel marzo 1851 un centinaio di persone erano arrestate in attesa di simili processi a Bologna. Il più noto fra i briganti romagnoli fu Stefano Pelloni, detto il Passatore, soprattutto attivo in Romagna nella prima metà del secolo XIX, in particolare nei tre anni successivi ai moti rivoluzionari del 1848. Delle sue gesta, quelle più famose furono le occupazioni a banda armata di interi paesi Bagnara di Romagna (16 febbraio 1849), Cotignola (17 gennaio 1850), Castel Guelfo (27 gennaio 1850), Brisighella (7 febbraio 1850), Longiano (28 maggio 1850), Consandolo (9 gennaio 1851) e Forlimpopoli (sabato, 25 gennaio 1851), durante le quali metteva a sacco le abitazioni dei più ricchi, che venivano torturati e seviziati per farsi rivelare i nascondigli degli scudi e delle gioie, mentre le donne venivano stuprate. Finì ucciso in uno scontro con le truppe papaline a Russi nel 1851. Nonostante la sua ferocia, seppe dare di sé un'immagine di combattente contro i soprusi dei ricchi e potenti; tale immagine fu poi divulgata da una certa cultura popolare romagnola, che esagerò nel descrivere Pelloni come un giustiziere difensore di oppressi e miserabili; arrivando a definirlo "Passator cortese" e utilizzandone persino il ritratto come marchio di vini autoctoni.

Il Lombardo-Veneto. Nelle Prealpi lombarde a fine Settecento ed inizio Ottocento si svilupparono forme di brigantaggio in parte legate a condizioni di indigenza e in parte legate a forme di lotta contro la presenza francese. Tra i principali briganti i più rappresentativi e ricordati sono Giacomo Carciocchi attivo nella zona di Plesio, che comandava una banda di rivoltosi che si era nominata Armata cattolica e chiamata dai tribunali Briganti del Lario o Briganti della montagna di Rezzonico e Vincenzo Pacchiana, attivo nella Val Brembana, ricordato come una sorta di Robin Hood locale. Pacchiana morì il 6 agosto 1806 ucciso da Carciocchi, presso cui si era rifugiato, la sua testa tagliata venne consegnata alle autorità francesi dal suo uccisore, per ottenere la taglia di 60 zecchini, e fu esposta a monito sotto la ghigliottina alla Fara (località nei pressi di porta sant'Agostino) a Bergamo. Il ricordo di questi capi briganti e dei loro compari è rimasto nell'immaginario popolare divenendo maschere del teatro delle marionette. Conclusosi il periodo napoleonico, e ripristinata l'autorità austriaca, allargata al Veneto, quest'ultimo e l'area della Bassa Mantovana, in particolare le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova si trovarono anch'esse sottoposte a scorrerie di briganti, riunitisi in piccole bande composte da disertori dell'esercito austriaco, del precedente esercito del Regno italico e persone in condizioni di indigenza. A seguito dell'accentuarsi di attività criminali nei pressi di Este le autorità austriache istituirono due sezioni venete e lombarde del tribunale statario e la Commissione inquirente militare in Este che dal giugno 1850 al giugno 1853 svolsero 1400 processi, emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite».

Piemonte. Nel corso del periodo napoleonico, nella zone compresa fra l'alessandrino e la Liguria, fu attivo Giuseppe Mayno, che si faceva chiamare Re di Marengo e Imperatore delle Alpi, la sua banda arrivò nel novembre 1804 ad assalire la comitiva che accompagnava la carrozza di papa Pio VII in viaggio verso a Parigi per l'incoronazione di Napoleone. Venne ucciso il 12 aprile 1806 in un agguato mentre si recava a visitare la moglie, il suo corpo venne esposto a monito in Piazza d'Armi ad Alessandria, secondo Lombroso «Mayno della Spinetta era fedele e appassionato marito; e in causa della moglie fu preso». Un altro brigante, attivo in quel periodo nel Cuneese fu Giovanni Scarsello , capo della banda dei "fratelli di Narzole", che finirà ghigliottinato, mentre nel vercellese furono attivi i fratelli Canattone, che derubavano i viandanti che traghettavano per attraversare il fiume Elvo nella zona di Formigliana.

Periodo postunitario.

Regno d'Italia. Con la nascita del Regno d'Italia nel 1861, ma anche prima con l'arrivo di Garibaldi a Napoli, sorsero di nuovo insurrezioni popolari, questa volta contro il nuovo governo, che interessarono le ex province del Regno delle Due Sicilie. Tra le cause principali del brigantaggio post-unitario si possono elencare: il serio peggioramento delle condizioni economiche; l'incomprensione e indifferenza della nuova classe dirigente, per la popolazione da loro amministrata; l'aumento delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità; l'aggravarsi della questione demaniale, dovuta all'opportunismo dei ricchi proprietari terrieri. Il brigantaggio, secondo alcuni, fu la prima guerra civile dell'Italia contemporanea e fu soffocato con metodi brutali, tanto da scatenare polemiche persino da parte di esponenti liberali e politici di alcuni stati europei. Tra i politici europei che espressero critiche nei confronti dei provvedimenti contro il brigantaggio vi furono lo scozzese McGuire, il francese Gemeau e lo spagnolo Nocedal. Alcune correnti di pensiero considerano il brigantaggio postunitario come una sorta di guerra di resistenza, benché tale ipotesi sia molto controversa. I briganti del periodo erano principalmente persone di umile estrazione sociale, ex soldati dell'esercito delle Due Sicilie ed ex appartenenti all'esercito meridionale, e vi erano anche banditi comuni, oltre che briganti già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico. La loro rivolta fu incoraggiata e sostenuta dal governo borbonico in esilio, dal clero e da movimenti esteri come i carlisti spagnoli. Numerosi furono i briganti del periodo che passarono alla storia. Carmine "Donatello" Crocco, originario di Rionero in Vulture (Basilicata), fu uno dei più famosi briganti di quel periodo. Egli riuscì a radunare sotto il suo comando circa duemila uomini, compiendo scorribande tra Basilicata, Campania, Molise e Puglia, affiancato da luogotenenti come Ninco Nanco e Giuseppe Caruso. Occorre anche sottolineare che il brigantaggio in Lucania era manovrato soprattutto da ex murattiani indipendentisti, affiancati dal francese Langlois, che agevolavano il tentativo francese di rendere il Sud ingovernabile e, tramite una conferenza internazionale, toglierlo ai Savoia per assegnarlo alla casata filo-francese dei Murat. Da menzionare è anche il campano Cosimo Giordano, brigante di Cerreto Sannita, che divenne noto per aver preso parte all'attacco (e al successivo massacro) ai danni di alcuni soldati del regio esercito, accadimento che ebbe come conseguenza una violenta rappresaglia sulle popolazioni civili di Pontelandolfo e Casalduni, ordinata dal generale Enrico Cialdini. Altri noti furono Luigi "Chiavone" Alonzi, che agì tra l'ex Regno borbonico e lo Stato Pontificio, Michele "Colonnello" Caruso, uno dei più temibili briganti che operarono in Capitanata, e l'abruzzese Giuseppe Luce della Banda di Cartore che, insieme ad altri complici, il 18 maggio 1863, rapì e uccise, bruciandolo vivo, il ricco possidente terriero e capitano della Guardia nazionale italiana Alessandro Panei di Santa Anatolia (Borgorose). Anche le donne parteciparono attivamente alle rivolte postunitarie, come le brigantesse Filomena Pennacchio, Michelina Di Cesare, Maria Maddalena De Lellis e Maria Oliverio. Per acquietare la ribellione meridionale, furono necessari massicci rinforzi militari e promulgazioni di norme speciali temporanee (come la legge Pica in vigore dall'agosto 1863 al dicembre 1865 su gran parte dei territori continentali del precedente regno delle Due Sicilie), dando origine uno scontro che porterà migliaia di morti. La repressione del brigantaggio postunitario fu molto cruenta e fu condotta col pugno di ferro da militari come Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, che destarono polemiche per i metodi impiegati. Alla sconfitta di questo brigantaggio contribuì anche il cambiamento di atteggiamento dello stato Pontificio, che dal 1864 non fornì più appoggio ai briganti, arrestando lo stesso Crocco, che cercava rifugio nel suo territorio; non più terra franca per i briganti, il Papato iniziò a sua volta a combatterli, istituendo un apposito reparto di "squadriglieri" e stipulando nel 1867 un accordo di collaborazione reciproca con le autorità italiane sullo sconfinamento delle truppe all'inseguimento di briganti in fuga; lo stesso anno fu emanato un editto firmato dal Delegato apostolico Luigi Pericoli, per le province di Frosinone e Chieti, che ricalcava le tematiche della legge Pica. Va evidenziato che questo aspetto di brigantaggio, inteso come rivolta antisabauda, interessò quasi esclusivamente i territori meridionali continentali ex borbonici, mentre in pratica non si verificò nei territori di tutti gli altri stati preunitari annessi dal Regno di Sardegna per formare l'Italia unita durante il Risorgimento. Tale diversità di avvenimenti e comportamenti indica la profonda differenza, già esistente nel 1861, tra il Nord-Centro ed il Sud della penisola, divario che sarà meglio noto con il nome di Questione meridionale, fonte di infiniti dibattiti e tesi. La questione non è ancora conclusa né definita unanimemente nelle sue cause da storici e studiosi.

Stato pontificio. A metà degli anni '60 del secolo XIX il brigantaggio crebbe notevolmente fino al 1867 e a partire da circa il 1865 si assistette ad un deciso cambio di politica nella lotta al brigantaggio da parte delle autorità vaticane, e con un articolo del 25 maggio 1867 Civiltà Cattolica arrivò ad accusare l'incremento del brigantaggio nelle province papaline alla fomentazione da parte del partito garibaldino allo scopo di indebolirne lo stato, aumentare il malcontento della popolazione e facilitare l'invasione dello stato e la conseguente presa di Roma. Nell'artico si legge: «Infatti noi abbiamo a suo tempo, coi documenti ufficiali e con le stesse parole dei Ministri e Deputati del Governo rivoluzionario che ora risiede in Firenze a Firenze, posto in chiaro che, tra i mezzi morali, sulla cui efficacia per abbattere il Governo pontificio faceasi grande assegnamento, primeggiava il brigantaggio; dal quale quegli onesti politici si ripromettevano queste conseguenze: 1" malcontento eccessivo delle popolazioni; 2" disorganamento delle truppe pontifìcie; 3" motivo in apparenza ragionevole alle truppe rivoluzionarie, per invadere le province meridionali della Chiesa, sotto colore di difendere le proprie frontiere, di accorrere per dovere di umanità a tutela dei popoli taglieggiati dai briganti, e di supplire alla impotenza del Governo pontificio. Di qui si spiegano gli incrementi del brigantaggio fino al Dicembre 1866 nelle province meridionali pontificie; essendo per altra parte notorio che a tal uopo il brigantaggio fu fomentato dal partito garibaldino, che intanto mirava a sommuovere eziandio Roma, dove anche presentemente fa, come vedremo a suo luogo, in questo stesso quaderno, supremi sforzi per recarvi la rivoluzione». Negli ultimi anni di vita dello Stato pontificio, le province Campagna e Marittima del Lazio meridionale continuarono ad essere infestata da bande di briganti, tra queste si distinse la banda capitanata dal brigante Cesare Panici, ricordata in particolare per il rapimento del bambino di undici anni Ignazio Tommasi avvenuto il 14 settembre 1867 sulla strada per Cori e il tentato sequestro, di Luigi Ricci, vescovo di Segni, fallito dopo un assalto alla sua diligenza.

Fine ottocento e inizio novecento. Fenomeni di brigantaggio, seppur di diversa natura da quelli che coinvolsero l'Italia meridionale a seguito dell'annessione al regno sabaudo, si svilupparono o continuarono ad essere presenti in diverse regioni d'Italia tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi anni del Novecento. In Maremma, area a cavallo tra la Toscana e il Lazio, le cause sono attribuibili ad un forte malcontento che si era diffuso nella popolazione, nei primi anni dopo l'Unità d'Italia, quando furono interrotti grandi lavori di bonifica idraulica e la riforma fondiaria. Tra i protagonisti di questo brigantaggio è ricordato Domenico Tiburzi, considerato un protettore dei deboli contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali; altri fuorilegge furono Ranucci, Menichetti e Albertini. Tuttavia, sia in Provincia di Grosseto che in quella di Viterbo, questo fenomeno - a differenza del brigantaggio meridionale - non divenne mai organizzato, in quanto ogni brigante era solitario, pur avendo i propri seguaci tra i quali cercava di diffondere il suo stile, non aspirava mai al controllo di un piccolo esercito. Le scorrerie e gli atti criminali erano prevalentemente rivolti ai simboli rappresentanti i grandi proprietari latifondisti e il nuovo Stato italiano; il bersaglio delle loro azioni, apparentemente non intese per la popolazione, erano i simboli dell'autorità pubblica: guardiani; guardacaccia e i carabinieri oltreché alle grandi tenute stesse. Tra i briganti della Tuscia viterbese, è famoso Luigi Rufoloni detto "Rufolone", originario di Sant'Angelo, piccolo borgo tra Roccalvecce e Graffignano, che s'era trasferito nella vicina Grotte Santo Stefano insediandosi nella macchia di Piantorena, proprietà della famiglia Doria Pamphili, dove era facile incontrare viandanti più o meno facoltosi, che si spostavano sulle poche strade che collegavano i paesi limitrofi.

Nell'Italia settentrionale Francesco Demichelis, detto il Biondin fu attivo con la sua banda soprattutto nella zona delle risaie del Novarese. Sul finire dell'Ottocento il brigantaggio era ancora vivo nella Basilicata (sebbene esso si fosse molto ridotto rispetto al decennio napoleonico e agli albori dell'Unità), con Michele di Gè - la cui autobiografia fu una delle fonti usate da Gaetano Salvemini per intervenire sulla questione meridionale - ed Eustachio Chita - generalmente considerato l'ultimo brigante lucano (i cui resti sono tuttora conservati nel Museo nazionale d'arte medievale e moderna della Basilicata nel comune di Matera città da cui proveniva il brigante ). In Calabria vi era Giuseppe Musolino, che acquistò notorietà anche sulla stampa straniera e divenne protagonista di canzoni popolari calabresi. Musolino si diede al brigantaggio dopo essere stato condannato per omicidio, malgrado le sue proteste d'innocenza, vendicandosi di coloro che lo avevano compromesso e tradito. Costui godeva dell'aiuto della popolazione locale, la quale vedeva in lui - com'era il solito - un simbolo di reazione contro le ingiustizie e i soprusi di quel tempo. In Sicilia alcuni briganti riscuotevano una grande ammirazione tra il popolo e le loro storie si diffondevano di bocca in bocca, spesso accrescendo ed esagerando le imprese e le lotte. Lo Stato Italiano iniziò una lotta serrata, per arginare e debellare questo fenomeno, che si ridusse con l'inizio del Novecento.

Cosa nostra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Cosa nostra» (nel linguaggio comune genericamente detta mafia siciliana o semplicemente mafia) è una espressione utilizzata per indicare un'organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico presente in Sicilia, Italia e in più parti del mondo. Questo termine viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America, dove viene identificata come Cosa nostra statunitense, sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale), per distinguerla dalle altre associazioni ed organizzazioni mafiose. Gli interventi di contrasto da parte dello Stato italiano si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta del XX secolo, attraverso le indagini del cosiddetto "pool antimafia", creato dal giudice Rocco Chinnici, in seguito diretto da Antonino Caponnetto. Facevano parte del pool anche i magistrati Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Storia.

Le origini. Nel significato criminale conosciuto oggi «Cosa nostra» nacque probabilmente nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei 'fattori' e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano, anche se in verità potrebbe essere molto più antica, dato che il feudo con tutto ciò che ne consegue, esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna. Cosa nostra, nacque perché fu da sempre sistema di potere e integrato con il potere politico-economico ufficiale vigente, iniziando così ad assumerne per suo conto le funzioni e le veci. «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, orfatto moltiplicare il numero dei reati. [...] Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito» (Rapporto giudiziario del procuratore generale Pietro Calà Ulloa.

L'unità d'Italia. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni di Palermo che aveva come protagonisti un gruppo di detenuti che godevano «di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione perché mafiosi, membri come tali di un'associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione». È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale. Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia è sostanzialmente attribuibile agli eventi contemporanei e successivi all'Unità d'Italia, in particolare a quella che fu l'acuta crisi economica da questa indotta in Sicilia e nel Meridione d'Italia. Infatti lo Stato italiano, non riuscendo a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale. Tuttavia, con il pretesto di proteggere gli agricoltori e contadini dal malgoverno feudale e dalla nobiltà, i mafiosi costrinsero gli agricoltori a pagare gli interessi per il contratto di locazione e a mantenere l'omertà. La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Uno dei più clamorosi processi di quegli anni fu quello tenutosi nel 1885 contro gli affiliati alla "Fratellanza di Favara", una cosca mafiosa operante nella provincia di Agrigento che aveva un rituale di iniziazione, il quale avveniva pungendo l'indice dei nuovi membri per poi tingere con il sangue un'immagine sacra, che veniva bruciata mentre l'iniziato recitava una formula di giuramento: tale cerimonia di affiliazione era tipica delle cosche mafiose di Palermo, a cui numerosi membri della "Fratellanza" erano stati affiliati nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica. Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.

Le rivendicazioni agricole. Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli. A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l'esercito per scioglierli con l'uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato. Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi; continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti. Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la "Fratellanza", detta anche "Onorata Società" (due dei termini usati all'epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come "vendetta" per l'azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo. Durante la presidenza di Giovanni Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all'eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti. Tuttavia "con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell'isola, infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così come le elezioni politiche ed amministrative". Per stroncare il pericolo "rosso", la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana, anch'essa preoccupata per gli sviluppi dell'ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziarono a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che assassinava sindaci, sindacalisti, preti, attivisti e agricoltori indisturbatamente. Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.

Il rapporto Sangiorgi. Al fine di contrastare il fenomeno, venne inviato in Sicilia Ermanno Sangiorgi, in veste di questore a Palermo nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d'Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con i mafiosi della Conca d'Oro, che venivano assunti come guardiani e fattori nelle loro tenute e pagati per ricevere "protezione". Nell'ottobre 1899 Francesco Siino, capo della cosca di Malaspina sfuggito miracolosamente ad una sparatoria tesagli dagli uomini di Antonino Giammona, capo della cosca dell'Uditore, nel contesto dalla guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il suo avversario Giammona gli contendeva i racket del commercio di limoni, delle rapine, delle estorsioni e della falsificazione delle banconote. Inoltre dichiarò che la Conca d'Oro era divisa in otto cosche mafiose: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, Olivuzza.

Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell'organizzazione della mafia palermitana con un totale di 280 "uomini d'onore". Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un'associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze. Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, vivendo per lo più di rapine. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo. Queste due condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola. Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro. Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperarono chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora cercarono di riformare i fasci o comunque parteciparono ai consigli socialisti siciliani. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il ventennio fascista. Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l'incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo. L'azione del Mori fu dura. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l'assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra statunitense, mentre un'altra restò in disparte. Il "prefetto di ferro" scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF. Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l'accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c'entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: "Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba) se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità [...] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino." I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone. La mafia non appare tuttavia sconfitta dall’azione di Mori. Nel 1932, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi (le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti rimandano a delitti tipici di organizzazioni mafiose); intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono incendi, danneggiamenti, omicidi [...] a sfondo eminentemente associativo; ma si potrebbero citare molti altri episodi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino. Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri, pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti. Mori non ha sconfitto la mafia. Altri mafiosi iscritti al PNF erano Sgadari e Mocciano. Nel 1937 Genovese venne accusato di aver ordinato l'omicidio del gangster Ferdinando "Fred" Boccia, che era stato assassinato perché aveva preteso per sé una grossa somma che lui e Genovese, barando al gioco, avevano sottratto ad un commerciante; per evitare il processo, Genovese fuggì in Italia, dove si stabilì a Nola. Tramite le sue frequentazioni, conobbe alcuni gerarchi fascisti, finanziando anche la costruzione di una "Casa del Fascio" a Nola, inoltre si presume che Genovese fosse il rifornitore di cocaina di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini.

La seconda guerra mondiale, il separatismo e i moti contadini. Esistono teorie che affermano che il mafioso statunitense Lucky Luciano venne arruolato per facilitare lo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) e su questo indagò pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver (1951), la quale giunse a queste conclusioni: «Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni». Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (all'epoca detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e si offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se lo storico Michele Pantaleone sostenne di oscuri accordi con il boss mafioso Calogero Vizzini per il tramite di Luciano al fine di facilitare l'avanzata americana, smentito però da altre testimonianze: infatti numerosi storici liquidano l'aiuto della mafia allo sbarco alleato come un mito perché avvenne in zone dove la presenza mafiosa era tradizionalmente assente ed inoltre gli angloamericani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli. In un rapporto del 29 ottobre 1943, firmato dal capitano americano W.E. Scotten, si legge che in quel periodo l'organizzazione mafiosa «è più orizzontale [...] che verticale [...] in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale» in seguito alla repressione del periodo fascista. Tuttavia, dopo la liberazione della Sicilia, l'AMGOT, il governo militare alleato dei territori occupati, era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste e decise di privilegiare i grandi proprietari terrieri e i loro gabellotti mafiosi, che si presentavano come vittime della repressione fascista: ad esempio il barone Lucio Tasca Bordonaro venne nominato sindaco di Palermo, il mafioso Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo sovrintendente all'assistenza pubblica di Mussomeli e Vincenzo Di Carlo (capo della cosca di Raffadali) responsabile dell'ufficio locale per la requisizione dei cereali. Nello stesso periodo emergeva il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, la prima organizzazione politica a mobilitarsi attivamente durante l'AMGOT, i cui leader furono soprattutto i grandi proprietari terrieri, tra cui spiccò il barone Lucio Tasca Bordonaro (in seguito indicato come un capomafia in un rapporto dei Carabinieri). Infatti numerosi boss mafiosi, fra cui Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi, da cui poterono esercitare con facilità le attività illecite del furto di bestiame, delle rapine e del contrabbando di generi alimentari.

Salvatore Giuliano. Nell'autunno 1944 il decreto del ministro dell'agricoltura Fausto Gullo (che faceva parte del provvisorio governo italiano subentrato all'AMGOT) stabiliva che i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che coltivavano come affittuari e venivano autorizzati a costituire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva. L'applicazione di tale normativa produsse uno scontro sociale tra i proprietari terrieri conservatori (spalleggiati dai loro gabellotti mafiosi) e i movimenti contadini guidati dai leader sindacali, tra i quali spiccarono Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, che vennero barbaramente assassinati dai mafiosi insieme a molti altri capi del movimento contadino che in quegli anni lottarono per la terra negata. Intanto nella primavera 1945 l'EVIS, il progettato braccio armato del MIS, assoldò il bandito Salvatore Giuliano (capo di una banda di banditi associata al boss mafioso Ignazio Miceli, capomafia di Monreale), che compì imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto per dare inizio all'insurrezione separatista; anche il boss Calogero Vizzini (che all'epoca era il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta) assoldò la banda dei "Niscemesi", guidata dal bandito Rosario Avila, che iniziò azioni di guerriglia compiendo imboscate contro le locali pattuglie dei Carabinieri. Nel 1946 il MIS decise di entrare nella legalità ma ciò non fermò il bandito Giuliano e la sua banda, che continuarono gli attacchi contro le caserme dei Carabinieri e le leghe dei movimenti contadini, che culminarono nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite. Infine la banda Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra ma morì avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954.

Il dopoguerra e la speculazione edilizia. Nel 1950 venne varata la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione: vennero istituiti l'ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e numerosi consorzi di bonifica, la cui direzione venne affidata a noti mafiosi come Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i quali realizzarono enormi profitti incassando gli indennizzi degli appezzamenti ceduti all'ERAS e poi rivenduti ai singoli contadini. La riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (importante per gli interessi dei mafiosi, che dopo la riforma riuscirono a rivendere i feudi a prezzo maggiorato all'ERAS) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico. In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1350 a Palermo (sede del nuovo governo regionale), la quale era devastata dai bombardamenti del 1943 e 40.000 suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni. Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti quegli anni vedevano l'ascesa dei cosiddetti “Giovani Turchi” democristiani Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, i quali erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell'amministrazione locale; durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati), che permisero l'abbattimento di numerose residenze private in stile Libertycostruite alla fine dell'Ottocento nel centro di Palermo. In particolare, nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia, e furono anche favoriti noti costruttori mafiosi (Francesco Vassallo e i fratelli Girolamo e Salvatore Moncada), che riuscirono a costruire edifici che violavano le clausole dei progetti e delle licenze edilizie. Inoltre nell'immediato dopoguerra numerosi mafiosi americani (Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank Coppola, Nick Gentile, Frank Garofalo) si trasferirono in Italia e divennero attivi soprattutto nel traffico di stupefacenti verso il Nordamerica, stabilendo collegamenti con i gruppi mafiosi palermitani (Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Antonino Sorci, Tommaso Buscetta, Pietro Davì, Rosario Mancino e Gaetano Badalamenti) e trapanesi (Salvatore Zizzo, Giuseppe Palmeri, Vincenzo Di Trapani e Serafino Mancuso), i quali incettavano sigarette estere ed eroina presso i contrabbandieri corsi e tangerini. Nell'ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi americani e siciliani (Gaspare Magaddino, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri): gli inquirenti dell'epoca sospettarono che si incontrarono per concordare l'organizzazione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i mafiosi siciliani ed americani di quell'importante base di smistamento per l'eroina. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1957 il mafioso siculo-americano Joseph Bonanno (che si trovava in visita a Palermo) prospettò l'idea di creare una «Commissione» sul modello di quella dei mafiosi americani, di cui dovevano fare parte tutti i capi dei "mandamenti" della provincia di Palermo e doveva avere il compito di dirimere le dispute tra le singole Famiglie della provincia.

La "prima guerra di mafia" e la Commissione parlamentare antimafia. Le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti e al territorio sfociarono nell'uccisione del boss Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo; l'omicidio venne compiuto da Michele Cavataio (capo della Famiglia dell'Acquasanta), che voleva fare ricadere la responsabilità sui fratelli Angelo e Salvatore La Barbera (temibili mafiosi di Palermo Centro): infatti, dopo l'assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barberarimase vittima della «lupara bianca» su ordine della "Commissione" e ciò scatenò una serie di omicidi, sparatorie ed autobombe; Cavataio approfittò della situazione di conflitto per sbarazzarsi dei suoi avversari e per queste ragioni si associò ai boss Pietro Torretta ed Antonino Matranga (rispettivamente capi delle Famiglie dell'Uditoree di Resuttana): gli omicidi compiuti da Cavataio e dai suoi associati culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione di un'autobomba che stavano disinnescando e che era destinata al mafioso rivale Salvatore "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli. La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo: per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite. Nello stesso periodo la Commissione Parlamentare Antimafia iniziava i suoi lavori, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari, e concluderà queste indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti e polemiche. Intanto si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli: numerosi mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 (il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni ebbero condanne pesanti e il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente; un altro processo si svolse a Bari nel 1969 contro i protagonisti di una faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta: gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia criticò aspramente il verdetto. Nel marzo 1973 Leonardo Vitale, membro della cosca di Altarello di Baida, si presentò spontaneamente alla questura di Palermo e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo l'esistenza di una "Commissione" e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa: si trattava del primo mafioso del dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia (redatta nel 1976). Tuttavia Vitale non venne ritenuto credibile e la sua pena commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984.

La stagione dei grandi traffici. Dopo la fine dei grandi processi, venne decisa l'eliminazione di Michele Cavataio poiché era il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia", compresa la strage di Ciaculli, che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro i mafiosi: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Santa Maria di Gesù, Corleone e Riesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso) trucidò Cavataio nella cosiddetta «strage di viale Lazio». Dopo l'uccisione di Cavataio, nel 1970 si tennero una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, a cui parteciparono mafiosi della provincia di Palermo (Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio) e di altre province (Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, e Giuseppe Di Cristina, rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta subentrato al boss Giuseppe Genco Russo), i quali discussero sulla ricostruzione della "Commissione" e sull'implicazione dei mafiosi siciliani nel Golpe Borghese in cambio della revisione dei processi a loro carico; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Junio Valerio Borghese per ascoltare le sue proposte ma in seguito il progetto fallì. Durante gli incontri, venne costituito una specie di "triumvirato" provvisorio per dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo, che era composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Leggio (capo della cosca di Corleone), benché si facesse spesso rappresentare dal suo vice Salvatore Riina. Infatti nello stesso periodo il "triumvirato" provvisorio ordinò la sparizione del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» forse per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nell'uccisione di Enrico Mattei o nel Golpe Borghese. Le indagini per la scomparsa del giornalista furono coordinate dal procuratore Pietro Scaglione, che il 5 maggio 1971 rimase vittima di un agguato a Palermo insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "omicidio eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra.

Gaetano Badalamenti. Nel 1974 una nuova "Commissione" divenne operativa e il boss Gaetano Badalamenti venne incaricato di dirigerla; l'anno successivo il boss Giuseppe Calderone propose la creazione di una "Commissione regionale", che venne chiamata la «Regione», un comitato composto dai rappresentanti mafiosi delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Catania(escluse quelle di Messina, Siracusa e Ragusa dove la presenza di Famiglie era tradizionalmente assente o non avevano un'importante influenza), che doveva decidere su questioni e affari illeciti riguardanti gli interessi mafiosi di più province; Calderone venne anche incaricato di dirigere la «Regione» e fece approvare dagli altri rappresentanti il divieto assoluto di compiere sequestri di persona in Sicilia per porre fine ai rapimenti a scopo di estorsione compiuti dal boss Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore Riina: infatti Leggio e Riina compivano sequestri contro imprenditori e costruttori vicini ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti per danneggiarne il prestigio, e si erano avvicinati numerosi mafiosi della provincia di Palermo(tra cui Michele Greco, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Raffaele Ganci) e di altre province (Mariano Agate e Francesco Messina Denaro nella provincia di Trapani, Carmelo Colletti e Antonio Ferro nella provincia di Agrigento, Francesco Madonia nella provincia di Caltanissetta, Benedetto Santapaola a Catania), costituendo la cosiddetta fazione dei "Corleonesi" avversa al gruppo Bontate-Badalamenti. Inoltre gli anni 1973-74 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti i mafiosi palermitani e catanesi acquistavano carichi di sigarette attraverso Michele Zaza ed altri camorristi napoletani; addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione mafiosa Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli. Tuttavia nella seconda metà degli anni settanta numerose cosche divennero attive soprattutto nel traffico di stupefacenti: infatti facevano acquistare morfina base dai trafficanti turchi e thailandesi attraverso contrabbandieri già attivi nel traffico di sigarette e la facevano raffinare in eroina in laboratori clandestini comuni a tutte le Famiglie, che erano attivi a Palermo e nelle vicinanze; l'esportazione dell'eroina in Nordamerica faceva capo ai mafiosi palermitani Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate, Giuseppe Bono ma anche ai Cuntrera-Caruana della Famiglia di Siculiana, in provincia di Agrigento: secondo dati ufficiali, in quel periodo i mafiosi siciliani avevano il controllo della raffinazione, spedizione e distribuzione di circa il 30% dell'eroina consumata negli Stati Uniti. Nel 1977 Riina e il suo sodale Bernardo Provenzano (che avevano preso il posto di Leggio, arrestato nel 1974) ordinarono l'uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza però il consenso della "Commissione regionale": infatti Giuseppe Di Cristina si era opposto all'omicidio perché avverso alla fazione corleonese e quindi legato a Bontate e Badalamenti. Nel 1978 Francesco Madonia (capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta) venne assassinato nei pressi di Butera, su mandato di Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone poiché era legato a Riina e Provenzano, i quali, in risposta all'omicidio Madonia, assassinarono Di Cristina a Palermo mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese. Nello stesso periodo Riina fece espellere dalla "Commissione" anche Badalamenti (che fuggì in Brasile per timore di essere eliminato) e venne incaricato di sostituirlo Michele Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era strettamente legato alla fazione corleonese). Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza dai Corleonesi, scatenò una serie di "omicidi eccellenti": in quei mesi vennero trucidati il giornalista Mario Francese (26 gennaio), il segretario democristiano Michele Reina (9 marzo), il commissario Boris Giuliano (21 luglio) e il giudice Cesare Terranova (25 settembre); nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo per mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente".

La "seconda guerra di mafia". Nel marzo 1981 Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia e strettamente legato a Bontate, rimase vittima della «lupara bianca» per ordine dei Corleonesi; Bontate organizzò allora l'uccisione di Riina, il quale reagì facendo assassinare prima Bontate (23 aprile) e poi anche il suo associato Salvatore Inzerillo (11 maggio). Nel periodo successivo a questi omicidi, numerosi mafiosi appartenenti alle cosche di Bontate e Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati e fatti sparire; il gruppo di fuoco corleonese eliminò anche numerosi rivali nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia, che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca: in quell'anno (1981) si contarono circa 200 omicidi a Palermo e nella provincia, a cui si aggiunsero numerose «lupare bianche»; nel novembre 1982 furono ammazzati una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello, della Noce e dell'Acquasanta nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco e i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido: nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione. Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione", la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982). Tra il 1981 e il 1983 vennero commessi efferati omicidi contro 35 tra parenti e amici di Salvatore Contorno, un ex uomo di Bontate che era sfuggito ad agguato per le strade di Brancaccio (15 giugno 1981); si attuarono vendette trasversali pure contro i familiari di Gaetano Badalamenti e del suo associato Tommaso Buscetta, i quali risiedevano in Brasile ed erano sospettati di fornire aiuto al mafioso Giovannello Greco, che apparteneva alla fazione corleonese ma era considerato un "traditore" perché era stato amico di Salvatore Inzerillo ed aveva tentato di uccidere Michele Greco: il padre, lo zio, il suocero e il cognato di Giovannello Greco furono assassinati ma anche i due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Nello stesso periodo, nelle altre province Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani, Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982).

L'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982). In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del PCI ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo. In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.

Gli anni ottanta, i primi pentiti e i processi. Atti del Maxiprocesso. L'omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita. Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi mafiosi in Toscana; il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio. Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta; essi, basandosi soprattutto su indagini bancarie e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e procedimenti odierni, raccolsero un abbondante materiale probatorio che andò a confermare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che avevano deciso di collaborare con la giustizia poiché erano stati vittime di vendette trasversali contro i loro parenti e amici durante la «seconda guerra di mafia»: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna. Per queste ragioni, la "Commissione" incaricò il bossPippo Calò di organizzare insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno. L'8 novembre 1985 il giudice Falcone depositò l'ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori giustizia: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati, concludendosi il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero commutati tra gli altri a Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia. In seguito alla sentenza di primo grado, il 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore a Riina e ai suoi associati palermitani: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile. Infatti il 10 dicembre 1990 la Corte d'assise d'appello ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno.

Gli anni novanta: le stragi e la trattativa con lo Stato italiano.

La strage di Capaci (23 maggio 1992). L'avvio della stagione degli attentati venne deciso nel corso di alcune riunioni ristrette della "Commissione interprovinciale" del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della "Commissione provinciale" presieduta da Salvatore Riina, svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'onorevole Salvo Lima.

La strage di Via D'Amelio (19 luglio 1992). Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò tutte le condanne del Maxiprocesso, compresi i numerosi ergastoli a Riina e agli altri boss, avallando le dichiarazioni di Buscetta e Contorno. In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della "Commissione", sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire: il 12 marzo Salvo Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie ed alcuni agenti di scorta; il 19 luglio avvenne la strage di via d'Amelio, in cui rimasero uccisi il giudice Borsellino e gli agenti di scorta: in seguito a questa ennesima strage, il governo reagì dando il via all'"Operazione Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7000 uomini dell'esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili e oltre cento detenuti mafiosi particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno; il 19 settembre venne ucciso Ignazio Salvo (imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima.

Il 15 gennaio 1993 Riina venne arrestato dagli uomini del ROS dell'Arma dei Carabinieri. In seguito all'arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente": il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).

La strage di via Palestro (27 luglio 1993). La notte del 27 luglio esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto); (27 luglio 1993) il 23 gennaio 1994 era programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell'Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione fece fallire il piano omicida (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma). Inoltre nel novembre 1993 i boss Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano organizzato il sequestro di Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino (che stava collaborando con la giustizia) a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico. A partire dal 1993 si svolse un importante processo per mafia, intentato dalla Procura di Palermo nei confronti dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Alla fine di un lungo iter giudiziario la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una «...autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980», sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione. Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che si erano occupati dell'organizzazione degli attentati e per questo la strategia delle bombe si fermò. In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d'isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: nel 1996 il numero dei collaboratori di giustizia raggiunse il livello record di 424 unità; contemporaneamente le indagini della neonata Direzione Investigativa Antimafia portarono all'arresto di numerosi latitanti (Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca ed altre decine di mafiosi).

Gli anni duemila e l'arresto di Provenzano.

Bernardo Provenzano. A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l'arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l'alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando ulteriori conflitti. Benché Bernardo Provenzano si trovi ad essere l'ultimo dei vecchi boss, Cosa nostra non gode più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta. Nel 2002 viene arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che diviene collaboratore di giustizia. L'11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone. Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro. In seguito all'arresto dei Lo Piccolo si riteneva che al vertice dell'organizzazione criminale vi fosse Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), latitante dal 1993.

Gli anni duemiladieci e l'arresto di Settimo Mineo. Nonostante la ricerca dei superlatitanti Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi da parte delle forze dell'ordine prosegue, il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuano una importante operazione chiamata "Cupola 2.0" che ha portato all'arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto il nuovo capo dei capi di Cosa Nostra tramite elezione unanime in un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio. Secondo gli inquirenti tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova commissione provinciale dopo 25 anni dall'ultima formazione da parte dei corleonesi ponendo Mineo come l'erede assoluto di Salvatore Riina. L'arresto di quest'ultimo come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dal pm Antonio Ingroia mette in dubbio per la prima volta la posizione di potere di Matteo Messina Denaro nell'organizzazione visto che anche per tradizione il capo assoluto di Cosa Nostra non è mai stato un membro situato al di fuori della provincia di Palermo. Il 22 gennaio 2019 grazie alle rivelazioni dei due nuovi collaboratori Filippo Colletti. boss di Villabate e Filippo Bisconti, capomandamento di Belmonte Mezzagno, arrestati nell'ultima operazione, vengono catturate 7 persone tra cui Leandro Greco, nipote di Michele Greco detto "il Papa" e Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, con l'accusa di riformare ed organizzare una nuova commissione provinciale dopo l'arresto di Settimo Mineo.

Organizzazione e struttura. Secondo le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, l'aggregato principale di Cosa Nostra è la Famiglia (detta anche cosca), composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità i quali si aggregano per controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano; i componenti di una Famiglia collaborano con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati "avvicinati", i quali sono possibili candidati all'affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose "commissioni", come il contrabbando, la riscossione del denaro delle estorsioni, il trasporto di armi da un covo all'altro, l'esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi. Per essere affiliati nella Famiglia, esiste un rituale particolare (la cosiddetta "punciuta") che consiste nella presentazione dell'avvicinato ai componenti della Famiglia locale in riunione e, alla presenza di tutti, pronuncia un giuramento di fedeltà. I membri di una Famiglia eleggono per alzata di mano un proprio capo, che è solo un rappresentante, il quale nomina un sottocapo, un consigliere e uno o più capidecina, i quali hanno l'incarico di avvisare tutti gli affiliati della Famiglia quando si svolgono le riunioni. I rappresentanti di tre o quattro Famiglie contigue eleggono un capomandamento; tutti i mandamenti di una provincia eleggono il rappresentante provinciale, che poi nomina un sottocapo provinciale e un consigliere. Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone dichiarò che «[...] originariamente a Palermo, come in tutte le altre province siciliane, vi erano le cariche di "rappresentante provinciale", "vice-rappresentante" e "consigliere provinciale". Le cose mutarono con Greco Salvatore "Cicchiteddu" [nel 1957] poiché venne creato un organismo collegiale, denominato "Commissione", e composto dai capi-mandamento»; anche il collaboratore Francesco Marino Mannoia dichiarò che «[...] soltanto a Palermo l'organismo di vertice di Cosa nostra è la "Commissione"; nelle altre province, vi è un organismo singolo costituito dal rappresentante provinciale». I rappresentanti della provincia sono, a loro volta, componenti della cosiddetta "Commissione interprovinciale", soprannominata anche la "Regione", che nomina un rappresentante regionale e si riuniva solitamente per deliberare su importanti decisioni riguardanti gli interessi mafiosi di più province che esulavano dall'ambito provinciale e che interessano i territori di altre Famiglie.

I rapporti con lo Stato italiano. «Cosa nostra è da un lato contro lo Stato e dall'altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.» (Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia). Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose, si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di "convivenza" con questo fenomeno mai definitivamente soppresso. Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri deviati all'interno dello Stato. Uno dei momenti più critici è stata la trattativa stato - mafia: fu contattato Vito Ciancimino, per mezzo di rappresentanti del Ministro dell'Interno Nicola Mancino fra cui il capitano del ROS Giuseppe De Donno, per far smettere la stagione delle stragi del 1992, 1993, in cambio dell'annullamento del decreto legge 41 bis e altri benefici per i detenuti mafiosi. A proposito dei rapporti tra mafia e stato, si parlerebbe di rito peloritano per riferirsi ad una situazione di particolare contiguità (per non dire addirittura coincidenza) tra uomini di mafia e presunti esponenti delle istituzioni italiane. Esiste inoltre una Commissione regionale che decide l'andamento delle cose anche dal punto di vista politico, ovvero decide per chi, le persone di una famiglia e i loro affiliati dovessero votare. Per esempio Salvo Lima e Vito Ciancimino furono eletti da voti mafiosi di cittadini legati alla mafia della città di Palermo, Salvo Lima non mantenne le sue promesse elettorali e fu ucciso, invece Vito Ciancimino fu condannato per essere stato un mafioso conclamato.

Rapporti con le altre organizzazioni criminali. Cosa nostra, per via del suo carisma criminale e della sua potenza delinquenziale, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane sia estere. Il processo di globalizzazione interessa anche il fenomeno criminale mafioso, la mafia di tutti i paesi del mondo si unisce e collabora, portando avanti le sue attività criminali caratteristiche, come il narcotraffico, l'esportazione illegale di armi, la prostituzione, l'estorsione e il gioco d'azzardo, rappresentando un problema per l'umanità, per l'ordine civile della società e il quieto vivere.

Cosa nostra statunitense. La prima collaborazione tra le due organizzazioni viene formalmente identificata nel mese di ottobre del 1957 quando i capi siciliani ed americani si incontrarono all'Hotel delle Palme di Palermo per ricucire i rapporti dopo l'interruzione a causa dell'usura e del divorzio, due pratiche inammissibili per un vero uomo d'onore siciliano, e creare un anello di congiunzione per il traffico di droga su entrambi i fronti. In questo frangente sono proprio gli americani a suggerire ai siciliani l'istituzione di una struttura di vertice chiamata Commissione. Questa attività era gestita secondo quanto riferisce Rudolph Giuliani da Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti dove la mafia siciliana fungeva da contatto in Asia, Europa occidentale e chi portava la merce attraverso la frontiera degli Stati Uniti per la durata di quindici anni. Nel 2003, Bernardo Provenzano inviò dei suoi emissari, Nicola Mandalà di Villabate ed il giovane Gianni Nicchi per tentare di riattivare i rapporti di collaborazione con le famiglie di New York ma vennero riconosciuti e fotografati dagli agenti di polizia insieme al boss Frank Calì della famiglia Gambino.

Organizacija. Nel 1994 viene segnalata la presenza della mafia russa sul territorio degli Stati Uniti, ad Atlanta, e sulla loro collaborazione con Cosa nostra. Verso il 1998, la Solntsevskaya bratva di Mosca, può contare su un proprio capo a Roma che coordina gli investimenti della mafia russa in Italia. Dall'indagine risulta che rispettabili banchieri occidentali danno al boss russo consigli molto utili su come riciclare il denaro sporco dalla Russia in Europa, in maniera legale. Nel 2008 viene formalizzata la collaborazione fra mafia russa e Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra. Sotto la supervisione della mafia russa le aziende agricole italiane, i trasporti delle merci: sia a livello internazionale, sia all'interno del paese. La mafia russa nel mondo conta circa 300.000 persone ed è la terza organizzazione criminale per la sua influenza, dopo l'originale italiana e le reti criminali cinesi. Il 2 ottobre 2012 nel Report Caponnetto si leggono le infiltrazioni della mafia russa nella Repubblica di San Marino e in Emilia-Romagna a carattere predatorio come le estorsioni.

Mafia nigeriana. Il 19 ottobre 2015 per la prima volta in Sicilia presunti membri di un'organizzazione criminale straniera vengono accusati del reato di associazione mafiosa, in particolare viene scoperta la confraternita nigeriana dei Black Axe che gestisce lo spaccio e la prostituzione nel quartiere Ballarò di Palermo sotto l'egida di Giuseppe Di Giacomo, boss del clan di Porta Nuova, ucciso poi il 12 marzo 2014. Si scopre quindi un'alleanza tra il clan palermitano e l'organizzazione nigeriana. L'Aisi, inoltre, dal 2012 controlla il presunto capo della confraternita Eyie, Grabriel Ugiagbe, gestendo i suoi affari criminali da Catania, spostandosi poi in Nord Italia, Austria e Spagna. Le famiglie catanesi ancora non sono né in contrasto né in sodalizio con essi.

Operazioni di polizia. Old Bridge. Dopo l'arresto dei Corleonesi e di Salvatore Lo Piccolo, si ipotizzò un ritorno della famiglia Inzerillo dagli USA, i cosiddetti scappati dalla seconda guerra di mafiascatenata da Totò Riina. Si voleva infatti ristrutturare l'organizzazione e ritornare al passato e rientrare nel traffico di droga, attualmente in mano alla 'Ndrangheta. Il 7 febbraio 2008 però vengono arrestate 90 persone tra New York e la Sicilia, presunti appartenenti alle famiglie Inzerillo e il suo boss Giovanni Inzerillo, Mannino, Di Maggio e Gambino, tra cui anche il boss Jackie D'Amico: fu la più grande retata dopo "Pizza connection".

Clan dei Corleonesi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il clan dei Corleonesi era una fazione all'interno di Cosa Nostra formatasi negli anni settanta, così chiamata perché i suoi leader più importanti provenivano dalla famiglia di Corleone: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzanoe Leoluca Bagarella. I corleonesi non vanno tuttavia identificati solamente come gli appartenenti alla Famiglia di Corleone ma sono una fazione di cosche mafiose che hanno appoggiato prima Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Storia. Nel 1971 Luciano Liggio organizzò il sequestro a scopo di estorsione di Antonino Caruso, figlio dell'industriale Giacomo, ed anche quello del figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Salvatore Riina si rese responsabile del sequestro del costruttore Luciano Cassina, figlio del conte Arturo, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: Liggio e Riina provvidero a distribuire i riscatti dei sequestri tra le varie cosche della provincia di Palermoper ingraziarsele e queste si schierarono dalla loro parte, costituendo il primo nucleo della fazione corleonese, che era avversa ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, in quel periodo Riina lamentava che Badalamenti aveva organizzato da solo un traffico di stupefacenti «all'insaputa degli altri capimafia che versavano in gravi difficoltà economiche».

Secondo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, i Corleonesi «non hanno ucciso la gente (i Cinardo di Mazzarino, Bontate, Inzerillo), li hanno fatti uccidere mettendoli in una trappola. [...] Hanno creato le condizioni per far uccidere le persone dai loro uomini [...] hanno creato le tragedie in tutte le Famiglie. Le Famiglie non erano più d'accordo [...] così hanno fatto a Palma di Montechiaro, a Riesi, a San Cataldo, a Enna, a Catania». Per queste ragioni, all'interno delle provincie si vennero a creare i seguenti schieramenti: Bontate-Badalamenti, Corleonesi, Palermo e provincia.

Stefano Bontate e Mimmo Teresi (Santa Maria di Gesù), Gaetano Badalamenti (Cinisi), Salvatore Inzerillo (Passo di Rigano), Rosario Riccobono (Partanna-Mondello), Salvatore Scaglione(Noce), Antonino Salamone (San Giuseppe Jato), Giuseppe di Maggio (Brancaccio), Giovanni Di Peri (Villabate), Francesco Di Noto (Corso dei Mille), Giuseppe Panno (Casteldaccia), Calogero Pizzuto (Castronovo di Sicilia)

Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (Corleone), Michele Greco (Ciaculli), Bernardo Brusca (San Giuseppe Jato), Giuseppe Calò (Porta Nuova), Francesco Madonia (Resuttana), Antonino Geraci (Partinico), Raffaele Ganci (Noce), Pietro Aglieri (Santa Maria di Gesù), Filippo Marchese (Corso dei Mille), Giuseppe Giacomo Gambino (San Lorenzo), Francesco Di Carlo(Altofonte), Antonino Rotolo (Pagliarelli), Leonardo Greco (Bagheria), Giuseppe Farinella (San Mauro Castelverde)

provincia di Trapani

Salvatore Minore (Trapani), Natale e Leonardo Rimi (Alcamo), Ignazio e Nino Salvo (Salemi), Antonino Buccellato (Castellammare del Golfo)

Mariano Agate (Mazara del Vallo), Francesco Messina Denaro (Castelvetrano), Vincenzo Virga (Trapani)

provincia di Agrigento

Giuseppe Settecasi (Alessandria della Rocca), Leonardo Caruana(Siculiana), Carmelo Salemi (Agrigento)

Carmelo Colletti (Ribera), Antonio Ferro e Giuseppe De Caro (Canicattì)

provincia di Caltanissetta

Giuseppe Di Cristina (Riesi), Francesco Cinardo (Mazzarino), Luigi Calì (San Cataldo)

Giuseppe Madonia (Vallelunga Pratameno), Salvatore Mazzarese (Villalba)

provincia di Catania

Giuseppe Calderone e Alfio Ferlito (Catania)

Nitto Santapaola (Catania), Calogero Conti (Ramacca)

Nel 1978 Riina mise Badalamenti in minoranza nella "Commissione" con una scusa e lo fece espellere, facendo passare l'incarico di dirigere la "Commissione" a Michele Greco, con cui era strettamente legato; fu in questo periodo che la fazione corleonese prese la maggioranza nella "Commissione" perché Riina fece nominare nuovi capimandamento tra i suoi associati attraverso Michele Greco: dopo aver preso il sopravvento, i Corleonesi procedettero all'eliminazione dei propri avversari, che sfociò nella cosiddetta «seconda guerra di mafia» nella provincia di Palermo, ed insediarono una nuova "Commissione" provinciale e regionale, composte soltanto da esponenti della fazione corleonese fedeli a Riina e Provenzano. Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, si creò una divisione all'interno dello schieramento corleonese: infatti vi era una fazione contraria alla continuazione della cosiddetta "strategia stragista", guidata da Provenzano e composta dai boss Nino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Spera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Michelangelo La Barbera, Matteo Motisi, Giuseppe Madonia e Nitto Santapaola, mentre l'altra fazione era guidata da Leoluca Bagarella e comprendeva l'ala militare dell'organizzazione, composta da Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, i quali erano favorevoli alla continuazione degli attentati dinamitardi e riuscirono a mettere in minoranza la fazione di Provenzano, il quale confermò il suo appoggio alle stragi ma riuscì a porre la condizione che avvenissero in continente, cioè fuori dalla Sicilia, come già deciso prima dell'arresto di Riina.

Legami con la politica e la finanza. Vito Ciancimino. Il principale referente politico dei Corleonesi inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente dell'onorevole Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla "Commissione" gli omicidi dei suoi avversari politici, che vennero approvati dal resto della fazione corleonese, che ormai era la componente maggioritaria della "Commissione": il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra. Negli anni settanta i Corleonesi, attraverso Giuseppe Calò, si avvalevano di Roberto Calvi e Licio Gelli per il riciclaggio di denaro sporco, che veniva investito nello IOR e nel Banco Ambrosiano, la banca di Calvi. Nel 1981, a seguito del fallimento definitivo del Banco Ambrosiano, Calvi cercherà di tornare alla guida della banca per salvare il denaro investito dai Corleonesi andato perduto nella bancarotta, però i suoi tentativi falliranno e nel 1982Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano subentrato a Calvi, sopravvisse ad un agguato compiuto da esponenti della banda della Magliana legati a Giuseppe Calò; Calvi partì per Londra, forse per tentare un'azione di ricatto dall'estero verso i suoi precedenti alleati politici, tra cui l'onorevole Giulio Andreotti, ma il 18 giugno 1982 venne ritrovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge. Dopo l'inizio della «seconda guerra di mafia», i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, furono risparmiati dai Corleonesi per “i possibili collegamenti con Lima ed Andreotti”, venendo incaricati di curare le relazioni con l'onorevole Salvo Lima, che divenne il loro nuovo referente politico, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali, dopo essere stato legato a Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti sempre attraverso i cugini Salvo; infatti, secondo i collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo. Tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento all'allora presidente del consiglio Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza ed anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche ed, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò ad Ignazio Salvo.

Interesse per l'industria televisiva. I Corleonesi avevano in progetto l'acquisto di una rete televisiva Fininvest nei primi anni '90. Per ottenere la richiesta venne minacciato di morte con una lettera scritta a mano da Riina l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, alla missiva si ricollegano quindi precedenti intercettazioni telefoniche in cui l'uomo parlava di violente pretese di estorsioni, e l'allontanamento dei familiari all'estero per un po' di tempo voluto dallo stesso.

«Vi spiego cos’è davvero Cosa Nostra». Riflessioni di Giovanni Falcone pubblicate il 7 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Il pericolo – diceva Giovanni Falcone in una lezione tenuta nel 1989 – è quello di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del terzo mondo». «Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere». Oggi e domani, in due puntate, pubblichiamo il testo integrale di quella lezione tenuta da Falcone tre anni prima di essere ucciso. Il racconto della sottovalutazione, durata decenni, da parte dello Stato e in particolare della magistratura. Pubblichiamo la prima parte (la seconda parte la pubblicheremo domani) della lezione di Giovanni Falcone sulla mafia, che fu tenuta nel 1989 ma rimase inedita fino a qualche giorno dopo la sua morte (nel maggio del 92). Poi la pubblicò l’Unità con la premessa che riportiamo qui di seguito. Giovanni Falcone lesse questo testo nell’estate dell’89 a Palermo. Il manoscritto, spesso citato e mai pubblicato integralmente, reca tracce evidenti del tormento dell’autore che esponeva per la prima volta in pubblico le idee che avrebbero segnato il suo distacco dal fronte più tradizionale dell’antimafia. Dicendo chiaro che “il terzo livello non esiste” Falcone propone in effetti l’idea per cui la mafia è solo e soltanto un’organizzazione criminale. Con fondamenti corposi nella storia e nella cultura della sua Sicilia ma con una autonomia forte di scelte e di orientamenti. Capace di usare diversi tipi di alleanze o di complicità a livello politico ed amministrativo e mai subordinata, però, alle indicazioni che da lì dovessero venirne. Non è difficile capire, sulla base di questa analisi, il perché delle scelte successive di Falcone. Se è vero infatti che i mandanti delle imprese mafiose non vanno cercati a livello di un mitico Palazzo, la lotta contro la mafia deve essere sviluppata soprattutto a livello dello Stato e dei suoi apparati repressivi: mettendoli in grado di esercitare un’azione di contrasto efficace attraverso la predisposizione di strumenti all’altezza del compito loro assegnato. Occuparsi del loro funzionamento, per Falcone, non è uno dei problemi, è il problema: proponendosi un programma di attività all’interno del quale bisogna attaccare, con la stessa durezza, la debolezza del rappresentante politico e il corporativismo del magistrato, la complicità dell’amministratore e la genericità delle accuse che hanno come destinatario principale le prime pagine dei giornali. Individuando a livello dell’intreccio tra criminalità organizzata e sistema bancario, tra professionisti del crimine e della finanza più che nel contatto tra mafiosi e politici, il problema fondamentale di chi è chiamato a lottare, oggi, per la difesa della legalità e della democrazia, Falcone assume insomma una posizione assolutamente originale. Alla base della solitudine in cui ha lavorato in questi ultimi anni. L’analisi qui riportata è opinabile e sicuramente parziale. Ha il merito raro, tuttavia, di fondarsi sui fatti e ha trovato conferme importanti nel lavoro di un giudice che è riuscito a sconfiggere, in alcune fasi, Cosa Nostra, e nella decisione con cui quest’ultima oggi lo ha voluto morto. (dall’Unità del 31 maggio 1992). Nella relazione finale della Commissione d’inchiesta Franchetti- Sonnino del lontano 1875/ 76 si legge che «la mafia non è un’associazione che abbia forme stabili e organismi speciali… Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa forma criminosa, non… specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di reati» … «una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori» ; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì». Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione: «Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani, oltre i Carabinieri in numero di 3120». Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti. Nell’immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/ 1963 gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario pronunciati dai Procuratori Generali di Palermo. Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di “qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l’attività criminosa”; il riferimento è chiaro, riguarda il Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili, espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Viterbo il 3/ 5/ 1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura Generale presso la Corte d’appello di Palermo: Emanuele Pili». Nelle relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. Così, nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti gruppi di delinquenti». Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in quella del 1968, si raccomanda l’adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo». Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall’esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dall’attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà. Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l’autorevolezza della fonte, il Capo della Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. Sottolineando che la criminalità organizzata – e quella mafiosa in particolare – è, come si sostiene in quell’intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici… e acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del denaro sporco». L’argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti, ha riacceso l’attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti – ovviamente, non senza contropartite – di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità. Un convincimento diffuso è quello – che ha trovato ingresso perfino in alcune sentenze della Suprema Corte – secondo cui oggi saremmo in presenza di una nuova mafia, con le connotazioni proprie di un’associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l’espressione, sia pure distorta ed esasperata, di un “comune sentire” di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia, quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi. Tale opinione è antistorica e fuorviante. Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa Nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è e non si è mai identificata con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una organizzazione criminosa – unica ed unitaria – ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito mutazioni a livello strutturale e operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto nell’avvio di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una della ragioni più profonde della forza di tale consorteria, che la rende tanto diversa. Se, oltre a ciò, si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere però conto dello straordinario spessore di questa organizzazione sempre nuova e sempre uguale a sé stessa. Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto, che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa Nostra” però, nelle alleanze, non accetta posizioni di subalternità; pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o dirigerne dall’esterno le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell’esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d’onore che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell’organizzazione, ne sconoscono l’esistenza. Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono un argomento “a contrario” perché hanno una propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell’organizzazione mafiosa. E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di “Cosa Nostra”, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità. Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo egemonico nel traffico, anche internazionale, dell’eroina.

Lezione sulla mafia tenuta da un profeta di sventure...Riflessioni di Giovanni Falcone pubblicate l'8 Marzo 2019 su Il Dubbio. Così si autodefinì il magistrato che aveva capito Cosa Nostra e la stava combattendo, ma era rimasto isolato. Dai suoi colleghi e dalla politica. Pubblichiamo la seconda parte della lezione sulla mafia tenuta da Giovanni Falcone, a Palermo, nell’estate del 1989, tre anni prima di essere ucciso. Per comprendere meglio le cause dell’insediamento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe del contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmografia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa Nostra, se non addirittura un mafioso egli stesso ed il contrabbando si è rivelato un’attività ben più pericolosa di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario dello Stato, in quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l’ingresso nel mercato degli stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali – sia per il trasporto della merce sia per il riciclaggio del danaro – poi utilizzati per il traffico di stupefacenti. Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano importanti novità della struttura mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è organizzata come una struttura piramidale basata sulla “famiglia” e ogni “uomo d’onore” voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con gli altri membri della stessa “famiglia” e solo sporadicamente con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie “famiglie” il coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e regionale. Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi – che comporta l’impiego di consistenti risorse umane in operazioni complesse che non possono essere svolte da una sola famiglia – sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie e, perfino, con personaggi estranei a Cosa Nostra. Per effetto dell’allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti spesso non mafiosi sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero. Si formano, così, associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da “uomini d’onore”, che non si identificavano, però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione saltuaria di altri “uomini d’onore” non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e nella misura stabilita dal proprio capo famiglia. In pratica, dunque, l’antica, rigida compartimentazione degli “uomini d’onore” in “famiglie” ha cominciato a cedere il posto a strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno all’organizzazione. Cosa Nostra però non si limita ad esercitare il controllo indiretto su altre organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un efficace funzionamento delle attività criminose. Il fatto che esiste anche a Napoli una “famiglia” mafiosa dipendente direttamente dalla “provincia” di Palermo, non deve stupire perché la presenza di “famiglie” mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette “decine”), fuori della Sicilia, ed anche all’estero, è un fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di “famiglie” costituenti diretta filiazione di Cosa Nostra siciliana. Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso la malavita napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni ma più verosimilmente con l’intenzione di fomentare la discordia per assumere la direzione dell’attività. Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati collegamenti importanti tra esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili già allora con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse. Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti; coordinamento la cui pericolosità è intuitiva. Nella seconda metà degli anni ’ 70, pertanto, Cosa Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte le carte in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti. In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra garantiva la distribuzione della droga in quel paese. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti d’America. Anche nella gestione di questo lucroso affare l’organizzazione ha mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato, in base all’esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l’approvvigionamento della morfina- base dal Medio e dall’Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la trasformazione della morfina- base in eroina; altri, infine, si occupavano dell’esportazione dell’eroina verso gli Usa. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da “uomini d’onore”. In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era attivato da esperti chimici francesi, reclutati grazie a collegamenti esistenti con il “milieu” marsigliese fin dai tempi della cosiddetta “French connection. L’esportazione della droga, come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con “uomini d’onore” preposti a tale settore del traffico. Si tratta dunque di strutture molto articolate e solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente, consentendo alla mafia ingentissimi guadagni. Un discorso a sé merita il capitolo del riciclaggio del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti, derivanti dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni sempre più incisive. Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito il canale privilegiato per il riciclaggio del danaro. Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi nelle operazioni bancarie di cambio di valuta estera. Senza dire che non poche attività illecite della mafia, costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l’afflusso in Sicilia di ingenti quantitativi di danaro, già ripulito all’estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli stupefacenti. Quali effetti ha prodotto in seno all’organizzazione di Cosa Nostra la gestione del traffico di stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti, la mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali. Le alleanze orizzontali fra uomini d’onore di diverse “famiglie” e di diverse “province” hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni ’ 70 per assicurare un migliore controllo dell’organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo verticale, la “commissione” regionale, composta dai capi delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa culminata negli anni 1981- 1982. Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d’onore delle più varie famiglie spinti dall’interesse personale – a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia caratterizzata dallo scontro tra le famiglie – e ciò a dimostrazione del superamento della compartimentazione in famiglie. La sanguinaria contesa non ha determinato – come ingenuamente si prevedeva – un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate degli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Il nuovo gruppo dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare dall’aprile 1982, ha iniziato ad eliminare chiunque potesse costituire un ostacolo. Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante l’impegno delle forze dell’ordine. La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di ogni genere di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie, non ha determinato l’inizio della fine del fenomeno mafioso. Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo, prevedibile nemmeno. È vero che non pochi “uomini d’onore”, diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti e non sono sicuramente costretti all’angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di una organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse. Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all’azione repressiva. La tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che hanno creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi dell’ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco e dell’agente della PS Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Si ha l’eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi “omicidi eccellenti”, non si potranno fare molti passi avanti. Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico di eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; e si hanno già notizie precise di scambi tra eroina e cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti e collegamenti – la cui pericolosità è intuitiva – tra mafia siciliana ed altre organizzazioni criminali italiane e sudamericane. Le indagini per la individuazione dei canali di riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda poi le attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le estorsioni sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori non mafiosi, che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione all’impresa e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia. Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo. Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza seguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia e per suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.

Suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie dal 1817 era basata su una struttura a 4 livelli. Le divisioni di primo livello, dette provincie, erano 22. Le 22 province erano suddivise in 76 distretti. I distretti erano suddivisi in circondari (presenti in numero complessivo di 684). I circondari erano suddivisi in comuni (un totale di 2189 nell'anno 1840).

Circondari. I circondari del Regno delle Due Sicilie costituivano il terzo livello amministrativo dello stato, collocandosi in posizione intermedia tra il distretto e il comune. La circoscrizione, infatti, delimitava un ambito territoriale che abbracciava, generalmente, uno o più comuni, tra i quali veniva individuato un capoluogo. Facevano eccezione, però, le grandi città: queste, vista la vastità del territorio, erano frazionate in due o più circondari, che includevano uno o più quartieri. Le funzioni del circondario riguardavano esclusivamente l'amministrazione della giustizia: tali funzioni giudiziarie erano affidate al Giudice di Circondario. Questo magistrato, che risiedeva nel comune capoluogo di circondario, era eletto dal sovrano e aveva competenza in materia civile e penale. Inoltre, dove erano assenti i commissariati di polizia, al Giudice di Circondario era affidata anche la polizia ordinaria e giudiziaria.

Comuni e centri abitati. I centri abitati, in base ai dati del Dizionario Statistico del regno, nel 1840 erano 3.333.

Di questi paesi erano riconosciuti come comuni soltanto 2.189 mentre la restante parte erano identificati come villaggi, borghi, subborghi, casali (Provincia di Napoli, Principato Citeriore), rioni (Calabria Citeriore) o ville (Abruzzo) appartenenti a comuni limitrofi.

Organi amministrativi. Il Regio decreto n. 932 dell'11 ottobre 1817 di Ferdinando I re delle Due Sicilie – con decorrenza dal 1º gennaio 1818 – dispose che le tre valli di Sicilia (Vallo di Mazara, Val di Noto, Val Demone) venissero divise in sette valli minori ed amministrate da sette Intendenze: Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani e Caltanissetta. A capo di ogni valle (provincia) vi era un Intendente, coadiuvato dalla Segreteria d'Intendenza e dal Consiglio d'intendenza; il Consiglio provinciale, composto da 15 membri annuali proposti dai Comuni della provincia e nominati dal sovrano, era un organo deliberativo ed aveva un proprio bilancio. A capo di ogni Capoluogo di Distretto che non era sede di Intendenza, invece, vi era un Sottintendente, cioè la prima autorità del Distretto, mentre altri organi amministrativi erano la Segreteria di sottintendenza ed il Consiglio Distrettuale, composto da 11 consiglieri.

Storia.

Reali Dominii al di qua del Faro. Giuseppe Bonaparte, con la legge n. 132 dell'8 agosto 1806 sulla divisione ed amministrazione delle provincie del Regno, riformò la ripartizione territoriale dello Stato sulla base del modello francese. Negli anni successivi (tra il 1806 e il 1811), una serie di decreti, tra i quali il n. 922 del 4 maggio 1811, per la nuova circoscrizione delle quattordici provincie del Regno di Napoli.

Reali Dominii al di là del Faro. In Sicilia, sin dalla prima stesura della Costituzione del 1812, erano in vigore i distretti che consistevano nelle circoscrizioni territoriali di 21 città demaniali cui vennero aggiunti i territori di Bivona e di Caltanissetta, entrambe fino ad allora feudali. Fino al 1817, non ci furono grosse modifiche e l'unificazione dei due regni previde, anche per la Sicilia, l'istituzione delle province (il numero delle province "isolane" fu fissato in sette), riportando i distretti al di sotto di esse. Nel 1819, i distretti vennero, quindi, suddivisi in entità minori, i circondari. Il Regio Decreto del 30 maggio 1819, infatti, previde la suddivisione dei distretti in diversi "circondari", che presero nome dai rispettivi capoluoghi. Negli anni venti dell'Ottocento, in seguito ad una grave crisi finanziaria che colpì la società isolana, il governo fu indotto a modificare l'assetto amministrativo dell'isola: inizialmente fu prevista la riduzione delle province da 7 a 4 e l'abolizione di alcune sottintendenze. Il Regio Decreto dell'8 marzo 1825, tuttavia, mantenne la suddivisione della Sicilia in 7 province, ma abolì tutte le sottintendenze. Ciononostante, il ridimensionamento dell'apparato amministrativo e rappresentativo del distretto fu uno dei motivi che causarono numerose rivolte in tutta l'isola, in particolar modo nel 1837. In seguito a questi episodi, il governo provvide a modificare nuovamente gli apparati amministrativi distrettuali: vennero reintrodotte le sottintendenze, i Consigli Distrettuali e gli Ispettorati distrettuali di polizia; furono abolite, però, le Compagnie d'Armi, sostituite da distaccamenti distrettuali della Regia Cavalleria.

Giustiziere (funzionario). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Storia.

Regno d'Inghilterra. Nel Regno d'Inghilterra, le riforme introdotte da Guglielmo il Conquistatore per l'amministrazione della giustizia prevedevano che essa dipendesse direttamente dal sovrano attraverso il sistema delle curie. In particolare, egli istituì la figura del giustiziere, ovvero un giudice itinerante, detto, appunto, Justitiarius itinerantis o Justitiarius errans, che aveva il compito di amministrare, spostandosi lungo il suo territorio, una determinata provincia o curia, che di volta in volta, a seconda delle esigenze della corona, gli veniva affidata. I giustizieri erranti dipendevano da una curia suprema di nomina regia, che aveva sede direttamente a corte, e che era composta dai giustizieri del Banco e dal giustiziero capitale. Quest'ultimo era il primo magistrato dello stato e, similmente ad un viceré, svolgeva funzioni suppletive: "in assenza del principe, presedeva alla real corte". Il giustiziere capitale aveva il compito di destinare, di volta in volta, i giudici itineranti nelle varie province e, inoltre, aveva competenza, di concerto con i giustizieri del Banco, per le cause che non potevano essere definite dai giustizieri "ordinari".

Regno di Sicilia. Nel Regno di Sicilia, in epoca normanna, sveva ed angioina, il giustiziere era il funzionario di nomina regia, che rappresentava l'autorità del sovrano a livello provinciale. In particolare, nello stato siciliano, si distingueva il Gran Giustiziere dal Giustiziere, quest'ultimo con mansioni nei distretti amministrativi, detti, a seconda della suddivisione amministrativa vigente, Valli o Giustizierati. Ruggero II di Sicilia, sostiene Rosario Gregorio, "compose in miglior forma questo sistema"; ovvero, prendendo come base il modello di Guglielmo I d'Inghilterra, riorganizzò l'amministrazione della giustizia nel proprio reame. Divenuto conte di Sicilia, il normanno, attraverso la produzione di un apparato normativo che fosse in grado di regolamentare l'amministrazione dell'isola, diede forma al sistema del diritto pubblico Siciliano. Il complesso delle leggi emanate da Ruggero, afferma Rosario Gregorio, non può considerarsi come riformatore di un sistema precedente: fu, invece, volto a creare ex novo la struttura normativa dello stato, andando a dare forma giuridica agli istituti e alle usanze già in essere ma non formalizzati in alcun corpo normativo. Ad esempio Ruggero, sulla figura del magistrato, che era già presente in diverse città e villaggi della Sicilia e la cui attività era pubblicamene autorizzata e riconosciuta, il sovrano legiferò come se egli l'avesse per la prima volta istituita. Tra le varie disposizioni in materia di magistrati, Ruggero stabilì che era reato metter in dubbio l'autorità del magistrato, la quale era sacra ed inviolabile, ma al tempo stesso, al fine di assicurare la libertà civile dei sudditi, dispose che sarebbe stato soggetto a pena di morte o di infamia il giudice che male amministrava giustizia. Prima delle riforme di Ruggero II, il magistrato aveva competenza sui giudizi di secondo grado (mentre il primo grado era deputato ai magistrati locali), ma, non essendo tale figura presente in tutte le località dell'isola, il secondo grado di giustizia passava spesso sotto la diretta competenza del sovrano, che attraverso messi o delegati riusciva ad adempiere a tale ufficio. Per sopperire a tali limiti, Ruggero II, attuò, quindi, una serie di riforme sulla base di quelle attuate da Guglielmo in Inghilterra. Il primo Re di Sicilia, in particolare, introdusse due figure specifiche in sostituzione della vecchia figura di magistrato. Esse erano rappresentate dai giustizieri, come nel caso inglese, e dai camerari. Entrambe le tipologie di magistrato furono inquadrate come funzionari di livello superiore ed avevano giurisdizione su una determinata circoscrizione territoriale: «Esercitavano i giustizieri provinciali tanta giurisdizione per tutta la provincia loro assegnata, che giravano di continuo e visitavano.» Nello specifico, Rosario Gregorio riporta che il primo a ricoprire la funzione di "giustiziere di Palermo" fu lo stesso Re Ruggero. Nell'amministrazione della giustizia, ai giustizieri competeva il secondo grado di giudizio sia in ambito penale, sia in ambito civile, e, per le aree ove erano assenti i magistrati locali deputati alle cause penali, anche il primo grado in ambito penale. Il primo grado della giustizia penale era, comunque, affidato ai giustizieri anche per la più alta giurisdizione criminale, ovvero tutti i reati più gravi, nella cerchia dei quali il sovrano normanno aveva incluso la violenza contro le donne. Anche per il primo grado della giustizia civile erano previste delle eccezioni che affidavano la competenza di tali cause ai giustizieri, rappresentate delle controversie riguardanti i feudi non quaternati. Per i feudi descritti nei "quaderni fiscali" e per i contadi delle baronie, invece, la competenza era ascrivibile direttamente alla Magna Curia. Il giustiziere, inoltre, aveva facoltà di porre fine alle cause di primo grado che si protraevano per oltre due mesi, a meno che non avesse ritenuto opportuno per esse un tempo maggiore. Nei casi di interruzione, però, era possibile per l'attore della controversia ricorrere al secondo grado per mancata giustizia. Il giustiziere aveva un proprio seguito che si componeva di un notaro degli atti e di alcuni giudici a lui subordinati che fungevano da semplici assessori: il complesso di questi burocrati era definito corte del giustizierato. Giustizieri e camerari, inquadrati come magistrati ordinari, furono, dunque, integrati nel sistema amministrativo concepito da Ruggero II. Questi funzionari duravano in carica per un tempo determinato e, al termine del loro mandato, avevano l'obbligo di trattenersi presso i loro successori per un periodo di cinquanta giorni. Questo, non solo per adempiere agli obblighi del passaggio di consegne, ragguagliando il nuovo giustiziere, ma anche per sottoporsi ad eventuali istanze e reclami esposti contro costoro il magistrato uscente degli abitanti della circoscrizione in cui quest'ultimo aveva operato.

Benedetto Croce e la giustizia borbonica, una lettera poco conosciuta. Gigi Di Fiore su Il mattino Lunedì 19 Dicembre 2016. E' noto che Benedetto Croce aveva le sue idee sul regno delle Due Sicilie e sulla dinastia Borbone. Ma è nota anche la sua onestà intellettuale da teorico e assertore dello storicismo filosofico, così come la sua assoluta fede politica liberale. Una fede che lo rese assai critico sulla violenta repressione adottata dallo Stato liberale nel 1898 contro i moti popolari di piazza. Così, fu severo e disapprovò con chiarezza i cannoni e i morti civili in piazza Duomo a Milano, come l'azione sanguinaria della truppa al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, poi promosso e premiato dal re Umberto I. In quell'anno, tre mesi dopo gli incidenti, il filosofo scrisse una lettera a Vilfredo Pareto criticando la stretta repressiva e facendo paragoni con la giustizia e la repressione borbonica, che ne uscì più blanda nel confronto con il tanto decantato Stato liberale italiano. La lettera è del 2 agosto 1898, spedita da Resina, e venne poi riprodotta nel primo volume delle "Pagine sparse" rieditate nel 1941. Scrisse Croce: "Non so se nelle carceri e nei reclusori i condannati politici della nuova Italia stiano meglio o peggio dei nostri condannati politici dei Borboni, i quali (almeno gli ergastolani di Santo Stefano, come il Settembrini e lo Spaventa) ricevevano ogni sorta di libri (e lo Spaventa quelli, pericolosi e rivoluzionari allora, di filosofia tedesca), e studiavano e scrivevano: laddove ai nuovi condannati anche questo conforto è tolto". Questa la prima parte, che decisamente segna un giudizio positivo sui detenuti politici nel periodo borbonico rispetto a quelli in carcere nell'Italia 37 anni dopo l'unità. Ma Benedetto Croce andò ancora oltre e questa lettera, poco nota a molti, getta un'altra luce sulle sue idee, confermando la libertà di pensiero del filosofo abruzzese. Aggiunse Croce, analizzando il sistema processuale nelle due epoche: "Il punto sul quale il confronto s'impone irresistibile è sull'indole e sul modo con cui sono stati condotti i processi politici. Perché si sono spese tante parole e tanti colori rettorici per gridare iniquo il processo, per esempio, fatto dopo il 1848 a Silvio Spaventa? Cito questo che ho avuto modo di studiare da vicino". Era il famoso processo alla "Setta dell'unità italiana", quello che spinse lord Gladstone a definire le Due Sicilie regno "negazione di Dio". Scrisse ancora Croce nella sua lettera a Pareto: "E' vero che i Borboni provvidero a fornire prove di reato, stipendiando falsi testimoni. Ma ciò prova che il senso giuridico non era del tutto smarrito! Si riconosceva almeno la necessità delle prove di fatto per i reati di azione. Ma i giudici di Milano non hanno sentito questo bisogno...Altresì bisognerebbe ricordare che i tribunali borbonici militari furono singolarmente miti, dando lezioni di generosità e lealtà ai magistrati togati [...] Qui a Napoli si sono avuti oggi casi stranissimi. A un disgraziato scrittorello borbonico, che dichiarava la sua fede tenace, è stato risposto: Questa è la vostra colpa! Ed è stato condannato". Che dire, queste parole dovrebbe leggerle chi continua a considerare la storia bianco e nero, chi non contestualizza gli eventi e non li mette in relazione con quelli anteriori e successivi per trarne valutazioni. Nessuna beatificazione dei Borbone (oltretutto a pochi giorni dall'anniversario della morte di Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie), solo un altro tassello di verità e un documento poco conosciuto, come regalo per le feste natalizie ai tanti cultori della storia del Sud, che vogliono liberarsi da pregiudizi e paraocchi.

Funzioni e compiti della magistratura. Il passaggio dallo Stato liberale al regime fascista non era stato per l’apparato giudiziario particolarmente traumatico. Il nuovo regime aveva infatti ereditato una magistratura disciplinata gerarchicamente e controllata saldamente dalle autorità di governo: il pubblico ministero era «il rappresentante» dell’esecutivo presso l’autorità giudiziaria, tutti i magistrati erano sottoposti «all'alta sorveglianza» del Ministro di grazia e giustizia e il potere politico nominava i capi di Corte e delle Procure generali, cooptandone alcuni per incarichi di governo e altri premiandoli col laticlavio. Questo reticolo istituzionale organizzava così una categoria di circa 3500 funzionari, per lo più provenienti dalle province meridionali, di estrazione medio borghese, educati alla cultura retorico-umanistica delle università del tempo e rispettosi dell’ordine e dell'autorità. L'ideologia dominante li indicava come custodi della legge, sacerdoti del diritto, componenti di un’élite prestigiosa, ma, nella realtà, i giovani magistrati dovevano fare i conti con sedi disagiate e retribuzioni modeste, condizioni migliorabili solo con avanzamenti in carriera; e proprio su questo facevano leva le gerarchie giudiziarie e politiche per edificare la piramide giudiziaria, per selezionare cioè da questa ampia base l’“alta magistratura”, esaltando in tal modo devozioni e conformismo, cooptando i più meritevoli attraverso i concorsi, ma attribuendo al vertice incarichi e posti direttivi con assoluta discrezionalità. I magistrati, il fascismo, la guerra. Giancarlo Scarpari su Questione Giustizia. Rivista trimestrale Fascicolo 2/2008.

Ordine, non Potere.

COSSIGA VIETA AL CSM DI DISCUTERE SU CRAXI. La Repubblica 4 dicembre 1985. Il Consiglio superiore della magistratura non può e non deve pronunciarsi in alcun modo sulle pesanti critiche rivolte da Craxi alla sentenza con cui il tribunale di Roma ha condannato deputati e giornalisti socialisti per aver diffamato il Pm del processo Tobagi, Armando Spataro. A porre improvvisamente il bavaglio all' organo di autogoverno della magistratura è stato il suo stesso presidente, Francesco Cossiga. L' intervento del capo dello Stato è stato reso noto improvvisamente ieri sera alle 20 mentre era in corso una assemblea plenaria del Consiglio. Il vicepresidente Giancarlo De Carolis ha interrotto i lavori per annunciare di aver ricevuto una lettera di Cossiga, scritta "per esprimere, nella qualità di presidente della Repubblica e di presidente del Csm, la ferma convinzione della inammissibilità di un dibattito o intervento del Consiglio su atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri". "Signor vicepresidente - ha scritto il capo dello Stato - ricevo ora la comunicazione che all' ordine del giorno della seduta odierna del Consiglio è stata deliberata l' introduzione dell' argomento: le recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri e l' indipendenza della magistratura, a ciò richiamando la procedura dell' art. 39 del regolamento interno del Consiglio superiore della magistratura. Faccio riserva sulla interpretazione data alla norma regolamentare (che pure andrebbe letta in coordinazione con l' art. 38 e che perciò non dovrebbe consentire la pregiudiziale pretermissione dell' assenso del presidente) e soprattutto sulla compatibilità di tale norma col sistema della costituzione e con il chiaro dettato della legge che intesta esclusivamente al presidente il potere di convocazione (e perciò quello implicato di determinazione dell' ordine del giorno): ma non intendo sollevare ora e in questa sede tale problema". A questo punto Cossiga ha espresso la convinzione della inammissibilità del dibattito consiliare sulle dichiarazioni di Craxi. "Il mio giudizio - ha però tenuto a precisare - prescinde assolutamente da ogni valutazione di merito della questione posta all' ordine del giorno, ma attiene esclusivamente ai profili costituzionali del caso". "Nel nostro sistema di organi istituzionali - ha proseguito il presidente della Repubblica - la valutazione dei comportamenti del presidente del Consiglio dei ministri è attribuita in via esclusiva al Parlamento nazionale e non può assolutamente di essa intendersi sotto nessun profilo investito un organo, anche se di alta amministrazione, quale il Consiglio superiore della magistratura. E ciò anche in quanto esso è per costituzione presieduto dal presidente della Repubblica, le cui relazioni col presidente del Consiglio passano assolutamente al di fuori dello stesso Csm. Questa incompetenza, che io ritengo assoluta, del Consiglio superiore e che, se da esso trasgredita, pone gravi problemi di interpretazione della carta costituzionale, non può essere considerata in nessun modo limitativa del libero diritto di critica che spetta ad ogni cittadino nei confronti di comportamenti dell' esecutivo e quindi anche del diritto di critica dei magistrati come singoli, come gruppi, ovvero in quanto riuniti in libera associazione". La lettera di Cossiga ha destato sorpresa e sconcerto in seno ai consiglieri. "Per noi", ha detto qualcuno "questo significa chiuderci la bocca, significa non volere che il Consiglio funzioni al meglio come, salvo qualche zona d' ombra, è successo finora". All' ordine del giorno per oggi era proprio la discussione relativa alle censure rivolte da Craxi alla magistratura romana che aveva "osato" condannare quanti avevano a loro volta criticato i giudici di Milano impegnati nel processo Tobagi. A sollecitare una ferma presa di posizione del Csm erano state una precisa richiesta della corrente moderata di "magistratura indipendente" ("sotto il profilo dell' indipendenza della magistratura") il cui primo firmatario era stato Giovanni Verucci, capo gruppo in seno al Csm; una richiesta analoga dei magistrati della procura di Milano, firmata anzitutto dal capo della procura Mauro Gresti; e una lettera del presidente del tribunale di Roma Amatucci, scritta in difesa dei giudici che hanno condannato i deputati socialisti e i giornalisti dell' "Avanti". Oggi, tutti i programmi salteranno e al plenum del Csm si parlerà - tutto fa presumere con toni oltremodo vivaci - della lettera di Cossiga.

Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm (con l'appoggio del Pci). Il Velino 18 agosto 2010. Roma, 17 ago (Il Velino) - Qualche anno fa nel corso di una delle periodiche aspre polemiche fra alcuni partiti politici ed il Consiglio superiore della magistratura Francesco Cossiga con un'un'intervista invitava senza mezzi termini il capo dello Stato ad intervenire: "Come feci io". Il 5 dicembre del 1985, quando stava per essere votata una mozione di censura del presidente del Consiglio dell'epoca, Bettino Craxi, aveva inviato una lettera al vice presidente del Csm, (Giancarlo De Carolis) nella quale l'allora inquilino del Colle, esprimeva la ''ferma opinione sulla inammissibilità di un dibattito o intervento del consiglio su atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri''. Dibattito sollecitato da alcuni magistrati di Milano "a difesa" in relazione alle polemiche sul processo per l'omicidio di Walter Tobagi e sulla condanna di alcuni esponenti socialisti querelati dal sostituto procuratore di Milano, Armando Spataro, che in quel processo fu pubblico ministero. "Io minacciai - raccontava Cossiga nell'intervista - di recarmi di persona al Csm e di estrometterlo com'era mio diritto dalla presidenza e, se avesse opposto resistenza, dall'aula; di rifiutarmi di porre l'argomento all'ordine del giorno, ritenendolo inammissibile, e dove fosse ammesso, cancellarlo, dopo avere espulso tre o quattro membri del plenum. E se avessero per protestato occupato l'aula, avrei fatto sgombrare il Palazzo dei Marescialli. A tal fine, avuta l'intesa del procuratore della Repubblica di Roma e del ministro dell'Interno (Oscar Luigi Scalfaro), feci schierare un battaglione mobile di carabinieri in assetto antisommossa, al comando di un generale di brigata". Cossiga raccontava ancora: "Avevo l'appoggio del Pci. Giunsero al Quirinale il giudice della Corte costituzionale Malagugini e il presidente dei senatori comunisti Perna a dirmi che avevo perfettamente ragione e che non mollassi: 'Altrimenti quelli lì ci travolgono tutti'". Nella storia repubblicana con Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, è stato il presidente che più ha tentato di arginare lo strapotere del Csm. Uno strapotere che da presidente emerito ancora qualche che anno fa così denunciava: "Il CSM continua imperterrito nel cercare di affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche nel cercare di affermarsi quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario. E su questa strada, chiaramente più che incostituzionale, in realtà potenzialmente eversiva. Il Consiglio è sostenuto da costituzionalisti democratici, un tempo largamente rappresentati, ahinoi, anche nella Corte Costituzionale e ... da non pochi elementi della sinistra giudiziaria dell'Unione prodiana" . Nel corso dei suoi quasi sette anni al Quirinale, Cossiga non soltanto minacciò l'intervento dei carabinieri per far si che il plenum non trattasse ordini del giorno da lui non approvati, ma con Giovanni Galloni, nel '91, ricorse perfino alla sospensione temporanea della delega a presiedere i lavori del Csm e a Cesare Mirabelli, vicepresidente del Csm un anno prima di Galloni, ribadì che l'Organo di autogoverno non era un "potere dello Stato" come invece lo intendevano già settori della magistratura e le correnti più politicizzate dell'Anm.

In morte di un Picconatore. Lino Jannuzzi su Il Foglio il 18 Agosto 2010. La prima volta mi fece chiamare al telefono dell’Espresso dalla Batteria del Viminale, che era il febbraio o il marzo del ’68, e io e Scalfari eravamo appena stati condannati dal Tribunale di Roma per aver diffamato il generale Giovanni De Lorenzo attribuendogli il tentativo di eversione del “Piano Solo”. Dopo la sentenza, Scalfari aveva pubblicato sull’Espresso una durissima lettera aperta al presidente del Consiglio Aldo Moro. La prima volta mi fece chiamare al telefono dell’Espresso dalla Batteria del Viminale, che era il febbraio o il marzo del ’68, e io e Scalfari eravamo appena stati condannati dal Tribunale di Roma per aver diffamato il generale Giovanni De Lorenzo attribuendogli il tentativo di eversione del “Piano Solo”. Dopo la sentenza, Scalfari aveva pubblicato sull’Espresso una durissima lettera aperta al presidente del Consiglio Aldo Moro, accusandolo di aver nascosto la verità ai giudici cancellando con i 71 omissis le denunce dell’inchiesta del generale Manes. Francesco Cossiga era sottosegretario alla Difesa e al telefono fu secco e perentorio: “Devi dire a Scalfari che sbaglia a prendersela con Moro. Gli omissis li ho messi io, Moro non capisce niente di queste questioni, e, fosse stato per lui, avrebbe messo in piazza i segreti più delicati della Repubblica”. Un anno dopo, nel frattempo io e Scalfari eravamo stati eletti in Parlamento, ed era stata costituita la commissione d’inchiesta sui fatti dell’estate del ’64 Cossiga venne a pranzo da me, in via della Croce, e si vantò due volte: “Io li ho messi, gli omissis, quando ho mandato il rapporto Manes al tribunale, e io li ho tolti, ora che ho rimandato il rapporto alla commissione. Ma questo non servirà a dare ragione a te e a Scalfari”. In effetti, la relazione di maggioranza della commissione ci trattò benissimo, riempiendoci di elogi per le nostre qualità di grandi giornalisti, ma in sostanza confermò l’assoluzione di De Lorenzo. E Cossiga non ha mai più cambiato idea. In occasione del suo settantasettesimo compleanno, nel luglio del 2005, quando lo intervistai e annunciò che dal primo gennaio 2006 si sarebbe ritirato dalla politica e fece un rapido bilancio di cinquant’anni di vita, gli chiesi: “Se un giornalista riprendesse e rilanciasse oggi la famosa inchiesta di quarant’anni fa sul ‘colpo di stato’ del generale De Lorenzo, riscenderebbe in campo per difendere il generale e l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, suo conterraneo e maestro?”. E lui: “Certamente, e accuserei quel giornalista di essersi inventato tutto… Il che non mi impedirebbe di diventare suo amico e di rimanerlo per quarant’anni, e di levarmi a parlare in Senato, riscuotendo la solidarietà di tutti i settori, in sua difesa, quando lo volessero arrestare per le sue sacrosanti critiche ai professionisti dell’antimafia…”. Per l’occasione, Cossiga fece di più. Quando mi condannarono e il Tribunale di sorveglianza decise che avrei dovuto trascorrere in carcere due anni e quattro mesi, affittò un aereo per venirmi a prendere a Parigi, dov’ero per una riunione del Consiglio d’Europa: “Ti riporto io a Roma e ti accompagno fino a Regina Coeli…”. Non ero entusiasta della generosa proposta, e per fortuna mi tolse d’imbarazzo la grazia concessami dal presidente Ciampi, appena in tempo. L’ultimo suo anno al Quirinale, mi chiamava alle sette del mattino perché andassi a far colazione da lui e, di solito, mi anticipava le sue “picconate”. Come quella volta  che doveva andare al Palazzo dei Marescialli a presiedere il Csm e mi recitò, mentre si faceva la barba, il discorso che avrebbe fatto ai pm. Il Consiglio aveva posto all’ordine del giorno una “censura” al presidente del Consiglio dei ministri, che era Craxi, che si era permesso di criticare i magistrati che non avevano indagato a sufficienza sull’assassinio del giornalista Tobagi. Cossiga tolse la delega a presiedere la riunione del Csm al vicepresidente e preannunciò che ci sarebbe andato lui. Mentre si faceva la barba, fece chiamare il comandante dei carabinieri del Quirinale e gli ordinò di precederlo e di “circondare” con i suoi uomini il Palazzo dei Marescialli e di “tenersi pronti a intervenire” se, dopo il suo discorso, il Consiglio non avesse tolto dall’ordine del giorno la minacciata “censura” a Craxi. Ce l’aveva con tutti Cossiga, e non lo mandava a dire, ma ce l’aveva soprattutto coi magistrati. Undici anni dopo quella volta dei carabinieri al Csm, si ripassava dinanzi allo specchio, sempre facendosi la barba, il discorso che avrebbe fatto al Senato per dimettersi da senatore a vita “per difendere il potere del Parlamento, minacciato dall’arrendevolezza e debolezza della classe politica nei confronti della cosiddetta “magistratura militante”, dell’Associazione nazionale dei magistrati e dello strapotere del Consiglio superiore della magistratura…”. Ci tenne a spiegarmi la differenza con la storia dei carabinieri al Csm di undici anni prima: “Allora protestavo direttamente contro i pm e bloccai lo strapotere del Csm. Oggi, che sono solo un senatore a vita, senza patria e casa politica e che non ho alcuna forza politica accanto, vado in Senato per l’ultima volta a protestare contro i "politici", quei politici arrendevoli che non sono stati capaci di arginare lo strapotere dei magistrati militanti, come feci io allora”. E’ la cosa che maggiormente Cossiga rimproverava ai governi di Silvio Berlusconi, quella di polemizzare tanto a parole con i magistrati e di promettere e preannunciare di continuo le riforme della giustizia, ma in pratica di non riuscire a concludere niente, mentre il potere abnorme della magistratura e il suo sconfinamento sui poteri del governo e del Parlamento non facevano che aumentare. E spesso, anche negli ultimi tempi, mi ricordava di una cena che avevo organizzato a casa mia tra lui e Silvio Berlusconi, qualche mese prima che il Cavaliere annunciasse ufficialmente la sua discesa in campo. Per tutta la cena Cossiga non fece altro che sconsigliarlo: “La politica è una cosa maledettamente seria, diceva, e non è per Lei, la faranno a pezzi…”. Berlusconi lo guardava sorridente e rispettoso, ma si capiva che ormai aveva deciso e che non avrebbe tenuto in nessun conto i suoi consigli. Quando, il 27 novembre del 2007, presentò veramente in Senato le sue dimissioni da senatore a vita, Cossiga, più che con i magistrati, se la prese con “quel losco figuro del capo della polizia che si chiama Gianni De Gennaro”, definendolo “un uomo insincero, ipocrita, falso”, e “un personaggio cinico e ambiguo che usa spregiudicatamente la sua influenza”: “Un uomo che è passato indenne da manutengolo dell’Fbi americana, che è passato indenne dalla tragedia di Genova, è passato indenne dopo aver confezionato la polpetta avvelenata che ha portato alle dimissioni di un ministro dell’Interno…”. Passarono settanta giorni senza che nessuno, a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno, che era Giuliano Amato, rispondessero pubblicamente a Cossiga, finché, il 31 gennaio del 2007, il Senato mise all’ordine del giorno le dimissioni di Cossiga e il senatore a vita dimissionario si alzò dal suo banco nell’Aula, al tavolo delle commissioni, e disse: “Soltanto ieri il ministro dell’Interno ha risposto per iscritto e credo che egli, per quello che sa, abbia detto la verità. A motivo del contenuto della risposta del ministro dell’Interno ritengo mio dovere politico e morale chiedere pubblicamente e formalmente scusa al prefetto Gianni De Gennaro per le dure critiche o accuse da me più volte rivoltegli in quest’Aula e fuori di quest’Aula”. Poi ha confermato le sue dimissioni, che furono respinte a maggioranza. Ma nessuno ha mai saputo, da allora, che c’era scritto in quella misteriosa lettera del ministro dell’Interno, e che ha indotto Cossiga a fare le sue scuse a De Gennaro. Tra tanti misteri,  veri o presunti, che Francesco Cossiga si sarebbe portato nella tomba, questo è l’ultimo, ed è forse il più inquietante. A me, che glielo chiesi, rispose: “Ti posso solo dire che quello che mi ha scritto Amato è più grave e scandaloso di tutto ciò che ho rimproverato a De Gennaro”. L’ultima volta sono stato a casa sua a chiedergli di dire qualcosa su Giulio Andreotti, un breve contributo da inserire in un’intervista della Rai, nel programma “Big”, all’ex presidente del Consiglio, e ne disse più bene che male. Ci ripromettemmo di fare l’intervista anche a lui, per lo stesso programma. Non abbiamo fatto in tempo.

Con la Repubblica il ruolo del Pubblico Ministero non è più governativo, ma di fatto diventa politico. Pubblichiamo un estratto dal libro “Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra” (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) scritto dall’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, insieme con il direttore del Foglio Claudio Cerasa. "Mi iscrissi a Magistratura democratica in un pomeriggio dei primi anni Ottanta, quando le correnti parevano serie aggregazioni culturali e non erano ancora diventate, come adesso, il simbolo di ciò che non è più serio nella magistratura. Un tempo, bisogna dirlo, le correnti erano necessarie. Tutti sanno cos’era la magistratura in Italia prima di quel caldissimo luglio del 1964 quando Magistratura Democratica venne costituita. Tutti sanno – credo – che quella dell’apoliticità della magistratura è una pretesa e basta, incompatibile con l’alta politicità di qualsiasi decisione giudiziaria. Tutti continuano a sorridere, dopo quasi un secolo, per ciò che nel lontano 1925 proclamò in Parlamento il guardasigilli Rocco, quello del codice: “La magistratura non deve fare politica […]. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa e antifascista”. Sì, un tempo le correnti erano necessarie. Poi, però, sono degenerate. Da luoghi di elaborazione culturale sono divenute ottusi centri di potere e ora fanno più danno della grandine. Non mi piace generalizzare perché, come sempre, c’è magistrato e magistrato, e ci sono modi diversi di far parte di una corrente e di sentirsi parte di un progetto. Ma è sicuro che un tempo le correnti rappresentavano soprattutto le differenti vene culturali della magistratura in relazione a quelli che allora, nello specifico, erano gli interrogativi di fondo. Giudice notaio o giudice garante? Interpretazione costituzionale o precostituzionale della norma? Attenzione ai fenomeni politici o terzietà olimpica? E così via. Oggi le correnti della magistratura hanno assunto un ruolo diverso e non si può proprio dire che siano lontane dalla compromissione politica. Mi iscrissi a Magistratura Democratica dopo titubanze e tentennamenti durati quasi quindici anni. Avevo poco più di quarant’anni ed ero sicuro, come molti altri, che mi sarebbe stato possibile – e così fu – essere un magistrato di Magistratura Democratica senza essere o apparire meno imparziale. Convinto, come molti altri, che per una persona di sinistra tale iscrizione non potesse avere che un motivo, almeno in via principale: garantismo e uguaglianza nei processi e impegno teso a rendere meno inermi i più svantaggiati. Perché proprio in quegli anni Magistratura Democratica l’aveva finalmente finita con la fissazione della lotta di classe – o almeno aveva avuto qualche piccolo ripensamento alla luce di quanto era successo e stava succedendo – e aveva virato verso quel garantismo di cui mi ero sempre sentito portatore. Farne parte per me significava questo, mettere le mie forze, le nostre forze, al servizio di un progetto più grande. Al centro della nostra funzione doveva esserci l’attenzione alla persona, l’attenzione anche verso chi non era potente, l’attenzione verso tutti quei disagiati che, troppo spesso, restano di fatto indifesi nel circuito giudiziario. E in questa ottica di giustizia ci si proponeva, altresì e di conseguenza, di affinare sempre più gli strumenti investigativi al fine di colpire il “potere invisibile”, i grandi furbi, quelli dei piani superiori abituati a farla franca. Magistratura Democratica voleva essere questo: la richiesta di una giustizia costituzionalmente orientata che assicurasse ai deboli lo stesso rispetto, le stesse attenzioni e le stesse garanzie di solito riservati ai forti. Avendo un po’ in mente le parole di Anatole France: “La legge è uguale per tutti, vieta sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti”. Ecco, le intenzioni erano davvero buone. Oserei dire… pie. Perché erano i tempi, sottolineo ancora, in cui le correnti venivano intese esclusivamente come luogo di aggregazione tra persone che la pensavano in modo omogeneo e si mettevano insieme per reagire alle forze considerate ingiuste e si confrontavano per far dialogare, far circolare alcune idee, alcuni progetti, alcune visioni del mondo. Ed erano i tempi, per capirci, in cui i ragazzi di sinistra, o almeno molti di loro, sentivano l’urgente bisogno di cambiare la cultura di una magistratura che pareva essere ancora, come durante il fascismo, solo uno strumento di conservazione al servizio dei dominanti, al servizio dell’establishment. Se avevo titubato per quasi quindici anni prima di aderire a Magistratura Democratica una ragione c’era, però. Perché, lo ripeto, dalla sua costituzione e per molto tempo l’ossessione della corrente era stata qualcosa che a me non interessava più di tanto: la lotta di classe di tradizione marxista e basta; magistratura come contropotere e scarsa attenzione alle persone. Qualche accenno su cosa avevamo appena vissuto? Già nel lontano 1969 era avvenuto un passaggio chiave per il mondo di Magistratura Democratica. Una fase di assestamento che coincise con l’arrivo degli anni di piombo, quando l’organizzazione affrontò una scissione interna guidata dal magistrato Adolfo Beria di Argentine. Di Argentine sosteneva che Magistratura Democratica si era legata troppo alla sinistra più estrema e che questa sua nuova natura metteva gli associati in una posizione di non terzietà. L’occasione della rottura arrivò con un piccolo episodio. Il 30 ottobre 1969 Francesco Tolin scrisse sul settimanale “Potere Operaio”, di cui era direttore, un articolo che fece scalpore: un inno alla violenza operaia. Per quel pezzo venne condannato a diciassette mesi di carcere. E il mondo di Magistratura Democratica si divise: la parte moderata difese la sentenza, quella meno moderata riteneva invece inaccettabile punire il direttore di un giornale per un reato di opinione. Alla fine i primi decisero di uscire dall’associazione accusando i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina “; provarono a dar vita a una vera e propria scissione, ma non ci riuscirono. Due anni dopo, la linea della via politica venne esplicitata in un documento presentato da tre colleghi, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese e Vincenzo Accattatis. Un testo storico, intitolato Per una strategia politica di Magistratura Democratica, in cui si chiedeva esplicitamente di organizzarsi come “componente del movimento di classe”, di dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi dell’apparato normativo borghese” e di lavorare tutti insieme per avviare una pratica capace di sintetizzare la voglia dei magistrati di fiancheggiare la battaglia politica con gli strumenti della giustizia: “l’interpretazione evolutiva del diritto”. (…) Nei primi anni Ottanta le cose, come ho detto, erano cambiate parecchio. Gli anni di piombo, il periodo durante il quale si passò rapidamente dall’estremismo della dialettica politica e parapolitica al terrorismo, all’eversione, allo stragismo, alla strategia della tensione (ricordo ancora l’impressione procuratami nel 1981 dal film di Margarethe von Trotta che da quella stagione prende il titolo), stavano finendo. Comprensibilmente, nel frattempo, c’era stato l’ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine con le leggi Reale del 1975 e Cossiga del 1980, ampliamento suffragato dal trionfante esito del referendum popolare del 1981. Del resto nel 1969 avevamo vissuto la strage di piazza Fontana, nel 1978 l’assassinio di Aldo Moro, nel 1979 quello di Guido Rossa e del mio compagno di lavoro Emilio Alessandrini, tra l’80 e l’81 la strage della stazione centrale di Bologna, l’assassinio di Vittorio Bachelet e dell’altro mio collega Guido Galli e, nel Veneto, l’uccisione del commissario Albanese e del direttore del Petrolchimico di Marghera Sergio Gori e il sequestro del generale americano Dozier, tanto per citare alcuni dei casi più celebri. Inoltre, verosimilmente, Magistratura Democratica si era accorta che l’acceso, spesso inconsulto, qualche volta criminale attivismo sociopolitico di quelle confuse aree di estrema sinistra cui molti facevano riferimento poteva, nel guazzabuglio venutosi a creare, essere pericolosamente oggetto di sospetti, di investigazione e di denunce penali. Ricordo, ad esempio, che nel gennaio 1980 era stata formulata un’interpellanza urgente di Claudio Vitalone (più una ventina di senatori democristiani) al ministro di Grazia e Giustizia per sapere se rispondesse al vero la voce che durante una perquisizione disposta dalla procura di Roma nell’ambito di indagini relative alla morte a Segrate dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fosse stato rinvenuto un atto da cui emergevano precisi collegamenti tra organizzazioni eversive e membri di Magistratura Democratica al fine di concertare l’approccio giusto per alcuni processi. Il fascicolo fu archiviato nel 1982, ma solo dopo grande clamore mediatico e pesanti vicissitudini processuali per i magistrati di Magistratura Democratica coinvolti. Altro esempio quello del “processo 7 aprile”. Lo ricordate? È il processo del cosiddetto “teorema Calogero”, per cui, nell’aprile del 1979, finirono in carcere Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e altri. Le assoluzioni furono molte. Nel 1982, in “Critica del diritto” numero 23, Luigi Ferrajoli commentò: “Questo processo è un prodotto perverso di tempi perversi. […] E resterà come un sintomo grave e allarmante di arretratezza medievale della cultura giuridica della sinistra che a esso ha dato mano e sostegno”. Sono convinto, come altri, che proprio il “processo 7 aprile” fu l’ultima goccia che fece traboccare un calice di paura e, di conseguenza, fu la causa della svolta di Magistratura Democratica. Resipiscenza? Mah! Di certo era cambiato qualcosa che aveva determinato un mutamento di rotta: non più solo lotta di classe, ma anche, e soprattutto, lotta per le garanzie. Sì, proprio garantismo. Ma il garantismo, ahimè, durò poco. E oggi non faccio fatica a dire che, purtroppo, credo sia estraneo al Dna di Magistratura Democratica. Perché il garantismo attiene alla persona e Magistratura Democratica s’interessa, invece, ai fenomeni, ai determinismi sociologici, alle classi, alle masse. Perché garantismo e sospetti sono tra loro incompatibili e Magistratura Democratica non sa rinunciare ai sospetti, lo si evince dalla storia giudiziaria dei suoi membri. Magistratura Democratica dimentica che non a caso il codice (articolo 116 disp. att. c.p.p.) usa le parole “sospetto di reato”… solo per le autopsie. Ho letto da qualche parte che il povero procuratore della Repubblica di Roma Michele Coiro – uomo probo e mite morto d’infarto nel 1997, e nell’ultimo periodo della sua vita schiacciato dai sospetti che un’inchiesta milanese palesava nei suoi confronti solo sulla base, pare, di una domanda al massimo inopportuna da lui formulata a un collega – usasse dire, pur appartenendo a Magistratura Democratica come i magistrati che lo inquisivano, che “il moralismo di sinistra era venato di sospetti […] la peggiore categoria mentale figlia di Magistratura Democratica”. (…) La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia. (…) Vogliamo ricordare i tempi di Tangentopoli? Qui c’è un prima e c’è un dopo. Il prima è la fase della contemporaneità, quando noi di Magistratura Democratica abbiamo pensato che finalmente ce l’avevamo fatta, che finalmente la giustizia non era più soltanto uno strumento nelle mani dei potenti e a difesa dei potenti, ma era uno strumento con cui costringere anche i potenti al rispetto della legge. Poi, anni dopo, è divenuto chiaro ciò che realmente era successo: Tangentopoli non è stata soltanto una grande azione di pulizia etica, diciamo così, ma l’occasione in cui, in nome della battaglia contro i potenti, sono emersi i nuovi potenti, i nuovi giacobini, quelli che per la loro un po’ eccessiva e un po’ disinvolta veemenza investigativa costrinsero il legislatore a modificare l’articolo 274 del codice di procedura penale aggiungendo in precisazione una cosa ovvia che dovrebbe marcare il Dna di ogni magistrato imparziale (e informato sul diritto al silenzio notoriamente assicurato all’interrogato dall’articolo 64 del codice di procedura penale): “Le situazioni di concreto e attuale pericolo [di inquinamento probatorio, per capirci] non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti”. Era già accaduto con l’articolo 291 del codice, dove era stato necessario aggiungere che, nella richiesta al gip di misura cautelare, il pm deve presentare “gli elementi su cui la richiesta si fonda nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate” (precisazione resa necessaria dall’accertata prassi dei pm, davvero costituzionalmente disorientata, di far conoscere al gip solo gli atti a favore dell’accusa, e che già nel 1999 aveva costretto il legislatore a riformulare addirittura l’articolo 111 della Costituzione in quanto, con sentenza 361/1998, la Corte Costituzionale aveva ritenuto utilizzabili contro l’imputato dichiarazioni da lui rese nel suo procedimento o in procedimenti contro altri – articolo 210 c.p. – al di fuori di ogni qualsiasi contraddittorio). È sempre per le stesse ragioni che alcuni membri del pool di Mani Pulite hanno incrociato la strada della politica. Penso a un magistrato che, dopo quell’esperienza, divenne ministro dei governi Prodi nel 1996 e nel 2006, e alleato del centrosinistra in tutte le elezioni politiche fino al 2008. Penso a un magistrato che nel 2006 fu eletto senatore nella lista dell’Ulivo. E penso a un altro magistrato, quello del “resistere, resistere, resistere”, che scese in campo, diciamo così, per sostenere la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Eccoli i risultati di una politicizzazione spinta: inchieste condotte a furor di popolo in quanto sostenute, a prescindere, dai media e dall’opinione pubblica; magistrati sempre indaffarati, con il cellulare all’orecchio e lo sguardo di chi farà giustizia… e magari nelle frettolose retate viene calpestata ingiustamente qualche vita; trionfo del Cencelli negli organigrammi delle procure; correnti ormai votate più a ottenere riconoscimenti che a dibattere sulle necessità giudiziarie per far crescere una sana cultura di giurisdizione; ascesa di alcuni magistrati – sparuta minoranza, per fortuna – ormai geneticamente modificati dalla convinzione che, spesso, per raggiungere un determinato ruolo conta più chi ti propone di ciò che tu stesso hai fatto per guadagnartelo; magistrati che passano mesi in campagna elettorale, mesi a promettere cose che poi dovranno mantenere quando raggiungeranno un obiettivo. Allora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale (…). Mi rammarico poi di non capire fino in fondo con quale faccia e credibilità, in tutti questi anni, amici e colleghi abbiano non di rado usato la magistratura come un trampolino da cui lanciarsi per entrare in politica o ottenere incarichi utili e di prestigio. Ne ho visti e ne vedo anche oggi: candidati presidenti di regione, presidenti del Senato, ex candidati alla presidenza del Consiglio, candidati sindaci, assessori, ministri. Ma come si fa? Non si capisce che utilizzare la propria dote giudiziaria per fini politici rappresenta un danno di immagine per tutta la magistratura? Non si capisce che, una volta che si diventa di parte, viene considerato, o rischia di essere considerato, di parte tutto quello che si è fatto fino a un attimo prima con la toga sulle spalle? Non si capisce che far diventare di parte anche un solo processo significa dare l’impressione che tutta la magistratura sia di parte? Che mettere la legalità a servizio di una parte politica equivale a dire che chi sta dall’altra non rappresenta la legalità? E non si capisce, infine, una cosa banale, e mi verrebbe da dire drammatica, una questione che, se vogliamo, c’entra, ancora una volta, con la parola legalità. Sia chiaro, non voglio pensare che sussista il delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.) solo perché la Costituzione impone al magistrato indipendenza, imparzialità e soprattutto terzietà (articoli 25, 101, 102, 104, 107, 108, 111), ma per lo spirito – solo lo spirito – di codeste norme non si potrebbe pensare che un magistrato che usa la propria carriera per mettersi in politica, o anche solo per fare politica, sia un magistrato che abusa del proprio ruolo e se ne infischia della parola terzietà? Non puoi essere terzo oggi e schierarti per una parte domani. Non devi farlo e non dovrebbe esserti consentito. Se lo fai, commetti un errore. Hai abusato della visibilità del tuo ufficio, vivaddio, e in questo modo insinuerai nella testa dei cittadini l’idea che il magistrato terzo sia l’eccezione, non la regola. Sì, è davvero un dramma. (…)  Così non va e non è possibile che non si cambi. Lo dico forte della certezza che si tratta di poche mele marce. Forte del fatto che, come me, la stragrande maggioranza dei colleghi ha sempre evitato non solo l’utilizzo della visibilità istituzionale a fini politici, ma qualsiasi rapporto potesse far sospettare la possibilità di un trattamento vantaggioso perché legato alla funzione. Io, per capirci, come quella stragrande maggioranza, l’automobile l’ho sempre comprata da chi non mi conosceva. Ecco. Basterebbe far perdere alle correnti ogni valenza diversa da quella culturale. Basterebbe adottare nuovi criteri per la selezione del personale. Basterebbe premiare i bravi, non i raccomandati. Basterebbe far entrare un po’ di merito nel nostro mondo. Basterebbe far sì che l’appartenenza alle correnti cessasse di essere conveniente, per dirne una, sorteggiando i consiglieri del Csm e non più eleggendoli seguendo la logica del Cencelli dopo più o meno abili campagne elettorali. Basterebbe così poco, ma nessuno lo fa. E di fronte a questa situazione c’è solo da dire: scusate davvero, ma io non ci sto". Piero Tony

Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica. Annalisa Chirico 17 Aprile 2016 su Il Foglio.

Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica.

Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. 

“Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorni posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”.

A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione.

La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”.

La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia.

Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti.

C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”.

Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”.

A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”.

La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d”accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai’.

Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.

Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica. Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su Il Foglio.  Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto ‘travisamento del fatto’, non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, ‘obbligatoriamente’. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? ‘Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto’. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.

La questione morale di Enrico Berlinguer. Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio......

nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati - di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

A Reggio Emilia le perquisizioni si fanno dopo le elezioni. Per non turbare il Pd. Francesco Storace lunedì 17 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Il Pd ha fiducia nella magistratura. Ovvio, se lo spettacolo è sempre lo stesso. Mica c’è bisogno di Luca Lotti, ormai le premure si moltiplicano, nessuno vuol dare troppi fastidi ai compagni nei guai. La giustizia ad orologeria funziona in ritardo: prima le elezioni, e solo poi le perquisizioni e gli avvisi di garanzia. La teoria è della Procura della Repubblica di Reggio Emilia, che l’ha rivendicata per bocca del suo capo, Marco Mescolini (nella foto). Siccome si votava per le comunali del capoluogo si è atteso pazientemente che gli elettori avessero il tempo di votare per l’amministrazione uscente – ovviamente rossa – senza essere turbati da inchieste. I reggiani sono andati ai seggi convinti di votare per tante brave persone, hanno riconfermato il sindaco Vecchi e poi la scoperta. Sirene spiegate al Comune, Guardia di Finanza negli uffici, perquisizioni a caccia di irregolarità negli appalti comunali. Con il cadeaux di quindici avvisi di garanzia, vicesindaco e un assessore uscenti inclusi. I reati? Corruzione, turbativa della libertà degli incanti, falsità ideologica del pubblico ufficiale, abuso d’ufficio e rivelazione di atti d’ufficio. Il tutto per undici milioni per gli impianti tecnologici. E poi parcheggi, controlli ztl, trasporti scolastici per altri 25 milioni. Assieme a qualche bella nomina.

Bendiamo gli elettori. Ma gli elettori dovevano restare con gli occhi bendati e i tappi nelle orecchie. Non andavano “turbati”. E nemmeno il Pd, povero. È stato proprio Mascolini a “spiegare” l’inspiegabile ed è significativo che nessuna testata nazionale si sia gettata a capofitto su dichiarazioni quantomeno clamorose. Palamara non avrebbe detto di meglio. “Non si può fare una perquisizione venerdì – ha detto il capo della Procura di Reggio – se domenica si vota.  Abbiamo cercato di rispettare al massimo ciò che stava avvenendo sia prima (riferendosi all’indagine avviata a febbraio con gli altri 18 dirigenti comunali indagati, ndr) sia dopo le elezioni, agendo non subito, ma non troppo dopo. Il concetto è ‘dopo’ che è un valore”. Sennò si turbano gli elettori…Sicuramente almeno il compagno sindaco avrà sempre più fiducia nella giustizia italiana, reggiana  in particolar modo. Ci consente il dottor Mascolini di considerare molto sbagliata la sua posizione? Non avevano diritto gli elettori a sapere che razza di amministrazione andavano a rinnovare?

Interrogazione di Foti (Fdi). Vedremo se come il procuratore della città emiliana – già toccata da altre inchieste, di mafia, che  fortunatamente hanno risparmiato il Pd – la penseranno anche Bonafede e Salvini. Già, perché a chiamare meritoriamente in causa il governo è il deputato di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, stupito quanto noi dell’accaduto e che ha denunciato la strana teoria di Mascolini. Foti ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sollecitare un’ispezione ministeriale alla Procura di Reggio Emilia. E a Salvini per valutare – sulla scorta di una dettagliata relazione del Prefetto sul coinvolgimento di amministratori e dirigenti nell’inchiesta della Procura – se non sussistano le condizioni per il commissariamento del Comune di Reggio Emilia. Se potessimo, suggeriremmo ai due ministri di non perdere tempo nel rispondere e soprattutto agire. Perché questa storia va chiarita: vogliamo sapere anche noi se i tempi della giustizia possano essere condizionati – pro reo… – dalle competizioni elettorali. Perché non sempre succede così, talvolta – per alcuni e non per altri – i carabinieri arrivano durante i comizi…

GIUDICI & SINISTRI. QUANTI SOSPETTI SUL LÍDER MASSIMO MA LUI ARCHIVIÒ. E DIVENNE SINDACO PD...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Il papà era un calciatore professionista che a fine carriera diventò un piccolo imprenditore. Michele Emiliano, invece, preferì il basket e ancora oggi gioca nel Cus Bari over 40. Una passione che non gli ha impedito di laurearsi in giurisprudenza a Bari nel 1983, far la pratica in uno studio di avvocato e vincere il concorso per entrare in magistratura ad appena 26 anni. Ma il suo futuro era nella politica. Che gli finì sul tavolo nel suo ufficio a palazzo di giustizia sottoforma di fascicolo sugli sperperi della missione Arcobaleno. Quella messa in piedi per aiutare i profughi kossovari. E la politica, si dirà, cosa c'entra? C'entra perché il procedimento sfiorò massimo D'Alema e pezzi del suo governo, come il sottosegretario Barberi (rinviato a giudizio) e il sottosegretario diessino Giovanni Lolli per il quale l'anno scorso il gip, su sollecitazione del pm Di Napoli, ha dichiarato il non luogo a procedere insieme a Quarto Trabacchi, altro Ds. L'inchiesta finì in nulla, nonostante le contestazioni del procuratore Di Bitonto. Ma alla fine Emiliano si ritrovò candidato, con la benedizione del ras di Puglia Massimo D'Alema, a sindaco di Bari. A capo, nemmeno a dirlo, di una coalizione di centrosinistra. Ma di D'Alema Emiliano diventa il vero luogotenente quando a ottobre 2007 batte il senatore Antonio Galione ed è eletto segretario regionale del Pd. Nel ballottaggio punta di nuovo al municipio di Bari. Ma in tribunale continua ad avere tanti amici.

INQUISÌ IL PREMIER DEL MONTENEGRO ORA SPIA I PARTY A PALAZZO GRAZIOLI...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Il tam tam sui blog è già partito. «Pino Scelsi sarà il nuovo De Magistris?», si chiedono gli internauti alcuni con speranza, altri intravedendo una iattura. Cinquantacinque anni, una fama da gran lavoratore, sostituto procuratore distrettuale antimafia, Scelsi a Bari è magistrato piuttosto noto. Soprattutto da quando ha messo sotto inchiesta Milo Djukanovic, cinque volte premier del Montenegro, accusato di associazione mafiosa finalizzata al traffico di sigarette di contrabbando dal Montenegro all'Europa e verso la Svizzera. Inchiesta archiviata per l'immunità diplomatica riservata ai capi di Stato, di governo e ai ministri degli Esteri. Decisamente più tosti i processi ai più spietati clan baresi, i Capriati e gli Japigia. Criminalità organizzata e politici collusi, killer e colletti bianchi. Ma anche lui incontra Massimo D'Alema nell'indagine sul re delle cliniche private Francesco Cavallari e i presunti finanziamenti al Partito comunista per la campagna elettorale del 1985. Un'inchiesta per la quale il pm Alberto Maritati chiese l'archiviazione e nella quale Scelsi fece gli accertamenti su Cavallari. Finanziamenti rossi, dunque, sui quali indagò proprio Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari. Maritati, come Emiliano, si buttò in politica. Scelsi, invece, si tiene stretta la sua toga da magistrato e oggi indaga sulle presunte feste a Palazzo Grazioli.

CHIUSE GLI OCCHI SUI SOLDI AL PCI SI RISVEGLIÒ DA SOTTOSEGRETARIO DS...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Per chi volesse conoscere vita e miracoli di Alberto Maritati, su internet c'è il suo ricchissimo sito con biografia, articoli, interviste e fotografie a fianco dei potenti. Ovviamente di sinistra, visto che su tutto domina un vistosissimo simbolo del Pd. Ma anche per lui la carriera politica comincia nelle aule di un tribunale. Prima, fin dal 1969, pretore a Otranto dove stila (si legge testualmente), «una sentenza importante a favore delle raccoglitrici di olive». Dal 1979 è giudice istruttore a Bari. E qui, anche per lui, l'incontro con Baffino D'Alema finito impigliato nell'inchiesta Operazione speranza, quella a carico di Francesco Cavallari, il magnate delle cliniche private. Nel fascicolo anche quel contributo di 20 milioni di lire che lo stesso D'Alema sostanzialmente confermò di aver ricevuto come finanziamento elettorale al Pci per la campagna elettorale del 1985. Il gip Concetta Russi nel giugno del '95 archiviò su richiesta del pm. Proprio quel Maritati che nel frattempo era diventato vice procuratore alla Procura nazionale antimafia e poi candidato dal centrosinistra a Lecce. Eletto senatore e immediatamente nominato sottosegretario all'Interno durante il primo governo D'Alema, diventa il numero due del ministro Rosa Russo Jervolino e poi nuovamente sottosegretario nel D'Alema II. Nel 2006 è rieletto senatore e nominato sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi. E la toga da magistrato resta in naftalina.

La battaglia al Csm per Palermo. Sintesi di Samuela De Gaetani tratta da una riflessione di Gian Carlo Caselli. La Repubblica il 28 maggio 2019. Si dice che la storia di ogni eroe sia la storia di un uomo solo. Solo nelle stesse battaglie che di eroe gli hanno procurato la fama. La vita di Falcone non sfugge certo a tale paradigmatica condanna: ed è quanto Gian Carlo Caselli, il magistrato che dopo la morte di Falcone e Borsellino  chiese di andare a Palermo per dirigere quella Procura, ci racconta con la voce ancora rotta di chi, quel velo di solitudine, ha cercato ardentemente di squarciare. È tra il 1986 e il 1992 che si dispiega il Maxiprocesso a Cosa Nostra: Falcone, Borsellino e l’intero pool antimafia conseguono la prima e la più grande di tutte le vittorie della giustizia contro l’associazione mafiosa, sferrando un colpo al cuore di tutto ciò che la mafia è stata fino a quel momento. Ed è nello stesso 1986 che ha inizio il quadriennio di  Caselli al CSM , un quadriennio caratterizzato da un continuo susseguirsi di  “casi Palermo” che investirono Borsellino, Falcone e lo stesso pool. Il primo “caso” riguarda la candidatura di Borsellino a capo della Procura della Repubblica di Marsala. Suo concorrente: un magistrato digiuno di mafia molto più anziano di lui. Il criterio della professionalità antimafia vince sul vecchio tabù della gerontocrazia. Borsellino ottiene l’incarico, ma non esce illeso da quello scontro di criteri che avevano guidato le votazioni: Leonardo Sciascia-fuorviato dalle proprie fonti, come egli stesso riconoscerà più tardi-  in un articolo del “Corriere della Sera” intitolato “ I professionisti dell’antimafia”, riserva le ultime righe a un’invettiva contro il magistrato palermitano, accusato di essere un carrierista. L’accusa rivolta a Borsellino diventa linfa della grande polemica contro i magistrati che combattono Cosa Nostra, e concorre a determinare l’esito del secondo “caso Palermo” ribaltando la maggioranza che si era formata su Marsala. Nel 1988, infatti, con 14 voti a favore, 10 contrari e 5 astenuti viene nominato a capo dell’ufficio istruzione di Palermo Antonino Meli, un magistrato del tutto inesperto di mafia, preferito alla grande competenza in materia che aveva magistralmente mostrato sul campo il più giovane Falcone, candidato allo stesso incarico. Esprimendo il suo voto a favore di Falcone, la notte del 19 gennaio 1988, Gian Carlo Caselli terrà un discorso davanti al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. In questa occasione egli non solo getta luce sull’enorme portata dei risultati conseguiti dall’antimafia con il Maxiprocesso ( la fine dell’impunità  e del  mito dell’invincibilità di Cosa nostra), ma mina le fondamenta delle  strumentali  e calunniose accuse di “protagonismo” che erano state mosse a Falcone in quegli anni. «Quando i giudici non davano fastidio, quando non erano scomodi», dirà, «erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di protagonismo». In particolare, Caselli mette a fuoco il bersaglio di quella guerra fredda che si consumava in seno al CSM:  certo Falcone, ma non solo;  anche tutto ciò che egli rappresentava, in  particolare il vincente metodo di lavoro del pool. Abbandonare la direttiva della   professionalità specifica antimafia prescelta per Marsala e passare  con Meli/Falcone alla direttiva opposta della mera anzianità  è dunque  anche una  scelta politica contro il metodo di lavoro del pool di Falcone.  Che per lo stato equivaleva a gettare le armi di fronte alla mafia. La lotta alla mafia – come metodo e risultati – arretra di trent’anni. Si  rinuncia ai parametri  tipici del pool della  specializzazione e centralizzazione dei dati nelle inchieste sulla mafia; da un metodo dimostratosi col maxiprocesso vincente, perché consentiva una visione organica del fenomeno nel suo complesso, si torna alla vecchia e perdente  parcellizzazione, che alla mafia aveva assicurato per anni una sostanziale impunità. È Borsellino a denunciare queste  storture dell’antimafia dopo la “penalizzazione” di Falcone e del pool. Con  due  interviste da lui rilasciate il 20 luglio del 1988 ( ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato), ma le sue denunce vengono liquidate dal CSM che addirittura apre contro di lui un procedimento paradisciplinare per non aver seguito “le vie istituzionali”. Intanto,  soppresso dalla riforma processuale del 1989 l’ufficio istruzione per cui era stata scatenata la bagarre Meli/ Falcone, viene accolta la domanda di Falcone a Procuratore aggiunto di Palermo, ma sul suo conto le calunnie e gli attacchi  non si arrestano. Corvi e veleni vari lo accusano  vilmente di  essersi organizzato da solo l’attentato dell’Addaura del 21 giugno per favorire tale nomina. L’anno seguente viene bocciata la sua candidatura al CSM. Mentre a Palermo, per Giovanni Falcone, il grande protagonista del Maxiprocesso, solo porte chiuse e umiliazioni che lo costringono ad “emigrare” a Roma. Nominato da Claudio  Martelli  dirigente dell’ufficio affari penali al ministero della giustizia, Falcone può riprendere la sua ostinata battaglia alle mafie. Non solo crea la DNA (Direzione Nazionale Antimafia), le DDA (Direzioni Distrettuali Antimafia) e la DIA, ma consolida la legge sui pentiti e getta le basi del  41 bis. Uno strumentario organizzativo che promette  altri scacchi alla mafia. Nello stesso periodo, la Cassazione conferma in via definitiva ( ed è la prima volta nella storia dell’antimafia)  le condanne del Maxiprocesso.  Due “siluri” micidiali cui la mafia reagisce bestialmente con le stragi del 1992. «Prima o poi la mafia mi ucciderà», aveva profetizzato Falcone all’indomani dell’attentato dell’Addaura. Ma aveva cominciato a morire molto prima, secondo Borsellino. Proprio quando il CSM gli aveva negato la nomina a successore di Caponnetto. Falcone è stato ucciso da tanti, in molti modi, innumerevoli volte. Ma con il suo insegnamento rimane vivo e combattente attraverso gli occhi di Caselli  e di tanti altri che ci interrogano: che cosa sceglieremo per domani?

Il pensiero di Giovanni Falcone. Sintesi di Annamaria Nuzzolese tratta da interventi di Giovanni Falcone. La Repubblica il 29 maggio 2019. Leggendo queste righe la sensazione che assale il lettore è di stanchezza, nella seduta del 31 Luglio 1988, Falcone tiene un discorso al Consiglio Superiore della Magistratura, i toni sono quelli equilibrati dell’uomo di sempre ma si nota ormai la fatica nel resoconto finale di tutti i macigni che si è dovuto addossare e di tutti i silenzi che ha dovuto mantenere per evitare polemiche passate o più o meno contemporanee all’epoca del suo discorso. La delusione fa riferimento alla mancata collaborazione evinta da episodi di lettere di richiamo durante la direzione Meli dell’ufficio istruzione di Palermo, il primo discorso del nuovo direttore dopo l’insediamento ha avuto come unico perno la titolarità del più grande processo in atto ovvero quello che aveva in esame Cosa Nostra, nessuno scambio di idee, nessun confronto con chi fino ad allora aveva portato avanti le indagini, una palese e ferma opposizione basata su ragioni di puro formalismo per cui l’istruttoria non poteva essere assegnata congiuntamente a più giudici istruttori, convinzione a cui nulla è valsa l’opposizione della sentenza della Corte di Assise di Palermo che affermava invece la regolarità congiunta. In questa situazione onore al merito di chi cerca di mantenere viva la filosofia del pool rinnovando sempre la stima e la cordialità nei confronti del consigliere che sembra però bocciare qualsiasi tipo di proposta alternativa, senonché la disgregazione del metodo fino ad allora seguito raggiunge la massima evidenza con l’assegnazione dei vari processi attraverso un criterio totalmente oscuro agli altri membri del pool e in contrasto con i criteri tabellari predisposti e approvati dal CSM. Per riportare alcuni esempi: processo sull’omicidio di Tommaso Marsala affidato a Lacommare giustificando l’assegnazione con la tesi per cui tutti dovevano occuparsi in parte di indagini di mafia. Iter identico per il sequestro di Claudio Fiorentino assegnato dal consigliere a se stesso senza spiegazioni in merito, nonostante la gravità del sequestro che metteva in dubbio le regole di Cosa Nostra. Viene richiesta una copia degli atti appellandosi all’art 165 bis del codice di procedura penale, che non viene accolta, affermando che dovevano prima essere chiesti degli atti specifici e poi, che la richiesta costituiva indebita sovrapposizione a un potere dalla legge attribuito al solo capo dell’ufficio, questo è riportato in una lettera del 12 Maggio mentre nel frattempo erano state fatte assegnazioni congiunte di due processi. La risposta merita la più pacata decantazione, ed arriva infatti a meditazione conclusa dodici giorni dopo con i consueti riguardi rispettosi. La situazione presto sembra prendere una piega astrusa, omicidio Casella, ancora una volta confusione nell’assegnazione fatta senza leggere il rapporto, mentre ai colleghi del gruppo antimafia vengono assegnati processi ordinari che portano ad un appesantimento del lavoro di interrogatorio, di indagini e di esami testimoniali che si addossano sulle spalle del solo Falcone. Pendono in questo momento circa 2500 processi e Falcone qui richiama un altro episodio di gravità inaudita, cioè il processo Calderone, il cui mandato di cattura in cui si spiegano i motivi dello stesso e la competenza propria dell’ufficio di Palermo è stato pretermesso e sballottato tra il consigliere istruttore e il procuratore della Repubblica di Marsala, tutto ciò senza consultare alcun collega del pool quando Falcone stesso era fuori Italia. Queste sono grosso modo le controversie di cui si fa portavoce il magistrato palermitano che in un intervento del 17 Dicembre 1984 in occasione di un dibattito organizzato da Unità per la Costituzione, una corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati, rivisita ampiamente il concetto di “emergenza mafiosa” ponendo l’accento sulla componente storica della mafia che precede la nascita dello Stato Unitario. La mafia come fenomeno interno e soprattutto economico-sociale riguardante vari strati della popolazione del Mezzogiorno non può essere utilizzato come “alibi per giustificare le carenze dei poteri statuali”, tuttora affermazione attuale e visionaria. L’organizzazione strategica nello studio del fenomeno mafioso e nell’attuazione della repressione attraverso strumenti più incisivi e compatti muove i primi passi in quell’Italia che vive le più grandi sofferenze e insieme somministra e sperimenta i più potenti farmaci per curarsi, tra cui il testimone, il giudice ed infine quello da cui più possiamo imparare: l’uomo, Giovanni Falcone.

I Professionisti dell'Antimafia di Leonardo Sciascia.

Le guardie del feudo. Non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto. Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana. Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico. Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava. I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

Leonardo Sciascia, «I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987

·         Perché la ‘ndrangheta è ormai la mafia più potente e ricca del mondo.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2019. «Ricordati che il mondo si divide in due: ciò che è già Calabria e ciò che lo diventerà». Il dialogo fra due capi cosca è la proiezione della 'ndrangheta nei prossimi anni. Parole che il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei carabinieri, ricorda per fotografare la minaccia che incombe ormai anche nelle regioni del nord.

Cos' è la 'ndrangheta oggi?

«Le sentenze passate in giudicato disegnano un' organizzazione unitaria e segreta, su più livelli, con un organismo di vertice al quale rispondono ramificazioni criminali sia in Italia sia all' estero. Vertice che ha anche il compito di ratificare le indicazioni ricevute da una riservata e occulta struttura di comando con massimi esponenti della 'ndrangheta militare e soggetti delegati a curare lo stabile collegamento funzionale tra la componente visibile e le organizzazioni massoniche coperte».

Meno armi e più affari?

«L' esigenza di eludere il costante aumento della pressione investigativa e giudiziaria in Calabria ha indotto le consorterie a limitare al massimo il ricorso alle armi o a manifestazioni criminali eclatanti».

E all' estero?

«Germania, Svizzera, Australia e Canada, la Costa Azzurra, Spagna e Olanda sono strategiche per il controllo del traffico di droga proveniente dal nord Africa e dal sud America. E poi Malta, Regno Unito, Lussemburgo e Svizzera».

È un problema di norme più favorevoli?

«Sì, a cominciare dall' assenza di norme come il nostro 416 bis. Molti Paesi lavorano per dotarsi di un assetto normativo efficace ma ad oggi sono ancora vulnerabili».

Intanto la politica continua a non essere immune.

«L' approccio è improntato alla ricerca di rapporti collusivi funzionali, dello scambio elettorale politico-mafioso, dell' accesso diretto alle cariche pubbliche, elettive o meno, da parte di soggetti affiliati alle cosche. Negli ultimi 5 anni sono stati sciolti 36 comuni in Calabria, Emilia Romagna e Liguria».

Ci sono altri settori di interesse per i clan?

«C' è il progressivo orientamento verso settori formalmente leciti, che richiedono specifiche competenze tecniche, giuridiche e gestionali: esigenza, quest' ultima, che le cosche soddisfano con collaborazioni con qualificati professionisti esterni, ovvero avviando i figli dei capi cosca a iter di studi qualificati. Non c' è solo il narcotraffico mondiale o le tradizionali attività predatorie e parassitarie sul territorio. Grazie alle nostre indagini negli ultimi quattro anni siamo riusciti a ottenere l' emissione di provvedimenti ablativi per circa 700 milioni di euro».

Quanti sono gli affiliati?

«Ci sono "locali" ovunque: oltre che in Calabria, in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Valle d' Aosta, Liguria, all' estero. Ognuna, per le regole di 'ndrangheta, deve avere un numero minimo di associati (49). Nell' ultima operazione sono state arrestate 334 persone, gran parte delle quali delle "locali" solo in provincia di Vibo Valentia».

Continuerà il ricambio generazionale?

«La componente familiare della struttura 'ndranghetista assicura il ricambio. Come viene meno la figura del capo di una cosca, il reggente viene subito individuato in uno dei figli non gravato da problemi con la giustizia. Una 'ndrina con molti uomini è considerata potente militarmente, in grado di competere su più fronti, dai grandi traffici illegali agli interessi illeciti e non».

Perché la ‘ndrangheta è ormai la mafia più potente e ricca del mondo. Il potere delle cosche calabresi ha ormai superato quello della mafia siciliana. Le ‘ndrine sono in tutti i continenti, ma hanno scelto la strategia dell’inabissamento: meno violenza più affari puntando sui rapporti con la massoneria. Cesare Giuzzi il 20 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Un’operazione dopo l’altra. Giovedì un terremoto da 334 arresti tra Vibo Valentia e un pezzo d’Europa. Poi la nuova inchiesta che travolge l’assessore regionale piemontese Roberto Rosso per voto di scambio mafioso. Ogni nuova alba è protagonista di inchieste grandi e piccole sull’enorme potere delle cosche calabresi. Clan che non solo soffocano le terre del Sud ma che ormai, e da diversi decenni, hanno trovato la loro terra più fertile nei territori del Nord, Lombardia e Piemonte su tutti. La ‘ndrangheta è oggi considerata la più potente, ricca e ramificata organizzazione mafiosa a livello mondiale. Se Cosa nostra palermitana deve il suo salto di qualità alla prima metà del secolo scorso grazie allo sbarco in Nord America, i clan calabresi sono ormai presenti ovunque: dall’Australia al Canada, passando per Brasile, Venezuela, Argentina, Est Europa e Russia. Un’espansione avviata con i soldi dei rapimenti negli anni Settanta e Ottanta e oggi rafforzata dall’egemonia mondiale della ‘ndrangheta nel traffico di cocaina. Ma oggi la ‘ndrangheta è più forte di Cosa nostra, la mafia che negli anni Ottanta e Novanta sfidò lo Stato ai suoi più alti livelli? Certamente sì. Anche se i «siciliani» non sono scomparsi ma stanno sempre più mutuando dalle ‘ndrine la capacità di penetrare gli apparati dello Stato senza fare rumore, senza sparare e senza neppure il bisogno di mostrare muscoli o la faccia più violenta. La ‘ndrangheta ha da sempre preferito non sfidare le istituzioni ma riuscire ad inserirsi al proprio interno. Lo stesso è avvenuto per l’imprenditoria e la politica, ma anche (in alcuni casi) per magistratura e forze dell’ordine. Questo approccio ha permesso a una mafia considerata per troppo tempo un’accozzaglia di famiglie rurali e pastori, di entrare nella stanza dei bottoni. Di far crescere, e ormai in modo sbalorditivo, il proprio «capitale sociale». La ‘ndrangheta non ha infettato il Nord come un virus maligno, ma ha trovato a Milano come a Genova, a Modena e Reggio Emilia come ad Aosta e Torino, le braccia spalancate di chi ha approfittato dei servigi dei boss arrivati spesso con il soggiorno obbligato: dal lavoro nero allo smaltimento di rifiuti, dai cantieri alle false fatture. I soldi delle cosche sono oggi in ogni settore imprenditoriale: edilizia, ristorazione, finanza, gioco online, concessionarie e perfino nella sanità. La ‘ndrangheta è arrivata al vertice delle mafie mondiali essenzialmente per tre fattori. L’organizzazione, che a differenza di Cosa nostra non ha una vera commissione ma un «Crimine» che svolge soprattutto funzioni di collegamento. Mentre ogni ‘ndrina lavora (e si muove) in autonomia anche se all’interno di regole e confini comuni. Una sorta di franchising ante litteram. Decisiva è stata poi la capacità di prendere l’egemonia del traffico di droga, impiantando i propri uomini nei Paesi di produzione della coca e stringendo alleanze — anche con il sistema dei matrimoni combinati — con gli eredi dei «boss dei cartelli». Stessi meccanismi arcaici, quindi, ma proiettati dall’altra parte del pianeta. Infine la capacità della ‘ndrangheta è stata quella di cambiare pelle, passando dai 700 morti della seconda guerra di mafia (1985-91) alla strategia dell’inabissamento. In particolare dopo la strage di Duisburg — 6 morti nell’agosto 2007 — le ‘ndrine hanno scelto deliberatamente di abbandonare la fase più violenta e limitare in maniera chirurgica agguati e delitti. Il motivo? Esattamente l’opposto della strategia stragista di Totò Riina: lo Stato quando reagisce lo fa in maniera così dura e determinata da mettere in seria difficoltà l’organizzazione mafiosa. Per questo meglio non sfidarlo, riuscire a confondersi, evitare di apparire (come è invece nella realtà) il principale problema per la sicurezza di questo Paese. La ‘ndrangheta sa quando può sparare e quando è meglio non farlo. Per evitare di attirare l’attenzione dello Stato e anche per non allarmare i cittadini che più dalle cosche devono essere «distratti» da altre questioni. Operazione di marketing senza precedenti. Ma c’è un altro, ultimo e forse decisivo fattore. È quello messo in luce dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dallo studioso Antonio Nicaso nel loro ultimo libro «La rete degli invisibili». La ‘ndrangheta grazie all’incontro con la massoneria deviata ha trovato un volano relazionale che l’ha fatta entrare nei più alti apparati di questo Paese. Una rete segreta di insospettabili — magistrati, giornalisti, politici, imprenditori, ufficiali delle forze dell’ordine — capace di condizionare ogni cosa. Uno scenario che sembra uscito da un film di fantascienza per chi considera la ‘ndrangheta come un mafia di pastori, riti e «mangiate» di capretto in Aspromonte. Ma che è la più impressionante realtà uscita dalle ultime inchieste giudiziarie.

Diamanti, oro, opere d’arte: così la ‘ndrangheta investe miliardi di euro. Pubblicato martedì, 24 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Hanno il predominio assoluto del mercato economico criminale e si dimostrano l’organizzazione criminale più potente proprio per la capacità di infiltrarsi nei “settori sani”. Sono i clan dell’ndrangheta che negli ultimi cinque anni hanno aumentato in maniera vertiginosa la propria capacità di investimento anche gra zie ai «beni “rifugio”, quali diamanti, metalli preziosi, valute pregiate, opere d’arte e reperti archeologici, che garantiscono ai sodalizi sia stabilità di valore nel tempo, sia prestigio e rafforzamento dell’immagine negli ambienti delinquenziali». Il rapporto della Guardia di Finanza disegna la mappa del crimine e conferma come le ‘ndrine abbiano ormai preso il sopravvento anche nelle regioni del Nord, prima fra tutte il Piemonte. Contro la criminalità organizzata i finanzieri «hanno svolto 10.287 investigazioni patrimoniali nei confronti di oltre 55.000 soggetti, con la formulazione di proposte di sequestro di beni e valori per oltre 19 miliardi di euro, l’esecuzione di sequestri per circa 11 miliardi di euro e l’applicazione di confische per 6 miliardi di euro». Tra il 2015 e il 2019 contro i clan calabresi sono stati effettuati sequestri per 3.461.381.760 di euro e confische per 1.424.597.491 di euro. Per comprendere l’entità basti pensare che i sequestri contro la mafia cono stati 1.022.451.411 di euro e le confische 1.141.094.587 di euro, mentre la camorra ha subito sequestri per 895.583.109 di euro e confische per 846.375.126 di euro.

Scrive la Finanza: «La crescente interdipendenza tra “mondo degli affari”, sistemi finanziari, bancari e assicurativi, unitamente alla loro dimensione digitalizzata, hanno offerto nuove e più ampie opportunità alle organizzazioni criminali per diversificare i propri interessi illeciti. La criminalità organizzata costituisce un fenomeno in graduale espansione anche nel Nord e, in particolare, in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Spicca il Piemonte, dove le proposte di sequestro sono quasi quadruplicate tra il 2017 ed il 2019. Più in generale, si tratta di un processo dinamico e variegato avvenuto per fasi e con modalità differenti, passando dai primi insediamenti di Cosa Nostra e delle ‘ndrine calabresi negli anni ’50 e ’60, soprattutto in comuni lombardi e piemontesi, fino ad una progressiva supremazia della ‘ndrangheta, a partire dagli anni ‘90 fino ad oggi. Anche se alcune zone risulterebbero più attrattive di altre, nessun territorio può considerarsi immune da potenziali infiltrazioni criminali, in ragione di una crescente presenza pervasiva dei clan e di trame relazionali sempre più fitte soprattutto con gli apparati pubblici ed imprenditoriali. Riprova ne sono gli scioglimenti dei consigli di diversi Comuni del Nord avvenuti negli ultimi anni ed i preoccupanti episodi di corruzione riscontrati in seno alla pubblica amministrazione, che hanno consentito di contribuire in maniera determinante al successo delle organizzazioni criminali, soprattutto al di fuori dei propri contesti tradizionali».

‘Ndrangheta, maxi blitz dei carabinieri: oltre 334 arresti tra boss, politici e imprenditori. Il Riformista il 19 Dicembre 2019. Oltre 300 arresti in un maxi blitz eseguito dai carabinieri contro l’ ‘Ndrangheta a Vibo Valentia. L’operazione dei militari dell’Arma ha disarticolato le organizzazioni di ‘Ndrangheta operanti nel Vibonese. Un’operazione a 360° che ha coinvolto i carabinieri del R.O.S. ed il Comando Provinciale Carabinieri di Vibo Valentia, con il supporto dei Comandi Provinciali territorialmente competenti, di personale del G.I.S, del 1° Reggimento Paracadutisti Tuscania, del NAS, del TPC, dei quattro Squadroni Eliportati Cacciatori e dell’8° Elinucleo CC che ha portato all’ esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Catanzaro, su richiesta della locale Procura Distrettuale Antimafia nei confronti di 334 indagati, ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsione, usura, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, detenzione di armi, traffico di stupefacenti, truffe, turbativa d’asta, traffico di influenze e corruzione. Dei 334 indagati sottoposti alla misura cautelare, 260 sono stati ristretti in carcere, 70 agli arresti domiciliari e 4 sottoposti al divieto di dimora. Altri 82 sono finiti sotto inchiesta per un totale di 416 persone coinvolte nel maxiblitz. Tra gli arrestati boss della ‘Ndrangheta, politici locali, amministratori e imprenditori. Tra i nomi più importanti spicca quello di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia e Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo Calabro e presidente regionale dell’Anci. Fra gli arrestati anche l’ex consigliere regionale della Margherita e poi Pd, Pietro Giamborino. I provvedimenti cautelari sono stati eseguiti in Calabria e in varie province della Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia, Campania, Basilicata, nonché in Svizzera, Germania e Bulgaria. Avviato anche il sequestro preventivo di beni mobili e immobili per un valore complessivo di circa 15 milioni di euro. L’operazione si svolge al termine di un’articolata attività investigativa condotta dal Raggruppamento e dal Comando Provinciale di Vibo Valentia in direzione del contesto ‘ndranghetistico vibonese, con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. Le indagini hanno consentito di ricostruire gli assetti di tutte le strutture di ‘ndrangheta dell’area vibonese e fornito un’ulteriore conferma dell’unitarietà della ‘ndrangheta, al cui interno le strutture territoriali (locali/ ‘ndrine) godono di un’ampia autonomia operativa, seppur nella comunanza delle regole e nel riconoscimento dell’autorità del Crimine di Polsi. Dalle indagini è emersa l’esistenza di strutture quali società, locali e ‘ndrine, in grado di controllare il territorio di riferimento e di gestirvi capillarmente ogni attività lecita o illecita e lo sviluppo di dialettiche inerenti alle regole associative, nello specifico, sulla legittimità della concessione di doti ad affiliati detenuti e sui connessi adempimenti formali. È inoltre stato documentato l’utilizzo di tradizionali ritualità per l’affiliazione e per il conferimento delle doti della società maggiore e attestato dal sequestro di alcuni pizzini riportanti le copiate. Le indagin hanno confermato l’operatività di una struttura provinciale – il crimine della provincia di Vibo Valentia – con compiti di coordinamento delle articolazioni territoriali e di collegamento con la provincia di Reggio Calabria e il crimine di Polsi, quale vertice assoluto della’ndrangheta unitaria. A capo della struttura criminale si sono alternati, negli anni, esponenti della cosca “Mancuso”, quali Giuseppe Mancuso (classe 1949), Pantaleone Mancuso (classe 1961) e, da ultimo, Luigi Mancuso (classe 1954), che proprio in tale ruolo di vertice ha governato gli assetti mafiosi della provincia, riuscendo anche a ricomporre le fibrillazioni registrate negli anni tra le varie consorterie.

‘Ndrangheta: maxi-blitz in tutta Italia, arrestate 334 persone. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Corriere.it. Una maxi operazione dei Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Vibo Valentia è in corso dalle prime ore del 19 dicembre per l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare del gip di Catanzaro su richiesta della Dda a carico di 334 persone. L’operazione `Rinascita-Scott´ punta a disarticolare tutte le organizzazioni di 'ndrangheta operanti nel Vibonese e facenti capo alla cosca Mancuso di Limbadi. Complessivamente sono 416 gli indagati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidio, estorsione, usura, fittizia intestazione di beni, riciclaggio e altri reati aggravati dalle modalità mafiose. I carabinieri stanno notificando anche un provvedimento di sequestro beni per un valore di circa 15 milioni di euro. L’imponente operazione, frutto di indagini durate anni, oltre alla Calabria interessa varie regioni d’Italia dove la `ndrangheta vibonese si è ramificata: Lombardi, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia, Campania e Basilicata. Alcuni indagati sono stati localizzati e arrestati in Germania, Svizzera e Bulgaria in collaborazione con le locali forze di Polizia e in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria di Catanzaro. Nell’operazione sono impegnati 2500 carabinieri del Ros e dei Comandi provinciali che in queste ore stanno lavorando sul territorio nazionale supportati anche da unità del Gis, del Reggimento Paracadutisti, degli Squadroni Eliportati Cacciatori, dei reparti mobili, da mezzi aerei e unità cinofile. I dettagli dell’operazione verranno illustrati nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella Procura della Repubblica di Catanzaro alla quale parteciperanno il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, il comandante del Ros Pasquale Angelosanto e il comandante della Legione Carabinieri Calabria Andrea Paterna.

'Ndrangheta, sequestrati beni per 15 milioni. Maxi blitz contro le cosche: oltre 300 arrestati tra boss, imprenditori e politici. Il Corriere del Giorno. Annientati i clan ‘ndranghettisti del Vibonese operanti in Italia e all’estero. Le accuse a carico degli arrestati, variano da associazione mafiosa, omicidio, estorsione, usura, fittizia intestazione di beni fino al riciclaggio ed altri diversi reati contraddistinti dall’aggravante delle modalità mafiose. Sono 334 gli arrestati su richiesta della Procura Antimafia di Catanzaro, 260 sono stati tradotti in carcere, gli altri 70 agli arresti domiciliari.  L’inchiesta ha permesso di far emergere le cointeressenze dei clan  con personaggi del mondo politico e dell’imprenditoria, ed ha permesso di documentare summit, riunioni e incontri fra boss e affiliati. Nel corso delle indagini è stato trovato anche un “pizzino” che per la prima volta documenta la formula con cui viene conferito il “tre quartino” uno dei più alti gradi di ‘ndrangheta. Oltre 2500 uomini del Ros dei Carabinieri e del comando provinciale di Vibo Valentia sono entrati in azione in contemporanea in Calabria, ma anche nel resto delle regioni d’Italia in cui la ‘ndrangheta vibonese si è ramificata. Supportati anche da unità del Gis, del Reggimento Paracadutisti, degli Squadroni Eliportati Cacciatori, dei reparti mobili, da mezzi aerei e unità cinofile, gli uomini del Ros hanno fatto scattare le manette in Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia, Campania e Basilicata, ma anche all’estero in Germania, Svizzera e Bulgaria in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria di Catanzaro. I militari dell’Arma contestualmente all’ordinanza di custodia cautelare, stanno notificando anche un provvedimento di sequestro beni per un valore di circa 15 milioni di euro. Tra le 334 persone arrestate questa mattina in una operazione denominata “Rinascita-Scott” è presente anche il presidente di Anci Calabria Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo (Vibo Valentia) . Un’altra figura di “peso” finita in galera è Giancarlo Pittelli, noto avvocato di Catanzaro, con un passato in politica. Pittelli infatti parlamentare di Forza Italia, ex membro della Commissione Giustizia alla Camera e coordinatore regionale del partito di Berlusconi. In manette anche Filippo Nesci il comandante della polizia municipale di Vibo , l’avvocato Francesco Stilo, legale del titolare dell’assegno da 100 milioni di euro, arrestato nei giorni scorsi alla frontiera con la Svizzera. E ancora un dipendente del tribunale di Vibo Danilo Tripodi e il noto imprenditore del settore abbigliamento Mario Artusa. Le persone coinvolte nel maxiblitz sono in totale di 416. 82 sono finiti sotto inchiesta. È stato invece disposto il divieto di dimora in Calabria per un altro ex parlamentare ed ex assessore regionale del Pd, Nicola Adamo, accusato di traffico di influenze. Ai domiciliari è invece finito il consulente del Governatore Mario Oliverio ed ex commissario liquidatore di Sorical, l’azienda che gestisce l’erogazione dell’acqua in Calabria, Luigi Incarnato, numero uno dei socialisti locali. Risulta invece allo stato irreperibile l’ex comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Catanzaro, Giorgio Naselli. In manette è finito anche Gianluca Callipo sindaco di Vibo Pizzo , presidente dell’Anci regionale, l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, poi passato alle dipendenze della struttura di Nicola Adamo, mentre è ai domiciliari Vincenzo De Filippis, già esponente Msi e di Alleanza Nazionale, ex assessore comunale all’Ambiente di Vibo, come il comandante della polizia municipale Pizzo, Enrico Caria, e il dirigente del settore urbanistica del Comune di Vibo Valentia Filippo Nesci, mentre vanno in carcere Danilo Tripodi, impiegato del Tribunale di Vibo Valentia, ed una serie di professionisti. Coinvolti anche noti imprenditori come Antonio Prestia, titolare di una nota ditta di costruzioni, Gianfranco Ferrante del settore ristorazione, Francesco e Carmelita Isolabella di Pizzo Calabro. Anche boss di storici casati di ‘ndrangheta sono stati travolti dall’inchiesta “Rinascita- Scott” . Fra loro c’è anche il patriarca Luigi Mancuso, fin dagli anni Novanta autorizzato a parlare in nome e per conto dell’élite della famiglie calabresi.  “Questa è un’indagine seria, concreta, fondata – dice il procuratore, che ha seguito  le operazioni di questa notte in prima persona – ho iniziato a lavorarci dal primo giorno in cui ho messo piede a Catanzaro”. Image“E’ la più grande operazione dopo il maxiprocesso di Palermo”, ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. “Abbiamo disarticolato completamente le cosche della provincia di Vibo – ha aggiunto – ma ha interessato tutte le regioni d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Nell’ordinanza ci sono 250 pagine di capi di imputazione. E’ stato un grande lavoro di squadra fatto dai Carabinieri del Ros centrale, di quello di Catanzaro, e del Comando provinciale di Vibo Valentia. Alla fase esecutiva dell’operazione hanno preso parte circa 3.000 militari con tutte le specialità, dal Gis al Tuscania ai Cacciatori, tutte le sezioni Ros d’Italia e tutti i carabinieri della Calabria”. Solo pochi giorni fa Camillo Falvo il neoprocuratore di Vibo che si è insediato ieri , salutando i colleghi della Procura di Catanzaro – dove per la Dda seguiva l’area di Vibo – aveva detto “ora o mai più”. “Se era un riferimento a oggi? Anche”, ha detto Gratteri precisando poi che il blitz è scattato con 24 ore di anticipo dopo aver compreso che “i boss sapevano che l’avevamo programmato“. Tra gli arrestati figura anche un cancelliere del Tribunale di Vibo. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si è complimentata con i Carabinieri e la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro per l’operazione parlando di “colpo durissimo” inferto alla ‘ndrangheta e alle sue ramificazioni.

Alessia Candito per repubblica.it il 19 dicembre 2019. Una partita a scacchi durata due anni, che fino all’ultimo ha rischiato di saltare. “Questa operazione era prevista per domani ma abbiamo anticipato il blitz di 24 ore perché ci siamo resi conto che molti degli indagati già sapevano degli arresti” rivela il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Volto stanco ma soddisfatto di chi ha seguito personalmente le delicatissime operazioni che in emergenza sono partite già ieri pomeriggio, quando tre degli indagati sono stati beccati dai reparti speciali del Gis sul treno Reggio Calabria – Milano, Gratteri parla di “miracolo” per il numero di forze – oltre 3mila carabinieri – mobilitati nel giro di un paio d’ore. E racconta di un’indagine – diretta dai pm Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci, Andrea Mancuso, con il coordinamento del procuratore capo Gratteri - che fin da principio i magistrati hanno dovuto difendere da continue fughe di notizie. “Abbiamo avuto problemi fin da quando la richiesta di misure cautelari è stata trasmessa al gip”. Il motivo sta tra le carte dell’inchiesta, che non solo ha ricostruito assetti, gerarchie e affari di 9 locali di ‘ndrangheta, 4 omicidi e 3 tentati omicidi per lungo tempo rimasti insoluti, ma ha toccato il più alto e fino ad oggi impenetrabile livello, in cui la ‘ndrangheta si mischia con la politica, le istituzioni, la pubblica amministrazione. “La cosa che più mi ha impressionato in questa indagine – dice il procuratore Gratteri è stato il livello di permeabilità alla ‘ndrangheta dimostrato da politica e istituzioni. Fra gli arrestati c’è il comandante provinciale dei carabinieri di Teramo”. Il canale è massonico, usa come paravento le logge ufficiali, ma si struttura in una rete che non bada ad appartenenze e obbedienze. Un mondo fatto di un “coacervo di relazioni tra i ‘grandi’ della ‘ndrangheta calabrese e i ‘grandi’ della massoneria”, cioè professionisti “ben inseriti nei contesti strategici (giudiziario, forze armate, bancario, ospedaliero e via dicendo)”. È a questo livello che matura il rapporto fra i due principali indagati dell’operazione, il capocrimine di Vibo Valentia, il boss Luigi Mancuso “Il Supremo”, vertice assoluto dei clan della zona e fra i massimi capi della ‘ndrangheta tutta, e l’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato, Giancarlo Pittelli, “legato stabilmente al contesto di ‘ndrangheta massonica, stabilmente a disposizione dei boss (e dunque delle sfere più alte della consorteria)”. Per il pentito di ‘ndrangheta Cosimo Virgiglio, esponente di alto rango della massoneria, l’ex parlamentare “aveva una doppia appartenenza, una "pulita" con il Goi (Grande Oriente d'Italia) del distretto catanzarese e poi una loggia coperta, "sussurrata"; lui aveva rapporti con quelli della loggia di Petrolo di Vibo”. La più potente ed influente secondo il collaboratore. E proprio per questo l’avvocato “accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la 'ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le Istituzioni tutte, fungendo da passepartout del Mancuso, per il ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali”. Il contesto in cui Pittelli si muove – sottolineano i magistrati – è “molto grigio, una zona d'ombra nella quale si addensano tutti i più alti interessi delle persone con cui entra in contatto. Si tratta di relazioni intessute a condizione di reciprocità perché, come si evince globalmente, lo stesso Pittelli ne trae un tornaconto personale”. Noto penalista e politico di lungo corso, Pittelli – emerge dalle carte – era vicinissimo a Mancuso e non solo per motivi professionali.  “L’apporto dell’avvocato non è riducibile a una partecipazione esterna” si legge nell’ordinanza, anche perché avrebbe “condiviso la modalità di conduzione della cosca, aderendo alla “politica gestionale” di Luigi Mancuso”. Per i magistrati “La messa a disposizione di Pittelli nei confronti di Luigi Mancuso (ma anche di Saverio Razionale, di altri esponenti della ‘ndrangheta reggina e via discorrendo) è costante e sistematica”. Amico intimo del boss, a cui era legato da un rapporto confidenziale, come documentato dalle conversazioni registrate dagli investigatori del Ros nel corso di una serie di incontri, è stato fondamentale per l’intero clan. È lui – accusa il pool di magistrati che ha lavorato all’indagine – a mettere a disposizione del clan “il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, anche per acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio e per garantirne lo sviluppo nel settore”. Ma anche per una serie di favori e servizi. Dalla raccomandazione per la figlia del boss Mancuso che non riusciva a superare un esame universitario a Messina al tentativo di far assumere al Gemelli il figlio di un altro elemento di vertice del clan, alla richiesta del boss “di intercedere presso la Regione Calabria per il trasferimento di un direttore delle Poste legato ai Piromalli (per cui si faceva anche latore di imbasciate su Cutro)”, Pittelli era sempre a disposizione. E in mano al clan avrebbe messo anche una rete di rapporti e conoscenze necessaria per concludere affari milionari, come la speculazione immaginata e poi fallita su un villaggio turistico del vibonese. “Oggi è giornata storica e non solo per la Calabria – commenta Gratteri – ma non è una frase fatta, è il mio pensiero, il pensiero di un uomo di 61 anni che ha dedicato oltre 30 anni di lavoro a questa terra. Tutto è partito dal 16 maggio 2016, giorno in cui mi sono insediato. Era importante avere un'idea una strategia, un sogno, una rivoluzione. Ho pensato questo il giorno del mio insediamento: smontare la Calabria come un Lego e poi rimontarla piano piano”. Un primo risultato è stato raggiunto, ma adesso – afferma – tocca alla società civile “Bisogna occupare gli spazi che noi abbiamo liberato. Questa è la sfida da oggi, se vogliamo davvero cambiare le cose”.

Il sogno di Gratteri: «Smontare la Calabria come un trenino Lego». Simona Musco il 20 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Maxi blitz: misure cautelari per 334 persone arrestato l’ex senatore Fi Giancarlo Pittelli. Per il gip, il penalista ed ex parlamentare sarebbe la cerniera tra massoneria e cosche. In carcere anche il sindaco di Pizzo Gianluca Callipo. Tre anni di indagini, che all’ultimo minuto rischiavano di saltare a causa di una fuga di notizie che ha costretto la Dda di Catanzaro ad anticipare il blitz, mobilitando in poche ore 3mila uomini delle forze dell’ordine, costretti ad acciuffare una ventina di uomini già in fuga sulla tratta ferroviaria che dalla Calabria porta a Milano. È questo il retroscena dell’operazione “Rinascita- Scott”, per il procuratore Nicola Gratteri la più grande dopo quella che ha portato al maxi- processo in Sicilia: 334 misure cautelari e oltre 400 indagati. Un’indagine che «conferma l’unitarietà della ‘ ndrangheta» e svela un universo di reati fine che vanno dall’omicidio al tentato omicidio, passando per estorsioni, violenza e minacce. L’inchiesta ha coinvolto nomi altisonanti della società civile e politica calabrese: dall’ex senatore di Forza Italia e noto penalista Giancarlo Pittelli a Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo e volto giovane della politica calabrese, passando per il legale Francesco Stilo, noto per essere il difensore dell’uomo beccato alla frontiera con un assegno da 100 milioni e Giorgio Naselli, il comandante provinciale dei carabinieri di Teramo”. L’indagine, diretta dai pm Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci, Andrea Mancuso, ha consentito di ricostruire assetti, gerarchie e affari di dieci locali di ‘ ndrangheta, facendo luce su quattro omicidi consumati e tre tentati, arrivando fino alle commistioni tra clan, politica e massoneria. «È una giornata storica, non solo per la Calabria – ha affermato Gratteri -. Questa indagine è nata il 16 maggio 2016, giorno in cui mi sono insediato. Per me era importante avere una strategia, un sogno, una rivoluzione. Questo è quello che ho pensato il giorno del mio insediamento: smontare la Calabria come un trenino Lego e rimontarla pian piano». La fuga di notizie è iniziata dal momento in cui la misura cautelare è arrivata sulla scrivania del gip. «Avevamo paura – ha sottolineato -, perché i capi sapevano che l’operazione sarebbe scattata domani (oggi, ndr)». Nel corso delle indagini, inoltre, è stato trovato un pizzino con appuntata, per la prima volta, la formula di conferimento del “trequartino”, una delle principali cariche di ‘ ndrangheta. In carcere sono finiti boss e gregari del clan Mancuso di Limbadi, cosca potente quanto violenta, il cui vertice, Luigi Mancuso, è finito ieri in carcere. E tra gli arrestati anche il suo legale, l’ex parlamentare Pittelli, per il quale il giudizio del gip è impietoso: partendo dalla richiesta della procura, che contestava il concorso esterno, il giudice ha riqualificato il reato in 416 bis. «L’apporto dell’avvocato non è riducibile ad una partecipazione esterna – si legge nelle conclusioni del giudice -. La messa a disposizione del Pittelli nei confronti di Luigi Mancuso ( ma anche di altri esponenti della ‘ ndrangheta) è costante e sistematica e non legata a momenti particolari di fibrillazione o ad uno scambio di voto o ad un affare particolare». Un apporto, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, che «non si è limitato alla incondizionata e costante messa a disposizione», ma nella condivisione delle «modalità di conduzione della cosca, aderendo alla ‘ politica gestionale’ di Luigi Mancuso». Numerose le conversazioni in cui l’avvocato «elogia il Mancuso» per il suo carisma, «affermando in più di un’occasione che la sua presenza sul territorio ‘ da uomo libero’ assicura gli equilibri e garantisce la pax mafiosa». Non solo: per il giudice, Pittelli avrebbe «aderito ad un metodo», ma anche partecipato «all’attuazione degli obiettivi della cosca di ‘ ndrangheta» mettendo «a disposizione le sue conoscenze sparse in Italia e fuori dall’Italia onde consentire il radicamento e la forte penetrazione della ‘ ndrangheta in ogni settore della società civile: nelle università, negli ospedali più rinomati, all’interno degli stessi servizi segreti, nella politica, negli affari, nelle banche, così consentendo ai Mancuso di rafforzare il proprio potere criminale». E tutto ciò avrebbe fatto ottenere un ritorno nel proprio interesse: dalle «nomine nei grossi processi, all’avanzamento in politica, all’ambizione di essere eletto membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, utilizzando la potenza criminale di Mancuso e degli altri boss e vertici di ‘ ndrangheta per i quali ( proprio in cambio di questo) spende le sue "amicizie"». Insomma: Pittelli sarebbe «l’affarista massone dei boss della ‘ ndrangheta calabrese». In più occasioni è stato monitorato mentre si recava nel nascondiglio di Mancuso durante la sua latitanza, «in luoghi isolati, praticando a piedi posti impervi, facendosi accompagnare da auto staffetta, potendo recarsi agli appuntamenti solo quando stabilito ‘ dal medico’, con le modalità dallo stesso Mancuso impartite». Mancuso si rivolgeva a Pittelli perché aiutasse la figlia a superare un esame universitario, mettendo a disposizione la sua ‘ amicizia’ con il Rettore dell’Università o per intercedere presso la Regione Calabria per il trasferimento di un direttore delle Poste legato ai Piromalli. Per il gip, insomma, ci sarebbe un “pactum sceleris” in forza del quale «Pittelli si è legato stabilmente al contesto di ’ndrangheta massona, stabilmente a disposizione dei boss». Ma non solo: il gip evidenzia «la condizione di obbligo a cui è tenuto il Pittelli nei confronti del capo che gli impone di versare una parte dei proventi dei suoi affari alla consorteria». Tra le misure cautelari anche il divieto di dimora in Calabria imposto a Nicola Adamo, ex vicepresidente della Regione, per traffico di influenze, per aver «accettato» di intercedere con il Tar «sfruttando la propria relazione con il giudice Nicola Durante», presidente della II Sezione del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, per «sostenere la posizione processuale» di un imprenditore catanese in cambio della proposta di ricevere 50mila euro. Il sindaco Callipo, invece, secondo l’accusa avrebbe tenuto condotte amministrative illecite e favorevoli alle cosche, garantendo ad alcuni indagati benefici nella gestione di attività imprenditoriali.

‘Ndrangheta, la maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali: niente su Stampa e Repubblica, un box sul Corriere. L'inchiesta contro le cosche che ha toccato metà delle Regioni italiane trova pochissimo spazio sui quotidiani. Solo Manifesto e Avvenire la mettono come seconda notizia. Mentre il foglio "garantista" del prescritto Alfredo Romeo, il Riformista, ricorda gli altri processi finiti con molte assoluzioni. Silenzio anche sui giornali "pro sicurezza" Verità e Libero. Il Fatto Quotidiano il 20 dicembre 2019. E’ stata definita la più grande operazione dopo quella che portò allo storico Maxi processo alla mafia: 334 arresti in 11 regioni d’Italia. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ha deciso di anticipare l’operazione di 24 ore per il rischio di fuga delle notizie che poteva mettere in dubbio la riuscita della retata. E’ una nuova conferma, ai massimi livelli, del triangolo dall’odore eversivo tra criminalità organizzata, politica e massoneria. E poi il condizionamento, come sempre quando si tratta di mafia, di pezzi dello Stato: il funzionamento regolare dei processi, le liste d’attesa negli ospedali, la fedeltà di ufficiali dei carabinieri. Eppure i più importanti giornali italiani hanno deciso di ignorare, trascurare, ridurre al minimo e perfino nascondere dalla prima pagina la notizia delle centinaia di arresti che hanno smantellato una parte della mafia più potente, quella calabrese. Non ha meritato neanche una riga in prima pagina, per esempio, su Repubblica e Stampa. Il giornale diretto da Carlo Verdelli ha diverse notizie in appoggio all’apertura dedicata alle Sardine, ma non ha trovato spazio per l’operazione anti-‘ndrangheta. Il quotidiano di Torino ha molti più titoli nella sua “copertina” (dallo spread greco alla “pasta dei nonni che parla tutte le lingue del mondo”), ma è una dignità che non è stata dedicata all’inchiesta sulla criminalità organizzata che ha travolto di nuovo la Calabria. Dentro il giornale l’articolo arriva a pagina 14 nonostante lo stesso titolo la definisca come “La retata più grande di sempre” in inchieste di ‘ndrangheta. Niente visibilità in prima pagina nemmeno sull’altro giornale del gruppo editoriale, il ligure Secolo XIX, che sceglie un’apertura dedicata giustamente alle notizie più locali, ma conserva gli spazi per quelle nazionali (e non) a una polemica della segretaria della Cisl contro quello della Cgil e alla “anima persa” della Francia sulle pensioni. L’inchiesta antimafia partita dalla Calabria non è riuscita a sfondare la parete della prima pagina nemmeno sul Quotidiano Nazionale, negli spazi dedicati alle notizie nazionali. Non c’è traccia della notizia neanche sulla prima dei giornali che più di tutti e ogni giorno costruiscono il loro racconto sul cosiddetto “allarme sicurezza”, cioè La Verità e Libero. Il quotidiano di Maurizio Belpietro dedica spazio per esempio alla “sfida di Ratzinger” alla Chiesa tedesca e a una licenza di Leonardo per degli elicotteri “congelata”. I lettori della Verità hanno finalmente scoperto dell’inchiesta con più di 400 indagati a pagina 19. Il giornale condiretto da Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, invece, in prima pagina si dedica anima e corpo al cenone aziendale che va in crisi e omette la notizia dei 334 arresti, riportandola a pagina 15 (non il titolo principale, ma in un box in fondo alla pagina), comunque dopo aver dato conto (a pagina 8) della possibile gravidanza di Francesca Verdini, la compagna del segretario della Lega Matteo Salvini. Il giornale più importante d’Italia, il Corriere della Sera, la notizia in prima ce l’ha: è un quadrotto di spalla, con un titolo tagliato su un virgolettato che rimanda al pezzo di uno dei cronisti di giudiziaria, Giovanni Bianconi. Dentro, i pezzi sono due, ancora una volta dopo una bell’attività di sfoglio, alle pagine 18 e 19. Scelta simile per il Sole 24 Ore, che peraltro rispetto agli altri giornali generalisti avrebbe l’attenuante di essere un quotidiano specializzato in economia (ma d’altra parte cos’è che più delle mafie mette in ginocchio l’economia?). Dei “grandi” chi fa di più e approfondisce di più è il Messaggero con più pezzi all’interno (alle pagine 12 e 13) e un titolo di taglio basso in prima pagina, comunque visibile. Diversa da Libero e Verità la scelta del Giornale di Alessandro Sallusti che dà parecchio risalto in prima pagina alla notizia sull’operazione antimafia anche se con un richiamo che parte dal commento titolato su “una terra senza buoni”. Il quotidiano che dedica più spazio in copertina alla maxi-operazione di ‘ndrangheta è il Manifesto che inserisce la notizia subito sotto la consueta fotonotizia di apertura, questa volta sul possibile processo a Salvini per il caso della nave della guardia costiera Gregoretti. E’ la seconda notizia del giornale anche su Avvenire, il giornale della conferenza episcopale. “Un colpo alle cosche che infiltrano l’Italia” è il titolo del quotidiano di Marco Tarquinio. C’è, comunque, un quotidiano che decide di aprire in prima pagina con l’operazione condotta dalla Procura di Catanzaro ed eseguita da circa 3mila carabinieri: il Riformista, il giornale “garantista” che piace molto ai renziani diretto da Piero Sansonetti (ex direttore per tre anni di Calabria Ora e per altri tre del Dubbio, il giornale delle Camere penali) e edito da Alfredo Romeo, coinvolto nell’inchiesta Consip e pluriprescritto (in un caso per corruzione). Il titolo del Riformista, sorvolando sul maxi-refuso di una “a” mancante, è “Gratteri arresta metà Calabria. Giustizia? No, è solo show”. Il senso del pezzo è legato ad alcune altre maxi-operazioni del passato che – racconta il giornale – sarebbero finite con molte assoluzioni. Il premio fantasia, infine, va invece al Foglio che ha un lungo pezzo sulla ‘ndrangheta sul giornale (non in prima ma a pagina 3), ma riguarda il sequestro di due giorni fa a un imprenditore delle scommesse online: dei 334 arresti, invece, nemmeno l’ombra.

L'imbarazzante silenzio dei "giornaloni" sulla maxiretata contro la 'ndrangheta. Arrestato ufficiale dei Carabinieri che anticipava le inchieste alla 'ndrangheta. Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2019. Il colonnello dei Carabinieri Giorgio Naselli è accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e di abuso in atti d’ufficio. Avrebbe fornito all’avvocato Giancarlo Pittelli, ex deputato di Forza Italia, informazioni riservate su inchieste che riguardavano i suoi clienti, fra i quali un affiliato della cosca di Gioia Tauro. ROMA – Il “blitz” coordinato dal procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, avvenuto due notti fa e che ha portato all’arresto di oltre 300 persone tra boss, imprenditori e politici, è stato un grande lavoro di squadra fatto dai carabinieri del ROS centrale, di quello di Catanzaro, e del Comando provinciale di Vibo Valentia. Alla fase esecutiva dell’operazione hanno preso parte circa 3000 militari con tutte le specialità, dal Gis al Tuscania ai Cacciatori, tutte le sezioni Ros d’Italia e tutti i carabinieri della Calabria, ma è clamorosamente finito in secondo piano sulla stampa nazionale nazionale. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri aveva deciso di anticipare l’operazione di 24 ore per non correre il rischio di fuga delle notizie che avrebbe messo a serio rischio la riuscita della retata. Una nuova conferma del triangolo dall’odore eversivo tra criminalità organizzata, politica e massoneria deviata ai massimi livelli. Per fortuna non tutta la stampa ha taciuto, anche se fra gli auto-censurati compaiono giornali del calibro di La Repubblica, Stampa, Secolo XIX, che hanno rilegato il ciclone giudiziario attuato dal ROS dei Carabinieri in semplici trafiletti o articoli in 15esima o 16esima pagina, anteponendo fatti di cronaca come ad esempio la sfida di Ratzinger alla chiesa tedesca o come una cena aziendale andata in crisi. La notizia di “censura” della notizia è diventata una vera “notizia”, considerato il peso degli eventi è da brivido. L’inchiesta contro le cosche della ‘ndrangheta estesa in metà delle Regioni italiane ha trovato pochissimo spazio sui quotidiani. Infatti solo il Manifesto e Avvenire l’hanno pubblicata come seconda notizia. Incredibilmente il giornaletto il Riformista  finanziato dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo plurindagato-processato e “prescritto”, ricorda senza alcun imbarazzo e con fare “garantista”  che molti altri processi sono finiti con parecchia assoluzioni. Silenzio sull’inchiesta anche dai giornali “pro sicurezza”…come La Verità e Libero. I più importanti giornali italiani hanno trascurato, e ridotto al minimo , la notizia delle centinaia di arresti che hanno smantellato una parte della mafia più potente, quella calabrese.nascondendola persino dalla prima pagina. Il giorno dopo quella che si è profilata come una svolta storica nella lotta alle mafie dopo il Maxi processo, a causa dei nomi e dal numero  delle persone indagate ed arrestate in  quest’operazione guidata dal Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri,  sono per fortuna finite sotto gli occhi di tutti grazie alle televisioni ed il web che hanno fatto la parte del leone. Tra gli arrestati, oltre al colonnello Naselli compaiono anche con accuse gravissime l’ ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli successivamente passato a Fratelli d’ Italia ( ed immediatamente espulso dalla Meloni) , un altro ex parlamentare ed ex consigliere regionale, Nicola Adamo, di centrosinistra, accusato di concorso esterno in associazione mafioso. Ai domiciliari è invece finito Luigi Incarnato, a capo dei socialisti locali. consulente del governatore Mario Oliverio ed ex commissario liquidatore di Sorical, l’azienda che gestisce l’erogazione dell’acqua in Calabria. Per il Gip Barbara Saccà Pittelli era la chiave di una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico-professionista-faccendiere, l’operatore di impresa e la cosca mafiosa” grazie al “ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali”. Dagli esami all’università della figlia del boss Luigi Mancuso alle soffiate nelle indagini, secondo gli investigatori, il politico era “perfettamente inserito” ed a disposizione delle cosche calabresi. Un “colletto bianco” perfetto per i boss del clan Mancuso di Limbadi: non a caso il suo nome compare 485 volte nell’ordinanza di custodia cautelare dei 330 arresti.

Nell’ordinanza di custodia cautelare si legge su Pittelli: “Accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la ‘ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le istituzioni tutte, fungendo da passepartout del Mancuso, per il ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali”. Verso Luigi Mancuso e i suoi sodali, l’ex deputato e senatore garantiva “la sua generale disponibilità” per risolvere “i più svariati problemi” grazie ai “rapporti” con “importanti esponenti delle istituzioni e/o della pubblica amministrazione, in particolare delle Forze dell’Ordine”. “Frangia di collegamento” tra società civile e logge coperte. Un esempio per tutti: Maria Teresa Mancuso figlia del boss “supremo” Luigi, studentessa di medicina all’Università di Messina, non riusciva a superare l’esame di istologia. Una telefonata al numero giusto e Pittelli – stando al suo racconto mentre è intercettato – prova a risolvere tutto presentandola al rettore dell’ateneo. “Questa ragazzina scoppia a piangere – ricorda – e mi faceva ‘troppo avvocato, troppo avvocato troppo’”. Una sorta di double face, da una parte “perfettamente inserito nei rapporti tra Mancuso e altri boss delle consorterie legate a Limbadi” e dall’altra, secondo i pm, posizionato “in quella particolare frangia di collegamento con la società civile, rappresentata dal limbo delle logge coperte” in un “coacervo di relazioni tra i ‘grandi’ della ‘ndrangheta calabrese e i ‘grandi’ della massoneria, tutti ben inseriti nei contesti strategici”. In ogni sua veste, a prescindere, per i magistrati Pittelli era a disposizione dei Mancuso. In carcere è finito anche Gianluca Callipo sindaco di Vibo Pizzo e presidente dell’Anci regionale,  l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, successivamente passato alle dipendenze della struttura di Nicola Adamo, mentre è ai domiciliari e Vincenzo De Filippis, esponente dell’Msi, poi in Alleanza Nazionale, ex assessore comunale all’Ambiente di Vibo, come Filippo Nesci comandante della polizia municipale di Vibo Valentia , mentre va in carcere Danilo Tripodi, impiegato del Tribunale di Vibo Valentia, più una serie di professionisti. Coinvolti anche noti imprenditori come Antonio Prestia, titolare di una nota ditta di costruzioni,  Gianfranco Ferrante del settore ristorazione, Mario Artusa del settore abbigliamento, Francesco e Carmelita Isolabella di Pizzo Calabro. Non deve essere stato piacevole per i Carabinieri del ROS arrestare un loro collega in alta uniforme, il colonnello Giorgio Naselli (52 anni), che in passato è stato comandante del reparto operativo dell’ Arma dei Carabinieri proprio a  Catanzaro, il quale con il suo operato, secondo le indagini, avrebbe infangato la sua divisa.

“Giorgione”, “Giorgino” o anche “Giorgiare‘” lo chiamava Giancarlo Pittelli. D’altronde gli undici anni passati in città a Catanzaro avevano consolidato l’amicizia fra i due. Al punto che quando aveva bisogno di informazioni su un’indagine o un procedimento giudiziario l’ex senatore di Forza Italia si rivolgeva a Giorgio Naselli, ex comandante del Reparto operativo nucleo investigativo dell’Arma di Catanzaro, oggi in forza come vice comandante al Gruppo sportivo Carabinieri a Roma, il quale gliele trovava e gliele passava. Così facendo secondo la Procura di Catanzaro favoriva le cosche di ‘ndrangheta. I loro nomi figurano tra quelli delle 330 persone arrestate dagli stessi Carabinieri del ROS nell’operazione “Rinascita-Scott”, che ha portato in carcere e ai domiciliari avvocati, politici e professionisti, oltre ad esponenti di primo piano della cosca Mancuso di Limbadi. Secondo quanto risulta agli atti il colonnello Naselli avrebbe rivelato all’ avvocato catanzarese Giancarlo Pittelli, anch’egli tratto in arresto con una pesante accusa, cioè quella di “associazione mafiosa” , il contenuto di un’indagine che riguardava un cliente del Pittelli, l’imprenditore edile Giuseppe Mazzei (che in questo procedimento al momento non è indagato). Il colonnello Naselli dopo aver parlato con i colleghi di Monza, avrebbe riferito a Pittelli che vi era un procedimento penale in corso, avente al centro delle indagini un assegno da 400mila euro versato da una persona in corso di identificazione, rivelando che “oggetto del procedimento era un giro di assegni nell’ambito del quale tale Cattaneo non meglio identificato, aveva contraffatto anche l’assegno in parola; che i Carabinieri di Pioltello (MI) erano stati interessati“. “In seconda battuta per  sentire il Mazzei ” ma “l’indagine è a Legnano” quindi di competenza di un altro reparto territoriale dell’ Arma; che “l’assegno oggetto d’indagine era stato emesso in bianco, poi girato ed anche contraffatto“. La rivelazione d’ufficio in alcuni casi sarebbe avvenuta persino senza alcuna richiesta. I militari del ROS nel corso di una intercettazione ambientale del 3 agosto 2019, ascoltavano il colonnello Naselli che prima di salutare l’avvocato Pittelli rivelava “Ah, ti devo dire una cosa io ! Attenzione a Roberto ! Pare che ha la Finanza addosso“. Il “Roberto” in questione, all’anagrafe è l’imprenditore Roberto Guzzo, anch’egli al momento non indagato in questo procedimento, il quale era monitorato o comunque oggetto di investigazione della Guardia di Finanza. L’ avvocato Pittelli gli rispondeva: “Non lo voglio vedere neanche“. Inoltre fra il settembre e l’ottobre 2018 il colonnello Naselli su richiesta del Pittelli, si sarebbe interessato anche della vicenda della M.C. Metalli srl , società di effettiva proprietà di Rocco Delfino, detto “U Rizzu” , considerato esponente della ‘ndrangheta e legato in particolare alle cosche Piromalli e Molè di Gioia Tauro, storicamente alleate dei Mancuso. La società era  amministrata fittiziamente da Giuseppe Calabretta, finito anch’egli nella maxi operazione del ROS dei Carabinieri, coordinata dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. La M.C. Metalli srl aveva una pratica pendente a proprio carico alla Prefettura di Teramo, della quale il colonnello Naselli si sarebbe interessato rivelando quali erano le criticità, oggetto delle verifiche in corso coperte dal segreto istruttorio. L’ufficiale dei Carabinieri avrebbe riferito all’ avvocato Pittelli che la Prefettura riteneva un elemento di criticità per la società il trasferimento della sede sociale dalla provincia di Reggio Calabria alla provincia di Teramo, alla luce dl fatto che Calabretta “aveva ammesso apertamente di non sapere nulla di tale trasferimento“. “Lascia intendere, caspita che lui fosse una testa di cartone, hai capito ? non era stato…ah giustamente….” era il commento del colonnello Naselli. Un’altra informazione riservata rivelata violando il segreto d’ufficio, era la presenza nella società della fidanzata del figlio di Rocco Delfino, circostanza  questa che lascia traccia della effettiva gestione della M.C. Metalli srl  da parte di Delfino. “E poi c’è l’altro problema che anche quello riguarda la compagna ….cioè uno è uscito dalla società però è rimasta la fidanzata, la convivente di quello nella società pure…hai capito ? Quindi la continuità nella gestione è palese…” Così facendo sostiene l’accusa il colonnello Naselli concedeva a Rocco Delfino di “sottrarsi a nuove misure di prevenzione e di evitare provvedimenti ablatori nei confronti della società M.C. Metalli srl a lui di fatto riconducibile“. Pittelli voleva sapere come sta procedendo l’iter ed il 21 settembre 2018 chiama al telefono il colonnello Naselli: “Senti, con un po’ di pazienza secondo te è raddrizzabile?”, domanda l’ex deputato forzista. “Non lo so, dobbiamo vederla insieme…”, risponde l’ufficiale dei carabinieri che era passato nel 2017  a dirigere il comando della provincia abruzzese. “La cosa importante è che non la decidano immediatamente”, aggiunge Pittelli. “Vediamo che cosa possiamo fare“, gli replica Naselli, “io poi ci vado a parlare là vediamo come è l’aria, fammi andare a vedere”. Una vicenda imbarazzante per l’ Arma dei Carabinieri, ed in particolare per il colonnello Naselli, in quanto comprende i capi di imputazione di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio ed abuso d’ufficio aggravati dal metodo mafioso.

“Gratteri arresta metà Calabria. È giustizia? No è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi si. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”. Sono le parole pubblicate dall’ on. Enza Bruno Bossio sulla sua pagina Facebook, successivamente scomparse, parole quelle scritte dalla deputata del Pd moglie di Nicola Adamo, colpito da un divieto di dimora nell’inchiesta che il 19 dicembre ha portato agli arresti 330 persone, hanno causano la reazione del partito: “Il pensiero della Bruno Bossio non rappresenta quello della comunità del Partito Democratico della Calabria – affermano, in una nota il commissario regionale Stefano Graziano e il responsabile Mezzogiorno della segreteria nazionale Nicola Oddati – Ringraziamo Gratteri per il lavoro svolto e per aver inflitto alla ‘ndrangheta un duro colpo“. Il procuratore Gratteri ha preferito non commentare. “Non voglio entrare nel merito dei commenti che sono stati fatti. Sarà la storia a spiegare tante cose anche di comportamenti di questi giorni, come degli anni passati”, ha detto Gratteri a “L’intervista di Maria Latella” su Sky Tg24. “Il mio  è un lavoro di squadra – ha detto Gratteri – Ho dei colleghi meravigliosi, migliaia di carabinieri, poliziotti finanzieri. Io posso essere una guida, un esempio ma ognuno fa un pezzettino del lavoro. Sono abituato al lavoro di gruppo ed il successo o l’insuccesso ricade su tutti. La nostra è una richiesta di misura cautelare ed i provvedimenti li ha emessi un giudice terzo“.

L’indagine Rinascita Scott della Dda di Catanzaroe’ “un’indagine che è uno spaccato dell’Italia, una cosa veramente enorme dove ci sono oltre 35 aziende sequestrate, rappresentati politici di tanti partiti, c’è la dimostrazione di come la ‘ndrangheta sia entrata e si sia seduta negli apparati dello Stato e della Pubblica amministrazione“, ma nonostante questo la solidarietà dal mondo politico è giunta solo da Lega, Pd e M5S“anche perche’ i giornali nazionali hanno boicottato la notizia“. Così il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nell’ “L’intervista di Maria Latella” su Sky Tg24. “Il Corriere della Sera – ha aggiunto – ha portato la notizia alla 20ma pagina, Repubblica e la Stampa verso la 15ma-16ma mentre Il Fatto quotidiano l’ha riportata in prima pagina, come L’Avvenire ed il Manifesto. Perchè non lo so andrebbe chiesto ai direttori dei giornali. Non ho idea, fossi stato il proprietario di questi giornali mi sarei preoccupato, avrei chiesto. Quindi mi auguro che sia stata un svista ma sicuramente è stato un buco dal punto di vista giornalistico”. La “soffiata” che ha indotto la Dda di Catanzaro ed i Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Vibo Valentia ad anticipare di 24 ore il maxi blitz contro le cosche vibonesi “è partita dagli addetti ai lavori, ovvio, non dal barista in piazza”. Ad affermarlo il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a “L’intervista di Maria Latella” su Sky Tg24. “Qualche idea  ce l’abbiamo e ci stiamo lavorando. La storia spiegherà anche chi è stato” ha concluso.

Gratteri arresta metà Calabria. Giustizia? No, è solo show. Ilario Ammendolia il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. All’alba di ieri si sono mossi 3mila carabinieri dei Ros, con l’ausilio d’un reggimento di paracadutisti  degli squadroni aviotrasportati, reparti mobili, mezzi di unità aerei ed unità cinofile in un’operazione di guerra contro la ‘ndrangheta. 330 arresti, quasi 500 indagati, un’impresa colossale. L’augurio è che questa impresa, coordinata dalla Dda di Catanzaro, riesca a colpire con fermezza la ‘ndrangheta. Certamente in Calabria operazioni di questo tipo non sono una novità, come nuovo non è il dottor Nicola Gratteri che, negli ultimi 30 anni, ha avuto quasi sempre un ruolo di primissimo piano. E anche stavolta è stato lui a ordinare la retata. Sui risultati delle operazioni precedenti è lecito avere qualche riserva anche perché quasi tutte hanno dei tratti in comune: un grande dispiegamento di militari, centinaia di arresti, la presenza di qualche personaggio noto, quasi per dare un pizzico di sale a una minestra altrimenti insapore. Poi una raffica di assoluzioni con relativi risarcimenti per ingiusta detenzione.

L’OPERAZIONE "MARINE" – Furono più di un migliaio i carabinieri che la notte del 12 novembre del 2003 circondarono Platì – piccolo paese di tremila anime in provincia di Reggio Calabria – arrestando centinaia di persone. Fu un’operazione di guerra lampo con porte forzate, donne imploranti, bambini in pianto. E poi una lunga catena di ammanettati tra cui il sindaco del paese, il medico, lo “scemo” del villaggio, a cui i compaesani per calmarlo raccontarono la pietosa bugia che lo avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio. L’operazione “Marine” – si chiamava così – non solo tenne le prime pagine dei giornali nazionali per diversi giorni: ne parlarono anche i giornali stranieri, tra cui il New York Times e la Bbs. Le sentenze si incaricarono di ridimensionare la portata dell’operazione Marine, tant’è che le condanne furono appena 3 (tre: tre su centododici, un po’ meno del 2%) mentre gran parte degli imputati furono prosciolti già nella fase delle indagini preliminari.

IL CASO STILARO – Un’eccezione? Direi la normalità, almeno in Calabria. Qualche tempo prima di “Marine” sulla Locride s’era scatenata l’operazione Stilaro. Anche in questo caso ci furono titoli di prima pagina sui giornali nazionali: arrestati i sindaci di Camini e Monasterace e con loro il più importante floricoltore calabrese, l’olandese Von Zanten, e poco meno di cento persone assicurate alla patrie galere.

Anche in questo caso ci furono le dichiarazioni ufficiali del dottor Gratteri ma le sentenze ebbero l’effetto di demolire quasi per intero l’impianto accusatorio.  I sindaci coinvolti non arrivarono a processo perchè la loro posizione fu stralciata e archiviata già nella fase delle indagini preliminari. Il sindaco di Camini, un vecchio maestro elementare, restò profondamente segnato dalla vicenda sino alla morte.

L’arresto dell’imprenditore olandese Von Zanten, poi prosciolto, ebbe come logica conseguenza la crisi delle sue aziende, allora all’avanguardia. E assolti furono la stragrande maggioranza degli imputati.

GLI ALTRI "PRECEDENTI" – Tra un’inchiesta e l’altra non c’è il vuoto ma “Circolo Formato”; “Jonica Agrumi”; “Asl Siderno” e poi una infinità di operazioni con le reti a strascico destinate a restare quasi sempre vuote. C’è stata la richiesta di mandare a processo 500 (ripeto cinquecento) tra amministratori e funzionari dei Comuni della Locride tutti regolarmente respinti dal Gup.

GRATTERI “IL NUOVO FALCONE” – L’ultima impresa in ordine di tempo è “Stige”, che all’alba del 9 gennaio 2018 ha visto mille carabinieri sguinzagliati nella provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone. Il dottor Gratteri la definì “La più grande operazione degli ultimi 23 anni”, così come quella di oggi è stata definita “la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxi processo di Palermo”. Tradotto: Gratteri è il nuovo Falcone. Parola di Gratteri. A parte “Palermo”, c’è da prendere atto che il numero di assoluzioni, in abbreviato, degli imputati arrestati nell’operazione Stige si aggira sul 40%, non possiamo che augurarci che in quella odierna gli innocenti coinvolti siano di meno.

L’ULTIMA RETATA – Infine, nell’operazione della notte scorsa sono stati coinvolti anche alcuni “politici” ma sarebbe giusto ricordare che il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, è stato quattro mesi in esilio tra le montagne di San Giovanni in Fiore per un provvedimento adottato dalla procura di Catanzaro e che la Corte di Cassazione ha giudicato illegittimo perché viziato da “pregiudizio “.

LA CALABRIA COME UNA GRANDE CASERMA – Quella a cui abbiamo appena accennato è una lunga storia su cui riflettere, ma una cosa è certa: le grandi operazioni di cui abbiamo parlato non hanno sconfitto la ‘ndrangheta anzi le hanno consentito di crescere sino a diventare la setta criminale più ricca e agguerrita di Europa. Nello stesso tempo ha trasformato la Calabria in una grande caserma in cui non sembra esserci grande rispetto per lo Stato di diritto e per la libertà delle persone.

Il M5S vuole cancellare Sgarbi dalla tv, lui replica: “Svergognati”. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Io non sono contro Gratteri, sono dalla parte dei Tortora. Sono dalla parte delle vittime e sono anche abbastanza disturbato dal fatto che gente come Cecchi Paone o come questo ‘Giarrizzo’ continuino a dire ‘chi invita in televisione’. Come dire che è giusto che io taccia soltanto perché non dico il pensiero unico che voi dite ogni giorno”. Così Vittorio Sgarbi in un video sul suo profilo Facebook stigmatizza le parole dell’eurodeputato M5S Dino Giarrusso che ha detto “perché continuare ad invitare Sgarbi in TV dopo quel che ha detto su Gratteri?“. Un messaggio che fa seguito a quello sul Natale “politicamente scorretto“.

Sgarbi contro Giarrusso: “Gratteri è infallibile?” “Cosa vuol dire ‘siamo dalla parte di Gratteri’? Che Gratteri è infallibile? – afferma Sgarbi in un video -. Che Gratteri è il bene contro il male? Cosa vuole dire questa teoria per cui chi critica Gratteri, chi osa parlare sta con la mafia? Non permetterti Giarrizzo, Giannullo e studia. Io non sto contro Gratteri, sto con Tortora, sto con le vittime. I blitz – sottolinea lo storico d’arte – sono come quelli che facevano i nazisti contro gli ebrei, questo sono. Catturare 300 persone dando per scontato che sono colpevoli, no. E questo non è quello che è accaduto soltanto adesso con una retata? Con un blitz che tu difendi, ignorante? Questa è una storia che c’è già stata e che va detta proprio nel nome di Tortora che tu hai dimenticato, svergognato”. “Allora – rimarca Sgarbi – visto che chi sta con Gratteri sta dalla parte giusta e gli altri stanno dalla parte della mafia. Leggiamo quello che è capitato non molto tempo fa ma quando Gratteri ha catturato con un blitz, come hanno fatto i nazisti con gli ebrei, 126 soggetti arrestati. La Corte d’Appello confermò le condanne solo per 8 imputati. 125 come poveri ebrei umiliati e chiamati mafiosi e soltanto 8 riconosciuti degni di quella azione. Allora non è che abbiamo dimenticato gli innocenti, gli indifesi in nome del blitz. Ma non basta perché io non contrappongo i supposti colpevoli né devo difenderli. Sono certo che tra i 350 del blitz usando tremila carabinieri più della metà saranno innocenti e difendo quei Tortora”.

Lucio Musolino per il Fatto Quotidiano il 27 dicembre 2019. Dopo la maxi-inchiesta "Rinascita-Scott" contro la cosca Mancuso, è guerra tra magistrati ma ad attaccare al momento è uno solo: il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Nel mirino c' è il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i pm più esposti in Calabria e sempre in prima linea contro la "massomafia". All' indomani dei 334 arresti e dopo aver inferto un colpo durissimo a quel "sistema" di potere che per decenni ha governato la regione, già Gratteri è stato bersaglio di polemiche feroci da parte della deputata del Pd Enza Bruno Bossio per il cui marito Nicola Adamo, il gip ha disposto il divieto di dimora in Calabria. Polemiche dalle quali ha preso le distanze anche il Pd elogiando il lavoro della Dda di Catanzaro e dei carabinieri di Vibo Valentia che il 24 dicembre hanno visto migliaia di persone partecipare a un corteo per dire "grazie" agli investigatori che hanno liberato un territorio, arrestando i boss della cosca Mancuso e i colletti bianchi al loro servizio. Durante una trasmissione sul Tgcom, al procuratore generale di Catanzaro è stata chiesta un' opinione sull' inchiesta. E in un momento delicatissimo per la magistratura calabrese, arriva la risposta che non ti aspetti proprio quando la Direzione distrettuali antimafia (Dda) guidata da Gratteri è sotto attacco da una parte della politica oltre che dalla 'ndrangheta. Le parole di Lupacchini diventano pietre lanciate addosso alla squadra di Gratteri: "Per quanto concerne l' operazione - ha affermato il magistrato - sebbene questo possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale". In sostanza, Lupacchini lamenta che Gratteri, dopo aver avvertito la Direzione nazionale antimafia, come prevede il regolamento, non ha fatto lo stesso con il suo ufficio. "Buona abitudine" a parte non c' è una norma che obblighi le Dda a informare le Procure generali prima degli arresti. Lupacchini la pensa diversamente: "I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della Procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade cioè l'evanescenza come ombra lunatica di molte delle operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa". Un attacco frontale che Lupacchini, intervistato dal Fatto Quotidiano, ieri conferma facendo l' esempio dell' inchiesta "Lande desolate" nell' ambito della quale era stato disposto il divieto di dimora per il governatore della Calabria Mario Oliverio poi revocato dalla Cassazione. Per il procuratore generale di Catanzaro si tratta di "esiti che non hanno confortato il trionfalismo della presentazione. Parliamo di "Lande desolate" e di tanti altri processi nei quali la Cassazione è intervenuta censurando il pregiudizio accusatorio e l' inconsistenza indiziaria. Almeno in questo anno i risultati sono stati molto al di sotto delle aspettative. Quando si catturano tante persone che poi vengono rimesse in libertà o si censurano i provvedimenti, non da parte mia ma da parte della Corte di Cassazione, tacciandoli di pregiudizio accusatorio e di evanescenza indiziaria, chiaramente questo è un dato che posso permettermi di esprimere perché fondato sui fatti e non sulle impressioni". "Di quella frase - continua il suo attacco Lupacchini - risponderò di fronte a chiunque, perché ci sono gli atti che dimostrano che certe indagini sono evanescenti. Non ha visto come son finite tutte le indagini del signor Gratteri? Il Consiglio superiore della magistratura, il ministro e il procuratore generale (della Cassazione, ndr) sono stati ampiamente informati di quel che ho detto". E mentre Gratteri non risponde alle sollecitazioni e decide di non partecipare alla polemica, Lupacchini nega che ci sia una "guerra tra magistrati": "È un' invenzione di qualcuno - dice - che tende a mettermi sullo stesso piano di una persona con cui obiettivamente non ho nulla a che fare e che apprezzo moltissimo. Guerra col dottore Gratteri non ce n' è. È solo nella mente di qualche testa bacata che non sapendo come passare il tempo e come gonfiare le notizie mette in giro una guerra tra me e Gratteri". Eppure sia Lupacchini che il procuratore di Catanzaro, l' estate scorsa sono finiti al Csm. La vicenda è poi rientrata, ma il motivo era lo stesso. Il primo, infatti, lamentava il mancato coordinamento dei due uffici nella trasmissione a Salerno degli atti relativi al procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla comparso nell' inchiesta su un carabiniere, poi arrestato per concorso esterno con la 'ndrangheta. Il secondo non ci stava a passare per disonesto e ha portato Lupacchini davanti al Consiglio superiore della magistratura, che se da una parte ha messo una pezza allo scontro, dall' altra a novembre ha mandato via da Castrovillari Facciolla per il quale la Procura di Salerno ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione. Una decisione che, evidentemente, Lupacchini non condivide al punto che sui social promuove la petizione di change.org affinché il Csm riveda la scelta di trasferire Facciolla al Tribunale civile di Potenza.

Lupacchini attacca Gratteri: «Preferisce informare la stampa». Simona Musco il 27 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Scontro tra toghe in Calabria. Il pg di Catanzaro punta il dito contro il capo della dda dopo il blitz che ha portato a 330 arresti: «nessuno ci ha informati, abbiamo saputo nomi e fatti contestati soltanto da tv e giornali». «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale. I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare». Le parole del procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini sono al vetriolo. E sono solo l’ennesima puntata di uno scontro ormai a volto scoperto tra lui e il procuratore della Dda del capoluogo calabrese, Nicola Gratteri. Reo, secondo Lupacchini, di una eccessiva personalizzazione dell’ufficio da lui diretto e di una mancanza di coordinamento con la Procura generale. Le sue parole arrivano dopo la maxiretata che ha fatto finire in carcere 330 persone, tra presunti boss di ’ ndrangheta, affiliati, politici e professionisti, con una richiesta di misure cautelari lunga 13mila pagine delle quali la procura generale, afferma il magistrato che indagò sulla Banda della Magliana, non avrebbe saputo nulla fino a blitz compiuto. Dagli uffici di Piazza Matteotti non è arrivata alcuna replica alle parole di Lupacchini. La traccia di un passaggio di informazioni rimane affidata alla richiesta di misura cautelare, che rimanda all’esonero di sei mesi dall’assegnazione di nuovi affari per il gip disposto dal Presidente del Tribunale il 18 settembre 2018. Uno sgravio necessario proprio a causa del deposito, ad agosto dello stesso anno, dell’enorme richiesta cautelare dell’inchiesta “Rinascita – Scott”. E gli esoneri dei magistrati sono comunicati, come da prassi, al consiglio giudiziario di cui fa parte, di diritto, anche il procuratore generale ( e, quindi, nel caso di Catanzaro, proprio Otello Lupacchini). Ma non solo: ad essere informato, in quell’occasione, fu perfino il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro. La polemica tra Lupacchini e Gratteri viene però da lontano e il suo cuore sta tutto negli atti in possesso della prima commissione del Csm, dove i due si sono “affrontati” a suon di esposti, archiviati a gennaio scorso dai magistrati dell’organo di autogoverno, che non hanno trovato elementi consoni all’avvio di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, definendo la faccenda «uno screzio superato» e il clima dei rapporti «positivo», senza «ripercussioni nell’ambiente giudiziario». Tutto parte da alcune note interne, con le quali Lupacchini contestava a Gratteri «di non rispettare regole di coordinamento con altri uffici giudiziari e di aver fatto il furbo non inviando, come prevede il codice, elementi di indagine alla Procura di Salerno su magistrati calabresi non appena sono emersi spunti ma, in sostanza, solo dopo una prima inchiesta». Da qui l’invio degli atti, da parte di Gratteri, al Csm, che ha ascoltato, separatamente, i due magistrati. E le audizioni in commissione hanno così fornito il pretesto per nuove schermaglie. Il primo a parlare, il 25 luglio 2018, è stato Lupacchini, che ha riferito di un «atteggiamento ostile» nei suoi confronti, da parte di Gratteri. «Solo lui era il verbo non solo nel distretto di Catanzaro, ma probabilmente in tutta Italia, nell’universo e forse anche in altri siti», accusava il pg. La replica di Gratteri è arrivata il giorno successivo, quando si è detto «preoccupato» per un passaggio contenuto in una nota di Lupacchini. «Mi si dice che io “furbescamente” non ho trasmesso gli atti a Salerno. Di me accetto tutte le critiche del mondo – aveva ribattuto -, che sono ignorante eccetera, ma sull’onestà no». Gratteri ha definito anche «strana» la partecipazione di Lupacchini a una conferenza stampa del procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, recentemente trasferito dal Csm a Potenza, alla giustizia civile, in quanto avrebbe rivelato dati sensibili e favorito una società che si occupa di intercettazioni. «Noi abbiamo arrestato 169 persone, non è venuto nessuno», ha lamentato Gratteri, aggiungendo che in Calabria «i comportamenti sono pietre». Un’affermazione alla quale Lupacchini ha replicato, senza fare nomi, nel corso di un intervento in una tv locale: «dove non vado ha sottolineato – è alle autocelebrazioni, né voglio togliere il palcoscenico a nessuno». Le frecciatine non sono mancate nemmeno nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore generale ha invitato i presenti ad una riflessione sul ruolo della giustizia, parlando degli «innocenti finiti senza colpa in custodia cautelare e sui soldi spesi dallo Stato per il risarcimento nei loro confronti a titolo di indennizzo». Un chiaro riferimento a Gratteri, che senza replicare si è limitato a manifestare la propria distanza dal collega non applaudendo al termine del suo intervento.

Quell’eterna battaglia tra procura generale e procura distrettuale. Giovanni M. Jacobazzi il 27 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il pg, in qualità di rappresentate unico dell’intero ufficio requirente del distretto, risponde alle interrogazioni e interpellanze parlamentari. Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Otello Lupacchini, il procuratore generale di Catanzaro, aveva usato parole molto dure per commentare la maxi indagine anti ndrangheta denominata “Rinascita Scott”, condotta la settimana da Nicola Gratteri. Indagine che aveva portato all’arresto di 334 persone. «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», il piccato commento di Lupacchini. «I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare», aveva quindi aggiunto il pg di Catanzaro. Le norme, in effetti, paiono supportare le affermazioni di Lupacchini. In particolare, gli artt. 118 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e 371- 372 comma 1 bis del codice di procedura penale prevedono che il procuratore generale debba essere informato dei procedimenti riguardanti i particolarmente gravi – reati indicati dal comma 2°, lettera a) dell’art. 407 dello stesso codice di procedura penale, pendenti nelle Procure del distretto. Fra questi reati rientra, appunto, quello di associazione a delinquere di stampo mafioso. Se poi ci sono indagini collegate, il procuratore generale promuove e garantisce il loro coordinamento sia nell’ambito del distretto della Corte d’Appello sia – d’intesa con gli altri procuratori generali interessati – in ambito nazionale. Vale la pena ricordare che il procuratore generale, a livello internazionale, ha funzione di corrispondente nazionale di Eurojust, organo di cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione europea per i reati più gravi, soprattutto di criminalità organizzata. Il pg è anche punto di contatto della Rete giudiziaria europea ( European Judicial Network), organo di cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’UE, che fornisce informazioni di natura giuridica o pratica alle proprie autorità giudiziarie o a quelle degli altri Paesi membri. Utima annotazione: il procuratore generale, in qualità di rappresentate unico dell’intero Ufficio requirente del distretto, risponde alle interrogazioni e interpellanze parlamentari, alle richieste del Csm e di altri organi istituzionali. Da qui, dunque, la necessità di essere informato sui procedimenti più importanti aperti nelle varie Procure del distretto.

Scontro Lupacchini- Gratteri, Area e MI: «Intervenga il Csm». Simona Musco il 28 Dicembre 2019 su Il Dubbio.  Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini rischia un trasferimento d’ufficio dopo l’attacco al capo della Dda Nicola Gratteri. L’attacco al capo della Dda Nicola Gratteri potrebbe costare caro al procuratore generale Otello Lupacchini che ora rischia un trasferimento d’ufficio. Una possibilità che emerge tra le righe della richiesta inviata dai togati di Area al comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, con la quale invocano l’apertura di una pratica in prima commissione, che tra le sue competenze ha l’accertamento dei casi di incompatibilità. E a loro si associano i colleghi di Magistratura Indipendente, che hanno chiesto maggiori tutele per i magistrati del distretto. Nel mirino dei consiglieri di Area l’intervista rilasciata da Lupacchini a TgCom in merito ai 330 arresti eseguiti su disposizione dell’autorità giudiziaria di Catanzaro, durante la quale ha ripreso i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri. Ancora una volta a suscitare l’indignazione del pg è stato il «mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari». «I nomi degli arrestati – aveva dichiarato – e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa». Parole dure, con le quali Lupacchini ha criticato non solo il silenzio della Dda, ma anche l’efficacia del lavoro della procura antimafia. Dichiarazioni «particolarmente allarmanti» per i consiglieri di Area, «in ragione del ruolo rivestito dall’intervistato ed in quanto riferite ad un provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari di Catanzaro, sul quale dovrà pronunciarsi nei prossimi giorni il Tribunale per il Riesame di Catanzaro». I magistrati Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Giovanni Zaccaro hanno dunque chiesto l’apertura di una pratica in prima commissione «per l’adozione di urgenti provvedimenti a tutela della credibilità dell’autorità giudiziaria di Catanzaro e dell’esercizio sereno, imparziale ed indipendente della funzione giudiziaria in quella sede». Ma non solo: i consiglieri hanno anche manifestato l’esigenza di un piano straordinario per gli uffici giudicanti di Catanzaro, il cui «sottodimensionamento» unito alle «croniche scoperture» e all’accentuato turn over, rischia «di impedire un veloce ed efficace accertamento delle ipotesi accusatorie». A fianco a loro anche i tre consiglieri di Magistratura Indipendente, Paola Braggion, Antonio D’Amato e Loredana Miccichè, che hanno denunciato il proliferare di «commenti, prese di posizione e comportamenti potenzialmente lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione, tali da turbare il regolare svolgimento ovvero da appannare l’immagine della funzione giudiziaria» immediatamente dopo l’esecuzione degli arresti. In particolare i consiglieri fanno riferimento alle dichiarazioni della deputata dem Enza Bruno Bossio, moglie di Nicola Adamo – per il quale è stato disposto il divieto di dimora nell’ambito di tale inchiesta, la quale aveva accusato Gratteri di essere artefice di uno «show» con lo scopo di «colpire la possibilità di Oliverio ( Mario, governatore uscente della Calabria, ndr) di ricandidarsi». Ma nel mirino di MI ci sono anche le «particolarmente allarmanti» dichiarazioni di Lupacchini, in particolare per il ruolo da lui ricoperto. «Con la richiesta di apertura di pratica a tutela hanno aggiunto – intendiamo assicurare un tempestivo intervento a tutela della indipendenza e della serenità di giudizio dei magistrati del Distretto di Catanzaro, in particolare quelli della Procura distrettuale preposti allo svolgimento di ulteriori indagini; dei giudici per le indagini preliminari; dei magistrati del Tribunale del Riesame di Catanzaro e di tutti gli altri magistrati del Distretto, direttamente o indirettamente chiamati a svolgere il proprio ruolo nell’ambito del procedimento penale relativo alla esecuzione dei recenti arresti». Si schiera, invece, contro la gogna mediatica il direttivo della Camera Penale “Avvocato Fausto Gullo” di Cosenza, che punta il dito contro la «spettacolarizzazione dei fatti giudiziari», foriera di possibili «“sentenze anticipate” sui mezzi d’informazione e non formate correttamente nelle sedi proprie delle aule di giustizia». Il tutto «in pieno contrasto con il principio di non colpevolezza sancito, riconosciuto e tutelato nella nostra Carta Costituzionale».

L’Anm contro Lupacchini: è proibito criticare un pm. Redazione del Il Riformista il 28 Dicembre 2019. La Anm, cioè l’Associazione nazionale magistrati, ha preso posizione contro il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, che aveva criticato la spettacolarità dell’azione giudiziaria di Nicola Gratteri il quale qualche giorno fa procedette all’arresto di circa 350 persone e poi si lamentò perché la notizia non era in prima pagina su diversi giornali. «Le valutazioni del Procuratore Generale Lupacchini, come riportate dalla stampa, relative a ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip in seguito ad indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e in attesa di ulteriori verifiche giurisdizionali, sono sconcertanti in sè e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto». È la netta posizione dell’Anm. Ogni esternazione «che si risolva in una critica dei provvedimenti giudiziari, non argomentata e non fondata sulla conoscenza degli atti, rappresenta una lesione delle prerogative dell’autorità giudiziaria, una delegittimazione del suo operato, e può, nel caso di specie, implicare, in ragione del ruolo ricoperto da chi l’ha resa, un’inaccettabile forma di condizionamento dell’autonomia e indipendenza dei titolari delle indagini e incidere sulla serenità dei magistrati chiamati ad occuparsi dei relativi accertamenti nelle diverse fasi processuali». L’Anm «è certa che la Magistratura non ne sarà influenzata e saprà operare con serenità ed indipendenza». L’idea di fondo è chiarissima. L’Anm sostiene che chi critica un Pm lo delegittima e va punito. Pensate se si usasse lo stesso metro per un ministro o un segretario di partito. Era molto tempo che una organizzazione non pretendeva il delitto di critica. L’ultima, in Italia, fu il Pnf.

La testuggine dei Pm e il sussurro di Panebianco. Piero Sansonetti il 28 Dicembre 2019 su Il Riformista. E’ un sussurro quello di Panebianco. Non perché le sue idee non siano forti e argomentate con rigore. Ma perché il professore appare sempre più solo: nessuno ha voglia di ascoltare la sua voce e il suo ragionare. A occhio, neppure il giornale che lo ospita. E infatti Panebianco pone esattamente questo problema: le élite. Le élite, dice, cioè le classi dirigenti – semplificando un poco – non sono affatto sensibili alla democrazia e ai suoi cardini. Sono estranee. E perciò in Italia diventa impossibile mantenere integro lo Stato di diritto. E la stessa democrazia regge solo perché imposta dalle relazioni internazionali. Ma, senza una direzione, vacilla. Non è irreversibile. Queste cose Angelo Panebianco le ha scritte nell’editoriale del Corriere di ieri, spiegando come in Italia non sia mai esistito un equilibrio tra i poteri. Nella vecchia repubblica dei partiti – scrive – la magistratura era subordinata al potere politico. Ora l’ordine giudiziario ha smesso di essere un ordine, è diventato potere e ha sottomesso la politica a se stesso. Gli intellettuali, i giornali, le case editrici, i circoli culturali, le associazioni, le Tv, il cinema, gran parte dei partiti sono i difensori di questo ribaltamento dei poteri che ha portato alla repubblica giudiziaria. Prendiamo il discorso più coraggioso pronunciato in Parlamento negli ultimi 25 anni. Quello di Matteo Renzi, che ha denunciato l’arroganza dei Pm e l’invasione di potere. Quanto è durato? Una settimana dopo quel discorso il partito di Renzi ha chiesto che Salvini sia consegnato ai Pm, e subito dopo è scattato in difesa di un Pm di assalto, come Gratteri. Il quale ha ricevuto critiche pesanti da alcuni suoi colleghi, per esempio dal Procuratore generale di Catanzaro, Lupacchini, e da un monumento della magistratura italiana come Armando Spataro. Che lo hanno accusato di teatralità nell’esercizio della sua funzione. Come hanno reagito i politici alle critiche verso Gratteri? Col silenzio. E i magistrati? Sono insorti. Non contro Gratteri, però: contro i critici. Sia la corrente di sinistra, e cioè Area, sia quella moderata, e cioè Magistratura Indipendente, all’unisono si sono scagliate contro Lupacchini e Spataro e hanno chiesto che fosse loro imposto il silenzio. Ecco come si spiega la solitudine del coraggioso Panebianco. La politica si acquatta quando vede un Pm. I Pm invece si compattano se qualcuno li tocca. Gridano e fanno la faccia feroce. Sono casta, pura casta. E in questo modo il loro potere diventa incontrollabile.

Perché dobbiamo sapere la verità  sulla morte  di Kuciak. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Corriere.it. Non è solo il processo a un imprenditore e ai suoi quattro complici legati a mille mafie, ‘ndrangheta compresa. È un intero sistema politico e criminale, quello che stamane a Bratislava finisce alla sbarra. Perché l’assassinio del 27enne giornalista investigativo Jan Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova - pochi colpi di pistola in casa, il 21 febbraio 2018 - apparentemente ha già portato la Slovacchia, in venti mesi, a quel cambio di stagione politica che Malta non è ancora riuscita a ottenere più di due anni dopo l’uccisione della reporter Daphne Caruana Galizia. Qui, si sono dovuti dimettere il premier Robert Fico, il ministro dell’Interno, il capo della polizia e, lo scorso marzo, ha vinto le elezioni il movimento anti-corruzione nato proprio dalle proteste e dai cortei sul caso Kuciak. Ora però viene il dunque. E serve anche una verità giudiziaria. C’è un «palo», pentito, che ha raccontato molti dettagli. C’è un killer confesso, l’ex soldato professionista Miroslav Marcek, che in un fiume ha fatto trovare anche l’arma del delitto. C’è un movente: la serie d’inchieste di Kuciak sulle truffe degli aiuti Ue e sugli affari della politica coi clan che controllano il porto olandese di Rotterdam. C’è un probabile mandante: il manager Marian Kocner che rischia l’ergastolo e, con altri due, si proclama innocente. Il processo andrà in diretta tv. Tutti a pendere dalle labbra d’imputati che possono scoperchiare molto marcio: decine di migliaia di sms recuperati dal cellulare di Kocner, in agosto, hanno rivelato una fitta rete di rapporti con politici, magistrati, servizi segreti. Kocner era un informatore e viveva in una sorta d’impunità che Kuciak aveva svelato. Nelle ultime settimane, prima ancora che il processo iniziasse, gli Usa hanno imposto sanzioni alle sei società di Kocner. E sono saltate le poltrone d’un vicepresidente del Parlamento, d’un viceministro, di tre magistrati… «È l’occasione per far luce sugli undici anni di governo del potere di centrosinistra», dice il direttore di Aktuality.sk, il sito su cui scriveva il giovane Jan: bisogna vedere se la Slovacchia è pronta a tanta verità.

Michela Allegri e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 20 dicembre 2019. Non un mafioso qualsiasi. Luigi Mancuso, 65 anni, era il vertice della ndrangheta di Vibo Valentia, punto di riferimento del crimine di Polsi, il vertice assoluto della ndrangheta unitaria (mondiale). Mancuso era un vero boss. E fino a ieri, e per 30 anni, vestiva i gradi di grande ufficiale del crimine: «Era il più giovane capo», spiega ai pm un collaboratore di giustizia. Il supremo è il suo soprannome. Uno che nei primi anni 90, «al tempo della mafia stragista, fu interpellato da Cosa Nostra», si legge nell'ordinanza. Carismatico, al punto tale che il suo braccio destro Giovanni Giamborino, in una conversazione intercettata nel 2017 con l'avvocato, ex parlamentare di Fi e massone Giancarlo Pittelli, definisce così Mancuso: «È il tetto del mondo». Il politico e penalista però vuole approfondire. «Numero uno in assoluto?» chiede al suo interlocutore che gli risponde: «In assoluto, non c'è nessuno a quel livello, in Italia, in tutto il mondo. Anche in Canada e a New York. Dove ci sono queste cose è sempre lui il numero uno, avete capito?». 

PAX MAFIOSA. Poi Giamborino riferisce all'avvocato che Mancuso è perseguitato dalle procure. Una brava persona che garantisce la pace: «Loro non si rendono conto che se c'è uno come lui non succede niente, la gente può stare tranquilla». E aggiunge «può lasciare le chiavi alla porta». «Loro non hanno capito niente perché - sottolinea il braccio destro del boss a Pittelli - sono loro che mettono le guerre, la polizia, la magistratura». Infine l'invocazione: «Perché non lo lasciate in pace con la sua famiglia dopo 25 anni?». Pittelli si mostra sensibile alle richieste di Giamborino e con il superboss stringe un rapporto fraterno. Ecco, per esempio, che il legale si attiva subito quando Mancuso gli dice che la figlia, studentessa di medicina all'Ateneo di Messina, sta avendo problemi con un esame. Il penalista convoca il Rettore. A raccontare l'episodio è lo stesso politico in una conversazione intercettata ad aprile 2018: «Teresa la figlia (di Mancuso, ndr) viene all'aliscafo (a Messina, ndr) e dice avvocato, non riesco a superare Istologia, perché è un professore stronzo. Le dico, vieni con me tesoro, vado all'Università, chiamo l'avvocato Candido, il cugino del nuovo Rettore Cuzzocrea e dico mi trovi tuo cugino? Sì, guarda Giancarlo, dieci minuti e siamo al ristorante da te. Vengono davanti al tribunale: Teresa sai chi è questo signore?. Sì il Rettore della mia Università...». Al servizio del boss ma anche affiliato alla massoneria, ai sussurrati all'orecchio. La vita di Pittelli è ricca d'intrighi e di rapporti coltivati dentro le associazioni segrete. Stesso destino condiviso da esponenti della famiglia Mancuso: «La città di Vibo Valentia - racconta ai magistrati il maestro venerabile Cosimo Virgiglio - è l'epicentro della massoneria legale e deviata. Gli appartenenti alle Logge regolari erano dei professionisti. Mentre quelle coperte erano formate da due filoni: I sussurrati all'orecchio, persone che rivestivano delle cariche istituzionali e non potevano essere inserite nelle liste segnalate alla Prefettura, e i sacrati sulla spada, soggetti con precedenti di vario genere, compresi gli ndranghetisti». Virgiglio conclude la sua deposizione di fronte ai pm facendo una serie di nomi eccellenti: «Della Loggia coperta con Pittelli facevano parte Chiaravalloti, magistrato divenuto presidente della Regione, Enzo Speziali e il capitano Enzo Barbieri della Finanza di Vibo».

«Quel politico per me si butta anche da  un ponte». Così i clan gestivano gli eletti. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Per capire il valore della politica per la ‘ndrangheta, forse, basta ascoltare la definizione che ne ha dato Giovanni Giamborino, 58 anni, arrestato nella maxiretata di ieri con l’accusa di curare le «questioni economico-commerciali» della cosca Mancuso. Intercettato mentre discute con un funzionario del Genio civile da favorire nella carriera, spiegava: «Se lo raccomandiamo, poi... che ti esce... quando cerca una carta te la fa subito... va e te la prende... manda qualcuno che interessa a te e si mette a disposizione... questo è la politica». E la politica nell’accezione dei boss abbonda nell’inchiesta del Ros dei carabinieri e della Procura di Catanzaro, coinvolgendo nomi di rilievo nazionale o locale (dal Parlamento ai piccoli Comuni) arrestati, indagati o anche solo citati in un verbale d’interrogatorio o in una registrazione. Un terremoto che va oltre le responsabilità penali ipotizzate nell’indagine, destinato a condizionare la campagna elettorale che porterà al voto del 26 gennaio, tra poco più di un mese. Con il procuratore Nicola Gratteri che invita la parte sana della società civile a «occupare gli spazi che abbiamo liberato». Per far tornare bianca la zona grigia, nelle intenzioni del magistrato che ha costruito gran parte del suo lavoro sulle parole degli indiziati. Per esempio quando ancora Giamborino parlava dell’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli: «E’ stato due volte deputato e una volta senatore... Con me siamo fraterni amici... se gli dico che si deve buttare dal ponte si butta dal ponte». Poi gli investigatori dell’Arma hanno intercettato lo stesso Pittelli, che racconta passato e presente: «Dell’Utri la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro... Ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto. Uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, si chiama Giuseppe Piromalli...». Abbandonata l’attività politica ufficiale, secondo l’accusa, l’avvocato Pittelli è diventato «l’uomo cerniera» tra l’altro numero uno della mafia calabrese, Luigi Mancuso, «e la cosiddetta società civile, mettendo a disposizione la sua fitta rete di rapporti conoscenze ed entrature, anche nel mondo istituzionale». Sfruttando pure la sua affiliazione massonica. «Lui opera tramite il dirigente, tramite l’assessore, tramite i consiglieri, tramite tutti», diceva ancora Giamborino. Che in un’altro colloquio del dicembre 2016 vantava ottimi rapporti anche con di Nicola Adamo, esponente storico della sinistra calabrese, passato dal Pci al Pd attraverso Pds e Ds, ora indagato per traffico d’influenze. «Lui a Catanzaro fa quello che vuole... che di che se ne dica... per quanto riguarda l’assessore regionale della politica il migliore in questo momento è solo Nicola Adamo... perché Nicola Adamo comanda il presidente...», assicurava Giamborino. Al cospetto di tanta confidenza con uomini di opposti schieramenti politici il suo interlocutore esprimeva qualche perplessità, ma l’altro lo tranquillizzava tornando a parlare di Pittelli: «Non c’entra niente... e che centrodestra e centrosinistra, perché lui non era che mangiava e beveva con Loiero (ex governatore della Calabria per il centrosinistra, ndr)... e giocavano insieme, e facevano insieme, perché lui con Nicola Adamo non è... sta così... e poi se ci sono problemi... non ce lo dice subito?». Giamborino di politica s’intende anche perché suo cugino Pietro, finito in carcere con l’accusa di un essere un anello di congiunzione tra le istituzioni e la ‘ndrangheta vibonese, ha fatto il consigliere regionale per il Pd. Di lui un pentito ha raccontato come faceva funzionare la raccolta dei voti: «In piazza a Piscopio, o quando c’era la domenica la chiesa, o quando c’era qualche lutto, due minuti si parlava. “Quanti voti mi raccogli?”.”500”. Basta, si fermava il discorso». E in un’intercettazione lo stesso Pietro Giamborino, commentando le elezioni del 2018, sembra confermare: «Vince perché noi gli abbiamo dirottato 5.000 voti del Pd...A Piscopio, sperduto paesino del vibonese, da 620 del 2013, senza il mio contributo sono passati a 159». Del sistema politico-mafioso avrebbe fatto parte anche Gianluca Callipo, giovane sindaco di Pizzo Calabro, considerato un «concorrente esterno» della ‘ndrangheta. Tra gli indizi, un incontro con Salvatore Mazzotta, «esponente di vertice» del clan locale sottoposto a sorveglianza speciale, che dopo la riunione imboccò un’uscita secondaria per evitare una pattuglia dei carabinieri. Eletto con il Pd renziano, Callipo (una parentela talmente lontana da sconfinare nell’omonimia con l’imprenditore candidato alla presidenza della Regione) s’era avvicinato al centro-destra. Ma questo, per i suoi presunti amici mafiosi, non rappresentava un problema.

Ndrangheta, arrestato ex Forza Italia Pittelli: «La massoneria ti apre autostrade mondiali». Maxi operazione in Calabria, nel resto d’Italia e all’estero. Coinvolti politici, avvocati e padrini dei clan.Tra questi l'avvocato ex parlamentare Giancarlo Pittelli indagato per concorso esterno. Coinvolto anche il big del Pd, Nicola Adamo. Un terremoto giudiziario prima delle elezioni regionali. Giovanni Tizian il 19 dicembre 2019, su La Repubblica. L'avvocato Giancarlo Pittelli, arrestato oggi dai carabinieri del RosNome in codice “Rinascita-Scott”. Un impasto di 'ndrangheta, politica, imprenditoria e massoneria. È l'operazione antimafia che scatena un terremoto in Calabria a un mese dalle elezioni regionali. La cosca nel mirino è quella dei Mancuso di Vibo e dei clan a loro collegati sempre della provincia di Vibo Valentia. Scorrendo le migliaia di pagine dell'ordinanza di custodia cautelare troviamo pure nomi delle famiglie di 'ndrangheta di Reggio Calabria, le più potenti. A dimostrazione del fatto che le 'ndrine seppure di territori diversi dialogano e cooperano. L'indagine condotta dai carabinieri del Ros e coordinata dalla procura antimafia di Catanzaro guidata dal magistrato Nicola Gratteri ha portato all'emissione di 334 ordinanze di custodia cautelare e al sequestro di beni per 15 milioni di euro. In totale 400 indagati, tra questi esponenti del Partito Democratico e di Forza Italia, avvocati, imprenditori, padrini e uomini delle forze dell'ordine. Un'inchiesta monumentale da 13500 pagine, di cui oltre 250 solo di capi di imputazione. La Procura antimafia di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, disarticola in un colpo solo tutti i clan del Vibonese, scoprendo affari e legami con la politica. Nel corso delle indagini, trovato per la prima volta un pizzino con appuntata la formula di conferimento del 'trequartino', una delle principali cariche di 'ndrangheta. Nella rete della procura antimafia sono finiti, per esempio, Giancarlo Pittelli, avvocato molto conosciuto anche a Roma nonché ex parlamentare. Coinvolto anche Nicola Adamo per traffico di influenze illecite. Per lui è stato   Nicola Adamodisposto il divieto di dimora. Nel caso dell'avvocato Pittelli, destinatario dell'ordinanza di arresto, dalle indagine emerge il suo ruolo nella massoneria. Per il giudice che ha firmato gli arresti il boss Luigi Mancuso gode di «entrature in ogni settore sociale, anche in più alti e insospettabili, grazie soprattutto alla dedizione assoluta assicuratagli negli anni da dall'avvocato ed ex onorevole Giancarlo Pittelli. Quest'ultimo, accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la 'ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le istituzioni tutte, fungendo da passepartout del Mancuso, per il ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali». E proprio sull'appartenenza di Pittelli alle logge massoniche, gli investigatori grazie alle intercettazioni hanno documentato contatti rilevanti con il gotha della massoneria italiana. In un'occasione, per esempio, è emerso il tentativo dell'ex parlamentare berlusconiano di traslocare dalla massoneria di Catanzaro a quella romana. Per farlo si è relazionato a personaggi in vista del Grande Oriente d'Italia. Riferendosi alla loggia romana alla quale avrebbe voluto aderire, l'ex parlamentare dice: «Il rito scozzese ti apre le strade e le autostrade mondiali». E non mancano i rapporti con un altro big della politica nazionale: Lorenzo Cesa. È tramite lui che Pittelli sperava di ottenere la nomina da membro laico nel Consiglio superiore della magistratura. “Rinascita-Scott” non ha però riguardato soltanto la Calabria. Le ordinanze e le perquisizioni hanno coinvolto più regioni: dal Lazio all'Emilia Romagna. Ma anche altri paesi europei, come la Germania. Una 'ndrangheta internazionale ma con i piedi ben piantati nel suo regno originario, la Calabria, che a breve dovrà decidere il nuovo governatore.

 'Ndrangheta: «Pittelli è un valore aggiunto». Così lo accoglieva Giorgia Meloni. L'avvocato ex Forza Italia arrestato per associazione mafiosa era entrato in Fratelli d'Italia nell'aprile del 2017. Salutato a braccia aperte dalla leader. Federico Marconi il 20 dicembre 2019 su L'Espresso. «Un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia». Firmato: Giorgia Meloni. Con questo elogio la leader di Fratelli d’Italia annunciava l’ingresso nel partito di Giancarlo Pittelli, avvocato ed ex parlamentare e una delle 334 persone arrestate ieri su ordine della procura antimafia di Catanzaro nell’ambito dell’operazione “Rinascita-Scott”: è accusato di associazione mafiosa. L’inchiesta condotta dal pm Nicola Gratteri, ha rivelato un impasto di ‘ndrangheta, politica, massoneria e imprenditoria con ramificazioni non solo in Calabria. Dalle indagini, Pittelli emerge come uomo in relazione con le ‘ndrine, ma anche con il gotha della massoneria italiana, deviata e non: «il rito scozzese ti apre autostrade mondiali», diceva.  Il boss Luigi Mancuso, dell’omonimo clan di Vibo Valentia, godeva di «entrature in ogni settore sociale, anche nei più alti e insospettabili, grazie soprattutto alla dedizione assoluta assicuratagli negli anni dall'avvocato ed ex onorevole Giancarlo Pittelli». Che era molto rispettato dal boss del vibonese: «Io lo chiamo col tu, e lui mi da del voi», raccontava in una conversazione telefonica intercettata. Il capo clan si sarebbe fidato così tanto dell’avvocato da affidargli i parenti più stretti: «Avvocato, se succede qualcosa a mia figlia ci siete voi». Pittelli, molto conosciuto a Roma, aveva rapporti in ogni dove: circuiti bancari, società stranieri, università, istituzioni. Relazioni che gli permettevano - è scritto nell’ordinanza - di essere «un “colletto bianco” di riferimento per la risoluzione dei problemi dell’organizzazione». «Pittelli riceve dalla consorteria il suo costante contraccambio» è scritto nelle conclusioni del Gip che ha autorizzato l’arresto, «i boss lo nominano avvocato loro e dei loro sodali, in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di “amicizia” con magistrati, alte personalità delle forze dell’ordine, dell’Accademia e del mondo ospedaliero». Una sorta di passepartout per i clan, che Pittelli a sua volta utilizzava per gestire «i propri grossi affari combinando le conoscenze del mondo civile con quello sotterraneo della criminalità, anche d’ispirazione massonica». Dopo aver lasciato Forza Italia, il 15 aprile 2017 Pittelli entrava in Fratelli d’Italia. «Un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia», lo presentava Giorgia Meloni. Ma proprio tutta, anche per i clan, che ne parlavano così: «L’avvocato Pittelli è sempre disponibile, è sempre un amico».

Umbria, gli affari della ’ndrangheta: «Il vice sindaco è un nostro uomo». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. Le cosche di Siderno e quelle di San Leonardo di Cutro avevano messo le mani su molte attività imprenditoriali dell’Umbria. «Qualsiasi attività illecita sul territorio umbro deve essere autorizzata dalle cosche in Calabria», diceva al telefono Antonio Ribecco, affiliato al clan Mannolo. Ventisette le persone arrestate dalle squadre mobili di Catanzaro, Perugia e Reggio Calabria, coordinate dal Servizio centrale della polizia su ordine delle procure distrettuali di Catanzaro e Reggio Calabria. Ventitrè appartengono alle famiglia di ‘ndrangheta dei Trapasso Mannolo, Zofreo di San Leonardo di Cutro, 4 tra i vertici della cosca Commisso di Siderno. Tutti devono rispondere del reato di associazione mafiosa. Spicca tra essi il nome di Cosimo Commisso, classe 1950, considerato dagli inquirenti ancora il capo indiscusso dell’omonima cosca sidernese. Nel 2015 era stato scarcerato dopo la revisione del processo di revisione sulla faida di Siderno per la quale è stato in carcere 28 anni. Tra le due consorterie di ‘ndrangheta si sarebbero sviluppati accordi illeciti con minacce ed estorsioni, per la realizzazione di progetti imprenditoriali nella zona di Perugia. La cosca di San Leonardo di Cutro, aveva poi avuto un ruolo di primo piano alle elezioni comunali di Perugia del 2014. Aveva appoggiato la candidatura di Nilo Arcudi, poi eletto vice sindaco. «È un nostro uomo di fiducia», dicevano intercettati. Eletta anche con i voti delle cosche Alessandra Vezzosi, moglie di Luigi Repaci, calabrese. «La moglie di Repaci che lui è un amico, lo sa... l’abbiamo fatta salire noi... al Comune... a tutte le parti», diceva Antonio Ribecco in una intercettazione del 5 aprile del 2019. Nell’occasione lo stesso Ribecco diceva di aver fatta una serrata campagna elettorale, adoperandosi mediante concessione di prestiti in denaro. In un’altra intercettazione datata 17 febbraio 2017 tra Ribecco e un imprenditore residente nella zona di Perugia i due parlavano di assunzione di due calabresi. «... Se tu vuoi fare qualcosa... di queste... ne devi parlare giù prima... dopo ti permetti di muovere qua... sennò non puoi fare niente». La cosca di San Leonardo di Cutro era considerata in Umbria una sorta di antistato, capace di dirimere ogni tipo di controversie. Personali e quelle relative al recupero di crediti. Come nel caso registrato dalla polizia di Filippo Cornacchini. Dice Ribecco: «A me non mi risponde io mando quelli. Quelli lo sai che gli dicono sti... o ti facciamo saltare tutto qua...». Poi c’erano gli accordi con Cosimo Commisso. Ribecco e il capo cosca di Siderno discutevano dell’attività di riciclaggio di autovetture rubate. Commisso, in particolare aveva avviato in Umbria una coltivazione di vigneti ed esportava il vino in Canada. Gli inquirenti ritengono che Cosimo Commisso sia ancora un «personaggio di altissimo spessore criminale che non ha abbandonato lo scettro del comando e i legami con la casa madre. Neanche quando si trovava detenuto». Altro capitolo dell’inchiesta riguarda le truffe alle banche: Popolare di Sondrio, Monte dei Paschi di Siena, Unicredit. Consistente anche il giro d’affari relativo al traffico di sostanze stupefacenti tra i Trapasso-Mannolo e gli albanesi.

 Il presidente della Valle d'Aosta Fosson indagato per voto di scambio. Nell'inchiesta anche l'ex presidente Viérin. Secondo gli inquirenti, la 'ndrangheta condizionò le elezioni 2018. La Repubblica il 13 dicembre 2019. Il presidente della Regione Valle d'Aosta, Antonio Fosson, è indagato per scambio elettorale politico mafioso nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla Dda di Torino sul condizionamento delle elezioni regionali 2018 in Valle d'Aosta da parte della 'ndrangheta. L'indagine è stata svolta dai carabinieri di Aosta. Oltre a Fosson (ex senatore) hanno ricevuto un avviso di garanzia nelle scorse settimane anche gli assessori regionali Laurent Viérin (turismo e beni culturali), ex presidente della Regione, e Stefano Borrello (opere pubbliche), e il consigliere regionale Luca Bianchi. Questi ultimi tre sono già stati interrogati dagli inquirenti. L'inchiesta è coordinata dal pm Valerio Longi. Scrivono i carabinieri di Aosta nell'annotazione depositata ieri al processo per una precedente inchiesta che già metteva in luce le infiltrazioni malavitose nell'amministrazione regionale: "Da sottolineare che Antonio Fosson saluta Giuseppe Petullà chiamandolo sempre "capo" e sembra incredibile che un semplice anziano pensionato di origine calabrese possa influenzare, anzi dettare, la linea politica di un ex senatore della Repubblica italiana e assessore regionale come Antonio Fosson". Petullà - si legge ancora - è "soggetto vicino ad esponenti del "locale" di Aosta quali Antonio Raso e Marco Di Donato". I carabinieri hanno anche documentato un incontro tra Fosson e Raso, nel ristorante di quest'ultimo, "per parlare delle elezioni regionali, ma il discorso avviene a voce bassissima e si riescono a comprendere solo brevissimi passaggi". Il 4 maggio 2018 l'allora presidente Laurent Viérin "nonché prefetto in carica, ha incontrato uno degli esponenti di vertice del "locale" di Aosta", Roberto Di Donato, "presso l'abitazione di Alessandro Giachino" ad Aymavilles. Lo scrivono i carabinieri del reparto operativo del Gruppo Aosta nell'annotazione dell'inchiesta Egomnia. L'incontro a fini elettorali, documentato dagli investigatori con fotografie, è durato un'ora circa. "Gli effetti - scrivono i militari - si vedono già il 12 maggio quando presso il bar Nord, sito nel quartiere Cogne di Aosta, ovvero quello a maggior densità di calabresi, viene organizzato un aperitivo in favore di Laurent Viérin al chiaro scopo elettorale". Tre giorni dopo si verifica "la mancata presentazione di Giachino e Roberto Alex Di Donato al pranzo con Viérin" che per quanto avvenuto "si lamenta" con un collega di lavoro di Giachino. "Da una telefonata" del 15 maggio tra Alessandro Giachino e Deborah Camaschella, ex sindaco di Valtournenche e candidata alle scorse regionali, secondo gli investigatori, "si ha il riscontro dell'avvenuto accordo tra Laurent Viérin e il locale, cioè la richiesta del politico di voti, per lui e i candidati della sua lista, e la seguente approvazione del sodalizio criminale che ha concordato e approvato i candidati da supportare, stabilendo anche i voti da attribuire". In dettaglio, "Viérin avrebbe dato il proprio consenso alla dazione di voti in favore della Camaschella e per questo motivo Giachino promette alla donna 30 preferenze". L'attuale presidente della Regione, Antonio Fosson, sapeva di essere indagato per scambio elettorale politico-mafioso quando, il 6 dicembre scorso, ha approvato - con il resto della giunta - la richiesta di costituzione di parte civile dell'amministrazione regionale nel processo Geenna - contro la 'ndrangheta in Valle d'Aosta - da cui deriva l'inchiesta Egomnia che lo vede coinvolto. Nell'esercizio delle funzioni prefettizie attribuitegli dalla Statuto speciale, il 21 novembre scorso Fosson aveva fatto sapere, intervenendo durante il Consiglio regionale, di aver trasmesso "da qualche giorno" al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese le due relazioni relative alle verifiche avviate nei comuni di Aosta e Saint-Pierre sull'eventuale sussistenza di forme di infiltrazione o di condizionamento mafioso. Verifiche che erano scattate a seguito dell'arresto di tre eletti nell'ambito dell'operazione Geenna. La maggioranza regionale è pronta ad aprire la crisi in Valle d' Aosta a seguito del coinvolgimento del presidente Antonio Fosson e di tre assessori nell'inchiesta sul condizionamento delle elezioni. È emerso al termine di un summit a palazzo regionale, durato oltre un'ora. "A livello giudiziario - spiega Patrizia Morelli (Alliance valdotaine) - non conosciamo le posizioni personali dei coinvolti e ognuno avrà modo di chiarire. A livello politico utilizzeremo la giornata per un confronto con i movimenti. Saranno valutate tutte le ipotesi e domani mattina avremo una risposta". Il clima in maggioranza? "Buono, compatibilmente con la gravità della situazione".

 Voto di scambio con la ’ndrangheta: il presidente della Valle d’Aosta si incontrava con i boss. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Enrico Marcoz. Inchiesta della Dda, le accuse per Antonio Fosson e due assessori regionali. Il presidente della Regione Valle d’Aosta, Antonio Fosson, è indagato per scambio elettorale politico mafioso. L’estate scorsa ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino nell’ambito di un’inchiesta sul condizionamento delle elezioni regionali del 2018 da parte della ’ndrangheta. È stato anche convocato dai pm per un interrogatorio a settembre ma ha preferito non presentarsi. Avvisi di garanzia sono stati consegnati anche agli assessori regionali Laurent Viérin e Stefano Borrello, e al consigliere regionale Luca Bianchi. È probabile inoltre che ci siano altri indagati nell’ambito dell’indagine, ribattezzata «Egomnia» per indicare «quelli che vogliono controllare tutto e tutti», come faceva il sodalizio mafioso insidiatosi ai piedi del Monte Bianco. Dagli accertamenti dei carabinieri emerge che la «locale» di Aosta, guidata dai fratelli Marco e Roberto Di Donato, ha sostenuto alcuni candidati autonomisti con un duplice obiettivo: «Godere di un debito di riconoscenza» da parte degli eletti e «avere un maggior numero di consiglieri fedeli nel consesso regionale». Per farlo ha stretto rapporti con personaggi di primo piano della politica valdostana. Le indagini hanno documentato vari incontri tra i candidati e i boss. Il presidente Fosson, che per i carabinieri era «influenzato» da un anziano pensionato calabrese vicino alla ’ndrangheta («gli dettava la linea politica»), si è intrattenuto con uno degli esponenti di spicco del clan «per parlare di elezioni». Viérin, che all’epoca era presidente della Regione (con funzioni di prefetto) è stato visto e fotografato mentre entrava a casa di un altro dei capi del sodalizio. Inoltre «occorre evidenziare che sono tre gli ex presidenti della Regione — scrivono i carabinieri in una annotazione — che nel corso della campagna elettorale si incontrano o cercano di incontrare proprio i fratelli Di Donato», circostanza che viene definita «quantomeno allarmante». Un sostegno elettorale «non a titolo gratuito» ma che era «finalizzato a ottenere posti di lavoro, ovvero agevolazioni in pratiche amministrative sia per gli affiliati che per i soggetti vicini». Con queste premesse la Dda non ha dubbi: «Le elezioni regionali del 2018 sono state condizionate». Nel mirino del sodalizio è finito Alberto Bertin, consigliere regionale e simbolo della lotta alla criminalità organizzata in Valle d’Aosta: parlando al telefono Antonio Raso, uno dei capi del «locale», lo attacca («Quello combina danni, ha fatto danni e continuerà a fare danni») per poi passare alle minacce («Finché qualcuno non gli fa i “mussi” tanti» ovvero lo picchia in faccia). Oltre all’aspetto giudiziario la vicenda ha risvolti politici. La maggioranza regionale ha aperto la crisi e Fosson è pronto alle dimissioni. A molti non è andata giù la scelta di non dire nulla dell’avviso di garanzia. Già sotto inchiesta, il governatore ha firmato da prefetto le relazioni delle verifiche nei comuni di Aosta e Saint-Pierre sul condizionamento mafioso. Così come la costituzione di parte civile della Regione nel processo Geenna sulle infiltrazioni della ’ndrangheta.

 Allarme 'ndrangheta in Valle d’Aosta. La Dda:  «I boss dettano la linea  alla Regione». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. La ‘ndrangheta ha condizionato le elezioni regionali del 2018 in Valle d’Aosta. A dirlo il pm Valerio Longi della Dda di Torino, titolare dell’inchiesta«Egomnia». Nelle 243 pagine di una annotazione prodotta in un altro processo sulle infiltrazioni mafiose ai piedi del Monte Bianco (l’operazione Geenna che nel gennaio scorso portò a 17 arresti tra cui quello di un consigliere regionale) viene descritta la strategia del sodalizio mafioso, capeggiato dai fratelli Marco e Roberto Di Donato, che ha sostenuto alcuni candidati delle forze autonomiste al fine di «godere di un debito di riconoscenza» e di «avere un maggior numero di consiglieri fedeli nel consesso regionale». Nell'inchiesta risulta indagato per scambio elettorale politico mafioso l'attuale presidente della Regione, Antonio Fosson. Oltre a lui hanno ricevuto un avviso di garanzia nelle scorse settimane anche gli assessori regionali Laurent Vie'rin (turismo e beni culturali), ex presidente della Regione, e Stefano Borrello (opere pubbliche), e il consigliere regionale Luca Bianchi. Dagli accertamenti, condotti dai carabinieri di Aosta, sono emersi alcuni particolari che il pm definisce «inquietanti»: «Occorre evidenziare che sono tre gli ex presidenti della Regione Valle d’Aosta (Augusto Rollandin, Laurent Viérin e Pierluigi Marquis, ndr) — scrive — che nel corso della campagna elettorale si incontrano o cercano di incontrare proprio i fratelli Di Donato, quindi coloro che durante l’indagine Geenna è emerso essere ai vertici del “locale” di ‘ndrangheta di Aosta». Il presidente della Regione, Fosson, ex senatore, secondo la Dda sarebbe addirittura influenzato da un anziano pensionato calabrese vicino alla locale di Aosta. «Gli detta la linea politica» aggiunge il pm. Tra le carte spunta anche un incontro — documentato con foto — tra lo stesso Fosson e Antonio Raso, uno dei boss della «locale» di Aosta, «per parlare di elezioni regionali». Le indagini hanno altresì evidenziato l’attività elettorale del sodalizio criminale a favore di tre attuali assessori regionali (Laurent Viérin, Renzo Testolin e Stefano Borrello) e di alcuni consiglieri regionali, oltre all’interessamento alle elezioni politiche del marzo 2018 per favorire i candidati Albert Laniéce (attuale senatore del gruppo delle Autonomie) e Giampaolo Marcoz.

Enrico Marcoz per “il Corriere della Sera” il 15 dicembre 2019. «Ca cousta l'on ca cousta, viva la cosca» (costi quel che costi, viva la cosca). Scatta la risata all'ora dell' aperitivo nel bar di piazza Chanoux, il salotto buono di Aosta. La battuta, che fa il verso ad un celebre motto degli alpini, fa il giro di una città dove ormai non si parla d'altro. L' inchiesta sul condizionamento delle elezioni regionali del 2018 da parte della 'ndrangheta è uno tsunami che travolge tutto e tutti in questo spicchio delle Alpi. Secondo le indagini dei carabinieri «il volere elettorale della 'ndrangheta ha condizionato gli ultimi decenni della storia valdostana». La strategia prevedeva «il controllo della politica locale, considerato un ottimo investimento per aver un maggiore controllo della società civile e la possibilità di ottenere posti di lavoro e appalti». Quassù la comunità calabrese - circa 30.000 persone su 125.000 residenti - ha un peso importante nella società. Nella regione ai piedi del Monte Bianco i cognomi più diffusi sono Fazari e Mammoliti, mica Blanc o Pession. Per i boss, ragionano gli inquirenti, «un appetibile serbatoio di voti». I boss hanno stretto rapporti con personaggi di primo piano della politica valdostana. Tano che i carabinieri - nelle 800 pagine dell' indagine «Egomnia» - parlano di «un connubio politico-criminale ben radicato nel tessuto sociale». Dal Viminale interviene la ministra Luciana Laorgese: «Dobbiamo sempre tenere la guardia alta e avere attenzione massima. Si sta lavorando tanto con la magistratura e le forze dell' ordine». L'arrivo in Valle d' Aosta dei primi emigrati dalla Calabria risale al 1935-1940, quando l' azienda siderurgica Cogne fu trasformata in una fabbrica bellica. Ad attirarli la forte richiesta di manodopera. Erano le avanguardie. L' esodo avvenne invece nel dopoguerra, interi paesi si trasferirono dall' Aspromonte alle Alpi. È il caso di San Giorgio Morgeto, in provincia di Reggio Calabria, che oggi conta 3.000 abitanti mentre ben 9.000 sangiorgesi emigrati vivono in Valle d' Aosta. Le dinamiche famigliari tipiche dell' emigrazione hanno spinto centinaia di calabresi verso la regione alpina, dove la Cogne prima e alcune grandi opere poi (per esempio la diga di Placemoulin e il traforo del Monte Bianco) assicuravano lavoro a tutti. Gli stessi emigrati chiamavano i paesani e li facevano salire sul treno in direzione Aosta. Così, in neanche un decennio, si è formata la comunità calabrese, trovando casa nei quartieri popolari. L' integrazione con i valdostani non è stata facile, ci sono voluti parecchi anni prima che la Fontina e la 'Nduja finissero sulla stessa tavola. Oggi molti calabresi parlano in patois (il dialetto locale), sono protagonisti sui campi di fiolet (gioco tradizionale valdostano) oppure sui tavoli di belote (gioco di carte). Ma non hanno rinunciato ai legami con la terra d' origine, l' orgoglio non è sfumato con il passare degli anni. Ma se un esempio è la Festa dei Santi Giorgio e Giacomo che dal 1992 si svolge sulla riva della Dora Baltea e che vanta quasi 100.000 presenze all' anno (molti emigrati arrivano da Francia, Svizzera e Germania), un altro, più preoccupante, è la Messa per la Madonna di Polsi in Aspromonte, considerata un luogo simbolo della 'ndrangheta, che si celebra a settembre nella chiesa di Sant' Anselmo, alla periferia di Aosta. In questo contesto si è formata la «locale» aostana, con la «volontà di inserirsi - scrivono gli investigatori - nel tessuto amministrativo valdostano». Il primo mezzo per infiltrare la politica valligiana fu la creazione, a inizio anni '90, del Movimento immigrati valdostani, che ebbe scarsi consensi. Da lì la decisione della 'ndrangheta di cercare di introdurre i propri sodali nei partiti con maggior seguito.

«Ma la comunità calabrese - sottolinea il sindaco di Aosta, Fulvio Centoz - è formata da persone oneste e laboriose, anche se tra loro possono nascondersi mele marce».

Il presidente della Valle d’Aosta Fosson si è dimesso per le indagini sulla ‘ndrangheta. Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Enrico Marcoz. Il presidente della Regione Valle d’Aosta, Antonio Fosson, è indagato per scambio elettorale politico mafioso. Il presidente della Regione Valle d’Aosta, Antonio Fosson, si è dimesso. L’annuncio — secondo quanto appreso dall’agenzia Ansa — è stato dato durante una riunione straordinaria di maggioranza a Palazzo regionale. L’estate scorsa a Fosson era stato notificato un avviso di garanzia per scambio elettorale politico mafioso in merito ad un’inchiesta sul condizionamento delle Regionali del 2018 in Valle d’Aosta da parte della `ndrangheta. Come indicato dal Corriere oggi, Fosson è stato anche convocato dai pm per un interrogatorio a settembre ma ha preferito non presentarsi. Avvisi di garanzia sono stati consegnati anche agli assessori regionali Laurent Viérin e Stefano Borrello, e al consigliere regionale Luca Bianchi. L’indagine, ribattezzata «Egomnia» per indicare «quelli che vogliono controllare tutto e tutti», si concentra sulla «locale» di Aosta, guidata dai fratelli Marco e Roberto Di Donato, che ha sostenuto alcuni candidati autonomisti con un duplice obiettivo: «Godere di un debito di riconoscenza» da parte degli eletti e «avere un maggior numero di consiglieri fedeli nel consesso regionale». Per farlo, secondo le indagini, ha stretto rapporti con personaggi di primo piano della politica valdostana. L’inchiesta ha documentato vari incontri tra i candidati e i boss. Il presidente Fosson, che per i carabinieri era «influenzato» da un anziano pensionato calabrese vicino alla ’ndrangheta («gli dettava la linea politica»), si è intrattenuto con uno degli esponenti di spicco del clan «per parlare di elezioni». Viérin, che all’epoca era presidente della Regione (con funzioni di prefetto) è stato visto e fotografato mentre entrava a casa di un altro dei capi del sodalizio. Inoltre «occorre evidenziare che sono tre gli ex presidenti della Regione — scrivono i carabinieri in una annotazione — che nel corso della campagna elettorale si incontrano o cercano di incontrare proprio i fratelli Di Donato», circostanza che viene definita «quantomeno allarmante». Il sostegno elettorale era «finalizzato a ottenere posti di lavoro, ovvero agevolazioni in pratiche amministrative sia per gli affiliati che per i soggetti vicini».

 Carlo Macrì per corriere.it il 14 dicembre 2019. Il lavoro d’ufficio per il sindaco di Scalea Gennaro Licursi era subordinato alle sue attività personali. Dipendente dell’Azienda sanitaria di Cosenza, negli ultimi due anni, ha collezionato oltre 650 ore di assenze ingiustificate. Il «furbetto del cartellino» con incarichi di governo cittadino è stato arrestato e posto ai domiciliari dal giudice delle indagini preliminari Maria Grazia Elia su richiesta del procuratore capo di Paola, Pier Paolo Bruni. Il sindaco, eletto a giugno del 2016 con una lista civica di centro sinistra, è accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato, falsa attestazione della presenza in servizio, è stato sospeso dall’esercizio della funzione pubblica.

Intercettato per due anni. Le assenze nulla hanno a che fare con la sua carica di primo cittadino. Gennaro Licursi dopo aver timbrato il cartellino se ne usciva dall’ufficio per svolgere attività personali o intrattenendosi spesso con amici. Molto personali. Nell’ordinanza si dice che: «In più occasioni l’attività di pedinamento ha consentito di filmare Gennaro Licursi negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio, all’interno del Parco del Corvino (nelle immediate adiacenze del Centro sportivo), in sosta all’interno di un’area circondata da una folta vegetazione insieme a una donna». Arrestati anche tre dipendenti dell’Asp che hanno coperto il sindaco durante le sue assenze. Per coprire i suoi allontanamenti volontari il sindaco di Scalea si era inventato false missioni di servizio. Per due anni è stato sottoposto ad intercettazioni telefoniche, seguito con il Gps e filmato in tutte le sue azioni quotidiane che hanno provato le sue continue assenze dal lavoro. È il quinto sindaco arrestato dalla procura di Paola dopo quelli di Aieta, Guardia Piemontese, Maierà e Fuscaldo, coinvolti in indagini sulla pubblica amministrazione.

L’inchiesta «Ghost Work». Nel merito dell’inchiesta «Ghost Work» che ha portato all’arresto del sindaco di Scalea, va giù duro il procuratore Paolo Pier Paolo Bruni commentando la proposta del Pd al ministro Bonafede, avanzata dei giorni scorsi sulla prescrizione. Il suggerimento è quello di dare la pagella ai pubblici ministeri e obbligare i capi delle procure a consultarsi con le istituzioni locali prima di stabilire i «criteri di priorità» dei reati da perseguire. «Dovrei interloquire con questi sindaci che hanno commesso reati nelle loro funzioni?», dice il magistrato. «In questi anni come procura, ridotta all’osso con oltre il 40 per cento di personale che manca, abbiamo spedito in galera sindaci per reati come appropriazione di soldi pubblici, corruzione e bancarotta».

 ‘Ndrangheta: arrestato  l’ex candidato sindaco  Roberto Rosso. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. È stato arrestato venerdì mattina della Guardia di finanza l’assessore regionale Roberto Rosso, uno dei leader di Fratelli d’Italia in Piemonte: l’accusa è di aver chiesto voti ai clan della ‘ndrangheta in occasione delle ultime elezioni regionali in cui è stato eletto nelle file del centrodestra. Rosso è finito in manette insieme ad altre sette persone nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia torinese. Contestualmente sono stati eseguiti sequestri di beni appartenenti alla ‘ndrangheta e distribuiti sul territorio nazionale. Tra i reati contestati dalla Procura, oltre all’associazione per delinquere di stampo mafioso e reati fiscali per 16 milioni di euro, c’è anche il scambio elettorale politico-mafioso. Rosso, stando alle accuse, si sarebbe rivolto ad affiliati alle cosche calabresi per conquistarsi un posto in Regione: è stato eletto consigliere regionale in provincia di Torino, ottenendo 4.806 preferenze. Roberto Rosso, vercellese, 59 anni, è un avvocato civilista. Attualmente è assessore regionale con delega ai rapporti con il Consiglio delegificazione dei percorsi amministrativi, affari legali e contenzioso, emigrazione e ai diritti civili. Alle spalle ha una carriera politica di lungo corso inizia negli anni Novanta. È stato cinque volte deputato e ha militato nelle file di Forza Italia. Membro in più commissioni parlamentari: Bilancio, Attività Produttive, Lavoro e Agricoltura. Nella legislatura 2008- 2013 è stato anche sottosegretario alle Politiche agricole e forestali. Attualmente è anche capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Torino e vice sindaco di Trino Vercellese. Tra destinatari della misura cautelare anche Mario Burlò, 46 anni, di Moncalieri, imprenditore nel ramo del «facility management».

'Ndrangheta: voto di scambio politico-mafioso, arrestato l'assessore regionale Rosso. Operazione tra Torino e Carmagnola: in tutto otto le misure cautelari. Il politico accusato di aver pagato 15 mila euro per un apcchetto di voti. Lui si dimette dalla giunta Cirio, Giorgia Meloni lo silura: "Ho il voltastomaco, è fuori da Fdi". Sarah Martinenghi, Cristina Palazzo e Sara Strippoli il 20 dicembre 2019 su La Repubblica. C'è l'assessore regionale del Piemonte Roberto Rosso, 59 anni, avvocato, rappresentante di Fratelli d'Italia, tra gli otto arrestati all'alba per scambio elettorale politico-mafioso. Secondo l'accusa, avrebbe chiesto voti ai clan per essere eletto in Regione alle elezioni del 26 maggio, vinte dal centrodestra: avrebbe pagato quindicimila euro in cambio della promessa di un "pacchetto" di preferenze. Rosso aveva le deleghe per i rapporti con il Consiglio regionale, Semplificazione, Affari legali e Contenzioso, Emigrazione e Diritti civili. E' anche capogruppo di Fratelli d'Italia in Consiglio Comunale a Torino. Originario di Trino, si divide tra il Vercellese e il Torinese, dove vive con la moglie a Moncalieri e dove stamani all'alba è stato arrestato. Nel 2001 aveva sfidato Chiamparino nella corsa per diventare sindaco di Torino. A poche ore dal suo arresto Rosso ha rassegnato la dimissioni e il presidente Cirio assumerà le sue deleghe. Lo spiega il coordinatore di Forza Italia Paolo Zangrillo: “Noi siamo garantisti e speriamo che Rosso possa dimostrare la sua totale estraneità ai fatti di cui è accusato. Ho parlato con Cirio, sarà lui ad assumere le deleghe dell assessore”. Il politico piemontese viene silurato seduta stante anche dal suo partito: "Ha aderito a Fratelli d'Italia da poco più di un anno. Apprendiamo che stamattina è stato arrestato con l'accusa più infamante di tutte: voto di scambio politico-mafioso. Mi viene il voltastomaco", dice Giorgia Meloni, leader di Fdi. E spiega: "Mi auguro dal profondo del cuore che dimostri la sua innocenza, ma annuncio fin da ora che Fratelli d'Italia si costituirà parte civile nell'eventuale processo a suo carico. Ovviamente, fin quando questa vicenda non sarà chiarita, Rosso è da considerarsi ufficialmente fuori da FdI". Il centrosinistra intanto chiede spiegazioni. "Lunedì ci sarà Consiglio Regionale del Piemonte e se non lo farà il Presidente Alberto Cirio chiederemo noi le comunicazioni in Aula" annuncia il consigliere regionale del Pd Diego Sarno. Il blitz delle fiamme gialle è scattato all’alba di oggi: i militari hanno eseguito sette delle otto ordinanze di custodia cautelare in carcere, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Torino. In manette è finito anche l'imprenditore Mario Burlò, 46 anni, imprenditore, di Moncalieri, presidente di Oj Solution, un consorzio di imprese che opera nel settore del facility management. E' anche  vicepresidente nazionale di "Pmi Italia", un'associazione che riunisce 200mila imprenditori in tutta Italia. E' molto conosciuto anche nell'ambiente sportivo, come sponsor di attività. L’accusa è associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale politico mafioso e reati fiscali per 16 milioni di euro: sono in corso sequestri per milioni di euro su 200 tra imprese, immobili e conti correnti in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna. È lo sviluppo dell’indagine Carminius che aveva già portato ad arresti per 'ndrangheta a Carmagnola e Torino. Rosso, secondo l’accusa, avrebbe avuto i voti per le elezioni regionali del 26 maggio 2019, avvalendosi della mediazione di Enza Colavito e di Carlo De Bellis. Le indagini hanno messo in luce “ lo spessore criminale di Onofrio Garcea e Francesco Viterbo” che avrebbero riorganizzato gli assetti dell’organizzazione con Burlò, accusato di associazione esterna. L’imprenditore avrebbe evaso il fisco attraverso la creazione di più società e indebite compensazioni di Iva, per oltre 16 milioni di euro. Il tutto “con il costante sostegno dei membri della cosca”. Recentemente Burlò aveva comprato la villa del calciatore Arturo Vidal, oggi posta sotto sequestro. Rosso invece avrebbe avuto piena consapevolezza dell’infiltrazione mafiosa dei suoi interlocutori. “Per accaparrarsi i voti è sceso a patti con i mafiosi. Hanno stretto un accordo”, dice il procuratore generale Francesco Saluzzo.

Andrea Rossi per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. Nell' ordinanza firmata dal giudice Giulio Corato c'è un passaggio che meglio di ogni aneddoto svela chi è Roberto Rosso. Un politico che nel 2012 firma una interpellanza parlamentare su una presunta compravendita di voti legata alla 'ndrangheta e sette anni dopo «ricompare in fotografia ad accogliere nel proprio ufficio elettorale, con larghi sorrisi» le stesse persone, stavolta pronte ad aiutare lui a fare scorta di preferenze. Che potendo scegliere a quale gruppo rivolgersi, opta per chi promette una dote più generosa. E alla fine è pure insoddisfatto, si sfoga al telefono e non vuole saldare il conto, quando scopre che le preferenze garantite non sono arrivate: «No no guarda, ho verificato. Buffoni, farabutti, dei cacciaballe incredibili». Sornione, la battuta sempre pronta, un vecchio liberale cresciuto nella Dc e plasmato alla corte di Berlusconi, di quelli che si imbufaliscono per certi articoli di giornale ma il giorno dopo incontrano il cronista e abbozzano, ché tanto è un altro giorno. Rosso è così. Cinquantanove anni, pronipote di san Giovanni Bosco, avvocato anche se la professione l' ha esercitata a sprazzi. A 19 anni era già era già consigliere comunale, a Trino Vercellese, la sua roccaforte. È stato vice sindaco, cinque volte parlamentare, due sottosegretario. Scomparsa la Dc ha solcato tutto l' arco costituzionale del centrodestra: Forza Italia, Pdl, Futuro e Libertà, di nuovo Forza Italia, Conservatori e Riformisti, Direzione Italia, Noi con l' Italia, Fratelli d' Italia. Nel 2001 per poco non è diventato sindaco di Torino. Per Silvio Berlusconi era la persona giusta per strappare la città dalle mani dei «comunisti». E lui l' aveva preso in parola: prometteva di cambiare nome a corso Unione Sovietica, chiudere i centri sociali. Anche una certa Torino l' aveva preso sul serio: il mondo della musica e della cultura organizzò un enorme concerto in piazza Castello poco prima del voto. «Torino è la mia città e non voglio perderla»: c' erano proprio tutti, a cominciare dai Subsonica. L' obiettivo era sbarrargli la strada; alla fine vinsero Sergio Chiamparino e l' allora Pds, ma solo al ballottaggio e di poco, 30 mila voti. Da quel giorno a Torino il centrodestra ha racimolato solo briciole. Berlusconi dei «comunisti» non parla più, Rosso invece non ha mai smesso. «Se non sei di sinistra vota Rosso»: alle ultime regionali, sette mesi fa, si è presentato così. Era appena entrato in Fratelli d' Italia. Aveva deciso di tornare in Regione e il partito di Giorgia Meloni era il cavallo giusto: una classe dirigente formata alla vecchia scuola di Alleanza Nazionale ma molto litigiosa, un bacino elettorale in rapida espansione. La sintesi perfetta per chi ha fiuto, entrature e un budget elettorale quasi illimitato. Risultato: primo degli eletti con oltre 4 mila preferenze. In Regione era già entrato nel 2010, da vice del presidente leghista Roberto Cota. Era durato pochi mesi: essendo anche deputato, le cariche erano incompatibili e i rapporti con Cota difficili. Il suo passo d' addio fu, al solito, pirotecnico: «Le Regioni sono una fogna», disse in tv difendendo i parlamentari da chi li accusava di essere casta. E giù a raccontare in diretta di quegli ex colleghi che andavano a farsi la settimana bianca facendosela rimborsare dalla Regione. I magistrati di Torino annotarono tutto: due anni dopo la giunta Cota era caduta. Anche a causa sua. Alberto Cirio avrebbe fatto volentieri a meno di averlo nella sua squadra. Una mina vagante. Inaffidabile, volubile. Ieri l' ha anche ammesso, confessando tutta la propria impotenza davanti alle scelte dei leader del centrodestra. Anche Giorgia Meloni l' ha scaricato in un amen: e dire che era stata proprio lei, con i suoi colonnelli, soprattutto romani, a imporlo a Cirio. Rosso, da uomo di modo qual è, non gliene vorrà.

Giuseppe Legato per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. «Un novello Didio Giuliano». Così è chiosato negli atti dell' inchiesta torinese Roberto Rosso, paragonato all' imperatore romano che regnò per pochi mesi, dopo aver comprato all' asta l' impero dai pretoriani che lo vendevano al migliore offerente. Rosso, invece, per conquistare il suo impero regionale, ha promesso 15 mila euro «da corrispondere in tre tranche da 5 mila». Alla fine ne ha versati 7900. Con un po' di livore per giunta. Perché all' indomani dei risultati elettorali, i suoi interlocutori, ben inseriti nella criminalità organizzata, non avevano portato in dote quel carico sperato di voti. Diventato consigliere regionale di Fratelli d' Italia con 4806 preferenze, il giugno scorso, pochi giorni dopo la proclamazione, Rosso viene contattato al telefono da Francesco Viterbo, indicato come «elemento di spicco» della 'ndrangheta in Piemonte. «Auguri ... Domani ci pigliamo un caffè?» dice al neo consigliere. Una telefonata che sa di «richiesta di riscossione», ritengono gli investigatori della Finanza. Rosso però mirava a uno sconto. Aveva già versato un acconto di 2.900 euro prima del voto. Così prende tempo: «Sì, però dopo che si sono chiusi gli assessorati ... Mi telefoni tra due settimane». Viterbo non la prende bene. Sempre al telefono, Rosso si lamenta con la sua amica l' imprenditrice Enza Colavito, intermediaria in questo oscuro menage. «No, guarda - sbotta - ho verificato, sono dei cacciapalle incredibili, non ho niente da dirgli». L' esponente di Fratelli d' Italia - sempre secondo le accuse - è convinto che di voti, da quella parte, non gliene siano arrivati così tanti. Comincia così un frenetico scambio di telefonate, trattative e tentativi di compromesso. La tensione cresce e la Colavito si sente presa in mezzo: l' altro intermediario, Carlo De Bellis, la avverte che i creditori sono «persone molto rispettose» ma «il problema è che con loro devi essere precisa in tutti i discorsi». Il 12 giugno Rosso incontra la donna in un bar. L' imprenditrice, subito dopo, telefona a De Bellis per fargli sapere la proposta del politico. I soldi diventano «caramelle», nel loro dialogo. «Cinque ... tre caramelle le han già prese ... Provo a dirglielo. Sennò ognuno per la sua strada. Io più di così ...». Il 13 giugno Viterbo chiama Colavito e dice che va bene: «Faccio questo favore a te, non preoccuparti». Ma poi sottolinea che Rosso «si è comportato male, credimi, un comportamento da schifo». Difeso dal legale Maurizio Basile, Rosso è stato rinchiuso nel carcere di Torino; sarà trasferito nel penitenziario di Asti. E pensare che uno dei destinatari dei soldi è Onofrio Garcea, di cui Rosso si era occupato da parlamentare nel 2012. Sottoscrivendo l' interpellanza 2/01491 insieme a diversi deputati. I firmatari chiedevano al governo di riferire in merito alla nomina di Pasquale Antonio Gioffrè quale Prefetto di Lodi. «Nell' atto - annota il gip - si faceva riferimento al fatto che Gioffrè compariva tra i fondatori di un' associazione di immigrati calabresi in Liguria denominata Città del Sole insieme a una serie di soggetti coinvolti in inchieste antimafia e voti di scambio a partire dal presidente Salvatore Ottavio Cosma. Quest' ultimo - si legge agli atti all' interno dell' interpellanza risultava da un' inchiesta della Gdf quale uomo di contatto tra politica ligure e 'ndrangheta». Tra questi c' era anche Onofrio Garcea. Per gli investigatori ciò dimostra «la piena consapevolezza» della natura degli interlocutori. Garcea e Viterbo rientrano nella galassia delle 'ndrine di Vibo Valentia, famiglia Bonavota, falcidiate nel torinese dalla recente operazione Carminius. E proprio per serrare le fila della 'ndrina, Garcea sarebbe rientrato mesi fa da Albenga, dove aveva soggiornato per anni in attesa di giudizio al processo «Maglio», in cui è stato condannato finora in appello a 7 anni di carcere per «rimettere in piedi» l' organizzazione. Di nuovo azzoppata dalla procura.

Cirio: «Non lo volevo in giunta, me lo ha imposto Giorgia Meloni». Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Gabriele Guccioni e Giulia Ricci. «Io nemmeno lo volevo in squadra, me lo hanno imposto Giorgia Meloni e il suo partito». Come tutte le settimane, alla stessa ora e nello stesso giorno, al primo piano di piazza Castello gli assessori sono convocati per la consueta riunione della giunta regionale; ma quello che sta per cominciare non è un venerdì come tutti gli altri per gli eletti di centrodestra al governo del Piemonte. La notizia dell’arresto di uno di loro, Roberto Rosso, li prende in contropiede. Arriva quando la seduta in cui si dovrebbe discutere dell’assegnazione degli incarichi ai nuovi direttori non è ancora iniziata. E il colpo è durissimo. Il tintinnio delle manette, l’ombra della ‘ndrangheta scuote il palazzo. Il presidente Alberto Cirio cerca di allontanarla da sé. Si sfoga incredulo con i suoi. Ricorda i concitati giorni delle trattative per la formazione dell’esecutivo regionale, le pretese di Fratelli d’Italia di avere almeno due esponenti nella squadra. E Rosso, campione di preferenze — con 4.806 voti — ma anche di cambi di casacca (dalla Dc a Forza Italia, da Futuro e Libertà a Direzione Italia, fino all’ultimo), è uno dei due nomi su cui i vertici di Fdi puntano. «Io avrei voluto una giunta di gente tutta nuova, senza troppe esperienze politiche pregresse e al riparo dai retaggi della vecchia politica. Fratelli d’Italia l’ha pensata in un altro modo», riconosce il governatore azzurro. Per poi aggiungere quella che, tolta ogni attestazione garantista di circostanza, suona già come una sentenza: «Se avessi avuto anche solo il minimo sospetto, non solo non l’avrei nominato assessore ma non ci avrei preso nemmeno un caffè». Invece l’ex democristiano, cinque volte parlamentare e due sottosegretario di governo, che nel 2001 si ritrovò a un passo dall’elezione a sindaco di Torino, entra nella giunta di centrodestra. Per lui, che in un primo tempo sembrava dovesse assumere il pesante incarico di assessore alla cultura, alla fine il presidente Cirio ritaglia con uno stratagemma una casella ad hoc, un assessorato minore ricavato dall’accorpamento di scampoli di deleghe: rapporti con il Consiglio regionale, delegificazione, affari legali, emigrazione e diritti civili. Per il governatore (e per la Lega) la questione si era chiusa così. Salvo scoprire, ieri, che quell’argine alzato attorno a Rosso non sarebbe bastato a fermare la piena. Ora Cirio ha in mente soltanto una cosa: lavare l’onta, fare in modo che la piena non lo travolga. «La mia priorità è mettere in sicurezza — dice — l’immagine del Piemonte e salvaguardare la dignità delle istituzioni». E annuncia: «La Regione valuterà se costituirsi parte civile». E così, per uno strano caso del destino, quelli che ne avevano agevolato l’ascesa in piazza Castello (garante dell’operazione il coordinatore piemontese di Fdi ed ex forzista, come Rosso, Fabrizio Comba) sono stati i primi a scaricare l’ex assessore arrestato. «Mi viene il voltastomaco. Fdi si costituirà parte civile nell’eventuale processo a suo carico — è stata la dura reazione della leader Meloni —. Rosso era entrato un anno fa, ma ora è ufficialmente fuori». E dire che la vecchia guardia del partito si era opposta al suo ingresso: «E avevamo ragione». In una fase di allargamento dei consensi, imbarcare Rosso (e con lui decine di ex azzurri di ascendenza Dc) era fondamentale. Tant’è che i più scettici tra i «fratelli» torinesi, tra cui Maurizio Marrone e Augusta Montaruli, si sentirono promettere: «È la sua ultima chance. Non lo candideremo mai a Roma, tranquilli».Ora che, prima che alla Camera, Rosso è finito in carcere (e c’è poco da stare tranquilli), già si preannuncia la resa dei conti in Fdi, ma anche nei rapporti con la Lega. Per ora è difficile pensare che il posto rimasto vuoto con le dimissioni arrivate subito dopo l’arresto («Ero pronto a revocarlo», assicura Cirio) venga subito riassegnato. «Non ne abbiamo parlato», si schermisce il governatore, che nel frattempo ha assunto l’interim. Di certo, se non a un leghista — c’è chi fa il nome di Riccardo Lanzo —, difficilmente quell’assessorato, ribattezzato dai detrattori «alle varie ed eventuali», tornerà nelle mani di un «fratello d’Italia». Più facile che venga spacchettato. E soppresso.

Dalla Dc a Fratelli d'Italia, la parabola del politico che diede il via a Rimborsopoli. Nel 2001 Rosso ha conteso la carica di sindaco a Chiamparino, poi sottosegretario con Berlusconi. Ora alla corte della Meloni. Mariachiara Giacosa il 20 dicembre 2019 su La Repubblica. Cinquantanove anni, Roberto Rosso è il mattatore della politica torinese. Una lunga carriera iniziata a Trino Vercellese, di cui è stato vicesindaco fino a pochi mesi fa), che lo ha portato a maggio a entrare nella giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio ottenendo, tra le altre, anche la delega agli Affari legali. Muove i primi passi nella democrazia cristiana, ed è tra i primi a seguire Silvio Berlusconi nel 1994 quando nasce Forza Italia. Nel 2001 si candida sindaco di Torino per il centrodestra e costringe Sergio Chiamparino a un inatteso ballottaggio da cui poi esce sconfitto. Durante la campagna elettorale, tra propone di cambiare nome a corso Unione Sovietica, ma viene subissato di critiche. Arrivano poi incarichi nazionali, compreso il ruolo di sottosegretario al lavoro del Governo Berlusconi, nel 2004, poi il ritorno in Piemonte, come vicepresidente della giunta del leghista Roberto Cota. E' lui durante una diretta radiofonica, nel 2012, a far scoppiare la Rimborsopoli del Piemonte. Racconta ai microfoni di Telelombardia di aver ospitato per la settimana bianca in montagna un consigliere regionale del Piemonte che si faceva firmare le spese per ottenere il rimborso. Sono i mesi delle inchieste su Belsito e sui consigli regionali di mezza Italia e anche il Piemonte di Cota viene travolto dallo scandalo. Non Rosso che nel 2016 con una lista civica corre di nuovo come sindaco a Torino e entra in consiglio comunale. L'ultima avventura di Rosso è con Giorgia Meloni, per cui si candida alle regionali dello scorso maggio. E' il primo a partire con la campagna elettorale, tappezza la città di manifesti con il suo nome e alla fine è campione di preferenze a Torino, con 4 mila 777. Una dote che gli consente di ottenere un posto da assessore, nonostante l'ostilità di un pezzo di Fratelli d'Italia. Oggi è assessore ai rapporti con il consiglio, alla semplificazione e ai diritti civili. Sovranista ma istrionico. Un connubio minaccioso che infatti ha messo il suo nome in bilico fino all'ultimo nella squadra di Cirio. Alla fine per lui si è trovato un posto "dignitoso, ma senza pericoli", con un incarico che lui stesso ha ribattezzato di sottosegretario del governo regionale, Anche da lì, comunque non sono mancate le gaffe. La prima a giugno, in occasione del gay pride, quando ha interrotto la tradizione degli ultimi cinque anni durante i quali gli assessori regionali del centrosinistra sfilavano accanto alle bandiere arcobaleno. "Non ci vado, è una carnevalata" aveva detto sollevando un coro di proteste. Salvo poi compiere una totale giravolta, a novembre, quando si è presentato alla Trans freedom march, organizzata per commemorare le vittime della transfobia e per rivendicare i diritti delle persone transgender. "Ho ritenuto che fosse giusto onorare la memoria delle oltre 300 vittime di transfobia nel mondo" aveva detto l'assessore regionale contestato dai manifestanti. "Credo che sia doveroso essere presenti a questo tipo di cortei. Io sono un liberale e penso si debba dare spazio a ogni posizione. L'intolleranza è da condannare in ogni campo. Bisogna iniziare a non avere pregiudizi, a confrontarsi, a dialogare, pur mantenendo la propria idea e le proprie convinzioni".  Alle Regionali è stato l'unico politico di centrodestra ad aver incassato il pieno sostegno della comunità musulmana di Trino Vercellese che ha scritto una lettera aperta per chiedere di sostenere l'esponente di Fratelli d'Italia a cui i fedeli dell'islam riconoscono il merito di aver contribuito "più di chiunque altro" a costruire la moschea di Trino dove è ora è vice sindaco (dopo anni da primo cittadino). Nei sei mesi da assessore regionale ha cavalcato l'onda della semplicazione, varando un pacchetto per cancellare le tante leggi inutile. Ama le sceneggiate, Rosso che poco più di un mese fa, proprio per celebrare l'approvazione del "taglia leggi" ha fatto stampare le leggi da abrogare su risme e risme di carta e poi le ha portate al macero, insieme al presidente Cirio, per la soddisfazione di telecamere e macchine fotografiche. 

Scambio politico-mafioso: quel reato scivoloso che divide toghe e avvocati. Giovanni M. Jacobazzi il 21 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Secondo i penalisti il nuovo 419ter, «colpisce chi crea consenso sui territori, una legge che si iscrive a pieno titolo nella strategia distruttiva delle democrazia». Roberto Rosso, assessore della giunta regionale piemontese con la delega alla Semplificazione, Affari legali e Contenzioso, è una delle prime vittime della nuova formulazione del reato di voto di scambio politico-mafioso, introdotto la scorsa primavera. Rosso, forzista della prima ora, da un anno in quota Fratelli d’Italia, secondo la Procura di Torino avrebbe chiesto voti ai clan calabresi per essere eletto alle elezioni regionali del 26 maggio, vinte dal centrodestra. Le cosche gli avrebbero chiesto quindicimila euro in cambio della promessa di un “pacchetto” di preferenze, lui ne avrebbe pagati una prima tranche da 7.900 euro. Nei suoi confronti è scattata una misura di custodia cautelare in carcere. La nuova formulazione del 416 ter, voluta dal M5s, inasprisce le pene (è prevista la reclusione da 10 a 15 anni) per i politici accusati di aver siglato accordi elettorali con esponenti mafiosi. Se colui che ha accettato la promessa di voti risulta poi effettivamente eletto, la pena viene aumentata della metà. In caso di condanna, inoltre, segue l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. E’ sanzionata, poi, la condotta di chi offre «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze della associazione mafiosa», con la previsione della sanzione anche nel caso che la promessa di voti provenga da non meglio specificati «soggetti appartenenti alle associazioni «mafiose. In molti hanno, però, già sottolineato che la genericità della fattispecie così formulata lascerà ampia discrezionalità al magistrato. Concetto ribadito, in senso positivo, durante la discussione in Aula da parte del pentastellato Andrea Colletti, secondo cui «tutte le norme devono essere in un certo senso vaghe» perché possano essere interpretate “dalla giurisprudenza sia in maniera estensiva sia in maniera restrittiva». «Nel corso della discussione di questa proposta di legge – aveva sottolineato all’epoca Pierantonio Zanettin, componente della Commissione giustizia della Camera ed ex laico del Csm – abbiamo posto con forza il tema della consapevolezza da parte del politico della appartenenza alla associazione mafiosa dell’intermediario o di chi promette voti». Esiste, infatti, la concreta possibilità, che “la nuova formulazione del 416 ter esponga tutti i candidati impegnati in campagne elettorali al rischio di un coinvolgimento in indagini ed in procedimenti penali, anche in assenza di una precisa condotta dolosa, tassativamente normata, soprattutto nelle campagne elettorali caratterizzate dalla preferenza, nelle quali la ricerca di consensi personali comporta inevitabilmente il contatto con una vasta platea di elettori, dei quali non è ragionevolmente possibile conoscere a priori la moralità o il casellario giudiziario”, puntualizzò il parlamentare azzurro. Il nuovo 416ter, scrissero le Camere penali, «mette a rischio coloro che, invece di affidarsi alla rete e ai suoi gestori per costruire il consenso, pensano ancora ad un impegno politico che muova da un rapporto diretto con il territorio e con le istanze dell’ elettorato di riferimento. Una legge che si iscrive a pieno titolo nella strategia distruttiva delle democrazia rappresentativa». Concetto ribadito dallo stesso Zanettin: «Chi ha voluto una riforma del genere si immagina che le prossime campagne elettorali vengano condotte direttamente dal divano di casa, utilizzando esclusivamente le piattaforme social». Tornado a Rosso, dimessosi dalla carica di assessore e subito espulso dal partito, i voti sarebbero stati ricevuti dal boss Onofrio Garcea, esponente del clan Bonavota in Liguria, tramite Enza Colavito e Carlo De Bellis, due imprenditori piemontesi che svolgevano il ruolo di intermediari. «Eh…5 e bon tagliamo la testa al toro». «Glielo dico, provo a dirglielo». «Cinque, e tre “caramelle” le han già prese. E bon». Questo colloquio intercettato fra i due, non essendoci riscontri sull’effettivo passaggio di denaro, è stato sufficiente a stroncare la carriera di Rosso.

·         Le vacche sacre della 'ndrangheta non sono più intoccabili.

Le vacche sacre della 'ndrangheta non sono più intoccabili. Con quasi 400 tra sequestri e abbattimenti i bovini dei clan che infestavano la Piana di Gioia Tauro sono stati debellati. Un colpo durissimo dello Stato contro la malavita organizzata, scrive Michele Albanese su L'Espresso il 30 gennaio 2019. Risolvete il problema delle vacche “sacre” della ‘ndrangheta. Un appello che molti mesi fa echeggiò nella Piana di Gioia Tauro in provincia di Reggio Calabria e che fece il giro del mondo. Se ne occupò persino il “The Times” citando le iniziative dello Stato in Calabria. Gli appelli di cittadini, associazioni e sindaci allo Stato si moltiplicarono. La soluzione venne individuata dall’attuale Prefetto di Reggio Calabria Michele Di Bari che costituì nei primi mesi del 2017 una task force dichiarando guerra al fenomeno. Non si poteva accettare che vi fosse una zona franca per le vacche della ‘ndrangheta. Polizia, Carabinieri Forestali, veterinari dell’Asp, Polizia Provinciale avviarono una campagna a tappeto in un vastissimo territorio prima narcotizzando le vacche e poi dopo un controllo veterinario abbattendole. E oggi i bovini catturati o abbattuti sono stati centinaia, quasi 400. Gli incidenti si registravano giorno dopo giorno. Una sera una bambina di pochi anni si è salvata per puro caso solo perché qualche attimo prima la mamma l’aveva presa in braccio. Viaggiava in auto con il papà, quando l’auto ha impattato con un toro che ha sfondato lo sportello posteriore. L’avrebbe sicuramente incornata. Prima ancora altri incidenti. Tanti incidenti. Solo per puro caso non ci è scappò il morto come accadde anni fa, all’altezza del quadrivio Bombino, tra Taurianova e Polistena. Non c’è sera soprattutto lungo la strada provinciale che collega Cittanova a Taurianova che un toro o una vacca non impattava con un’auto che transitava sull’arteria. I rischi per i cittadini erano enormi ed in tanti continuavano ad invocare una soluzione e quindi un intervento autorevole dello Stato. Uno scempio senza fine, un fatto preoccupante sia per quanto riguarda l’ordine e la sicurezza pubblica che l’incolumità dei cittadini. Animali liberi di pascolare dove volevano distruggendo ciò che incontravano senza alcuna resistenza. E che si nutrivano senza alcun controllo sanitario spesso in discariche abbandonate e, che spesso venivano inserite nel circuito della macelleria clandestina. Carni senza controllo veterinario che rischiano di finire sulle tavole dei cittadini. Una vicenda tutta in salsa calabrese che trasudava di illegalità e arroganza mafiosa. Un fenomeno, quello delle vacche sacre, che si diffonde all’inizio degli anni 70 quando si sviluppò una nuova forma di pascolo abusivo che cominciò a provocare ingenti danni all’agricoltura e che fu l’origine di pericolosi incidenti stradali. Centinaia di vacche, di bovini che la gente ha prontamente battezzato “sacre” perché appartenenti alle famiglie della ‘ndrangheta della zona, e perciò intoccabili cominciarono a vagare per la montagna dall’Aspromonte fino ai grossi centri di Cittanova, Taurianova, Molochio, in cerca di cibo. All’inizio i mafiosi, lontani dal proprio ambiente perché in galera o latitanti, furono costretti a lasciare vagare il bestiame per i campi. E nessuno aveva il coraggio d’intervenire, temendo la vendetta e le rappresaglie delle famiglie mafiose. Ci furono agricoltori che, accortisi della presenza sui propri campi di animali feriti o morti in seguito ad incidenti stradali si adoperarono per rimediare ai danni e per chiedere la benevolenza e la comprensione dei mafiosi. Altri, molti a dir la verità, provarono a recintare i campi nel tentativo di arginare degli animali. Ma ciò non servì a frenare le devastazioni. Il primo intervento dello Stato arriva nel 1983, quando il Prefetto di Reggio Calabria emanò il primo decreto con il quale ha dispose la cattura e l’eventuale abbattimento degli animali vaganti. Negli anni successivi anche l’allora Procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova ordinò persino un blitz contro le «vacche sacre», gli animali che la ‘ndrangheta lasciate pascolare in libertà. Molti capi furono abbattuti, ma ciò non bastò a debellare in fenomeno. Anzi negli anni successivi il loro numero è aumentato a vista d’occhio. Qualche anno dopo ci provò il Prefetto Sammartino ma si scontrò con gli animalisti che chiesero clemenza per gli animali avviando anche una petizione popolare. Per anni nonostante le tante denunce giornalistiche, gli incidenti stradali alcuni anche con morti e feriti gravi, le vacche “mafiose” continuarono libere a scorrazzare per i campi, per le strade statali i paesi e le ferrovie. Tanto che alcune cittadine della Piana somigliano sempre più a Pamploma, con tori enormi che vagavano ad ogni ora del giorno o della notte; bovini che invadevano persino la ferrovia. Alcuni anni fa un treno delle Ferrovie Calabresi deragliò tra Cittanova e San Giorgio dopo aver investito un bovino e prima ancora un altro incidente stradale si verificò nei pressi del Cimitero di Jatrinoli a Taurianova. Così il fenomeno è stato completamente ridimensionato, ma non del tutto debellato. Lo Stato ha risposto con determinazione all’arcaicità della ‘ndrangheta e «continuerà a farlo fino a quando l’emergenza non cesserà completamente» dice il Prefetto Di Bari.

«La mafia dei pascoli voleva uccidermi, siamo riusciti a sconfiggerla», scrive Franco Insardà l'8 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Parla Giuseppe Antoci, vittima di un agguato nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2016, dal quale è uscito illeso. «Seguite i soldi e troverete la mafia», sosteneva Giovanni Falcone. Parole che invitavano le istituzioni a cambiare approccio nella lotta a Cosa nostra. È quello che in pratica ha fatto Giuseppe Antoci, quando è diventato presidente del Parco dei Nebrodi nel 2013. Dopo pochi mesi capisce che tutti quei terreni che fanno parte della più grande area protetta della Sicilia, a cavallo tra Messina, Catania ed Enna, apparentemente abbandonati, rappresentavano un vero e proprio business per la mafia. Un giro d’affari che si aggirerebbe nell’Isola in circa tre miliardi di euro potenziali negli ultimi 10 anni. Il presidente elabora un protocollo di legalità che sarà subito battezzato il “protocollo Antoci”, adottato dalla Regione siciliana a marzo del 2015 e diventata legge dello Stato a settembre 2017. L’intuizione di Giuseppe Antoci arriva dopo qualche mese dalla sua nomina e in seguito ad alcuni incontri con uno dei sindaci dei comuni appartenenti al Parco, il primo cittadino di Troina, Fabio Venezia. Ma è in base a questa stessa intuizione che Antoci finirà da subito nel mirino delle cosche interessate a quei terreni, ma soprattutto ai soldi dei contributi Ue che affluivano lecitamente nelle loro casse. “La mafia dei pascoli” (Rubettino editore) è il titolo del libro scritto da Nuccio Anselmo con Giuseppe Antoci, presentato a Roma insieme al capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli, e al Procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho. Alla serata, moderata da Andrea Montanari della Rai e voluta dalla Regione Lazio e da Rubbettino Editore, hanno partecipato anche Tina Montinaro e il figlio Giovanni. All’iniziativa hanno partecipato il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, il sottosegretario agli Interni Luigi Gaetti e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. «È stato difficile raccontare a Nuccio Anselmo un pezzo di vita, un pezzo di paure, di sentimenti, ma anche di grandi soddisfazioni – ha spiegato Antoci -. Sono stati anni importanti e la mafia questa partita l’ha persa e questo va detto e bisogna far capire che quando si fa squadra insieme, creando strumenti normativi che mettono le mani nelle tasche, le mafie reagiscono e hanno provato a fermarci ma noi abbiamo reagito a nostra volta. Ed abbiamo reagito facendo solo il nostro dovere perché questo terra non ha bisogno di eroi, di simboli, ma di gente che fa il proprio dovere». Sia il capo della Polizia che il procuratore nazionale antimafia hanno sottolineato l’importanza della figura di Antoci e il ruolo della scorta. Federico Cafiero de Raho ha ribadito l’impegno per la cattura di Matteo Messina Denaro: «Stiamo tagliando ogni giorno di più la rete e le risorse che lo coprono. Arriveremo quindi per forza a lui e credo anche che non passerà molto tempo. Perché non è stato ancora preso? Semplicemente perché gode di una copertura, ma grazie allo straordinario lavoro delle forze dell’ordine questa copertura si sta affievolendo sempre di più». Gabrielli ha spiegato che «ci sono forme criminali che hanno la capacità di non essere sotto le luci della ribalta pur essendo dirompenti», come appunto la mafia dei pascoli. Il prefetto ha poi ricordato che alcuni avevano avanzato dei dubbi sulla veridicità dell’attentato ad Antoci, ma «quando abbiamo ricostruito la scena del crimine tramite il nostro teatro virtuale, unico in Europa, è emersa una verità: ovvero che non c’era nessuna ricostruzione fatta ad arte. Niente di finto. E così si è potuto ridare credibilità a quella pagina». “La mafia dei pascoli” è soprattutto una lunga intervista che Nuccio Anselmo, giornalista della Gazzetta del Sud, ha fatto all’ex presidente del Parco dei Nebrodi, ma anche una documentata storia degli omicidi e dei processi della mafia messinese che, da cronista di giudiziaria, Anselmo segue quotidianamente. Il colloquio con Antoci, parola dopo parola, restituisce il clima, la tensione e i personaggi di una vicenda che è culminata la notte del 17 e 18 maggio 2016. Il racconto dell’agguato è drammatico. Antoci aveva incontrato il sindaco di Cesarò e il vice questore Daniele Manganaro. «Mi avviai con la scorta in macchina – dice Antoci nel colloquio con Anselmo – e partii da Cesarò verso casa». «Dopo che era passata circa una mezz’ora sentii qualcosa mentre ero assopito sul sedile posteriore; sentii solamente i ragazzi della scorta che dicevano: “Ma cosa sono queste pietre?” (le due corsie erano invase dai massi, nda.). Il tempo di finire la frase e cominciai a sentire rumori fortissimi, come violentissimi colpi di pietra contro la macchina. Quindi mi svegliai di colpo, mi resi conto che invece erano colpi d’arma da fuoco, che poi scoprii essere fucilate». Antoci continua: «La prima cosa che fece il mio capo scorta, Salvatore Santostefano, fu quella di girarsi verso di me, prendermi per la testa e letteralmente scaraventarmi sotto i sedili, e lui si mise sopra di me. A un certo punto si sentì un rumore, si sentì arrivare una macchina, tutti pensammo fosse un’altra auto che partecipava all’agguato, poi sentì ancora sparare. Gli attentatori infatti spararono anche contro Manganaro che era intanto arrivato sul posto, raggiungendoci grazie al fatto che noi con l’auto blindata andavamo più lentamente. E arrivò trovando questi con i fucili imbracciati che assaltavano la nostra auto. Fu il finimondo». Antoci chiarisce che l’obiettivo del commando era quello di «fermare l’auto perché sapevano che era blindata, volevano fermarla e poi darle fuoco, infatti sono state ritrovate alcune bottiglie molotov». L’arrivo della macchina del vicequestore Manganaro e dei suoi uomini fece saltare quel piano. «Questo è stato considerato uno degli attentati più efferati e tecnicamente meglio studiati dopo le stragi del ‘ 92, poiché non avremmo avuto scampo… non avremmo avuto scampo…», ricorda Antoci. E aggiunge ad Anselmo: «… sono stati attimi terribili… ricorderò per sempre i volti impauriti dei ragazzi della scorta, di Manganaro, quegli sguardi me li porterò dentro per tutta la vita, quelle grida… quei pianti, è una cosa che non dimenticherò più. Come non dimenticherò più il mio primo pensiero… il mio primo pensiero… la famiglia, le mie figlie…». Già la famiglia che per Antoci è stata sempre fondamentale nelle sue scelte. La figlia più grande mesi prima, quando aveva riunito la famiglia per metterla al corrente del clima difficile, gli aveva detto: «Papà non devi fermarti, lo devi fare per me, per le mie sorelle, lo devi fare per questa terra, tanto ci siamo noi con te». E lui lo ha fatto. La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 quel commando mafioso voleva fermarlo per sempre. Antoci sarebbe diventato un eroe perché, sempre citando Falcone, «questo è un Paese in cui per essere credibili bisogna morire ammazzati». Per fortuna questa volta la mafia ha fallito e Antoci è testimone della vittoria contro il malaffare. «Questa – dice – è una terra che non ha bisogno di simboli ed eroi, ha solo bisogno di normalità. Fare il proprio dovere deve essere normale».

Il misterioso “caso Antoci”. A. BOLZONI e F.TROTTA su La Repubblica il 6 dicembre 2019. Tutta la storia ha contorni ambigui se non inquietanti, le indagini affondano nel dubbio, la polemica è rovente. E' l'affaire Antoci, l'ex presidente del Parco dei Nebrodi bersaglio di un attentato intorno al quale ci sono tante incertezze che si trascinano pericolosamente da tre anni. Noi abbiamo sempre sostenuto che Giuseppe Antoci, qualunque sia stato il movente di quell'agguato avvenuto sulle montagne messinesi nella notte del 17 maggio 2016, era e rimane sempre una vittima. Ma abbiamo anche sempre pensato - sin dalle ore successive all'attenTato - che qualcuno abbia usato in qualche modo la sua azione contro gli interessi criminali della mafia dei Nebrodi per creare una sorta di diversivo, un caso mediatico per concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica su di lui (si era battuto per stilare un protocollo per l'assegnazione degli affitti dei terreni demaniali che aveva infastidito non poco le realtà mafiose della zona) e distoglierla da personaggi coinvolti in ben più robuste collusioni con la Regione Siciliana e con apparati dello Stato. Insomma, abbiamo sempre ipotizzato un collegamento fra l'attentato a Giuseppe Antoci e il verminaio Montante. Questa serie del Blog Mafie la dedichiamo alla pubblicazione della relazione della Commissione parlamentare Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava. La Commissione, ascoltati numerosi testimoni ed esaminati gli atti giudiziari, ha concluso la sua inchiesta così: «L'ipotesi sul fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile». Niente mafia, probabilmente altro. Qualcosa di più indicibile. Un paio di giorni dopo la divulgazione della relazione, il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Nicola Morra ha parlato di un «lavoro attento e certosino» svolto da Fava augurandosi l'identificazione «dei responsabili» e la scoperta «delle finalità che si erano prefissate». Vittima per Claudio Fava, vittima per Nicola Morra, vittima per tutti coloro che sanno come sono andate le cose in Sicilia negli ultimi anni, eppure Giuseppe Antoci l'ha presa male e si è dichiarato «basito dalle conclusioni dell'Antimafia». Tutto ciò che per mesi e mesi veniva solo sussurrato è diventato pubblico. E' materia molto delicata. La magistratura non ha accertato dopo tre anni di inchieste chi ha materialmente organizzato l'attentato contro l'ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci sostiene con un'enfasi davvero sorprendente che l'agguato subito «è tra i meglio studiati tecnicamente» dopo quelli dell'estate del 1992 (le stragi Falcone e Borsellino), il presidente Fava ha manifestato a sua volta la sua delusione per la reazione di Antoci «che dovrebbe essere grato a questa Commissione che cerca la verità». Resta l'interrogativo: chi ha ideato quell'attentato se non è stata la mafia dei Nebrodi? Il “caso”, al di là di quello che sarà ancora accertato dagli inquirenti, al momento si inserisce pienamente nella questione spinosa su cosa oggi è diventata l'Antimafia in Italia. Per alcuni troppo docile e troppo innocua, per altri praticamente intoccabile. Un'ultima annotazione, a margine ma non secondaria. Giuseppe Antoci per due anni ha ricoperto la carica di responsabile nazionale della Legalità del Pd e, in quella veste, non ha mai detto una sola parola sul "sistema Montante”, su quell' Anonima Ricatti che si era imposta in Sicilia e in Italia in nome dell'Antimafia. Mai una parola neanche sugli affari della Regione, sul governo Crocetta che era nelle mani di un ristretto gruppo di potere che rispondeva a Calogero Antonio Montante. Un silenzio inspiegabile (o molto spiegabile, visti i suoi legami con l'ex governatore Crocetta e con l'ex senatore Beppe Lumia) e molto imbarazzante. Sul Blog pubblicheremo ogni giorno tutte le testimonianze raccolte dalla Commissione Antimafia Siciliana e le conclusioni finali contenute nella relazione. (Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo e Valentina Nicole Savino)

L'attentato sui Nebrodi, la dinamica. La Repubblica il 7 dicembre 2019. Già a partire dalle prime ore della mattina del 18 maggio 2016, la notizia del fallito attentato perpetrato ai danni del presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi, dottor Giuseppe Antoci, e del personale della Polizia di Stato preposto alla sua sicurezza, l’assistente capo Sebastiano Proto (autista) e l’assistente capo Salvatore Santostefano (tutela), getta nello sconcerto una nazione intera. Il timore è che si possa aprire una nuova stagione di violenza mafiosa. Lo fa capire a chiare lettere la stampa che accosta l’agguato di Contrada Volpe alle stragi del biennio ’92-’93. Lo lascia intendere l’allora procuratore capo di Messina, dottor Guido Lo Forte: «Quello che emerge è che la mafia sta rialzando la testa, la '”terza mafia” della provincia di Messina quella dei Nebrodi, una delle organizzazioni criminali tra le più antiche e pericolose». Una sensazione destinata ad essere significativamente rafforzata dai dettagli dell’azione criminosa che pian piano vanno emergendo. In particolare, colpiscono le parole di un investigatore coinvolto nelle indagini, la cui identità non viene rivelata, riportate il 19 maggio 2016 dal portale web di Rai News: Un "attacco da guerriglia civile", con scene da "terrorismo mafioso", con tanto di bottiglie Molotov per incendiare auto blindata e costringere gli occupanti a scendere. Ma il “commando” non ha fatto i conti con la reazione del vicequestore Davide (rectius Daniele) Manganaro e degli altri poliziotti. Così un investigatore impegnato nelle indagini sull'agguato. Gli aggressori sarebbero "almeno tre", ma, sottolinea, è "difficile dirlo con precisione". La ricostruzione si basa sulle testimonianze delle vittime: "Hanno visto il lampo procurato da ogni esplosione, ma non le persone che hanno sparato". Per l'investigatore, la "mafia ha alzato il tiro" e un agguato del genere "non può non che essere deciso ad alti livelli". "Hanno sottovalutato - conclude l'investigatore - che la reazione dello Stato sarà più forte di prima e che adesso l'attenzione su di loro sarà altissima, fino a quando non li prenderemo". La sequenza degli accadimenti verificatisi tra la notte del 17 e del 18 maggio 2016 è ricostruita dal gip Eugenio Fiorentino nel decreto di archiviazione emesso in accoglimento della richiesta dei pubblici ministeri della D.D.A. della Procura di Messina del 3 maggio 2018. Tale ricostruzione ha rappresentato, per questa Commissione, un punto di partenza naturale e dovuto per gli approfondimenti oggetto della presente inchiesta (ne parleremo più diffusamente nel capitolo successivo). Qui ci interessa riepilogare, nella loro successione, i fatti di quella notte, così come ricostruiti nel decreto del gip: la riunione tenutasi nella sala del Comune di Cesarò, la successiva cena presso il ristorante “Mazzurco”, la seconda riunione svoltasi nella medesima casa comunale, infine l’agguato in Contrada Volpe: “Nel corso della serata del 17 maggio Giuseppe Antoci – presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi e già da tempo sottoposto a tutela a causa delle funzioni svolte – aveva partecipato ad una riunione con il sindaco di Calì Salvatore ed alcuni esponenti della giunta del Comune di Cesarò, avente ad oggetto un progetto di recupero di una struttura alberghiera ubicata all’interno del Parco dei Nebrodi, al termine della quale si era recato – su invito del sindaco ed unitamente al dirigente del Commissariato di P.S. di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro – a cena presso il ristorante denominato “Mazzurco”, sito al bivio per Troina della strada statale n. 120.  Conclusa la cena, dopo una sosta ulteriore di circa un’ora presso gli uffici del comune di Cesarò, l’Antoci e gli uomini della scorta – sempre a bordo dell’autovettura blindata Lancia Thesis – si erano avviati verso il comune di Santo Stefano di Camastra, ove il primo aveva la sua abitazione, mentre il Manganaro, unitamente al suo autista, si era intrattenuto ancora per circa 10 minuti con il sindaco Calì. (…) Intorno alle ore 1.55 circa il veicolo citato, a bordo del quale si trovava la persona offesa, giunto in Contrada Volpe, era stato costretto a rallentare bruscamente ed a fermarsi, a causa della presenza di alcuni grossi massi collocati sulla carreggiata: quasi contestualmente, esso veniva raggiunto – sulla fiancata sinistra, lato posteriore – da diversi colpi d’arma da fuoco, sparati da almeno due soggetti travisati (indossavano entrambi una giacca mimetica) che si erano appostati sul lato sinistro della carreggiata. Pochissimi istanti dopo giungeva sul luogo dell’attentato anche l’autovettura Suzuki Vitara sulla quale si trovavano il Manganaro e l’Assistente Capo Granata, i quali, resisi immediatamente conto di ciò che stava accadendo, rispondevano tempestivamente al fuoco costringendo alla fuga i malviventi (senza che alcuno rimanesse ferito).”La sequenza degli eventi è poi riassunta nelle dichiarazioni rilasciate da Giuseppe Antoci in sede di sommarie informazioni testimoniali, così come riportate nel decreto di archiviazione: «Una volta in macchina mi sono appisolato. Ad un certo momento, ho udito le voci dei due poliziotti che dicevano che vi erano delle pietre sulla strada e la macchina cominciava a rallentare. Immediatamente ho udito dei colpi molto forti alla macchina, come se fossero state delle pietre. L’agente di tutela ha cominciato ad urlare di abbassarmi e con le mani mi ha spinto verso il basso tra i sedili. Ho sentito l’arrivo di un’altra macchina che ha frenato rumorosamente e ho cominciato a sentire numerosi colpi e ho capito che stavano sparando. Credo che l’autista sia sceso subito dalla macchina e abbia cominciato a sparare. Forse scende anche l’agente di tutela. Non sono in grado di dire nulla sulla direzione degli spari né con quale arma siano stati esplosi. Ho sentito distintamente le urla del Dott. Manganaro ma credo che anche gli altri abbiano urlato, anche se sono stati momenti di forte concitazione. Poco dopo, viene aperto lo sportello posteriore destro, dal lato ove mi trovavo io e qualcuno, che riconosco subito nel Dott. Manganaro, mi tira fuori dall’autovettura, per farmi salire su un’altra vettura e per allontanarci a velocità. Ricordo che nel preciso momento in cui si è aperto lo sportello ho detto “No, no” perché pensavo che volessero sequestrarmi, ma il Dott. Manganaro si è fatto immediatamente riconoscere. Il buio era pesto, ma ricordo di aver visto una pietra di colore chiaro. Quindi ci dirigiamo, con l’altra autovettura, in circa dieci minuti presso il rifugio del Parco “Casello Muto” che attualmente è vigilato da personale del Corpo di Vigilanza del Parco. ... Non mi risulta che ci siano stati feriti tra il personale di scorta ed il Dott. Manganaro ed il suo autista. … Ricordo molti colpi di arma da fuoco ma non saprei indicarne il numero. Li ho uditi solo dopo che sono stato abbassato tra i sedili.» Il gip conclude la sua ricostruzione facendo riferimento alle risultanze investigative emerse in sede di primo sopralluogo sul luogo dell’agguato: “Si rinvenivano: sotto un muretto di contenimento posto sul lato sinistro della carreggiata, in direzione Cesarò – San Fratello, due bottiglie molotov, piene fino all’orlo di benzina; alcune cicche di sigarette che facevano ipotizzare che gli attentatori avessero atteso a lungo l’arrivo dell’autovettura; numerosissimi bossoli espulsi dalle armi in dotazione al personale di scorta e di polizia”. Queste, infine, le considerazioni riportate dal dottor Antoci nella relazione da questi depositata nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione: «… il loro obiettivo era fermare l’auto, perché sapevano bene che era blindata, volevano fermarla e poi darle fuoco, infatti sono state ritrovate alcune bottiglie molotov. Quindi volevano incendiare la macchina, una volta bloccata sparando alle ruote, obbligandoci a scendere perché all’interno dell’abitacolo sarebbero penetrati il fumo e le fiamme, e quel punto ci avrebbero giustiziati…».

Le indagini dei Pm e l'archiviazione. La Repubblica l'8 dicembre2019. Il 3 maggio 2018 i pubblici ministeri della Direzione Distrettuale Antimafia, Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Fabrizio Monaco firmano, con il visto del Procuratore Capo, Maurizio De Lucia, la richiesta di archiviazione dell’indagine. Rileggiamo le considerazioni che in quell’occasione i PM esprimono: “Prima facie, si ipotizzava un vero e proprio agguato, meticolosamente pianificato, organizzato ed attuato con tecniche di tipo "militare". Appariva indubbio come gli attentatori avessero agito non al fine di compiere un semplice atto intimidatorio e/o dimostrativo, ma al deliberato scopo di uccidere. Costoro, infatti, avevano dapprima ostruito la carreggiata con dei massi, al fine di costringere l’autovettura a rallentare l’andatura; subito dopo, avevano sparato all’indirizzo del mezzo blindato, attingendolo nella sua parte inferiore, nell’immediata vicinanza della gomma posteriore sinistra, e ciò al probabile fine di bloccare la corsa del mezzo. Al contempo, la presenza delle due bottiglie molotov induceva a ritenere come gli attentatori, una volta bloccata l’autovettura blindata, volessero incendiare quel mezzo e così costringere i suoi occupanti a scendere da esso, in modo che questi ultimi non potessero più beneficiare della protezione del veicolo blindato. I malviventi, evidentemente, erano ben consapevoli del fatto che le armi da fuoco di cui disponevano, fucili caricati a pallettoni, avrebbero potuto bloccare l’autovettura, ma non certo sfondare direttamente la blindatura del mezzo e dunque attingere il presidente Antoci. Anche il luogo e l’orario dell’agguato erano stati scelti con cura, in un momento in cui la vittima, in ore notturne, stava percorrendo una strada completamente deserta, in una sperduta località di montagna, del tutto priva di telecamere ed altri dispositivi di controllo. È di tutta evidenza come nella richiesta di archiviazione dei pubblici ministeri della D.D.A. messinese manchi un riferimento netto ed univoco al fatto che l’agguato sia stato commesso con modalità di tipo mafioso. Un atto di prudenza (emblematicamente sottolineato dall’uso non casuale dell’espressione prima facie) che, a nostro avviso, trova fondamento sia nella mancata identificazione degli autori del crimine, sia in alcuni passaggi in cui la “causale mafiosa dell’agguato” è ritenuta non acclarata bensì solo “possibile” .

In particolare, la richiesta proposta della locale Direzione Distrettuale Antimafia aveva inteso focalizzare alcuni aspetti:

La ricostruzione dell’agguato operata dai soggetti coinvolti, relativa alle dichiarazioni rese dal dottor Antoci, dal suo personale di scorta (gli assistenti capo Santostefano e Proto), dal dirigente del commissariato di P.S. di Sant’Agata di Militello, dottor Daniele Manganaro, e dal suo autista, l’assistente capo Tiziano Granata.

Le indagini tecniche sulla ricostruzione dell’agguato, esitate dalla Polizia Scientifica di Roma il 14 febbraio 2018, giusta delega della D.D.A. della Procura di Messina datata 8 giugno 2017.

Le indagini relative alla “possibile” causale mafiosa dell’agguato, nate sulla base delle dichiarazioni del dottor Antoci e del sindaco di Troina, dottor Sebastiano Venezia.

Le indagini finalizzate alla individuazione degli autori dell’attentato così strutturate:

1.) le intercettazioni disposte dall’A.G. nei confronti dei soggetti indicati in sede di s.i.t. dal sindaco Venezia e individuati dal personale del commissariato di P.S. di Sant’Agata di Militello a seguito di specifiche attività di indagine. Analogo provvedimento veniva disposto anche con riguardo alla persona del sindaco di Cesarò, Salvatore Calì. A proposito di tale iniziativa investigativa scrivono i pubblici ministeri nella richiesta di archiviazione: «Le attività di intercettazione svolte nei confronti di tutti i soggetti che, secondo l’ipotesi investigativa, avrebbero preso parte all’organizzazione e all’esecuzione dell’agguato davano esito negativo. In particolare, non emergeva alcun elemento idoneo a dimostrare un coinvolgimento loro o di altri soggetti nel fatto delittuoso in parola».

2.) gli accertamenti genetici sul DNA consistenti nella comparazione tra i campioni biologici prelevati consensualmente a tredici indagati e quelli recuperati sulla scena del crimine (i mozziconi di sigaretta). Tale attività, così come documenta la relazione tecnica della Polizia Scientifica di Palermo del 22 settembre 2017, dava tuttavia esito negativo.

3.) l’elaborazione dei dati del traffico telefonico avvenuto nella zona dell’agguato.

Le dichiarazioni del vicequestore Ceraolo circa le diverse, a suo dire, modalità con cui sarebbe avvenuto l’agguato.

Le indagini sugli esposti anonimi pervenuti alla Procura, nei quali si negava la veridicità del fatto “affermando che si trattasse di una callida simulazione, finalizzata a ragioni di tornaconto politico e professionale”.

Infine, gli accertamenti relativi alle “registrazioni” nella disponibilità di Armeli Iapiachino Salvatore e alle dichiarazioni rese da tale Mercurio Massimiliano, vicende dimostratesi, entrambe, di non particolare rilievo investigativo.

Nessuna delle sopra menzionate attività investigative, tuttavia, aveva sortito esiti positivi: motivo per cui si procedeva con la richiesta di archiviazione, accolta il 25 luglio 2018 dal gip del Tribunale di Messina, dottor Eugenio Fiorentino. Rinviando ad un successivo capitolo l’analisi delle criticità relative alle indagini nonché delle contraddizioni e delle incongruenze concernenti la ricostruzione del fatto, è utile fare alcune considerazioni di merito sul decreto di archiviazione.

La pista della “mafia dei pascoli”. La Repubblica il 9 dicembre 2019. A margine della ricostruzione del fatto, il gip, aderendo alla quasi totalità delle conclusioni formulate dai pubblici ministeri, tuttavia, diversamente da questi ultimi, utilizza inizialmente parole estremamente precise: «… appariva innegabile che tale gravissimo attentato era stato commesso con modalità tipicamente mafiose… e con la complicità di ulteriori soggetti, che si erano occupati di monitorare tutti gli spostamenti dell’Antoci e di segnalarne la partenza dal comune di Cesarò». I sassi dovevano servire a rallentare la corsa della blindata, i colpi di fucile a bloccarla definitivamente. Le molotov, infine, avrebbero dovuto incendiare il mezzo al fine di costringere gli occupanti ad abbandonarlo, divenendo, così facendo, dei bersagli mobili. Sarebbe stata un’esecuzione brutale, lascia intendere il gip, se non fosse stato per il pronto intervento del dottor Manganaro e dell’assistente capo Granata. A differenza dei pubblici ministeri, dunque, il gip è sicuro nell’individuare il modus operandi di Cosa nostra integrato dalla partecipazione al fatto delittuoso di ulteriori soggetti diversi da quelli sottoposti all’indagine. Ma chi poteva aver deliberato un simile proposito criminale? Chi aveva deciso di eliminare il dottor Antoci e la sua scorta? Il gip prova a dare una risposta: “Le descritte modalità dell’azione delittuosa inducevano a collegare tale attentato alle penetranti azioni di controllo e di repressione delle frodi comunitarie nel settore agricolo-pastorale, da tempo avviate da Antoci Giuseppe, nella citata qualità di presidente dell’Ente “Parco dei Nebrodi”, ed in ragione delle quali aveva ricevuto pesanti minacce ed intimidazioni attuate tramite missive a lui indirizzate (anche contenenti dei proiettili).” Il riferimento è al cd. “protocollo Antoci”, il cui contenuto oggi costituisce parte integrante del vigente Codice Antimafia. Il gip evidenzia un collegamento tra le modalità esecutive dell’agguato e l’attività repressiva posta in essere con l’adozione del protocollo. La pista della cosiddetta “mafia dei pascoli” veniva avvalorata, così afferma il gip, dalle dichiarazioni rilasciate nelle ore immediatamente successive all’attentato da uno dei più fidati alleati del presidente Antoci nella lotta alla repressione delle frodi comunitarie nel settore agricolo-zootecnico: il sindaco di Troina, Venezia: Costui, in primo luogo, spiegava il meccanismo che permetteva alle singole aziende agricole di beneficiare dei contributi comunitari erogati dall’AGEA, il cui presupposto essenziale era che ognuna di esse disponesse di un certo quantitativo di terreno, che solitamente chiedeva in affitto a privati o ad enti pubblici (quali i Comuni o lo stesso Ente Parco dei Nebrodi). (…) Egli poi indicava nominativamente le principali aziende che, beneficando di tale meccanismo, avevano potuto lucrare ingenti profitti. (…) Il Venezia evidenziava che – in seguito all’insediamento di una speciale commissione di inchiesta e all’adesione del suo Comune ad un protocollo di legalità predisposto da Giuseppe Antoci – aveva revocato la concessione in locazione dei terreni comunali a diverse aziende. (…) Egli aggiungeva che successivamente aveva provveduto a bandire regolari delle gare per l’affidamento in locazione dei terreni comunali, alle quali avevano partecipato anche le aziende sopra indicate: queste ultime – avendo tutto l’interesse a mantenere il possesso di quei terreni al fine di continuare a beneficiare dei contributi comunitari – avevano autocertificato di essere esenti da condizionamenti mafiosi, ottenendone l’aggiudicazione provvisoria. Il Comune di Troina aveva quindi trasmesso le autocertificazioni alla Prefettura di Messina per i relativi controlli antimafia, dai quali era tuttavia emerso che 13 delle 14 imprese in esame non erano in regola con i requisiti richiesti, e, in ragione di ciò, aveva notificato alle predette il recesso dai contratti aggiudicativi provvisoriamente. (…) Il predetto infine osservava che proprio le aziende di cui sopra erano state quelle che avevano patito gravissimi pregiudizi di natura economica a causa delle iniziative sue e del Presidente Antoci e che, per questo, esse ritenevano entrambi dei “nemici giurati” … (…) specificando di temere, proprio in ragione di ciò, per la propria incolumità (“Temo fortemente per la mia incolumità, e credo di essere il prossimo obiettivo di azioni efferate contro la mia persona. Specifico che queste aziende, a causa delle nostre iniziative, hanno perso milioni di euro per i prossimi anni”). Insomma il movente – come si potrebbe arguire dalla ricostruzione operata dal Venezia in sede di sommarie informazioni testimoniali – potrebbe essere una vendetta a fronte dei gravi danni economici subiti dalla svolta legalitaria intrapresa dal presidente Antoci e dagli amministratori del territorio. Un possibile movente che aveva trovato conferma nel contributo alle indagini offerto dal dottor Manganaro, cui il gip dedica particolare rilievo: Il Manganaro, con annotazione del 25.05.2016, riferiva che il sindaco di Cesarò Calì Salvatore gli aveva confidato di aver notato, proprio la sera del 17.5.2016 e nelle ore immediatamente precedenti l’evento delittuoso, alcune “inquietanti presenze”: in particolare, una Golf grigia, condotta da Cerro Litterio, sostare innanzi il palazzo comunale ove si era svolta la manifestazione cui avevano partecipato gli stessi Calì, Manganaro ed Antoci; poco dopo, una Smart con a bordo tale Karra Nicola, che “li attendeva all’ingresso del ristorante da Mazzurco”, dove essi erano andati a cenare una volta conclusosi il convegno svoltosi presso la casa comunale di Cesarò. (…) La presenza di tali soggetti nei luoghi sopra indicati e nelle ore immediatamente precedenti l’attentato – come se si trattasse di vere e proprie “vedette” impegnate a monitorare i movimenti di Antoci – appariva certamente sospetta, anche in considerazione del fatto che il Cerro era inserito nei contesti malavitosi locali. Dunque - è opinione del gip - la sera del 17 maggio 2016 gli spostamenti del presidente Antoci all’interno del territorio cesarese sarebbero stati tracciati da un gruppo di “vedette mafiose”: prima, nei pressi del palazzo comunale; successivamente, dinanzi l’ingresso del ristorante Mazzurco.  Atteggiamenti “fortemente equivoci”, scrive il gip, ma di per sé inidonei a dimostrare e riscontrare, soprattutto in virtù degli esiti delle attività di indagine, alcun tipo di responsabilità in capo ai soggetti indagati.

Il gip, pertanto, dispone l’archiviazione, così come richiesta di pubblici ministeri, esplicitando che: “l’avvenuta esplorazione di ogni possibile spunto investigativo, non consente di ravvisare ulteriori attività compiutamente idonee all’individuazione di alcuno degli autori dei delitti contestati”. In altre parole: nessuno spazio per altre indagini.

Agguato mafioso o non mafioso? La Repubblica il 10 dicembre 2019. Claudio Fava, presidente della Commissione parlamentare Antimafia della Regione Siciliana. Eppure, solamente qualche riga prima, il gip era stato altrettanto netto nell’affermare che, nonostante la capillare attività investigativa della Procura, non era possibile «far luce sul movente e sui responsabili dell’attentato in oggetto». Una significativa contraddizione rispetto a quanto, nello stesso decreto di archiviazione, il gip sostiene in merito alle “modalità tipicamente mafiose” dell’agguato. Insomma, resta irrisolta nell’archiviazione del gip la domanda fondamentale: movente certo o no? Agguato mafioso o no? Ecco qual è stata l’opinione fornitaci dal dottor Angelo Cavallo, all’epoca dei fatti sostituto procuratore presso la D.D.A di Messina:

PROCURATORE CAVALLO: La nostra è stata un’archiviazione molto cauta. Il gip, ovviamente, per forza di cosa essendo giudice terzo diventa ancora più cauto e parla ancora di meno quando non può parlare sulla base di elementi oggettivi e di prove. Il movente secondo me, ripeto, è quello che ho detto prima. Antoci, obiettivamente, aveva compiuto un’attività che aveva creato danni veramente seri a certi soggetti. Lo saprete benissimo la storia delle interdittive antimafia, aveva fatto perdere, proprio a queste persone che poi furono intercettate e che si lamentavano dell’operato di Antoci dicendo: “questo pezzo di…” centinaia di migliaia di euro. Quindi il movente secondo me è che qualcuno probabilmente infastidito, di quell’area, da questa iperattività di Antoci lo abbia sottoposto a questo attentato. Non so e non sono in grado di dirlo, certamente, se fu un attentato pianificato da massimi vertici della mafia, questo mi guardo bene da dirlo. Però, devo dire un’altra cosa. Un’altra delle tante obiezioni che ci siamo posti è “ma scusate, se la mafia ha fatto questo attentato è così cretina da fare un attentato in modo che poi si accendano i riflettori su questa vicenda, come poi è stato fatto?”.

FAVA, Presidente della Commissione: Potremmo aggiungere: una settimana prima che il TAR si pronunci sui ricorsi che furono presentati…

PROCURATORE CAVALLO: …che furono rigettati, quindi questi soggetti i soldi li persero per davvero. Perciò io, ma è una mia personalissima opinione, io sono propenso a ritenere che attentato ci fu. Fu un attentato programmato così a livello di, come dire, di ritorsione da parte di alcuni soggetti dell’area che avevano subito dei danni. Questo attentato poi in un certo senso… forse determinate famiglie mafiose lo ebbero a subire… capirono bene che non aveva alcun senso reagire neanche nel senso di punire, come a volte si legge nei libri di mafia, chi compie queste azioni senza il preventivo consenso, semplicemente perché subito dopo si è messa in moto una macchina del fango molto efficace mi riferisco agli esposti anonimi, mi riferisco agli articoli di giornale. (…) Quindi la mafia, semmai si è posta il problema di cosa fare a questi soggetti, ha ben capito che alla luce di quello che stava uscendo non c’era più bisogno di fare nulla. Cioè non c’era bisogno di punire qualche soggetto che magari aveva voluto fare queste azioni un po’ estemporanee senza chiedere il consenso…

FAVA, Presidente della Commissione: Però se davvero fosse stata questa, immaginiamo, la ricostruzione: altri attentatori che per far ricadere la colpa o per mandare un messaggio alle famiglie più coinvolte della zona organizzano questa cosa… però c’erano anche le bottiglie molotov, cioè si dava la sensazione che quell’attentato volesse arrivare a compimento…

PROCURATORE CAVALLO: … mi sono sempre chiesto quelle bottiglie molotov se non fosse arrivata la Suzuki Vitara le avrebbero veramente usate o erano solo lì come le cicche? Cioè per dire “vedi stai attento noi ti abbiamo sparato…” non con una doppietta, come scriveva l’anonimo, con un semi-automatico “… ti abbiamo sparato con un fucile che, ovviamente, non penetra la blindatura; ti volevamo fermare la macchina, ti volevamo lanciare le molotov per costringerti ad uscire”. Questo era chiaro il messaggio… però io mi sono sempre chiesto queste bottiglie poi le avrebbero veramente lanciate? Non sono così sicuro. Secondo me bastava quell’attentato così come era stato fatto.

Secondo il dottor Cavallo, dunque, l’attentato poteva andar bene a chi lo aveva ordito così come si era concluso: solo un atto dimostrativo. Resta il fatto, non irrilevante, che di questa riflessione condivisa dal procuratore Cavallo con la Commissione non vi è alcuna traccia nella richiesta di archiviazione presentata dalla D.D.A. di Messina (e il PM Cavallo fu uno dei firmatari) al gip.

Troppi dubbi, troppi misteri. La Repubblica l'11 dicembre 2019. Il 7 maggio 2019 un lungo articolo a firma di Mario Barresi sul quotidiano La Sicilia ricostruisce la vicenda giudiziaria relativa all’attentato ad Antoci. Perentorio il richiamo in prima pagina: “L'attentato ad Antoci? Caso ancora aperto tra vecchi misteri e nuove piste. L’archiviazione dei 14 mafiosi, le intercettazioni, il dna nelle cicche di sigarette, il file audio e il falso pentito: zero riscontri. Poliziotti contro, le due versioni”. L’articolo riepiloga, puntualmente, gli elementi di dubbio che sarebbero emersi nel corso delle indagini: “Non sono stati i mafiosi. O meglio: ‘quei’ presunti mafiosi dei Nebrodi. Con il tentato attentato a Giuseppe Antoci non c’entra alcuno dei 14 indagati, tutti archiviati dal gip di Messina. «L’avvenuta esplorazione di ogni possibile spunto investigativo», scrive il giudice Eugenio Fiorentino, «non consente di ravvisare ulteriori attività compiutamente idonee all’individuazione di alcuno degli autori dei delitti contestati». E questa, carte alla mano, è l’unica certezza giudiziaria su ciò che accadde, nella notte fra il 17 e il 18 maggio del 2016, sui tornanti della strada statale 289 fra San Fratello e Cesarò: la Lancia “Thesis” blindata su cui viaggiavano l’ex presidente del Parco dei Nebrodi e due uomini della sua scorta, fu bloccata con delle pietre sulla carreggiata e poi attinta da «tre colpi in calibro 12 a palla unica verosimilmente del tipo Cervo o Brenneke», come dice la Scientifica di Roma. Dopo due anni di indagini (intercettazioni a tappeto, acquisizione di migliaia di tabulati telefonici, ricostruzioni balistiche hi-tech, consultazioni di fonti confidenziali fra le cosche dei Nerbrodi, prelievi di dna), la Dda di Messina s’è dovuta arrendere.” Il giorno dopo, in un’intervista ad una emittente locale nel corso di una sua visita a Messina, il presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra annuncia l’intenzione di aprire un’indagine sulla vicenda e al tempo stesso fa sue le domande ancora senza risposta sulla vicenda Antoci. “Sappiamo tutti che su quegli atti giudiziari c’è ancora tanto da lavorare… È un caso complesso, definito come il peggior attentato dopo le stragi del 1992-93 eppure tutto è stato archiviato. Chi sono stati i mandanti? Chi sono stati gli esecutori? L’archiviazione che ho studiato pone interrogativi che credo debbano avere delle risposte”. Fin dall’inizio, per la verità, non erano stati pochi i media che avevano raccolto e rilanciato le perplessità affiorate su questo attentato, sull’effettiva dinamica, sul movente, sui mandanti o perfino sul fatto che l’episodio ci sia mai stato. “L’agguato dei Nebrodi non ha ancora un colpevole. E dalle intercettazioni si scopre che lo cercano anche le cosche”, titola il 19 marzo 2017 un articolo di Francesco Viviano sull’Espresso. Quello che segue è, nei passaggi più significativi, il suo articolo. “L’inchiesta si rivela subito difficile per le forze dell’ordine che sguinzagliano in tutte le direzioni i loro informatori. Ma da questi, a distanza di tanti mesi e nonostante il grande sforzo investigativo riversato sul territorio, non hanno avuto neanche una piccola traccia, un’ipotesi, un sospetto. Niente di niente. Neanche gli esami del dna dal sangue rilevato nel luogo dell’attentato, e che si presume possa appartenere a uno degli assalitori, hanno permesso di risalire all’identità di chi ha sparato e quindi al movente. (…) Oltre ai poliziotti e ai carabinieri, alla ricerca degli autori dell’agguato a quanto pare si siano messi pure i boss mafiosi dei clan messinesi e di quelli che agiscono sul territorio dei Nebrodi. (…) Qualche giorno dopo l’agguato al presidente del parco dei Nebrodi i boss, parlando tra di loro, si chiedono insistentemente «cu fu» (chi è stato?). Da una cosca all’altra la domanda è sempre la stessa, ma anche la risposta: «Noi non siamo stati». «Potrebbero essere stati i catanesi?» chiede un intercettato al suo interlocutore, che risponde: «Ce l’avrebbero detto, quantomeno ci avrebbero avvertiti per evitarci ulteriori guai». Insomma, gli storici clan dei Bontempo-Scavo e le altre famiglie che in questi mesi hanno avuto tra le loro file decine di arresti non si danno pace. Anche loro brancolano nel buio e, se avessero avuto notizie, avrebbero fatto giustizia a modo loro oppure, come spesso la storia della mafia insegna, avrebbero segnalato in maniera anonima agli investigatori gli autori dell’attentato per allentare la pressione nei loro confronti. L’unica segnalazione anonima che è arrivata fino ad ora è invece quella inviata a tre procure, Messina, Patti e Termini Imerese, al Ministero dell’Interno, al capo della Polizia e all’autorità Anticorruzione. (…) La denuncia anonima adesso è al vaglio delle tre procure siciliane: vi si trovano accuse anche nei confronti di Manganaro. Secondo l’anonimo il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello sarebbe anche “vicino” a esponenti politici del Pd e ad alcuni personaggi dell’Antimafia come il senatore Giuseppe Lumia, eletto nella lista “il megafono” di Rosario Crocetta.”

Il 23 marzo 2017 l’articolo sul settimanale siciliano Centonove a firma di Enzo Basso riprende e rilancia (fin dal titolo: “Chi è… Stato?”) i dubbi sull’attentato. “Chi è stato?” chiedono i boss al telefono dopo l’attentato del diciotto maggio scorso al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci. Ma ancora, dieci mesi dopo le modalità dell’agguato notturno alle due di notte tra Cesarò e San Fratello, in contrada Muto, sulle quali indagano in tandem le direzioni investigative antimafia di Messina e Catania, restano avvolte in un mistero. Una scena quasi cinematografica: un gruppo di aggressori che sparano nella notte, vengono raggiunti all’improvviso dai provvidenziali colpi di pistola del vicequestore Daniele Manganaro e scappano nell’oscurità del bosco, lasciando ai bordi della strada due bottiglie molotov. Tecniche di un agguato, che non trova eguali nella letteratura criminale e che stupisce gli stessi boss, legati ai clan della macellazione: “Chi è stato?” Nulla rispetto al documento di fitte sei pagine, svelato dal giornalista Franco Viviano su “L’Espresso”, dove si parla anche di uno esplosivo scritto inviato mesi fa alla Procura di Patti, a quella di Termini Imerese e a quella di Messina, oltre che al Viminale, e al Capo della polizia in cui si raccontano fatti inquietanti che portano l’anonimo estensore a chiedere: “Chi è lo Stato?”: il gruppo di potere del governatore Crocetta e del senatore Lumia, insieme a un manipolo di poliziotti, stretto attorno ad Antoci, oppure è lo Stato che tollera degenerazioni di potere? Per supportare queste tesi, l’anonimo mostra di essere addentro alle cose della polizia: “i proiettili spediti da Palermo sono calibro 9 per 9, Luger, in esclusiva dotazione alle forze di polizia dotate di armi parabellum , per chi si esercita nei poligoni di tiro Uits”. Infine, il 29 aprile 2019 la trasmissione Report, in un lungo servizio di Paolo Mondani sul caso Montante, dedica alcuni passaggi particolarmente significativi sulla vicenda Antoci: anche in questo caso riprendendo e rilanciando il dubbio che di un autentico attentato si sia trattato.

Mondani: “Inchieste che si sono fermate”. La Repubblica il 12 dicembre 2019. Paolo Mondani, giornalista di Report.

MONDANI: Abbiamo approfondito il tema del protocollo Antoci, e l’attentato del 18 maggio in particolare, perché ci sembrava inizialmente assolutamente paradossale che, all’indomani dell’attentato, si definisse quell’attentato come il più importante attentato seguito alle stragi di mafia ben note, mentre l’indagine sull’attentato era stata archiviata al tribunale di Messina, un’indagine durata due anni che non ha portato ad individuare né mandanti né esecutori. È molto significativo il fatto che la decina di fonti con le quali ho potuto parlare era in sostanza convinta che la dinamica dell’attentato fosse diversa da come è stata rappresentata dai poliziotti che ne sono stati protagonisti.

FAVA, Presidente della Commissione: Su quali punti?

MONDANI: Ho intervistato il dottor Ceraolo ma ho sentito molti altri… Un punto lo abbiamo notato subito: tra i testimoni dell’attentato risulta l’allora commissario Manganaro che è contemporaneamente lo stesso cui sono state affidate le indagini. Opportuno? Non opportuno? Io ritengo che non sia opportuno, ma, insomma, è andata così… Complessivamente l’indagine parte e continua per molto tempo sulla base della testimonianza del vice questore Manganaro. Gli altri poliziotti presenti quella notte vengono sentiti il solo nel  maggio 2017, cioè ad un anno dall’attentato. (…) Perché la mafia prepara tre molotov, mai usate in precedenza, a mio ricordo, dalla mafia? Perché lasciano i mozziconi di sigaretta ma non c’è un DNA compatibile? Perché hanno cura di non lasciare impronte sulle bottiglie molotov mentre lasciano i mozziconi? Raccolgono i tre bossoli di fucile sparati contro la blindata. Io mi chiedo: quando avrebbero avuto il tempo di raccoglierli siccome, dice Manganaro, lui arriva contemporaneamente agli spari? Non voglio ovviamente rivelare le fonti ma, senza mezzi termini, i carabinieri non sembrano affatto convinti che siano andate così le cose, esattamente come i poliziotti che ho incontrato… I poliziotti si sono molto concentrati sul trasbordo, sull’uso che si è fatto della blindata, sul fatto che i poliziotti che avevano in carico la difesa, diciamo così, la vita del Presidente Antoci non si siano comportati come i protocolli prevedono e i protocolli sarebbero stati radicalmente trasgrediti da quei comportamenti. Mentre, per la parte che riguarda i carabinieri, ho riscontrato vere e proprie convinzioni che non fosse andata com’è stata ricostruita. (…) Altro fatto strano: nel dicembre 2014 una lettera viene recapitata (ad Antoci) negli uffici del Parco dei Nebrodi, “finirai scannato tu e Crocetta”, il testo scritto con lettere di giornale ritagliate ed incollate. Ho chiesto a degli investigatori: ma è mai successo che la mafia facesse delle lettere anonime con lettere ritagliate incollate? (…) Il Presidente Antoci mi parla di mascariatori. Io ho replicato che il fango cresce quando le domande rimangono senza risposta: chi ha ordinato la strage veramente? Chi l’ha realizzata? E perché per un fatto di questa gravità le indagini si sono curiosamente fermate o non si sono fermate ma non ne sappiamo niente?”.

Basso: “Tutto molto cinematografico”. La Repubblica il 13 dicembre 2019. Enzo Basso, direttore ed editore del settimanale Centonove:

BASSO: Ogni giornalista all’interno di alcune strutture ha le sue fonti. I veterinari, per quel tipo di mondo, sono le antenne sul territorio… ho parlato con più soggetti: non c’è nessuno in quella zona che si aspettasse una cosa del genere… Perché mi sono incuriosito? Perché nel momento in cui mi ha chiamato, il collega Viviano mi ha detto: «Sai, i soggetti che sono indagati, loro stessi si chiedevano “chi è stato?”» di qui il famoso titolo di Centonove. Le fonti istituzionali che sono state da noi sentite erano, come dire, molto in linea con la versione che è stata data. Fuori verbale, tutti in qualche modo ponevano dei quesiti e c’era molta perplessità. Questa cosa l’ho avvertita per mesi e mesi… Ricordo che un giorno mi chiamò l’attuale assessore regionale Bernardette Grasso perché voleva sapere se io avevo intenzione di scrivere un articolo su una battuta infelice da parte del governatore Musumeci, allora presidente della Commissione antimafia dell’Ars, che aveva detto: “Poi tutti questi attentati, tutti sappiamo come vanno…”. Era quello che più di venti sindaci avevano in qualche modo riferito sommessamente a Musumeci su quelle che erano le perplessità che su quel territorio … Musumeci andò, credo, a Sant’Agata e in presenza di molti sindaci, nel momento in cui parlò di questi attentati che destavano qualche perplessità, è scoppiato un lungo applauso. (…)

BASSO: Nella mia attività di giornalista mi arrivavano… echi di fortissimi scontri dentro il commissariato di Sant’Agata di Militello e una sorta di scontro anche politico perché questo commissariato si era trasformato in una sezione staccata del PD. (…)

BASSO: Io non ho nessuna intenzione di screditare Antoci. Se posso dire una mia personalissima ipotesi sono convinto che Antoci sia totalmente in buona fede. È un meccanismo altro che ha pensato probabilmente tutto questo… Il rapporto è tra Montante e Lumia. Antoci è una pedina.

FAVA, Presidente della Commissione: Di chi in questo caso?

BASSO: Certamente di Lumia. Questa è una mia idea. Loro stavano facendo un investimento su Antoci… ben strutturato. Di solito si tende a creare una storia, si crea una bellissima storia e poi la si butta sul mercato. Io spero che sia vero l’attentato, che sia opera di manigoldi, ma così come strutturato tende a lasciare sempre un alone di inquietudine... queste figure che spariscono nel bosco di notte, un funzionario di polizia che volontariamente, senza essere in servizio, parte per andare a Cesarò… c’è qualche cosa che ha a che fare con la cinematografia… Se queste cose si dovesse scoprire che siano state decise a tavolino, credo sarebbe un fatto di una gravita assoluta…”.

Barresi: “C'era un'indagine sull'indagine..” La Repubblica il 14 gennaio 2019.

BARRESI: Io comincio a occuparmi di questa vicenda quasi nell’immediatezza dei fatti andando direttamente sui luoghi, tra Sant’Agata di Militello e Cesarò, per verificare delle voci che quasi diciamo all’indomani del fatto si erano cominciate a diffondere.

FAVA, Presidente della Commissione: Queste voci erano interne o esterne ad ambiti istituzionali o in entrambe le direzioni?

BARRESI: Raccolsi degli elementi da fonti investigative… che non erano direttamente impegnate nell’indagine ma che comunque erano a conoscenza di particolari importanti sull’indagine… mi resi conto che c’era una sorta di indagine sull’indagine, cioè mentre si cercava di ricostruire la dinamica del tentativo di attentato c’era comunque un tentativo di verificare se c’era una chiave di lettura alternativa rispetto a quella prevalente nell’immediatezza dei fatti (…) C’erano due tesi investigative nettamente contrapposte rispetto alla ricostruzione di quei fatti. (…) Ricevetti una garbata richiesta di evitare di diffondere questo tipo di informazione perché eravamo nei giorni più importanti e più delicati  e quindi mi bloccai in attesa del corso ufficiale delle indagini che però poi è arrivato parecchio tempo dopo. (…)

L’articolo del 7 maggio 2019 raccoglie una memoria storica di alcuni elementi che, già nella primavera del 2016, avevo acquisito… mi sono limitato semplicemente a raccontare lo stato dell’arte dell’inchiesta non per addizione ma per sottrazione, cioè cercando di capire tutti i segni meno che c’erano nell’inchiesta cioè perché non si era approfondito un aspetto, perché non si era seguita un’altra pista... L’anomalia, se così vogliamo chiamarla, è che per quasi un anno le indagini vengono condotte da un poliziotto (Manganaro ndr) che in quell’episodio era testimone”.

Viviano: “Mi hanno detto che era fasullo”. La Repubblica il 15 dicembre 2019. La Commissione ha ritenuto di ascoltare gli autori degli articoli e dell’inchiesta della Rai per contestualizzare (nel rispetto del segreto professionale) le fonti delle loro informazioni e per approfondire quant’altro potesse risultare d’ausilio per la nostra indagine.

Francesco Viviano, del gruppo Repubblica-L’Espresso:

VIVIANO: Ho parlato con alcune fonti, autorevoli, non solo in Sicilia, che mi hanno detto, insomma, che c’erano molti dubbi, molte riserve sulla dinamica, su tutto quanto era accaduto quel giorno… fonti siciliane e fonti romane… fonti autorevoli che mi dicono che è tutto fasullo. Non una: diverse fonti, di cui mi fido, non ho nessun motivo di dubitarne.

FAVA, Presidente della Commissione: Queste sue fonti hanno anche offerto una motivazione per questa presunta messinscena?

VIVIANO: Mi hanno dato degli spunti… Era stato organizzato per, come dire, ingigantire il fronte antimafia e quindi i personaggi, tra virgolette, antimafia. (…) Qualcuno ha minacciato querele, denunce… Pubblicamente, addirittura, hanno detto che il pezzo in questione era stato tolto dal sito dell’Espresso proprio perché era diffamatorio e anche Antoci andava dicendo questo: che lui l’aveva fatto togliere… (in realtà l’articolo è tuttora on-line sul sito web dell’Espresso, ndr.) Comunque non mi ha querelato nessuno, né Manganaro né Antoci. (…) Vi posso dire una cosa: il commissario Manganaro non è stato promosso… uno come lui che ha sventato un attentato, che ha salvato la vita ad Antoci, che ha sparato agli attentatori dovrebbe esser quantomeno promosso, invece… So perfettamente… che all’interno del commissariato di Sant’Agata di Militello… c’era un casino vero e proprio, c’erano delle vere e proprie bande tra di loro, tra loro poliziotti”.

Anselmo: “Diffondevano voci vergognose...”. La Repubblica il 16 dicembre 2019. Infine, la relazione che il dottor Antoci ha depositato presso questa Commissione chiama in causa un altro giornalista, il dottor Nuccio Anselmo della Gazzetta del Sud di Messina (autore, fra l’altro, di un libro-intervista su Giuseppe Antoci). Scrive Antoci, a proposito degli anonimi circolati sulla vicenda e del vicequestore Ceraolo, uno dei funzionari di polizia che ha testimoniato sui fatti: “Il Ceraolo risulta essere quella stessa persona che, guarda caso, con in mano alcuni esposti anonimi chiedeva, per esempio al giornalista della Gazzetta del Sud Nuccio Anselmo, di pubblicare dubbi su quanto accaduto.” Sull’episodio, la Commissione ha ritenuto di dover ascoltare sia il giornalista Anselmo che il dirigente di polizia Ceraolo, oggi in pensione (della cui audizione daremo conto più diffusamente nei capitoli successivi).

ANSELMO: Ma guardi, io conosco il dottor Ceraolo ovviamente da molti anni per ragioni di lavoro… credo dagli anni ’80 da quando ho incominciato a fare il mestiere di cronista. Lui da subito, avendo un rapporto con me, ha cominciato a manifestare dei dubbi sull’attentato con la mia persona… E quindi più volte in alcuni incontri avuti anche al palazzo di giustizia ripeteva sempre questo concetto.

FAVA, Presidente della Commissione: Erano incontri causali?

ANSELMO: Erano incontri casuali perché io giornalmente frequento il palazzo di giustizia per ragioni di lavoro e lui ovviamente spesso veniva per consegnare informative…. Erano incontri sempre o nell’atrio o nella piazza, ma mai concordati…

FAVA, Presidente della Commissione: In che modo le proponeva dei dubbi su questo attentato?

ANSELMO: Lui aveva una prospettazione che voleva portarmi ad avere dei dubbi sulla veridicità dell’attentato legati soprattutto alla dinamica… perché… parlava sempre del fronte del fuoco, del modo di agire dei killer e dei colpi alla ruota sinistra dell’auto… Comunque la mia posizione era molto netta, cioè io non ho mai dato credito a queste voci vergognose che lui diffondeva.

FAVA, Presidente della Commissione: Quali sarebbero le voci vergognose?

ANSELMO: Le voci vergognose sono anche tutti gli esposti anonimi che sono arrivati in varie procure…

FAVA, Presidente della Commissione: Ma perché, il dottore Ceraolo le ha prodotto copie di questi anonimi?

ANSELMO: No! Il dottor Ceraolo mi ha fatto vedere, credo ora di ricordare, un’intercettazione e da lì lui evinceva che si trattava tutta di una montatura…

FAVA, Presidente della Commissione: Probabilmente di soggetti indagati (l’intercettazione, ndr)?

ANSELMO: Di soggetti indagati che dialogavano…

FAVA, Presidente della Commissione: Perché nella relazione del dottor Antoci si dice che “il Ceraolo con in mano alcuni esposti anonimi chiedeva a Nuccio Anselmo di pubblicare dubbi”.

ANSELMO: Il nocciolo della questione è lo stesso.

FAVA, Presidente della Commissione: Ma con in mano esposti anonimi?

ANSELMO: Probabilmente sì, perché spesso aveva delle carte in mano. Presumo che fossero degli esposti anonimi…

FAVA, Presidente della Commissione: Un attimo fa ci ha detto che non le ha dato mai degli esposti anonimi…

ANSELMO: No, no a me non ha mai consegnato esposti anonimi, attenzione… Però me ne ha parlato nel senso che mi ha detto più volte che erano arrivati degli esposti anonimi che mettevano in dubbio tutta l’attività che era stata fatta…

FAVA, Presidente della Commissione: Fino ad ora ci ha detto che ha parlato solo di dettagli nella ricostruzione nell’agguato.

ANSELMO: Sì… ma mi ha parlato anche di esposti anonimi che erano arrivati in più procure…

FAVA, Presidente della Commissione: Quando il dottor Ceraolo le avrebbe parlato di questi anonimi, lei ne era già a conoscenza o lo ha appreso soltanto in quel momento?

ANSELMO: No, no ero a conoscenza…

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi lei non apprese dell’esistenza di questi anonimi da Ceraolo?

ANSELMO: No, assolutamente, se no finirei di fare il cronista.

Questa invece la ricostruzione offerta da Ceraolo:

FAVA, Presidente della Commissione: Ci può ricostruire questo suo incontro col giornalista Anselmo?

AVV. CERAOLO: Anselmo io lo conosco per aspetti di polizia giudiziaria, perché si occupa di polizia giudiziaria nella provincia di Messina… soprattutto di mafia… quindi ho avuto modo di vederlo in relazione alle indagini da me dirette sul territorio contro la mafia, ma non ho avuto conversazioni attinenti anonimi in relazione ad Antoci o, comunque, non ho parlato con lui di notizie da pubblicare o per stimolarlo a pubblicare notizie su questo argomento.

FAVA, Presidente della Commissione: Si ricorda l’incontro a cui allude nella sua memoria Antoci, anche se lei dice: “non parlammo né di anonimi”?

AVV. CERAOLO: Non posso ricordarmi di un incontro che è non mai avvenuto con quelle modalità.

FAVA, Presidente della Commissione: …con altre modalità, se lei si ricorda…

AVV. CERAOLO: Io ricordo un unico incontro con Anselmo, a proposito dell’attentato subito dal dottor Antoci, nei corridoi della Direzione Distrettuale   di Messina, mi pare nel mese di maggio del 2017… Anselmo mi chiese se io fossi a conoscenza dei nomi dei 14 indagati…. eravamo davanti l’ufficio del dottore Di Giorgio ed ho incrociato Nuccio Anselmo…

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi un incontro causale?

AVV. CERAOLO: Del tutto occasionale, come accadeva di solito: non abbiamo mai avuto degli incontri organizzati. Ricordo che la Gazzetta del Sud in un articolo a firma di Nuccio Anselmo, il 18 maggio 2017, in occasione dell’anniversario dell’attentato ad Antoci, pubblicò delle notizie… che vi erano 14 indagati… Successivamente a questa data, lo incontrai nei corridoi e mi chiese, in maniera abbastanza diretta, cosa che mi sorprese perché non era sua abitudine, se io fossi a conoscenza dei nomi degli indagati. Io ovviamente risposi che non ero a conoscenza ma in ogni caso anche se fossi stato a conoscenza non l’avrei detto al giornalista. Notizia che, comunque, lui poi pubblicò nel mese di giugno con i nomi dei 14 indagati…

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi lei esclude di avere parlato con Anselmo in quella o in altra occasione degli anonimi che circolavano…

AVV. CERAOLO: lo escludo nel modo più assoluto.

Sul punto in questione così risponde invece Nuccio Anselmo.

FAVA, Presidente della Commissione: Dottor Anselmo, il dottor Ceraolo ci dice… di un incontro con lei a proposito dell’attentato subito dal dottor Antoci nei corridoi della D.D.A di Messina nel maggio 2017 e lei gli chiese se lui fosse a conoscenza dei nomi dei 14 indagati. Lei si ricorda questo episodio?

ANSELMO: Francamente no, probabilmente sì ma non lo ricordo...

La riunione a Cesarò prima dell'agguato. La Repubblica il 17 dicembre 2019. La riunione di Cesarò è così riassunta dal dottor Antoci nella relazione informativa depositata nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione: «Ero andato a Cesarò per comunicare, in un incontro pubblico organizzato dal Sindaco, una bella notizia alla quale le persone tenevano molto. Prima di arrivare a Cesarò c’è un immobile in costruzione, si chiama Chisar, con un progetto del Parco che è fermo da quindici anni… In pratica era un posto che rappresentava per quel territorio il solito segnale: “le cose fatte sempre a metà”. Quel territorio, invece, come dicevo, ci teneva tanto al Chisar, questi giovani ci credevano tanto. Quindi nell’azione di coordinamento per la parte dei Nebrodi, nel progetto governativo del Masterplan che ho personalmente curato come Ente, chiesi ai sindaci di inserire nei finanziamenti e nei progetti oltre alle altre operazioni che insieme avevamo deciso e scelto per il territorio, anche il progetto del Chisar… E così riuscimmo ad ottenere con il Masterplan della Città Metropolitana di Messina un finanziamento di due milioni e mezzo di euro per finirlo. Quindi io ero andato lì felicissimo, a fare questo incontro con i giovani…». Anche il vicequestore aggiunto Manganaro partecipa alla riunione (sia pure arrivando quasi al termine) ed alla cena successiva assieme al sindaco di Cesarò, Calì, e a Giuseppe Antoci.

MANGANARO: Quella sera (a Cesarò, ndr) c’era la presentazione di un masterplan… Ricordo che qualche giorno prima mi aveva avvisato il sindaco (per chiedermi) se volevo fare un salto per partecipare…

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi l’aveva invitata il sindaco Calì?

MANGANARO: Sì, il sindaco Calì mi teneva aggiornato. Sì, mi aveva detto di fare un passaggio, di farmi vedere, di andare, che era un momento importante.

Diverso il ricordo del sindaco Calì, così com’è stato riportato in Commissione:

FAVA, Presidente della Commissione. Come mai era stato invitato? Anzi diciamo da chi era stato invitato? Da lei o dal dottor Antoci?

CALÌ: Penso che alla riunione quanto meno da me non era stato invitato perché si parlava di politica non si parlava di sicurezza, ovviamente.

Una iniziativa autonoma del Manganaro, anche secondo il dottor Antoci:

ANTOCI: Nel contempo il Dirigente del Commissariato di Sant’Agata, il dott. Manganaro, sapendo che io ero andato a fare questo convengo, visto che doveva andare lì per fatti legati al suo ufficio, decise di venire anche lui…

Invitato? Aggregato casualmente alla cena? I ricordi divergono. In ogni caso, da ciò che riferiscono Antoci e il questore pro tempore di Messina, la presenza di Manganaro alle iniziative pubbliche a cui partecipava il presidente del parco dei Nebrodi era una consuetudine:

ANTOCI: Io so, per detta anche del questore, che quando andavo in posti un po’ delicati, il questore diceva sempre a Manganaro “dagli un occhio ad Antoci…”. (…)

MANGANARO: Ogni movimento che facevo avvisavo il mio questore, quindi facevo servizio straordinario. Quindi il mio ordine di servizio era un servizio regolare, mi hanno anche pagato… Il questore, tra l’altro, era legato da un rapporto molto forte di amicizia con il presidente Antoci… Ogni cosa che facevo notiziavo il mio questore e il mio questore mi dava disposizione in merito.

Una cena carica di tensione. La Repubblica il 18 dicembre 2019. Secondo quanto riporta la richiesta di archiviazione, dopo l’incontro al comune, il sindaco Calì invita il presidente Antoci e il vicequestore aggiunto Manganaro a cena al ristorante-pizzeria Mazzurco, all’uscita di Cesarò. “All’interno del predetto locale – scrivono nella loro richiesta i PM (vd pag. 30 e ss.) – si aveva modo di riscontrare come il sindaco Calì Salvatore, verosimilmente dopo essersi recato alla toilette, si soffermava per qualche minuto a salutare quattro avventori del locale seduti attorno ad un tavolo. I predetti successivamente venivano identificati per Destro Pastizzaro Daniele, Destro Pastizzaro Sebastiano, Fabio Carmelo e Calà Campana Giuseppe” (braccianti agricoli con pregiudizi penali per reati comuni: lesioni, rissa, ubriachezza, attività illecita di raccolta di veicoli fuori uso, porto di oggetti atti ad offendere, etc.)”. Altra circostanza evidenziata dai magistrati messinesi è quella relativa ai due giovani che si avvicinano al tavolo di Antoci, Manganaro e Calì, identificati dallo stesso sindaco nelle persone di Giuseppe Calà Campana (uno dei quattro che aveva già salutato il sindaco Calì) e Sebastiano Foti, inteso “Biscotto”. L’incontro tra il sindaco Calì e i quattro braccianti agricoli nonché la circostanza dell’avvicinamento al tavolo da parte dell’altro soggetto di cui sopra rappresentano il primo motivo di tensione, così almeno come viene riportato agli atti e in Commissione Antimafia dai partecipanti alla cena. Le versioni però divergono sensibilmente sul significato da dare all’episodio. Così il dottor Antoci:

FAVA, Presidente della Commissione. Durante la cena il sindaco le ha manifestato delle preoccupazioni per il fatto che ci fossero certe presenze all’interno del ristorante?

ANTOCI: Il sindaco ci ha solo detto, quando sono venuti a salutare tre ragazzi al tavolo, che questa cosa non gli era piaciuta…

Così, invece, il dottor Manganaro:

MANGANARO: Durante la cena no, non mi arriva nulla se non che ci vengono a salutare delle persone al tavolo…

Nessuna preoccupazione nemmeno nella ricostruzione che il sindaco Calì fornisce alla Commissione:

FAVA, Presidente della Commissione. Lei, dopo essere andato in bagno, si è soffermato qualche minuto a salutare quattro persone che erano nel locale che poi, identificate, fanno parte diciamo di quel circuito (malavitoso)...

CALÌ: Più di qualche minuto da quello che penso io, forse ho bevuto anche qualche bicchiere di birra assieme. Non mi ricordo.

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi non dava la sensazione di essere preoccupato.

CALÌ: Presidente, io nemmeno lo stesso giorno che mi hanno bruciato la macchina mi sono mai preoccupato perché Cesarò la conosco bene.

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi lei … era realmente preoccupato?

CALÌ: La stessa identica domanda me l’ha fatta il magistrato e io gli ho risposto… no, perché per me è normale, io sono il sindaco di tutti… (il Foti, ndr) ci ha anche baciati, pensi.

Resta il fatto che, se mai preoccupazione vi fu da parte di Manganaro a cena o nel corso della serata, non ne fece parola con i due agenti di scorta di Antoci, Santostefano e Proto:

FAVA, Presidente della Commissione. durante la cena il dottor Manganaro espresse a lei e a Proto, preoccupazioni per delle presenze nel ristorante che lo preoccupavano… di soggetti appartenenti al circuito criminale?

SANTOSTEFANO: No, assolutamente no… Il dottor Manganaro non mi ha espresso alcuna preoccupazione su soggetti o su persone…(…)

FAVA, Presidente della Commissione. Le capitò di notare qualcosa di strano? Tensione, preoccupazione, il dottor Manganaro le parlò?

PROTO: No, no no, nessuna.  Loro erano lì seduti tutti e tre…

FAVA, Presidente della Commissione. Cioè, clima sereno durante la serata?

Lo stesso Proto, inoltre, aveva dichiarato ai pm:

ASS. PROTO: … hanno salutato il sindaco, poi hanno salutato il dottor Manganaro e il dottor Antoci. Non so se tutti e tre li conoscevano a quei soggetti… però il sindaco era bello tranquillo, il dottore non ha fatto nessuna cosa... Noi guardiamo. Giustamente, quando si avvicinano le persone, già ci mettiamo un poco sul chi va là, poi se vediamo che il sindaco si alza, “Oh, buongiorno...”, insomma, fa, tra virgolette, gli onori di casa…

Vale la pena dar conto anche dell’audizione dell’allora comandante della stazione dei carabinieri di Cesarò, il maresciallo Lo Porto. Pur in ferie la sera del 17 maggio 2016, il maresciallo Lo Porto (in pensione dall’1 ottobre 2016) ha fornito spunti e valutazioni di contesto del tutto divergenti in molti punti da quelle raccolte dai testimoni diretti dell’agguato.

A proposito delle normali frequentazioni nel ristorante in cui si tenne la cena dopo l’incontro, ecco cosa riferisce il maresciallo Lo Porto.

LO PORTO: il bar-ristorante Mazzurco dove c’è stata la cena è un luogo di ritrovo per tutta Cesarò. Stiamo parlando di un comune di 2500 anime, è bar e ristorante, frequentato da tutti, anche da chi non cena. La sera se vuoi mangiare anche una pizza devi andare là. Quindi, specialmente un comune dove non succede mai nulla, quando arriva un personaggio tutti quanti si vanno ad affacciare, poi c’era anche il sindaco, un amico di tutti là, se ci devi scroccare un caffè al sindaco glielo scrocchi.

Ed ancora, sul profiling criminale dei pregiudicati presenti quella sera nel ristorante Mazzurco.

FAVA, Presidente della Commissione: Le dico l’elenco delle persone che sono state identificate nel bar-ristorante… che sono anche quelle che parlano con il sindaco Calì: Daniele Destro Pastizzaro, Sebastiano Destro Pastizzaro, Carmelo Fabio e Giuseppe Calà Campana e Sebastiano Foti (inteso Biscotto, ndr), mentre all’esterno in due macchine c’erano Litterio Cerro e Antonio Nicola Carra. Sono personaggi la cui presenza può preoccupare?

LO PORTO: Sono tutte persone cha al massimo possono rubare qualche vitello.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Lei può confermare, dalle informazioni avute dai suoi sottoposti, che quella sera a Cesarò l’ambiente, come tutte le altre sere a parte la concitazione per l’avvenimento straordinario, era abbastanza sereno?

LO PORTO: Era una serata normalissima come tutte le altre.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Perché, secondo lei… tutti gli organi inquirenti, in particolare la polizia ma anche la magistratura che conduceva le indagini, hanno dato, nei giorni successivi, per scontato che i fatti erano quelli che venivano raccontati?

LO PORTO: Forse era l‘aria che si respirava, che l’antimafia per eccellenza era su quel settore… ad esempio quando il sindaco di Cesarò ha detto che “la mafia non c’è” è stato aggredito da tutti i lati, e ha dovuto fare due passi indietro. Se tu dici qualcosa che è controcorrente vieni preso a ceffoni. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Lei ha parlato con il sindaco Calì della sua dichiarazione secondo la quale non c’era mafia nel paese che potesse fare quell’attentato?

LO PORTO: Si, ne abbiamo parlato più volte, a suo parere era una cosa amplificata… Io venivo dalla stazione di Catania di Librino, Cesarò per me è un’isola di pace.

Va data nota che né l’autorità giudiziaria, né le forze di polizia a cui è stata delegata l’indagine (il commissariato di Sant’Agata di Militello e la squadra mobile di Messina) hanno ritenuto di interrogare il maresciallo dei carabinieri di Cesarò che, proprio sul profilo malavitoso dei quattro commensali (piuttosto marginale, ha riferito) e sulla prevedibile casualità di quell’incontro (il Mazzurco è l’unico ritrovo del paese) avrebbe potuto offrire un punto di vista rilevante. La ragione di tale scelta ci è stato fornita dal dottor Cavallo:

PROCURATORE CAVALLO: Secondo lei dobbiamo chiedere a un maresciallo di una stazione dei carabinieri per sapere se i soggetti sono soggetti di interesse operativo o meno? Il maresciallo dei carabinieri non ha queste informazioni. Noi ci rivolgiamo a soggetti più titolati, noi abbiamo a disposizione il ROS, abbiamo a disposizione la DIA… Il maresciallo dei carabinieri è quello che ha il controllo del territorio, è vero, ma chi elabora queste notizie, le filtra, le confronta con altre notizie provenienti da un intero territorio non è certo il maresciallo dei carabinieri: è il ROS…

FAVA, Presidente della Commissione: Glielo chiedo perché a noi il maresciallo dei carabinieri ha detto “… è gente che al massimo può rubare un vitello”.

PROCURATORE CAVALLO: Mi compiaccio per le sue conoscenze! Però, voglio dire, noi questi soggetti, anche alla luce dei precedenti, poi li sottoponiamo a intercettazione. Sicuramente dalle intercettazioni uscì uno spessore, devo dire, non di stinchi di santo: erano persone che avevano estrema attenzione nel parlare, estrema attenzione anche nell’usare determinate frasi, nel non parlare in macchina, nel non parlare al telefono. Quindi con buona pace del maresciallo Lo Porto che io non conosco, questi personaggi credo che abbiano un certo rilievo. In ogni caso credo che le valutazioni di una DDA siano ben più importanti di un maresciallo di una stazione dei carabinieri.

FAVA, Presidente della Commissione: Infatti qui non è in discussione una gerarchia tra le opinioni, la domanda era perché non lo avete ascoltato.

PROCURATORE CAVALLO: Perché non lo ritenevamo utile. Credo di essere stato chiaro.

Le “vedette mafiose" al ristorante. La Repubblica il il 19 dicembre 2019. Altro episodio destinato a far crescere le preoccupazioni del vicequestore aggiunto Manganaro, così come ha riferito all’A.G. e a questa Commissione, era accaduto prima di cena, quando il sindaco Calì, durante il tragitto verso il ristorante Mazzurco assieme a Manganaro, “gli aveva confidato di aver notato la presenza di alcune vedette dei gruppi mafiosi facendo riferimento a un’autovettura (…) condotta da Cerro Letterio e ad una Smart con a bordo tale Carra Nicola”. “Vedette di gruppi mafiosi” è espressione certamente impegnativa (“vedetta” è chi osserva per riferire o avvertire; “vedette di gruppi mafiosi” fanno pensare dunque a persone con il compito di segnalare i movimenti di Antoci in vista dell’agguato di quella notte). Ma è davvero questa l’espressione che il sindaco Calì usa con il vicequestore aggiunto Manganaro?

MANGANARO: Allora, se il sindaco l’abbia usato o meno… se le ho scritte evidentemente il sindaco ha usato questo termine. Però non lo ricordo…

"Evidentemente il sindaco ha usato questo termine", riferisce in Commissione Manganaro. Ma aveva affermato esattamente il contrario nel corso del suo esame a sommarie informazioni1 davanti ai PM di Messina:

PM: Ma il termine “vedette mafiose” fu suo… lo usò lei nell’annotazione o lo usò proprio CALI’?

MANGANARO: No, lo usai io… lo usai in annotazione… CALI’ mi disse che appartenevano ai gruppi operanti sul territorio. (…) “Vedette mafiose” perché io li ritengo gruppi mafiosi quelli, dottore, non mi nascondo dal dirlo apertamente. (…)

PM: Però è strano che in un’annotazione lei parla di vedette mafiose, quindi insomma dà un connotato particolare a quella presenza e al tempo stesso… non le segnala (alla scorta di Antoci, ndr)…

MANGANARO: L’annotazione la faccio col senno di poi.

Dello stesso tenore (e dunque diametralmente divergente da ciò che Manganaro riferisce in audizione) è il ricordo del sindaco Calì in Commissione:

FAVA, Presidente della Commissione: Dice sempre il dottor Manganaro che nel tragitto che vi ha portato al ristorante Mazzurco lei gli avrebbe confidato di avere notato la presenza di alcune “vedette di gruppi mafiosi”.

CALÌ: Presidente, il dottore Manganaro è entrato dentro la mia macchina e ci siamo spostati per andare da Mazzurco… Non appena scendiamo verso Mazzurco c’è un rifornimento Esso e ci sono le telecamere che parlano, non sono io a parlare ma ci sono le telecamere che parlano. E si sono bloccati un certo Nicola Carra e il cognato Litterio Cerro.

FAVA, Presidente della Commissione. Mi scusi, bloccati?

CALI’: Bloccati nella strada. Fermi.

FAVA, Presidente della Commissione. A parlare dal finestrino?

CALI’: Com’è abitudine parlare nei piccoli centri… Uno scende e l’altro sale.

FAVA, Presidente della Commissione. Ma erano in macchina?

CALI’: Dentro in macchina, si sono scambiati: “che fai? quando vieni?” Non lo so quello che si sono detti, completamente… quello che scendeva non poteva girare se non prima io posteggiavo. Io ho posteggiato, poi magari la curiosità, è rimasto a guardare ma da qui a dire “vedette” onestamente… tutto questo sono le vedette che dice il dottore Manganaro.

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi la parola “vedette” della mafia non l’ha usata?

CALI’: Presidente ci sono due macchine in movimento.

FAVA, Presidente della Commissione. Ce l’ha spiegato. Volevo capire se l’espressione “vedette della mafia” è un’espressione che aveva usato lei o che è stata una libera interpretazione del dottor Manganaro.

CALI’: No, no, il dottor Manganaro dice “ma questi chi sono”? E io glielo ho spiegato: sono Cerro Litterio e Nicola Carra. Il dottore Manganaro che conosce bene gli elementi ovviamente ha incominciato magari a immaginare o a dire o a pensare, non lo so, non è che gli dico ‘vedette’ perché si incontrano due macchine perché purtroppo a Cesarò come nei piccoli centri sempre è così.

Versione sostanzialmente analoga a quella che il sindaco Calì aveva usato nelle sommarie informazioni testimoniali raccolte dall’A.G. il 28 luglio 2016:

P.M. DI GIORGIO: Lei ha mai usato l’espressione “vedette di gruppi mafiosi”?

CALÌ: “Vedette dei gruppi mafiosi”?

P.M. DI GIORGIO: Riferendosi ai due che aveva notato?

CALÌ: No, mai.

P.M. DI GIORGIO: A Manganaro? Dice: “Guarda, queste sono vedette di gruppi mafiosi?”

CALÌ: No, no.

P.M. DI GIORGIO: Questa cosa gliel’ha mai detta?

CALÌ: No, che io mi ricordi no.

Anche l’assistente capo Proto e l’assistente capo Santostefano, autista e caposcorta di Antoci, riferiscono al PM di non aver avuto alcun segnale di preoccupazione dal loro superiore:

P.M. CAVALLO: Manganaro non le ha detto: “Guardate che durante il tragitto in macchina Calì mi ha parlato di brutte persone”?

ASS. PROTO: No, assolutamente no.

P.M. CAVALLO: Se lo sarebbe ricordato altrimenti.

ASS. PROTO: Sì, perché quello è un segnale di allarme. Cioè, forse mi sarei messo fuori dal locale e non avrei nemmeno cenato. (…)

P.M. DI GIORGIO: Qualcuno dei due, il dottor Manganaro o il dottor Antoci, le riferirono quella sera che c’era una situazione di possibile pericolo derivante dalla presenza di soggetti in zona?

ASS. SANTOSTEFANO: No.

P.M. DI GIORGIO: E quindi non una cosa che lei ha visto, ma una cosa che l’è stata riferita, se l’è stata riferita.

ASS. SANTOSTEFANO: No, no, no, non mi è stato riferito nulla di questo.

P.M. DI GIORGIO: Siccome ci sono annotazioni di servizio che fanno riferimento alla presenza di...

ASS. SANTOSTEFANO: Da parte mia le annotazioni?

P.M. DI GIORGIO: No, no, di altri.

ASS. SANTOSTEFANO: Ah...

P.M. DI GIORGIO: Di “vedette mafiose” lì, e lei svolgeva il servizio di scorta di Antoci, ci chiedevamo se qualcuno glielo avesse detto.

ASS. SANTOSTEFANO: No. Guardi, il discorso è uno: io cerco di fare il mio lavoro nel migliore dei modi possibile, però non sono stato informato sulla eventuale presenza di pregiudicati o meno perché comunque io il mio servizio lo faccio comunque… se qualcuno mi avesse detto qualche cosa del genere io mi pigliavo la personalità e gli dicevo: “Andiamocene, non possiamo stare qua”, ecco, io avrei fatto questo. Magari non mi è stato detto per non creare tensione. Non lo so, io non ne so niente di queste annotazioni...

P.M. MONACO: Dico, ma che cautele avreste impiegato eventualmente? Visto che dovevate tornare da lì, da Cesarò, a casa. Diciamo, durante il tragitto che cautele avreste impiegato? Qualora vi fosse stata una situazione di pericolo…

ASS. SANTOSTEFANO: Sicuramente non me ne scendevo a cinquantacinque chilometri orari, mi chiamavo dieci pattuglie dei Carabinieri, altre quindici della Polizia e magari operavo in maniera differente. Cioè, avrei adottato tutte quelle tecniche per porre la personalità quanto più al sicuro possibile, non so se mi sono spiegato!

Il misunderstanding relativo alla questione delle “vedette di gruppi mafiosi” si riallaccia ad un altro momento “critico” della vicenda in oggetto: le dichiarazioni rilasciate dal sindaco Calì nei giorni successivi ai fatti del 18 maggio 2016. Ecco cosa scrivono a tal riguardo i pubblici ministeri: L’interesse investigativo su Calì era derivato dal fatto che, alcuni giorni dopo l’agguato ad Antoci, su testate giornalistiche on line erano apparse alcune dichiarazioni di costui, concernenti proprio l’attentato in parola, nelle quali il sindaco di Cesarò attribuiva la paternità dell’agguato “alla delinquenza locale e non alla mafia vera e propria” in quanto, a suo dire, nel territorio del Comune di Cesarò “…non c’è tutto quell’interesse che potrebbe far gola alla mafia, alla delinquenza, di migliorarsi di incrementarsi. Io non lo vedo affatto…”. La richiesta di archiviazione della D.D.A messinese non dà particolare risalto, però, al fatto che due giorni dopo, il 20 maggio 2016 il Calì abbia smentito se stesso con un’altra dichiarazione: “Ieri, per mero errore, per il forte zelo di difendere tutti i cesaresi laboriosi mi sono scordato il vile gesto che hanno fatto al Presidente Antoci e condanno fermamente il gesto allo stato mafioso così come è stato fatto, e ringrazio il presidente per il lavoro che sta effettuando qui sui Nebrodi e la collaborazione fattiva che sto avendo dal momento in cui ho avuto il piacere di conoscere il senatore Lumia, che lavorando assieme realmente mi ha dato dimostrazione e stanno dando dimostrazione vera, concreta e reale a voler pulire una volta per tutte quello che sono i Nebrodi. Grazie e mi scuso per la dichiarazione.”

Sulle ragioni della sua prima esternazione e sul successivo dietrofront, il sindaco Calì ha così risposto nel corso della sua audizione:

CALÌ: Dopo questa dichiarazione, è successo un pandemonio. È successo di tutto e di più e di telefonate ne sono arrivate da tutte le parti…

FAVA, Presidente della Commissione: Da chi le sono arrivate le telefonate e che cosa le è stato detto?

CALÌ: Il primo dal Presidente Antoci, dice “sindaco ma ti stai rendendo conto che ho avuto un attentato?”. “Presidente, ho sbagliato. Lo sai come sono io. Sono stato anche un pochettino cassariato, mi sono visto preso…” “Dobbiamo smentire”. “Dimmi come devo fare e la smentiamo”...

FAVA, Presidente della Commissione: E oltre Antoci, chi altro l’ha chiamata?

CALÌ: Ha chiamato il senatore Lumia.

FAVA, Presidente della Commissione: Per dirle?

CALÌ: Dice: “ma che stai dicendo? L’attentato c’è stato… Devi dire che c’è la mafia”.

L'ansia del commissario Manganaro. La Repubblica il 20 dicembre 2019. All’1.32 Antoci e la sua scorta lasciano il municipio di Cesarò (dove Manganaro si stava ancora intrattenendo con il sindaco Calì per mostrargli il contenuto del pen drive recuperato qualche ora prima) e si dirigono verso Sant’Agata di Militello. Pochi minuti dopo anche il vicequestore aggiunto Manganaro conclude la riunione con il sindaco Calì e si allontana da Cesarò. È quello il momento in cui Manganaro decide di raggiungere l’auto di Antoci: decisione che, recuperando strada e tempo, gli consente di arrivare un attimo dopo che l’auto di Antoci è stata colpita da alcune fucilate e gli consente – secondo quanto riferisce il vicequestore aggiunto - di mettere in fuga gli assalitori sventando l’attentato. Sulle ragioni che inducono improvvisamente Manganaro a mettersi in auto per raggiungere la Lancia di Antoci le ricostruzioni offerte alla Commissione e all’A.G. non sono del tutto convergenti. Riferisce Manganaro:

MANGANARO: Il sindaco (Calì) l’ansia me la mette nel momento in cui il presidente Antoci va via… mi dice: “questa sera sono veramente e fortemente preoccupato”. Ho detto: “sindaco di che cosa si spaventa? Stia tranquillo, ci siamo noi… guardi se è preoccupato vada a casa e appena arriva mi manda un messaggio ed io mi incammino verso Sant’Agata di Militello”. Queste sono state le ultime parole che ci siamo detti io e il sindaco. (…)

FAVA, Presidente della Commissione. Ma cosa determina il fatto che improvvisamente lei decida di raggiungere il dottor Antoci?

MANGANARO: Quando alla fine il sindaco mi trasmette quelle cose io nell’incertezza, in questa situazione che potrebbe, tra virgolette, essere allarmante, ho detto al mio autista: “Raggiungiamo il dottor Antoci… raggiungiamolo e stiamo più sereni tutti”.

Diverso il ricordo del sindaco Calì su chi fosse preoccupato tra i due. Così ha riferito in Commissione:

FAVA, Presidente della Commissione. Poi lei dice al dottor Manganaro: “Dottore mi accompagni a casa perché questa sera qui c’è qualcosa che non mi convince, ho paura”. Ci può spiegare?

CALÌ: Non sono stato io, ma devo dire grazie al dottore Manganaro perché penso che lui aveva questo sentore quella sera e mi ha detto: “Appena arrivi a casa, mandami immediatamente un messaggio…”

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi non è stato lei a dire al dottor Manganaro “ho paura”.

CALÌ: Dopo tutto quello che ho subito, avrei avuto paura perché vedo due facce strane?

FAVA, Presidente della Commissione. Glielo dico perché è scritto nel…

CALÌ: No, no, è stato più che zelante il dottore Manganaro, più che zelante…

Questa infine la testimonianza dell’assistente Granata, raccolta dai PM nella sua testimonianza del 3 maggio 2017:

GRANATA: Quando lui (Manganaro) è salito in macchina mi aveva detto che c’era il sindaco preoccupato e quindi mi ha detto: “Acceleriamo, cerchiamo di raggiungere il Presidente?”

P.M. DI GIORGIO: Preoccupato per cosa?

GRANATA: Mi ha accennato che c’era il discorso che c’erano dei pregiudicati all’interno del ristorante, però più di tanto non mi ha detto. Dice: “Il sindaco era molto preoccupato quindi corri, cerchiamo di raggiungere il dottore”.

Insomma, Manganaro improvvisamente preoccupato, decide di “correre” per raggiungere l’auto di Antoci. Eppure il vicequestore aggiunto sceglie di non far cenno di queste sue preoccupazioni né al presidente Antoci, quando lo vede andar via, né soprattutto – fatto incomprensibile - agli agenti della scorta di Antoci:

FAVA, Presidente della Commissione. (…) Col dottor Manganaro vi siete detti qualcosa?

ANTOCI: No, ci siamo salutati.

FAVA, Presidente della Commissione. Non le dette la sensazione di essere preoccupato?

ANTOCI: No, no…(…)

FAVA, Presidente della Commissione: Sapeva che il dottor Manganaro… aveva deciso di raggiungervi?

SANTOSTEFANO: No…

FAVA, Presidente della Commissione: Durante la strada non avete ricevuto nessuna telefonata da Manganaro?

SANTOSTEFANO: No…

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Secondo lei come ha fatto il dottor Manganaro a raggiungervi? Si parla di una strada alternativa che avrebbe fatto e in effetti c’è… però a guardarla sulla cartina è addirittura una strada più impervia…

SANTOSTEFANO: Non conosco questa strada, ma se è più impervia sicuramente è più comoda per un fuoristrada.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Più impervia vuol dire che ci sono più curve.

SANTOSTEFANO: Non saprei rispondere…

SCHILLACI, componente della Commissione: Non le sembra strano che il dirigente del commissariato non le abbia riferito qualcosa (sulle sue preoccupazioni, ndr) dal momento in cui lei è il capo scorta e deve vigilare appieno sulla tutela della personalità?

SANTOSTEFANO: Molto probabilmente il dottor Manganaro non ha detto nulla per non mettere ansia. Perché io il mio lavoro me lo so fare… Io sto ipotizzando, è una mia opinione. Io non faccio polizia giudiziaria… io faccio solo scorta…(…)

FAVA, componente della Commissione: Durante il tragitto non avete ricevuto nessuna telefonata?

PROTO: Assolutamente no!

Riepilogando: Manganaro non condivide le sue preoccupazioni con Proto e Santostefano, li lascia andar via senza dire loro nulla e non li chiama al telefono nemmeno quando decide di raggiungerli in auto. Perché?

FAVA, Presidente della Commissione: Se c’erano già elementi per essere preoccupati, perché lei non ne parla con la scorta del dottor Antoci?

MANGANARO: Non lo farei mai.

FAVA, Presidente della Commissione: Come non lo farebbe mai?

MANGANARO: Perché queste situazioni possono creare comunque problemi nei momenti operativi, nei movimenti… Cioè, mi spiego meglio, se sono delle ansie mie che mi tengo dentro… nel senso che io ho captato degli input che elaboravo… non potevo mai pensare che sarebbe successo un attentato…

FAVA, Presidente della Commissione: E lei lascia andare via (il dottor Antoci ndr) dopo che qualcuno le ha detto “ci sono vedette dei gruppi mafiosi”?

MANGANARO: Certo, presidente. Perché devo avvisare la scorta? Se avviso la scorta creo un’ulteriore situazione di pericolo.

FAVA, Presidente della Commissione: Questo ce lo faccia capire perché ci sfugge.

MANGANARO: Sono con una blindata… se metto in agitazione la scorta può succedere una qualsiasi situazione… che la scorta si agita e fa un incidente o succede qualcosa determinata dalla mia ansia.

FAVA, Presidente della Commissione: Io mi allarmerei se mi parlassero di “vedette di gruppi mafiosi”… un’informazione di questo tipo come fa a tenersela per sé senza condividerla con quelli che hanno la responsabilità della sicurezza del dottor Antoci?

MANGANARO: Non sono d’accordo a dare questo tipo di informazione, presidente… non ritengo che il personale di scorta venga messo in agitazione nell’espletamento del loro servizio… anche perché la macchina di scorta è una macchina abbastanza sicura, il tritolo ci vuole per farla saltare!

FAVA, Presidente della Commissione: E non ne parla neppure con Granata?

MANGANARO: A Granata gli dico di camminare per raggiungerlo perché c’era qualcosa che non mi convinceva. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: E ha ritenuto anche di non telefonare a Santostefano e a Proto?

MANGANARO: esatto, sì sì…

FAVA, Presidente della Commissione: Lungo questo tragitto decide di utilizzare il lampeggiante?

MANGANARO: Non lo ricordo…

FAVA, Presidente della Commissione: Ci può ricordare più o meno i tempi? Che tipo di percorso fa?

MANGANARO: Parto circa sei-sette minuti dopo il presidente Antoci… Granata fa il primo controsenso in modo da sbucare subito all’uscita del paese… senza passare da San Teodoro… scelta del mio collaboratore…

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi, sino a qualche minuto prima lei non riteneva di avvertire la scorta del dottor Antoci e poi si mette, diciamo, in una condizione quasi da inseguimento, facendo un controsenso…

MANGANARO: No, no… attenzione…. l’ha fatta l’autista la strada… non è che gli ho detto “fai questa strada” o “fai quell’altra strada” … ha scelto quella… mi fido dei miei autisti, presidente…

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Lei disse (al sindaco Calì) di inviargli un sms, cosa che Calì dice di aver fatto. Ma risultano due sms che Calì inviò a lei ed un suo sms di risposta.

MANGANARO: Non mi ricordo, onorevole…

Le procedure anomale di tutela. La Repubblica il 21 dicembre 2019. Uno degli aspetti che la Commissione ha inteso approfondire è il comportamento dell’equipaggio di tutela del dottor Antoci. Nella ricostruzione dei fatti, condivisa da tutti i testi e riassunta nella proposta di archiviazione della Procura di Messina, si evidenziano diverse anomalie nel comportamento degli agenti che accompagnavano Antoci, alcuni addebitati dagli auditi ai momenti di concitazione vissuti dopo l’agguato, altri di più difficile comprensione.[...] Il dottor Antoci arriva a Cesarò a bordo della sua Lancia Thesis blindata, accompagnato dall’assistente capo Proto (alla guida) e dall’assistente capo Santostefano come caposcorta. Il vicequestore aggiunto Manganaro, che avrebbe dovuto raggiungere Antoci, è a bordo di un SUV guidato dall’assistente Granata. Durante il percorso, Manganaro si ricorda che occorre recuperare una pen drive contenente delle foto che il funzionario intende mostrare al sindaco di Cesarò. MANGANARO: Partii da Sant’Agata col mio SUV nero che mi era stato dato da qualche settimana… sequestrato ad un boss di Barcellona e riassegnata al mio ufficio...

FAVA, Presidente della Commissione. Era un’auto attrezzata con sirena e lampeggiante?

MANGANARO: È una macchina attrezzata con lampeggiante, senza sirena… quindi siamo saliti con Granata… poi l’assistente Granata come in ogni sua occasione era un po’ sbadato… dimenticò la chiavetta… e quindi per risparmiare tempo e riuscire ad arrivare a Cesarò… non ricordo se chiamai Proto, chiamai Santostefano, chi dei due chiamai, non mi ha risposto… chiamai il presidente Antoci e gli ho detto di farmi contattare dai ragazzi della scorta… non mi ricordo chi mi contattò dei due...

FAVA, Presidente della Commissione. Cosa chiese in sostanza?

MANGANARO: Di venirmi a prendere.

Questo invece il ricordo dell’assistente capo Santostefano.

SANTOSTEFANO: Quando siamo giunti a Cesarò, la personalità ha salutato alcune autorità del luogo e subito dopo ha detto a noi due, sia a me che all’autista Proto: “uno di voi due potrebbe ritornare indietro… perché sta arrivando il dottore Manganaro poiché è col suo autista e deve rimandare indietro il suo autista a prendere delle carte… potresti andargli incontro… così recupera tempo”.

Al di là del ricordo non coincidente (Manganaro afferma che chiese ad Antoci di farsi chiamare da uno degli uomini della scorta per chiedere che qualcuno gli andasse incontro, mentre Santostefano afferma che fu lo stesso Antoci a chiedere che uno di loro raggiungesse Manganaro con la Thesis), stupisce che la personalità scortata venga lasciata nel luogo dell’iniziativa senza la disponibilità dell’auto blindata e, quanto ci riferisce Antoci, a sua insaputa:

FAVA, Presidente della Commissione: Chi chiede e chi decide che l’assistente capo Santostefano debba andare via con l’auto blindata?

ANTOCI: Queste non sono decisioni che prendo io… Io ero seduto che facevo il convegno… poi la decisione l’hanno presa loro… questa telefonata… io ero là ancora...

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi lei apprende di questo scambio di auto per andare a recuperare solo dopo?

ANTOCI: Io dopo...

Stupisce ancor di più che sia proprio il caposcorta Santostefano ad allontanarsi.

Come recita il “Manuale tecnico per la formazione e l’addestramento del personale addetto ai servizi di scorta e sicurezza” della Polizia di Stato, per le scorte di 3° livello, ovvero di tutela su auto specializzata (blindata), il “capo scorta (…) segue il protetto negli spostamenti e gestisce l'amministrazione della scorta (supervisione, contatti con istituzioni/organizzazioni collegate)”. Appunti, questi, che sono stati sollevati nel corso delle audizioni di Santostefano, Proto e Manganaro. Ecco le loro risposte.

FAVA, Presidente della Commissione. Dal punto di vista dei protocolli è normale che si possa lasciare la personalità sottoposta a tutela senza la disponibilità dell’auto blindata nel posto in cui si trova?

SANTOSTEFANO: In quel momento la personalità era all’interno di un luogo sicuro perché era vigilato da forze dell’ordine… e comunque...queste sono cose che vengono attuate a discrezione.

GALVAGNO: In termini procedurali… è stato fatto tutto secondo quello che potrebbe essere questo protocollo?

SANTOSTEFANO: Si possono fare errori di valutazione per la concitazione del momento però alla fine è andato tutto bene e per me questa è la cosa più importante...(…)

MANGANARO: Non era la prima volta… (omissis, parte secretata) i protocolli operativi ci sono, presidente, l’applicazione nella realtà è un pochettino differente da quello che realmente è…

FAVA, Presidente della Commissione. Come mai viene a prenderla Santostefano, che è il caposcorta di Antoci, e non viene l’autista Proto?

MANGANARO: È una decisione che hanno preso tra loro, io non entro nel merito di questa decisione...(…)

PROTO: Io ho eseguito una disposizione datami superiormente in quel momento.

FAVA, Presidente della Commissione. La decisione chi l’ha presa?

PROTO: Santostefano, il capo scorta era lui quel giorno… «si deve tornare a prendere il dottor Manganaro che ha urgenza pure lui di arrivare qui», ora se lui ha ricevuto l’ordine superiormente dal dottor Manganaro o l’ha preso d’iniziativa, sinceramente...

FAVA, Presidente della Commissione. Chi può prendere decisioni sulle modalità con cui si deve svolgere il servizio tra il capo scorta ed un superiore gerarchico...che però non ha la responsabilità della scorta?

PROTO: È giusto che l’assuma comunque il capo scorta.

Quelle pietre sulla strada. La Repubblica il 22 dicembre 2019. Quando la Lancia blindata, percorrendo sulla via del ritorno la strada statale 289, s’imbatte in una fila di pietre piazzate per ostruire la carreggiata, la scorta di Antoci non prova a forzare l’ostacolo, come suggeriscono in questo caso le prassi operative. L’auto invece rallenta, frena, poi prova a ripartire a marcia indietro un istante prima che dalla boscaglia qualcuno apra il fuoco. Ecco il ricordo dei due agenti in audizione e del questore pro tempore di Messina, Cucchiara:

FAVA, Presidente della Commissione. A che distanza le vede (le pietre che ostruiscono la carreggiata, ndr)?

PROTO: Non la saprei quantificare…

FAVA, Presidente della Commissione. Era un rettilineo comunque…

PROTO: C’era prima la semicurva e poi ci si immetteva…

FAVA, Presidente della Commissione. Cioè, non le ha viste all’ultimo momento?

PROTO: Io non ho fatto una frenata brusca… perché poteva essere anche una cosa da poter evitare… nel momento in cui vedo i massi per tutta la carreggiata dico a Santostefano: «questi sassi così?» e schiaccio il freno più forte… Il tempo di fermare la macchina… mi è venuto istintivo di mettere la retromarcia e la macchina si muove all’indietro per 50 centimetri? Un metro? Non lo so, poco, perché sempre in questa manciata di secondi in cui innesto la retromarcia arrivano dei colpi.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Lei oggi ritiene che sarebbe stato più giusto andare avanti?

PROTO: Non ci ho provato… purtroppo con quella macchina (di esperienza) ne avevo poca… (…)

SANTOSTEFANO: c’era un tornante, una specie di curvone chiuso… usciamo da questo curvone chiuso a circa 200-300 metri… adesso non saprei vedo ‘sti massi… che occupavano entrambe le due carreggiate… lì per lì avendo percorso …diverse strade di montagna, sa a volte trovi palle di fieno, a volte trovi pecore… quindi lì per lì a quella distanza, in quei frangenti di secondi, dico “vabbè una piccola frana, facciamo una sorta di gimcana e proseguiamo”, ma il tempo di pensare questo, praticamente io ho notato che tutte le pietre erano equidistanti tra di loro, di grosse dimensioni e quindi non potevi passarci sopra con la macchina, né tra una pietra e l’altra, e occupavano tutta la carreggiata… Appena abbiamo realizzato questo improvvisamente arrivano ‘sti colpi… appena ho realizzato questo ho detto al collega: “dietro, dietro” … perché ho pensato il peggio… la personalità dormiva dietro, si era appisolata, il tempo che si è arrestata la macchina, ha messo la marcia indietro, il tempo di metterla siamo stati presi da ‘sti colpi di arma da fuoco. È questa la scena.

FAVA, Presidente della Commissione. come si spiega la capacità (degli aggressori, ndr) di riconoscere la vostra auto? Che fosse quella e non un’altra auto?

SANTOSTEFANO: Non saprei spiegarlo.

FAVA, Presidente della Commissione. Come hanno fatto a mettere le pietre esattamente in prossimità del vostro arrivo? Poteva passare un’altra auto un attimo prima, un attimo dopo…

SANTOSTEFANO: Questo l’ho pensato anch’io, ne ho fatti centomila di ‘sti pensieri… però io non so dare una spiegazione. (…)

FAVA, Presidente della Commissione. È normale, secondo i protocolli, che un’auto blindata con il “Monza 500” a bordo si fermi invece di cercare di aggirare o di forzare appena c’è un ostacolo?

CUCCHIARA: Presidente, la teoria dei servizi di scorta prevede che l’autista… vorrebbe che l’autista evitasse l’ostacolo… Però, per onestà mia intellettuale… devo anche ipotizzare che in quel frangente… l’oscurità, la notte, la sorpresa abbiano per un attimo confuso il collega che stava alla guida della macchina blindata.

FAVA, Presidente della Commissione. Lei fece un sopralluogo?

CUCCHIARA: No.

FAVA, Presidente della Commissione. Quindi, diciamo, ha potuto farsi un’idea soltanto in base alle fotografie.

CUCCHIARA: Assolutamente sì, sia sulla base delle informazioni che nella delicata veste di questore mi ha fornito il capo della squadra mobile.

FAVA, Presidente della Commissione. Come mai di fronte ad un attentato abbastanza eclatante (…) non andò a fare anche lei, da questore, un sopralluogo?

CUCCHIARA: Per due ordini di fattori. Intanto perché sono andato in piena notte da Antoci e dai poliziotti… Poi, l’indomani mattina, la prima cosa che ho fatto è stata andare in procura per incontrare il procuratore della Repubblica.

Sui massi che ostruivano la carreggiata la Commissione ha raccolto anche l’opinione del dottor Cavallo, oggi Procuratore della repubblica a Patti, all’epoca dei fatti uno dei PM della Procura di Messina che condussero le indagini e poi ne chiesero l’archiviazione, e del dottor Anzalone, capo della squadra mobile di Messina all’epoca dei fatti. Entrambi furono sul posto nelle ore successive all’attentato, ma sulle dimensioni delle pietre (o massi) i ricordi non coincidono.

PROCURATORE CAVALLO: Io sono stato sul posto… Le pietre non erano dei massi. Erano pietre che ovviamente potevano essere collocate, avendole preparate, nell’arco anche di due minuti d’orologio… (…)

ANZALONE: Dopo circa mezzora mi sono recato sul posto a Cesarò per avere immediata idea del contesto in cui era avvenuto l’attentato, quando sono arrivato sulla strada, sul rettilineo dove vi era questa fila di pietre, due o tre, massi abbastanza grossi ognuno del peso di circa 10/15 chili… (…)

FAVA, Presidente della Commissione. Queste pietre che lei sappia sono state repertate, misurate, valutate anche rispetto alla possibilità che fermassero davvero un’auto blindata a piena velocità?

CUCCHIARA: È intervenuta la polizia scientifica insieme agli investigatori, quindi hanno fatto tutti i rilievi di rito. Sull’idoneità delle pietre o dei piccoli massi, a seconda di come li si vogliano chiamare, a fermare l’auto io non sono in grado ovviamente di dire nulla. Questo è quello che hanno affermato i poliziotti che erano sul luogo e che hanno dichiarato di essere stati fermati da quelle pietre. (…)

FAVA, Presidente della Commissione. Secondo lei c’era la possibilità che la blindata le superasse forzandole?

PROCURATORE CAVALLO: Su questo c’è stato un lungo dibattito. Io sono sottoposto a scorta, alcune di queste persone mi dissero: “noi siamo stati addestrati nel senso che quando troviamo un ostacolo lo dobbiamo speronare”. Quindi dal punto di vista operativo non era il massimo della condotta così com’è richiesta. Noi chiedemmo delle spiegazioni anche in questo senso a Proto e Santostefano, però devo fare una premessa: erano le 2 di notte, venivano da una cena, anche loro avevano mangiato, avevano bevuto… Loro ci dissero che in un primo momento non ebbero il minimo sentore di uno sbarramento, pensarono ad una serie di massi franati. Quando si accorsero che c’era questo sbarramento effettivamente Proto ingranò la retromarcia… in quel momento gli arrivarono gli spari. Gli è stata fatta la domanda: “scusi, ma a lei non le hanno detto che bisogna sfondare?”. Lui (Proto) ha detto che in quel momento aveva sentito gli spari, aveva ricevuto dei colpi nella macchina… per cui pensarono, in quel momento, che forse la situazione migliore era frenare, fare la retromarcia e non speronare. Questa, ripeto, può essere una modalità forse non perfetta secondo i manuali, ma non mi sembra neanche così impossibile che si possa realizzare nella realtà dei fatti…

Sulle scelte della scorta di Antoci di fermarsi davanti alle pietre che ostruivano la carreggiata, sui tempi e le modalità dell’agguato, sulla fuga degli aggressori è utile riportare anche le valutazioni dell’allora comandante della caserma dei carabinieri di Cesarò, Giuseppe Lo Porto.

LO PORTO: Allora, io a parte che essere maresciallo dei carabinieri ho fatto il corso di guardia del corpo e di guida di sicurezza, e la cosa che a me ha lasciato il dubbio è che al corso dicono che quando succede qualcosa la macchina deve essere usata come un ariete per fuggire… Il mio pensiero era: perché ti sei fermato? Perché sei rimasto là fermo, perché? Se a me mi sparano, sto fermo là? Anche se ci sono delle pietre davanti, ma anche se c’è una macchina davanti, sperono e vado via. (…) Non me la sono formulata solo io, tutto il paese vociferava, tutti quanti: “ma, però…  ma, però” …

FAVA, Presidente della Commissione: Quale era l’elemento che non convinceva?

LO PORTO: …si vociferava, perché in un paese di montagna, ogni famiglia ha il suo fucile, vanno a caccia e quindi lo sanno usare, capiscono cos’è una rosata. (…) Per fare un attentato buono si doveva fare un tiro incrociato, non uno solo, ci dovevano essere più persone, invece uno solo rischia di non prenderlo… Due o tre persone decidono di sparare con un solo fucile se voglio fare un attentato? Non fanno un tiro incrociato? Lo fanno anche i cacciatori al coniglio. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Un’ultima cosa, visto che lei conosce bene la morfologia dei luoghi: gli attentatori sparano, e poi sarebbero stati messi in fuga. Come si fugge in un bosco come quello? La scientifica dice, senza luci, senza torce è molto complicato riuscire a scappare.

LO PORTO: Le racconto un fatto, facevo servizio a Bronte, quindi un territorio a fianco, e notammo, una sera che eravamo di pattuglia, una persona con un fucile in mano, la caccia era chiusa, gli abbiamo detto di fermarsi, questo comincia a scappare, lo abbiamo inseguito, dopo un poco lo abbiamo trovato infilato in un rovo che poverino era un ammasso di sangue, perché al buio come fai a scappare?

Infine, nel fascicolo dei rilievi tecnici redatto dalla polizia scientifica di Sant’Agata di Militello il 25 maggio 2016, la presenza dei massi viene così dettagliata: “Davanti al primo veicolo Lancia Thesis, sono presenti alcuni massi che occupano la metà destra della carreggiata, altri massi si osservano antistanti nell’altra metà (sinistra) di carreggiata”.

I massi in questione vengono fotografati nei rilievi (3 e 4) del fascicolo nonché rappresentati in un rilievo planimetrico. Nulla si dice in merito al peso o alle dimensioni. Altra circostanza degna di considerazione è il fatto che nel momento in cui i rilievi vengono eseguiti, i massi occupano soltanto la carreggiata destra. Quella sinistra è vuota. A rimuoverli – lo spiega Sebastiano Proto ai PM – sono stati gli operatori della prima volante accorsa sul luogo:

ASS. PROTO: La strada viene liberata già da quando è arrivata la volante… Dall’operatore della volante perché loro pure volevano avvicinare anche la macchina, perché quando sono arrivati loro non sono potuti passare…

P.M. MONACO: Lei partecipa, diciamo, alla materiale rimozione di queste pietre?

ASS. PROTO: Sì, una l’ho aiutato io perché era pesante… non so se Granata ha partecipato e ha aiutato l’altro. Io, per me, io ho aiutato uno dei due della volante perché era pesante e l’abbiamo...

P.M. DI GIORGIO: Certo, l’avete spostata.

PROTO: L’abbiamo spostata in maniera tale che anche loro potessero pure avvicinare la macchina.

Secondo il ricordo di Proto, dunque, occorrevano almeno due persone per spostare una singola pietra.

Le regole di sicurezza violate. La Repubblica il il 23 dicembre 2019. Un terzo punto, discutibile sul piano delle regole di condotta di una scorta, è la scelta di far scendere Giuseppe Antoci dall’auto blindata e di trasbordarlo sul SUV nero del vicequestore aggiunto Manganaro, distante più di 20 metri dalla Thesis, pur sapendo che gli aggressori potevano essere ancora nei dintorni e intenzionati a portare a termine l’attentato, e che la blindatura della Lancia era l’unico riparo certo per la personalità scortata. Perché questa scelta? È la domanda che la Commissione ha rivolto ai due agenti della scorta, Proto e Santostefano, al vicequestore aggiunto Manganaro e al questore pro tempore Cucchiara.

FAVA, Presidente della Commissione. Di fronte un attacco convenzionale non è un po’ rischioso uscire dalla blindata?

PROTO: In quel momento la cosa più importante è tenere la persona e capire…

FAVA, Presidente della Commissione. Ma la persona si tiene più al sicuro con gli sportelli chiusi e voi dentro, no?

PROTO: Sì, sono momenti in cui salta tutto e ci si affida all’istinto.

FAVA, Presidente della Commissione. Chi decide che Antoci debba lasciare la blindata e salire sull’auto del commissario Manganaro?

PROTO: La decisione non la so, non l’ascolto nemmeno perché sono da un’altra parte… Sento solo: “andiamo via, andiamo via” e portano Antoci sull’altra macchina…

GALVANO, Componente Commissione: Il dubbio sta in questo: istinto oppure razionalità? Nel senso che il protocollo si segue o non si segue? Si segue in alcuni momenti o non si segue in alcuni momenti?

PROTO: Il discorso che ho detto… in quel momento, ecco, salta tutto…. Se lei ha una necessità di andare via da un posto per una qualsiasi situazione, penso che anziché andare a vedere tutte le freccette se vede una porta…

GALVANO, Componente Commissione: Lasciando stare quella che è una distinzione tra razionalità e istinto… lei ritiene che sia stato seguito tutto in maniera eccelsa affinché fosse tutelata la sicurezza del dottor Antoci?

PROTO: Per ritornare alle sue parole, la maniera eccelsa, poi è il risultato… il risultato qual è in quel caso? Portare e tenere al sicuro la personalità…

GALVANO, Componente Commissione: il risultato io ritengo che sia una cosa, il fatto di avere eseguito un protocollo è un’altra di cosa, presumo…

PROTO: purtroppo penso che mi capiate, su determinate cose non posso, diciamo, esternare…

Dello stesso tenore le dichiarazioni rese da Proto ai PM1:

P.M. DI GIORGIO: Ma lei ha provato a vedere se funzionava la macchina? La macchina blindata ovviamente.

ASS. PROTO: Stavo entrando, quando dice: “No girate quella, facciamo prima”, “Giriamo quella e facciamo prima”.

P.M. DI GIORGIO: Manganaro lo dice?

ASS. PROTO: Manganaro o Santostefano, non lo so. Però Santostefano mi ricordo che prende la persona dalla macchina, apre lo sportello...(…)

SANTOSTEFANO: Il dottore Manganaro ce l’avevo a fianco e mi ha detto: “dobbiamo portarci via il presidente!”. Gli ho detto: “sì, però non con questa macchina perché è stata colpita”. io non so che danni può avere, se hanno colpito la tanica o qualche altra cosa praticamente uno rischia di saltare in aria. Questo è il motivo per cui l’abbiamo tolto da quella macchina. (…)

MANGANARO: Quando ci immettiamo su questa parte [rettilineo] con i fari della macchina… riusciamo per qualche frazione di secondo ad intravedere… per me due o tre persone… poi la terza persona probabilmente l’ho confusa con un segnale stradale… quindi non vedo nessuna fiammata, sento i colpi… io comincio a sparare colpi dalla macchina…

FAVA, Presidente della Commissione. Perché comincia a sparare colpi dalla macchina?

MANGANARO: Sono istinti di reazione.

FAVA, Presidente della Commissione. Istinti di reazione perché immagina che ci siano stati…

MANGANARO: Eh, li ho visti! Io in una frazione di secondo ho visto due o tre persone armate di fucili in mimetica.

FAVA, Presidente della Commissione. Ha visto anche il fucile?

MANGANARO: Ho visto anche i fucili.

FAVA, Presidente della Commissione. Ma a che distanza erano da lei, mi scusi?

MANGANARO: Non lo so… saranno stati trenta metri… quaranta metri… non ho idea, però dalla ricostruzione lo potete vedere…

FAVA, Presidente della Commissione. …e lei riesce a distinguere persino le tute mimetiche?

MANGANARO: Sì, sì, sì…  sparo non so quanti colpi… e gli altri li sparo quando scendo dalla macchina… io poi mi avvicino dietro la macchina perché finisco i colpi… scendono Santostefano e Proto e sparano anche loro in direzione del bosco…

FAVA, Presidente della Commissione. E poi?

MANGANARO: Una volta che scendono Proto e Santostefano gli dico “mettiamo il presidente in salvo” e Santostefano mi dice “usiamo la sua macchina perché la nostra è colpita”.

FAVA, Presidente della Commissione. Chi è che decide di usare la sua auto?

MANGANARO: Santostefano!

FAVA, Presidente della Commissione. Perché non avete provato a vedere se l’auto era marciante?

MANGANARO: No, valutazione che non ho fatto. L’hanno fatta loro della scorta…

FAVA, Presidente della Commissione. E’ Santostefano che, in sostanza, insiste per andare via lasciando la blindata.

MANGANARO: credo di sì, però ripeto… non ho contezza o meno…

FAVA, Presidente della Commissione. ma lei non gli ha chiesto “perché non prendiamo la blindata”?

MANGANARO: no presidente, mezzo secondo… che chiedevo… in quel momento l’importante è salvare la vita. (…)

FAVA, Presidente della Commissione. Una delle regole principali di questi protocolli è che lo scortato non debba mai scendere da un’auto blindata. Come si spiega, o se glielo spiegò il dottor Manganaro, che invece il dottor Antoci sia stato prelevato dall’auto blindata, caricato su un’auto non blindata e portato fino a questo ricovero della guardia forestale?

CUCCHIARA: Io credo sia stata una scelta derivata dal panico che è subentrato negli operatori: una mancanza di lucidità.

Quei due poliziotti rimasti soli nel buio. La Repubblica il 24 dicembre 2019. Un'altra scelta che appare poco comprensibile è quella di lasciare due agenti, Proto e Granata, sul luogo dell’agguato invece di portare via anche loro con il SUV su cui era stato trasbordato Antoci, pur sapendo che le condizioni (nel cuore della notte, in una strada isolata in mezzo al bosco) li esponevano fatalmente al possibile fuoco degli assalitori.

FAVA, Presidente della Commissione. Come mai decidete di lasciare Granata e Proto?

MANGANARO: non c’è un ragionamento sulla decisione… ce ne andiamo di corsa, portiamo la personalità in salvo… facevano copertura… ed erano a presidio con una macchina blindata… non me lo sono posto il problema dei ragazzi, assolutamente… dopo che siamo entrati a Casello Muto tra i miliardi di telefonate mi sono messo pure in collegamento con Granata e Granata mi dice “va bene qua sono scappati”.

FAVA, Presidente della Commissione. Proto ci dice che non hanno ricevuto alcuna telefonata da parte vostra e Granata dichiara di aver ricevuto una telefonata nell’immediatezza dell’arrivo della prima volante…

MANGANARO: Ho chiamato, ho chiamato…

Di diverso tenore le dichiarazioni dell’assistente Granata che all’A.G. riferisce di non aver ricevuto alcuna chiamata da Manganaro per tutto il tempo della loro permanenza nel luogo dell’agguato, ma di essere stato lui a chiamarlo solo pochi istanti prima che arrivasse una volante di soccorso dal commissariato di Sant’Agata:

P.M. DI GIORGIO: Quindi lei e Proto siete rimasti sul posto?

GRANATA: Io e Proto siamo rimasti sul posto.

P.M. DI GIORGIO: Ma perché non siete andati via pure voi? Non era pericoloso restare lì in quel momento? Visto che, voglio dire, eravate rimasti vittime pochi secondi prima di un agguato a colpi di fucile, restavate soli… Quanto tempo siete stati lì fermi diciamo?

GRANATA: Mah, mezz’ora, quaranta minuti.

PROCURATORE CAVALLO: E avete fatto qualche telefonata? Avete avvisato?

GRANATA: Mi sembra che ad un certo punto ho chiamato Manganaro per sapere a che punto erano i soccorsi, se stava arrivando qualcuno. Nel momento in cui l’ho chiamato… ho sentito le sirene della volante in lontananza quindi ho detto: “sono qui, sono qui…” e ho chiuso.

PROCURATORE CAVALLO: Ma lei non ha chiamato… non avete chiamato qualche numero del Commissariato? Il 113? Il 112?

GRANATA: No.

PROCURATORE CAVALLO: Cioè, avendo avuto appena subito un attentato, no? Gli altri erano andati via, non avete chiamato qualche numero?

GRANATA: Sul momento no…

PROCURATORE CAVALLO: E Proto ha fatto qualche telefonata? Pure lui?

GRANATA: Non lo so.

Nemmeno Proto riceve alcuna telefonata da Manganaro o da Santostefano. Questa la sua ricostruzione.

FAVA, Presidente della Commissione. Cosa le dice il suo caposcorta Santostefano nel momento in cui si allontana con Antoci?

PROTO: Lui non mi dà ordini: grida “andiamo via, andiamo via”…

FAVA, Presidente della Commissione. Ma il suo caposcorta non avrebbe potuto caricare anche voi due sull’auto?

PROTO: È una cosa che purtroppo… se è necessario si fa andare via. (…) Rimaniamo immobili… quasi non lo so, non pietrificati ma lì vicino… non mi viene nessun input nemmeno di salire sulla macchina, stiamo dietro la macchina, di fianco, messi bassi, dall’altra parte, tremando.

FAVA, Presidente della Commissione. Per quanto tempo?

PROTO: Fin quando non vediamo i lampeggianti di una volante… venti minuti… un quarto d’ora…

FAVA, Presidente della Commissione. Come mai non le viene in mente di vedere se l’auto funziona?

PROTO: Non ce la facevo, non riuscivo.

FAVA, Presidente della Commissione. E non glielo dice nemmeno Granata?

PROTO: No.

FAVA, Presidente della Commissione. Durante quei venti minuti di attesa voi non avete ricevuto nessuna telefonata o avete provato a telefonare?

PROTO: Io ho provato a fare una telefonata ad un collega che mi venuto così di chiamare per primo che è un componente della polizia giudiziaria che io stimo chiedendogli aiuto… si chiama Salvatore Mangione…

FAVA, Presidente della Commissione. Non ha provato a chiamare il suo capo scorta Santostefano?

PROTO: No no.

FAVA, Presidente della Commissione. E nessuno vi ha chiamato?

PROTO: No.

FAVA, Presidente della Commissione. Non è insolito? Nessuno vi chiama per sapere se siete ancora vivi?

PROTO: Io non l’ho chiesto (a Santostefano), non gliel’ho mai chiesto…

Abbastanza confusa anche la ricostruzione dei movimenti di Granata, che era alla guida del SUV di Manganaro, subito dopo l’agguato. Interrogato dai PM il 3 maggio 2017, Granata ricorda di essere sceso dall’auto per sparare, di essere poi tornato indietro per far manovra con il Suzuki e di essere di nuovo sceso dal SUV dirigendosi verso il bosco.

GRANATA: Io stavo scendendo (dall’auto)... Poi mi ha urlato Manganaro: “Dove cazzo stai andando? Torna indietro! Gira la macchina che dobbiamo mettere in salvo il presidente!”, quindi, siccome, mi sembra, le chiavi ce l’avevo… perché la jeep funzionava con la chiave che si appoggia lì vicino, cioè, col sensore…

P.M. DI GIORGIO: E perché non ha guidato lei? Dico, visto che ha fatto la manovra perché non…

GRANATA: Perché mi ha detto: “gira la macchina”, io ho preso, ho girato la macchina e me ne sono sceso dalla macchina. Immaginando che, va, comunque la scorta… dico, sempre questioni di secondi, in quel panico…

Il caposcorta lontano dallo scortato. La Repubblica il 25 dicembre 2019. Un'altra decisione non del tutto condivisibile è la scelta di Santostefano e del vicequestore aggiunto Manganaro di portare Antoci a bordo del suv di Manganaro non verso un centro abitato ma in un vicino rifugio del parco, il “Casello Muto”, pur non sapendo nulla sulle intenzioni degli assalitori (quanti erano? Quanto armati e determinati? Ormai in fuga o ancora nascosti nel bosco?). Questa la spiegazione di Santostefano alla Commissione Antimafia:

ASSENZA, componente della Commissione: La decisione di andare al rifugio l’ha presa lei o l’ha presa Manganaro?

SANTOSTEFANO: Io.

ASSENZA, componente della Commissione: Anche se Manganaro è un suo superiore, in quell’occasione è lei che decide, se non ricordo male le regole…

SANTOSTEFANO: Certo.

ASSENZA, componente della Commissione: (La decisione) di farlo salire sul fuoristrada, che evidentemente non era una macchina blindata, l’ha presa lei?

SANTOSTEFANO: Sì… perché non conoscevo le condizioni del veicolo che era stato colpito, cioè il nostro. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Lei mi conferma che il serbatoio delle auto blindate è una delle parti più protette?

SANTOSTEFANO: Non lo posso confermare, non sono un tecnico…

FAVA, Presidente della Commissione: Mi scusi, ci ha detto che ha cominciato a fare questo lavoro negli anni ’90, quindi ha un’esperienza più che ventennale. Per cui le saprà qual è il grado di resistenza di un’auto blindata nel momento in cui la carrozzeria non viene perforata, sarà in condizione di sapere se l’auto può essere ancora utilizzata o è un’auto che rischia di procurare danni peggiori.

SANTOSTEFANO: Sì, per carità una cosa è la teoria, una cosa è la pratica…

FAVA, Presidente della Commissione: Stiamo cercando di capire, proprio sul piano della pratica, come sia possibile che si decida di abbandonare l’unica garanzia, cioè un’auto blindata che offre, come ha offerto in quel caso, protezione fisica (alla personalità), per scegliere un’auto non blindata, con persone armate con intenzioni omicide che sono nel bosco… con l’esperienza che ha lei sull’auto blindata e sul fatto che un’auto blindata, come ci insegna purtroppo l’esperienza di questi trent’anni di mafia in Sicilia, o si fa saltare in aria o è difficile che possa essere fermata… perché si abbandona l’auto blindata?

SANTOSTEFANO: Comprendo perfettamente quello che dice lei… Presidente, io penso una cosa: l’auto è stata colpita, non so che danni ha… se è marciante o meno nelle gomme… le gomme non sono antiproiettili… Perché io ho deciso… ho accordato… il dottore mi ha detto “dobbiamo portarcelo via da qua”.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Manganaro le dice di portarlo via. Lei dice sì e scegliete di utilizzare il Suzuki… ma chi decide di portarlo al rifugio?

SANTOSTEFANO: Io!

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Lei questo rifugio lo conosceva?

SANTOSTEFANO: Certo, io c’ero già andato altre volte… perché comunque se n’è parlato di ‘sto rifugio, anche nei giornali…

D’AGOSTINO, componente della Commissione: E Manganaro non sapeva che c’era questo rifugio?

SANTOSTEFANO: Manganaro certo che lo conosceva pure lui, è normale.

Che il rifugio quella notte fosse sorvegliato da personale armato del Parco è invece una circostanza che Manganaro - così ci riferisce in Commissione – ignorava.

D’AGOSTINO, componente della Commissione: Questo “Casello Muto”, peraltro a totale conoscenza di tutti che fosse vigilato…

MANGANARO: Non mia onorevole… io non ero mai entrato…

Dopo essere arrivati a bordo del suv al “Casello Muto” ed aver svegliato il personale di sorveglianza, Santostefano si allontanerà per raggiungere i colleghi Proto e Granata sul luogo dell’attentato, lasciando Antoci in compagnia del vicequestore aggiunto Manganaro. Per la seconda volta, nel corso della stessa serata, il caposcorta si separa dalla personalità della cui sicurezza è responsabile. La Commissione ha provato a ricostruire le ragioni di questo comportamento, non certo consueto.

SANTOSTEFANO: Sono arrivato al Rifugio del Parco e il corpo di vigilanza ci ha aperto, hanno appreso la notizia… li abbiamo fatti entrare dentro, il dottor Manganaro e il presidente Antoci… subito il tempo di sganciare loro sono risceso…

ASSENZA, componente della Commissione: È normale che essendo rimasto nell’auto blindata uno della scorta, l’altro lo accompagni nel rifugio e poi lascia la personalità scortata, sia pure in sicurezza con altri?

SANTOSTEFANO: In quel contesto bisogna darsi da fare più possibile, per cercare di evitare…

ASSENZA, componente della Commissione: Di evitare che cosa?

SANTOSTEFANO: La personalità era al sicuro. C’era un mio funzionario di polizia. C’era polizia del parco…

ASSENZA, componente della Commissione: E lei da capo scorta lo poteva lasciare senza nessun un altro componente della scorta?

SANTOSTEFANO: Avevo dei componenti la sotto che non sapevo le condizioni… (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Perché Santostefano lascia, ed è la seconda volta che accade nella serata, la personalità scortata per andare di nuovo sul posto della sparatoria?

MANGANARO: Eravamo dentro un mega rifugio con la vigilanza armata… la personalità era al sicuro, presuppongo che è andato a dare manforte giù ai ragazzi… non mi ricordo, non ci penso…

FAVA, Presidente della Commissione: Però converrà sul fatto che c’era una modalità strana nei confronti del dottor Antoci quella sera…

MANGANARO: Sono d’accordo pienamente con lei presidente, ma sono momenti di concitazione… La Suzuki Vitara, così si legge nel verbale di sopralluogo, verrà posteggiata “subito dopo” l’auto blindata di Antoci.

Nel corso di quella notte, i primissimi rilievi - di fatto – non verranno effettuati sullo stato delle cose al momento dell’attentato: i massi sono stati ormai spostati e l’autovettura di Manganaro è in una posizione diversa rispetto a dove si era arrestata al momento dell’agguato.

Nel bosco altri colpi di fucile. La Repubblica il 26 dicembre 2019. Un ultimo dettaglio, rimasto ai margini dell’indagine (e di cui non si dà particolare rilievo nella richiesta di archiviazione né nel successivo decreto): i colpi di fucile che Giuseppe Antoci sente provenire dal bosco una volta arrivato al Casello Muto, diversi minuti dopo l’agguato. È proprio Antoci a parlarne per la prima volta (testimonianza nel processo R.G. 2069/18 dinanzi al Tribunale di Catania, pag.13): Antoci: C’è una struttura del Parco, a quasi due chilometri, dove sono stato portato, lì accade un ulteriore fatto che ci mise molto in fibrillazione, che mentre eravamo tutti là, erano arrivati anche i rinforzi, sentimmo altri due colpi di fucile, e ci preoccupammo delle persone che erano rimaste invece sulla strada… Non abbiamo capito come mai alle due e mezza di notte…Nessun elemento di plausibilità, su quelle fucilate, arriva dagli altri protagonisti di quella notte o dall’autorità giudiziaria.

FAVA, Presidente della Commissione: E dei colpi di fucile che sentite dal Casello Muto?

MANGANARO: Ma li sentiamo dopo non mi ricordo quando… quanti erano? Uno-due-tre… Non me lo ricordo…(…)

FAVA, Presidente della Commissione: Lei non ha sentito?

SANTOSTEFANO: no, io non mi ricordo…(…)

PROTO: Successivamente, mi arriva una telefonata… ma quando già c’erano molti colleghi… non mi ricordo se fosse il sovrintendente Todaro… “tutto a posto lì? Avete sparato voi?”  io dico: “no, adesso no” perché avevano sentito altri colpi, però li avevano sentiti dalla postazione di Casello Muto. Io da lì sotto non li ho uditi, chiedendo anche agli altri.(…)

P.M. DI GIORGIO: Dopo che Antoci va via al “casello Muto”, lei ha sentito altre esplosioni?

GRANATA: No.

P.M. DI GIORGIO: Quando quindi eravate solo lei e Proto sulla zona dell’agguato?

GRANATA: Infatti… mi sembra che ha chiamato me il dottore Manganaro gridando: “Ma stanno sparando ancora?! Stanno sparando ancora?!”, gli ho detto: “No, qua non abbiamo sentito nulla, non c’è nulla…”. Basta. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: (I tre colpi, ndr) si ha difficoltà a riferirli a fatti specifici…

CUCCHIARA: A qualche cacciatore probabilmente. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Era aperta la stagione della caccia? C’è la possibilità di cacciare nel parco?

LO PORTO: No, nel parco no.

FAVA, Presidente della Commissione: Se si ascoltano nella notte delle fucilate, possono essere cacciatori di frodo?

LO PORTO: I cacciatori di frodo usano fucili di piccolo calibro che fanno poco rumore. (…)

PROCURATORE CAVALLO: Su quelle fucilate ci furono versioni contrastanti e no, non ci siamo dati una spiegazione. Non siamo stati in grado neanche di capire se ci fossero state o meno.

A quanto pare, però, ad udire le fucilate – oggi, addirittura, messe in discussione – non furono solamente il presidente Antoci ed il dottor Manganaro (e le guardie di Casello Muto!). Secondo le testimonianze dei nostri auditi le avrebbe sentite anche un altro poliziotto, il sovrintendente Todaro, il responsabile di P.G. del commissariato di Sant’Agata di Militello. Ma anche su questo punto, le ricostruzioni non sono del tutto nitide.

Le vittime che indagano su loro stessi. La Repubblica il 27 dicembre 2019. Le indagini sull’agguato vengono affidate, dalla Procura di Messina, alla squadra mobile e al Commissariato di Sant’Agata di Militello (nel quale lavorano tutti i soggetti “offesi” nell’agguato del 17 maggio: il vicequestore aggiunto Manganaro, che ne è il dirigente, gli assistenti capo Granata, Santostefano e Proto). Come mai la scelta di coinvolgere in prima battuta, sul piano investigativo, proprio quel commissariato? Questa in Commissione la versione del dottor Anzalone, allora dirigente della squadra mobile di Messina:

ANZALONE: Fu una codelega. Ricordo che fu oggetto di discussione la partecipazione (o meno) del personale del Commissariato, compreso il Dirigente, alle indagini, e con i magistrati fu ritenuto che in quella fase il patrimonio informativo cui era in possesso il Dirigente del Commissariato e il personale della Sezione Investigativa poteva essere utile alla prosecuzione delle indagini.

FAVA, Presidente della Commissione: Ma non era inconsueto che a indagare fossero proprio le vittime dell’attentato?

ANZALONE: Certo, è stato oggetto di riflessione da un punto di vista emotivo (…) Questa è stata una valutazione decisa con i magistrati della distrettuale.

Identica domanda, sull’opportunità di codelegare le indagini ad agenti coinvolti nell’agguato, è stata posta anche all’allora questore di Messina, dottor Cucchiara:

CUCCHIARA: Presidente, è una domanda che andrebbe posta all’Autorità Giudiziaria… Mi mette in difficoltà con questa domanda.

FAVA, Presidente della Commissione: Le chiedo allora se l’è capitato in altri casi.

CUCCHIARA: Raramente, forse mai.

Questa, invece, l’opinione dell’attuale Procuratore Generale di Messina, dottor Vincenzo Barbaro, che all’epoca aveva sostituito il dottor Lo Forte (andato in pensione nell’ottobre 2016) alla guida della Procura in qualità di facente funzione:

PROCURATORE GENERALE BARBARO: Io intervengo in una fase successiva quando le deleghe erano già state rilasciate. Posso dire, in base alla mia esperienza, se non vi sono motivi ostativi non vedo perché non bisogna fare impegnare nelle indagini le forze di polizia presenti sul territorio che magari hanno una conoscenza più approfondita dei luoghi, delle persone, sanno come orientare le indagini…

Una scelta alla quale, almeno così riferisce in Commissione, il vicequestore aggiunto Manganaro si sarebbe sottratto volentieri.

MANGANARO: Tenga presente che io davanti al Questore, al dirigente della mobile e al procuratore Lo Forte chiesi di non essere coinvolto nelle indagini perché avevo fatto riserva di costituirmi parte civile, quale parte offesa, in un eventuale procedimento penale…

DE LUCA, componente della Commissione: Lo disse o lo formalizzò?

MANGANARO: Lo dissi verbalmente: “tenetemi fuori dalle indagini” …

FAVA, Presidente della Commissione: È accaduto esattamente il contrario…

MANGANARO: Sì, loro ritenevano che noi potevamo essere gli unici conoscitori dei delitti e del territorio, e quindi ci hanno fatto una co-delega, e di conseguenza alzo le mani e mi metto sugli attenti, presidente…

Dunque, Manganaro “si mette sull’attenti” e tocca al commissariato di Sant’Agata di Militello, congiuntamente alla squadra mobile di Messina, la responsabilità di condurre fin dall’inizio le indagini su un episodio che, stando alle dichiarazioni raccolte da un investigatore rimasto anonimo (vd. capitolo “I fatti”, pag 7 ss.), appariva come un “attacco da guerriglia civile” con scene da “terrorismo mafioso”. Ma com’è possibile che di fronte ad un attentato che lo stesso Antoci descrive come “uno degli attentati più studiati nella storia degli attentati di mafia, non ce n’è uno di più…”, si affidi l’indagine soltanto alla squadra mobile di Messina e a un commissariato di zona? Come se dopo il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone la delega alle indagini fosse stata affidata al commissariato palermitano di Mondello. Perché non vengono coinvolti nell’indagine gli organi centrali della Polizia di Stato?

Spiega l’ex questore Cucchiara:

CUCCHIARA: La squadra mobile sicuramente ha informato lo SCO… Escluderei che abbia partecipato all’attività d’indagine, soprattutto nella prima fase…

FAVA, Presidente della Commissione: Come è possibile, per un episodio di questo tipo, che non ci sia nessun intervento diretto operativo da parte del Viminale e degli organi centrali?

CUCCHIARA: Evidentemente la squadra mobile ritenne di avere forze sufficienti ed esperienza sufficiente per affrontare la parte investigativa e non si ritenne necessario l’intervento di organi centrali.

FAVA, Presidente della Commissione: Quello che non riusciamo a capire è come mai da Roma, di fronte ad un fatto così eclatante, ci si limiti a dire “occupatevene voi”.

CUCCHIARA: Non sono in grado di rispondere, domanda che forse andrebbe fatta al capo della squadra mobile. (…) Io mi sono sempre preoccupato da questore, quindi non potendo più fare indagini – come voi ben sapete il questore non è un ufficiale di polizia giudiziaria –, a dire sempre al mio capo di squadra mobile “cosa posso fare per aiutarti? Cosa ti serve per fare le indagini?”.

Di diversa opinione il dottor Ceraolo, all’epoca dei fatti dirigente del commissariato di Barcellona (tratteremo della sua audizione più diffusamente in seguito):

AVV. CERAOLO. Inizialmente l’indagine è andata a senso unico quindi andando a senso unico, si è basata sulle relazioni di servizio che ha fatto Manganaro. Leggiamo dalla richiesta di archiviazione che Manganaro ha fatto diverse relazioni di servizio indirizzando i sospetti su queste 14 persone… Mi sorprende molto che in questa vicenda non ci sia stato un maggior coinvolgimento di organismi investigativi di alto livello… Io ritengo che i ROS dei Carabinieri che avevano delle attività in corso, i RIS dei Carabinieri, la Polizia scientifica, lo SCO, dovevano intervenire anche a livelli centrali da Roma… Considerate che vi è una prassi che è stata violata in maniera aperta nella circostanza, che è quella di allertare - quando succede un fatto così grave - tutti gli uffici territoriali… La Polizia scientifica dirà: “gli attentatori senza adeguati sistemi di illuminazione avrebbero avuto difficoltà ad allontanarsi nel bosco”. Dove sono gli attentatori? Dove sono scappati? Per uscire da quel bosco ci vogliono ore… Ci sono altri aspetti che impongono la prassi di avvisare gli altri. Fare posti di blocco. In quel caso - come si dice - si esce tutti fuori! …il Commissariato vicino di Capo d’Orlando, il posto fisso di Tortorici, il Commissariato di Milazzo, la Squadra mobile di Messina, le volanti di Messina, i Carabinieri, i ROS, le stazioni territoriali… Qui bisognava uscire tutti! C’è stata una tentata strage, non si deve muovere nulla, si iniziavano a fare le perquisizioni, si incominciavano a fare i tampokit… Tutta questa attività è assolutamente mancata nella fase iniziale. I sopralluoghi all’interno del bosco andavano fatti subito alla ricerca di tracce importanti a largo raggio. Ho sentito che Antoci ha dichiarato: “poi le trazzere, lì vicino… c’erano i fuoristrada, se ne sono andati e arrivano fino a Catania.” Ma non esiste! Se erano mafiosi di Cesarò, così come sono stati indiziati, per rientrare a Cesarò attraverso le trazzere, perché la strada statale dove c’erano loro è l’unica strada asfaltata, 27 chilometri attraverso le trazzere… ci vorranno due o tre ore. La mafia quando organizza un attentato pensa a garantirsi l’impunità, non vanno lì in un posto dove nessuno di loro poteva salvarsi. Con un intervento massiccio di forze di polizia, anche a distanza di venti minuti, di mezz’ora, dal bosco non usciva assolutamente nessuno!

Questo, infine, il commento del dottor Anzalone:

ANZALONE, già Capo della Squadra mobile della Questura di Messina. Il Servizio centrale operativo ritenne di mandarci una squadra di tecnici…

FAVA, presidente della Commissione. Tecnici che si dedicarono soltanto alle ricostruzioni dei tabulati telefonici?

ANZALONE, già Capo della Squadra mobile della Questura di Messina. Tre sicuramente… sono specialisti e quindi sono in grado di analizzare il traffico di cella…

In sostanza il Servizio Centrale Operativo intervenne solo ed esclusivamente con riferimento ad un frammento delle indagini, ossia quello relativo alla ricostruzione del traffico telefonico nella zona interessata all’agguato.

Ceraolo: “Fonti dicevano che era politica..” La Repubblica il 27 dicembre 2019. Tra i protagonisti delle prime indagini, sia pure in modo incidentale, c’è senz’altro il dottor Ceraolo, all’epoca dei fatti dirigente del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto. A lui, per l’esperienza acquisita nelle indagini sul territorio e per la stima riposta nei suoi confronti, il procuratore Lo Forte affida un approfondimento “informale” sull’attentato ad Antoci. Questa la ricostruzione del dottor Ceraolo, ascoltato in Commissione Antimafia:

AVV. CERAOLO: Il 25 maggio 2016 si tiene la conferenza stampa in Questura con la presenza del procuratore capo della distrettuale di Messina, il dottor Guido Lo Forte, alla presenza dei magistrati che avevano coordinato le indagini, il dottore Vito Di Giorgio e il dottor Angelo Cavallo. Il dottore Lo Forte usava, prima di entrare in conferenza stampa, fare un briefing nella stanza del Questore. Quindi in quella stanza c’eravamo io, il questore (Cucchiara), il procuratore Lo Forte e i due sostituti della DDA, Di Giorgio e Cavallo (…) L’argomento principale in quei giorni era l’attentato ad Antoci che si era verificato una settimana prima, il 18 maggio… In quell’occasione, come usava fare e come ha fatto in più occasioni, il procuratore Lo Forte ha detto rivolgendosi a me e al Questore che era vicino a me “vediamo se il dottore Ceraolo come al solito ci può illuminare su questa vicenda magari attivando le sue fonti…”.

FAVA, Presidente della Commissione: Questa richiesta arriva dal procuratore Lo Forte passando attraverso il Questore o il Questore l’apprende in quel momento.

AVV. CERAOLO: Il Questore l’apprende in quel momento. Infatti io mi rivolgo per un fatto di rispetto e di gerarchia al Questore, che è il mio capo ufficio, e dico: “Signor Questore, se lei lo ritiene…”. Poi mi giro verso il dottore Lo Forte e dico: “Se il Questore è d’accordo, io attiverò le mie fonti come ho sempre fatto”.

FAVA, Presidente della Commissione: E il Questore fu d’accordo?

AVV. CERAOLO: Assolutamente. Il Questore fu d’accordo.

L’indagine del vicequestore aggiunto Ceraolo non sortisce comunque conferme su un possibile movente mafioso.

AVV. CERAOLO. Io contattai diverse fonti su due piani: un piano Cosa nostra per capire se Cosa Nostra barcellonese che secondo me, secondo la mia esperienza trentennale in materia di mafia avrebbe dovuto sapere che in un territorio comunque controllato… si sarebbe commesso un fatto così grave che avrebbe determinato delle conseguenze nella reazione dello Stato sulle loro attività illecite. Fu negativo nel senso che nell’ambiente mafioso barcellonese non si sapeva nulla di questo attentato. Dopodiché sono entrato più nello specifico contattando delle fonti che io avevo acquisito nel corso anche dell’attività precedente svolta sui Nebrodi, Montalbano Elicona, ma io mi sono attivato anche su Tortorici… Cesarò e San Fratello. Io poi riferii in merito all’esito di questi miei accertamenti che sono tutti, come sempre accadeva, su base informale…

FAVA, Presidente della Commissione: Quindi riferì non per iscritto?

AVV. CERAOLO. Non per iscritto. Ho riferito al dottor Di Giorgio e al dottore Cavallo dicendo: “Guardate, fermo restando la possibilità che c’è sempre di depistaggi… mi dicono che la mafia non c’entra nulla con questo attentato, esattamente mi dicono è una “babbarìa” quasi con il sorriso, è una "babbarìa", questa è una cosa della politica, è stata la politica, è una cosa della politica”.

FAVA, Presidente della Commissione: Ecco mi scusi “questa è una babbarìa” le è stato riferito da qualcuno tra le sue fonti o era un sentire comune di tutti quelli che lei…

AVV. CERAOLO. No, tutti dicevano la stessa cosa.

FAVA, Presidente della Commissione: E tutti dicevano: "É la politica"?

AVV. CERAOLO. La politica, se lo sono fatti loro, è la politica. Dicevano tutti la stessa identica cosa.

FAVA, Presidente della Commissione: Tra le fonti che lei ha compulsato, a parte fonti interne all’organizzazione mafiosa, ci sono state anche fonti esterne al circuito della criminalità organizzata? Per esempio interna ad altre forze dell’ordine, ad altri corpi di polizia, anche fuori dalla Sicilia?

AVV. CERAOLO. Posso dire che sul punto io non ho cercato delle fonti esterne a quelle mafiose… Nell’ambiente delle Forze di polizia vi erano molte perplessità sull’attentato dal punto di vista proprio logico del succedersi degli eventi, di come si era verificato…

FAVA, Presidente della Commissione: Ed erano dubbi che lei ha raccolto soltanto in ambito locale?

AVV. CERAOLO. Anche fuori della Sicilia, nell’ambiente delle Forze di polizia fuori dalla Sicilia. (…)

AVV. CERAOLO. Il dottore Di Giorgio e il dottore Cavallo (i PM responsabili dell’indagine, ndr) mi chiedevano continuamente quale era il mio parere, qual era la mia ricostruzione del fatto sulla base, però, degli elementi di cui io ero in possesso… altri elementi che mi fornivano loro… In quelle occasioni c’era uno scambio, io fornivo il mio parere in maniera obiettiva su ciò che mi si poneva… In queste occasioni si è parlato delle fonti e io ho fornito quello che era, come dire, il mio parere da memoria storica della lotta alla criminalità organizzata non soltanto in provincia di Messina… Io ho percepito questo. Loro avevano delle perplessità su diversi fatti…

FAVA, Presidente della Commissione. ‘Loro’ è la DDA di Messina?

AVV. CERAOLO. Il dottore Di Giorgio e il dottore Cavallo con i quali io avevo un confronto quotidiano… A mio avviso, ma questa è una mia percezione perché non me lo hanno detto espressamente, con questo continuo chiedere il mio parere nonostante io non facessi parte delle indagini ufficialmente…

FAVA, Presidente della Commissione. Mi scusi, per nostra chiarezza: da una parte c’è il Procuratore della Repubblica che le chiede di svolgere questa attività di intelligence, sostanziale e informale al tempo stesso; contemporaneamente anche la DDA, in modo altrettanto informale, mi pare di capire, le sottopone alcuni elementi di perplessità per capire qual è la sua opinione.

AVV. CERAOLO. Io li ho percepiti come perplessità…

FAVA, Presidente della Commissione. Lei riferiva per iscritto in questo caso?

AVV. CERAOLO. No, era un confronto assolutamente verbale in ufficio; mentre parlavamo di altro… però… a partire dal maggio 2016, ad ogni occasione di incontro si parlava di questa vicenda.

Dunque Ceraolo ricostruisce a più riprese, anche con i PM, gli esiti di una sua indagine informale (sollecitata dall’allora procuratore Lo Forte), asserendo che fonti confidenziali smentivano la matrice mafiosa e insinuavano che non si sarebbe trattato nemmeno di un attentato ma di una “messinscena”: una “babbarìa della politica”.

Le versioni inconciliabili sulle indagini. La Repubblica il 29 dicembre 2019. Di tenore diverso il ricordo che il dottor Cavallo, oggi Procuratore di Patti, ha consegnato a questa Commissione.

PROCURATORE CAVALLO: A me non risulta assolutamente. A parte che non è nello stile di alcuna procura dare incarichi informali. Potrebbe essere successo… che il procuratore Lo Forte abbia fatto qualche battuta dicendo: “Dottor Ceraolo ma tu cosa sai di questa storia? Sai qualcosa?” ma da qui a dire che ci sia stato un incarico, anche informale, ce ne corre veramente…

FAVA, Presidente della Commissione: Ma lei era presente?

PROCURATORE CAVALLO: Francamente non lo ricordo. Non escludo che, come tante volte succede, in quei minuti in cui si prende il caffè prima della conferenza stampa, ovviamente ci sono tutte le persone che hanno partecipato alle indagini, compreso il dottore Ceraolo, potrebbe anche essere che Lo Forte abbia fatto una battuta di questo tipo. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Il dottor Ceraolo, tra le altre cose, riferisce: “il dottore Di Giorgio e il dottore Cavallo mi chiedevano continuamente quale era il mio parere, qual era la mia ricostruzione del fatto… Loro avevano delle perplessità su diversi fatti…”

PROCURATORE CAVALLO: Falso! Assolutamente falso… Io assolutamente non ho mai chiesto alcun consiglio al dottore Ceraolo nè tantomeno Di Giorgio…

FAVA, Presidente della Commissione: Più che consigli Ceraolo parla di “pareri”.

PROCURATORE CAVALLO: Non è nel nostro stile chiedere pareri a un personaggio che sicuramente era titolato… aveva fatto anche delle buone indagini con noi su Barcellona…  ma che innanzitutto avrebbe dovuto spaziare in una zona che non era di sua stretta competenza… Il primo contatto che io ho con Ceraolo, insieme a Di Giorgio, è quel famoso…

FAVA, Presidente della Commissione: 12 aprile 2017!

PROCURATORE CAVALLO: … quel giorno il dottore Ceraolo venne per salutarci perché stava andando in pensione… fui io, nella stanza di Di Giorgio, proprio a mo’ di battuta, incuriosito, a dire per la prima volta, ripeto, al dottore Ceraolo: “ma lei che idea si è fatta su questa storia?”. In quel momento il dottore Ceraolo ci disse: “io veramente ho avuto una telefonata con Granata e mi ha detto come sono andati i fatti…”. Al che noi, sia io che Di Giorgio, rimanemmo stupiti… Gli chiedemmo di redigere un’annotazione cosa che lui fece senz’altro… ricordo che all’inizio aveva anche un po’ di timore, perché disse che in quel caso immaginava che sarebbe andato incontro a delle precise reazioni da parte dei controinteressati… noi gli chiedemmo comunque di fare il suo dovere, devo dire che lui lo fece immediatamente, si mise a disposizione, fece l’annotazione… dopodiché immediatamente lo sentimmo…

Due versioni inconciliabili: “ad ogni occasione di incontro si parlava di questa vicenda”, dice il dottor Ceraolo; “io non ho mai chiesto nessuno consiglio a Ceraolo”, afferma invece il procuratore Cavallo. Sul punto, comunque, il dottor Ceraolo ha tenuto ferma la propria ricostruzione aggiungendo altri dettagli nel corso della sua seconda audizione:

CERAOLO: Io non ho ricevuto una delega d’indagine formale, scritta… Alla presenza del dottore Cavallo, del dottore Di Giorgio e del questore Cucchiara, il dottore Lo Forte disse espressamente, come aveva detto anche in altre occasioni e per altre vicende: “vediamo se il dottore Ceraolo, come al solito, ci può illuminare contattando le sue fonti”. Io mi sono rivolto verso il questore, ho detto: “se il signor questore acconsente”, il questore ha fatto un cenno di assenso ed io ho detto: “va bene, mi attiverò in questo senso”… Siccome io venivo da un’esperienza ultra-decennale nel territorio dei Nebrodi, in tantissime altre occasioni - per primo il dottor Cavallo, così come il dottor Di Giorgio, così come il dottor Monaco, così come altri procuratori di Patti o Barcellona, in confronti che avevamo a livello quotidiano - c’era uno scambio di informazioni e chiedevano dei pareri basati sulla mia esperienza…

FAVA, Presidente della Commissione: Però in questo caso c’è stata una sollecitazione del dottor Lo Forte?

CERAOLO: Esattamente, c’è stata una sollecitazione, ma il dottore Lo Forte lo aveva fatto in tantissime altre occasioni…

FAVA, Presidente della Commissione: Lo aveva fatto con lei?

CERAOLO: Con me! Il dottore Lo Forte in altre situazioni poi, ad esempio, mi aveva richiesto delle relazioni che io ho fatto e che ho consegnato direttamente al Procuratore… Mi diceva: “lei cosa sa su questa persona” ed io riferivo verbalmente… in alcuni casi mi ha detto: “mi può fare una relazione?” e io facevo la relazione…

FAVA, Presidente della Commissione: In questo caso lei riferì soltanto verbalmente?

CERAOLO: Sì… io ho riferito proprio al dottore Cavallo e al dottore Di Giorgio: “in merito a quella situazione, io ho contatto alcune fonti e mi hanno detto questo”.

FAVA, Presidente della Commissione: Chiese lei di parlare con loro?

CERAOLO: No, no… ma guardi, noi ci vedevamo tutti i giorni. Io sono stato a Barcellona sette anni, dal 2010 all’ottobre 2017. Noi avevamo incontri con la D.D.A quotidiani…

FAVA, Presidente della Commissione: Su questo incontro di cui le ci ha riferito, il dottor Cavallo lo ricorda così: «quel giorno il dottore Ceraolo venne per salutarci perché stava andando in pensione… fui io nella stanza di Di Giorgio, proprio a mo’ di battuta incuriosito, a dire per la prima volta, ripeto, al dottore Ceraolo: “ma lei che idea si è fatta su questa storia?”…

CERAOLO: Il dottore Cavallo ricorda assolutamente male! Primo: non sono andato a salutare perché andavo in pensione, neanche sapevo del pensionamento a quella data, aprile 2017, cosa che poi accadrà, alla luce di una serie di eventi, nell’ottobre 2017… Il 10 aprile 2017 al Teatro Vittorio Emanuele alla fine della festa della Polizia di Stato, mi avvicinarono il dottore Di Giorgio e il dottor Cavallo dicendo: “dottore, se può passare dalla DDA perché vorremmo formalizzare quelle cose che ci siamo detti con particolare riferimento alle conversazioni che lei ha avuto con l’assistente Granata e con il dottor Manganaro”. Ed io il 12 aprile, su loro richiesta, sono andato alla D.D.A., ho depositato una relazione scritta su richiesta loro e poi mi hanno sentito.  Quindi non c’è stato un saluto per il pensionamento, non è assolutamente vero. Noi da un anno che parlavamo dell’attentato… Mi venne chiesta una ricostruzione del fatto e mi sottoposero anche il fascicolo delle indagini… mi stesero sul tavolo, mi ricordo, una sorta di planimetria, piuttosto grande, dove c’era la collazione dei bossoli e mi chiesero alla luce della mia esperienza come si poteva ricostruire questo fatto e io dissi la mia…

FAVA, Presidente della Commissione: Tutto questo, mi scusi, più o meno quanto tempo dopo l’attentato?

CERAOLO: Nel corso di quell’anno.

FAVA: In più occasioni?

CERAOLO: In più occasioni. Quasi tutti i giorni noi ci vedevamo… Io depositavo informative per centinaia di pagine su Barcellona. Queste conversazioni erano all’ordine del giorno su questa vicenda…

FAVA, Presidente della Commissione: Il dottor Cavallo dice: “Non ho mai chiesto alcun consiglio al dottor Ceraolo”.

CERAOLO: Non è assolutamente vero, mi dispiace per il dottore Cavallo per il quale ho una grande stima… Ricorda male, non posso dire altro. (…) Io ricordo che la prima domanda che mi venne posta fu se esisteva una scorciatoia sulla strada che collega Cesarò con San Fratello. L’attentato si verifica sulla strada statale 289, sono 35 chilometri di strada che collegano il comune collinare di Cesarò fino ad arrivare appunto a San Fratello. È una strada totalmente disabitata soprattutto ovviamente di notte, non passano delle macchine e attraversa quasi interamente il bosco di San Fratello… Io conoscendo il luogo ho detto: “no, a me non risulta che ci siano delle scorciatoie”, nel senso che partendo da Cesarò, è vero, si possono seguire due strade per un breve tratto di alcuni chilometri ma ai fini dei tempi sono assolutamente equivalenti.

FAVA, Presidente della Commissione. Quale era la ragione di questa domanda?

AVV. CERAOLO. La ragione della domanda era collegata al fatto che da quello che io ho appreso in quel momento, quella sera da Cesarò la macchina blindata con Antoci e i due della scorta cioè Proto autista e Santostefano caposcorta, parti all’una e trenta dal comune di Cesarò e invece Manganaro con l’assistente Granata che era su un’altra macchina partì dieci minuti dopo. Sembrerebbe - almeno adesso io ho avuto modo di leggere la richiesta di archiviazione, questi sono i fatti - che Manganaro e Granata abbiano detto di aver fatto una scorciatoia che gli ha consentito di recuperare quei dieci minuti. Io dissi che quella scorciatoia non c’era perché non c’è… ma in ogni caso partendo dieci minuti dopo è impossibile raggiungere una macchina blindata… per il semplice motivo che non siamo sull’autostrada dove uno va a cento e l’altro a 200 e recupera, lì sono strade come voi sapete interamente di salita prima poi discesa, una serie di tornanti e di curve. La blindata ha l’obbligo per regolamento di andare a velocità anche superiore a quella consentita dal codice della strada… L’attentato è all’1 e 55, dopo 25 minuti dalla partenza… in 25 minuti secondo me oggettivamente è impossibile recuperare dieci minuti di ritardo. (…)

AVV. CERAOLO: …Mi venne chiesto sui colpi…. Ricordo la foto che c’era su internet della macchina con i tre fori delle fucilate e io dissi da subito, mi dispiace dirlo… ma c’è differenza rispetto a quello che invece mi raccontò Manganaro in una conversazione che abbiamo avuto... Io dissi subito ai magistrati Di Giorgio e Cavallo che guardando soltanto la foto chiunque capirebbe che ha sparato una persona in piedi dietro la macchina in posizione leggermente obliqua… il piombo colpisce la blindata, scivola e va a gonfiare il piantone un po’ più avanti, quindi certamente hanno sparato da dietro in posizione leggermente obliqua, dall’alto verso il basso e ha sparato un fucile semiautomatico perché ha sparato tre colpi in rapida successione mettendoli in 20 centimetri, mentre invece il dottor Manganaro nel corso della telefonata… mi disse che sul posto aveva visto almeno due che sparavano, travisati, con la mimetica e che lui arriva al momento dell’esplosione dei colpi e che questi soggetti si trovavano sotto un muretto a sinistra della carreggiata nel luogo dove sono state rinvenute due bottiglie molotov. Quindi io ho detto che secondo me invece la persona che ha sparato era ai margini della strada, sull’asfalto sopra, o comunque appena fuori, ha sparato obliquamente dall’alto verso il basso, quindi non poteva essere sotto un muretto perché i colpi sarebbero stati dal basso verso l’alto e in maniera, come dire, perpendicolare alla macchina… Ventuno mesi dopo, mi dispiace dirlo, la Scientifica mi ha dato ragione…

Due commissari contro per un giallo. La Repubblica il 30 dicembre 2019. È proprio questo il punto dirimente nella ricostruzione che Ceraolo fa ai PM: le telefonate che ebbe, subito dopo l’agguato, con l’assistente Tiziano Granata (al quale era legato da un rapporto di parentela e di amicizia) e con il vicequestore aggiunto Manganaro.

AVV. CERAOLO: Conosco ovviamente l’assistente Tiziano Granata che non c’è più in quanto è deceduto il primo marzo del 2018… Il papà di Tiziano Granata e mio fratello hanno sposato due sorelle. Quindi io l’ho visto crescere, lui in me aveva un punto di riferimento, da un punto di vista professionale per la mia esperienza nelle indagini in materia di mafia e criminalità organizzata… Con lui vi era un rapporto di stima reciproca. Ovviamente conosco Daniele Manganaro che ho conosciuto prima come agente perché Manganaro prima era un agente in servizio sulle volanti al Commissariato di Capo d’Orlando all’epoca in cui rivestiva anche il ruolo di consigliere comunale nel comune di Ficarra, vicino appunto a Capo d’Orlando. (…) Io chiamai ovviamente per esprimere solidarietà a Granata perché appunto abbiamo, avevamo perché lui non c’è più, questo rapporto molto confidenziale. In quell’occasione lui mi disse che (…) in fondo al rettilineo ha visto la macchina ferma con queste pietre davanti. A questo punto dice che Manganaro ha iniziato a sparare in direzione del bosco, a sinistra mentre lui (Granata) invece si impegnò a parcheggiare la macchina.

FAVA, Presidente della Commissione. Granata aveva visto o sentito qualcosa prima che Manganaro reagisse?

AVV. CERAOLO. No, questo è il punto. Il punto è che Granata nella conversazione che ha con me nell’immediatezza del fatto cioè il 19 maggio 2016, lui mi dice: “io non ho visto nessuno”. Testualmente.

FAVA, Presidente della Commissione. Torniamo al momento della sparatoria, arrivano alla macchina, convincono gli altri due poliziotti a scendere, Manganaro dice: “sparate in quella direzione”; poi accade, da quello che leggiamo, che prendono Antoci, lo caricano sull’auto non blindata e lo portano via. Giusto?

AVV. CERAOLO. Giusto. Assolutamente sì. Una scelta del tutto sconsiderata, in violazione di regolamento, a tutela della sicurezza della persona scortata e dei propri dipendenti di cui il dirigente è responsabile (…) perché lasciare la blindata perfettamente funzionante sul posto e fare salire la persona scortata su una macchina non blindata con il personale di polizia quasi del tutto disarmato…

FAVA, Presidente della Commissione. Granata e l’autista.

AVV. CERAOLO. Granata e l’autista restano sul posto, il caposcorta Santostefano con Manganaro prendono posto sulla macchina di Manganaro che non è blindata. Già questo è grave ma è ancora più grave che Manganaro a bordo è disarmato, lui dichiara: “ho esploso l’intero mio caricatore”. Quindi è disarmato. Nel momento in cui dicono che c’è un conflitto a fuoco ma non c’è stato perché il conflitto a fuoco significa che uno scambio di colpi che non c’è stato perché Manganaro dichiara: “ho sparato nel buio degli alberi”… Ma al di là di questo a me Manganaro dice che c’erano dieci o dodici persone: ancora più grave il fatto di mettere la persona scortata e il personale di polizia disarmato su una macchina non blindata… lasciando due agenti sulla strada, con la blindata perfettamente funzionante, quasi del tutto disarmati.

FAVA, Presidente della Commissione. Torniamo alla sua telefonata invece con Manganaro. Quanto tempo dopo l’episodio?

AVV. CERAOLO. È stato dopo pochissimi giorni. Io mi sono sentito con Manganaro e lui… mi parlò di un agguato mafioso che era stato deciso a livello regionale addirittura da Palermo.

FAVA, Presidente della Commissione. Le disse da dove traeva questo convincimento?

AVV. CERAOLO. No, ma già c’era stato un incontro. Il 2 dicembre 2015, sei mesi prima dell’attentato, Manganaro era venuto nel mio ufficio perché avevano ricevuto delle buste con alcune cartucce per pistola dentro, una indirizzata al Commissariato e una indirizzata alle guardie Parco del Parco dei Nebrodi. Poi si disse che era una minaccia per il Presidente Antoci e per il dottor Manganaro. (…)In pratica l’attentato si inserisce oggettivamente e temporalmente in un contesto di un’escalation di atti intimidatori che sono stati a mio avviso - come io dissi anche a Manganaro - atipici rispetto al modus operandi mafioso. E ai quali invece è stata data una esaltazione mediatica, secondo me sproporzionata, riconducendoli ad atti mafiosi.

FAVA, Presidente della Commissione. Qual era l’elemento atipico secondo lei?

AVV. CERAOLO. Benissimo. Il 2 dicembre 2015 mi chiedono un incontro Manganaro e Granata,  Granata in virtù di quel rapporto, di quella stima nei miei confronti e io li ricevo nel mio ufficio al Commissariato di Barcellona alle 9.30. Mi vengono a trovare per rappresentarmi - io lo apprendo da loro perché sulla stampa uscirà soltanto dopo circa quindici giorni - che a Palermo, alle Poste, avevano intercettato delle buste che contenevano delle cartucce, una indirizzata al Commissariato e una indirizzata al guardie Parco del Parco dei Nebrodi contenenti cinque cartucce per pistola, peraltro quelle in uso alle Forze di Polizia, ‘9 per 19’, e mi dissero nell’occasione che in precedenza, nel dicembre del 2014, era stata indirizzata al Presidente del Parco dei Nebrodi, Antoci, che era già Presidente dall’ottobre 2013, una busta con delle minacce dove c’era scritto: “Finirai scannatu, tu e Crocetta”. Di questo io avevo cognizione perché era uscita sul giornale. In pratica nella busta l’indirizzo era scritto al computer, il foglio poi era stato ritagliato e attaccato sulla busta e la minaccia era scritta ritagliando delle lettere. Nel corso di questo incontro che ho avuto con Manganaro ho detto: “Fate attenzione, allargate un po’ il vostro orizzonte investigativo su questa busta delle cartucce, su queste minacce che arrivano ad Antoci e a Crocetta perché la mafia non opera così”… Non ho mai visto il mafioso che si mette con la forbicina, sarebbe per lui un’onta, si vergognerebbe di una cosa del genere, con la forbicina a scrivere questa cosa. (…)

Quando invece io telefonai a Manganaro per esprimere la mia solidarietà, lui esordì dicendo: “Gli ho sparato addosso e li ho indotti a scappare”. Il commando era composto sicuramente da almeno dieci – dodici persone, abbiamo trovato delle cicche di sigarette che erano masticate, il che dimostra - mi disse - il particolare nervosismo degli attentatori e il fatto che erano lì da molto tempo ad attenderci perché erano masticate. Abbiamo trovato le bottiglie molotov perché volevano compiere una strage, volevano lanciarle ma avendo io sparato contro di loro, gli ho impedito di fare questo”. La telefonata si raffreddò, io notai, quando io chiesi: “Avete trovato bossoli sul posto che potevano ricondurci all’arma”? E lui mi disse di no, di non avere trovato i bossoli e mi disse: “Perché non lo sai? La doppietta non espelle i bossoli”. Io chiedo a Daniele: “scusa la doppietta? Ci sono tre colpi. Come fa la doppietta a sparare tre colpi?” “No, ma non sai come fanno tra di loro i mafiosi, magari per essere coinvolti tutti hanno sparato un colpo ciascuno, erano in tre.” Ho detto: “Ma come fanno a sparare tre colpi nello stesso punto essendo tre persone diverse. Mi sembra un po’ strano. Va bene, va bene”. Da lì ha chiuso i contatti con me sull’argomento ‘attentato’. Con me non ha più parlato. (…)

Perché dico l’importanza dei bossoli? Lì ha sparato un fucile semiautomatico, io l’ho detto il primo giorno guardando la foto e dopo 21 mesi lo ha attestato espressamente la Polizia scientifica. La Polizia scientifica dice le stesse parole che ho detto io il primo giorno: “ha sparato un uomo che era dietro la macchina in posizione obliqua, ha sparato con un fucile semiautomatico, in rapida successione, in posizione dall’alto verso il basso”. Ora, se il dottor Manganaro ha visto i soggetti sparare, questi erano nella posizione che dice la Polizia scientifica quindi non nel bosco, ma sulla strada, i bossoli quando li hanno raccolti? Come hanno fatto a fare sparire i bossoli? Se tutto è avvenuto sotto i suoi occhi… se l’unico che dice di aver visto gli attentatori è il dottor Manganaro... i bossoli dove sono? Se li ha visti nel momento in cui hanno sparato, i bossoli dove sono?

Manganaro versus Ceraolo, insomma. Due versioni, entrambe raccolte da questa Commissione, profondamente distanti tra loro.

FAVA, Presidente della Commissione: Nel suo interrogatorio il dottor Ceraolo dice di aver saputo da lei che il comando di fuoco sarebbe stato composto da più di dieci persone di provenienza catanese posizionata su entrambi i lati della carreggiata…

MANGANARO: Non l’ho mai detto…

DE LUCA, componente della Commissione: Con il dottor Ceraolo i rapporti erano tesi?

MANGANARO: Io non ho mai avuto rapporti con il commissario Ceraolo… mai! Diffidavo dal Ceraolo (…) Non ho mai avuto incontri se non una volta, qualche mese prima dell’attentato, dove si vociferava che Mario Ceraolo potesse andare a dirigere la squadra mobile di Vibo Valentia. In quel contesto Granata mi dice “andiamo a dare un’occhiata al commissariato”, perché la sede di Barcellona è una sede appetibile se uno ci vuole mettere impegno… Quindi passiamo dal commissariato, una visita brevissima, dove Granata chiede al collega un po’ di spiegazioni perché allora c’erano delle minacce, poi ci prendiamo un caffè e andiamo via. Quello è l’unico momento in cui si può dire che intrattengo rapporti con il dottore Ceraolo, poi non c’è nessun rapporto se non una telefonata dopo l’attentato ma di cinque secondi, dieci secondi, per solidarietà…

FAVA, Presidente della Commissione: Le volevo fare conoscere quanto, invece, ci dice il dottor Ceraolo a proposito del vostro primo incontro… sull’incontro del 2 dicembre 2015 “mi chiedono un incontro Manganaro e Granata… io li ricevo nel mio ufficio al Commissariato di Barcellona il 2 dicembre 2015 alle 9:30. Mi vengono a trovare per rappresentarmi… che a Palermo, alle Poste, avevano intercettato delle buste che contenevano delle cartucce, una indirizzata al Commissariato e una indirizzata alle guardie del Parco del Parco dei Nebrodi contenenti cinque cartucce per pistola…”. Cioè, quello che qui ci è stato riferito è che non è un incontro causale, che è stato chiesto da voi e che volevate con lui capire che atteggiamento tenere di fronte queste minacce…

MANGANARO: No presidente, io non ho chiesto nessun incontro, se l’abbia fatto Tiziano Granata a mia insaputa io alzo le mani… ma io con Ceraolo non ho chiesto nessun incontro in virtù di quello che io vi ho detto prima: Ceraolo è una persona che io sempre ho tenuto a debita distanza…

FAVA, Presidente della Commissione: Ma se doveva tenerlo a debita distanza perché si confronta con il Ceraolo su una cosa così grave come le minacce ricevute?

MANGANARO: No, si è confrontato Granata… io ho assistito, ho preso poco parte…

FAVA, Presidente della Commissione: L’incontro c’è stato riferito in modo molto dettagliato, come un’interlocuzione particolarmente ricca… anche sulla lettera, su che atteggiamento tenere da parte vostra… lei esclude di aver parlato con Ceraolo di queste minacce?

MANGANARO: In dettaglio? Guardi, io non gli ho chiesto consigli, non gli ho chiesto dei proiettili. L’ha chiesto Granata, hanno parlato tra loro…

FAVA, Presidente della Commissione: E lei perché partecipa?

MANGANARO: Assisto presidente, assisto.

FAVA, Presidente della Commissione: Avrebbe potuto anche non assistere.

MANGANARO: …salgo, vedo l’ufficio… ero interessato nell’eventualità a dirigere quel commissariato… se lui veramente andava via.

Su questo punto va evidenziata la contraddizione tra quanto il vicequestore aggiunto Manganaro ha riferito in Commissione e ciò che lo stesso funzionario aveva dichiarato ai PM in sede di sommarie informazioni testimoniali (cfr. p. 152 delle s.i.t rese all’A.G. in data 11 maggio 2017):

MANGANARO: Quando è stato dei proiettili io vado da CERAOLO al commissariato… mi manda Tano GRASSO… Tano GRASSO mi dice “vai da Mario CERAOLO perché è conoscitore di (omissis) e del territorio… e ti potrà dare un quadro più chiaro... Io ci vado una volta con GRANATA che è parente di Mario CERAOLO Abbiamo chiesto anche al dottor Ceraolo, nel corso della sua seconda audizione, di tornare sull’episodio per offrirci maggiori dettagli:

AVV. CERAOLO: La vicenda che ha riguardato la squadra mobile di Vibo Valentia non c’entra nulla. L’incontro è avvenuto alle ore 9.30 nel mio ufficio, il 2 dicembre del 2015. La proposta di ricoprire l’incarico di dirigente della mobile di Vibo Valentia avverrà soltanto un anno dopo nel 2016…

FAVA, Presidente della Commissione: Può darsi che già se ne parlasse?

AVV. CERAOLO: Assolutamente no. A me è stato proposto il 16 settembre del 2016 da parte dello SCO. […]

AVV. CERAOLO: Mi contatta l’onorevole Tano Grasso, che conosce il dottore Manganaro, e mi dice: “guarda che a Daniele è successo questo: hanno ricevuto una busta, contente delle cartucce, di minaccia… Io gli ho detto di parlarne con te”, io detto: “io lo posso ricevere in qualunque momento, basta che concordiamo il giorno…”. E Manganaro insieme con Tiziano Granata sono venuti nel mio ufficio esclusivamente per parlare della busta che aveva ricevuto il Commissariato di S. Agata contenente le cinque cartucce per pistola calibro 9 x 19 che è lo stesso calibro utilizzato dalle forze di Polizia. […]

AVV. CERAOLO: l’argomento è stato quello della busta delle cartucce… forse non è stato gradito quello che io ho detto forse, mi è sembrato di percepire questo… Io ho lottato per 30 anni la mafia… mi hanno minacciato ma sempre a viso aperto, mai nessuna delle mie attività è stata accompagnata da una lettera di minaccia… da cartucce o croci o altre cose… quindi abbiamo avuto un’ampia discussione… di un’ora e mezza… io dissi: “bene parliamo di mafia, ma attenzione perché questo modo di procedere non è mafioso”… Si parlò del fatto di cui io sapevo, la lettera dell’anno precedente indirizzata al dottore Antoci, e io dissi: “guarda che il mafioso con la forbicina che taglia le lettere, fate attenzione…”… Non significava non indagare sulla mafia, significava tenere conto del contesto in cui i fatti avvengono… Dissi io: “Ma com’è possibile che nel momento in cui qualcuno…”, in questo caso era Manganaro, oppure era Antoci o Crocetta o Lumia “…qualunque iniziativa è sempre affiancata da un centro operativo degli anonimi?”. E feci riferimento alla canditura del presidente Crocetta, quando arrivarono le lettere minatorie, settembre 2012, indirizzate a Crocetta e Lumia: “siete infami, vi ammazziamo”… Nel momento in cui il senatore Lumia adottò delle iniziative sul porto di Palermo, lettera di minaccia al senatore Lumia e al direttore della DIA dell’epoca, Giuseppe D’Agata, che poi venne arrestato nell’indagine su Montante… Al presidente dell’Associazione Nazionale Costruttori venne mandata una lettera identica a quella indirizzata ad Antoci e Crocetta… si parla di scannare… A luglio 2016, la dottoressa Brandara, questioni sulla nomina all’IRSAP e arriva la lettera, “finirai come Antoci”, due cartucce di fucile… la solidarietà di Antoci “non ci fermeranno eccetera eccetera”. È stato un susseguirsi, prima di quell’attentato e anche dopo, di iniziative che riguardano queste persone o persone nominate da Crocetta che appena pongono in essere un’attività o svolgono un certo ruolo tutto è accompagnato da atti intimidatori… Questo io dissi a Manganaro… dissi di prestare più attenzione a quello che era il contesto in cui i fatti accadevano. Ritengo che non abbia gradito questa mia posizione un pochino più obiettiva…

Ars, commissione Antimafia su attentato Antoci: "Ipotesi stragista mafiosa la meno plausibile". La relazione votata dalla commissione guidata da Claudio Fava mette nero su bianco le ombre su quanto avvenuto nel maggio del 2016. Tre le ipotesi: iniziativa della mafia, avvertimeno o simulazione. "Ma in ogni caso Antoci sarebbe una vittima, anche inconsapevole". Critiche sulle indagini. La replica: "Sono basito, io ho lottato la mafia". Antonio Fraschilla il 02 ottobre 2019 su La Repubblica. "Delle tre ipotesi il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile". Lo scrive la commissione regionale Antimafia nella relazione sul fallito attentato all'ex presidente del parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci la notte tra il 17 e il 18 maggio 2016. Per la Commissione restano attuali tre ipotesi "l'attentato mafioso fallito, l'atto puramente dimostrativo, la simulazione. Ipotesi che vedono Antoci vittima (bersaglio della mafia nelle prime due; strumento inconsapevole di una messa in scena nella terza)". Antoci si dice "basito" dalle conclusioni della commissione: "Rimango basito di come una commissione, che solo dopo tre anni si occupa di quanto mi è accaduto, possa arrivare a sminuire il lavoro certosino e meticoloso che per ben due anni la Dda di Messina e le forze dell'ordine hanno portato avanti senza sosta, ricostruendo gli accadimenti con tecniche avanzatissime della polizia scientifica di Roma e che oggi rappresentano per l'Italia un fiore all'occhiello". Ecco i passi principali della conclusione della commissione guidata da Claudio Fava all'Ars. "È impensabile che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa Nostra interessate al territorio nebroideo (Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici, Catania).È insolito infine che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti: gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono stati visti fuggire nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci era stato messo in salvo?  Difficilmente si sarebbe potuti arrivare ad esiti investigativi diversi dall’archiviazione d’un fatto tuttora attribuito ad ignoti, ma certamente indagini più estese e soprattutto più coinvolgenti rispetto ad altri apparati di forze dell’ordine avrebbero potuto contribuire a fornire alcune risposte che mancano. Su altri punti, tutti dirimenti, la non plausibilità dei comportamenti resta invece senza spiegazioni. A giudizio di questa Commissione restano attuali le tre ipotesi formulate in premessa: un attentato mafioso fallito, un atto puramente dimostrativo, una simulazione. Ipotesi, tutte, che vedono il dottor Antoci vittima (bersaglio della mafia nelle prime due; strumento inconsapevole di una messa in scena nella terza). Alla luce del lavoro svolto da questa Commissione corre l’obbligo di evidenziare che, delle tre ipotesi formulate, il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile. L’auspicio è che su questa vicenda si torni ad indagare (con mezzi certamente ben diversi da quelli di cui dispone questa Commissione)  per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità". Antoci la sera el 17 maggio 2016 stava andando a casa a Santo Stefano di Camastra (Messina), dopo un incontro a Cesarò, quando la sua auto blindata con scora venne bloccata lungo la strada da alcuni massi e vennero sparati alcuni colpi di lupara contro la vettura da persone che poi riuscirono a scappare. Durante la sparatoria è sopraggiunto il commissraio Daniele Manganaro, con una auto di servizio, che ha iniziato a sparare dei colpi di pistola mettendo in fuga i malviventi. La procura di Messina ha archiviato le indagini avviate in un primo momento senza arrivare a individuare alcun responsabile. Ma dalla relazione della commissione emerge uno scontro interno agli inquirenti, con il dirigente della polizia Mario Ceraolo che ha smentito la ricostruzione di Manganaro. Scrive la commissione, che ha ascoltato entrambi i poliziotti, Antoci pm e altri addetti ai lavori,  nelle conclusioni della relazione: "Sull’attentato del 18 maggio 2016, il lavoro di questa Commissione, più che esprimere conclusioni certe e definitive, si trova costretto a dar atto delle molte domande rimaste senza risposta, delle contraddizioni emerse e non risolte, delle testimonianze divergenti, delle criticità investigative registrate che qui proviamo sommariamente a riepilogare. Non è plausibile che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello, qual era quella di Antoci, siano state violate (l’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata, l’aver lasciato due agenti sul posto esposti ad una reazione degli aggressori…). Non è plausibile che gli attentatori, almeno tre (a giudicare dalle tre marche di sigarette riscontrate sui mozziconi), presumibilmente tutti armati (non v’è traccia nelle cronache di agguati di stampo mafioso a cui partecipino sicari non armati), non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato. Non è plausibile che, sui 35 chilometri di statale a disposizione tra Cesaro e San Fratello, il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale, presidiato anche di notte da personale armato, né è plausibile che gli attentatori non fossero informati su questa circostanza. Non è comprensibile la ragione per cui il vicequestore aggiunto Manganaro non trasmetta le sue preoccupazioni ai poliziotti di scorta di Antoci (per “non agitarli”, sostiene) salvo poi cercare di raggiungerli temendo che potesse accadere qualcosa senza nemmeno tentare di mettersi in contatto telefonico con loro. Non è comprensibile la ragione per cui non sia stato disposto dai questori p.t. di Messina e dai PM incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari di polizia, Manganaro e Ceraolo, che su molti punti rilevanti hanno continuato a contraddirsi e ad offrire ricostruzioni opposte. E’ censurabile il fatto che il dottor Manganaro abbia offerto su alcuni punti (la visita al vicequestore aggiunto Ceraolo, la paternita dell’espressione “vedette mafiose”) versioni diverse da quelle che aveva fornito ai PM in sede di sommarie informazioni. E’ per lo meno inusuale che di fronte ad un attentato ritenuto mafioso con finalità stragista la delega per le indagini venga ristretta alla squadra mobile di Messina e al commissariato di provenienza dei quattro poliziotti protagonisti del fatto, fatta eccezione per un contributo meramente tecnico dello SCO e per l’intervento del gabinetto della polizia scientifica di Roma molto tempo dopo. Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata (e soprattutto quanto tempo e quante persone occorressero per posizionare quelle pietre)". Antoci, che è stato responsabile legalità del Pd e ora è tornato a fare il bancario, aveva attuato un protocollo di legalità nel parco dei Nebrodi poi allargato a tutta la Sicilia e quindi diventato legge nazionale. Grazie a questo protocollo sono stati denunciati per frode e mafia diversi allevatori dei Nebrodi e non solo. L'antimafia siciliana ha aperto l'inchiesta sulla vicenda nel maggio scorso. Fava a margine critica i metodi utilizzati per le indagini: "Ipotesi despitaggio? No, noi pensiamo semmai che ci sia stata una carenza investigativa come ci è stato riportato da molte fonti autorevoli, tutte investigative - dice Fava - è abbastanza inconsueto che di fronte a un'ipotesi stragista di questo tipo, per fortuna mancata, si attivino la squadra mobile di Messina e il commissariato di Sant'Agata di Militello. E come se - aggiunge - dopo l'attentato fallito all'Addaura a Falcone fosse stato incaricato delle indagini il commissariato di Mondello...".

·         Le 10 Mafie di Roma: Cosa Nostra, Mafia Capitale, i clan degli zingari.

Correva l’anno 1952 e Cosa nostra arriva a Roma, scrive il 3 marzo 2019 Carmelo Carbone su  Mafiathemisemetis.com. Con questa nostra inchiesta che sarà pubblicata in più puntate, vogliamo raccontarvi le vicende, i patti indicibili le connivenze e le collusioni tra gli uomini di Cosa nostra ed alcuni politici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine. Infedeli servitori dello Stato che con il loro inqualificabile comportamento fecero si, che Cosa nostra si insediasse comodamente nella Capitale. Iniziamo questo lungo e minuzioso racconto con una dettagliata “biografia criminale” del mafioso italo-americano Francesco Paolo Coppola detto Frank Coppola, che siamo riusciti a ricostruire, grazie alla consultazione di documenti inediti. Fu proprio quest’ultimo, infatti, colui il quale con il suo trasferimento nel febbraio del 1952 a Pomezia in provincia di Roma, esportò i metodi della criminalità mafiosa italo americana nella Capitale. Francesco Paolo Coppola, nasce a Partinico in provincia di Palermo il 6 ottobre 1899. Il 5 agosto del 1919 Coppola venne denunciato dai carabinieri di Partinico per il tentato omicidio di Antonio Lupo; il 28 luglio 1920 fu condannato dal pretore di Partinico a 50 lire di multa, con il beneficio della sospensione per cinque anni e l’iscrizione sul cartellino penale; il 10 febbraio 1923 venne arrestato dopo due anni di latitanza, per il tentato omicidio perpetrato ai danni di Antonio Lupo, ma assolto il 23 giugno 1923 dalla Corte D’Assise di Palermo. Il 28 maggio 1926 venne spiccato nei confronti di Coppola un mandato di cattura emesso dal Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo; capo d’imputazione: “associazione per delinquere” e omicidio di: Di Marco Giuseppe, Antonio e Benedetto e D’Iseo Giuseppe; omicidi avvenuti tutti a Borgetto in provincia di Palermo. Il 4 aprile 1927, Coppola fu colpito da mandato di cattura, emesso sempre dal Giudice Istruttore del Tribunale di Palermo, perché imputato in correità con altri di quadruplice omicidio. Il 12 agosto 1928 venne tratto in arresto per lesioni in danno di Francesca Termini; il 17 novembre 1930 fu colpito da un mandato di cattura emesso dal Procuratore della Repubblica di Palermo per scontare la pena a tre anni e cinque mesi che gli era stata inflitta; il suddetto mandato venne successivamente revocato per amnistia. Coppola dopo il 1933 espatriò clandestinamente negli U.S.A. dove si dedicò insieme a mafiosi italoamericani ad attività delinquenziali varie ed in particolare allo smercio su vasta scala di sostanze stupefacenti. Questa sua attività lo portò ad emergere nel mondo della malavita italoamericana, tanto che, in breve tempo, divenne il braccio destro del noto e famoso boss mafioso Lucky Luciano, a quel tempo incontrastato dominatore dello spaccio di eroina, contrabbando di alcolici, gioco d’azzardo, racket delle estorsioni e prostituzione. Durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, Coppola ebbe anche un “infortunio sul lavoro”, infatti nel corso una rapina in banca, suonò l’allarme, la porta della cassa forte si chiuse repentinamente, due dita di gli rimasero incastrate dentro, impedendogli di fatto di scappare; a quel punto estrasse il coltello che aveva in tasca e con un taglio netto si amputò le dita riuscendo così a fuggire. Da quel giorno sarà noto con il nome di Frank three fingers (tre dita). Il nome di Frank Coppola, tre dita, compariva nella lista dei criminali  indesiderabili dell’F.B.I, in quanto: “pericoloso criminale; killer; importante collegamento nel traffico internazionale della droga; sempre associato a Lucky Luciano” Il senatore MC Lellan nel suo rapporto sulla criminalità italoamericana lo definì: “uomo dotato di capacità al silenzio, enorme prudenza, infallibile bravura nello scegliere sempre, in ogni occasione, l’uomo adatto”. Nel 1948 a Coppola venne notificato l’ordine di espulsione dagli U.S.A; rientrò in Italia e si stabilì sino al 1952 nel suo paese d’origine Partinico. Nel 1 952 ed esattamente il 14 febbraio, si stabili a Pomezia (Roma), dove trasferì anche la sua residenza anagrafica. Da quel momento in poi inizio una nuova serie di azioni delinquenziali.

Il 22 marzo 1952 gli fu sequestrata una FIAT 1400 di sua proprietà, nella quale furono invenuti bene occultati 6 kg di eroina e per questo denunciato in stato di irreperibilità, in concorso col genero Giuseppe Corso .

Il 9 maggio 1952, per il fatto sopra menzionato, venne colpito da mandato di cattura emesso dal giudice Istruttore di Trapani con i seguenti capi d’imputazione: “associazione per delinquere; commercio, detenzione, importazione e somministrazione di sostanze stupefacenti”.

Il 27 novembre 1963, viene denunciato dai Carabinieri di Partinico, in correità con altri, in stato di irreperibilità, per concorso in sequestro di persona dell’avvocato Antonio D’Alì da Trapani; favoreggiamento personale del latitante Gaspare De Lisi e concorso in omicidio premeditato e rapina nei confronti dello stesso De Lisi. Per questi reati venne colpito da mandato di cattura del Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo. Quattro giorni dopo ovvero l’uno dicembre venne acciuffato ed arrestato. Per tutta questa serie di reati, con sentenza della Corte d’Assise di Palermo Coppola venne assolto da ogni accusa con la classica motivazione della “insufficienza di prove”.

17 gennaio 1964: Il Prefetto di Roma con sua ordinanza gli vietò la detenzione di due pistole e due fucili, rinvenuti nella sua abitazione di Pomezia, durante una perquisizione effettuata dai carabinieri del Nucleo di Polizia Giudiziaria di Roma. 30 luglio 1965: Colpito da ordine di cattura n. 49/65 emesso dal Procuratore della Repubblica di Palermo con l’imputazione in correità con altri di “associazione per delinquere”. Il 2 agosto poco più di un mese dopo venne scovato ed arrestato.

14 marzo 1963: denunciato dalla Squadra Mobile di Palermo, come responsabile in concorso con altre diciotto persone, di “associazione per delinquere aggravata”.

8 novembre 1966: dalle carceri giudiziarie di Palermo, venne trasferito e internato nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina.

25 giugno 1968: Assolto dal reato di associazione per delinquere, insieme ad altri tredici, tra cui il noto capo mafia Giuseppe Genco Russo dalla I sezione penale del Tribunale di Palermo, per “insufficienza di prove”.

24 dicembre 1968: Assolto dalla Corte d’Assise di Bari, dall’accusa di “associazione per delinquere”, perché “il fatto non sussiste”.

Ecco come il questore di Roma, Giuseppe Parlato, il 20 marzo 1970 nella sua relazione N. 888/90759/2 inviata al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma descrive la nascente criminalità mafiosa nella capitale. «(…) si richiama l’attenzione sul fenomeno della “Mafia”, che di recente ha interessato anche la Capitale, come si è già accennato, con il trasferimento di numerosi gruppi di pregiudicati mafiosi, che hanno eletto la loro residenza in Roma o in comuni della provincia. Si è potuto appurare che tali trasferimenti non sono per lo più isolati, ma avvengono in gruppi (…). Quest’ultimo fenomeno porta alla creazione di vere e proprie “centrali operative” della mafia, siano essi leciti, siano essi illeciti, siano essi diretti allo svolgimento di determinate attività, siano essi diretti alla “mutua assistenza” di affiliati alla mafia, che per una qualsiasi ragione si trovino in difficoltà di fronte alla legge. Come è il caso clamoroso e recente di Leggio Luciano, attualmente irreperibile, il quale è stato senza alcun dubbio, aiutato e favorito dalla “famiglia” che fa capo a Coppola Francesco Paolo”. (…). Come si è accennato una delle “famiglie” della “mafia” trasferitasi nella provincia di Roma, è proprio quella della quale è “capo” il Coppola (…). Il Coppola, praticamente illetterato ed appartenente a famiglia di contadini di misere condizioni economiche, si è dimostrato uomo di carattere energico ed intraprendente, anche se volto sin da giovanissimo sulla strada del crimine”.“(…) Il Coppola stabilitosi in Pomezia, ha iniziato con la stretta collaborazione del genero Corso Giuseppe, un vasto traffico di speculazioni nel campo della compravendita di immobili, con l’impiego di notevoli mezzi finanziari di dubbia provenienza. Infatti, dall’epoca del suo stabilirsi a Pomezia, nell’anno 1952, egli ha accumulato una fortuna valutabile, secondo calcoli molto approssimativi per difetto, ad oltre un miliardo e mezzo.(…). Intorno al 1953 acquistò per la somma di 12 milioni di lire, circa 50 ettari di terreno, in prevalenza boscoso, in località Tor San Lorenzo (Pomezia).Negli anni successivi, dopo vasti lavori di bonifica, adibì buona parte del terreno a vigneto. Verso il 1963 rivendette una decina di ettari della citata tenuta (parte lato mare), per la somma di lire 280 milioni circa. Dopo qualche anno – 1964-65 – in Pomezia acquistò circa 6 ettari di terreno per lire 180 milioni. A seguito del rapidissimo sviluppo della cittadina, il terreno in parola è diventato quasi tutto edificabile, aumentando enormemente il prezzo(secondo alcuni calcoli di competenti il valore attuale si aggirerebbe intorno al miliardo). Il valore del terreno residuo di Tor San Lorenzo, circa 40 ettari, si aggirerebbe sui 300/400 milioni di lire. A porre in miglior luce la personalità del prevenuto, si reputa opportuno trascrivere le notizie fornite sul suo conto sia dalla locale Squadra Mobile, sia dal centro Criminalpol Sud, i cui funzionari, senza alcun dubbio, sono profondi conoscitori dell’ambiente mafioso: Nucleo Criminalpol Sicilia – nota. 90/10538 del 10 febbraio 1970: “Fonte confidenziale bene attendibile, ha fatto presente che il soprascritto Coppola Francesco paolo continua ad incontrarsi, sempre in luoghi diversi, con elementi della mala vita siciliana, per discutere questioni inerenti l’andamento della mafia in Sicilia e l’acquisto di terreni nelle zone di Pomezia e di Lido di Ostia (…)»

Le dieci mafie di Roma:  gli affari dei clan. Famiglie, inchieste, processi. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Le associazioni criminali che si spartiscono la capitale si sono moltiplicate: dai calabresi ai «napoletani della Tuscolana. Lunedì scorso è arrivata la condanna del primo «colletto bianco»: un avvocato accusato di essere il riciclatore dei guadagni del «clan Cordaro», che a Tor Bella Monaca — periferia est di Roma — gestisce il traffico di droga. Investimenti giunti fino all’isola sarda de La Maddalena: due ristoranti e una squadra di calcio, business ambito dalle cosche tradizionali. L’avvocato è stato condannato insieme a Salvatore Cordaro e suo genero Valentino Iuliano, i boss che in un altro procedimento rispondono di reati aggravati dal «metodo mafioso» (compreso un omicidio, da cui sono stati assolti in primo grado). Come le rispettive mogli, Paola e Natascia Cordaro, imputate e condannate per lesioni e danneggiamenti. Nella sentenza, la giudice ha riportato intercettazioni e scene degne di Gomorra, descrivendole come «il volto femminile del metodo mafioso», e attribuendo loro il ruolo di «trasmissione di valori tipicamente criminali e mafiosi: il culto del rispetto del capo come obbligo di incondizionata obbedienza, la sete di vendetta a fronte di violazioni dell’ordine imposte dal clan familiare, per restare una élitecriminale all’interno del contesto di Tor Bella Monaca». Il coinvolgimento di un professionista e delle donne negli affari illeciti segnano un salto di qualità delle bande che a Roma ostentano una «forza intimidatrice» assimilata a quella della mafia. E di quei gruppi che, dal 2012 in avanti, sono stati individuati prima dalla Procura e poi dai verdetti dei giudici (dal Riesame ai giudizi di appello, a seconda dei casi) come vere e proprie associazioni mafiose. Piccole, autoctone, ma in grado di condizionare significative porzioni di realtà metropolitana. Se ne possono contare almeno sei, una cifra ragguardevole per la capitale d’Italia dove in passato una simile accusa non veniva ipotizzata quasi mai. E quando lo fu, come nel caso della banda della Magliana, si ebbero esiti contrastanti.

1. Mafia Capitale. La più famosa è quella che, dopo le assoluzioni in primo grado e le condanne in appello, da mercoledì 16 ottobre affronterà il vaglio della Corte di Cassazione: Mafia capitale, il «mondo di mezzo» di Massimo Carminati partito da una pompa di benzina a Corso Francia (Roma Nord) e approdato in Campidoglio, inquinando importanti settori dell’amministrazione comunale grazie al letale intreccio di intimidazione e corruzione.

2-3. Fasciani e Spada. Poi ci sono i clan che al traffico di stupefacenti, alle estorsioni e altri reati tipici della malavita hanno aggiunto la capacità di assoggettare e imporre l’omertà grazie al «vincolo associativo» richiesto dall’articolo 416 bis del codice penale. L’associazione mafiosa, appunto. A cominciare da quelli che si sono spartiti Ostia, i Fasciani e gli Spada; per questi ultimi, il 24 settembre sono arrivati tre ergastoli per un duplice omicidio del 2011 che segnò la conquista di una fetta di territorio. Grazie ai rapporti con i Triassi arrivati dalla Sicilia, i gruppi di questo tratto di costa si sono scambiati favori con Cosa nostra.

4. Casamonica. Il clan dei Casamonica invece — che ha il suo quartier generale tra Porta Furba e la Romanina, sull’asse sud-est della città —, ha stabilito proficui rapporti con pezzi di ’ndrangheta calabrese. Attualmente ci sono 63 imputati sotto processo, e agli arrestati per mafia la Cassazione ha risposto con una sentenza che ha confermato l’esistenza di elementi «idonei a dimostrare non solo la sussistenza dell’associazione di stampo mafioso, ma anche la partecipazione dei singoli indagati al sodalizio».

5.Fragalà. Con la stessa accusa sono finiti in carcere, a giugno, i componenti del clan Fragalà, un gruppo di catanesi trapiantati sul litorale sud della capitale, nel triangolo Torvaianica-Pomezia-Ardea. Guidati dal sessantunenne Alessandro e dai nipoti Salvatore e Santo, i Fragalà potevano contare sull’appoggio del palermitano Francesco D’Agati, 83 anni e un lungo trascorso da «padrino» nella mafia di una volta che lui stesso amava ricordare nei discorsi intercettati: Luciano Liggio, i fratelli Alfredo e Pippo Bono, l’alleanza con la camorra di Michele Zaza. D’Agati si muoveva sul continente, tra la capitale e Milano, e raccontava nostalgico: «A Milano non si muoveva una foglia senza il nostro volere, i calabresi lo sai come si inchinavano? Erano sottomessi a noi... non dovevano parlare».

6. Napoletani della Tuscolana. La sesta associazione mafiosa presente a Roma (confermata dalle condanne in appello) è quella dei «napoletani della Tuscolana» agli ordini di Domenico Pagnozzi, 60 anni, detto «Mimì ’o professore», già legato al boss Michele Senese (anche lui di origini campane) e prima ancora al clan dei Casalesi. Nei vari traffici del suo gruppo è comparso in passato, attraverso un «recupero crediti» da cui nacquero nuove alleanze, anche Franco Gambacurta, chiamato «zio Franco», capo dell’omonimo clan che controlla la zona di Montespaccato, quadrante ovest della città. Sotto processo con 72 coimputati per una lunga serie di reati aggravati dall’aver «commesso il fatto con il metodo mafioso, esercitando sulle vittime una coartazione psicologica con i caratteri tipici derivante dall’appartenenza a una organizzazione criminale». L’aggravante contestata al gruppo Pizzata-Pelle dedito al traffico di droga — con basi operative sul versante est, tra la Tuscolana e la Casilina — riguarda il favoreggiamento della ’ndrangheta, cioè la mafia calabrese. Così come per Salvatore Rinzivillo, pregiudicato siciliano di Gela, l’accusa di estorsione è accompagnata da quella di «agevolare l’attività dell’associazione mafiosa denominata Cosa nostra, nella sua articolazione territoriale riconducibile alla famiglia Rinzivillo». Un tempo legata ai Madonia e ai Corleonesi di Totò Riina. Alleanze che l’hanno resa temibile anche dopo che Salvatore ha messo gli occhi sulle attività all’ingrosso del Centro agroalimentare di Guidonia, a sud della capitale. Dov’era conosciuto per essere un pluricondannato «mafioso dalle fondamenta».

7-8-9-10. Rinzivillo, Cordaro, Gambacurta, Pizzata-Pelle. Con i Rinzivillo (dopo i Cordaro, i Gambacurta e i Pizzata-Pelle), i clan che sfruttano il «metodo mafioso» diventano quattro. E uniti alle sei «associazioni» compongono le dieci mafie di Roma.

Le origini e il codice dei Casamonica: la forza di un’inchiesta. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Il coraggioso reportage del giornalista Nello Trocchia ha raccontato un clan che condiziona da anni la vita della Capitale. «C’è un clan che ha puntato tutto sulla violenza e ha costruito un impero con l’usura e il traffico di droga. Un clan che sguazza nell’oro, che parla una lingua in codice difficile da capire, che si regge sui vincoli familiari. Sono i Casamonica». Il giornalista Nello Trocchia introduce così «Casamonica. Le mani su Roma» reportage, in due parti per raccontare un clan che condiziona da anni la vita della Capitale (Nove, giovedì e lunedì, ore 21.35). Arrivati a Roma dall’Abruzzo e dal Molise nei primi anni ‘60, vivevano in roulotte, commerciavano cavalli, non disdegnavano truffe ed estorsioni. Un gruppo di origine sinti che, in questi anni, si è imposto grazie anche ai rapporti consolidati con la criminalità organizzata. Trocchia racconta come il funerale di Vittorio Casamonica, con un elicottero che lanciava petali di fiori sul corteo funebre, sia stato il momento di massima visibilità per un clan che governava una parte di Roma nel silenzio dei media. Vittorio, che amava lo sfarzo, lo champagne, le ville kitsch era uno degli uomini di Renatino De Pedis, il «Dandy» del Romanzo Criminale, prima di diventare l’addetto al recupero crediti di Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana. A parte lo sconcerto che genera l’intervista a Marco Baldini (si faceva prestare soldi anche dai Casamonica), quello che la coraggiosa inchiesta di Trocchia mostra e dimostra è il disinteresse dello Stato, prima che fatti clamorosi lo obbligassero a intervenire (il funerale di Vittorio con la musica del Padrino, l’assalto al Roxy Bar, l’aggressione di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi…). La tecnica estorsiva dei Casamonica si basa sulla «lagnazione»: al telefono, sapendo magari di essere intercettati, chiedono la restituzione dei soldi lamentando conti da pagare, debiti da saldare, faccende urgenti da sbrigare. Nessuna minaccia apparente, solo una lagna, continua e ferale.

Mafia Capitale, la Cassazione: «Non fu associazione mafiosa». Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni. La Suprema Corte annulla l'aggravante a carico degli imputati per la cosiddetta inchiesta «Mafia Capitale». Cadono molte accuse a Buzzi e Carminati, le loro pene vanno ricalcolate. La Cassazione ha confermato la prima sentenza affermando che il «Mondo di mezzo» non è mafia. In primo grado la presidente della decima sezione penale, Rosaria Ianniello, aveva respinto l’ipotesi di un’associazione mafiosa, sostenendo l’esistenza di due gruppi criminali, uno facente capo a Salvatore Buzzi e dedito alla corruzione più un altro che sfruttava la fama criminale di Massimo Carminati per mettere in atto estorsioni e intimidazioni. In secondo grado il presidente Claudio Tortora aveva ribaltato la sentenza: il «Mondo di mezzo» era mafia, cioè un’organizzazione criminale in grado di condizionare l’amministrazione cittadina all’epoca guidata dalla destra di Gianni Alemanno. L’inchiesta, coordinata dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, aveva portato a una retata di 37 persone il 2 dicembre 2014. Poi era proseguita con altri 44 arresti a giugno 2015. Quindi il fenomeno di Mafia Capitale aveva tenuto banco con l’ ex sindaco prosciolto dall’accusa di mafia ma finito a processo per corruzione, un alto funzionario di Stato, Luca Odevaine, condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere e decine di funzionari alla sbarra per aver alimentato un sistema corruttivo che era entrato nel cuore dell’amministrazione capitolina. Fu una stagione delicatissima. Una commissione, guidata dall’allora prefetto Franco Gabrielli, aveva analizzato gli atti del Campidoglio e tratto le sue conclusioni: il Comune pur con gravi problemi di trasparenza non era interamente infiltrato dal malaffare e dunque non andava sciolto. In quella relazione tuttavia si trovava un forte atto d’accusa nei confronti di molti funzionari della pubblica amministrazione. Virginia Raggi e Nicola Morra (Ansa)Immediato il commento del leader della Lega Matteo Salvini nel corso della registrazione di Porta a Porta: «La Cassazione dice che Mondo di Mezzo non è mafia? Quindi cosa era un’associazione di volontariato?». La sindaca di Roma Virginia Raggi ha assistito alla lettura della sentenza della VI sezione penale. Insieme con la prima cittadina, anche il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. «Oggi si chiude una vicenda che ha ferito la nostra città - ha detto la sindaca - Siamo qui a testa alta per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare».

Mafia Capitale, la Cassazione dice no. Cade l'aggravante del 416 bis. "Schiaffo" alla Procura di Roma. Riconosciuta la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Esultano le difese. Appello bis per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e altri imputati per il ricalcolo della pena. La sindaca Raggi: "Comunque un sodalizio criminale". Federica Angeli e Simona Casalini il 22 ottobre 2019 su La Repubblica. "Non fu mafia". E' arrivata in serata la sentenza della Cassazione sul procedimento Mafia Capitale. La procura generale della Suprema Corte aveva chiesto la conferma delle condanne di Appello, che riconobbero per Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e i loro collaboratori le accuse di aggravante mafiosa ex articolo 416 bis, ma il verdetto è stato diverso. La VI sezione penale della Cassazione ha riconosciuto sì la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Per l'ex Nar Carminati e per Buzzi, presidente della cooperativa 29 giugno, nonchè per altri imputati come Luca Gramazio che si erano visti contestare l'associazione di stampo mafioso, ci sarà un processo d'appello bis per il ricalcolo delle pene alla luce della declassazione del reato in associazione a delinquere semplice. Erano 32 gli imputati giudicati dalla sesta sezione penale della Cassazione, 17 dei quali avevano condanne per reati di mafia. La pubblica accusa chiedeva la conferma per tutti, ad eccezione del benzinaio di corso Francia, Roberto Lacopo, condannato a 8 anni in appello, per il quale si è chiesto un nuovo processo. La sentenza di Appello dell'11 settembre 2018 aveva ribaltato il primo grado (che non aveva riconosciuto le accuse di mafia): Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e altre 16 persone, una delle quali scomparsa di recente, erano state riconosciute colpevoli di reati di mafia anche se per alcuni erano stati diminuiti gli anni di detenzione. L'imprenditore delle coop è stato condannato a 18 anni e quattro mesi, l'ex Nar a 14 anni e mezzo, l'ammontare complessivo delle pene per i 43 imputati, otto dei quali assolti, aveva raggiunto quasi i 200 anni di carcere. Nella requisitoria, il pg Luigi Birritteri aveva sottolineato come il gruppo dell'ex Nar e del re delle cooperative romane aveva "tutte le caratteristiche dell'associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis". Carminati, Buzzi e i loro collaboratori, secondo l'accusa, si muovevano "con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere". "Usavano la violenza quando era necessario e grazie alla corruzione gestivano il potere politico con fini criminali" sosteneva la pubblica accusa. Gli ermellini di piazza Cavour non sono stati dello stesso avviso e ora esultano i legali degli imputati. Replica il procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, Giovanni Salvi: "Non trovo giustificate le esultanze di qualcuno visto che la Suprema Corte ha riconosciuto l'esistenza di associazioni, nei termini affermati dalla sentenza di primo grado, che aveva irrogato pene non modeste: due associazioni a delinquere che erano state capaci di infiltrare in profondità la macchina amministrativa e politica di Roma".

I legali di Massimo Carminati. "Era una storia giuridicamente un pò forzata, per annullare senza rinvio vuol dire che la Cassazione l'ha ritenuta giuridicamente insostenibile", così a caldo l'avvocato Cesare Placanica, difensore di Massimo Carminati. "È una sconfitta del metodo di fare i processi del dottor Pignatone, che per fortuna non è più a capo della Procura, perchè fare processi alle persone sulle supposizioni per quello che si ritiene che siano e non per quel che fanno non mi sembra rispetto del principio di legalità. Questa sentenza ristabilisce questo principio che si era indebolito fortemente" ha dichiarato Giosuè Naso, avvocato di Carminati nei primi due gradi di giudizio e di Riccardo Brugia in Cassazione.

L'avvocato di Salvatore Buzzi.  "Con questa sentenza sicuramente la vita del mio assistito è cambiata, per lui presenteremo richiesta di scarcerazione", così il difensore di Salvatore Buzzi, l'avvocato Alessandro Diddi. "Ora è troppo difficile fare dei calcoli, ma è stato annullato il capo di imputazione sulla mafia", ha aggiunto Diddi sottolineando "la Cassazione ha riconosciuto quello che dicevamo sin dall'inizio e cioè che c'era un sistema di corruzione marcio ma non la mafia".

Le reazioni. "Se non era mafia allora cosa era? Un'associazione di volontariato?" Così Matteo Salvini ha commentato a Porta a Porta la notizia del verdetto data da Bruno Vespa. "Le sentenze si rispettano ma restano i dubbi, le perplessità. E non solo: resta una ferita profonda per Roma e per i romani. Per me la mafia, prima ancora dei profili giudiziari, è un atteggiamento", così Luigi Di Maio, leader M5s, in un tweet. "Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stato scritto un capitolo molto buio della storia nostra città. Stiamo lavorando insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e rispetto dei diritti. Andiamo avanti a testa alta", così la sindaca di Roma, Virginia Raggi che ha seguito l'udienza e il verdetto in aula. "La Corte di Cassazione smentisce l'impianto della sentenza della Corte d'Appello di Roma: Buzzi e Carminati nella capitale non avevano costituito un sodalizio di stampo mafioso che aveva in pugno tanti uffici dell'amministrazione comunale capitolina. A Roma non c'era mafia. Le sentenze si rispettano. Ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità permangono tutte" afferma in un post su Fb il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra. "Noi speravamo in questo e finalmente la Cassazione riscatta il dolore di questo periodo. Ho sentito Luca e siamo molti soddisfatti. E in Appello cadranno tanti reati impropriamente contestati a mio figlio", così l'ex parlamentare missino Domenico Gramazio, padre di Luca, ex consigliere comunale e regionale del Pdl, condannato a 8 anni e 8 mesi. Parla anche l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che in primo grado, in uno dei filoni dello stesso procedimento penale, è stato condannato a sei anniper corruzione e finanziamento illecito: "Roma ha pagato troppo queste accuse, la Cassazione ha fatto giustizia". "Sono contenta soprattutto per mia figlia di 10 anni, è stata riconosciuta una cosa che era chiara", afferma all'Adnkronos Alessandra Garrone, compagna e collaboratrice di Salvatore Buzzi, anche lei condannata in appello nel processo Mafia Capitale. "Hanno confermato che c'era un'associazione criminale che in qualche modo contaminava la città". Così Matteo Orfini, ex presidente ed ex commissario del Pd di Roma dopo la bufera giudiziaria nella Capitale, "non vorrei che si generasse un'autoassoluzione della città, perché la mafia a Roma c'è e la lotta alla mafia dovrebbe rimanere prioritaria per tutti". "I giudici della Cassazione dicono che "Mafia Capitale" non era un'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma criminalità organizzata comune. Qual è la differenza, per un cittadino onesto? Difficile comprenderlo... ciò che è successo a Roma a causa di questi delinquenti rimane una 'montagna di merda'", così in un lungo post su facebook il grillino Vito Crimi, viceministro all'Interno.

Valentina Errante per il Messaggero il 23 ottobre 2019. Mondo di mezzo, in Cassazione cade l'accusa di mafia: resta solo l'associazione per delinquere. Gli ermellini hanno dichiarato esclusa l'associazione mafiosa nel processo «mondo di mezzo», ribattezzato Mafia capitale, rispetto alla sentenza d'appello che aveva invece riconosciuto l'articolo 416 bis. Cadono anche molte delle accuse contestate a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Alla lettura della sentenza molti dei familiari degli imputati hanno iniziato a piangere.

LE CONDANNE. I giudici della Cassazione, che con la sentenza di questa sera hanno annullato senza rinvio quindi non riconosciuto il 416 bis, hanno rinviato in Appello per la rideterminazione della pena in relazione all'associazione per delinquere semplice. Gli imputati si attendono così una netta diminuzione delle pene stabilite nel processo di secondo grado. Ora diventano definitive le condanne per 8 dei 32 imputati del processo mafia capitale. Si tratta di Mirko Coratti (4anni e 6 mesi), Giordano Tredicine (2 anni e 6 mesi), Franco Figurelli (4 anni), Marco Placidi (5 anni), Andrea Tassone (5 anni), Guido Magrini (3 anni), Mario Schina (4 anni) e Claudio Turella (6 anni). Per gli altri 24 imputati, tra i quali Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Luca Gramazio, le pene andranno ridefinite in un nuovo processo d'Appello. La sesta sezione penale aveva al vaglio la posizione di 32 imputati, di cui 17 condannati dalla Corte d'Appello di Roma, lo scorso anno, a vario titolo per mafia (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l'aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno). L'accusa, mossa dalla procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Mercoledì scorso la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sostanziale convalida della sentenza d'appello.

LE REAZIONI. Virginia Raggi, che nel pomeriggio aveva raggiunto il Palazzaccio insieme al presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra: «La sentenza conferma il sodalizio criminale, noi continuiamo comunque ad andare avanti a testa alta sul sentiero della legalità, costruendo sulle macerie che abbiamo trovato». «Credo che Roma abbia pagato tanto queste accuse insultanti, la Cassazione ha detto una parola definitiva. C'è stato sciacallaggio politico e la presenza della Raggi lo ha dimostrato ancora una volta». Così l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno commenta all'Adnkronos il verdetto della Cassazione al processo su mafia capitale. «La Corte di Cassazione smentisce l'impianto della sentenza della Corte d'appello di Roma: Buzzi e Carminati nella capitale non avevano costituito un sodalizio di stampo mafioso che, mediante l'intimidazione solo paventata e la leva della corruzione, aveva in pugno tanti uffici dell'amministrazione comunale capitolina, ottenendo appalti ed affidamenti in maniera del tutto illecita». Lo afferma in un post su Fb il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra sulla sentenza della Cassazione. «A Roma non c'era mafia. Secondo la Cassazione. Le sentenze si rispettano. Ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità permangono tutte», conclude. «Le sentenze si rispettano, ma restano i dubbi, le perplessità. E non solo: resta una ferita profonda per Roma e per i romani. Per me la mafia, prima ancora dei profili giudiziari, è un atteggiamento. #MafiaCapitale». Così su Facebook il ministro degli Esteri e leader M5S Luigi Di Maio. «Non sono stupito da questa sentenza. Ci poteva stare, è una questione assolutamente nuova alla Cassazione. Sono interessatissimo alle motivazioni per capire il ragionamento tecnico-giuridico». Lo afferma all'Adnkronos il magistrato Alfonso Sabella, ex assessore alla Legalità nella giunta di Ignazio Marino, sulla sentenza della Cassazione sul Mondo di mezzo. «Mi pare almeno di capire che la Cassazione ha confermato che, per un periodo, la macchina amministrativa è stata ostaggio di criminali che avevano piegato l'interesse pubblico agli interessi privati, alterando le regole della buona amministrazione con la complicità di una burocrazia romana che nei migliori dei casi era incapace, in altri casi ancora corrotta». Secondo Sabella la «Cassazione ha confermato che la mia città è stata ostaggio dei criminali per tanto tempo». «Attenzione a dire che a Roma non c'è la mafia, a Roma la mafia c'è e mafia capitale non esisteva più già dal dicembre 2014», continua Sabella facendo riferimento all'operazione che portò alle retate e agli arresti. «La mafia a Roma è presente in modo più tradizionale come la Cassazione ha certificato in altre sentenze su Spada, Fasciani, camorristi, 'ndranghetisti - conclude Sabella - Roma è più corrotta che mafiosa: il problema principale è la corruzione, ma la mafia non è da sottovalutare». «Era una storia giuridicamente un po' forzata: per annullare senza rinvio vuol dire che la Cassazione l'ha ritenuta giuridicamente insostenibile». Così il legale di Massimo Carminati, Cesare Placanica, commentando la sentenza della Cassazione che ha annullato senza rinvio il 416bis per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La Cassazione ha distinto le associazioni in due senza ritenere di stampo mafioso. «Roma è liberata dalla mafia. È stata scritta una pagina finalmente chiara. Credo che il tempo mi abbia dato ragione. Soprattutto questo collegio che nessuno potrà mai delegittimare. La vita di Buzzi da questo momento e cambiata, potrà guardare al suo futuro». Lo ha detto il difensore Alessandro Diddi dopo il verdetto definitivo nel processo per mafia capitale. «Ora c'è un annullamento con rinvio e dobbiamo fare dei conteggi. «Buzzi su mia indicazione aveva ammesso alcune delle contestazioni. A Roma c'era un sistema marcio e corrotto e la sentenza di primo grado l'ha riconosciuto. La procura ha provato a sostenere la mafia. La Cassazione ha detto quello che avevamo sostenuto fin dall'inizio: c'erano ben due associazioni e soprattutto quella di Buzzi non è una associazione mafiosa», aggiunge l'avvocato sottolineando che la sentenza della Cassazione «è una lezione di diritto a tanti che in questi anni hanno cercato di sostenere che la difesa era farneticante. Credo che oggi il tempo mi abbia dato ragione». Ancora Diddi: «La Cassazione ha riconosciuto quello che noi abbiamo detto fin dall'inizio. Mi dispiace per la sindaca Raggi che c'è rimasta molto male, che ha sempre cercato di dire che le buche di Roma, i problemi della città dipendono da Mafia Capitale. Finalmente anche su questo abbiamo scritto una parola di chiarezza.  Buzzi ammise dove c'erano da ammettere le corruzioni. Abbiamo dimostrato che a Roma c'era un sistema marcio e corrotto, questo abbiamo dimostrato fin dalla prima udienza. Il tribunale di primo grado ha riconosciuto questo, la procura della Repubblica di Roma ha voluto continuare a sostenere che non è un sistema marcio e corrotto ma che c'è un gruppo di imprenditori che fa mafia. Ora la Cassazione ha riconosciuto quello che abbiamo sempre detto». «Luca Gramazio non è un mafioso, hanno riconosciuto la responsabilità anche se hanno annullato per alcuni dei reati satellite e quindi bisognerà rideterminare la pena. Anche nel caso di Gramazio l'accusa più grave, dal punto di vista morale, che gli era stata mossa è caduta con questa sentenza. Per il resto vedremo nel proseguo la sua posizione che comunque esce ridimensionata da questa sentenza». Lo ha detto l'avvocato Valerio Spigarelli, difensore dell'ex consigliere comunale e regionale del Pdl Luca Gramazio e dell'imprenditore Agostino Gaglianone, dopo il pronunciamento della sentenza da parte della VI sezione penale della Corte di Cassazione nel processo Mafia Capitale. «Giustizia è fatta. Ho pianto a dirotto per la tensione e l'emozione. Forza Luca! Gramazio libero! Tiratelo fuori! Raggi dimettiti! No allo sciacallaggio politico.  L'infamia delle accuse di mafia hanno provocato un danno incalcolabile all'immagine di Roma nel mondo. Il brand della Capitale, come è noto, vale secondo uno studio analitico di Assolombarda, 91 miliardi. Ora chi risarcirà l'azienda Roma dei miliardi perduti?».» dice Francesco Giro, senatore di Forza Italia. «I giudici della Cassazione dicono che mafia capitale non era una associazione per delinquere di stampo mafioso ma criminalità organizzata comune. Quale sia la differenza dal punto di vista dei cittadini onesti è difficile comprenderlo, rimangono pur sempre dei delinquenti che si sono impadroniti di una città, che ne hanno fatto il bello e il cattivo tempo, che hanno controllato e corrotto funzionari pubblici, che dettavano le regole, controllavano il territorio e hanno cercato di sostituirsi alle istituzioni». Lo afferma Vito Crimi, vice ministro dell'Interno, per il quale «la mafia non è solo quella che uccide, la mafia è anche questo. Che si definisca mafia o no, non importa, quello che è successo a Roma rimane una montagna di merda». «Altro che mafia capitale, la Banda Raggi è arrivata in Campidoglio grazie a un'inchiesta che con la mafia non c'entrava nulla. E chieda scusa a una città che ha contribuito a infangare in questi anni», così Francesco Storace su twitter. «Se non era mafia allora cosa era? Una associazione di volontariato?». Così Matteo Salvini, dopo la sentenza della Cassazione su mafia capitale, commenta a Porta a Porta la notizia data da Bruno Vespa. Anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, sono fra coloro che hanno atteso in Cassazione la sentenza sul processo Mafia Capitale. Fuori dall'aula magna per tutta la giornata si è radunata una piccola folla di avvocati e cronisti, presenti anche alcuni imputati e familiari. Al Palazzaccio, così come è stato per il dibattimento, non sono state ammesse le telecamere. I giudici si sono riuniti in mattinata in camera di consiglio per decidere la sorte dei 32 imputati. L'anno scorso la Corte di Appello di Roma ribaltò la sentenza di primo grado condannando 17 imputati per vari reati, alcuni furono condannati anche per quello previsto dall'articolo 416bis del codice penale, e cioè l'associazione per delinquere di stampo mafioso. La sentenza della Cassazione sul processo al Mondo di Mezzo arriva dopo tre giorni di udienze fiume con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, terminata con la richiesta di conferma delle condanne dell'Appello, e le arringhe dei difensori. Un processo che ruotava intorno al 416bis, il reato di associazione mafiosa caduto in primo grado ma riconosciuto in Appello. Al vaglio dei Supremi giudici la posizione di 32 ricorrenti, tra i quali 17 condannati in Appello a vario titolo per reati di mafia. Una sentenza che arriverà a cinque anni dall'operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all'arresto rispettivamente di 37 e 44 persone. Una maxi inchiesta in cui la Procura, allora guidata da Giuseppe Pignatone, ha sostenuto come negli ultimi anni nella capitale abbia agito un'associazione di stampo mafioso, «romana» e con «caratteri suoi propri e originali rispetto alle altre organizzazioni mafiose»‎, capace di mettere le mani, con la complicità di politici e funzionari, sugli appalti pubblici: dai centri di accoglienza per i migranti ai campi nomadi, dal verde ai rifiuti. Il maxi processo si apre il 5 novembre 2015 e si conclude 20 mesi dopo, il 20 luglio 2017, con la sentenza di primo grado: condanne pesanti (meno di 300 anni di carcere complessivi rispetto ai 500 chiesti dall'accusa) ma senza il riconoscimento del 416bis, l'associazione mafiosa. Quarantuno condanne e cinque assoluzioni: Salvatore Buzzi viene condannato a 19 anni mentre Massimo Carminati a 20 anni, Luca Gramazio, invece, a 11 anni. Sentenza che viene ribaltata in Appello l'11 settembre 2018 con il riconoscimento della mafiosità dell'associazione per 18 dei 43 imputati. Per l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il ras delle coop romane le pene in Appello vengono ridotte. I due vengono condannati rispettivamente a 14 anni e mezzo e a 18 anni e 4 mesi. Ora l'ultima parola spetta ai giudici della Suprema Corte con lo spettro per molti degli imputati, attualmente liberi o ai domiciliari, anche alla luce delle nuove norme come la legge «spazzacorrotti», di finire in carcere se la condanna dovesse essere confermata anche solo in parte.

Mondo di mezzo, per la Cassazione a Roma non era “mafia Capitale”: annullata la sentenza d’Appello per Buzzi e Carminati. La sentenza emessa dai giudici della VI sezione penale fa svanire le accuse di mafiosità per l'ex terrorista nero, il ras delle cooperative rosse e altri imputati. I giudici non hanno riconosciuto il 416 bis, rinviando in secondo grado solo per la rideterminazione della pena in relazione all’associazione a delinquere semplice. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire il ragionamento seguito dalla corte. L'impressione è che, come aveva già stabilito la sentenza di primo grado, anche la Suprema corte abbia riconosciuto solo la presenza di due distinte associazioni "semplici". Il Fatto Quotidiano il 22 ottobre 2019. Al massimo era Corruzione capitale. Per la Cassazione a Roma non c’era mafia. O meglio, non era mafia quella di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La Suprema corte ha infatti dichiarato esclusa l’associazione mafiosa nel processo “mondo di mezzo“, la maxi operazione poi ribattezzata Mafia capitale proprio per la contestazione dell’associazione di stampo mafioso a molti degli imputati. Un reato escluso dal primo grado e poi riconosciuto dalla sentenza d’appello. Adesso, però, è arrivato l’annullamento dei Supremi giudici che hanno fatto cadere anche molte delle accuse contestate a Buzzi e Carminati. Ed è un annullamento senza rinvio: i giudici della Cassazione, infatti, che con la sentenza di questa sera non hanno riconosciuto il 416 bis, riqualificando l’associazione mafiosa in associazione a delinquere semplice. Si celebrerà un nuovo processo d’Appello, ma solo per la rideterminazione della pena in relazione all’associazione a delinquere semplice contestata solo ad alcuni dei 32 imputati. Tra questi ultimi anche Buzzi e Carminati. Inoltre, per quanto riguarda Buzzi, la Cassazione lo ha assolto da due delle accuse contestategli, di turbativa d’asta e corruzione, mentre per Carminati cade anche un’accusa di intestazione fittizia di beni. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire il ragionamento seguito dalla corte. L’impressione è che, come aveva già stabilito la sentenza di primo grado, anche la Cassazione non ha riconosciuto i reati di mafia ma la presenza di due distinte associazioni ‘semplici’: quella di Buzzi e quella di Carminati. “Riqualificati i reati di cui ai capi 1 e 22 ai sensi dell’art. 416 codice penale e ritenuta la sussistenza di due associazioni“, si legge infatti nel dispositivo della sentenza, la Cassazione annulla le condanne “limitatamente al trattamento sanzionatorio per i reati associativi come riqualificati”.

Raggi: “Pagina buia per la città” – La sentenza è stata emessa dai giudici della VI sezione penale, presieduta da Giorgio Fidelbo. Dopo tre giorni di udienze cominciate con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, che avevano chiesto di confermare le condanne dell’Appello, e finite con le arringhe dei difensori, gli ermellini si erano ritirati in camera di consiglio venerdì scorso. In aula per la lettura della sentenza c’era anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra. “Oggi è una giornata storica per Roma. Siamo in Cassazione per attendere la sentenza su Mafia Capitale. Oggi si chiude una vicenda che ha ferito la città. Noi siamo qui, a testa alta, per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare”, ha twittato la prima cittadina della Capitale poco prima della sentenza. Completamente diverso il tenore della dichiarazione della sindaca dopo la pronuncia della decisione dei giudici: “Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stata scritta una pagina molto buia della storia di questa città. Lavoriamo insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e diritti. Una cosa voglio dire ai cittadini onesti: andiamo avanti a testa alta”. Esultano gli avvocati difensori: “Queste è la sconfitta del modo di fare i processi di Pignatone e del Ros di Roma”, ha detto l’avvocato Giosuè Naso, difensore di Riccardo Brugia e Massimo Carminati. “Roma è liberata dalla mafia. E’ stata scritta una pagina finalmente chiara. Credo che il tempo mi abbia dato ragione. Soprattutto questo collegio che nessuno potrà mai delegittimare. La vita di Buzzi da questo momento e cambiata, potrà guardare al suo futuro”, sono invece le parole di Alessandro Diddi, difensore di Buzzi. “Mafia capitale esiste, era guidata da Buzzi e Carminati” – Il processo ruotava intorno al 416bis, l’articolo del codice che disciplina l’associazione a delinquere di stampo mafioso: contestato dall’accusa, era caduto in primo grado ma era stato riconosciuto dai giudici in Appello. Al vaglio dei Supremi giudici c’era la posizione di 32 imputati, tra i quali alcuni condannati in secondo grado a vario titolo per reati di mafia. La sentenza è arrivata a cinque anni dall’operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all’arresto rispettivamente di 37 e 44 persone. Nella sua requisitoria, il pg Birritteri ha sottolineato come il gruppo di Carminati e Buzzi avesse “tutte le caratteristiche dell’associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis”. L’ex terrorista nero, il ras delle cooperative e i loro collaboratori per l’accusa si muovevano “con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere”. Usavano la violenza quando era necessario e grazie alla corruzione gestivano il potere politico con fini criminali, sostieneva sempre la pubblica accusa. Per questo motivo il pg aveva chiesto la conferma di tutte le condanne, tranne quella del benzinaio di Corso Francia Roberto Lacopo, condannato a 8 anni in appello, per il quale era stato chiesto un nuovo processo. Per l’ex amministratore delegato di Ama Franco Panzironi, condannato in appello a 8 anni e 7 mesi, la procura generale ha chiesto la conferma della pena ma con riqualificazione del reato: da concorso esterno alla partecipazione piena all’associazione mafiosa. Che però per la Suprema corte a Roma non esisteva.

Il mondo di mezzo – La sentenza di oggi mette la parola fine a quella che è probabilmente l’inchiesta principale della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. Con l’operazione Mondo di Mezzo gli investigatori aveva ricostruito un’organizzazione criminale attiva negli ultimi anni nella capitale : un gruppo di personaggi con un passato da Romanzo criminale e un presente nei palazzi che contano, capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, di finanziare cene e campagne elettorali con una filosofia ben precisa. “È la teoria del mondo di mezzo compà. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… come è possibile… che ne so… che un domani io posso stare a cena con Berlusconi”, teorizzava Massimo Carminati. Un’intercettazione che diede il nome alle indagini degli investigatori.

L’ex nero e il re delle coop – Ex terrorista di estrema destra con i Nar, noto per i suoi rapporti con la Banda della Magliana, il Cecato aveva fatto parlare di sé per l’ultima volta nell’estate del 1999 ai tempi del maxi furto al caveau della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio. Poi nel 2014 era tornato sulle prime magine di tutti i giornali, quando era finito in cima alla lista delle persone arrestate su richiesta della procura guidata da Pignatone, già al vertice degli uffici inquirenti a Palermo e Reggio Calabria. Con lui, al vertice dell’organizzazione criminale attiva a Roma, gli inquirenti indicavano Buzzi, già condannato per omicidio, poi graziato e diventato il ras delle cooperative rosse che facevano affari con gli enti pubblici. In Appello Carminati aveva incassato una condanna per mafia ma anche uno sconto di pena: per lui la pena è scesa da 20 anni a 14 anni e sei mesi. Per Buzzi la condanna in secondo grado era passata da 19 anni a 18 e 4 mesi. La riduzione della pena era arrivata dall’esclusione del riconoscimento della continuazione interna per gli episodi di corruzione. Adesso Buzzi e Carminati, insieme ad altri 15 imputati, saranno nuovamente processati in appello: il processo, però, servirà solo ricalcolare l’entità delle condanne e non il reato.

La storia del Maxiprocesso – In attesa delle motivazioni degli ermellini, si può ipotizzare che la Suprema corte abbia seguito lo schema dei giudici della corte d’Assise. Secondo i giudici del primo grado a Roma c’erano“due diversi gruppi criminali“, uno che faceva capo a Buzzi e un altro a Carminati, ma nessuna mafia,. Una forma di criminalità organizzata né “autonoma” né “derivata” perché di fatto, secondo i giudici, era assente quella violenza, quella intimidazione che caratterizza le organizzazioni criminali punite con l’articolo 416 bis. E né la corruzione, per quanto pervasiva, sistematica e capace di arrivare fino al cuore della politica, poteva essere considerata alla stregua della forza intimidatrice tipica delle mafie. L’appello aveva ribaltato quella sentenza. Ora arriva la Cassazione: non era mafia Capitale. Solo corruzione.

"Mondo di mezzo", Cassazione "Non è associazione mafiosa". La Suprema Corte "cancella" Mafia Capitale. Per i giudici Buzzi e Carminati non facevano parte di un sistema mafioso. Angelo Scarano, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Colpo di scena nella sentenza in Cassazione su Mafia Capitale: per la Suprema Corte cade l'accusa di associazione mafiosa. Dunque il "Mondo di mezzo" che è stato raccontato in questi anni con le intercettazioni su Buzzi e Carminati, per la Cassazione non era un'associazione mafiosa. Un vero e proprio ribaltamento della sentenza di secondo grado. La Cassazione ha annullato quindi la condanna per mafia di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che in appello erano stati condannati a 18 anni e quattro mesi, per il primo, e 14 anni e mezzo per il secondo. Secondo la Corte presieduta da Giorgio Fidelbo, quella dell'imprenditore delle cooperative romane e dell'ex nar, non fu mafia. Sconfessata dunque la linea dell'accusa. Nella requisitoria, il pg Luigi Birritteri ha sottolineato come il gruppo dell'ex nar e del re delle cooperative romane abbia "tutte le caratteristiche dell'associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis". Birritteri aveva anche rincarato la dose: "Buzzi, Carminati e i loro collaboratori si muovevano con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere". Il verdetto dei giudici della Suprema Corte è arrivato alle 20 dopo tre giorni di udienze fiume con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, terminata con la richiesta di conferma delle condanne dell'Appello, e le arringhe dei difensori. La sentenza su Mafia Capitale, che non riconosce il 416bis, reato caduto in primo grado ma ammesso in Appello, giunge a cinque anni dall'operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all'arresto rispettivamente di 37 e 44 persone.

Sentenza Mafia capitale, legale Carminati: "Presto istanza scarcerazione". Eseguiti 9 arresti. Zingaretti: "La mafia a Roma c'è, nessuno si illuda". Condannne definitive per Coratti, Tassone e Tredicine e altre sei persone. Ieri la Cassazione ha cancellato l'aggravante mafiosa per 17 imputati: ora si attende il ricalcolo delle pene. Il vicesindaco Bergamo: "Singolare che qualcuno esulti". Salvatore Buzzi: "Incubo finito". La Repubblica il 23 ottobre 2019. "Ci aspettiamo che venga immediatamente revocato il 41bis, ovvero il regime di carcere duro, se ciò non dovesse accadere siamo pronti a fare istanza". E' soddisfatto  l'avvocato Cesare Placanica, difensore di Massimo Carminati, dopo la decisione della Corte di Cassazione che ha fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa per l'ex Nar e per gli altri 16 imputati. "In queste ore - aggiunge il penalista - stiamo valutando anche di presentare una istanza di scarcerazione nell'attesa che la Corte d'Appello di Roma ridetermini la pena". La stessa istanza di scarcerazione su cui già da ieri stava ragionando anche il legale di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi. Intanto, nell'attesa del ricacolo delle pene,  nove condanne sono diventate definitive e nella notte le porte dei penitenziari romani di Rebibbia e Regina Coeli  si sono aperte per l'ex presidente dell'Assemblea Capitolina Mirko Coratti, per l'ex dirigente che si occupava della cura del Verde a Roma Claudio Turella, Sandro Coltellacci, Franco Figurelli, Guido Magrini, Mario Schina, Andrea Tassone ex presidente del municipio di Ostia,  Giordano Tredicine ex consigliere comunale,  e Marco Placidi ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Sant'Oreste. Il passaggio in giudicato della sentenza ha dato immediata esecuzione alla pena detentiva, precludendo, così come previsto dalla legge Spazzacorrotti, ai condannati la possibilità di richiedere e usufruire di misure alternative al carcere, come l'affidamento in prova ai servizi sociali o gli arresti domiciliari. In particolare la legge è stata applicata, tra gli altri, nei confronti di Turella, Coratti e Tassone, che dovranno scontare una pena residua di oltre tre anni, del dirigente regionale Guido Magrini e - infine - dell'ex consigliere comunale Giordano Tredicine. Nello specifico, Coratti dovrà quindi scontare una pena residua di 3 anni, 7 mesi e 6 giorni di reclusione, con pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e incapacità di contrarre con la pa per 4 anni e 6 mesi. Tassone dovrà invece scontare una pena residua di 3 anni, 11 mesi e 16 giorni di reclusione con pena accessoria di interdizione perpetua dai pubblici uffici, incapacità di contrarre con la pa per 5 anni e interdizione legale durante l'esecuzione della pena.  "Trovo singolare che qualcuno possa festeggiare il fatto che si riconosce la presenza massiccia delle associazioni criminali semplicemente perchè non viene riconosciuta l'aggravante della mafia". Commenta  il vicesindaco di Roma, Luca Bergamo. "Non sono tanto stupito dalla sentenza- ha aggiunto- ma francamente trovo singolari i commenti di chi gioisce. C'è una distonia nel dire 'che bello, e' solo associazione a delinquere e non mafia. Ma è associazione a delinquere. Sembra che il non riconoscimento dell'aggravante possa essere motivo di soddisfazione, ma a me sembra angosciante trovare elementi di criminalità all'interno della vita pubblica della città". A proposito invece di chi ha parlato di un venir meno della strategia politica e comunicativa dei Cinque Stelle sulla presenza della mafia, Bergamo ha detto "questa roba non la commento nemmeno".

Buzzi: "Incubo finito". "L'incubo è finito, voglio uscire da questo inferno dietro le sbarre e tornare a casa". Ecco le prime parole che Salvatore Buzzi, uno dei protagonisti dell'inchiesta Mafia Capitale, pronuncia ai suoi avvocati Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro. Tramite dei due legali, l'Adnkronos riporta le sue parole a commento della sentenza. Buzzi - a detta dei difensori - potrebbe tornare in libertà dopo la decisione della Cassazione di eliminare dal processo (che lo ha visto comunque condannato) il profilo mafioso. "Dopo oltre 4 anni vedo di nuovo la luce, ho un futuro davanti a me - dice Buzzi - sono emozionato, incredulo, e sotto sotto ci speravo anche se si era creata una situazione surreale perché avevano costruito giudiziariamente e mediaticamente un'immagine distorta". E ancora: "La Cassazione ha condannato soprattutto la politica che mi spremeva per farmi lavorare. Erano loro, non io, a chiedere favore e soldi. Per lavorare dovevo pagare, ma la mafia non c'entrava, non c'era.  Io ho sbagliato, mivergogno, ho confessato i miei sbagli e ho pagato tutto. Hanno scritto un film su me e Carminati e non hanno raccontato la verità su un male che attanaglia Roma da sempre: la corruzione".

Zingaretti: "A Roma e nel Lazio la mafia c'è, nessuno si illuda". Su Mafia Capitale "leggo commenti come se non fosse accaduto nulla", ma la sentenza "conferma l'esistenza di un potere criminale che è stato smantellato. Vedremo gli atti, ho capito che non è stato individuato un sistema intimidatorio. A Roma e nel Lazio c'è la mafia, nessuno si illuda, io lo so come presidente della Regione. Ognuno dica la propria, ma sia chiaro che il pericolo mafioso è fortissimo e bisogna tenere altissimo il livello di mobilitazione delle forze dell'ordine". Così il segretario Pd e presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti a Porta a Porta.

Mafia Capitale non è Mafia. Ecco cosa c'è dietro la decisione della Corte di Cassazione che si è pronunciata sull'inchiesta legata a Carminati & soci a Roma. Giorgio Sturlese Tosi il 23 ottobre 2019 su Panorama. Gli ermellini hanno atteso che Giuseppe Pignatone andasse in pensione, che lasciasse la carica di procuratore di Roma e, da pensionato, ricoprisse quella di presidente del Tribunale del Vaticano, per cancellare in pochi minuti di lettura della sentenza i frutti del suo lavoro più importante, l’inchiesta del Mondo di Mezzo su Mafia Capitale. La corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza della corte d’Appello di Roma che aveva riconosciuto l’associazione mafiosa per l’ex dominus delle coop rosse di Roma, Salvatore Buzzi, e per l’ex Nar della banda della Magliana Massimo Carminati, detto “er Cecato”. Due criminali che, ognuno nel suo ambito, avevano condizionato la politica e gli affari della Capitale, attraverso la corruzione, le violenze, il traffico di influenza finalizzate alle turbative d’asta, ad accaparrarsi appalti pubblici, infettando Roma e accelerando - e agevolando – il fallimento delle amministrazioni comunali, da Alemanno a Marino. Gli arresti del 2014 provocarono un terremoto che spianò la strada al Campidoglio al Movimento 5 Stelle, che al grido “onestà, onestà!” lo espugnò. La tesi della procura di Pignatone, ardita e discussa fin da subito, fu che, oltre lo stretto di Messina, lontano dalle grotte dell’Aspromonte e senza passare dai vicoli partenopei esistesse anche una mafia capitolina, “autonoma, originaria e originale”. Ma in Italia le corti fanno fatica a affibbiare l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 416 bis – nato nel 19982 per contrastare la mafia siciliana – a boss di provenienza diversa (che siano albanesi, cinesi, nigeriani o, in questo caso, romani). E così della mafiosità della suburra ne parleranno solo romanzi e film, perché arte e letteratura sono più lungimiranti e perspicaci dei codicilli. E resteranno negli annali della cronaca giudiziaria alcune delle frasi pronunciate dagli imputati assurte a paradigma. Come quella pronunciata da Salvatore Buzzi che, intercettato, diceva: “Tu c’hai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende de meno”. O quella di Carminati, che ha dato il nome all’inchiesta del Ros dei carabinieri: “Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo”. A Roma però la mafia non c’è (resiste invece a Ostia, dove operavano i clan Casamonica e Fasciani). Del resto già un primo verdetto, nel 2017, aveva bocciato la tesi della procura di Roma, riconoscendo le associazioni a delinquere semplici. Un giudizio ribaltato dalla sentenza d’Appello l’anno successivo. Fu la vittoria dei pm Cascini, Ielo e Tescaroli, coordinati appunto da Giuseppe Pignatone. Ma la Sesta sezione penale del Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ribaltato il verdetto e rimandato ad un nuovo processo d’appello per rideterminare le pene in virtù della nuova sentenza. Con Carminati e Buzzi sono da rivedere dunque le condanne, tra gli altri, di Luca Gramazio, ex capogruppo di Fi in Regione Lazio, Franco Panzironi, già capo di Ama, la municipalizzata dei rifiuti. Poco cambia, vista la conferma delle condanne per Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale di Roma in quota Pd, del consigliere comunale Giordano Tredicine (Fi) e di altri coimputati. Quello che conterà davvero, però, sono le motivazioni della sentenza della Cassazione che molti, non solo a Roma, attendono con apprensione, per le implicazioni che potrebbero avere su decine di inchieste e processi per mafia in tutta Italia, escluse quelle dove operano i mafiosi originali con tanto di coppola. 

«La mafia a Roma non è solo quella del Sud: la Procura non si arrende». Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. L’aggiunto Prestipino e la sentenza della Cassazione: «Ora c’è un nuovo verdetto, ma la corruzione resta la vera emergenza criminale della Capitale». «Mafia capitale» non era mafia , ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l’ufficio in qualità di capo «facente funzioni», rifugge da questa logica. «Non era una scommessa, e la nostra ricostruzione giuridica sull’associazione criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c’erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari».

Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazione era un azzardo?

«Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l’esistenza delle “piccole mafie” slegate dal controllo del territorio. Ora c’è questo nuovo verdetto, e dalle motivazioni scopriremo se è stato messo in discussione quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presupposti per applicarlo».

Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente?

«Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazioni. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigativo dei carabinieri del Ros, ha comunque scoperto e smantellato un sistema criminale che, al di là della qualificazione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell’amministrazione comunale di Roma».

Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco.

«A parte il fatto che per noi il “mondo di mezzo” era un unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazioni a nome mio e dell’ufficio che rappresento. La prima: non ci rassegniamo all’idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerata come un fattore fisiologico nelle dinamiche amministrative di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromette il tessuto sociale e le possibilità di sviluppo economico».

La seconda precisazione?

«Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c’è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolare sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificati come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisorie, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzazioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna».

A che cosa?

«Al paradigma secondo cui per riconoscere il metodo mafioso si debba ricorrere al “criterio etnico”: in presenza di siciliani, calabresi o campani c’è, altrimenti no».

Quindi continuerete con le «interpretazioni evolutive» in materia di mafia?

«Non interpretazioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazione di ciò che dice l’articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L’assoluta particolarità del Mondo di mezzo non era di essere una “piccola mafia”, bensì l’ipotesi che l’intimidazione derivante dal vincolo associativo potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell’amministrazione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione».

C’è chi dice che lei e il procuratore Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato.

«Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie».

La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell’ipotesi mafiosa, che ora è caduta.

«Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccuparsi delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichiamo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimento, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della sera” il 24 ottobre 2019. 

«Mafia capitale» non era mafia , ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l'ufficio in qualità di capo «facente funzioni», rifugge da questa logica.

«Non era una scommessa, e la nostra ricostruzione giuridica sull' associazione criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c' erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari».

Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazione era un azzardo?

«Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l' esistenza delle "piccole mafie" slegate dal controllo del territorio. Ora c' è questo nuovo verdetto, e dalle motivazioni scopriremo se è stato messo in discussione quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presupposti per applicarlo».

Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente?

«Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazioni. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigativo dei carabinieri del Ros, ha comunque scoperto e smantellato un sistema criminale che, al di là della qualificazione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell' amministrazione comunale di Roma».

Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco.

«A parte il fatto che per noi il "mondo di mezzo" era un unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazioni a nome mio e dell' ufficio che rappresento. La prima: non ci rassegniamo all' idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerata come un fattore fisiologico nelle dinamiche amministrative di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromette il tessuto sociale e le possibilità di sviluppo economico».

La seconda precisazione?

«Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c' è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolare sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificati come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisorie, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzazioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna».

A che cosa?

«Al paradigma secondo cui per riconoscere il metodo mafioso si debba ricorrere al "criterio etnico": in presenza di siciliani, calabresi o campani c' è, altrimenti no».

Quindi continuerete con le «interpretazioni evolutive» in materia di mafia?

«Non interpretazioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazione di ciò che dice l' articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L' assoluta particolarità del Mondo di mezzo non era di essere una "piccola mafia", bensì l' ipotesi che l' intimidazione derivante dal vincolo associativo potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell' amministrazione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione».

C' è chi dice che lei e il procuratore Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato.

«Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie».

La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell' ipotesi mafiosa, che ora è caduta.

«Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccuparsi delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichiamo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimento, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche».

«A Roma la mafia è capillare. E i clan usano la città come lavatrice di denaro sporco». Le sentenze sulla Capitale e Bologna eliminano il reato di associazione mafiosa. Eppure il metodo è sempre lo stesso: intimidazione  e assoggettamento. Parla il Procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho. Giovanni Tizian l'8 novembre 2019 su L'Espresso. È mafia. Anzi no. Prima la sentenza della Cassazione sul “Mondo di mezzo “ di Massimo Carminati, la fu mafia Capitale, per intenderci. Poi la corte d’Appello di Bologna che cancella il reato di associazione mafiosa, riconosciuto in primo grado, per il re del gioco d’azzardo legale legato alla ’ndrangheta e riconduce il tutto a una semplice banda di delinquenti lasciando tuttavia l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. Giudici che smentiscono altri giudici. E il cittadino che fatica a orientarsi in questo continuo altalenarsi di giudizi. Ne abbiamo parlato con il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che ha vissuto in prima linea l’evoluzione delle mafie. Prima a Napoli sul fronte di Gomorra e dei clan diventati miliardari con l’affare “monnezza”, poi a Reggio Calabria dove ha toccato con mano la masso-’ndrangheta messa sul banco degli imputati dall’aggiunto Giuseppe Lombardo. Gli scenari vissuti da protagonista da De Raho sono contraddistinti da organizzazioni che fanno parte di sistemi criminali più complessi, nei quali il capitale relazionale conta più del kalashnikov.

Procuratore, proviamo a partire dalle basi per nulla scontate oggi. Ci può spiegare cos’è la mafia, cosa sono le mafie?

«Da un punto di vista tecnico-giuridico, il reato previsto dal 416 bis delinea un’organizzazione che si distingue per l’utilizzo del metodo mafioso, mentre l’associazione semplice, punita dal 416, non usa tale metodo»

Davamo per scontato cosa si intendesse per metodo mafioso, ci sbagliavamo.

«Il metodo mafioso porta con sé la forza intimidatoria e di assoggettamento, da questi elementi deriva l’omertà, la paura e la soggezione di chi subisce le attività del gruppo criminale. Ma è proprio su questa linea interpretativa che si gioca la partita. In passato si riteneva che l’esistenza della cosca mafiosa fosse determinata soprattutto dalla territorialità: è mafia se ha un territorio di dominio definito e circoscritto sul quale esprime la propria forza intimidatrice. Da qui le conferme in Cassazione dell’esistenza della camorra, della ’ndrangheta e di Cosa nostra. Forza-territorio, il binomio che ha prevalso per molti anni. Ma nel tempo i giudici si sono resi conto che esistono organizzazioni la cui forza si può manifestare non per forza su un territorio o area geografica. Sono arrivate così le condanne per 416 bis di gruppi criminali albanesi, nigeriani e cinesi, che agivano con metodo mafioso sulle loro comunità e non tanto sul territorio circostante. Si è fatto perciò un salto di qualità interpretativo laddove si è ritenuto che possono esistere “piccole mafie” diverse da quelle tradizionali. E questo ha permesso di riconoscere come associazioni mafiose le cellule autonome delle mafie tradizionali fuori delle regioni meridionali. Oppure pensiamo alle “piccole mafie” di Ostia, il percorso di riconoscimento del clan Fasciani ha seguito giudizi altalenanti: primo grado mafia, secondo grado non lo era più, per la Cassazione ritorna a essere mafia e rinvia in Appello. Questi esempi dimostrano come ormai la giurisprudenza dia più valore al metodo del gruppo criminale che al territorio».

Eppure le ultime sentenze, la Cassazione su Carminati e la Corte d’Appello a Bologna...

«Ovviamente non mi esprimo sul giudizio dato dai giudici. Aspetteremo le motivazioni e capiremo solo allora se la Corte ha intrapreso un diverso orientamento. Tuttavia dobbiamo tenere in considerazione un altro elemento. Ci troviamo sempre più spesso a investigare sulle mafie silenti, organizzazioni storiche che però si impongono nel mercato senza alcuna minaccia. Pensiamo alle mafie tradizionali radicate nel Nord Italia, che operano senza atti di violenza esplicita e si impongono nel tessuto economico con la corruzione, con la forza dell’appartenenza a un gruppo. Non, dunque, l’intimidazione classica».

Un modello che in realtà ricorda la mafia raccontata da Leonardo Sciascia nel “Il giorno della civetta”. Il potere legale a braccetto con quello mafioso. Un sistema unico, una mafia trasparente, che si vede e non si vede. Per colpirlo servono nuove leggi?

«Fermo restando il 416 bis, che dal 1982 ci permette di contrastare con efficacia i clan nelle loro diverse declinazioni, dovremmo cercare di guardare anche come queste ulteriori evoluzioni criminali possono essere affrontare nel migliore modo possibile».

Carminati e il suo “mondo di mezzo” rientrano in questo processo evolutivo?

«Da quel che abbiamo visto a Roma colpisce l’altalena di giudizi. Si tratterà di capire che interpretazione hanno dato i giudici di Cassazione agli elementi raccolti. Anche perché è utile sottolineare come sia stata proprio la Cassazione in questi ultimi anni a spostare l’attenzione dal concetto di territorio occupato al metodo usato, dando più valore a quest’ultimo nel riconoscimento del 416 bis. Le mafie del nostro tempo aggregano pezzi di economia sana, alla quale offrono servizi illegali. Così entrano e conquistano settori produttivi. Una volta infiltravano con le estorsioni, l’imposizione per entrare negli appalti. Oggi accedono con il metodo dell’accordo, facendo risultare quest’ultimo vantaggioso. Seppure possa sembrare meno invasiva, condiziona pesantemente la vita delle persone. Pensiamo per esempio agli imprenditori perbene che non scendono a patti e restano esclusi dal giro di appalti e commesse. Che cos’è questa se non mafia?».

Neppure la Banda della Magliana lo era secondo la Cassazione. Eppure c’erano omicidi, sequestri, droga, rapporti con apparati deviati dello Stato, con le mafie tradizionali.

«In quegli anni però i giudici utilizzavano l’interpretazione più restrittiva del 416 bis. Fondata soprattutto sulla territorialità».

Ma quindi a Roma la mafia non c’è?

«Nella Capitale c’è una capillare presenza mafiosa, con decine di clan che usano la città come lavatrice di denaro sporco. Quindi c’è ed è forte».

Risaliamo la penisola. Nel processo d’Appello di Bologna contro il re del gioco d’azzardo legale (ex narcotrafficante legato alla ’ndrangheta) i giudici hanno stabilito che si trattava di associazione semplice, lasciando però l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. In primo grado, invece, il tribunale aveva riconosciuto il 416 bis. In secondo grado, in pratica, si riconosce il metodo per qualche singolo fatto ma non per l’intera organizzazione.

«Anche per la sentenza di Bologna dovremo attendere le motivazioni. Possiamo intanto dire che il metodo è ciò che contraddistingue l’associazione. Non è facile scindere il metodo dall’organizzazione».

Certo è difficile farlo comprendere ai cittadini non addetti ai lavori.

«Giovanni Falcone diceva: “Cosa nostra è forte perché ha rapporti con la politica e con i poteri economici”. Per smascherare la parte “invisibile” delle mafie è necessario mettere insieme elementi che vengono da anni di indagini, valorizzare quei dettagli che in prima battuta sembravano marginali».

Invisibili. Un altro concetto complesso da spiegare al mio vicino di casa.

«Esistono livelli occulti, riservati, all’interno di un’organizzazione, sconosciuti agli stessi affiliati, ai manovali dei clan».

Riciclaggio, corruzione, evasione. Reati spia della presenza mafiosa ma che la maggioranza delle persone non percepisce come allarmanti.

«Non è semplice far comprendere la complessità di clan che non sparano. Però le ricadute delle mafie d’affari sono sotto i nostri occhi, così come i loro investimenti. Pensiamo ai miliardi di euro riversati nelle nostre città che provengono dai traffici di cocaina. Questo è inquinamenti dell’economia. C’è un fiume di denaro che non riusciamo sempre a intercettare».

Dopo la sentenza di Cassazione su Carminati, alcuni hanno esultato: è “solo corruzione”, in fondo siamo a Roma, “da sempre è così”. La mazzetta non fa paura?

«Dovrebbe farne molta invece. Distrugge l’economia, riduce la libertà degli imprenditori, dei cittadini. Trasforma i diritti in favori concessi al miglior offerente. Chi non paga resta fuori, fallisce, muore. E non è un caso che nelle indagini sulla corruzione si stiano usando strumenti antimafia. Anche perché sempre più di frequente scopriamo che sono le cosche a usare la corruzione per oliare meccanismi della pubblica amministrazione».

Le indagini sulla massoneria e le mafie, pensiamo a Reggio Calabria, le inchieste sul sistema messo in piedi da Antonello Montante dietro il paravento della legalità, mafia Capitale e le indagini sul gioco d’azzardo legale, come quella di Bologna. C’è un filo interpretativo unico?

«Il tratto comune è la complessità. Sono fenomeni che sfuggono allo stereotipo del padrino. Si inseriscono in contesti più ampi, di sistemi criminali che interagiscono e si rafforzano. Un tempo era sufficiente guardare alla struttura della cosca, oggi andrebbero osservati i settori economici di alto livello, ma qui riconoscere la mafia diventa ancora più difficile. La confisca delle attività, piccole e medie, di proprietà delle cosche non è del tutto indicativa della vera pervasività delle organizzazioni».

Cioè?

«Bisogna investire di più sulle indagini che puntano ai grandi meccanismi economici e finanziari. Andrebbe a vantaggio di chi in quel settore rispetta le regole ed è tagliato fuori da chi invece costruisce imperi con altri metodi».

Non le sembra che l’attenzione di tutti sia notevolmente calata sulla questione mafiosa?

«Che si parli poco di mafia mi sembra evidente. Quando Mario Draghi era a capo di Bankitalia, nella sua relazione finale denunciava l’asfissiante pressione delle mafie sull’economia italiana. Draghi ci stava dicendo: il Paese ha una grande zavorra, le mafie. Da allora, tuttavia, i fatti indicano che nulla è cambiato. Le mafie si sono raffinate ulteriormente e continuano a infettare il mercato e i gangli vitali delle istituzioni».

Mondo di mezzo, l'ex giudice di Cassazione: «Ci sono due errori in quella sentenza». La decisione di non riconoscere mafia capitale è discutibile. Parla Esposito, già presidente della seconda sezione della Suprema Corte. Gli fa eco Maurizio Fumo: «L'assenza di "morti a terra" non deve ingannare perché la mafia, da sempre, uccide solo quando è debole». Nello Trocchia l'08 novembre 2019 su L'Espresso. “Ci sono due errori in quella sentenza, quell'indagine non è da discutere, come qualcuno ha fatto, perché ha scoperto un verminaio”. Antonio Esposito, già presidente della seconda sezione della Cassazione, esprime le sue critiche in merito alla sentenza della Suprema Corte su "mafia capitale" che ha assolto gli imputati dall'accusa di associazione mafiosa. Un parere non isolato. In questi giorni anche Maurizio Fumo, ex presidente della quinta sezione penale della Cassazione, in pensione da poco, ha evidenziato: “Le associazioni di tipo mafioso sono presenti, ormai e non da poco, in tutta Italia, come dimostrano i processi che ci sono stati in Piemonte, in Emilia Romagna in Lombardia”. E sulla sentenza "mafia capitale", in attesa delle motivazioni, chiarisce: “Evidentemente sono state rimeditate le posizioni precedentemente espresse, ma alla fine il problema si riassume nella questione di dove vogliamo porre i confini tra mafia e criminalità comune. E' alla sostanza delle cose che bisogna guardare e l'assenza di "morti a terra" non deve ingannare perché la mafia, da sempre, uccide solo quando è debole o quando deve affermare (o riaffermare) il suo predominio”.  Il pronunciamento della Cassazione, arrivato una settimana fa, ripropone il tema del riconoscimento dell'associazione mafiosa per le bande criminali che lucrano e fanno affari nella capitale. Antonio Esposito, già presidente della seconda sezione della Cassazione, quella che nell'agosto 2013, confermò la condanna a Silvio Berlusconi per frode fiscale, critica aspramente la sentenza che ha assolto Salvatore Buzzi e Massimo Carminati dall'accusa di mafia. Esposito, in venti anni di attività ha scritto centinaia di sentenze che hanno riguardato tutte indistintamente le associazioni criminali: dalla camorra (in particolare, il "clan dei casalesi"), alla 'ndrangheta, alla mafia (stragi mafiose tra le quali l'attentato dell'Addaura nei confronti di Giovanni Falcone; omicidi mafiosi tra cui quello del piccolo Santino Di Matteo, oltre il processo a carico del governatore Cuffaro condannato per favoreggiamento della mafia).

La Corte di Cassazione ha assolto gli imputati nel processo scaturito dall'indagine "mondo di mezzo" dal reato di associazione mafiosa, condivide questa decisione?

«Per esprimere un giudizio completo, è necessario attendere il deposito delle motivazioni della Corte. La decisione, a quanto si può evincere dal dispositivo, mi sembra, comunque, discutibile».

Perché?

«È sicuramente molto discutibile che la Corte di legittimità – a fronte di una motivazione della Corte di Appello che, con specifico riferimento a plurime risultanze processuali, ha ritenuto, con diffuse argomentazioni che non appaiono manifestamente illogiche e contraddittorie essersi in presenza, di un’unica, inscindibile, associazione a delinquere di cui ha rilevato, per centinaia di pagine, il carattere mafioso – possa ravvisare l’esistenza di due distinte associazioni a delinquere ciò comportando una valutazione in fatto e un accertamento di merito non consentiti al giudice di legittimità che, ove avesse, in ipotesi, ritenuto manifestamente illogica o contraddittoria la motivazione in proposito adottata dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto annullare la decisione con rinvio ad altra sezione della Corte di merito per nuovo esame sul punto».

Insomma il primo errore, a suo avviso, è che la Cassazione dovrebbe esprimere un giudizio di legittimità e, invece, in questo caso è entrata nel merito dei fatti. Quale altro errore ravvisa?

«C'è un altro errore, a mio avviso, in cui è incorsa la sesta sezione penale della Corte, spesso incline all’annullamento, da ultimo quello concernente la misura cautelare personale emessa a carico del Presidente del Consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito indagato per corruzione. Da quel che emerge dal dispositivo, la Corte di Cassazione ha mantenuto ferma l’aggravante (già riconosciuta in appello) di cui all’articolo 7 (aggravante mafiosa) per quegli imputati che costituivano la prima delle due associazioni “semplici”, capeggiata da Massimo Carminati – pericoloso pregiudicato con un elevatissimo spessore criminale gli consentiva di esprimere una notevole forza di intimidazione verso l’esterno – e composta anche da Riccardo Brugia, “braccio destro” di Carminati, Matteo Calvio (detto “lo spezzapollici”) e da Roberto Lacopo, dediti alle estorsioni. Ed, allora, i partecipanti all’associazione a delinquere capeggiata da Carminati hanno posto in essere plurimi reati di estorsione usando il metodo mafioso cioè condotte con forme di violenza o minaccia che assumono “veste” tipicamente mafiosa (percosse, lesioni, minacce di morte, minacce di incendiare manufatti, minacce di inviare emissari per superare le resistenze della vittima, ecc.). Risulta allora difficile ritenere che a tale sodalizio non sia contestabile il 416 bis, l'associazione mafiosa; tale ipotesi, infatti, si configura, in luogo di quella di cui all’art. 416, l'associazione a delinquere semplice, e se ne distingue, proprio per le forme di condotte da cui derivano condizioni di assoggettamento e di omertà»

Questo pronunciamento è un salto all'indietro nel contrasto al crimine organizzato, inteso come rapporto con politica e imprenditoria?

«No, perché la sentenza ha comunque riconosciuto l'esistenza di un'associazione per delinquere (sia pure non mafiosa ma "semplice") finalizzata alla corruzione politica e a turbare la libertà degli incanti nei pubblici appalti».

Presidente, in passato, la Corte di Cassazione con la sentenza sulle cosiddette "piccole mafie" aveva, nei fatti, allargato ed esteso l'applicabilità del 416 bis, in questo modo si cancella quel portato giuridico?

«La prevalente giurisprudenza della Corte – che ha ben quattro sezioni che si interessano a turno della criminalità organizzata – continuerà a ritenere l'esistenza delle "piccole mafie" sempre, però, che "i reati-fine" siano stati commessi con modalità tipiche "mafiose"».

Presidente, la città di Roma sembra ignorare le organizzazioni mafiose. Prima prefetti, poi noti opinionisti e anche questa sentenza, sembrano dire che le mafie ci sono, ma non a Roma. Che ne pensa in linea generale di questo approccio?

«A Roma non esiste un'unica organizzazione mafiosa nel senso tradizionale del termine (con le sue pratiche di affiliazione, con i suoi capi-mandamento, capi-decine, ecc.), ma esistono plurimi, distinti gruppi criminali che controllano i rispettivi territori, sono dediti al traffico di sostanze stupefacenti, usura ed estorsioni, pongono in essere atti di violenza o minaccia e, più compiutamente, di intimidazione da cui scaturiscono i fenomeni dell’assoggettamento e della omertà. In tal caso si è in presenza di autonome consorterie delinquenziali che mutuano il metodo mafioso in uso a clan operanti in altre aree geografiche, sì da conseguire – in concreto e nell’ambiente nei quali essi operano – una effettiva capacità di intimidazione. Del resto, la Corte di Cassazione, questa volta la terza sezione penale, con sentenza del 30 aprile 2019, ha riconosciuto il carattere mafioso all’associazione criminale Casamonica-Spada».

Qualcuno dopo la sentenza ha scritto 'mafia capitale era una fake news', che ne pensa?

«Non è assolutamente così. L’indagine condotta dalla Procura di Roma ed, in particolare, dal Procuratore aggiunto Michele Prestipino ha, comunque, avuto il merito di scoperchiare il verminaio della corruzione politica esistente a Roma, e scoperto, il torbido intreccio tra politici e pubblici ufficiali da un lato e pericolosi pregiudicati dall’altro».

A Roma si moltiplicano casi di violenza di strada, tutti riconducibili al traffico di droga, ma spesso di tende a ridimensionare, lei che ne pensa?

«È un gravissimo errore, come ha già fatto qualche autorità, sottovalutare il fenomeno criminale e mafioso»

Mafia capitale, Placanica: «I giudici devono sentirsi liberi da condizionamenti anche dei giornali». Simona Musco il 24 Ottobre 2019 su Il Dubbio.  Corrotti ma non mafiosi. Cesare Placanica, presidente Camere penali di Roma : «Ora liberiamo I processi dalle pressioni mediatiche». Continue «pressioni mediatiche e politiche». Un’estensione dell’aggravante mafiosa «tecnicamente impossibile». E un utilizzo del 41 bis «folle» per l’ex Nar Massimo Carminati. L’ipotesi mafia, quella del “Mondo di Mezzo”, per il presidente della Camera penale di Roma, Cesare Placanica, è stata «una forzatura giuridica». Un pericolo scampato, racconta al Dubbio il penalista, ma che rappresenta il frutto del populismo di cui si nutre la politica.

La sentenza del processo “Mafia Capitale” ci dice che l’applicazione dell’aggravante mafiosa ai fenomeni di corruzione è errata. Che peso ha questa decisione?

«È un passaggio molto importante, perché, nell’ottica di un’esigenza sociale, si è cercato di estendere mediante l’interpretazione la riconducibilità di alcuni comportamenti che non si ritenevano sufficientemente coperti da norme del codice penale ad altre norme esistenti. Ed è un meccanismo che va rigettato con serietà: il primo pericolo nell’esercizio della giurisdizione è l’arbitrio. Che non vuol dire malafede, ma essendo l’applicazione della giurisdizione penale un fatto violento, quindi di estrema ratio, va dosato con grandissima serietà e accortezza. Tant’è vero che su questi aspetti, più volte ultimamente, siamo stati bacchettati dalla Cedu, come nel caso Contrada».

Il tentativo di equiparare la corruzione alla mafia è però poi riuscito in qualche modo con la Spazzacorrotti… 

«Purtroppo questo è il frutto del populismo. Ad esempio, sulla prescrizione, che tutti d’istinto odiano, come Unione delle Camere penali abbiamo fatto uno sforzo per liberare l’opinione pubblica dai racconti favolistici, con uno studio che dimostra che, in questo momento, ha tempi lunghissimi. Si tiene una persona a processo anche per 18 anni senza sapere se è colpevole o innocente. Ma il populismo ha interesse a confondere le acque, a non dare il dato effettivo. E ingenerando paura, creando una rappresentazione artefatta del dato, poi veicola verso di sé un consenso drogato, perché indotto in errore. Cose come le manette agli evasori rappresentano leggi manifesto, ma non risolvono veramente il problema. Come la Spazzacorrotti. Il processo è una cosa molto delicata, dove il protagonista è l’imputato e si deve accertare se ha commesso un reato e se corrisponde ad una norma incriminatrice. Tutto il resto è un elemento di disturbo. La giustizia si fa mediante la polizia giudiziaria, fino al momento in cui comincia il processo. Poi escono tutti di scena ed entrano le parti processuali».

Ma ciò non accade. Quali sono le conseguenze?

«Questo rende necessaria la figura del giudice coraggioso, perché deve contrastare l’aspettativa popolare, creata al di fuori delle aule, e avere anche il coraggio di esporsi alla critica. Ma non è previsto che i giudici siano coraggiosi. Devono esserlo negli Stati autoritari, in quelli democratici devono sentirsi liberi. Ecco perché ogni forma di pressione sul processo diventa una forma di pressione sul giudice e un mezzo per inquinare l’effettività della giurisdizione».

Crede sia successo anche in questo processo?

«Il problema è questo: io faccio un’indagine e su questa si avventano i soggetti esterni che la strumentalizzano rispetto al proprio tornaconto, alterando la normale dialettica processuale. Certamente su Mafia Capitale c’è stata un’attenzione tale da creare aspettative di un certo tipo e, quindi, delusione per la sentenza. Ma io penso che bisogna essere contenti a sapere che in realtà non era mafia».

Perché tecnicamente non può esserlo?

«Mancavano alcuni elementi fondamentali della fattispecie mafiosa. È vero che la giurisprudenza consente le nuove mafie, ma queste non hanno un potere di coartazione del territorio tipico della mafia storica. Per acquisire questo timore reverenziale, per cui un mafioso ottiene senza chiedere, si deve sapere, in quel contesto, che è un mafioso, che è pericoloso e che è in grado di esprimere, se non assecondato, una carica di violenza. E questo o è radicato in un certo territorio in maniera storica o si sa perché è stata espressa questa carica di violenza. In questo processo l’ultimo tassello mancava completamente».

Nemmeno la presenza di Carminati bastava?

«La sua fama è nata nel corso del processo con alcuni articoli di stampa. Tant’è vero che nelle intercettazioni i soggetti coinvolti dicono: “ma tu hai capito chi era quello?” Insomma, lo hanno saputo da un giornale. Quella di Carminati non è una storia di controllo mafioso del territorio e i suoi precedenti non bastano per contestare l’aggravante mafiosa, altrimenti potrebbe accadere a chiunque ne abbia».

Come si qualificano allora le nuove mafie? Va cambiato il 416 bis?

«In questo momento i reati dei pubblici ufficiali sono puniti con pene severissime. Senza contestare la mafia non si rimane impuniti. E la norma così va più che bene, perché l’associazione a delinquere semplice consente già pene alte. La mafia è un’aggravante specifica quando un determinato territorio dello Stato non è libero e non è possibile estenderla, in modo forzato, ad altri tipi di comportamenti già specificamente sanzionati».

Mandare al 41 bis Carminati è stato dunque un abuso?

«Il 41 bis è un trattamento inumano, tout court. Ferma restando la finalità di isolare il soggetto dal contesto mafioso, che può essere condivisibile, non si può tradire il rispetto della dignità umana. Nel caso di Carminati ritengo sia stato una follia giuridica. Se la ratio è evitare contatti con l’associazione di provenienza, quella di Carminati, per ammissione del procuratore di Roma e del Prefetto che non ha sciolto l’amministrazione, era già stata debellata. Allora quali contatti andavano recisi?»

Mafia capitale, la fiction su boss, picciotti e padrini che ha travolto Roma. Paolo Delgado il 24 Ottobre 2019 su Il Dubbio. L’inchiesta smontata dalla Corte di Cassazione. La storia politica della capitale è stata pesantemente condizionata dall’indagine di Pignatone ma ora di quel teorema criminale rimangono solo macerie. Senza l’inchiesta "Mondo di mezzo" la giunta Marino sarebbe stata disarcionata dall’alto, dal segretario dello stesso partito dell’allora sindaco di Roma? Senza quella che i giornalisti ribattezzarono, già subito dopo i 37 arresti del 2 dicembre 2014, "Mafia capitale", Virginia Raggi sarebbe oggi prima cittadina della Capitale? L’M5S avrebbe raccolto ugualmente la copiosa massa di voti che la ha reso per un po’, nel 2018, il primo partito d’Italia e tuttora la principale forza parlamentare? Sui giornali di ieri campeggiavano articoli impegnati a definire la sentenza della Cassazione che ha cancellato le condanne per associazione mafiosa per i protagonisti dell’inchiesta più esplosiva dell’ultimo decennio "un passo indietro", un esempio di "negazionismo". Moltissimi, a partire dall’ex assessore della giunta Marino Sabella, hanno ricordato che comunque «a Roma la mafia c’è e altre sentenze della Cassazione lo hanno confermato». Un muro a difesa del sostegno acritico che quasi tutti i media e quasi tutte le forze politiche hanno garantito a un’inchiesta che, in realtà, doveva apparire fragile sin dall’inizio. Sarà bene riassumere l’impianto accusatorio e i suoi limiti. Sulla cooperativa di ex detenuti "29 giugno", guidata da Salvatore Buzzi e fortemente connotata a sinistra, grandinano accuse di corruzione, in una rete che coinvolge alcuni dei principali esponenti della politica locale sia di destra che di sinistra. Con Buzzi e i politici inquisiti finisce alla sbarra anche Massimo Carminati, che non è di sinistra ma di estrema destra, ha frequentato negli anni ‘70 e ‘80 i Nar di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ha perso un occhio mentre tentava di passare clandestinamente il confine con la Svizzera, è stato vicino anche alla banda della Magliana e in particolare al suo primo capo storico, Franco Giuseppucci detto "er Negro". Carminati è inquisito sia per le vicende di corruzione che coinvolgono la "29 giugno" sia come capo di un gruppo di malavitosi che si occupa essenzialmente del "recupero crediti" a Roma Nord. Carminati è il perno dell’inchiesta. E’ il solo punto di raccordo tra i due filoni dell’inchiesta. La sua straordinaria "caratura criminale" viene citata a più riprese nell’ordinanza della procura e non per vezzo. E’ proprio questa "caratura" a consentire la contestazione ai principali imputati dell’art. 416 bis, l’associazione mafiosa. Si tratterebbe infatti di una mafia anomala. Nessun atto di violenza, almeno nel troncone dell’inchiesta che riguarda la corruzione. Nessuna minaccia. Nessuna intimidazione. Nessuna costrizione. L’impianto si basa sul fatto che la sola presenza di Carminati ( e del suo gruppo di picchiatori) garantisce l’esistenza della costrizione e intimidazione in forza del vincolo associativo senza la quale non si potrebbe muovere l’accusa di mafia. La giunta Marino non è direttamente coinvolta ma il Pd romano, che viene commissariato, sì e pesantemente. L’inchiesta delegittima di fatto la giunta e crea le condizioni per la sua caduta. Il comune è a rischio di scioglimento perché inquinato dalla mafia, sorte che colpisce il municipio di Ostia. Con un esercizio un bel po’ equilibristico invece lo scioglimento a Roma non viene chiesto. Si potrebbe infatti parlare di mafia ma solo negli anni della precedente giunta Alemanno. Poi si è tornati alla ‘ semplice’ corruzione. Il problema è che tra le due associazioni, quella dei corrotti del Campidoglio e quella degli esattori di Roma nord non viene evidenziato alcun rapporto, se non la mera presenza di Carminati in entrambi i filoni dell’inchiesta. Né figuravano minacce di sorta, a parte quelle costitute di per sé, secondo l’impianto accusatorio, dalla sola presenza di Carminati. Il 4 giugno 2015 arrivò una nuova raffica di arresti, 44 domiciliari inclusi. Il 31 ottobre dello stesso anno Marino fu costretto alle dimissioni. Il 20 luglio 2017 la condanna in primo grado si concluse con condanne molto pesanti ma con l’assoluzione per il 416 bis. Una sentenza quasi salomonica, o almeno molto diplomatica, che smentiva la procura ma allo stesso tempo la "risarciva" riconoscendo con le condanne molto dure la gravità dei reati. Il 6 marzo 2018 l’appello, rovesciando la sentenza riguardo all’associazione mafiosa confermò l’accusa. Martedì scorso la Cassazione ha chiuso dopo 5 anni a vicenda escludendo il vincolo mafioso. Non è una differenza marginale. Certo, altre sentenze hanno stabilito che a Roma esistono formazioni mafiose, sia pure di dimensioni diverse da quelle della mafie storiche come e ‘ ndrine o Cosa nostra. Ma si tratta di mafie classiche, che operano secondo gli usi di sempre della criminalità organizzata mentre l’impatto dell’ipotesi avanzata dalla procura di Roma mirava proprio a indicare come mafioso uno stile completamente diverso, del tutto privo dei tipici connotati dell’agire mafioso. Il precedente avrebbe permesso di estendere l’accusa di associazione mafiosa, con tutto quel che ciò comporta in termini di carcere duro e pene elevatissime, più o meno all’infinito. E’ anche vero che gli imputati restano condannati con pene che dovrà essere un nuovo processo d’appello a comminare. Però fingere che questo sia equivalente o quasi all’associazione mafiosa è risibile. Senza il 416 bis il processo è derubricato a una vicenda di corruzione come moltissime altre da un lato, a una banda di piccoli malviventi senza neppure un reato di sangue addebitato dall’altro. Non c’è niente di male o di strano, in sé, nell’ipotizzare un capo d’accusa che viene poi smentito nei tre gradi di giudizio. Il problema si pone quando una vicenda modifica, in attesa del terzo grado di giudizio, la storia di una città e di un Paese, per non parlare della vita di chi questi anni li ha passati in regime di carcere duro. Proprio il non porsi problemi di questo tipo, in nome della lotta alla mafia, o alla corruzione, o all’evasione fiscale o a qualsiasi altra emergenza passi il convento in un momento dato, è la tragedia introdotta dal giustizialismo.

MAFIA CAPITALE ERA UNA FICTION. Estratti dall'articolo di Ermes Antonucci per ''Il Foglio'' il 23 ottobre 2019. Mafia Capitale non era mafia. A stabilirlo, ribaltando clamorosamente il verdetto d' appello del settembre 2018, è stata la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha annullato senza rinvio la precedente sentenza, non riconoscendo il 416bis, e si è rimessa alla Corte d' appello per la rideterminazione della pena per 24 dei 32 imputati in relazione all' associazione a delinquere semplice. Sconfessata in maniera radicale la tesi portata avanti per anni dall' ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, poi andato in pensione e recentemente diventato presidente del tribunale Vaticano. Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (…). Ora chi lo spiega al resto del mondo, dopo lo sputtanamento epocale che gran parte della politica e dell' informazione ha inflitto al nostro Paese? Come archiviare Mafia Capitale, l' accusa con la quale la procura di Giuseppe Pignatone voleva rivoluzionare il processo ai traffichini e ai delinquenti della mala romana? Come archiviare quell' architettura costruita dai pubblici ministeri per dire che la violenza di boss e picciotti non era più una prerogativa della Sicilia ma un fenomeno di rilievo nazionale? Il primo istinto sarebbe quello di classificare la sentenza pronunciata ieri sera dalla Corte di cassazione come la pura e semplice cancellazione di un' ipotesi accusatoria. Invece è la ricusazione di un metodo. La Suprema corte comincia finalmente a capire che l' aggravante mafiosa è diventata da qualche anno a questa parte la sceneggiatura necessaria senza la quale nessun processo finisce sui giornali. E' la via più breve sperimentata dai cosiddetti magistrati coraggiosi per inserire la propria inchiesta, anche la più pallida o la più fragile, nei più alti gironi del circo mediatico-giudiziario.

SERVIVA UN TRUCCO PER TRASFORMARE IL PROCESSO IN UNO SCONTRO TRA IL BENE E IL MALE. Giuseppe Sottile per ''Il Foglio'' il 23 ottobre 2019. . E' la vocazione al cinematografo. E' il trucco di scena per trasformare un confronto - che altrimenti risulterebbe fiacco e sconclusionato - in uno scontro titanico tra accusa e difesa, in un' epopea in cui le forze del bene sono lì, a rischiare la vita, per sconfiggere le forze del male. E i giudici - diciamolo - molto spesso ci cascano. E finiscono, soprattutto nelle sentenze di primo grado, per accettare qualsiasi forzatura, per assegnare nobiltà di prova ai sospetti più azzardati, ai ragionamenti più strampalati, alle dicerie più improbabili, alle boiate pazzesche. Come la fantomatica Trattativa inventata dall' antimafia chiodata di Palermo per far credere, all' Italia dei talk-show, che il generale Mario Mori, il carabiniere che aveva catturato Totò Riina, capo dei sanguinari corleonesi, è stato un ufficiale infingardo e fellone; al quale lo Stato, che avrebbe dovuto assegnargli una medaglia d' oro, ha inflitto invece l' infamia di una condanna a dodici anni di carcere per un traccheggio sottobanco con i boss. Ma la Corte d' Assise, in primo grado, non ha trovato di meglio che accettare quella sceneggiatura, tanto propagandata da giornali e televisioni. Del resto, perché rischiare? Chi avrà mai il coraggio di contrastare le forze del bene che rischiano la vita per combattere il male? Ci penserà, semmai, la Cassazione. Che, per Mafia Capitale, ci ha già pensato.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 25 ottobre 2019. Da quando il procuratore Giuseppe Pignatone ha raggiunto la meritata pensione, non si fa che invocare per la Procura di Roma la massima "continuità" con la sua mirabolante gestione, dipinta come una marcia trionfale da un successo all' altro. Tant'è che Marcello Viola, il successore più votato dal Csm, è stato impallinato da una campagna mediatico-giudiziaria sullo scandalo Palamara (capo di Unicost, che aveva votato un altro) per annullare la votazione, troppo "discontinua" per essere valida. Così ora è favorito Michele Prestipino, l'aggiunto prediletto di Pignatone. Noi ci siamo sempre domandati quali sarebbero gli strepitosi successi di Pignatone. Virginia Raggi, indagata dozzine di volte e sempre archiviata, finisce imputata per falso: purtroppo viene assolta. E vabbè, dài, capita. Paola Muraro viene indagata per 15 anni di consulenze all' Ama appena diventa assessore della Raggi. Il tempo di dimettersi e viene archiviata. E vabbè, dài, capita. Arrestato per corruzione Marcello De Vito, presidente 5S del Campidoglio: poi, dopo quattro mesi, la Cassazione dice che erano "solo congetture". De Benedetti chiama il broker Bolengo per ordinargli di investire nelle banche popolari, perché il premier Renzi gli ha confidato che sta per varare un decreto che ne farà volare le azioni: la Procura non indaga né Renzi né De Benedetti, ma solo il povero Bolengo, poi chiede di archiviare anche lui. Il gip lo manda a giudizio e ordina nuove indagini sull' ex premier e l' Ingegnere. E vabbè, dài, capita. La Procura di Napoli scopre che Alfredo Romeo, interessato ai mega-appalti Consip, incontra Tiziano Renzi e più spesso il fido Carlo Russo, a cui promette soldi per entrambi, poi tutto si blocca per fughe di notizie dal Giglio magico. Roma eredita il fascicolo e chiede di archiviare Tiziano e Romeo e processare Russo come millantatore e il capitano Scafarto come falsario. I gip invece prosciolgono Scafarto e rifiutano di archiviare Tiziano e Romeo. E vabbè, dài, capita. I giornaloni inventano un mega-complotto putinian-grillesco a colpi di tweet russi per far fuori Mattarella: la Procura mobilita l'Antiterrorismo, poi tutto finisce in fumo. E vabbè, dài, capita. Tanto c'è sempre Mafia Capitale, orgoglio e vanto di Pignatone&C: quelli che la lotta alla mafia sanno farla davvero. Purtroppo la Cassazione, come già la Corte d' assise, cancella la mafia. Ora Pignatone presiede il tribunale del Vaticano (auguri). Resta Prestipino, che giura: "La mafia a Roma esiste". Certo, solo che non era quella lì. Noi restiamo curiosi: dov' è scritto che squadra che perde non si cambia? E continuità per continuare cosa?

IL NUOVO PROCESSO STABILIRÀ LE PENE PER 14 IMPUTATI. Giu. Sca. per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. «Non è da escludere che Massimo Carminati abbia già scontato tutto». È una ipotesi quella rappresentata dal suo legale, Cesare Placanica. Ovviamente saranno i giudici d'Appello a stabilire quanto, effettivamente, il Nero dovrà ancora scontare. Di fatto per 14 imputati: Carminati, Buzzi, Riccardo Brugia, Claudio Caldarelli, Matteo Calvio, Paolo Di Ninno, Alessandra Garrone, Luca Gramazio, Carlo Maria Guarany, Roberto Lacopo, Carlo Pucci, Fabrizio Franco Testa, Franco Panzironi (quest'ultimo in riferimento al concorso esterno) Agostino Gaglianone (per lui cade anche l'associazione semplice) - la Cassazione ha annullato la condanna dello scorso anno della Corte di Appello di Roma per associazione mafiosa. Per questa ragione, si legge nel dispositivo della suprema Corte, un'altra sezione della corte di Appello dovrà riqualificare le pene «per i reati associativi come riqualificati».

Valentina Errante e Alessia Marani per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. Quando la Smart di Massimo Carminati viene bloccata su un viottolo stretto di campagna a due passi dalla villa di Sacrofano, alle porte di Roma, dai carabinieri del Ros, mancano 48 ore al 2 dicembre del 2014. Comincia il ciclone dell'inchiesta sul Mondo di mezzo, chiamata poi mafia Capitale, e stravolge la città. I militari gli si parano davanti contromano. Lui è stupito, poi guarda i mitra, non c'è da scherzare, scende dall'auto, alza le mani e si arrende. Due giorni dopo tutta l'Italia guarderà quelle immagini registrate: l'ex Nar, il cecato o il pirata, per via della benda che copre l'occhio offeso dal proiettile sparato dalla polizia quando, giovanissimo, tentava di fuggire all'estero, viene arrestato.

L'INIZIO. È l'inizio del Mondo di Mezzo. La maxi-inchiesta della Procura di Roma di Giuseppe Pignatone. L'allora pm Paolo Ielo, oggi aggiunto, i sostituti Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, lavorano da anni sugli affari di Carminati. Parte una raffica di arresti, il suono delle manette scuote nel profondo la Città Eterna che si scopre marcia e corrotta. Il terremoto giudiziario investe e coinvolge mondi apparentemente diversi che, però, secondo gli inquirenti, trovano una congiunzione quando c'è da fare business. Mondi che fanno leva sulla paura e sulle intimidazioni per incassare appalti e commesse pubbliche, grazie anche alla complicità dei colletti bianchi corrotti in seno a ogni grado dell'amministrazione. Nel mirino del pool di magistrati che fanno capo all'ex procuratore Pignatone finiscono vecchi e nuovi criminali, politici di destra e di sinistra, persino le cooperative. Tutti pronti a darsi una mano se c'è da guadagnare, spolpando e drenando le risorse pubbliche. Trentasette persone arrestate (28 in carcere e nove ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso, reato derubricato poi in corruzione. La procura racconta un sistema collaudato in cui l'ex Nar, forte della propria capacità intimidatrice, eroe negativo di una saga che ha le radici nella destra criminale degli anni Novanta, ha stretto un patto scellerato con Salvatore Buzzi, re delle coop rosse, che gestisce milioni di euro in appalti. L'alleanza usa la chiave dell'omertà e delle minacce, per consentire a Buzzi, il rosso, di fare affari con l'amministrazione di centrodestra. I reati contestati partono dal 2010. Il manifesto dell'associazione è stampato in un'intercettazione di Carminati. La più suggestiva: «È la teoria del mondo di mezzo, Ci stanno, come se dice, i vivi sopra e li morti sotto e noi stamo ner mezzo ce sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici: cazzo, com'è possibile che un domani io posso stare a cena con Berlusconi? il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra».

IL SECONDO ROUND. Sei mesi dopo altri 44 arresti: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. È un altro terremoto. Gli affari riguardano anche i migranti. Buzzi ha un uomo al Tavolo del ministero del ministero dell'Interno che decide su appalti e affidamenti alle coop,è Luca Odevaine, che ha patteggiato una pena a cinque anni e due mesi per corruzione. Al telefono con una collaboratrice Buzzi spiega «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». A Roma servizi come l'accoglienza agli stranieri, la manutenzione del verde pubblico o la gestione dei campi rom si traducono in una rete di corruttele e pressioni che, secondo la procura si esplicano con «metodo mafioso».

STOP APPALTI. Gli appalti vengono congelati. Il ministero degli Interni sceglie un pool di prefetti con a capo Franco Gabrielli per stabilire se il Comune debba essere sciolto per mafia, dopo avere fatto un accesso agli atti ed esaminato la posizione di migliaia di funzionari e valutato centinaia di gare o affidamenti, l'ipotesi viene scartata.

I PROCESSI. Il 5 novembre 2015 comincia il processo davanti alla decima sezione del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula «alla luce dell'interesse sociale in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati». Dopo 240 udienze, a luglio 2017, il Tribunale, presieduto da Rosanna Ianniello, boccia l'ipotesi della mafia. Stabilisce che Carminati è a capo di due associazioni a delinquere semplici, una dedita alle estorsioni, l'altra della quale fa parte anche Buzzi, alla corruzione. Le pene sono altissime: per il Nero 20 anni, 19 per il re delle coop. In secondo grado il collegio presieduto da Claudio Tortora decide di non riaprire il dibattimento ma a settembre 2018 ribalta la sentenza accogliendo la tesi della procura: il Mondo di mezzo è mafia. Il 416 bis viene riconosciuto per 18 su 43 imputati. Le pene però si riducono: Salvatore Buzzi dai 19 anni del primo grado passa a 18 anni e 4 mesi. Per Carminati, i 20 anni del primo grado diventano 14 anni e sei mesi.

Mafia Capitale, fiction e libri. Un grande business fondato sul nulla. Il Secolo d'Italia mercoledì 23 ottobre 2019. “Roma non è una città mafiosa”. La sentenza della Cassazione ha riabilitato l’immagine della città: per cinque lunghi anni l’ossessione di Mafia Capitale e la campagna giustizialista hanno sconvolto Roma trasformandola da capitale d’Italia in quella della mafia. Ora la sentenza della Suprema Corte rimette i tasselli al loro posto. Ma è del tutto evidente che le tesi dell’accusa hanno prodotto negli anni una narrazione cui si sono ispirati libri e film che ci hanno raccontato un “mondo di mezzo” e di mafia. Eccoli.

Mafia Capitale: i film.

Suburra, il film di Stefano Sollima e la serie di Netflix tratta dal romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, ha preso spunto dalle vicende di Mafia Capitale e le ha trasformate in fiction.  Il protagonista noto come Samurai è in larga parte ricalcato sulla figura di Massimo Carminati.

Nel 2016 è l’ora de Il mondo di mezzo scritto e diretto da Massimo Scaglione. I principali membri del cast artistico sono: Matteo Branciamore, Laura Forgia, Tony Sperandeo, Nathalie Caldonazzo e Massimo Bonetti nei ruoli rispettivamente di Tommaso, Gaia, Gaetano e Stella Mariotti, e il Capo di Gabinetto. Il mondo di mezzo è ambientato a cavallo tra gli anni ’70 e giorni d’oggi, narra l’epopea del mattone a Roma e i disastrosi risultati della cementificazione lungo la cintura periferica, procurati dalla connivenza tra politica e palazzinari alleati in nome della corruzione e del danaro. Il film ha ripercorso meticolosamente i passaggi tra corrotti e corruttori fino all’inchiesta di Mafia Capitale.

I libri e i documenti.

E poi ci sono i libri che hanno raccontato l’inchiesta sulla base di documenti. Nel 2015 esce I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale, autori Lirio Abbate e Marco Lillo. «Una storia vera – si legge nella sinossi –  ma così incredibile che sembra creata da un’immaginazione diabolica. Un ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla Banda della Magliana e addestratosi in Libano durante la guerra civile. Da anni gira per Roma tranquillo con una benda sull’occhio perso durante una sparatoria. Lo chiamano “il cecato”. È lui che governa politici di destra e di sinistra. Per i magistrati è il capo. Un omicida». E poi ancora: «Abbate e Lillo hanno costruito un racconto con documenti inediti. La testimonianza appassionata di chi ha denunciato quel sistema criminale quando nessuno ne voleva parlare».  Nel 2106 segue il libro di Massimo Lugli Nel mondo di mezzo: il romanzo di Mafia Capitale e nel 2018 c’è quello di Claudio Caldarelli Mafia Capitale. La verità raccontata da un protagonista. 

 Salvatore Buzzi: incubo finito, voglio uscire da questo inferno. Ho scontato una detenzione disumana. Il Secolo d'Italia mercoledì 23 ottobre 2019. Salvatore Buzzi commenta con i suoi avvocati la sentenza della Cassazione su Mafia Capitale: ”L’incubo è finito, voglio uscire da questo inferno dietro le sbarre e tornare a casa”. Sono le prime parole raccolte dai legali Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro riportate dall’agenzia Adnkronos. ”Dopo oltre 4 anni vedo di nuovo la luce, ho un futuro davanti a me – dice Buzzi – sono emozionato, incredulo, e sotto sotto ci speravo.  Anche se si era creata una situazione surreale perché avevano costruito giudiziariamente e mediaticamente un’immagine distorta”. Quanto al 416 bis smontato dalla Suprema Corte, Buzzi è categorico: ”In questi anni mi sono letto e riletto migliaia di pagine, di intercettazioni, di informative. Ho seguito tutto il processo e chiunque poteva constatare che di mafia non ce n’era. La sentenza di primo grado, che comunque è stata pesante per me, era chiara, come è stata chiara la decisione di ieri. Ancora però non capisco come possa essere andata al contrario in appello”. “Su me e Carminati – ha detto ancora Salvatore Buzzi – hanno scritto un film, ma non era vero. C’era solo la corruzione. Delle tangenti mi vergogno, ma ho scontato una detenzione disumana”. La sentenza è stata anche commentata da Franco Panzironi, ex amministratore delegato dell’Ama condannato a otto anni e quattro mesi. “Sarebbe bastata meno acredine e più logica”, ha detto al Messaggero. “Giustizia è fatta. Abbiamo passato un brutto momento. Siamo usciti da un film dell’orrore”. “Essere tacciato di mafia credo sia una cosa bruttissima. Però forse la Costituzione l’abbiamo scordata tutti. Il mondo oramai è fatto di acredine. Non è che possiamo applicare la legge retroattivamente”. “Sono stati anni drammatici che ho trascorso in silenzio. Credo – osserva Panzironi – che praticamente a me ad altri sia capitata questa cosa terribile. Penso sia stato un processo mediatico”. Panzironi conclude: “Ho 71 anni e voglio vivere il resto della mia vita lontano da questa vicenda. Senza tutte queste cose. Me le voglio dimenticare”.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 24 ottobre 2019. «Sono stato una cavia». Salvatore Buzzi ha pianto a lungo, martedì sera, al telefono con Alessandra Garrone, compagna di vita, madre della sua bambina e coimputata nel processo Mafia Capitale, che mafia adesso non è più. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione, che ha bocciato il teorema della procura di Roma, il direttore del carcere di Tolmezzo ha concesso una telefonata al re delle coop. Ieri la prima conversazione con il suo avvocato, Alessandro Diddi. «Non ci posso credere, vedo la luce, vedo la fine dell'incubo. Mo' quando esco, quand'è che mi riporti a casa?». L'istanza per la scarcerazione partirà nei prossimi giorni. E Buzzi, con Diddi, fa anche calcoli e ipotesi. «La pena potrebbe essere dimezzata», gli spiega l'avvocato. Pensa alla figlia di soli dieci anni, che ha visto pochissimo da quando è cominciata la custodia cautelare, si commuove ancora. «In Italia non sono mai state mai date pene tanto alte. Neppure per fatti molto più gravi di corruzione», lo rassicura Diddi. Lui, che ha riempito centinaia di pagine di verbali, confermando le ipotesi della procura e aggiungendo altri episodi di corruzione, è stato solo parzialmente ritenuto attendibile. Conosce gli atti dell'istruttoria alla perfezione. «Si è cercato di costruire giuridicamente una nuova mafia, cioè una mafia che, senza la lupara e senza i metodi che si applicano a questa realtà, agiva per ottenere appalti. Ma non è così», dice. «È stata una sperimentazione sulla pelle delle persone. Ho fatto un po' da cavia per un esperimento, sto pagando quello che si è scatenato sul piano mediatico». Le dichiarazioni di Buzzi sono servite a confermare le condanne di quelli che oggi stanno in prigione. Eppure non è stato considerato un imputato credibile. «Le mie parole valevano solo quando confermavo, ma non quando dicevo cose nuove. Poteva essere una nuova tangentopoli». Di accuse, rimaste inascoltate Buzzi, ne ha mosse tante: «L'ho ripetuto mille volte erano i politici che cercavano me per avere soldi e mazzette. Dal Pdl al Pd. E io dovevo lavorare. Non avevo alternative». Perché non sia stato creduto lo spiega il suo avvocato: «È stato un problema di impostazione. Non una scelta politica. Se avessero indagato, avrebbero scoperto altri episodi di corruzione e accusato altre persone coinvolte, ma non avrebbero più potuto sostenere il teorema della mafia. È stata un'occasione sprecata». Buzzi lo ribadisce: «Erano i funzionari e gli amministratori a pretendere i soldi per consentirci di lavorare. E non solo nelle gare che sono finite sotto processo. Ma le mie dichiarazioni escludevano l'intimidazione e la minaccia». E Diddi spiega: «Seguire Buzzi nelle sue dichiarazioni, come è stato fatto in primo grado dal collegio presieduto da Rosanna Ianniello, che aveva escluso la mafia, significava ammettere quello che è stato scritto nelle motivazioni della sentenza del Tribunale: È passata tangentopoli ma il mondo è rimasto come era all'epoca. Credere a Buzzi significava ammettere che c'è un sistema di corruzione, ma non di mafia. Invece questo processo è stata una sperimentazione. È stato applicato il diritto creativo e Buzzi e altri hanno fatto da cavia a questi esperimenti». A chiudere con una battuta è Diddi. Alla domanda se Buzzi abbia progetti e ipotizzi un futuro, risponde: «Gli auguro di fondare la cooperativa 2 dicembre». Il riferimento è al 2 dicembre 2014, quando i primi arresti della maxi inchiesta svelarono l'esistenza del Mondo di mezzo. 

La Corte di Cassazione affonda “Mafia capitale”. Simona Musco il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza della Cassazione. La VI sezione penale del Palazzaccio ha riconosciuto la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Quella del Mondo di mezzo non era mafia. Ed ora è una certezza irrevocabile, sancita ieri dalla Cassazione, che ha messo la parola fine al processo “Mafia capitale”, annullando senza rinvio l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Una decisione che ha dato ragione ai giudici di primo grado, secondo cui quelle di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi erano sì due associazioni a delinquere che hanno messo a ferro e fuoco la città con corruzione e malaffare, ma distinte e senza alcun utilizzo del metodo mafioso. La sentenza è stata pronunciata alle 20, alla presenza del presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, e della sindaca di Roma, Virginia Raggi – che mise piede al Campidoglio proprio dopo il terremoto politico causato dall’inchiesta – al Palazzaccio sin dal pomeriggio «a testa alta per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare» . Per alcuni reati fine e la relativa rideterminazione della pena ci sarà, ora, un nuovo processo d’appello. «Il reato di mafia è caduto per manifesta infondatezza. Finalmente c’è un giudice a Berlino», ha dichiarato Francesco Tagliaferri, difensore dell’ex Nar Carminati. «Non c’è stata mafia per il mio assistito, dovrà essere rifatto il giudizio ora – ha aggiunto ai microfoni di Rai News 24 -. Era in palio un principio di democrazia, per fortuna è stato riconosciuta la verità». Mentre per Alessandro Diddi, legale di Buzzi, «c’è un sistema corrotto ma non c’era Buzzi ad insistere con i politici per il malaffare di mezza Roma. Troppa pressione da parte di media e politica ha determinato le sentenze del passato. La vita di Buzzi, da questo momento, è cambiata, potrà guardare al suo futuro – ha aggiunto -. Ora c’è un annullamento con rinvio e dobbiamo fare dei conteggi». A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d’Appello di Roma, a settembre dello scorso anno, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L’accusa avanzata dalla procura di Roma era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. E mercoledì scorso la procura generale aveva ribadito quella tesi, chiedendo la sostanziale convalida della sentenza d’appello. «Possiamo dire serenamente che quando si parla di associazioni mafiose le dimensioni non contano, conta se si è usato il metodo mafioso – aveva detto in aula il procuratore generale Luigi Birritteri -. Il fatto da provare non è la violenza esterna ma il metodo mafioso, a cui si può far ricorso attraverso la blandizia, gli schieramenti di potere, l’appoggio alle campagne elettorali». Per il pg, che ha citato Giovanni Falcone durante la requisitoria, «abbiamo assistito a un’evoluzione della mafia: Cosa Nostra si è evoluta, abbiamo importato nuove mafie. Il sistema mafioso funziona e per questo viene riprodotto, usa la violenza mafiosa se necessario e il potere politico». Ma i giudici di Cassazione hanno accolto la tesi delle difese, che sin da subito hanno provato a dimostrare che quella di Buzzi e Carminati era solo una vicenda di corruzione. «Una cosa è certa – ha dichiarato Valerio Spigarelli, difensore di Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl condannato in appello per 416 bis -, la mafia in questo processo non esiste, è un’invenzione giuridica fatta a freddo». Così come avevano stabilito i giudici di primo grado il 20 luglio 2017, quando la condanna più dura venne inflitta a Carminati: 20 anni di reclusione contro i 28 anni chiesti dalla procura, ma senza aggravante mafiosa. Al “ras delle cooperative” Buzzi, invece, furono inflitti 19 anni, contro i 26 anni e 3 mesi richiesti, anche per lui senza 416 bis. «Questa sentenza dimostra che la mafia – aveva detto l’avvocato Giosuè Naso, l’allora difensore di Carminati – è una cosa seria, che non va banalizzata, perché se tutto è mafia poi finisce che nulla è mafia». Per il Tribunale, non era stata «individuata, per i due gruppi criminali», quello presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici, «alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose». Non basta il ricorso alla corruzione, avevano obiettato i giudici, «è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza dell’intimidazione». In appello le cose erano invece cambiate: quella del Mondo di Mezzo, per i giudici, era mafia, sancendo così una breve rivincita della procura allora guidata da Giuseppe Pignatone. Ma le pene si erano ridotte rispetto al primo grado, con Carminati e Buzzi che si sono visti ridurre lacondanna, rispettivamente a 14 anni e mezzo e a 18 anni e 4 mesi. E assieme a loro, i giudici d’appello avevano riconosciuto l’associazione mafiosa anche per altri 16 imputati. Ora è tutto da rifare.

L’ossessione Mafia Capitale è diventata un boomerang: va in carcere chi non ne era accusato. Il Cavaliere Nero mercoledì 23 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Tra le spietate bizzarrie del processo Mafia capitale ci sono quelle che riguardano gli arrestati di questa notte. Mirko Coratti e Andrea Tassone del Pd e Giordano Tredicine del Pdl, assieme ad altri imputati meno conosciuti, sono stati portati in carcere proprio perché “non mafiosi”.

Accuse di corruzione, come per De Vito. A loro carico accuse e condanne di corruzione certamente gravi, simili ad esempio a quelle che hanno provocato l’arresto di Marcello De Vito, Cinquestelle, in detenzione preventiva e poi ai domiciliari. Ma se avessero subito anche l’accusa di mafia, costoro oggi sarebbero in libertà perché bisognerebbe rideterminare la pena da infliggere per ciascuno con la caduta delle aggravanti specifiche. Invece, per essi, la sanzione carceraria è diventata definitiva.

Le porte della galera si applicano per la cosiddetta legge spazzacorrotti. Paradossalmente le accuse di mafia si sono dunque trasformate in un autogol per chi le ha mosse – gli inquirenti – e per chi le ha cavalcate – i politici che ci hanno speculato – al punto che in carcere ci vanno quelli per i quali non è cambiato nulla nel processo, tra appello e Cassazione. Se non si fosse partiti a razzo con quelle imputazioni legate alla mafia, ieri il processo si sarebbe concluso definitivamente per tutti. Con le responsabilità e le pene inflitte a ciascuno.

Per l’accusa di mafia chi pagherà? Invece, da una parte alcuni imputati sono finiti agli arresti, altri dovranno attendere per sapere se devono tornare in prigione, altri ancora non vedono l’ora di riconquistare la libertà dopo aver temuto il peggio. Chi sbaglia paga, non c’è dubbio, ma per l’accusa di mafia scaraventata tra capo e collo su persone che con la mafia nulla c’entrano, probabilmente non risponderà nessuno. E’ stata un’ossessione durata cinque anni che hanno sconvolto la vita di Roma. E’ la città che dovrebbe essere parte civile, ma stavolta non solo contro gli imputati. 

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 24 ottobre 2019.

Professor Ignazio Marino, la Cassazione ha stabilito che il Mondo di mezzo non era mafia, ma un sodalizio criminale. Per la città è un motivo di sollievo non avere questa etichetta. Concorda?

«Io sarei arrogante, oltre che sciocco, a dare un giudizio sulle decisioni della Suprema Corte. Quella drammatica etichetta di città in mano alla Mafia rimbalzò su tutti i media del mondo e questo danneggiò non solo Roma ma anche l'Italia. Per fortuna Roma ha una storia plurimillenaria così ricca di eventi e così densa di arte e cultura che alla fine questi aspetti continuano a prevalere nell'immaginario collettivo dei popoli stranieri».

Ma c'è stato secondo lei un cortocircuito politico-mediatico-giudiziario in questa inchiesta?

«La condanna mediatica venne trasmessa agli italiani e al resto del mondo prima che si avviasse il procedimento giudiziario. Ma questo avviene di regola nel nostro Paese. Il segreto istruttorio è violato regolarmente e nessuno sa spiegare come questo accada dal momento che il materiale è nelle mani della magistratura alla quale la nostra Costituzione ha affidato un ruolo fondamentale e indipendente nell'organizzazione dello Stato».

E' consapevole di esserci finito dentro anche lei?

«A inizio luglio 2013 affermai che già in quelle prime settimane di lavoro da sindaco avevo percepito la presenza di qualche forma di criminalità organizzata. Venni contraddetto dall'allora prefetto Pecoraro. Basta pensare a Ostia, dove fu chiaro che vi era un vero controllo del territorio da parte di alcune famiglie. Un giorno venni sgridato dal prefetto Gabrielli perché in un sopralluogo a Ostia mi lasciai sfuggire a voce alta un pensiero.

Dissi: Qui serve l'esercito con le armi lunghe. Ho il totale rispetto della sentenza della Corte di Cassazione e se così hanno affermato gli ermellini vuol dire che in questo caso non c'è mafia, ma certamente la mafia a Roma esiste».

L'atteggiamento del Pd fu schizofrenico?

«Dopo i primi arresti nel dicembre del 2014 riuscii finalmente a cambiare i vertici di aziende come l'Ama e a sostituire il Presidente del Consiglio Comunale. Il vice-segretario nazionale del Pd, l'onorevole Guerini, attuale Ministro della Difesa, mi suggerì fortemente di sostituire il mio vice-sindaco Luigi Nieri con Mirko Coratti. Mi spiegò che questo avrebbe tranquillizzato il Pd.

Io gli risposi che consideravo Luigi Nieri integerrimo e che la scelta del vice-sindaco è prerogativa del sindaco. Certo non migliorai i miei rapporti con il Pd ma nei fatti, e lo dico con sofferenza perché non c'è nulla di cui gioire, Mirko Coratti è in carcere con una condanna definitiva».

Sui colpi della pressione mediatica, il Pd utilizzò anche l'inchiesta per far dimettere in massa i consiglieri davanti a un notaio? Lei parlò di giustizialismo. Conferma?

«Diciannove consiglieri del Pd si chiusero nella stanza di un notaio per far cadere il sindaco eletto dal popolo. Il Pd è stato generoso e li ha quasi tutti premiati con nuove importanti cariche.

A me rimane l'orgoglio di aver chiuso la discarica di Malagrotta, aver aperto la Metro C, pedonalizzato i Fori Imperiali e piazza di Spagna. E comunque soffrii per quell'azione di alcuni politici di professione, ma non mi sorpresi. Due mesi prima Orfini, allora presidente del Pd, mi suggerì di dimettermi prima che il Consiglio dei ministri decidesse se Roma avesse una Giunta infiltrata dalla mafia o no. Io risposi che non lo avrei mai fatto perché la mia Giunta di certo non piaceva ai partiti ma non era infiltrata dalla mafia. Ma era un ostacolo agli affari di Buzzi e Carminati, come dimostrano le intercettazioni».

Il M5S ha cavalcato la parola mafia per fini elettorali. Ora dovrebbe chiedere scusa ai romani?

«Non so dare definizioni o suggerimenti al M5S. È un movimento politico che negli ultimi anni ha affermato tutto e il contrario di tutto. Dalle Olimpiadi, allo Stadio della Roma, alla gestione dell'acqua che vorrebbe totalmente pubblica ma poi incassa i dividendi milionari di Acea per Roma, alle norme relative a quanto sia etico rimanere in carica. Dovevano essere due mandati ma poi è stato ideato il mandato numero zero. Straordinario».

Per la sindaca Virginia Raggi questa sentenza segna la fine di un alibi politico?

«Io non sono in grado di giudicare l'operato di Virginia Raggi: infatti, prima dell'operato e dei risultati spesso mi sono chiesto se ha studiato il disegno urbano e le infrastrutture di Roma e se ha magari iniziato a pensare a una sua visione strategica».

La sentenza ha comunque condannato esponenti di maggioranza e minoranza della sua consiliatura: ora la politica romana si è dotata dei giusti anticorpi?

«Da 8.000 chilometri di distanza a me sembra che chi muove le leve della Capitale d'Italia siano sempre gli stessi».

Mafia capitale: la condanna morale è per la Raggi e per una banda di avvoltoi. Francesco Storace mercoledì 23 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Avete trattato la Capitale d’Italia come una città di mafia. Non era vero. Non è vero. Vite distrutte per un teorema giudiziario che si è infranto in Cassazione. Perché al massimo ci sono  colpevoli per reati comuni ma non di mafia.  Imputati che dal 2014 erano precipitati nell’incubo di Mafia Capitale. E fa davvero pena la signora comunque, Virginia Raggi. “Comunque c’era un sodalizio criminale”, ha bofonchiato dopo l’ennesima passerella giudiziaria in Cassazione. Stava lì con quell’altro bellimbusto che presiede la Commissione Antimafia, Morra. Tifavano come avvoltoi per una sentenza di mafia e sono usciti sconfitti. Vergogna a voi, rappresentanti istituzionali incapaci di accettare il responso della giustizia. Perché, cara sindaca “comunque”, quel “sodalizio” assomiglia molto a quello corruttivo in cui è rimasto impigliato Marcello De Vito, il numero due del Campidoglio fino a che non gli misero le manette ai polsi. E noi, diversamente dalla Raggi, gli auguriamo l’assoluzione. Perché gioiamo se la politica esce pulita e non sporcata da accuse orribili. Lei, invece, ci ha costruito una carriera che ora vede franare.

Raggi sindaco proprio per Mafia capitale. Virginia Raggi è diventata sindaca di Roma dopo Ignazio Marino, proprio sull’onda dello scandalo battezzato Mafia Capitale. Guardava dall’opposizione gli ultimi atti dell’amministrazione di Ignazio Marino e non capiva bene che cosa succedeva. Prevalse nella scelta interna ai Cinquestelle proprio su De Vito e per anni ha parlato e straparlato di cosche manco fosse la giovane moglie di Pignatone. Ieri la Raggi è uscita mesta dalla Cassazione. Ma è un altro il palazzo che deve abbandonare, ed è quel Campidoglio che ha occupato con la sua banda sull’onda di una campagna giustizialista che ha distrutto l’immagine di Roma. Chi scrive non ha mai creduto al teorema mafioso sin dall’inizio dell’inchiesta, quando si voleva addirittura infilarci in mezzo il sindaco Alemanno assieme all’allora capogruppo del Pdl Luca Gramazio. Con entrambi una battaglia durissima in Campidoglio in quegli anni – come succede tra maggioranza e opposizione – ma mai un dubbio sulla fondatezza di quelle accuse di mafia. In tanti, troppi, ci hanno speculato sopra. Venivamo dalla stessa famiglia politica, e l’associazione ad un sistema fondato sull’appartenenza ad una cosca era davvero incredibile. E tanti, troppi anni dopo la Cassazione ha confermato le nostre certezze di allora.

Lasciare i romani liberi di scegliere. Eppure, la Raggi e quelli come lei non mostrano ripensamenti perché nel fondo della loro coscienza – forse si accorgono di averla – sanno di aver esagerato cavalcando l’inchiesta di Pignatone. E chi fa di queste cose non deve stare nelle istituzioni, perché non ha equilibrio. Vada a casa questa sindaca, con la sua corte che pure ha cambiato più volte perché le ha sbagliate quasi tutte. Lasci liberi i romani di scegliere finalmente il sindaco della ricostruzione, che sappia restituire davvero fiducia ai cittadini.

E se possiamo permettercelo, da ora in avanti la finiscano tutti – anche a sinistra – con gli insulti reciproci, con le parole forti, con la lesione della dignità delle persone che si impegnano in politica. Perché se al posto dei nemici mettete gli incapaci, vi trovate altre Virginia Raggi. E Roma ha bisogno finalmente di serenità.

La sentenza di Mafia Capitale dimostra che la giustizia ha più buon senso della politica. ​Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 23 ottobre 2019.  L’autore ha fatto parte del collegio difensivo nel processo Mafia Capitale.Grazie all’arma sottile dell’interpretazione i “corpi intermedi“ come la Cassazione stanno mostrando nelle vesti di raffinate élite tecniche capaci di vanificare le distruttive spinte delle leggi populiste. Prima che una Rosi Bindi, un Travaglio, un Morra o un prete insorgano a dire che la Cassazione, presieduta da uno dei suoi migliori cervelli, non capisce nulla della “nuova mafia” come contestarono al vilipeso tribunale capitolino, occorre leggere dentro le righe del lungo dispositivo della sentenza di martedì per capire. La Cassazione spazza via l’incolore sentenza d’appello e resuscita in ogni piega la sentenza di primo grado, a partire dal riconoscimento dell’esistenza di due distinte associazioni: quella di Carminati con base al distributore di Corso Francia e dedita all’usura e quella messa in piedi dal “ Cecato” con Buzzi per praticare la corruzione nel corpaccione del comune capitolino. Nessuna fusione ma realtà distinte di criminalità ordinaria. Sarà bene precisare che il tribunale mai si è sognato di scrivere che l’unica mafia possibile sia quella «con Coppola e lupara» come spregiativamente sottolineato dalla procura di Roma nei motivi di appello. Assai più semplicemente ha affermato che ciò che era proposto dall’allora Procuratore Pignatone era un modello fuori produzione, un prototipo non contemplato da alcun articolo di legge e dunque inservibile. Si chiama «principio di stretta legalità»: il diritto di ogni cittadino, compreso anche il “malacarne“ di essere informato prima di violare la legge dell’esatta connotazione dei reati che andrà a commettere. In Mafia Capitale era avvenuto questo: gente convinta di compiere corruzioni e turbative d’asta aveva scoperto il giorno dell’arresto di aver compiuto atti di mafia “a sua insaputa”. Prima ancora che nei pedinamenti di Carminati, Mafia Capitale è nata in una commissione ministeriale presieduta da un grande giurista garantista come Giovanni Fiandaca incaricata appunto di porre mano al 416 bis per estenderlo ai nuovi modelli di criminalità organizzata. Tentativo fallito raccontano i protagonisti perché dietro insistenza del procuratore Pignatone, che allora già conduceva le indagini su Carminati, si era deciso di «lasciare immutata la formulazione legislativa dell’associazione di stampo mafioso, confidando in una futura evoluzione giurisprudenziale in grado di fornire soluzioni via via più soddisfacenti». La soluzione “ Mafia Capitale” un precipitato tra “romanzo criminale “ e le analisi sociologiche di Rocco Sciarrone ne è stato il prodotto.

In Mafia Capitale era avvenuto questo: gente convinta di compiere corruzioni e turbative d’asta aveva scoperto il giorno dell’arresto di aver compiuto atti di mafia “a sua insaputa”. Lo scopo della creazione giuridica era consentire alle procure l’uso di un apriscatole affilato come la legislazione anti-mafia per penetrare dentro le realtà criminali dedite alla corruzione perseguite allora con strumenti blandi. Poi è accaduto l’imprevisto sotto forma dell’avvento del governo populista. Proprio l’indagine capitolina aveva agevolato il trionfo dei 5 Stelle e annunciato la crisi del PD. I gialloverdi al governo hanno messo in cantiere lo “spazzacorrotti" elevando i reati corruttivi al rango di pericolosità di quelli di mafia. Le stesse pene, le stesse misure di confisca, l’immediata esecuzione, la negazione delle pene alternative. Probabilmente il vento giustizialista si è portato appresso la “mafia creata” e l’interpretazione “estensiva”: semplicemente non ce n’è più bisogno. Ed ecco paradossalmente è la stessa arma dell’interpretazione innovativa a mezzo sentenza che viene usata per arrestare il mostro creato artificialmente con lo stesso metodo. La Cassazione che pure aveva riconosciuto la natura mafiosa dell’associazione durante la fase delle indagini giudicando sulle misure cautelari ed aveva nel corso degli anni con una serie di pronunce allargato i confini dei reati di mafia si è fermata. Ha recuperato i valori costituzionali legati al principio di legalità ed alla proporzione delle pene (non si possono infliggere per reati non di sangue pene da crimini violenti). Così come su un altro versante la Corte Costituzionale che nello stesso giorno giudicava sull’ergastolo ostativo ha iniziato una tenace opera di valorizzazione del recupero sociale dei detenuti e di umanizzazione delle pene. Viene da pensare che i famosi, invocati “corpi intermedi“ si stiano mostrando nelle vesti di raffinate élite tecniche capaci di vanificare le distruttive spinte delle leggi populiste proprio con l’arma sottile dell’interpretazione. Concludendo i lavori del congresso delle Camere Penali, il presidente dei penalisti ( che hanno conseguito l’altra sera un’affermazione di grande prestigio) Giandomenico Caiazza si è chiesto angosciato come far fronte alla furia giustizialista del governo giallorosso. Senza voler esagerare forse l’inaspettato esito di Mafia Capitale mostra un sentiero, ancora stretto, ma da percorrere.

Mafia capitale, la moglie di Carminati: «Riporto a casa mio marito». Valentina Errante su Il Messaggero Mercoledì 23 Ottobre 2019. «È caduta la mafia». «Sicuro, siamo sicuri?», chiede a chi le sta seduto accanto, Alessia Marini. La moglie di Massimo Carminati cerca di decifrare velocemente cosa significhino quegli articoli del codice che il presidente della sesta sezione, Giorgio Fidelbo, sta leggendo. «È caduta la mafia» lo ripete e piange, durante tutta la lunga lettura del dispositivo. Da quel momento in poi per la compagna del “Nero” le lacrime non smettono di scorrere. Finita anche lei sul banco degli imputati in un altro procedimento connesso a quello del marito, non riesce a frenare l’emozione e la gioia. Aspetta la fine della lettura, attende l’avvocato Cesare Placanica, il nuovo difensore di suo marito. La Corte è appena uscita, i difensori e il pubblico sono ancora dentro l’aula magna della Cassazione, quando Alessia Marini gli getta le braccia al collo, lo stringe e tra le lacrime ripete: «Le posso dare un bacio? Grazie, avvocato, grazie. L’avevamo capito dopo che aveva parlato, dopo la sua arringa. L’avevamo capito noi e non poteva non capirlo la Corte». Fuori ribadirà la “sua” vittoria. «Ho fatto la scelta giusta», dice. Si riferisce alla scelta di cambiare legale. Di abbandonare Bruno Naso che per tutta la vita ha difeso Massimo Carminati. «Ho fatto la scelta giusta, mi riporto mio marito a casa». 

L’ESULTANZA. La difesa è quella tecnica scelta da Placanica, non politica e senza gli attacchi alla procura che hanno caratterizzato le arringhe e gli interventi di Bruno Naso, avvocato di Carminati nei primi due gradi di giudizio. E ancora difensore di Riccardo Brugia. Gli imputati principali del processo, questa volta, non sono collegati con l’aula. Non possono sentire la sentenza in diretta né parlare subito dopo con gli avvocati. Non si può assistere alla loro reazione immediata Anche per i legali sarà possibile sentirli solo oggi dal carcere, con un collegamento da Regina Coeli. La compagna del re delle coop Salvatore Buzzi esulta. Alessandra Garrone è una degli imputati condannati per mafia, ma lei non sta in carcere come il suo compagno: «Sono felice perché è stata riconosciuta una cosa che era chiara», dice al telefono all’avvocato che ha difeso lei e il marito, Alessandro Diddi. Ma in aula a piangere sono in tanti. 

LA POLEMICA. Anche Sergio Carminati, il fratello del “Nero”, capo clan fino a ieri esulta: «Finora è stata commessa un’ingiustizia tremenda - commenta - Anche da voi giornalisti. Vediamo se adesso lo scrivete. È andata come era giusto che andasse». Ad attendere con lui la lettura del dispositivo c’è Lorenzo Alibrandi, fratello di Alessandro, uno dei fondatori dei Nar, morto in un conflitto a fuoco con la polizia nell’81. Al processo di primo grado, Alibrandi è stato anche testimone e ha raccontato che il “Nero” per lui è stato come un fratello, dopo la morte di Alessandro». Ma, appena fuori dall’aula, c’è anche spazio per un battibecco ed è quello tra Sergio Carminati e Bruno Naso, che strilla contro il fratello del suo cliente storico. «Siete una famiglia di cialtroni, siete cialtroni - dice Naso. Tu e tuo fratello che sta in carcere». Ma Sergio Carminati non raccoglie. Adesso la sua felicità è piena. Evita i flash, si raccomanda di non pubblicare le sue foto, si stringe alla cognata e va via soddisfatto. «Finalmente giustizia è fatta», continua a ripetere». E va via.

 «Mondo di mezzo», revocato a Carminati il 41 bis. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. « Con il parere positivo della direzione distrettuale antimafia di Roma e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è stato revocato il 41 bis, il carcere duro, a Massimo Carminati»: fonti del ministro della Giustizia fanno sapere che il ministro Alfonso Bonafede ha firmato il decreto di revoca del regime del 41 bis per l’ex Nar Carminati, uno degli imputati nel processo sul «Mondo di mezzo», dopo la sentenza della Cassazione che ha fatto cadere l’aggravante di associazione mafiosa. «Venuto meno il reato di stampo mafioso è inevitabile che sia stato revocato il 41bis per Massimo Carminati, ovvero il regime di carcere duro» commenta con l’Adnkronos l’avvocato Giosuè Bruno Naso, che ha difeso l’ex Nar nei primi due gradi del processo. Il provvedimento è scattato alla luce della sentenza della Cassazione che ha fatto cadere l’aggravante di mafia. «Anche quando in primo grado non venne riconosciuta la mafia, a Carminati fu revocato il 41bis e venne ammesso al regime carcerario ordinario – spiega il legale – perché non era legato alla pericolosità in carcere o a informative della polizia giudiziaria. Anzi, Carminati è un detenuto irreprensibile, non ha mai avuto problemi con la polizia penitenziaria». «Per me – conclude Naso - il 41bis è un automatismo assurdo, che spero aboliscano presto e per il quale ultimamente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha anche richiamato il nostro Paese». «Hanno tolto il 41 bis a Carminati? La decisione, alla luce della sentenza della Cassazione, era scontata, non mi sorprende. Piuttosto adesso il mio assistito, Salvatore Buzzi, va fatto uscire di galera, gli va immediatamente revocata la misura cautelare in carcere»: parole di Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo Mafia Capitale.

Diabolik forse vittima di una trappola. Spunta la pista dei clan. Il Dubbio il 9 Agosto 2019.  Piscitelli aveva un appuntamento, probabilmente con il killer. Con lui al momento dell’omicidio anche il suo autista, forse vivo per miracolo: «la pistola si è inceppata e sono scappato». Diabolik è caduto in una trappola. È quanto ipotizzano gli uomini della squadra Mobile e della Dda, che ora stanno cercando il responsabile tra i nemici di Fabrizio Piscitelli, l’ultras della Lazio ucciso mercoledì a Roma.

SI FA LARGO LA PISTA DEI CLAN. E tra le ipotesi c’è anche quella dei clan che controllano il flusso della droga nella Capitale, riconducibili alla camorra, col boss Michele Senese, e anche agli albanesi. Tanto che la Procura contesta l’aggravante mafiosa, considerando le modalità dell’esecuzione, un colpo diretto in testa, che fanno pensare ad un killer esperto. L’assassino, dopo l’omicidio, è fuggito a piedi, dopo che la sua pistola si è inceppata. A riferirlo due testimoni, che hanno assistito all’agguato nel parco degli Acquedotti, nonché l’autista di Piscitelli, che era seduto accanto a lui sulla panchina sulla quale è morto e che poi si è dato alla fuga. «L’ho portato lì perché aveva un appuntamento», ha detto l’uomo, che ha parlato di un assassino dalla pelle bianca. Il killer indossava una tuta da jogging, per mimetizzarsi tra le persone che corrono nel parco, e ha sparato la vittima alle spalle, con un unico colpo all’altezza dell’orecchio sinistro. Piscitelli aveva molti nemici, soprattutto nella criminalità organizzata. Le intercettazioni disposte subito dopo l’omicidio avrebbero fornito elementi utili alle indagini. «Piscitelli aveva molti affari con vari gruppi criminali. Siamo in presenza di un personaggio centrale con addentellati sia con la criminalità organizzata italiana, in particolare con gruppi camorristici e che varie realtà anche albanesi», spiegano gli inquirenti. Diabolik frequentava non solo la curva nord, ma anche l’estrema destra e i clan autoctoni e stranieri, nonché l’ex nar Massimo Carminati, passato dalla Banda della Magliana a Mafia Capitale.

MAFIA CAPITALE. E il nome di Diabolik compare proprio nelle carte di quell’inchiesta, in relazione alla cosiddetta “Batteria di Ponte Milvio”, gruppo attivo nella zona nord di Roma e di cui, secondo gli inquirenti, Piscitelli faceva parte. Un gruppo che si occupava di spaccio di cocaina, un affare col quale Piscitelli si sarebbe creato molti nemici, tra i quali ora gli inquirenti vogliono andare a cercare l’assassino.

Intanto sono al vaglio degli investigatori le telecamere di videosorveglianza della zona per risalire al responsabile mentre la procura indaga per omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso. Il fascicolo sulla morte di Diabolik è affidato ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia, coordinata dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino.

Francesco Casula per “il Fatto Quotidiano” il 9 agosto 2019. È nei contrasti con i gruppi criminali che gestiscono il traffico di droga a Roma, in particolare quelli albanesi, che potrebbe essere maturato l' omicidio di Fabrizio Piscitelli, il 53enne per decenni capo ultrà della Lazio conosciuto come "Diabolik", ucciso mercoledì sera a Roma. È la pista su cui stanno lavorando i poliziotti della Squadra mobile che nelle ultime ore hanno eseguito una serie di perquisizioni e ascoltato testimoni e conoscenti di Diabolik. Il supertestimone, l' autista cubano che ha accompagnato la vittima nel parco degli Acquedotti, ha raccontato ai poliziotti guidati dal dirigente Luigi Silipo che il killer aveva la pelle bianca e indossava un abbigliamento da runner. Il sicario ha esploso un colpo che ha freddato Piscitelli mentre era ancora seduto sulla panchina. Un colpo sparato all' altezza dell' orecchio sinistro, dall' alto verso il basso come ha confermato l' autopsia eseguita ieri mattina. Un' esecuzione in perfetta modalità mafiosa: dopo essere stato attirato in trappola, Diabolik è stato giustiziato alla presenza delle numerose persone che alle 19 si trovavano nel parco. Poi il killer è fuggito a piedi percorrendo via Lemonia. Gli inquirenti, intanto, non confermano l' ipotesi che dopo aver sparato a Piscitelli, il killer avrebbe provato ad aprire il fuoco contro il suo autista, che si sarebbe salvato solo grazie all' inceppamento dell' arma. Le indagini sono dirette dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma che ha ipotizzato l' aggravante della modalità mafiose. All' origine del delitto forse debiti non pagati: recentemente a Diabolik era stata restituita una villa a Grottaferrata e una parte dei beni che gli erano stati sequestrati per oltre 2 milioni di euro. Il nome di Piscitelli era già spuntato in altre inchieste: anche in "Mafia capitale" dove per i carabinieri Diabolik avrebbe offerto supporto a Massimo Carminati gestendo con la "Banda di Ponte Milvio" lo spaccio di cocaina a Roma nord. A suscitare interrogativi è anche un altro dato: la strana assenza degli uomini di origine albanese che facevano da "scorta" al capo ultrà degli Irriducibili. Dal cellulare della vittima, nelle prossime ore, potrebbero arrivare nuovi e determinanti elementi per ricostruire l' agguato e soprattutto risalire ai suoi autori. Gli investigatori stanno infatti recuperando tabulati e altri dati dal telefono della vittima per confermare l' ipotesi investigativa di un appuntamento diventato una trappola. Intanto i poliziotti analizzano le immagini catturate dalle telecamere di video sorveglianza della zona: dettagli che potrebbero offrire impulsi decisivi per l' attività investigativa. Il luogo dell' agguato è meta di un pellegrinaggio di amici e tifosi. Sulla panchina fiori ma anche sciarpe e vessilli laziali per l' uomo che dal 1987 guidava il gruppo egemone della Curva Nord laziale, estremista di destra, per anni al centro di redditizie attività legate al merchandising biancoceleste fino allo scontro, recentemente ricomposto, con il presidente della Lazio Claudio Lotito. Striscioni "Diablo vive" davanti alla sede degli Irriducibili, non lontana dal luogo dell' agguato e al Colosseo, dove però è durato poco. A lutto anche gli ultrà romanisti: "Oltre i colori. Riposa in pace Diabolik".

Estratto dell’articolo di Alessia Marani e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 9 agosto 2019. Chi ha portato a dama Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, il capo ultrà della Curva Nord della Lazio? Chi ha tradito l'amico? Un rebus per gli investigatori, che ora indagano per omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso. C'è una pista: Diablo si sentiva ormai così spavaldo e invincibile che alla fine ha pestato i piedi a qualcuno di pesante. E il fatto che fosse andato a un appuntamento nel Parco degli Acquedotti di Cinecittà, zona storicamente gestita dai napoletani della Tuscolana legati alla Camorra ma ora, dopo una serie di arresti eccellenti, passata sotto il controllo dei cavalli albanesi emergenti, porta ai Balcani. Gente con cui, in realtà, Piscitelli, in passato arrestato per narcotraffico e su cui fino alla morte erano rimasti accesi i fari della Dda che con i carabinieri stava indagando su un nuovo giro di droga a Roma Est, avrebbe sempre stretto patti e fatto affari. Tanto che tra i suoi guardaspalle più fidati difficilmente mancava la batteria dei pugili albanesi, un'amicizia cementata dal comune tifo laziale.  

Estratto dell'articolo Alessia Marani e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 9 agosto 2019. La scorta che ogni giorno lo seguiva, ma che per qualche ora non è rimasta insieme a lui. La guardia del corpo che non reagisce e sostiene di non avere visto in faccia il killer. La pistola che si inceppa mentre il sicario tenta di sparare il secondo colpo. La tranquillità ostentata per tutta la mattinata, prima dal barbiere e poi nello studio di un tatuatore. E ora, riavvolgendo il nastro e mettendo in fila tutti i buchi neri dell'inchiesta sull'omicidio del Diabolik ultrà della Lazio, il teschio che Fabrizio Piscitelli si era appena fatto tatuare sulla gamba diventa quasi un presagio di morte.(…) E così, sempre mercoledì, prima dell'appuntamento con il killer, Diabolik fa una capatina nelle sede degli Irriducibili, in via Amulio 47, quartiere Appio. Con lui l'onnipresente guardia del corpo. Un massiccio judoka cubano che gli fa anche da autista. Vanno a pranzo in un ristorante. Poi, arrivano le 18.50. In una panchina del parco degli Acquedotti si consumano gli ultimi secondi di vita di Piscitelli. Accanto a lui, c'è la guardia del corpo. Gli inquirenti non hanno dubbi: Diabolik doveva incontrarsi con qualcuno che conosceva. All'improvviso alle spalle piomba un uomo. Un colpo dietro l'orecchio e il capo ultras muore. Il killer è un professionista: con freddezza si avvicina e con altrettanto distacco si allontana dalla scena del crimine. L'assassino resta lucido, anche quando la pistola si inceppa mentre cerca di premere il grilletto per la seconda volta, puntando verso il cubano. Il caraibico è terrorizzato.(…)

Estratto dell'articolo di Chiara Rai per “il Messaggero” il 9 agosto 2019. «Fabrizio voleva espandersi sempre di più. Era partito da Ponte Milvio ma si era preso le piazze di spaccio di Tuscolano, Porta Furba e Romanina, grazie all'appoggio dei napoletani». A parlare è Marco (nome di fantasia), conoscente di Diabolik da oltre vent'anni che preferisce rimanere anonimo. Ha conosciuto Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio assassinato mercoledì pomeriggio nel parco degli Acquedotti a Roma, ai tempi in cui frequentava la sezione di destra di via Ottaviano e aveva in tasca la tessera del Fronte della Gioventù. «Militava con Massimo Carminati, Ciavardini e gli altri di quel giro racconta insomma quelli della sezione di Prati. Lo conoscono tutti negli ambienti di destra e a parte il suo ruolo indiscutibile di leader negli Irriducibili si è fatto diversi nemici, ha pestato i piedi a tanta gente». Marco racconta l'ascesa di Diabolik, la volontà di espandersi: «Grazie agli eredi del boss Michele Senese si era fatto largo in un territorio che notoriamente è dei Casamonica». E i Casamonica acquistavano cocaina da Senese come testimoniato dall'operazione dei carabinieri di Frascati Gramigna bis. Secondo il conoscente di vecchia data ci sarebbero stati episodi che avrebbero creato una situazione di non ritorno, rapporti irreparabili. Tra questi le dichiarazioni di Piscitelli rese in radio subito dopo il raid nel bar giallorosso H501 di Casal Bertone portato a termine da un gruppo di esponenti della Curva Nord che devastarono il locale a sprangate e ferirono un uomo. Ad avere la peggio fu un 48enne, altro esponente di rango degli ultrà giallorossi e con aderenze in ambienti dell'ultradestra: «Se la venissero a prendere con noi», aveva detto dalla radio degli Irriducibili il leader Diabolik. Anche quel territorio, quel bar, sembrerebbe fosse frequentato dai Casamonica. «Un altro affronto dopo aver preso le loro piazze di spaccio?», prosegue Marco. (...) La sua vita di lusso non è passata inosservata: «Ormai si sentiva il capo di una zona che però non comandava realmente lui continua Marco da Grottaferrata dove conduceva una vita lussuosa, sempre oltre le possibilità di qualsiasi imprenditore di successo, scendeva giù alla Romanina, ce l'aveva ai piedi. Una volta lo hanno fermato a Castel Madama per un brutto litigio con un nomade. Anche lì volarono minacce di morte. Diabolik verrà ricordato da tutti come l'ultrà della Lazio, amato dalla famiglia degli Irriducibili e questo è giusto ma chi lo conosceva bene sa quanti sgarri ha fatto e poi il resto è cronaca, è stato ucciso alla luce del sole, di fronte a tutti. Un messaggio chiaro: ha pagato il suo conto».

Omicidio dell'ultrà: Diabolik tradito da un amico. «Il killer è albanese». Alessia Marani e Giuseppe Scarpa su Il Messaggero Venerdì 9 Agosto 2019. Chi ha portato a dama Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, il capo ultrà della Curva Nord della Lazio? Chi ha tradito l'amico? Un rebus per gli investigatori, che ora indagano per omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso. C'è una pista: Diablo si sentiva ormai così spavaldo e invincibile che alla fine ha pestato i piedi a qualcuno di pesante. E il fatto che fosse andato a un appuntamento nel Parco degli Acquedotti di Cinecittà, zona storicamente gestita dai napoletani della Tuscolana legati alla Camorra ma ora, dopo una serie di arresti eccellenti, passata sotto il controllo dei cavalli albanesi emergenti, porta ai Balcani. Gente con cui, in realtà, Piscitelli, in passato arrestato per narcotraffico e su cui fino alla morte erano rimasti accesi i fari della Dda che con i carabinieri stava indagando su un nuovo giro di droga a Roma Est, avrebbe sempre stretto patti e fatto affari. Tanto che tra i suoi guardaspalle più fidati difficilmente mancava la batteria dei pugili albanesi, un'amicizia cementata dal comune tifo laziale.

LA SCORTA. Scorta che però, mercoledì pomeriggio, Piscitelli non si era portato dietro. Con lui c'era solo l'autista esperto di arti marziali che lo accompagnava da una decina di giorni. L'uomo, nato a Cuba ma da decenni a Roma, è stato imparentato con un altro capo ultrà e per questo parimenti degno della massima fiducia. Una casualità o forse Diablo non si fidava più degli albanesi e li aveva tenuti da parte? Chi lo ha venduto a chi ha deciso e ben studiato a tavolino (Piscitelli fino a venti giorni fa era ancora sorvegliato speciale) di lanciare un messaggio firmato con un colpo alla nuca all'intera piazza di Roma: «Diabolik stai al posto tuo e così gli amici tuoi»? Nel mirino del pm della Dda Nadia Plastina ci sono pianisti di rango. Se a preparare la strada alla musica di piombo sono state batterie locali, il mandante potrebbe essere nascosto ai vertici della mala.

I CLAN. Del resto, secondo investigatori di lungo corso, è dai tempi dell'omicidio del boss della ndrangheta Vincenzo Femia crivellato di colpi a Trigoria nel 2013, che a Roma non si annoverava un delitto tanto eccellente. E carico di possibili conseguenze. Perché Piscitelli, al di là, del suo ruolo ultrà, è stato da sempre considerato snodo cruciale per la composizione dei più svariati equilibri, non solo sugli spalti dell'Olimpico. E potrebbe avere dato fastidio ai nuovi signori della droga, soprattutto ai grossisti calabresi ormai ras specie a San Basilio, la piazza di spaccio più florida della Capitale. O lasciato conti in sospeso altrimenti irrisolvibili.

LE TESTIMONIANZE. Da mercoledì notte, i poliziotti della Squadra Mobile diretta da Luigi Silipo hanno ascoltato una trentina tra testimoni, familiari, amici e conoscenti. È stato ascoltato anche l'autista cubano che era seduto con lui su una panchina; è stato lui a chiamare i soccorsi ma non avrebbe indicato con chi Piscitelli aveva appuntamento: «Non lo so, a me aveva chiesto solo di accompagnarmi perché gli era stata ritirata la patente e aveva bisogno di un passaggio». Non è chiaro se al killer si sia inceppata la pistola a un secondo tentativo. È certo, però, che il colpo di 765 è stato sparato con una precisione chirurgica da mani esperte. Diablo è stato colto completamente di sorpresa, lui che era sempre così attento e guardingo. Era andato all'appuntamento sereno anche se di mattina, forse come un presagio, si era fatto tatuare un teschio - la morte - su una gamba.

LE TELECAMERE. Gli inquirenti stanno ricostruendo le ultime ore di vita e gli ultimi giorni di Diabolik trascorsi tra gli amici della Nord, la moglie Rita e le figlie. Non sarebbero emersi episodi violenti, di liti o discussioni. La polizia sta visionando anche le immagini registrate da una telecamera privata posta al secondo piano di una palazzina al civico 269 di via Lemonia, proprio di fronte al punto del parco in cui Diablo è stato ammazzato. Un ragazzo e una donna, i testimoni oculari, avrebbero indicato un killer mimetizzato tra i runner, con indosso una maglietta verde scuro, che se ne è andato a passo svelto verso oltre la chiesa di San Policarpo. È qui che altre telecamere potrebbero avere inquadrato il fuggitivo, col volto travisato.

Diabolik sotto inchiesta per droga. Piscitelli al centro di un'indagine per traffico. Ombre sull'"autista" cubano. Valeria Di Corrado su Iltempo.it il 9 Agosto 2019. Prima che venisse ucciso, Fabrizio Piscitelli era al centro di una maxi-inchiesta della Procura di Roma per droga. Nonostante nel 2013 fosse stato arrestato dalla Guardia di Finanza per un traffico internazionale di sostanze stupefacenti, Diabolik non era uscito dal giro. Nell’ambito di questa attività investigativa (tutt’ora in corso) si cercano adesso elementi probatori - telefonate, messaggi, appuntamenti, conoscenze - che possano aiutare a far luce sul responsabile (o i responsabili) dell’esecuzione dell’ex leader degli Irriducibili della Lazio, freddato intorno alle 18,50 di mercoledì nel parco degli Acquedotti, in zona Tuscolana, con un colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata alle sue spalle. L’assassino lo ha centrato alla testa, trapassandolo all’altezza dell’orecchio sinistro, mentre il 53enne era seduto su una panchina in via Lemonia, all’altezza del civico 273, insieme al suo autista di origini cubane. Per passare inosservato, il killer indossava una tuta da jogging e aveva travisato il viso con un paio di occhiali e una bandana. Dopo aver sparato, si è allontanato a piedi, per poi fuggire su una moto. I pm romani Nadia Plastina e Rita Ceraso, coordinati dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino, indagano per omicidio premeditato aggravato dal metodo mafioso. Gli agenti della Squadra Mobile cercano l’autore dell’agguato mortale nella fitta rete criminale frequentata dalla vittima: camorristi, albanesi, e non solo. Il sospetto degli inquirenti è che chi lo ha materialmente ucciso sia solo un sicario e che il mandante (o i mandanti) abbia un’«alta caratura» criminale: qualcuno a cui Diabolik potrebbe aver «pestato i piedi» nella spartizione del territorio, qualcuno che non temeva di uccidere un’icona del tifo laziale, mettendosi contro una grossa fetta di Roma. Qualcuno che non ha avuto paura di sparare alla luce del giorno, in un luogo pubblico, forse per dare un «segnale» a tutti coloro che gravitavano attorno a Piscitelli, considerato da molti come un leader carismatico (non soltanto tra i frequentatori dello curva nord). «Aveva debiti per questioni di droga. Da quando nel 2016 gli hanno sequestrato tutto il patrimonio, compresa la villa dove abitava, non si è più rialzato». A dirlo all’Agi è Vincenzo, ex ultrà della Lazio, e grande amico di Diabolik. «Ultimamente ci sentivamo poco. Ho dei figli da tutelare e sono uscito da certi giri. Certo è - aggiunge - che nessuno ti spara alle spalle per questioni di tifo, questa è roba da criminali. Tra tifoserie non ci si comporta così». L’appuntamento che Piscitelli aveva nel parco potrebbe essere stato proprio una trappola tesa per ucciderlo.

Roma, l’omicidio di Diabolik Piscitelli ha interrotto la pax imposta da Carminati. Investigatori: “Si rischia escalation di sangue”. L'omicidio del capo ultrà della Lazio è il terzo fatto di sangue che "puzza di mafia" dall'inizio dell'anno, "il più importante dal 2002". Il già fragile patto fra clan stipulato nel 2012 potrebbe essere al capolinea. "Non è certo che i garanti si risiederanno subito al tavolo delle trattative", spiegano gli inquirenti. L'assassinio di Diabolik avvenuto nel territorio di Michele Senese e del fratello Angelo.  Vincenzo Bisbiglia il 9 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. A Roma “la pax è finita“. Almeno “fino al prossimo accordo“. Hanno pochi dubbi gli investigatori. L’omicidio di Fabrizio Piscitelli, conosciuto ai più come il “Diabolik” capo ultrà della Curva nord della Lazio, lascia pensare che qualcosa si sia rotto nel “tavolo permanente delle mafie romane”. di cui parlava appena due mesi fa il capo della Dda Michele Prestipino. Una “pax capitolina” stipulata per la prima volta a cavallo fra il 2011 e il 2012, dopo l’omicidio a Ostia di Giovanni Galleoni detto “Baficchio” e Francesco Antonini detto “Sorcanera”: in quella sede trovarono l’accordo clan camorristici, i siciliani, i romani “reduci” dall’epopea della Magliana – guidati dall’ex Nar Massimo Carminati – e gli “zingari” in ascesa. Con la garanzia di alcuni esponenti di spicco, come il siciliano Francesco D’Agati, referente del clan Santapaola, o il boss di Montespaccato, Salvatore Nicitra. Un patto di “non belligeranza” – costantemente violato negli anni a venire, c’è da dire – arrivato proprio nei giorni in cui veniva ipotizzata la nomina di Giuseppe Pignatone, fino a quel momento magistrato soprattutto esperto nella lotta alle cosche, come procuratore capo di Roma. Allora, il senso della “federazione criminale” era quello di favorire lo scorrere indisturbato degli affari criminali nella Capitale. Lo stesso metodo seguito nel 1993 da Bernardo Provenzano, che inabissò Cosa nostra subito dopo le stragi e l’arresto di Totò Riina. Una pace imposta dai boss anche nella Capitale nel nome del business. Solo che oggi Carminati e gli altri tre “re di Roma“, elencati per la prima volta dal giornalista Lirio Abbate sull’Espresso nel dicembre 2012, sono tutti in galera. Anche Pignatone non è più operativo: dal maggio scorso è in pensione. Da allora la poltrona più alta di piazzale Clodio è vuota, ed è finita al centro delle trame e degli intrighi svelati dall’inchiesta sul Consiglio superiore della magistratura. Nel frattempo la pace è finita e può anche essere scoppiata la guerra. “Si attende l’intervento dei garanti per riportare l’ordine: questo potrebbe portare a un’escalation di sangue o, più probabilmente, all’ennesimo accordo“, ipotizzano fonti inquirenti qualificate a IlFattoQuotidiano.it. Piscitelli, “l’omicidio più importante dal 2002” – Va considerata la “gravità” dell’uccisione di Piscitelli, una figura di primo piano della criminalità organizzata capitolina. Un luogotenente in piena regola, capo della cosiddetta batteria di Ponte Milvio al servizio dell’ex dominus di Roma nord, Massimo Carminati – con cui condivideva gli ideali politici e l’assidua frequentazione degli ambienti sovversivi di estrema destra – ma anche al servizio di Michele Senese, lo storico viceré romano dei clan di Afragola, con cui collaborava sul fronte del narcotraffico nel quadrante est della città. “Era l’uomo di connessione fra l’estrema destra, criminalità romana, gruppi albanesi e camorra”, confermano gli inquirenti. Soprattutto, Diabolik era il leader indiscusso del tifo laziale, co-fondatore del primo gruppo ultras italiano a unire la “passione sopra le righe” alla politica e ai business illeciti, da tempo terreno fertile per le attività mafiose. Vicino, negli ultimi tempi, a Forza Nuova e all’amico Giuliano Castellino – leader forzanovista e capo ultrà della Roma – da cui ha sempre ottenuto solidarietà a dispetto delle rivalità calcistiche. Se fosse confermata l’aggravante mafiosa ipotizzata nel fascicolo aperto dalla Procura di Roma, quello di Piscitelli sarebbe “l’omicidio più importante avvenuto a Roma dai tempi di Paolo Frau”, boss di Ostia ed ex braccio destro di Renatino De Pedis, ucciso nel 2002: un delitto che cambiò per sempre gli equilibri criminali sul litorale e non solo. Il territorio dei Senese e le modalità dell’assassinio – Piscitelli è stato ucciso con le tipiche modalità dell’esecuzione. Un colpo alla nuca, dietro l’orecchio. Uno sparo solo, ma perché la pistola del killer (“un professionista”) forse si è inceppata. “Altrimenti sarebbero stati tre, forse quattro”, spiega chi indaga. Soprattutto, il proiettile calibro 7,65 Parabellum, considerato una firma degli ambienti mafiosi. Poi bisogna considerare la zona. Diabolik abitava a Grottaferrata, non troppo distante dal luogo dell’omicidio, l’ingresso del Parco degli Acquedotti in via Lemonia, in zona Tuscolana. Quello, però, è anche il territorio di Michele Senese, di cui è oggi reggente il fratello Angelo, che abita nel quartiere Porta Furba, ad appena 2 km di distanza dal luogo del delitto. “Un affronto, se non fosse stato avallato in qualche modo”, azzardano gli inquirenti. Fatto sta che Piscitelli, in quel momento, non si sentiva in pericolo. Il capo ultrà biancoceleste era solito girare con tre-quattro di scorta, dei guardaspalle che mercoledì pomeriggio a via Lemonia non c’erano. L’unico presente pare fosse l’autista cubano, che poliziotti e magistrati stanno hanno già interrogato. Eppure, chi lo frequentava ammette che da qualche tempo erano arrivati segnali che lo avevano reso inquieto. In cima agli avvertimenti, è oggi la bomba che il 7 maggio distrusse la nuova sede degli Irriducibili all’Appio Latino. “Ci vogliono far tornare agli anni di piombo”, disse Diabolik in quell’occasione, alludendo a un presunto movente politico legato allo striscione in onore a Mussolini esposto nei giorni precedenti a Milano prima di Milan-Lazio. Fonti interne al gruppo ultras degli Irriducibili rivelano che nei mesi passati aveva provveduto a distribuire il suo patrimonio per due terzi alla figlia Giorgia – che si è sposata nel giugno scorso – e per un terzo all’altra figlia. I “re” arrestati e gli “spazi” per i nuovi clan – Quali sono oggi gli equilibri criminali in città? Come detto i “quattro re di Roma” oggi sono tutti in galera. Carminati è in carcere dalla fine del 2014 con il 41 bis dopo la condanna in appello a 14 anni di carcere per “mafia capitale”. Stesso discorso per Michele Senese, detto “O’ pazzo”, dietro le sbarre dal 2013 per l’omicidio del boss della Marranella, Giuseppe Carlino, avvenuto a Torvaianica il 10 settembre del 2001 per mano dell’amico Domenico Pagnozzi, per vendetta dell’assassinio del fratello Gennaro, avvenuto nel 1997 a Centocelle. Al 41 bis, dal 2018, anche Giuseppe Casamonica, capo degli zingari, e Carmine Fasciani, boss dei rispettivi clan. Ma non erano solo loro i protagonisti del patto federativo del 2011-2012. Al tavolo c’erano anche i fratelli Franco e Roberto Gambacurta, i re di Montespaccato, arrestati nel 2018 dalla Dda, insieme al reduce della banda della Magliana, Salvatore Nicitra (assolto ai tempi del maxi-processo), romano di origine siciliana. Da tempo in carcere anche Enrico Nicoletti, considerato il “cassiere” della banda e fra coloro che ha dato il via alla scalata degli “zingari” Casamonica, Spada e Di Silvio. Solo nel giugno 2019, invece, è finito in manette l’83enne Francesco D’Agati, alias ‘u zio Ciccio, storico braccio destro di Pippo Calò, considerato il reggente del clan Santapaola a Roma. Secondo i magistrati antimafia, fu proprio D’Agati il principale garante della pax mafiosa del 2012, colui che mise intorno al tavolo le varie anime della criminalità organizzata capitolina. E come dimostra l’indagine che 2 mesi fa portò la Procura di Roma a sgominare il clan pontino dei Fragalà, proprio ‘u zio Ciccio, vicino di casa di Senese, amava svolgere il suo ruolo di mediatore davanti a “prelibati cannoli siciliani” nei pressi di una nota pasticceria di via Tuscolana. Il 2019 romano fra sangue e manette – Dall’inizio del 2019, quello di Fabrizio Piscitielli è il terzo delitto che “puzza di mafia“, per dirla con gli investigatori. Il 10 gennaio 2019, un killer in moto, con casco integrale, ha freddato il pluri-pregiudicato Andrea Gioacchini davanti a un asilo nido alla Magliana. Fra gli indagati c’è ancora Augusto Giuseppucci, fratello di Franco detto “Er Negro” (“Er Libanese”, per gli amanti di Romanzo Criminale), il primo boss della Banda della Magliana ucciso nel 1980 in piazza San Cosimato. Il 31 marzo 2019, un altro motociclista ha gambizzato i pregiudicati Mauro Gizzi e Maurizio Salvucci, davanti un bar in via Stilicone al Quadraro – ancora nel territorio dei Senese – Mauro Gizzi, in particolare, è il cugino di Franco Gizzi, boss dell’omonimo gruppo con base ai Castelli Romani ma dalla grande influenza sia nel quadrante sud-est della Capitale che in tutto il sud pontino. Oltre all’operazione del 5 giugno 2019, che ha portato la Dda ad arrestare una trentina di esponenti del clan Fragalà di Pomezia, nell’ultimo anno vanno registrate alcune operazioni che potrebbero aver sconvolto gli equilibri criminali cittadini. In particolare, i numerosi arresti in seno al clan Casamonica-Spada: 37 arresti il 17 luglio 2018, fra cui il boss reggente Massimiliano Casamonica, e altre 23 persone in manette il 9 maggio 2019. Il 10 luglio 2019, invece, è arrivato il duro colpo al clan Gambacurta di Montespaccato, cui erano affiliati anche alcuni ultras della Lazio. Secondo gli inquirenti, “potremmo assistere ad altri episodi di sangue, ma è probabile che i garanti del patto continuino a lavorare per la pace, perché gli interessi sulle oltre 100 piazze di spaccio presenti sul territorio cittadino sono enormi”. Gli stessi clan calabresi “sono i principali fornitori della droga consumata a Roma e non dovrebbero avere alcun interesse a scatenare una guerra per l’egemonia”, un predominio che “a Roma non è mai esistito“. Intanto nell’Urbe si è tornato a sparare. E a uccidere.

Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2019. Latitante dal 2013, si era nascosto a casa di una coppia a Casalotti con documenti falsi, ma era stato trovato dai finanzieri che avevano seguito le ordinazioni di pizze la sera di Limassol-Lazio di Europa League. Per la Finanza Piscitelli era «soggetto pericoloso, vissuto all' insegna della prepotenza e della sopraffazione, indifferente ai numerosi provvedimenti di polizia adottati nei suoi confronti». Come la condanna, sempre del 2015, a tre anni e due mesi per la fallita scalata alla Lazio di Lotito, minacciato più volte da un gruppo di ultrà che volevano mettere Chinaglia come presidente. Famoso il suo incontro raccontato proprio da Lotito. Disse Piscitelli: «Presidente, sono Diabolik». «E io sono l' ispettore Ginko», replicò il patron. Come capo ultrà, il nome di Piscitelli è emerso in tutti i fatti più eclatanti degli ultimi anni che hanno riguardato il tifo della Lazio. Tra gli ultimi, lo scontro con quelli della Spal l' anno scorso ad Auronzo di Cadore, e i volantini all' Olimpico che vietavano alle donne di sedersi nelle prime dieci file della curva: «Chi sceglie lo stadio come alternativa a romantiche passeggiate a Villa Borghese, andasse altrove», aveva scritto «Diabolik».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” l'8 agosto 2019. Lascia alle spalle un testamento fondato sul fanatismo. Fabrizio Piscitelli 53 anni, in arte Diabolik, ha seminato violenza dentro e fuori la curva Nord. Ultras, estremista di destra e criminale. Con orgoglio rivendicava di essere stato lui, assieme a un gruppo di fedelissimi, a riscattare il tifo estremo biancoceleste. A condurre gli Irriducibili, gruppo egemone tra i supporter laziali, un tempo bistrattati ad essere rispettati e temuti: «Venivamo da una generazione, quella prima della nostra, che era sempre scappata». Noi «abbiamo detto che dovevamo - racconta Piscitelli in un'intervista del 2000 - cominciare a farci sentire». Diabolik, sposato e con due figlie, è stato per più di 20 anni al centro dello storico direttivo', composto anche da Fabrizio Toffolo, Paolo Arcivieri e Yuri Alviti. Sedeva lui al vertice e aveva plasmato a suo piacimento la curva Nord: «Noi i pullman» degli altri tifosi «li bloccavamo, gli spaccavamo» i finestrini, e «gli tiravamo la torcia dentro, aspettavamo che uscissero fuori per ammazzarci». Un modo questo - sempre per Diabolik, per «sentirsi vivi». Una condizione di gioia superata unicamente - secondo il suo pensiero - dallo «scontro con le guardie». Ma il suo non era un hobby, se così si può definire, a costo zero. Piscitelli, nel corso degli anni, era riuscito a mettere su un business niente male. Aveva drenato parte delle risorse ricavate dal merchandising, collegato alla tifoseria laziale, e lo aveva riversato in attività illegali. Questa la tesi degli inquirenti. Gli affari per Diabolik andavano a gonfie vele. La finanza, nel luglio del 2016, gli aveva confiscato beni per un valore che superava i 2 milioni di euro (una parte poi restituita dal Tribunale). Nell'ottobre del 2013, dopo un periodo di latitanza, era stato arrestato. Era considerato, dagli investigatori, al centro di un rete di narcotraffico tra Spagna e Italia. Nel 2015 era stato ritenuto responsabile, assieme ad altri capi della tifoseria organizzata biancoceleste, di estorsione ai danni del presidente della Lazio Claudio Lotito. Piscitelli, a suon di minacce, voleva costringere il numero uno del club a vendere le sue azioni a una cordata di imprenditori. La fama di Diabolik, nel corso degli anni, aveva però superato i confini del tifo violento fino a diventare uno da rispettare nel mondo della mala. La riprova era stata data dal fatto che il suo nome era comparso nelle carte dell'inchiesta giudiziaria che aveva sconvolto Roma, Mafia Capitale. Diabolik emergeva nelle reti criminali che erano entrate in contatto Massimo Carminati. «Tutti erano concordi nell'affermare che su Ponte Milvio opera una batteria pericolosa con a capo Fabrizio Piscitelli e della quale facevano parte soggetti albanesi; che la predetta batteria era al servizio dei napoletani ormai insediatisi a Roma nord, tra cui i fratelli Esposito facenti capo a Michele Senese». Così scrivevano i Ros in relazione allo spartizione della zona di Ponte Milvio, dove nella cura dei suoi Carminati doveva tenere conto della presenza di batterie che facevano riferimento a Senese, boss della camorra. E proprio nell'orbita di Michele o pazzo si sarebbe mosso Piscitelli con il suo gruppo, di cui facevano parte anche gli albanesi. Ma il cuore di Piscitelli batteva sempre per la Lazio. E così, dopo i 4 anni e due mesi in carcere per droga, Diabolik decise nel luglio del 2017 di riprendersi quello che era sempre stato il suo regno. La curva Nord. «Noi per il bene della Lazio volevamo andare dentro gli stadi, entrare nelle altre curve e ammazzarli. Perché noi ci dovevamo sentire vivi - concludeva Diabolik nell'intervista - in un mondo di morti».

Da Il Messaggero il 10 agosto 2019. Per avere un'idea di come girava per Roma Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, lo storico capo ultrà della Nord dell'Olimpico, eccolo in via Emanuele Filiberto, davanti a una gioielleria che vende orologi di lusso da lui molto frequentata. Ad aspettarlo nella Smart bianca in doppia fila c'è un autista e uomo di fiducia (non il cubano che era con lui il 7 agosto giorno in cui è stato ammazzato nel parco degli Acquedotti). Arriva un automobilista che vuole parcheggiare e ha una web-cam che riprende la scena. «Spostati, è tutto ripreso», dice. L'uomo al volante si oppone «sto aspettando una persona». Poi spunta fuori Diablo che se la prende con l'automobilista e lo scambia per una "guardia". Il video era stato pubblicato su Fb dall'ignaro automobilista a febbraio, adesso si scopre con chi aveva avuto a che fare.

Pier Paolo Filippi per “il Messaggero” l'8 agosto 2019. Un omicidio in pieno giorno, nel parco degli acquedotti a via Lemonia, a Cinecittà. Così è stato ucciso Fabrizio Piscitelli, Diabolik, leader degli Irriducibili della Lazio. Tra gli abitanti della strada e le persone che frequentano il parco degli acquedotti pochi sembrano essersi accorti di quanto accaduto intorno alle 19. Gli unici ad aver assistito alla scena sarebbero un ragazzo che stava facendo jogging e una donna seduta poco distante dal punto dove Piscitelli è stato trovato morto. Racconta Andrea, che stava facendo ginnastica con gli attrezzi del Parco a un centinaio di metri da dove è stato ucciso Diabolik: «Si è sentito un rumore, come di un'esplosione, ma non molto forte. Sembrava un rauto ma non abbiamo pensato a uno sparo. Anche la signora seduta sulla panchina non si è resa conto di quanto accaduto, ma ha visto un uomo fuggire di corsa a piedi e girare da via Lemonia in via Tito Labieno. La persona che fuggiva aveva una maglietta verde».

I RACCONTI. Oltre alla donna, al momento dell'agguato era presente anche un ragazzo che stava correndo nel parco e che è stato ascoltato a lungo dalla polizia. Subito dopo l'omicidio si sono riversati sul posto numerosi avventori del parco e residenti della strada, mentre la polizia ha provveduto a delimitare la zona con il nastro. Nonostante a quell'ora il parco sia molto frequentato, sembra che nessuno si sia accorto di niente, così come gli abitanti della zona. «Abbiamo sentito un rumore sordo ma non pensavamo potesse accadere una cosa del genere racconta Antonio un residente Quando siamo scesi in strada e abbiamo visto una persona in terra pensavamo fosse stata colta da un malore, poi abbiamo visto arrivare tante macchine della polizia e abbiamo capito che era successo qualcosa di grave». Giulia, anche lei residente nei palazzi di fronte, racconta: «Ero fuori per lavoro e sono rientrata da poco. Spero che adesso scoppi una faida nel quartiere».

GLI AMICI. Intorno alle 20 sono arrivati sul posto i primi tifosi amici di Piscitelli e poco dopo anche il fratello che urlava «Fatemelo vedere Fatemelo vedere». Lui insieme ad altri amici è stato fatto entrare dalla polizia nell'area delimitata per poter andare a vedere il corpo. Poi alla spicciolata si sono radunati sul posto decine di tifosi del gruppo degli Irriducibili che hanno cominciato a inveire in strada contro i giornalisti, trattenuti a stento dagli agenti, tanto che le telecamere sono state spostate. La scena si è poi ripetuta all'interno del parco e solo più tardi la situazione è tornata alla calma. «È allucinante, pazzesco. Non ci posso credere». A ripeterlo uno dei tanti amici. «Sono uscita di corsa appena ho saputo - ha raccontato una ragazza - era come un fratello». «Non vado allo stadio da tanto tempo , è un dramma rincontrare vecchi amici in una situazione del genere», ha detto Marco. Sul posto anche i parenti di Piscitelli che vivono nel quartiere, così come i suoi genitori. Tra loro anche la sorella, Angela: «Rispetto il vostro lavoro ma per favore in questo momento lasciateci in pace non abbiamo proprio voglia di parlare». Tra i parenti, una donna ha anche accusato un malore ed è stata soccorsa. Tra i residenti scesi in strada anche l'attore Ninetto Davoli, sconcertato: «Ne ho viste di ogni genere ai miei tempi ma una cosa del genere non me l'aspettavo. Evidentemente non si tratta di questioni tra tifosi ma deve esserci altro. Questo è un quartiere in genere tranquillo al di là di qualche furto».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 10 agosto 2019. C'è un video in cui il sicario e il suo complice sfrecciano a bordo di una moto di grossa cilindrata. Percorrono via Lemonia, in direzione Roma centro. Gli investigatori passano al setaccio le telecamere di zona e iniziano ad incassare i primi risultati sull'omicidio di Fabrizio Piscitelli, 53 anni. È questo il tassello di un puzzle complicato che gli inquirenti stanno cercando lentamente di assemblare. Qualcuno ha venduto Piscitelli ai suoi boia. Diabolik aveva un appuntamento e la persona non si sarebbe presentata. Oppure una talpa ha riferito dell'incontro e l'assassino ha anticipato tutti di pochi minuti. Un omicidio pianificato, studiato nei dettagli, così appare agli investigatori. Un agguato in piena luce, erano le 18.50 di mercoledì scorso, in mezzo a una decina di persone. Un assassinio che, da parte di chi lo ha progettato, si pone anche l'obiettivo di lanciare un messaggio di forza nella Capitale. Perché Diabolik, ormai da anni, non era più semplicemente il leader violento degli ultras laziali, ma un boss affermato. Per questo i mandanti dell'omicidio Piscitelli hanno assoldato un professionista di primo livello, probabilmente dell'est Europa. Il killer imperturbabile, in occhiali da sole e con una benda che gli copriva il resto del viso, vestito da runner, si è avvicinato a Diabolik ha puntato la pistola e lo ha freddato. Il secondo colpo diretto al bodyguard cubano è andato a vuoto. Il sicario ha ripreso la corsa e si è infilato dentro il parco. Poco dopo una telecamera lo immortala sul sedile posteriore di una moto che sfreccia a gran velocità. Nel frattempo il cubano, un omone che supera i 100 chilogrammi, discreto judoka, cameriere in un ristorante e improvvisato guardaspalle, scappa. Fugge nella direzione opposta a quella del killer. Il cubano, a bordo dell'auto con cui aveva portato in giro per Roma il suo ex datore di lavoro, prima dal barbiere, poi da un tatuatore, al ristorante e infine nella sede degli Irriducibili, viene fermato da una pattuglia della polizia mentre vaga senza meta per le strade della Capitale. L'uomo, con poca esperienza come guardaspalle, aveva sostituito da dieci giorni lo storico gorilla di Diabolik. Gianni, un italiano, che si era preso qualche giorno di vacanza. Poche informazioni, quasi nulle, quelle che il caraibico ha fornito agli agenti della Squadra Mobile della sezione omicidi diretta da Andrea Di Giannantonio e al pm Nadia Plastina. Gli investigatori sperano di poter incassare maggiori e più utili elementi dai tre telefonini di Piscitelli. Ma non sarà facile sbloccare gli smartphone di Diabolik. Di certo l'inchiesta per traffico di stupefacenti che corre parallela a quella sull'omicidio (aggravato dal metodo mafioso) restituisce agli investigatori un'immagine di criminale di primo livello. Piscitelli era un uomo venerato negli ambienti del tifo violento laziale. Era stato lui, assieme a un gruppo di fedelissimi, a far compiere un salto di qualità alla curva Nord. Gli Irriducibili, prima di tutto, si erano imposti nelle gerarchie degli ultras biancocelesti. Poi si erano guadagnati il rispetto delle tifoserie di mezza Europa. Diabolik era stato capace di rivendere, all'interno della mala romana, questa sua popolarità fino ad arrivare ad una posizione di livello. Parlava senza alcun timore reverenziale con un mammasantissima (oggi in carcere) come Michele Senese. Diabolik era rispettato da altre storiche famiglie criminali, come gli Spada, i Casamonica e i Fasciani. Ottimi erano anche i rapporti con i Nicoletti. Perché di soldi, nella mani di Diabolik, ne sarebbero passati parecchi. Il suo nome, emerge da numerose intercettazioni, veniva speso dalla sua batteria come una garanzia: «Mi manda Piscitelli». Lui, però, non parlava mai. Non compariva mai agli incontri Non ne aveva bisogno. Solo il suo nome incuteva timore e rispetto. Era anche una forma di garanzia e credibilità. Proprio come un vero boss.

Diabolik, no ai funerali pubblici. Il questore: sicurezza a rischio. Pubblicato venerdì, 09 agosto 2019 da Corriere.it. Il funerale di «Diabolik» scatena la polemica. Perché il divieto imposto dal questore di Roma a celebrare esequie pubbliche — come avviene a Palermo per i boss mafiosi o nella capitale dopo lo show dei Casamonica — provoca la reazione della famiglia dell’ex capo ultrà della Lazio e pregiudicato per traffico di droga, ucciso mercoledì pomeriggio con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti all’Appio. «Il rito funebre di Fabrizio Piscitelli celebrato in forma pubblica, con grande risalto mediatico, potrebbe determinare gravi pregiudizi per l’ordine e la sicurezza pubblica», scrive il questore Carmine Esposito. Dunque la cerimonia si dovrà svolgere martedì prossimo, alle sei del mattino, nella cappella del cimitero di Prima Porta (dove riposano personaggi simbolo della storia biancoceleste, come Tommaso Maestrelli e Giorgio Chinaglia). «A parte Totò Riina e Bernardo Provenzano non ricordo provvedimenti simili per altre persone», commenta però l’avvocato della famiglia Piscitelli, Marco Marronaro, che aggiunge: «Proveremo a ottenere funerali pubblici a settembre». La sorella di «Diabolik», Angela, ha intanto annunciato un ricorso urgente al Tar (proprio in vista di una seconda cerimonia nei prossimi mesi), mentre la moglie Rita ha scritto una lettera aperta rimbalzata sempre ieri sui social: «Lo state uccidendo di nuovo, tanto quanto il killer che lo ha sorpreso alle spalle. Garantisco che non ci saranno problemi di ordine pubblico. Fabrizio non era un mafioso e non meritava di morire così, come nessuno merita di morire così». Fra le motivazioni della questura c’è il timore che i funerali possano risentire soprattutto della «partecipazione emotiva dell’intero contesto nazionale delle tifoserie» con momenti di tensione, come quelli con i giornalisti sul luogo dell’omicidio. L’attenzione è comunque massima. Sui social i gruppi ultrà di tutta Italia sono già mobilitati: a Roma si attende l’arrivo di centinaia, forse migliaia di tifosi di molte squadre, anche rivali storiche della Lazio. Piscitelli, sottoposto a «Daspo» nel 2018 dopo gli scontri con i sostenitori della Spal ad Auronzo di Cadore, era fra i fondatori degli Irriducibili, che ha guidato fino all’ultimo, ed era un personaggio conosciutissimo negli ambienti ultrà. L’inchiesta sull’omicidio — in cui si contesta l’aggravante del metodo mafioso — prosegue sui rapporti tra i gruppi che si sono spartirti le «piazze» della droga. Dietro l’agguato potrebbe esserci una guerra tra gruppi malavitosi attivi nella Capitale, compresi quelli albanesi. Oppure uno sgarro personale. Mercoledì i killer potrebbero essere stati ripresi dalle telecamere, ma tracce dei mandanti si cercano anche nel materiale contenuto nei tre smartphone della vittima sequestrati dalla polizia.

ECCO COME E’ STATO UCCISO “DIABOLIK”: LA TRAPPOLA E POI L’ESECUZIONE. Michela Allegri e Giuseppe Scarpa per il Messaggero l'11 agosto 2019. Un omicidio programmato in ogni dettaglio, professionale. Il killer che spara e fugge via, un complice che lo aspetta a bordo di una moto. Ma anche un terzo uomo che faceva da palo e che ha avvisato il sicario quando mercoledì scorso Fabrizio Piscitelli si è presentato all'appuntamento in via Lemonia, a Roma, in anticipo e, soprattutto, accompagnato dall'autista cubano che gli faceva pure da guardia del corpo. Lo stesso autista che ha raccontato agli investigatori della Squadra mobile di essere vivo per miracolo: dopo avere sparato un colpo secco dietro all'orecchio del Diabolik ultrà della Lazio, il killer - era vestito da runner e aveva dei leggings lunghi, forse per coprire un tatuaggio - aveva puntato l'arma pure contro di lui e aveva premuto il grilletto, ma la pistola si era inceppata. Il cubano ha detto di essere fuggito in preda al panico. A chiamare i soccorsi, infatti, è stato un passante. E l'autista è stato fermato dalla polizia mentre stava lasciando Roma in macchina. Un delitto organizzato in modo chirurgico, per chi indaga, premeditato in ogni dettaglio e aggravato dal metodo mafioso. E non a caso, una delle piste degli inquirenti porta dritta ai clan. Perché il Diablo è stato ucciso con le modalità tipiche dell'esecuzione e da indagini precedenti sono emersi legami con il boss camorrista Michele Senese e con il suo gruppo, con cui seguiva affari collegati al narcotraffico, riemersi anche nell'ultima inchiesta - ancora in corso - che lo vedeva coinvolto. Dall'indagine sul Mondo di Mezzo di Massimo Carminati era anche emerso che Diabolik era alla guida della batteria di albanesi di Ponte Milvio. Ma sono proprio le modalità dell'omicidio a insospettire: una delle ipotesi è quella di uno sgarro ai boss. Anche la zona in cui è avvenuta l'esecuzione non deve essere sottovalutata. L'ingresso del Parco degli Acquedotti, al Tuscolano, è storicamente territorio di Senese e dei suoi familiari. Difficile pensare che il clan non fosse stato quantomeno informato. D'altronde, l'agguato a Diabolik ha fatto subito pensare gli investigatori a due precedenti di spicco: gli omicidi di Giuseppe Carlino e di Michele Settanni. Carlino era uno dei capi della banda della Marranella, venne ucciso nel 2001 a Torvaianica, sotto casa, con una raffica di colpi di pistola. Un delitto costato una condanna - definitiva - a 30 anni di carcere proprio a Senese, considerato il mandante. Il delitto, eseguito da Domenico Pagnozzi, era una vendetta per l'uccisione di Gennaro, fratello di Senese, e a commissionarlo fu Michele o pazz mentre era detenuto in una clinica psichiatrica dalla quale poi evase grazie a un certificato medico falso. Ma c'era anche un altro movente. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno specificato che Carlino, narcotrafficante della Marranella, venne ucciso anche «per agevolare l'associazione e promuovere il traffico di stupefacenti». Gli inquirenti pensano anche a un altro omicidio eclatante: quello di Michele Settanni, collegato pure lui alla Banda della Marranella e al gruppo Senese. Era stato giustiziato con un colpo alla testa nel 2002, a Ciampino, a un semaforo sulla via Appia. Dalle indagini era emerso che poco tempo prima si era incontrato con alcuni capiclan, tra i quali Paolo Frau, ucciso a Ostia Lido a qualche giorno di distanza da due killer in moto. All'epoca, Frau era appena uscito di galera dopo aver scontato la condanna inflitta nel maxi processo del '93 alla banda della Magliana. Sono invece gli orari a fare ipotizzare agli inquirenti che al delitto abbiano partecipato almeno tre persone. L'autista ha raccontato che Diabolik aveva un appuntamento in via Lemonia alle 19, ma che erano arrivati con una ventina di minuti di anticipo. L'omicidio è avvenuto alle 18,50. I pm pensano che il killer sia stato avvisato della presenza del Diablo da un altro uomo che faceva da palo. Poi, è fuggito e ha raggiunto un complice che lo aspettava a bordo di una moto e che è stato immortalato insieme al sicario da alcune telecamere di sorveglianza.

Ultras ucciso, i familiari si rivolgono al Papa per il funerale negato. Dopo l'annuncio di un ricorso al Tar, la vedova di Fabrizio Piscitelli "Diabolik" si rivolge al Pontefice contro la decisione della Questura di far svolgere esequie private. La Repubblica l'11 agosto 2019. Dopo il ricorso al Tar la 'battaglia' della famiglia di Fabrizio Piscitelli, l'ex capo degli Irriducibili della Lazio ucciso nei giorni scorsi con un colpo di pistola, va avanti per "garantirgli un funerale degno". Oggi la moglie ha lanciato un appello al Pontefice: "Vorrei portare alla Sua attenzione la vicenda che ha colpito la mia famiglia e che si aggiunge al già straziante dolore della perdita di mio marito - ha sottolineato Rita Corazza - Per opera di un provvedimento del Questore non possiamo garantirgli un degno funerale". La moglie dell'ultras noto come Diabolik ha premesso di rispettare "profondamente le istituzioni e i pubblici poteri", "ma - ha aggiunto - vediamo fortemente leso un nostro diritto e soprattutto offeso il nostro dolore. Quindi non posso non lottare per veder dichiarata l'inammissibilità di quel provvedimento. Non mi riferisco agli aspetti tecnico-giuridici, che ho già sollevato nelle sedi opportune, mi riferisco all'aspetto umano e spero che Lei ascolti queste mie parole". Poi ha spiegato: "Il giorno, l'ora e il luogo delle esequie mi sono stati imposti; inoltre è stato fatto divieto di celebrare il rito in forma pubblica, perché si ritiene vi siano ragioni di ordine pubblico che lo impediscono, ragioni che sembrano superiori anche al dolore di una famiglia in lutto e alla nostra libertà religiosa". Nell'appello la donna definisce il marito "un padre, un fratello e un figlio. Un amico e un conoscente ma soprattutto un membro della comunità cristiana". A schierarsi accanto alla famiglia gli Irriducibili che hanno lanciato un messaggio chiaro attraverso un grosso striscione: "La morte è uguale per tutti... il funerale anche! Salutare Fabrizio é un nostro diritto!". L'immagine dello striscione è stata pubblicata sulla pagina Fb del gruppo ultras scatenando una serie di commenti. "A qualsiasi ora ci saremo! Diablo vive" è uno di questi. "Tutti al funerale" ha scritto un altro. Se il ricorso al Tar non dovesse andare a buon fine sarà massima l'attenzione martedì attorno al cimitero di Prima Porta. Tutta la zona sarà presidiata. Scatteranno controlli anche ai caselli autostradali e nelle stazioni per monitorare l'eventuale arrivo di delegazioni ultras da altre città. Intanto proseguono le indagini dei poliziotti della Squadra Mobile di Roma per dare un volto all'uomo vestito da runner che mercoledì sera ha premuto il grilletto sparando il colpo di pistola alla testa che non ha lasciato scampo a Piscitelli. Il cerchio si starebbe stringendo. Nei giorni scorsi è stato effettuato un nuovo sopralluogo della polizia scientifica sul luogo del delitto. Al vaglio le telecamere di videosorveglianza della zona che potrebbero aver ripreso il killer durante la fuga. Tra le ipotesi che l'uomo, visto scappare a piedi su via Lemonia, sia poi salito a bordo di uno scooter su cui lo attendeva un complice. Chi indaga è al lavoro anche sui tabulati telefonici per ricostruire chi stesse aspettando il 53enne quella sera, seduto su una panchina del parco assieme al suo autista.

Il Tar: no ai funerali pubblici di Piscitelli. La moglie: nessuno della famiglia ci sarà. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 su Corriere.it. Il Tar ha respinto il ricorso della famiglia di Fabrizio Piscitelli, l’ultrà biancoceleste noto come Diabolik, ucciso nei giorni scorsi a Roma, contro l’ordinanza del questore di Roma che vieta i funerali pubblici «per motivi di ordine e sicurezza». Le esequie di Piscitelli sono in programma per le 6 di martedì al cimitero di Prima Porta. A dare la notizia è stata la vedova di Piscitelli, Rita Corazza: «Alla luce della decisione del Tar ribadisco che tutta la famiglia di Fabrizio domani non si presenterà al funerale. Ad oggi non ho neanche fatto il riconoscimento della salma di mio marito». E aggiunge: «Faccio appello a tutte le persone che gli volevano bene e intendevano dargli l’ultimo saluto di non presentarsi domani all’alba al cimitero Flaminio . Solo così possiamo rendergli giustizia e stringerci insieme in un unico dolore». Anche se gli Irriducibili, gli ultrà della Lazio, avevano già annunciato l’intenzione di sfidare il divieto.

Saltati i funerale per Piscitelli. Nuovo ricorso al Tar della famiglia. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019  V. Costantini e R. Frignani su Corriere.it. Nessun funerale nel cimitero di Prima Porta per Diabolik. Alle 4.30 di martedì notte i parenti di Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio ucciso mercoledì scorso con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti in un regolamento di conti per droga, si sono recati nella camera mortuaria del policlinico di Tor Vergata e sono andati via un’ora dopo. Non era stata allestita alcuna camera ardente in attesa del trasferimento del feretro al cimitero in via Flaminia per le esequie organizzate dalla Questura e per la successiva cremazione. Ma i familiari di Diabolik hanno deciso di non partecipare alla cerimonia, così come annunciato già lunedì e la funzione è stata così rinviata, come paventato sempre lunedì dai vertici di San Vitale, dove lo stesso questore Carmine Esposito aveva spiegato di non voler interferire con i sentimenti della famiglia ma di aver ordinato funerali privati solo per evitare problemi di ordine pubblico che la presenza di ultrà fuori da Prima Porta. In realtà né al cimitero né a Tor Vergata all’alba di martedì è arrivato nessuno a parte una donna che ha detto di voler portare dei fiori a sua madre e a Diabolik. «Fabrizio merita giustizia come chiunque altro, sono voluta venire a salutare un padre di famiglia - spiega Simona, in mano due mazzi di fiori, uno per la mamma e uno per l’ultras, crisantemimi in biancoceleste -. Io sono tifosa ma per di più della Roma. Tutti nella Capitale lo conoscevano, è giusto testimoniare rispetto». La decisione dei parenti del 53enne assassinato da un killer ancora misterioso era legata al respingimento da parte del Tar del Lazio del loro ricorso presentato proprio contro l’ordine della Questura che nella notte ha blindato tutta Roma con numerosi uomini e mezzi per evitare possibili assembramenti di tifosi. Anche Tor Vergata e Prima Porta sono presidiati. Come le stazioni ferroviarie e della metropolitana, i caselli autostradali, le zone del Tuscolano, dove è avvenuto l’omicidio e dove c’è anche la sede degli Irriducibili della Lazio, dei quali Diabolik era il leader, e di Ponte Milvio, luogo simbolo per i tifosi biancocelesti. Adesso, dopo l’incontro di lunedì pomeriggio fra il questore con la madre e la figlia di Piscitelli per cercare di ricucire lo strappo, non sono esclusi nuovi ricorsi al Tar da parte della famiglia per tentare di ottenere funerali pubblici.

Omicidio Diabolik, la famiglia non si presenta ai funerali in polemica con il questore. Ma a Tor Vergata la vedova riconosce la salma. Ai funerali la famiglia non si è presentata. Ieri la vedova di Fabrizio Piscitelli, capo degli irriducibili ultrà della Lazio, ucciso lo scorso 7 agosto, aveva chiesto a tutti gli amici e dunque a tutta la numerosissima tifoseria di non partecipare. Rory Cappelli il 13 agosto 2019 su La Repubblica. Al cimitero Flaminio dove devono svolgersi i funerali di Diabolik, Fabrizio Piscitelli capo degli irriducibili ultrà della Lazio, ucciso lo scorso 7 agosto nel parco degli Acquedotti, non si è presentato nessuno. Poco prima delle sette, i mezzi della polizia se ne sono andati, ormai certi che la famiglia non verrà. Alla vigilia la moglie Rita Corazza aveva chiesto a tutti gli amici e dunque a tutta la numerosissima tifoseria di non partecipare. Lei, addirittura, aveva spiegato, non aveva ancora riconosciuto il corpo del marito, atto indispensabile per la tumulazione, in aperta polemica con il questore Caruso e con la sua ordinanza che stabiliva una cerimonia strettamente privata per "motivi di sicurezza e di ordine pubblico".  Solo oggi, alle sei, l'ora stabilita dal questore per il funerale, moglie e figlie - Giorgia e Ginevra - sono andate invece che al Flaminio a Tor Vergata, dove si trova la salma di Diabolik. Qui è avvenuto il riconoscimento. Al cimitero è arrivata solo una donna con un mazzo di rose rosa in mano: "Sono qui per rendere rispetto a Fabrizio Piscitelli anche se non sono una tifosa della Lazio. Nessuno merita di morire così". I mezzi della polizia, dopo essere andati al cimitero, saranno spostati in altre zone "sensibili, per esempio il circolo degli Irriducibili, il parco degli acquedotti. Tor vergata. Poi la famiglia deciderà cosa fare, so che vogliono crearlo e qui c'è l'unico crematorio della città", spiega un dirigente della polizia.

La battaglia della famiglia per esequie pubbliche. La moglie Rita Corazza aveva fatto ricorso al Tar per chiedere sospensiva d'urgenza del divieto del questore. Ma ieri i giudici, in prima battuta, lo hanno respinto. La strategia potrebbe essere quella di attendere che il Tar si esprima sul merito del loro ricorso. Intanto la figlia Giorgia su Facebook ha scritto: "Noi non ci saremo!". E la moglie Rita incalza: "Alla luce della decisione del Tar ribadisco che tutta la famiglia di Fabrizio non si presenterà al funerale. Ad oggi non ho neanche fatto il riconoscimento della salma di mio marito". E ancora: "Chiedo a tutte le persone che gli volevano bene e intendevano dargli l'ultimo saluto di non presentarsi all'alba al cimitero Flaminio. Solo così possiamo rendergli giustizia e stringerci insieme in un unico dolore". Mentre la sorella Angela annuncia: "procederemo per tutte le vie legali possibili, compresa la Corte di Strasburgo. Faremo tutto quello che di legale è possibile fare". Da canto suo, il questore Carmine Esposito ha precisato di non voler "certo interferire con la funzione religiosa, né di voler negare questo momento ai suoi familiari. L'obiettivo della mia ordinanza è quello di evitare che si verifichino dei delicati problemi di ordine pubblico".

Le indagini sui legami tra Diabolik e i Casamonica. Gli inquirenti, intanto, coordinati dalla Dda, ieri hanno risentito il body-guard e autista cubano che da circa una settimana accompagnava Piscitelli. "Io non so niente, arrestatemi pure " ha detto agli investigatori della Mobile diretti di Luigi Silipo. L'autista che ha visto in faccia il killer (che indossava pantaloni neri attillati da jogger, occhiali da sole e una bandana) ha rischiato di essere ucciso: si è salvato solo perché si è inceppata la pistola. Si indaga poi sui legami di Diabolik con la famiglia Casamonica. Il 27 luglio infatti la figlia Giorgia si era sposata in una cerimonia che si era svolta in pompa magna all'Ara Coeli, con tanto di sicurezza garantita da decine di uomini in divisa dotati di auricolari ricetrasmittenti. Il pranzo si era tenuto in una villa di Nepi. L'ipotesi è che si sia trattato di una dimostrazione di forza. Tra gli invitati erano arrivati in Lamborghini anche alcuni esponenti della famiglia Casamonica. Gli investigatori stanno passando al setaccio il resto degli invitati. Sottoposto poi ad analisi il bossolo ritrovato sul luogo dell'agguato, all'altezza di via Lemonia 273: si sta cercando di capire da quale pistola abbia sparato.

Alessia Marani per “il Messaggero” il 13 agosto 2019. La tensione è alta. Gruppi ultras di mezza Italia ma anche d'Europa sono dati in rotta su Roma. I primi londinesi del West Ham sono arrivati già ieri sera, così anche i polacchi del Wisla Cracovia, che hanno puntato dritto verso via Amulio, la sede degli Irriducibili Lazio (supersorvegliata) di cui Fabrizio Piscitelli era lo storico capo, per rendere omaggio al grande bandierone che sventola in piazza con l'effige della mascherina simbolo del personaggio dei fumetti e la scritta Diablo vive. Davanti alla saracinesca della tana laziale, mazzi di fiori freschi e messaggi commossi lasciati da semplici tifosi. Gli Irriducibili ieri sera hanno diramato un comunicato: «In rispetto assoluto ai familiari, non saremo presenti al cimitero Flaminio pertanto estendiamo l'appello a tutti i tifosi della Lazio e non». Non telegrammi, ma striscioni. Tra i tanti di solidarietà mostrati sugli spalti nelle amichevoli in giro per l'Italia in questi giorni, ci sono quelli dei Boys Parma, dalla Curva Sud Brindisi, dalla Sud Milano, dalla Curva Nord 69 dell'Inter e dai tifosi della Nord 12 Palermo (che rendono onore al «camerata»). Sul profilo twitter Curvastone 1900, gli ultras laziali non sono teneri: «Un funerale alla sei del mattino... manco Provenzano o Buscetta... fate schifo... Ma tanto gli ultras non si fermano. Siete tutti avvisati». Delegazioni del Levski Sofia sono date in marcia verso la Capitale e alcune delle frange storicamente più dure del tifo italiano stanno valutando se e come essere anche loro nella Città eterna nel giorno in cui verrà recitato il requiem per il Diablo.Sono pronti a salire in macchina o a prendere il primo treno anche dall'Austria Vienna e da Torino (Tradizione Juventus) anche se ora, dopo l'appello, potrebbero fermarsi o dirottare anche loro in quel di via Amulio. La Curva Furlan Triestina è stata tra le prime a rappresentare il proprio dolore per la morte di Diabolik con uno striscione appeso dai rossoalabardati su un cavalcavia: «Ora sei l'aquila che i cieli domina, ciao Fabrizio!». Ma la mobilitazione passa anche per la Romania con gli ultrà del Politehnica Lasi, per gli Ultrà Sur del Real Madrid e le Brigados blanquiazules dell'Espanyol, nella penisola iberica, storicamente al fianco dei biancocelesti. Non si può lasciare solo il Diablo. Perché Piscitelli, ammazzato con un proiettile alla nuca in un affollato parco della Capitale «con metodo mafioso», scrivono i magistrati, e per affari probabilmente riconducibili alla mala e al narcotraffico, era soprattutto il capo indiscusso della Nord dell'Olimpico. Colui che stringeva patti e alleanze, suggellava amicizie e gemellaggi, caricava i laziali dalla piazza di Ponte Milvio prima di fare ingresso allo stadio (lui che era daspato e non poteva più entrare), teneva i rapporti con i capi delle altre Curve e presenziava ai summit europei. Così, nonostante la famiglia abbia detto che stamani non si presenterà al policlinico di Tor Vergata per prendersi la salma, la polizia teme che gruppi di supporter facciano sentire la loro voce. Se non più a Prima Porta, in altri luoghi simbolo del tifo ultrà. Nell'ordinanza che predispone i massicci servizi di sicurezza (già a partire dalla notte), il questore parla della «possibilità che numerose persone» si presentino a Prima Porta come a Tor Vergata, disponendo controlli straordinari ai caselli autostradali e nelle stazioni. Ma c'è il rischio che la salma, senza consenso dei familiari, nemmeno si muova dall'obitorio del policlinico. Allora il tam tam degli ultrà potrebbe essere solo rinviato, alla loro maniera. Così a fare ancora più paura sono le ripercussioni che l'intero affaire funerale vietato potrebbe avere in un futuro non troppo lontano. Alla prima di campionato, il 25 agosto, mancano solo due settimane (Sampdoria-Lazio). Ma la seconda giornata, il primo settembre alle 18, si giocherà la stracittadina tra Lazio e Roma. Persino i Fedayn, gruppo antagonista della Sud giallorossa, ma che in comune con Diabolik aveva qualche amicizia e il quartiere di origine, il Quadraro, hanno espresso la loro vicinanza: «Nel cielo biancoazzurro brilla un'altra stella. Ciao Fabri». Il timore è che le tifoserie si ricompattino e trovino ancora una volta un denominatore comune nell'odio e nella violenza, riaccendendo la miccia dei disordini e del sentimento Acab per cui divise e poliziotti sono il bersaglio comune. Per questo la Digos teme che l'evento di oggi sia il primo capitolo di un'altra storia di scontri con l'inizio del campionato. Ed è subito allarme rosso al derby dell'Olimpico.

Piscitelli, la minaccia degli Irriducibili: «Il funerale ce lo prendiamo il giorno del derby». Diabolik, il capo ultras della Lazio ucciso pochi giorni fa, è celebrato in strada come un eroe da fascisti vecchi e nuovi. Tra croci celtiche e bandiere. E in una Roma assolata che sembra Medellìn la tifoseria prepara un tributo prima dell’inizio della stracittadina. Massimiliano Coccia il 13 agosto 2019 su La Repubblica. A Roma d’agosto il sole non risparmia nessun centimetro di asfalto tranne le zone d’ombra e capita che nel mese dove la città si trasforma in un immensa cassa di risonanza del silenzio, avvenga qualcosa di grave. Questa volta è successo al Parco degli Acquedotti dove qualche giorno fa è stato ucciso Fabrizio “Diablo” Piscitelli, colonna degli Irriducibili e pregiudicato con varie condanne per traffico di droga e altri reati. Una biografia esemplare quella del capo ultrà laziale che serve a comprendere come il tifo organizzato sia ieri come oggi una cerniera per gli affari sporchi, il traffico di droga e le connessioni tra mafie. L’omicidio di Piscitelli su cui la Procura sta indagando non è solamente un accadimento criminale ma è la rappresentazione plastica di una città che continua a negare a se stessa e agli altri di essere diversa rispetto alle città di mafia. In questo contesto si inserisce la polemica tra la famiglia Piscitelli e il Questore Caruso che ha vietato i funerali in forma pubblica del capo ultras che è stato lasciato nell’obitorio del Policlinico di Tor Vergata. Il terreno della mobilitazione e dello scontro è alto, tanto che gli stessi Irriducibili con uno striscione comparso hanno rivendicato il diritto di pubbliche esequie. Una partita a scacchi che si gioca proprio nella sede dello storico gruppo della tifoseria laziale, che ha la sua sede incastrata tra l’Appia e la Tuscolana in via Amulio a pochi metri dalla sezione di Acca Larentia, dove negli anni ’70 furono assassinati i militanti dell’MSI Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni. Una location non casuale perché da sempre gli Irriducibili, da cani sciolti della destra neofascista romana hanno un potere contrattuale enorme lo stesso potere contrattuale e morale che Fabrizio Piscitelli incuteva negli ambienti del tifo organizzato e della malavita, leadership che aveva condiviso con altri fondatori degli Irriducibili come Fabrizio Toffolo (gambizzato due volte nel 2007 e nel 2013), Yuri Alviti e Paolo Arcivieri. La sede del gruppo è appunto una zona d’ombra della città con croci celtiche dipinte sui muri per ricordare antichi caduti e un marciapiede che è divenuto il luogo del tributo a Piscitelli. Fiori, corone, lumini, sciarpe della Lazio e una bandiera di dieci metri issata su un palo della luce con l’effige di Diabolik sono il vero tributo spontaneo che ha visto nel corso della giornata avvicendarsi la vecchia e nuova fascisteria romana. Occorre anche ricordare che negli ultimi tempi gli Irriducibili hanno rinsaldato un legame antico con Forza Nuova e il suo leader romano, Giuliano Castellino, una nota non di colore ma estremamente importante che mette ben in evidenza la saldatura tra mondi un tempo divisi dai colori calcistici ed oggi uniti dagli interessi, dai traffici illeciti e il controllo del territorio. Perché il mondo degli Irriducibili continua a muoversi in una impunità abbastanza evidente, in quale altra città ad esempio sarebbe stato tollerato un memoriale in strada dedicato a un pregiudicato ed in quale altra città l’istituzione comunale avrebbe concesso totale impunità ad un tributo del genere? L’idea del controllo del territorio è un asse importantissimo, tanto che mentre mescolati ai presenti annusiamo l’aria, arrivano in ordine sparso vari capi ultras che ricordano di aver messo in fuga qualche giorno fa alcune “merde che si erano permesse di avere problemi sul fatto che abbiamo occupato il marciapiede coi fiori e le corone”. Roma non solo per il caldo umido d’un tratto tra la Tuscolana e l’Appia prende a somigliare a Medellìn dove i funerali e le celebrazioni per Pablo Escobar si protrassero per un mese. Il culto della personalità di Piscitelli è forte, lo si vede dal continuo e cadenzato arrivo di molti ragazzi che scattano foto e chiedono se ci sono novità sul funerale. A quel punto sempre i capi ultras, riuniti attorno ad un piccolo insediamento di autovetture, raccontano come è andata la mattinata di oggi: “siamo andati a notte fonda con Rita (la moglie di Piscitelli, ndr) all’obitorio, loro sono entrati per vederlo e noi poi siamo andati via appena sono arrivate le guardie”. Le guardie, come le chiamano loro, sono però almeno visivamente assenti davanti a questa sede, tanto che da veri e propri padroni incontrastati del territorio gli Irriducibili oltre ad invadere il marciapiede con omaggi floreali creano una sorta di transenna per non far parcheggiare le macchine davanti alla sede che è circondata da panchine utili per una sosta di commiato al defunto. “Tanto er funerale se lo pijamo - continua il capo ultras prima che mi allontano - il giorno del derby stai a vedé che combinamo” e sembra infatti che le tifoserie di Roma e Lazio prima dell’inizio della stracittadina prevista per il primo settembre abbiano in programma un tributo a Diabolik. Ma questa sarà una partita dal finale incerto e non scontato, una partita in cui si rischierà tanto, troppo. Come sempre.

Il funerale di Diabolik tra ultras e neofascisti: altro che evento privato. Centinaia di tifosi sono giunti da tutta Italia per essere presenti all'ultimo saluto al leader degli Irriducibili Fabrizio Piscitelli. Tra loro anche Luca Lucci, il leader della curva del Milan amico di Salvini. Federico Marconi il 21 agosto 2019 su L'Espresso. Cori da stadio, saluti romani, bandiere, fumogeni. Capi ultras dalle curve di tutta Italia, esponenti del neofascismo capitolino e non. Momenti di tensione con le forze dell'ordine e ripetuti insulti ai cronisti presenti. Non è mancato nulla mercoledì pomeriggio al Divino Amore, dove si è tenuta la cerimonia funebre di Fabrizio Piscitelli. Quello di Diabolik però è stato un funerale tutt'altro che privato, come inizialmente previsto dalla Questura: sono stati centinaia gli ultras, non solo della Lazio, accorsi nel piazzale del santuario sulla via Ardeatina per rendere omaggio al loro leader ucciso lo scorso 7 agosto scorso al Parco degli Acquedotti, con un'esecuzione in pieno stile mafioso. Un omicidio ancora senza colpevoli, ma che sembra avere poco a che vedere con il mondo del pallone e tanto con le attività criminali del leader degli Irriducibili, finito nell'inchiesta su Mafia Capitale e recentemente in un'indagine della Direzione distrettuale antimafia sul traffico di stupefacenti. Da qui le polemiche tra la famiglia del capo ultras e il questore per lo svolgimento delle esequie, inizialmente previste per il 13 agosto in forma strettamente privata. La moglie e le figlie si opposero e il funerale non si svolse, nonostante i 250 agenti già schierati dalla Questura in tutta la Capitale. Oggi invece sono 300. Poco dopo le 13 il piazzale del santuario inizia a riempirsi dei "ragazzi del Diablo". «È uno che per come lo conosco io andrebbe a piedi e solo al funerale suo», recita lo striscione che hanno attaccato alle transenne che delimitano lo spazio che gli uomini della Questura gli hanno riservato. Alcuni indossano magliette nere, con gli occhi di Diabolik, il ladro dei fumetti da cui Piscitelli prese il soprannome, altri bianca con "Irriducibili" scritto sulle spalle. Tra applausi e cori la salma di Fabrizio Piscitelli, il Diabolik della tifoseria laziale, è arrivata al Santuario del Divino Amore a Roma dove dopo un lungo braccio di ferro tra la famiglia e il questore si è trovato un compromesso per la celebrazione dei funerali del capo ultras ucciso con un colpo di arma da fuoco nel parco degli Acquedotti. Sono passate da poco le 14 quando arriva il carro funebre con il feretro, seguito dalle auto dei parenti, la moglie, la sorella, le figlie. Si ferma davanti lo striscione degli Irriducibili, viene aperto il portellone, parte un applauso che durerà cinque minuti. Qualcuno alza una sciarpa della Roma, qualcun altro alza il braccio per un saluto romano. Finito il primo saluto dei tifosi, il corteo funebre si dirige verso la chiesa, sulla collina sopra il piazzale, nella zona riservata solo alle cento persone indicate dalla famiglia. Sulla salita si incamminano gli amici della curva e alcuni volti noti nel mondo biancoceleste: c'è Toni Malco, il cantautore romano che tante canzoni ha dedicato alla Lazio, nuovi e vecchi capi degli ultras laziali, come "Il cinese" e Yuri Alviti. Ma c'è anche Maurizio Boccacci, vecchio esponente del neofascismo capitolino sempre molto attivo nelle curve: nel 1994 partecipò agli scontri di Brescia tra ultras di Lazio e Roma e forze dell'ordine, in cui rimase ferito il vicequestore Giovanni Selmin. Boccacci però non è l'unico leader del neofascismo romano presente al Divino Amore. Per Forza Nuova ci sono Stefano Schiavulli, sodale di Boccacci ai tempi di Militia, il coordinatore per il Lazio Valerio Arenare, e quello del Veneto Luca Castellini, leader degli ultras dell'Hellas Verona. Nel piazzale ci sono poi rappresentanti delle curve di mezza Italia, soprattutto di quei gruppi più vicini all'estrema destra. C'è anche una delegazione di ultras del Milan, capeggiata da Giancarlo Cappellini e Luca Lucci, il leader delle Brigate Rossonere più volte arrestato per reati di droga, che lo scorso dicembre fu fotografato insieme all'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini. Gli insulti ai giornalisti, chiusi in un recinto dalle forze dell'ordine, sono un continuo. "Sciacalli", "Vorrei vede se ve more la famiglia vostra, a 'infami", "Comunisti", "Assassini", "Mejo le guardie che voi merde", sono tra le frasi più gettonate dai tifosi che si avvicinano. La cerimonia funebre finisce poco prima delle 16. Iniziano a scendere la famiglia e gli amici presenti in chiesa. I leader degli Irriducibili arrivano tenendo lo striscione con il loro nome, facendo saluti romani e il segno di vittoria con le dita: "Avemo vinto noi", dicono ai giornalisti, "Riprendete questo, avemo vinto noi". Nel piazzale intanto, di fronte allo spazio per gli ultras, vengono posti due cavalletti dove adagiare il feretro. È proprio allora che iniziano a scaldarsi gli animi. La Digos sembra non volerlo consentire, inizia una sorta di trattativa con la famiglia e gli ultras. Cresce la tensione, tant'è che arrivano i blindati della Polizia e della Guardia di Finanza da cui scendono agenti in tenuta antisommossa che vengono fatti schierare. La moglie di Diabolik si sente male, arriva un'ambulanza: viene messa sulla barella, ma rimane nel piazzale. Gli agenti continuano a prepararsi. Una delle due figlie di Diabolik inizia a inveire contro di loro, gli tira addosso dell'acqua: "Guardate che state a fa, che state a fa", urla. Intanto partono i cori contro la Polizia: "Merde siete e merde resterete". Qualcuno si rivolge ai giornalisti, innervosito: "Scrivetelo che quei teppisti dei laziali non fanno scendere la bara eh. State a fa il filmino del matrimonio? Brave, mignotte". Dopo mezzora però la "trattativa" tra Digos e ultras finisce: vengono portati via i treppiedi su cui doveva essere messa la bara di Diabolik. Il carro funebre può scendere. Viene accolto dall'inno della Lazio cantato a squarcia gola dagli ultras, i leader si avvicinano all'auto, la toccano, la baciano. Partono i fumogeni bianchi e celesti, continuano i cori per Piscitelli: "C'è solo un capitano", "Fabrizio sempre con noi". Altri dal vago richiamo nazifascista: "SS, SS Lazio. SS, SS Lazio". Il carro funebre poi riparte, dopo pochi metri si riferma per un altro saluto. Poi si dirige verso il cimitero di Prima Porta, dove il corpo di Diabolik verrà cremato e seppellito. Non manca però qualche altra tensione tra gli ultras che volevano seguire il corteo e le forze dell'ordine, ma ai giornalisti che volevano avvicinarsi per documentare tutto non era permesso avvicinarcisi: "Disposizioni del dirigente", dice il funzionario presente. Finisce così il funerale tutt'altro che privato di Fabrizio Piscitelli.

Da Adnkronos.com il 21 agosto 2019. Una bara nera e lucidissima con ai lati la scritta grande 'Irriducibili', naturalmente bianca e celeste, e davanti gli occhi del personaggio dei fumetti al quale Fabrizio Piscitelli, ucciso il 7 agosto scorso nel parco degli Acquedotti a Roma, aveva "preso" il nome di battaglia. È l'omaggio della sua curva, la curva nord biancoceleste, l'omaggio dei suoi amici al Diabolik dei derby e del tifo in trasferta. La sua ultima culla, colorata come il cielo e i colori della sua squadra, che verrà salutata e portata a spalla oggi pomeriggio nella chiesa del Divino Amore da amici e parenti. Indossano tutti magliette bianche e nere con la scritta Irriducibili, uomini, donne e bambini arrivati con largo anticipo nel piazzale antistante il santuario del Divino Amore, sull’Ardeatina, in attesa dei funerali. Solo cento gli ammessi alla cerimonia, concessione strappata dopo il divieto di celebrare le esequie di Diabolik in forma solenne e pubblica. Molti di più quelli che parteciperanno da fuori e tenuti sotto stretto controllo da un dispiegamento ingente di forze dell’ordine e agenti della Polizia Locale a limitare gli spazi di accesso. Sono oltre 300 gli uomini in campo, tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, previsti dal dispositivo di sicurezza del questore di Roma Carmine Esposito per i funerali, l’ultras della Lazio. L'area del Santuario del Divino Amore è già stata tutta transennata ed è presidiata dalle forze dell’ordine. Servizi di vigilanza sono in atto anche nei pressi dell’Istituto di Medicina Legale di Tor Vergata e nella zona del Cimitero Flaminio. In campo per la viabilità anche numerose pattuglie degli agenti della polizia di Roma capitale. Le magliette bianche, la scritta Irriducibili in blu stampata sulla stoffa al centro delle spalle. Una quindicina di esponenti del gruppo 'Irriducibili' è arrivata al policlinico di Tor Vergata. La salma è stata esposta nella cappella dell'obitorio del policlinico Tor Vergata. Il policlinico è sorvegliato da polizia e carabinieri, sia all'ingresso che nei corridoi del piano terra, che in prossimità dell'ingresso dell'obitorio. Nel piazzale, gli Irriducibili, come da richiesta della famiglia di Piscitelli, sistemeranno un banchetto per la raccolta fondi in favore della Lega italiana fibrosi cistica Lazio. La scritta Diablo è su uno striscione appeso a due passi dalla panchina dove è stato freddato con un colpo di pistola alla testa. Qui, in questo angolo di via Lemonia, dove il parco degli Acquedotti continua ad essere frequentato da runner e bambini, i tifosi e gli amici del leader degli Irriducibili hanno ricreato una sorta di curva. Tra le corone degli amici anche quella della tifoseria gemellata del West Ham e di Casapound Italia.

A Roma i funerali  di Diabolik: tra cori  e saluti romani. Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Rinaldo Frignani su Corriere.it. Applausi degli ultrà laziali al passaggio dei familiari e dei circa cento partecipanti ai funerali di Diabolik al santuario del Divino Amore nel piazzale principale al termine delle esequie di Fabrizio Piscitelli, il leader degli «Irriducibili» ucciso il 7 agosto scorso nel parco degli Acquedotti. Quasi all’esterno del complesso religioso è stata approntata un’area rapidamente trasformata in una rappresentanza della Curva Nord dello stadio Olimpico. Applausi e cori da parte di circa quattrocento ultrà biancocelesti dietro le transenne fra i quali sventola un bandierone con la scritta Diablo e il logo di Diabolik. In attesa del passaggio del carro funebre con il feretro di Piscitelli, che sarà poi trasferito al cimitero di Prima Porta per la cremazione, gli ultrà gridano “Rispetto”. Dagli ultrà si alza più volte il grido «Fabrizio», e «C’è solo un capitano». Una persona è stata colta da malore nel piazzale dei tifosi e subito soccorsa con un’ambulanza. Applausi, cori di incitamento e anche qualche saluto romano anche all’arrivo, alle 15, al Santuario del Divino Amore a Roma del feretro. Ad attendere l’ex capo degli «Irriducibili» uno striscione con scritto: «È uno che per come lo conosco io andrebbe solo e a piedi al funerale suo». C’è anche una enorme bandiera con la scritta «Diablo» e gli occhi del personaggio dei fumetti da cui l’ultrà ha preso il soprannome. Un’immagine riprodotta anche su parecchie magliette indossate da alcune delle centinaia di persone che sono adesso sul piazzale di fronte al santuario, il cui accesso è stato consentito solo a 100 persone per il funerale in forma privata. Chi è rimasto fuori indossa sciarpe della Lazio, o magliette degli «Irriducibili», la frangia più estrema della curva di cui Piscitelli è stato fondatore. Chi ha visto la bara la descrive nera e lucida con lato la scritta «Irriducibili» e sulla parte frontale gli occhi del Diabolik dei fumetti. tre-quattrocento tifosi della Lazio hanno stazionato nel piazzale antistante al santuario del Divino Amore durante i funerali di Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà assassinato il 7 agosto scorso con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti in quello che fino a questo momento viene ritenuto un regolamento di conti per droga. I tifosi hanno un’unica bandiera che ricorda proprio Diabolik come era soprannominato Piscitelli. Il feretro è entrato nel complesso della santuario poco dopo le 14 scortato dalla polizia e dallo stesso ingresso su via Ardeatina sono passati i familiari e i circa 100 partecipanti alle esequie scelti proprio dai parenti di Diabolik dopo una trattativa con la Questura. Fra loro amici e altri capi ultrà. Circa 300 agenti di polizia controllano il santuario e altre centinaia i nodi nevralgici della città.

La figlia di Diabolik: "Il Questore ha violato gli accordi". Ginevra se la prende anche con i giornalisti: "Sciacalli che lucrano sulle disgrazie altrui". Luca Sablone, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Non si placano le polemiche sul funerale di Diabolik. A sfogarsi è Ginevra Piscitelli, figlia dell'ex capo ultrà della Lazio ucciso il 7 agosto scorso a Roma, che sul proprio profilo Facebook si è lasciata andare ad un lungo e duro sfogo: "Io oggi contrariamente da quello che fanno vedere in televisione, ero al funerale di mio padre, cosa che forse il Questore si è dimenticato, come se lo sono dimenticati quegli sciacalli dei giornalisti (perché solo gli sciacalli lucrano sulle disgrazie altrui)."

Le "colpe" del Questore. Ginevra ha poi criticato l'operato del Questore che "andando contro gli accordi presi" ha creato "un disagio incredibile, sia ai suoi collaboratori che a noi familiari" per "far valere la sua posizione iniziale, per dar ragione alla stampa, o meglio forse gli sarebbe costato caro se la stampa avesse scritto che tutte le persone presenti al funerale avevano mantenuto (come premesso) un atteggiamento consono e rispettoso nei confronti della mia famiglia e nei confronti di mio padre". Poi il passaggio sul malore accusato da Rita, la moglie di Fabrizio: "Vorrei che vi avessero fatto vedere mia madre stesa a terra il giorno del funerale di suo marito, che si è sudata e che ha voluto fare con tutto il cuore, per noi figlie, per i nostri amici e per i ragazzi della Lazio. Vorrei che vi avessero fatto vedere come le figlie, siano state seguite dalla stampa dalla camera ardente, dove abbiamo baciato nostro padre per l'ultima volta, fino al deposito del cimitero (arrivati a 130 km/h con tanto di sirene accese come se stessimo facendo un inseguimento). Vorrei che vi avessero fatto vedere mio nonno con l’ossigeno, per due ore in macchina sotto al sole, aspettando di poter fare un tratto di strada dietro suo figlio". La figlia di Diabolik ha infine concluso: "Detto questo, io continuerò a camminare A TESTA ALTA SEMPRE e non sarò mai come avete provato a descrivermi voi. MAI".

Da Il Messaggero  il 22 agosto 2019. La figlia Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, il leader degli Irriducibili Lazio ucciso il 7 agosto scorso a Roma, ha attaccato duramente con un lungo post su  Facebook il questore e i giornalisti per le vicende legate ai funerali del padre. L'accusa ha un valore ancor più significativo in prospettiva del derby Lazio-Roma che si giocherà sabato 1 settembre: è qui che autorità e forze dell'ordine saranno chiamate a concentrare la massima attenzione. «Io oggi contrariamente a quello che fanno vedere in televisione, ero al funerale di mio padre, cosa che forse il questore si è dimenticato, come se lo sono dimenticati quegli sciacalli dei giornalisti (perché solo gli sciacalli lucrano sulle disgrazie altrui». Inizia così il lungo sfogo pubblicato su di Ginevra Piscitelli in merito agli attimi di tensione che si sono registrati ieri al termine del funerale al Divino Amore a seguito del divieto imposto dalla questura di mostrare anche solo per pochi istanti il feretro di Piscitelli alla folla di tifosi radunata nel piazzale antistante il santuario, Ginevra Piscitelli accusa: «Il Questore ha creato, a fine celebrazione, andando contro gli accordi presi, un disagio incredibile, sia ai suoi collaboratori che a noi familiari». «Chiaramente - aggiunge - il questore ha dovuto creare disagio per far valere la sua posizione iniziale, per dar ragione alla stampa, o meglio forse gli sarebbe costato caro se la stampa avesse scritto che tutte le persone presenti al funerale avevano mantenuto (come premesso) un atteggiamento consono e rispettoso nei confronti della mia famiglia e nei confronti di mio padre». «Vorrei che vi avessero fatto vedere mio nonno con l'ossigeno, per due ore in macchina sotto al sole, aspettando di poter fare un tratto di strada dietro suo figlio - continua Ginevra Piscitelli - vorrei che vi avessero fatto ascoltare la messa. Una messa in cui un uomo di Chiesa, un monsignore, sebbene ha citato anche il soprannome di mio padre cioè 'Diabolik' poi l'ha chiamato Fabrizio. Fabrizio in quanto uomo, marito, padre e figlio». Dunque il passaggio sul sentimento che ha motivato le richieste reiterate ieri al Divino Amore. «Vorrei che vi avessero fatto ascoltare nei video che trasmettono al tg, che chiedevo, urlando, dopo mezz'ora sotto al sole, con mia madre su un'ambulanza, di far scendere l'auto con mio padre - scrive ancora Piscitelli - perché in quella macchina per molti c'era un feretro con un corpo senza vita, per me in quel feretro c'era un pezzo di cuore, c'era l'uomo che avrebbe dovuto accompagnarmi all'altare, l'uomo che avrebbe dovuto vedermi laureare, l'uomo che mi ha cresciuta, l'uomo che dormiva con me quando ero giù di morale, c'era mio padre e questo dovrebbe bastarvi». «Non mi sto giustificando - conclude infine Ginevra Piscitelli - sto dicendo semplicemente la realtà dei fatti, quella che fortunatamente più di mille persone hanno potuto vedere con i loro occhi, ma che purtroppo voi non vedrete mai. Detto questo, io continuerò a camminare a testa alta sempre e non sarò mai come avete provato a descrivermi voi. Mai. Ginevra Piscitelli».

LA REPLICA. «Non esisteva nessun accordo che prevedesse di mostrare il feretro di Fabrizio Piscitelli al pubblico radunato all'esterno del santuario del Divino Amore». È quanto affermano all'Adnkronos fonti di polizia in seguito alla polemica accesa da alcuni componenti della famiglia del leader degli Irriducibili ucciso con un colpo di pistola il 7 agosto scorso a Roma. «Un accordo del genere - aggiungono - sarebbe stato impensabile visto che avrebbe contrastato quanto dettato proprio dall'ordinanza del questore che imponeva il rito funebre in forma privata per ragioni 'di ordine e sicurezza pubblicà». «Ieri dunque - aggiungono le fonti interpellate dall'Adnkronos - è stato garantito lo svolgimento del funerale in forma privata alla presenza di un numero ristretto di persone ed è stata garantita altresì la libertà personale dei tifosi di radunarsi a distanza della chiesa dove si sono svolte le esequie».

LA SORELLA ANGELA. «Io non ero presente tra la folla come è stato possibile notare. Mi giungono molte voci da persone che esulano dai familiari e dai tifosi che purtroppo richiamano puntualmente alla strumentalizzazione di questo funerale». È quanto afferma Angela Piscitelli, la sorella di Fabrizio, il leader degli Irriducibili Lazio ucciso il 7 agosto scorso a Roma. «Qualche dubbio su chi abbia voluto colorarlo con le proprie tinte, lo porrei a chi ha facoltà di avere un pensiero più pulito - aggiunge - Certamente un'ordinanza del questore così tanto discussa in ogni ambiente e che ha richiesto necessariamente molti aggiustamenti essendoci con tutta evidenza a parere mio, aspetti ed ampi spazi legalmente discutibili, aveva necessità di rinforzare un suo perché». «Comunque ciò che di spietato umanamente parlando ha preceduto il funerale, lascia spazio a mio avviso ad ampie riflessioni- prosegue Angela Piscitelli - tra queste direi che mio fratello riposa in pace e x me è ciò che conta, che il suo funerale si è svolto nella chiesa che volevamo e non in una squallida cappella alle sei del mattino, che il sacerdote è stato molto incisivo e raffinato scegliendo la parola di Dio più mirata ai vivi che ai defunti e dunque tutto il resto è noia, inutile rumore». «Concludo ricordando che nell'inosservanza degli accordi è sfuggita agli addetti, la presenza di ospiti non richiesti e che non rientravano tra gli intimi - rileva Piscitelli - In ogni caso malgrado lo spiegamento ingente delle forze dell'ordine in divisa e non, il materiale criticabile che resta ai giornalisti e ad altri per giustificarlo, continua a restare forse eccessivamente impegnativo. Ma io non mi occupo di ordine e sicurezza né di disordine ed insicurezza».

Lazio-Roma, pax ultrà all'Olimpico: le due curve ricordano Diabolik. Il Messaggero l'1 settembre 2019. Diabolik, moglie e le figlie di Fabrizio Piscitelli all'Olimpico per il derby. Una coreografia con l'immagine di Fabrizio Piscitelli e una grossa scritta: «È uno che se muore non ci credere, perché capace pure di rinascere» è stata realizzata in Curva Nord dagli ultras della Lazio in occasione del derby. Ad arrivare all'Olimpico anche Rita Corazza, la moglie di Diabolik, l'ex capo degli Irriducibili ucciso con un colpo di pistola alla testa, accolta dagli applausi.

Omaggio della Nord biancoceleste al proprio ex leader Fabrizio Piscitelli, ucciso in un agguato il 7 agosto scorso. Uno striscione anche nella Sud giallorossa. Gazzetta.it l'1 settembre. Un derby romano che i tifosi laziali stanno dedicando a Fabrizio Piscitelli, il leader degli Irriducibili ucciso a Roma il 7 agosto scorso. Prima del match un migliaio di tifosi biancazzurri radunati a Ponte Milvio ha scaldato l’ambiente con cori e fumogeni in attesa di muoversi verso lo stadio. La Nord aveva già annunciato che sarebbe rimasta in silenzio per i primi 45’ della partita. Fischi al passaggio di un blindato della polizia, che presidia in forze tutta l’area intorno allo stadio. E poi il repertorio dei cori, da “La mamma di Zaniolo è una p...”, intonato a più riprese contro la mamma del giocatore della Roma. E poi “Romanista ebreo” e altri cori imbecilli.

Derby, l'omaggio a Diabolik tra cori e saluti romani. Adnkronos l'01/09/2019. Derby Lazio Roma, è il giorno dell'omaggio al 'Diablo'. Sulle note dell'anno della Lazio la curva Nord ha esposto la coreografia in onore di Fabrizio Piscitelli, il capo degli Irriducibili ucciso a Roma il 7 agosto. "E' uno che se muore non ci credere perché è capace pure di rinascere", recita lo striscione in campo, citazione dalla celebre canzone di Franco Califano “Fenomeno”. Allo stadio c'era anche la moglie di Piscitelli Rita Corazza. Al centro il telone con il viso sorridente di Fabrizio, adornato da miglia di cartoncini neri e biancazzurri a disegnare una sciarpa. In onore del capo ultras la curva intona "un capitano, c'è solo un capitano". Gli ultras romanisti hanno esposto un secondo striscione in memoria di Fabrizio Piscitelli, dopo la dedica dei Boys Roma ("riposa in pace Fabrizio"). Un altro gruppo ha esposto un messaggio di cordoglio dipinto in rosso: "Vola alto, ciao Fabrizio". "Da sorella di Fabrizio ringrazio le istituzioni in particolare il prefetto e la Digos che hanno permesso a tutti i tifosi di realizzare dentro lo stadio un grandioso spettacolo di civiltà in onore di Fabrizio. Voglio porgere i miei complimenti a coloro che si sono impegnati e dedicati a far sentire così presente mio fratello con una coreografia davvero emozionante e spettacolare". E' quanto afferma all'Adnkronos Angela Piscitelli, la sorella di Fabrizio, il leader degli Irriducibili ucciso a Roma il 7 agosto scorso. "Come prevedevo oggi - aggiunge Angela Piscitelli - lo stadio ha dimostrato che è stato possibile onorare la memoria di Fabrizio in un derby che notoriamente è sempre una partita particolarmente sentita". "Il primo derby questo in cui nonostante l'assenza di mio fratello mai così avvertita - conclude Angela Piscitelli - è stata la sua presenza. Grazie a tutti per la calorosa e sentita vicinanza". A inizio partita la Nord è rimasta in silenzio per i primi 45 minuti, mentre la Sud ha fatto il tifo come di consueto. "La mamma di De Rossi è una ...", è stato l'insulto scandito a più riprese dai tifosi laziali nella tribuna Tevere. Slogan gridati all'indirizzo dei romanisti nonostante i 45 minuti di silenzio della Curva Nord per protestare contro l'inasprimento delle norme per la sicurezza negli stadi, il decreto Sicurezza bis e gli articoli 8 e 9 del decreto Amato. Terminati i primi 45 minuti di sciopero del tifo la curva Nord si è colorata con le bandiere e bandieroni con l'Aquila. Gli ultras laziali hanno rotto lo sciopero del tifo, urlando "in curva Nord noi staremo ad aspettar/ una vittoria che col cuore arriverà" e poi "Forza Lazio/ non mollare/ facci un gol". Mentre la Sud romanista ha risposto con altrettanto vigore canoro, alternando i cori per la squadra agli insulti ai dirimpettai. Erano completamente vuoti gli spalti dei distinti Sud all'Olimpico. Deserto il settore all'altezza della bandierina del calcio d'angolo che separa la curva Sud dalla tribuna Tevere. Due gli schieramenti dei blindati della polizia con relativo idrante tenevano separate le due tifoserie che intonavano cori. Da “La mamma di Zaniolo è una p...” a “romanista ebreo”. I tifosi laziali hanno fatto il saluto romano tra un coro e l'altro. Diversi tifosi indossano le maglie nere con la scritta 'Diablo' in onore di Fabrizio Piscitelli.

Omicidio Diabolik, arrestato estremista di destra: «So chi è stato». Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Corriere.it. Minacce, messaggi forse in codice, allusioni, la promessa di una decisiva rilevazione sull’agguato mortale a Fabrizio Piscitelli «Diabolik» ancora tutta da verificare. Fabio Gaudenzi, esponente di estrema destra coinvolto in «Mafia Capitale» come broker immobiliare e riciclatore di fiducia di Massimo Carminati, e colpevole in passato di altri reati connessi al finanziamento di quella area politica, è stato arrestato nel pomeriggio di ieri dalla squadra mobile con l’accusa di possesso di armi da guerra. Il 42enne aveva “annunciato” il suo arresto in un video su Youtube, in cui — passamontagna sul volto, revolver in pugno e alle spalle un’immagine di Opposta Fazione, il gruppo ultrà romanista di estrema destra di cui ha fatto parte — diceva di volersi consegnare al questore e al procuratore antimafia Nicola Gratteri per rivelare il nome dell’assassino del pluripregiudicato ex capo ultrà della Lazio e suo compagno di militanza, ucciso il 7 agosto scorso. Gaudenzi detto “Rommel” era tra le altre cose in possesso di una mitraglietta da guerra. Un secondo video, precedente e poi rimosso, ha messaggi più oscuri: «Diabolik era prima di tutto un camerata, l’ultimo, insieme a me, del gruppo storico dei fascisti di Roma Nord. Tra poche ore finirà tutto, dopo 30 anni ho deciso di arrendermi visto che sono rimasto solo. Tutti i miei amici sono morti o in galera». Poi le minacce: «Veniamo a voi infami, ho iniziato la mia carriera politica criminale, come dicono, con la morte eccellente di un amico (Elio Di Scala, rimasto ucciso mentre rapinava una banca nel 1994, ndr) e si chiude oggi con la morte eccellente di un altro amico. Faremo di tutto per vendicarti Fabrizio. Sto consegnando al diavolo una lista di donne, di uomini, di giovani, di vecchi che in questi 30 anni hanno pensato bene di comportarsi da merde nei nostri confronti». Poi, elenca i nomi di chi ha testimoniato contro Carminati: «Avete tre mesi di tempo per lasciare la nostra città dopodiché il diavolo vi verrà a cercare e morirete non solo voi, ma anche i vostri cari. Lo zoppo non dimentica».

Il braccio destro di Carminati in video: "So chi è il mandante dell'omicidio Piscitelli". Federica Angeli su La Repubblica il 2 settembre 2019. "Mi chiamo Fabio Gaudenzi, la polizia sta venendo ad arrestarmi e mi consegnerò come prigioniero politico. Dal 1992 appartengo a un gruppo elitario di estrema destra denominato 'I fascisti di Roma nord' con a capo Massimo Carminati e di cui fanno parte Fabrizio Piscitelli, Luca e Fabrizio Caroccia, Maurizio Boccacci, Riccardo Brugia e Massimo Carminati". È un video di 1 minuto e 53 secondi quello pubblicato su youtube da Fabio Gaudenzi, braccio destro di Massimo Carminati, l'ex nar ora in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. "Vorrei essere processato e condannato per banda armata – prosegue Gaudenzi, anche lui condannato, a 2 anni e 8 mesi, nel maxi processo Mafia capitale ma con rito abbreviato e senza l'aggravante mafiosa - come dovrebbero esserlo Carminati e Brugia (entrambi in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, ndr). Non siamo mafiosi ma fascisti, lo siamo sempre stati e lo saremo sempre. La mafia e la droga ci fanno schifo. Mi sto consegnando al questore e parlerà solo col magistrato Gratteri del mandante dell'assassino di Piscitelli perché questa è la mafia vera". Così ha concluso l'intervento video. Arrestato dalla polizia per traffico di armi ora gli investigatori lo stanno arrestando. 

Il delitto di Diabolik «L’ultrà del video choc  è pazzo o manovrato». Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. Nessun movente politico. Le parole allusive e minacciose di Fabio Gaudenzi non spostano l’attenzione degli inquirenti dalla pista della criminalità organizzata seguita fin da subito per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, l’ultrà laziale ucciso in strada con un proiettile alla nuca lo scorso 7 agosto. E il giorno dopo il video con cui il 47enne, arrestato lunedì per possesso di armi da guerra, promette «la verità» sull’agguato a Diabolik— con cui ha condiviso la militanza nell’estrema destra e quella nello stadio Olimpico, pur se su schieramenti opposti — la sua già incerta attendibilità viene messa ulteriormente in dubbio. «Gaudenzi è impazzito o è manovrato. Il gruppo “Fascisti di Roma nord” non esiste», dice ad esempio Maurizio Boccacci, il 62enne fondatore del Movimento politico occidentale, citato da Gaudenzi assieme a Massimo Carminati, Piscitelli e altri come membri di una presunta «elite» di estremisti di cui egli stesso farebbe parte. Gaudenzi, detto «Rommel», sostiene di essere rimasto ormai solo e giura vendetta contro chi quel gruppo «ha tradito». «Mi piacerebbe sapere come e perché questa banda armata sia rimasta nascosta 30 anni», dice Giosué Naso, difensore di Gaudenzi nel processo per la rapina in banca del 1994 che gli costò 21 anni di carcere e poi legale di Massimo Carminati in Mafia Capitale, dove pure il 47enne è stato condannato (2 anni e 8 mesi in abbreviato per usura dopo che l’iniziale accusa di associazione mafiosa a suo carico è caduta). «Fabio è stato “solo” un rapinatore e solo quella volta — continua Naso — e mette sullo stesso piano figure non paragonabili tra loro». Gaudenzi ha caricato su YouTube due video, il primo dei quali poi rimosso, nei quali annuncia il suo imminente arresto, si dichiara prigioniero politico e dice di volersi consegnare al procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri per dire ciò che sa. «Non conosco i fatti, la vicenda e il contesto. Finora non mi sono mai imbattuto in questo nome — dice il magistrato — . Ma se dovesse servire il mio contributo sul tema della ‘ndrangheta, io ci sono». «Rommel», fondatore di Opposta fazione, formazione ultrà di estrema destra della Roma, si trovava fino a lunedì sottoposto all’obbligo di firma come misura di prevenzione per il residuo di pena inflittagli in Mafia Capitale e vive a Formello, nord di Roma, con la mamma e la sorella. In casa aveva una mitraglietta e una pistola e i colpi sparati col revolver hanno spinto un vicino a chiamare i carabinieri. Poi, dopo una trattativa di mezz’ora, Gaudenzi si è consegnato alla squadra mobile. «Mi è sembrato molto scosso e confuso su quanto è successo. L’avevo visto a fine luglio ed era tranquillo, di certo l’omicidio dell’amico ha pesato», dice l’avvocato Veronica Paturzo che gli ha fatto visita a Rebibbia. Il 47enne è in isolamento in attesa dell’udienza di convalida del fermo fissata a stamattina. Probabilmente non risponderà alle domande del gip (competente per territorio è la procura di Tivoli).  Quanto all’omicidio di Diabolik, la Dda capitolina sentirà comunque Gaudenzi anche se, come detto, l’ipotesi più accreditata resta quella di un delitto legato a questioni di droga, settore nel quale Piscitelli ha scalato negli anni molte posizioni partendo dalla curva nord laziale. L’agguato, sulla Tuscolana, lontano dalla sua zona di riferimento, sarebbe avvenuto grazie a una soffiata che segnalava al killer non solo la sua posizione ma anche il fatto che fosse in quel momento senza l’abituale scorta personale, se si esclude una guardia del corpo. L’esame dei tabulati ancora in corso può svelare se gli sia stata tesa una trappola con l’esca di un vertice. In questo caso il mandante potrebbe essere uno dei boss emergenti dei clan criminali che si dividono lo spaccio nella Capitale. 

Saul Caia per il Fatto Quotidiano il 4 settembre 2019. "Gaudenzi non lo vedo da diversi anni, fa il nome del gruppo dei fascisti di Roma nord, gruppo che non esiste nemmeno come sigla. È impazzito oppure è manovrato". Maurizio Boccacci, storico capo dei fascisti dei Castelli Romani, poi del Movimento politico e di Militia, si scaglia contro l' ex amico e camerata Fabio Gaudenzi, detto Rommel, che lo ha citato nel video pubblicato sul web in cui lunedì parlava e lanciava messaggi dopo l' omicidio di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, capo degli ultras della Lazio e narcotrafficante, freddato lo scorso 7 agosto da un colpo di pistola al parco dell' Acquedotti. Sul clamoroso delitto emergono contrasti tra estremisti di destra legati alle curve degli stadi e in misura variabile a dinamiche propriamente criminali. Forse oggi sapremo cosa ha spinto Rommel a farsi arrestare nella sua casa di Formello (Roma) dalla Squadra mobile, dopo aver esploso alcuni colpi di pistola e aver chiamato le autorità per costituirsi. E perché ha registrato due video con il volto coperto da un passamontagna, citando nostalgicamente i vecchi amici e minacciando i nuovi nemici: Boccacci appunto ma anche Massimo Carminati, l'ex neofascista dei Nar condannato in appello come capo di Mafia capitale, tutti secondo Gaudenzi nel gruppo dei "fascisti di Roma Nord". La Procura di Tivoli, guidata da Francesco Menditto, procede contro Rommel per possesso di armi da guerra, un revolver 357 e una mitraglietta trovate a casa sua. Ma Gaudenzi, anch'egli condannato nel processo Mafia capitale (2 anni e 8 mesi per usura), sarà sentito anche da Nadia Plastina, magistrato della Dda di Roma, che indaga sull' omicidio di Piscitelli. Rommel dice di sapere "chi è il mandante", ha detto di voler parlare con il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e se l' è presa con un maresciallo dei carabinieri che si occupava di lui quando era sorvegliato speciale. Boccacci, ormai 62 enne, l' ha presa male e ha parlato all' agenzia Adnkronos: "Per me è impazzito, non è in linea col cervello. O c' è una manovra politica dietro, perché il 17 ottobre c' è la Cassazione per Mafia Capitale, o con la morte di Fabrizio (Piscitelli, ndr), altro mio carissimo amico. Lui al processo per Mafia capitale ha preso 2 anni e qualche mese (8, ndr). Non gli auguro la galera, ma mi fa pensare il fatto che lui, in concomitanza con l' omicidio Piscitelli, tiri fuori l' élite, i miei camerati che non si sono mai arresi, le persone rimaste sempre unite e non hanno ma tradito". Boccacci dice di essere cambiato ma certo non rinnega la sua storia, dal Fuan alla fondazione negli anni 80 del Movimento politico Occidentale, poi sciolto nel '93 con la legge Mancino dopo ripetuti episodi di violenza e l' affronto delle stelle di David sui negozi degli ebrei, fino agli scontri di Brescia in cui i tifosi romanisti accoltellarono un vicequestore, al gruppo neonazi Militia, alla solidarietà a Roberto Spada che aveva aggredito un giornalista Rai e all' ultima provocazione quando volle commemorare da solo la Repubblica sociale nel 2017. Era in prima fila al funerale di Diabolik, come all' aula bunker di Rebibbia durante il processo Mafia Capitale. "Massimo (Carminati, ndr) per me è sempre un fratello, io non rinnego - aggiunge Boccacci - come Riccardo Brugia (altro condannato di Mafia capitale, ndr), che conosco meno, come Fabio (Gaudenzi, ndr) che veniva da ragazzo al Movimento Politico, come Elio Di Scala (detto Kapplerino, ucciso durante una rapina nel 1994, ndr) per il quale ogni anno vado a deporre una rosa dove è caduto". Processo concluso in appello con la condanna a 14 anni per mafia per Carminati, due anni e otto mesi per usura per Rommel. "Al processo di Mafia Capitale si comportò male con dei coimputati perché disse cose false per salvarsi", commenta ora Boccacci, prendendo ulteriori distanze da Gaudenzi.

La paura della gang di Massimo Carminati per la Cassazione e quello strano video di Gaudenzi. Il 16 ottobre la suprema corte deve valutare se quella del Cecato è mafia. Intanto la pax criminale da lui istituita è stata infranta con l'omicidio Piscitelli. Mentre il video a volto coperto di Gaudenzi sembra l'ennesimo tentativo di depistaggio. Lirio Abbate il 3 settembre 2019 su L'Espresso. I fascisti romani legati alla banda mafiosa di Massimo Carminati hanno paura della decisione che prenderà la Cassazione. L'udienza davanti ai giudici della suprema corte è fissata per il 16 ottobre e dovranno valutare se quella del “cecato” è mafia come stabilito dalla corte d'appello di Roma. L'omicidio estivo di Fabrizio Piscitelli , che per criminali, trafficanti e ultras della Lazio era Diabolik, ha smosso le acque del torbido ambiente della malavita della Capitale, spezzando la pax mafiosa che lo stesso Carminati aveva imposto all'inizio del 2012 all'interno del grande territorio delimitato dal Gra. Nessuno della criminalità organizzata aveva osato violare fino allo scorso 7 agosto questo ordine. Adesso Fabio Gaudenzi, con la sua pantomima caricata su youtube, ha tentato di riequilibrare le cose, mettendo in rete un video pensato e registrato con la complicità di qualcuno con il quale ha organizzato anche la sua “consegna” alla polizia, finendo arrestato per detenzione di armi da guerra. Lo ha fatto per paura di essere ucciso? Se così fosse avrebbe potuto rivolgersi in segreto agli investigatori e chiedere protezione, invece di sbandierare a tutta la rete internet le sue intenzioni. Ritengo invece questo suo agire un tentativo depistante. "Mi chiamo Fabio Gaudenzi, la polizia sta venendo ad arrestarmi e mi consegnerò come prigioniero politico. Dal 1992 appartengo a un gruppo elitario di estrema destra denominato "I fascisti di Roma nord" con a capo Massimo Carminati e di cui fanno parte Fabrizio Piscitelli, Luca e Fabrizio Caroccia, Maurizio Boccacci, Riccardo Brugia e Massimo Carminati". È un video di 1 minuto e 53 secondi quello pubblicato su youtube da Fabio Gaudenzi, braccio destro di Massimo Carminati, l'ex nar ora in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. "Vorrei essere processato e condannato per banda armata – prosegue Gaudenzi, anche lui condannato, a 2 anni e 8 mesi, nel maxi processo Mafia capitale ma con rito abbreviato e senza l'aggravante mafiosa - come dovrebbero esserlo Carminati e Brugia (entrambi in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, ndr). Non siamo mafiosi ma fascisti, lo siamo sempre stati e lo saremo sempre. La mafia e la droga ci fanno schifo. Mi sto consegnando al questore e parlerà solo col magistrato Gratteri del mandante dell'assassino di Piscitelli perché questa è la mafia vera". Così ha concluso l'intervento video. Arrestato dalla polizia per traffico di armi ora gli investigatori lo stanno arrestando. Di Federica Angeli,Video: YouTube. La lunga dichiarazione registrata, in cui Gaudenzi riconosce e rivela l'esistenza di un gruppo di fascisti organizzati a Roma Nord, capeggiati da Carminati e Riccardo Brugia, e soprattutto la loro leadership, conferma invece l'esistenza da decenni di un gruppo organizzato, che si nutre del metodo mafioso, della forza di intimidazione che proviene proprio dalla loro formazione fascista in particolare dai Nuclei armati rivoluzionari. E conferma quindi le accuse dei pm. Alla fine di questo discorso davanti alla telecamera è un autogol per Gaudenzi e una spallata per Carminati e Brugia. Dire che loro sono solo fascisti e non hanno nulla a che vedere con la mafia è un altro punto deviante. Perché il metodo che usano è mafioso, come scrivono i giudici nella sentenza d'appello. La strategia difensiva che si è protratta per tutta la durata del processo in dibattimento è stata quella di spostare l'attenzione verso la banda armata, verso il fascismo, invece i fatti hanno rivelato che quelle azioni criminali registrate e fotografate, le intimidazioni, le violenze, le minacce sono a pieno titolo associazione mafiosa. E il video di Gaudenzi ne segna ancora il passo criminale di questa gang, in cui lancia accuse, minaccia la morte di diverse persone, alcune delle quali hanno trasgredito l'omertà da loro imposta, e distribuisce messaggi in codice che solo chi parla la loro stessa lingua può comprendere. E poi mostre le armi. Gli uomini di Carminati hanno ancora oggi a disposizioni armi da guerra, e questo è un altro punto importante che dimostra la pericolosità attuale di questo gruppo organizzato ancora presente sul territorio romano. Quello di Gaudenzi, se non smentiti da prossimi risvolti investigativi e giudiziari o da decisioni personali dello stesso autore del video (vuole saltare il fosso e collaborare con la giustizia?), è per lui allo stato degli atti un autogol giudiziario. Un segnale negativo per la vicenda processuale di Carminati. Del resto Gaudenzi, coinvolto anche lui nell'inchiesta “mafia Capitale”, durante il processo in abbreviato per tentare di salvare se stesso e Carmiati dalle accuse mosse dalla procura antimafia di Roma, ha reso dichiarazioni inquinanti. Come hanno evidenziato i magistrati alla fine del procedimento, Gaudenzi ha mischiato storie vere con fatti depistanti, tutto ciò per salvare il capo. Ma non è servito a nulla. Anche questo video e il suo arresto rischiano di inserirsi nella stessa logica deviante. Sembra lo stesso copione di prima in cui il bravo picciotto fa di tutto per salvare il suo boss. E intanto si attende la Cassazione, di cui gli imputati hanno paura.

 Federica Angeli per la Repubblica il 5 settembre 2019. Si è avvalso della facoltà di non rispondere Fabio Gaudenzi, il fedele scudiero di Massimo Carminati, leader di Opposta Fazione della curva sud, ammanettato lo scorso lunedì nel suo appartamento a Le Rughe, Formello, per detenzione di armi da guerra e minaccia. Il suo arresto è stato convalidato dal gip di Tivoli e così l' estremista di destra resta in isolamento nel carcere romano di Rebibbia. La sua strategia difensiva, ovvero la scelta del silenzio, era un copione scontato. Ha scelto di farsi arrestare sparando una raffica di colpi e richiamando l'attenzione del vicino, dopo aver girato due video, pubblicati poi su Youtube, in cui ha già detto tutto quello che aveva da dire, o quasi. Cosa c' è dunque nelle parole non pronunciate ieri mattina a Tivoli e in quelle recapitate al mondo del web tre giorni fa? E quali sono le mosse di Gaudenzi, ormai solo e isolato, senza più nulla da perdere? Partiamo dalla fine. L' omicidio di Diabolik «So chi ha ucciso Fabrizio Piscitelli», dice Gaudenzi al web e, nel farlo, indica un mandante: la 'ndrangheta. È per questo che chiede di voler parlare con il magistrato Nicola Gratteri, a capo della procura di Catanzaro e massimo esperto di 'ndrangheta nel mondo. Nel linguaggio della mala in queste due frasi c' è tutto: chi ha osato uccidere un uomo del calibro di Diabolik, sfidando così l' ultimo re di Roma, l' intoccabile Carminati, sta dicendo alla città che da quel 7 agosto chi comanda nel sottobosco criminale non è più l' estrema destra del Cecato e i suoi scagnozzi. Chi, se non una potenza come la 'ndrangheta poteva farlo? Ecco perché Gaudenzi ha paura. La sentenza Mafia capitale Gli equilibri della Roma criminale sono appesi a una data: il 16 ottobre.Lo sa bene chi ha ucciso nel Parco degli Acquedotti Piscitelli, lo sa bene Fabio Gaudenzi. Il maxiprocesso per 416bis che ha sconvolto la capitale e che vede ora in carcere i vertici dell' organizzazione - Carminati, Brugia, Buzzi - per mafia, vedrà la parola fine tra poco più di un mese. La Cassazione si pronuncerà con sentenza definitiva e, in caso di condanna. si decreterà la fine dell' era del Cecato, sempre incredibilmente sfuggito alla legge. Gaudenzi è dunque solo, unica rappresentanza fuori dalle sbarre di un potere criminale che non regge. Anche perché, oltre agli amici - chi in carcere chi morto - ha perso tutti i suoi soldi. Il tesoro e il nuovo processo Il 21 giugno scorso Gaudenzi lo Zoppo ha ricevuto un nuovo rinvio a giudizio, la terza tranche dell' inchiesta Mafia capitale. Condannato per usura, con rito abbreviato a 2 anni e 8 mesi nel 2017, qualche mese per lui si aprono nuovi scenari. Stavolta è accusato di intestazione fittizia di beni con l' aggravante del metodo mafioso. I beni nel mirino della Dda sono due agenzie immobiliari - la Due Pini srl e la Okhouse - su cui transitavano tantissimi soldi per l' acquisto di appartamenti alle Bahamas. Bloccati quindi i soldi in transito su quelle agenzie a lui riconducibili il sogno di fuggire col tesoro, secondo gli inquirenti facente capo a Carminati, è sfumato. Così come quello di mettersi al riparo da agguati nell' ipotesi di una condanna definitiva del suo capo ex nar. Le armi che condannano la banda Consegnandosi alla giustizia Gaudenzi ha guadagnato non uno ma due nemici: i mandanti dell' omicidio Piscitelli e i suoi ex camerati. Farsi trovare con due armi da guerra - la mitraglietta Uzi e il revolver 357 - conferma quello che il pool antimafia della procura di Roma ha sempre asserito nelle aule di tribunali senza mai riuscire a dimostrarlo: Carminati e la sua gang detenevano armi. Una aggravante importante nella contestazione del 416, mai provata. Ora Gaudenzi, ammettendo di aver fatto parte di un gruppo eversivo di estrema destra, ha consegnato parte dell' arsenale di cui la banda disponeva e la prova regina alla procura.

Omicidio Piscitelli a Roma, "Gaudenzi pronto a fare nomi intoccabili. Minacciato di morte in carcere". La denuncia del difensore dell'ex braccio destro di Carminati, già condannato per usura nel processo Mafia capitale. La Repubblica il 07 settembre 2019. Fabio Gaudenzi "è pronto a parlare con i magistrati per denunciare un fatto recente che vede lui e la sua famiglia come vittime e che lo ha portato a essere condannato per usura e al sequestro dei suoi beni e dei suoi familiari e che è collegato all'omicidio di Fabrizio Piscitelli e alla morte di un suo amico a Brescia". A dirlo all'Adnkronos l'avvocato Marcello Petrelli, difensore di Fabio Gaudenzi, arrestato lunedì scorso per possesso di armi da guerra e che in un video pubblicato prima dell'arresto ha raccontato voler parlare del mandante dell'omicidio di Diabolik ex capo ultras della Lazio ucciso nel parco degli Acquedotti a Roma. Gaudenzi, che verrà sentito in carcere dai magistrati della Dda di Roma, riferisce il suo difensore "si ritiene parte offesa, è pronto a parlare di questa storia recente che non riguarda però il suo passato politico, e sottolinea di non essere un pentito. È pronto a fare il nome di intoccabili. In carcere in questi giorni di detenzione è stato minacciato di morte e per questo ha presentato denuncia".

MALAROMA. Rory Cappelli per ''la Repubblica - Roma'' l'8 settembre 2019.  Sarebbe pronto a parlare con i magistrati e a fare nomi eccellenti, Fabio Gaudenzi, arrestato il primo settembre dalla polizia per possesso di armi. In un primo momento aveva dichiarato che avrebbe parlato soltanto con il magistrato Nicola Gratteri. Cambiando idea ieri, spinto forse dalle minacce che avrebbe ricevuto in carcere. Gaudenzi in un video girato poco prima dell' arresto aveva affermato di conoscere i mandanti dell' omicidio di Fabrizio Piscitelli, l' ex capo ultrà della Lazio freddato con il colpo di pistola alla nuca il 7 agosto scorso nel parco degli Acquedotti. Le minacce sarebbero state verbali: alcuni detenuti gli avrebbero urlato "infame" e infame in certi ambienti vuol dire una cosa sola: morto. La Dda ( Direzione distrettuale antimafia) che indaga sull' omicidio Piscitelli, lo sentirà nei prossimi giorni. Gaudenzi « è pronto a parlare con i magistrati per denunciare un fatto recente che lo ha visto vittima insieme alla famiglia » ha detto il suo difensore, Marcello Petrelli. «Per quello che è successo è stato condannato per usura e a lui e ai familiari sono stati sequestrati dei beni. Tutto è collegato all' omicidio di Piscitelli e alla morte di un suo amico a Brescia». Gaudenzi, inoltre, continua il legale, «si ritiene parte offesa, è pronto a parlare di questa storia recente che non riguarda però il suo passato politico, e sottolinea di non essere un pentito. È pronto a fare il nome di intoccabili. In carcere in questi giorni di detenzione è stato minacciato di morte e per questo ha presentato denuncia. Il motivo è che probabilmente qualcuno non vuole che racconti ai magistrati ciò che invece lui vuole raccontare sulla morte di Fabrizio Piscitelli ». Nel video pubblicato su YouTube, Gaudenzi, pistola in pugno, volto nascosto da un passamontagna nero, dichiara che «la polizia sta venendo ad arrestarmi e mi consegnerò come prigioniero politico. Dal 1992 appartengo a un gruppo elitario di estrema destra denominato "I fascisti di Roma nord" con a capo Massimo Carminati e di cui fanno parte Fabrizio Piscitelli, Luca e Fabrizio Caroccia, Maurizio Boccacci, Riccardo Brugia e Massimo Carminati ». Con alcuni di loro si ritrova nelle carte di Mafia Capitale, indagini dopo le quali viene condannato, in abbreviato, a 2 anni e 8 mesi. Prima che la polizia giunga nel suo appartamento per la segnalazione di un vicino che ha sentito colpi di arma da fuoco, Gaudenzi termina il suo messaggio video: « Vorrei essere processato e condannato per banda armata, come dovrebbero esserlo Carminati e Brugia. Non siamo mafiosi ma fascisti, lo siamo sempre stati e lo saremo sempre. La mafia e la droga ci fanno schifo. Mi sto consegnando al questore e parlerò solo col magistrato Gratteri del mandante dell' assassino di Piscitelli perché questa è la mafia vera». Prima di essere arrestato Gaudenzi gira anche un secondo video, dove si rivolge a persone che «subiranno la vendetta del diavolo se non lasceranno Roma».

Lirio Abbate per espresso.repubblica.it l'11 settembre 2019. I fascisti romani legati alla banda mafiosa di Massimo Carminati hanno paura della decisione che prenderà la Cassazione. L'udienza davanti ai giudici della suprema corte è fissata per il 16 ottobre e dovranno valutare se quella del “cecato” è mafia come stabilito dalla corte d'appello di Roma. L'omicidio estivo di Fabrizio Piscitelli , che per criminali, trafficanti e ultras della Lazio era Diabolik, ha smosso le acque del torbido ambiente della malavita della Capitale, spezzando la pax mafiosa che lo stesso Carminati aveva imposto all'inizio del 2012 all'interno del grande territorio delimitato dal Gra. Nessuno della criminalità organizzata aveva osato violare fino allo scorso 7 agosto questo ordine. Adesso Fabio Gaudenzi, con la sua pantomima caricata su youtube, ha tentato di riequilibrare le cose, mettendo in rete un video pensato e registrato con la complicità di qualcuno con il quale ha organizzato anche la sua “consegna” alla polizia, finendo arrestato per detenzione di armi da guerra. Lo ha fatto per paura di essere ucciso? Se così fosse avrebbe potuto rivolgersi in segreto agli investigatori e chiedere protezione, invece di sbandierare a tutta la rete internet le sue intenzioni. Ritengo invece questo suo agire un tentativo depistante. La lunga dichiarazione registrata, in cui Gaudenzi riconosce e rivela l'esistenza di un gruppo di fascisti organizzati a Roma Nord, capeggiati da Carminati e Riccardo Brugia, e soprattutto la loro leadership, conferma invece l'esistenza da decenni di un gruppo organizzato, che si nutre del metodo mafioso, della forza di intimidazione che proviene proprio dalla loro formazione fascista in particolare dai Nuclei armati rivoluzionari. E conferma quindi le accuse dei pm. Alla fine di questo discorso davanti alla telecamera è un autogol per Gaudenzi e una spallata per Carminati e Brugia. Dire che loro sono solo fascisti e non hanno nulla a che vedere con la mafia è un altro punto deviante. Perché il metodo che usano è mafioso, come scrivono i giudici nella sentenza d'appello. La strategia difensiva che si è protratta per tutta la durata del processo in dibattimento è stata quella di spostare l'attenzione verso la banda armata, verso il fascismo, invece i fatti hanno rivelato che quelle azioni criminali registrate e fotografate, le intimidazioni, le violenze, le minacce sono a pieno titolo associazione mafiosa. E il video di Gaudenzi ne segna ancora il passo criminale di questa gang, in cui lancia accuse, minaccia la morte di diverse persone, alcune delle quali hanno trasgredito l'omertà da loro imposta, e distribuisce messaggi in codice che solo chi parla la loro stessa lingua può comprendere. E poi mostre le armi. Gli uomini di Carminati hanno ancora oggi a disposizioni armi da guerra, e questo è un altro punto importante che dimostra la pericolosità attuale di questo gruppo organizzato ancora presente sul territorio romano. Quello di Gaudenzi, se non smentiti da prossimi risvolti investigativi e giudiziari o da decisioni personali dello stesso autore del video (vuole saltare il fosso e collaborare con la giustizia?), è per lui allo stato degli atti un autogol giudiziario. Un segnale negativo per la vicenda processuale di Carminati. Del resto Gaudenzi, coinvolto anche lui nell'inchiesta “mafia Capitale”, durante il processo in abbreviato per tentare di salvare se stesso e Carminati dalle accuse mosse dalla procura antimafia di Roma, ha reso dichiarazioni inquinanti. Come hanno evidenziato i magistrati alla fine del procedimento, Gaudenzi ha mischiato storie vere con fatti depistanti, tutto ciò per salvare il capo. Ma non è servito a nulla. Anche questo video e il suo arresto rischiano di inserirsi nella stessa logica deviante. Sembra lo stesso copione di prima in cui il bravo picciotto fa di tutto per salvare il suo boss. E intanto si attende la Cassazione, di cui gli imputati hanno paura.

Michela Allegri e Camilla Mozzetti per il Messaggero - Roma  il 12 settembre 2019. Fabio Gaudenzi aveva paura. Dopo essersi indebitato «con soggetti appartenenti ai circuiti malavitosi della Capitale», compresi il boss del Mondo di Mezzo, Massimo Carminati, il suo braccio armato Riccardo Brugia, e «gli amici di San Giovanni», i fratelli Bracci, aveva capito che lui e il suo socio, Filippo Maria Macchi, non sarebbero riusciti a restituire il denaro. L'affare in cui avevano investito, un giro di contrabbando di oro dall' Africa, avrebbe dovuto fruttare milioni, e invece si era risolto in un buco nell' acqua. Gaudenzi era terrorizzato: «Io devo pagare, questi mi ammazzano, qui non c' è da giocare, io devo sistemare queste cose, in un modo o nell' altro», dice intercettato. Carminati era solo la punta dell' iceberg, e Gaudenzi, oggi, racconta di essere spaventato ormai da anni. Proprio quell' affare, ha detto ai pm della Dda, sarebbe costato la vita a Fabrizio Piscitelli, ucciso con un colpo di pistola il 7 agosto nel parco degli Acquedotti. A suo dire, avrebbe cercato di aiutarlo. Proprio come Maurizio Terminali, un altro militante dell' estrema destra morto a Brescia. Circostanza sulla quale gli inquirenti stanno indagando. I dettagli di quell'affare finito male sono negli atti dell' inchiesta Mondo di Mezzo. Intercettazioni, verbali, testimonianze.

IL PRESTITO. Tutto parte nell'aprile del 2014, quando Macchi propone a Gaudenzi l' operazione il cui costo complessivamente era di 500 mila euro. Macchi aveva trovato quasi tutta la cifra, mancavano solo gli ultimi 60 mila euro. Proprio grazie all' intermediazione di Gaudenzi, la somma era stata messa a disposizione per metà da Raffaele Bracci e per il restante da Carminati e Brugia. Ottenuto il denaro, Gaudenzi e Macchi partono (è il 30 aprile 2014) dall' aeroporto di Ciampino con aereo privato della società Livingstone diretto in Africa. Il viaggio sarebbe dovuto durare poco, invece si protrae fino ad agosto. E in 4 mesi il prestito ottenuto non viene restituito nonostante il patto con Carminati: restituire i 30 mila euro entro un mese, più altri 10 mila euro. Una volta rientrati in Italia, però, Macchi vola in Brasile e Gaudenzi resta solo. Vani i tentativi di recuperare il denaro. Denaro che, in parte, doveva essere restituito anche all' ex moglie del Nero, Romana Rizzo. Gaudenzi si sfoga con Macchi: «Se va male qualcosa, a me qualcuno non è che me posso avere contro pure loro, cioè sennò sono morto in partenza». E Macchi commentava: «Loro sono quelli che non devi proprio mai avere contro». Ma loro stavano iniziando a perdere la pazienza. Intercettato il 18 agosto 2014, Carminati parlando con Brugia, dice: «Parto de martello come non porta i soldi a Romana». Le scadenze si fanno sempre più fitte: «Mi servono i soldi Filì continua in un' altra telefonata Gaudenzi ma arriva questo bonifico? Io devo pagare, questi mi ammazzano». E ancora pochi giorni dopo: «Bisogna trovare una soluzione, dobbiamo dare i soldi a Raffaele e Riccardo entro il 30 settembre» perché dice ancora Gaudenzi «non posso avere nemici Riccardo da una parte e Raffaele dall' altra, significa essere morti a Roma». A ottobre Gaudenzi crolla e incontra Raffaele Bracci dicendogli che Macchi non riusciva a restituire il denaro e che Brugia gli ha concesso una proroga. Il 15 novembre 2014, Gaudenzi chiama un parente di Macchi chiedendo notizie: dice che è all' estero da tre mesi e che lui ha bisogno che torni in Italia, «sta cosa non finisce bene, cioè lui mi deve dare i soldi e soprattutto agli amici miei, lo sa che persone sono».

Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 12 settembre 2019. «Te l'ho trovato, ha la barca ormeggiata ad Anzio. Quando mi avvisano che ci va, ti chiamo così te la vedi tu». Fabrizio Piscitelli lo aveva trovato l' uomo che Fabio Gaudenzi stava cercando: Filippo Maria Macchi. È quanto ha riferito lo zoppo ai pm. Diabolik si era anche recato di persona a casa di Gaudenzi, il 6 agosto, ventiquattro ore prima di essere freddato da un colpo di pistola alla nuca, per dirglielo. Lo zoppo gli aveva affidato una missione: trovare Macchi che con lui aveva messo in cantiere e condotto l' operazione per il contrabbando di oro dall' Africa senza restituirgli il denaro che era riuscito a farsi prestare dagli amici camerati. In mezzo non ci sarebbe stato soltanto il mancato recupero del credito. Ma anche l' imbroglio in cui era cascato Gaudenzi per la promessa, poi disattesa, di incassare il premio che gli era stato garantito da Macchi: una buona uscita da un milione di euro per esser riuscito a farsi dare i soldi, che mancavano per avviare l' operazione di contrabbando, da Massimo Carminati, Riccardo Brugia, i fratelli Bracci. I suoi amici camerati gli avevano messo in mano il denaro senza fare troppe domande ma chiedendo che venisse poi restituito con gli interessi. La partita in Africa pesava 3 quintali d' oro grezzo e avrebbe fruttato svariati milioni di euro. Gaudenzi per gli sforzi sostenuti, avrebbe dovuto ricevere alla fine una lauta ricompensa. Ma non ha mai visto né questa né i soldi che si era fatto dare in prestito: era rimasto con il debito e senza oro. L' operazione sembrava sfumata: Gaudenzi era partito con Macchi alla volta dell' Africa, l' oro era stato preso ma depositato prima in una banca di Dubai senza arrivare in Italia. O almeno, se poi abbia varcato i confini nazionali, Gaudenzi non lo sapeva perché dall' affare era stato tagliato fuori e a distanza di tempo lo aveva capito ma, non potendo lasciare Roma poiché sottoposto alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno e di presentazione in caserma, si era affidato a due amici di lunga data per chiedere aiuto: Maurizio Terminali e Fabrizio Piscitelli.

L' ACCORDO. I due erano stati incaricati dallo zoppo di trovare Filippo Maria Macchi il quale, dopo esser tornato dall' Africa e dopo un lungo soggiorno in Brasile, non si era fatto più sentire. Il viaggio era stato lungo e dispendioso: 4 mesi in giro per il Burundi, Congo, Kenya a bordo di un jet privato e un investimento complessivo di 1,5 milioni di euro. Da una parte Gaudenzi doveva rientrare dei soldi chiesti in prestito dall' altra si era visto negare ciò che gli era stato promesso e voleva vendicarsi. Ma non potendo lasciare Roma, aveva sollecitato prima Maurizio Terminali e poi Diabolik per essere aiutato nelle ricerche di quello che credeva essere il suo socio. Terminali è stato il primo a trovare Macchi a Siena dove la famiglia era a capo di una squadra di basket. «Va a vedere la partita la domenica», gli avrebbe detto, senza riuscire, tuttavia, a fare di più: Terminali è morto per un' overdose ma Gaudenzi crede sia stato ammazzato. Entra in gioco allora Diabolik, forse dietro un accordo economico, che si mette sulle tracce dell' uomo e lo trova. Ma dopo poco muore anche lui. Sono questi gli ultimi dettagli che emergono dall'inchiesta sulla morte di Diabolik, il capo ultrà della Lazio ucciso da un killer camuffato da runner nel parco degli Acquedotti lo scorso 7 agosto. Gaudenzi nel corso dell' interrogatorio nel carcere di Rebibbia ha ricostruito ai pm della Dda, Giovanni Musarò e Nadia Plastina, la sua versione sui fatti dopo essersi consegnato il 2 settembre agli agenti di polizia della Squadra Mobile di Roma. Le sue parole sono ora al vaglio degli inquirenti e la Procura dovrà stabilirne l' attendibilità. Ma nel corso dell' interrogatorio-fiume, durato più di 5 ore e poi secretato, Gaudenzi ha spiegato in questo modo il ruolo di Piscitelli e dell' altro amico fascista, Maurizio Terminali, morto a Brescia all' inizio dell' estate. Intanto ieri, la panchina sulla quale Piscitelli è stato freddato e trasformata poi in un simulacro, è stata in parte bruciata dalle fiamme. Non si esclude il dolo né il messaggio intimidatorio.

CHI HA UCCISO “DIABOLIK” PISCITELLI? C.Moz. e G.Sca. per “il Messaggero” il 22 agosto 2019. Il suo posto, Fabrizio Piscitelli, era riuscito a ritagliarselo nel panorama multiforme, eppure radicato, che vede a Roma da anni diverse organizzazioni criminali spartirsi la città per il traffico degli stupefacenti. I clan esterni alla mala romana che controllano il giro e decidono come dividersi le piazze perché sono loro che fanno arrivare la droga in città e dunque sono loro che comandando. Così si muoveva il sistema agli albori. Poi i rapporti sono cambiati perché la mala romana, composta da gruppi e bande “autoctone”, ha deciso di innalzare il proprio livello, passando da “braccio operativo” a formazione di comando. Senza di loro i clan esterni non avrebbero potuto infiltrarsi e fare affari e con loro dunque sono scesi a patti. Questo il quadro. Dentro cui è possibile scorgere una delle piste che potrebbe spiegare l’omicidio di “Diabolik” avvenuto lo scorso 7 agosto al Parco degli Acquedotti. Gli inquirenti non escludono che l’agguato mortale derivi da uno “sgarro” compiuto da Piscitelli a qualche gruppo romano per una partita di droga che il capo degli ultras biancocelesti avrebbe voluto gestire autonomamente. Una partita – forse anche cospicua –che era stata presa, in seconda battuta, ma che non era stata pagata. E che forse si sarebbe voluta piazzare in un territorio “gestito” da altri romani. Il denaro dunque e “l’invasione di campo” come possibile movente che, però, potrebbe escludere la responsabilità, nella ricerca del mandante, di organizzazioni criminali esterne. Come quella degli albanesi o della ‘ndrangheta per capirci che solitamente ha altri “modi” per inviare segnali e compiere omicidi. Anche i “romani” sono capaci ad ammazzare, il messaggio che potrebbe esser stato veicolato. Gli agenti della Squadra Mobile, diretti da Luigi Silipo, e coordinati dal pm titolare dell’inchiesta, Nadia Plastina, stanno passando al setaccio ogni angolo del vissuto di Piscitelli, i suoi rapporti con i personaggi di spicco delle organizzazioni operanti in città ma anche il sottobosco cittadino e i legami che l’uomo aveva con i “romani che contano”, le vicende di altri ultras – a partire da quella di Marco Turchetta – finiti dietro alla sbarre per traffico di stupefacenti. Ancora da ultimare le verifiche sui tre cellulari di Piscitelli e sui pc sequestrati nella sua villa a Grottaferrata. Dai quali, forse, potrebbe emergere il nome o i nomi di chi quella sera “Diabolik” avrebbe dovuto incontrare al parco prima di essere ucciso da un solo colpo esploso alla nuca.

Nello Trocchia per il “Fatto quotidiano” il 22 agosto 2019. Lo Stato si è piegato e ha consentito l' omaggio a un signore della droga tra saluti romani, applausi e fumogeni. È successo ieri a Roma, dove si sono celebrati i funerali di Fabrizio Piscitelli, capo storico del tifo laziale, ma non solo, ucciso nel Parco degli Acquedotti il 7 agosto scorso. Piscitelli era indagato in una mega-inchiesta per droga e già condannato in passato. Chi ha frequentato la curva ricorda il suo carisma e la sua personalità: "Gli Irriducibili sono il suo esercito, a lui sono legati e lo portano sempre in curva anche se a lui era vietato l' ingresso perché sottoposto a Daspo". In curva, infatti, c' erano tre striscioni, uno dedicato a Diabolik, Fabrizio Piscitelli, uno dedicato a Marco Turchetta e un altro dedicato, a un sodale storico di Piscitelli, Zogu Arben, detto Riccardino, noto narcotrafficante, oggi in carcere. Anche Turchetta è detenuto, è stato arrestato lo scorso maggio in una operazione antidroga. La rete di Diabolik era impressionante. Inizia la sua carriera criminale stringendo rapporti con Gennaro e il fratello Michele Senese, boss di camorra di stanza a Roma, narcotrafficante di primo piano sulla Capitale. Ma non c' è solo il boss Senese a raccontare i legami di Piscitelli, ci sono i rapporti con i Casamonica, con Salvatore Casamonica, detto do', oggi in carcere per traffico internazionale di stupefacenti. E Casamonica Salvatore faceva affari proprio con gli albanesi, amici intimi, uomini di fiducia a disposizione di Piscitelli, come Zogu Arben, ma soprattutto Dorian Petoku quest' ultimo, arrestato proprio con Casamonica lo scorso gennaio. Erano pronti gli uomini di Piscitelli e i Casamonica a far arrivare diverse tonnellate di cocaina nella capitale, ormai città snodo internazionale del narcotraffico. I Casamonica, i Senese, gli albanesi, ma anche i napoletani come i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, figli di Luigino, detto a' nacchella, boss dell' alleanza di Secondigliano. Anche gli Esposito, padrini della droga a Roma e in ottimi rapporti con Piscitelli.

Per capire l' ascesa di Piscitelli basta leggere quanto diceva di lui un pregiudicato romano, intercettato nella famosa inchiesta mafia capitale: "Diabolik () non lo so come ha fatto? In questi quattro anni ha fatto una scalata che non vi rendete conto (). i Napoletani e gli Albanesi è una cosa Questa è gente di merda!! Questa è gente cattiva". Non mancavano i buoni rapporti con il boss Massimo Carminati. Un profilo criminale notevole che stava emergendo dall' indagine sulla droga che lo vedeva tra gli indagati e che raccontava la portata del personaggio oltre il territorio di Roma Nord dove era tra i padroni. "Chi l' ha ucciso è uno che se lo poteva permettere" sussurrano alcuni inquirenti, questo lascia pensare che ad ordinare l' omicidio possa essere stato un cartello o una potente organizzazione criminale. Ipotesi al momento, di certo c' è che alcuni suoi amici, negli ultimi giorni, non sono reperibili, forse, anche per paura, soggetti che potrebbero fornire informazioni importanti alle forze dell' ordine. Tra questi Fabrizio Fabietti, un altro signore della droga sulla Capitale, ma può essere utile parlare anche con un altro amico di Piscitelli che ha una società a Dubai e si occupa della vendita di cellulari satellitari, una società con esperienza nelle bonifiche ambientali, sempre un buon contatto per chi gestisce traffici di stupefacenti. Piscitelli prima di tornare libero ha scontato la parte residua dell' ultima condanna in una casa di recupero per tossicodipendenti e alcolisti. A Roma il carcere è indigesto a molti boss che ottengono luoghi meno sgraziati dove trascorrere la detenzione. Nel centro che ha ospitato Piscitelli, in provincia di Roma, c' era anche una piscina gonfiabile. Si era fatto crescere la barba, era sempre isolato e tutti, compresi altri criminali ospiti del centro, lo rispettavano. Un rispetto enorme per Diabolik, il signore della droga morto ammazzato e celebrato nella Capitale con striscioni, fumogeni e un funerale imponente.

ECCO COME E’ MORTO DIABOLIK. Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 17 settembre 2019. Per un istante forse l’ha percepito il rumore delle foglie e dei ramoscelli che si spezzano sotto il peso di un corpo che si avvicina. Ma non ha compreso, forse non ne ha avuto il tempo. Perché Fabrizio Piscitelli, 53 anni, è caduto in terra dopo che una pallottola, esplosa a distanza ravvicinata da una calibro 7,65, lo ha colpito alla nuca, all’altezza dell’orecchio sinistro. È morto così “Diabolik”: lo scorso 7 agosto nel parco degli Acquedotti, a Roma, quando l’orologio ancora non segnava le 19. Chi ha firmato il suo omicidio non ha avuto timore: è entrato in azione quando il parco, con il sole ancora alto, era pieno di persone. Il killer, travestito da runner, con il volto coperto, non ha esitato, si è avvicinato e correndo ha sparato. Un colpo solo. Tanto è bastato per uccidere il capo della curva Nord, criminale in ascesa sotto l’aurea di Michele Senese. Il Diablo era seduto su una panchina. Stava aspettando una persona con cui aveva un appuntamento ma la cui identità resta ignota, complice anche il “rebus” sui tre cellulari usati da Piscitelli e sequestrati poi dalla polizia che sono bloccati. Ad una società estera è stato affidato il compito di esfiltrarne i dati. Ad oggi, però, risulta impossibile decriptarli. Un omicidio eseguito su commissione. “Diabolik” da sempre guardingo e attento negli ultimi mesi a schermare quanto più possibile le telefonate - il livello di sicurezza imposto agli smartphone lo dimostra - è stato colto alla sprovvista. Non era un ingenuo. Tuttavia ignaro di quello che lo aspettava, si è fatto ammazzare mentre era seduto su una panchina, disarmato e con le spalle “scoperte”. Con lui, quel pomeriggio, c’era una sola persona: l’autista che da dieci giorni lo accompagnava, dopo che il suo storico guardaspalle se n’era andato in ferie. Un uomo, di origini cubane che Piscitelli aveva recuperato dentro le file della Curva perché parente di un ultrà che glielo aveva presentato. Il “cubano” poteva andare bene per il lavoro, aveva il profilo adatto: di corporatura robusta e di poche parole, per anni ha fatto il buttafuori in un locale sulla via Tiburtina. Quel giorno come tutti gli altri dalla fine di luglio, il “cubano” aveva scorrazzato “Diabolik” in giro per la Capitale: il pranzo a ristorante, il passaggio nel primo pomeriggio nello studio di tatuatori in Prati “Eternal City Tattoo” che vede tra i proprietari un altro camerata ultrà Francesco Cuomo dove Piscitelli - per un macabro scherzo del destino - aveva deciso di farsi incidere sulla pelle l’immagine di un teschio. Il cubano era con lui anche al Parco degli Acquedotti. Gli era seduto a fianco e come lui, dava le spalle al sicario. Quando Piscitelli si è accasciato in terra lui si è girato ma il killer era già corso via. Non l’ha saputo riconoscere. Agli investigatori ha detto solo di aver visto un uomo con gli occhiali e una bandana che gli copriva il volto. Gli agenti della Squadra Mobile lo hanno ritrovato nascosto dietro uno dei tanti alberi del parco. Non ha saputo - o non ha voluto - dire altro. Così come in silenzio è rimasto lo storico autista di Piscitelli, che in quei giorni si trovava in vacanza. «Mi potete anche arrestare, ma io non vi dirò nulla», ha detto agli inquirenti che hanno provato con lui a ricostruire le frequentazioni di “Diabolik”. Sono le 18.50 quando la notizia inizia a circolare: hanno ferito “Diabolik” pare che sia morto. Il parco degli Acquedotti si trasforma. Sul posto, in via Lemonia all’altezza del civico 273, arrivano le volanti della polizia, quelli della Scientifica. Due solo i testimoni oculari che, pur non assistendo alla sparatoria, vedranno il killer descrivendolo poi come un uomo alto, non troppo robusto, vestito da runner con una maglietta verde. Il sicario, da quanto ricostruito, sarebbe poi scappato a bordo di uno scooter. Girato l’angolo ci sarebbe stato, dunque, almeno un secondo uomo ad aspettarlo. A poco a poco, intorno a quella panchina, con il corpo di Piscitelli steso in terra e coperto da un lenzuolo, si accalcano anche gli ultrà arrivati alla spicciolata dalla sede storica degli “Irriducibili” di via Amulio. Arriva il fratello di Piscitelli, pretende di vedere il corpo mentre dal lenzuolo sbuca solo la gamba destra di “Diabolik”. Il corpo viene portato via, trasportato al policlinico di Tor Vergata dove sarà poi condotta l’autopsia, mentre negli uffici della Questura inizia il via-vai di parenti e amici. Tutti ascoltati, tutti inconsapevoli, tutti ignari del motivo che ci sarebbe dietro la morte del capo ultrà. Iniziano le indagini, i pm titolari dell’inchiesta parlano di un agguato di «stampo mafioso». La criminalità organizzata come mandate dell’omicidio di “Diabolik” oppure un conto in sospeso che l’uomo aveva maturato con qualcuno o l’aiuto dato - come rivelato da Fabio Gaudenzi, nuovamente minacciato di morte solo sabato scorso nel carcere di Rebibbia - a chi non doveva? A poche ore dall’omicidio, tuttavia, l’attenzione si sposta su altro: sul funerale del capo della curva Nord. Famiglia e tifosi sono compatti nel pretendere pubbliche esequie. Già se lo immaginano il rito nella Basilica di Santa Maria Ausiliatrice e la camera ardente nella sede degli “Irriducibili” distante solo pochi metri. Il Questore di Roma Carmine Esposito però dice no: «Per motivi di sicurezza e ordine pubblico» viene imposto un funerale in forma privata nella cappella del cimitero di Prima Porta sulla via Flaminia. Inizia un braccio di ferro che si distenderà solo quando autorità e Questura convergono sul rito al Santuario del Divino Amore, fissato per il 21 agosto, con l’ingresso in chiesa contingentato e autorizzato solo a 100 persone. Ma questo tuttavia non vieterà lo sfogo di un “popolo” che risponde all’estremismo di destra e alla violenza. “Diabolik” verrà celebrato con saluti romani e minacce ai cronisti, con la Curva che si ricompatta in un piazzale assolato sull’Ardeatina. Con volti noti alle autorità che sfileranno a bordo di suv e auto di grossa cilindrata, sfoggiando ai polsi rolex, bracciali tempestati di diamanti e vestendo le magliette con l’immagine di quegli occhi. Gli occhi di “Diabolik”.

GAUDENZI DAL CARCERE: «HO PAURA, VOGLIONO UCCIDERE ANCHE ME». Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 17 settembre 2019. «Minacce di morte sabato 14 ore 15.35. Mi trovo nella sezione B-12 piano terra, cella numero uno. Anche questa volta la polizia penitenziaria non è stata in grado di identificare l’autore. Sono asserragliato da 72 ore nella mia cella per paura». È un biglietto scritto di pugno da Fabio Gaudenzi. L'estremista di destra arrestato il due settembre per detenzione abusiva di armi. L'uomo teme ripercussioni per quello che ha raccontato agli investigatori. Dopo i video postati su You Tube, dello scorso due settembre, in cui sostiene di essere a conoscenza dei mandanti dell'omicidio dell'ultras Fabrizio Piscitelli, 53 anni, assassinato da un killer il 7 agosto in una panchina al parco degli Acquedotti. Gaudenzi ha paura ed è convinto di essere anche lui potenzialmente vittima di un omicidio. Tuttavia, con molta probabilità, le minacce ricevute in carcere, provengono da qualcuno che lo ritiene un "infame" per il solo fatto che sta fornendo elementi (tutti da verificare) alle forze dell'ordine sul caso Diabolik. Piscitelli e Gaudenzi condividevano la fede calcistica, ma anche quella politica. Si dichiaravano dei "fascisti". Gaudenzi, ma è una pista al vaglio degli inquirenti, sostiene che Diabolik sia stato ucciso per una questione collegata ad un grossa partita di oro, due quintali, acquistata in Africa e da far entrare in Europa. Una vicenda che coinvolgerebbe - sempre secondo quanto Gaudenzi ha riferito agli investigatori - Filippo Maria Macchi. Quest'ultimo avrebbe incassato i soldi da Gaudenzi «intorno al milione di euro», e poi sarebbe sparito con il metallo prezioso e il denaro. Gaudenzi - questa la sua versione - avrebbe richiesto l'aiuto prima di Maurizio Terminali e poi di Diabolik, vecchi amici camerati. Ebbene, il primo sarebbe morto per overdose a fine giugno, «l'avrebbero ucciso», afferma Gaudenzi mentre Piscitelli è stato assassinato con un colpo di pistola il 7 agosto. I due amici, nella narrazione di Gaudenzi, sarebbero stati fatti fuori dopo avergli detto dove si trovava Filippo Maria Macchi. Una versione degli fatti al vaglio della procura che, comunque, non la considera la principale pista da seguire per scoprire mandanti e assassino di Diabolik.

QUANTI MISTERI DIETRO L’OMICIDIO DIABOLIK. Marco De Risi per Il Messaggero.it il 25 agosto 2019.  Il Diablo usava telefoni criptati. Apparecchi di ultima generazione dai quali è impossibile estrarre dati come le chiamate in entrata e in uscita e neanche i messaggi ricevuti e spediti. Un mistero in più per un delitto che col passare dei giorni rimane irrisolto e indecifrabile. Fabrizio Piscitelli, 53 anni, alias Diabolik, capo degli Irriducibili della Lazio, è stato ucciso la sera del 7 agosto su una panchina al parco degli Acquedotti di via Lemonia, al Tuscolano. Ecco che entra in azione un killer su commissione dalla mira infallibile: vestito da corridore, spara un solo colpo di piccolo calibro, uccidendolo all'istante. Piscitelli crolla sul terriccio con un proiettile in testa. Sono gli agenti della Squadra Mobile, coordinati dalla Procura ad indagare. I poliziotti sequestrano il cellulare di Diablo rimasto sulla panchina dell'omicidio. Sono speranzosi di trovare tracce utili per delineare almeno il contesto dell'esecuzione. Invece, non c'è niente da fare: l'apparecchio è criptato, impossibile estrapolare qualunque informazione. La storia dei cellulari protetti rende bene l'idea, qualora ce ne fosse bisogno, di un omicidio inaspettato quanto importante dal punto di vista della criminalità organizzata romana. La passione per la Lazio di Diabolik non c'entra nulla in questo mistero. C'entrano, invece, secondo gli inquirenti, i suoi rapporti annosi con banditi che hanno fatto la storia criminale romana. Come ad esempio il clan dei Senese, camorristi trapiantati a Roma ormai da più di 20 anni. Ma non solo i Senese sono entrati nel mondo criminale di Fabrizio Piscitelli monitorato anche nell'indagine Mafia Capitale: i suoi rapporti con Massimo Carminati e la banda di albanesi che oltre a tifare sugli spalti, sarebbe stata anche manovalanza criminale. Sono stati trovati tre cellulari nella disponibilità di Piscitelli: tutti criptati. E questo cambia anche l'individuazione di chi può averlo venduto al killer. Per forza qualcuno deve avere detto al sicario che avrebbe potuto trovare il capo ultrà biancoceleste su una panchina al parco. Diabolik è stato ucciso con il suo autista a fianco. L'uomo un cubano, è scappato ed è stato bloccato in mezzo al traffico dalla polizia. Può essere stato lui il basista dell'omicidio? La risposta è sempre più negativa soprattutto se l'uomo che ha chiamato il killer l'ha fatto con un telefono schermato. Gli investigatori stanno cercando di decriptare i telefonini ma non è assolutamente facile. Si tratta di cellulari che hanno una speciale applicazione che azzera qualunque operazione effettua l'apparecchio. Ma gli inquirenti continuano a lavorare notte e giorno per risolvere un omicidio eccellente. Una morte, quella do Diabolik, che per frequentazioni e modalità d'esecuzione sembra uscita da un film di spionaggio.

Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 16 settembre 2019. Cresce all'ombra degli ultras, il Diabolik criminale. Una metamorfosi che ha la sua genesi con il ricatto ordito nel 2006 contro il nuovo patron biancoceleste, Claudio Lotito, e che si evolve con l' arresto, da latitante, il 25 ottobre 2013, con l'accusa di traffico di hashish, mentre a casa di un amico a Casalotti guarda la partita Apollon Limassol-Lazio di Europa League. E infine si completa con Diabolik al servizio del clan Senese per la vendita della droga a Ponte Milvio. In una sola parola camorra, e al soldo di Michele o' pazzo. Ma i gradi di ufficiale del crimine Piscitelli li guadagna anche in virtù del rispetto che gli porta un certo Massimo Carminati. Il Cecato con cui Piscitelli condivide l' ideologia neofascista e che è dietro a molte delle trame oscure della Capitale. Si diceva che Fabrizio Piscitelli di mestiere faceva l' ultras. E in realtà, questa etichetta, gli rimarrà cucita addosso a vita. La panchina su cui è stato assassinato, il 7 agosto, è diventato un altarino per i tifosi violenti di qualsiasi fede calcistica. Ma ciò che aveva distinto Piscitelli, da molti altri suoi colleghi, era stata la capacità di trasformare in lucrosa fonte di guadagno una passione. Tra l'altro, anche la fortuna, aveva giocato a suo favore. Il suo prestigio, di capo della Nord, aveva coinciso con le glorie della Lazio. In dieci anni la squadra si era trasformata. Da quel lontano e primo campionato degli Irriducibili in curva, 1987- 1988, a combattere in serie B contro Barletta e Sambenedettese, il club era approdato nel gotha del calcio a giocare con corazzate come Milan, Real Madrid o Manchester. Il merchandising della squadra e dei gadget, collegati alla curva, volava perciò alle stelle. Ed era in queste circostanze che Diabolik si era distinto. Aveva mostrato una certa capacità, condivisa con l' allora direttivo della Nord, ad inserirsi nel business della promozione dei prodotti legati al tifo calcistico. Anche grazie a una società, in epoca Cragnotti, con le maglie larghe, che foraggiava gli ultras. Un cambio di registro categorico con Lotito che aveva destabilizzato Piscitelli, Fabrizio Toffolo, Yuri Alviti e Paolo Arcivieri. Che si trovarono un' ultima volta uniti nel ricattare il nuovo presidente che, dalle loro mani, aveva levato un giocattolo molto redditizio. La grande estorsione al numero uno biancoceleste, insediatosi il 19 luglio del 2004, era maturata in questo contesto. E si era conclusa con le porte di Regina Coeli che si erano spalancate per Diabolik. Tutto aveva avuto inizio nel 2006. Quando un fantomatico gruppo ungherese, capitanato dall' ex stella biancoceleste Giorgio Chinaglia, pretendeva la vendita delle quote del club. Uno pseudo-gruppo imprenditoriale la cui consistenza economica come emergeva dalle carte era nulla: «producevano (il gruppo ungherese ndr) alla Consob tre modelli di bonifico per un importo di 24milioni di euro, falso». Ma il gruppo d'acquisto più che a pagare puntava, a suon di minacce, a convincere Lotito a cedere la società. Il braccio armato era costituito dai 4 ultras delusi dal nuovo corso biancoceleste: Piscitelli, Toffolo, Alviti e Arcivieri, per questo tutti condannati. Così si era scatena una campagna anti Lotito a partire, naturalmente, dalla curva Nord, striscioni e cori contro il presidente, passando per un tam tam radiofonico sempre anti patron e pro gruppo ungherese, fino a delle lettere minatorie recapitate alla signora Lotito e, almeno in una circostanza, ad un tentativo di aggressione fisica allo stesso numero uno del club. Tuttavia gli anni passati tra carcere e domiciliari non servirono a Diabolik per rimettersi sulla buona strada. A dicembre 2009, da uomo libero, ma daspato per tre anni, si dedicò alla sua nuova attività. Imprenditore dello spaccio. Aveva importato nel febbraio del 2011 una partita di hashish dalla Spagna di un quintale, passando da Civitavecchia. Droga che doveva riversare sulla piazza romana. Non sapeva Diabolik di avere sul collo il Gico della Finanza. Era riuscito a sfuggire inizialmente alle manette a settembre, salvo poi uscire allo scoperto per colpa del suo vecchio amore: la Lazio. Venne arrestato a casa di amici un mese dopo, il 25 ottobre 2013, mentre guardava un match di Europa League. Finirà di scontare la pena a luglio del 2017. Ma l'ennesimo arresto non aveva indebolito Piscitelli. Anzi semmai, il prestigio di Diabolik, ne usciva rafforzato. La sua reputazione travalicava i confini degli stadi per stabilirsi, definitivamente, nella mala romana. Nel frattempo, a luglio del 2014 e del 2016, la procura aveva messo i sigilli al suo immenso patrimonio (poi in parte restituito) da più di due milioni di euro, tra case conti correnti e marchi, come quello di Mr Enrich, collegata alla gadgettistica laziale. Ma ciò che per gli inquirenti aveva rappresentato la prova del nove, erano state le indagini di Mafia Capitale. I più pericolosi criminali parlavano o facevano affari con il capo ultras. Piscitelli, almeno dal 2010, era in affari con Michele Senese (lo conosceva dai primi anni 90) e disponeva di una batteria di picchiatori albanesi, primo fra tutti Arben Zogu condannato nel 2013 per associazione di tipo mafioso. Del gruppo facevano parte anche Orial Kolaj (un pugile), Yuri Shelever e Adrian Coman. La banda, per conto della camorra, controllava una piazza di spaccio nel fortino di Massimo Carminati: Ponte Milvio. «Non lo so come ha fatto - raccontava Ferdinando Mazzalupi - in questi quattro anni (2010 -2014, ndr) ha fatto una scalata (Diabolik, ndr) che non vi rendete conto!». Piscitelli e soci, sotto la benedizione di Senese, avevano preso il controllo di diversi locali commerciali, tra cui il pub Coco loco. «Non si muovono da la - si legge nelle intercettazioni di Mondo di Mezzo - tutto il giorno stanno la, è il loro punto di riferimento, è tutto la». Lo stesso Carminati, intercettato all' epoca mentre parlava con il suo braccio destro, Riccardo Brugia, ne analizzava l'ascesa: si sono «spostati da questa parte», Ponte Milvio per l' appunto. Limitandosi a commentare: «Non sono cose nostre». A differenza di quasi un anno Carminati e Piscitelli vengono arrestati. L' ultras biancoceleste però, nel frattempo era anche uscito di galera, a luglio del 2017. Tuttavia la giungla criminale romana si era radicalmente modificata rispetto a quando, quattro anni prima, era finito in cella. I punti di riferimento erano saltati, Il Cecato al 41 bis come l' amico e protettore, Michele Senese e il picchiatore albanese Zogu. Con la mappa della malavita squadernata Piscitelli aveva trovato sostegno nella solita curva e negli ambienti della destra estrema. Altro territorio su cui Diabolik poteva sempre contare. I neofascisti nella Nord erano di casa, avevano fornito una presunta base ideologica, fondata sulla violenza, che aveva sempre rappresentato il carburante per gli ultras. D' altro canto un riconoscimento da vero camerata, a Piscitelli, era stato concesso al suo funerale il 21 agosto. Il feretro aveva sfilato sotto una foresta di braccia tese, tra i saluti romani di vecchi neofascisti come Maurizio Boccacci e Bruno di Luia. Un simile tributo era stato concesso, lo scorso 12 settembre dopo le esequie, solo al fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie.

Giuseppe Scarpa e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 16 settembre 2019. Il battesimo degli Irriducibili, in curva Nord, porta la data del 18 ottobre 1987. È Lazio - Padova il palcoscenico in cui si esibisce un nuovo gruppo di ultras, nato da una costola degli storici supporter biancocelesti, gli Eagles. Sono violenti, aggressivi e politicizzati. Nella nuova compagine scalpita un giovanissimo Fabrizio Piscitelli, 21 anni. Non è ancora il capo carismatico del tifo estremo laziale ma ben presto si farà strada. Perderà per due volte il comando ma lo riconquisterà sempre, in tre occasioni fino alla morte del 7 agosto scorso.  «Non erano capaci a menare e ci siamo presi la Nord». Lo ripeteva alle giovani leve degli Irriducibili, Diabolik. Un soprannome che forse deriva da un passato da rapinatore. Quelli che, nel 1987, non erano ancora nati dovevano insomma sapere la storia del gruppo. E lui non si dispensava dal raccontarla. Una sorta di narrazione mitica delle origini. Una storia condita dalla prepotenza, una sorta di stile british e il fanatismo politico. A dire il vero anche gli Eagles erano molto vicini all' estrema destra, ma da Piscitelli e camerati erano considerati dei vigliacchi. Tanto che a suon di botte gli Irriducibili si presero la Nord. Due gli scontri, tra i tanti, che ne hanno segnato la fine, gli Eagles si sciolsero nei primi mesi del 1993. In un Lazio-Barletta del 1988 ci fu una rissa stile far west. L' ultima, in una trasferta a Genova, contro la Samp del 2 febbraio del 1993. Ad ogni modo, nel bene o nel male, gli Irriducibili rivoluzioneranno il modo di stare in curva. Impongono nella Nord la loro legge: niente più tamburi ma tifo all' inglese ed anche esibizione di simboli politici legati al fascismo, cori da stadio razzisti (da ricordare l' accoglienza che per mesi fu riservata allo stadio e sui muri di Roma al centrocampista di colore Aron Winter) e una progressiva tendenza alla gestione manageriale della curva. In cui spicca, appunto, Piscitelli. Alto e magro in gioventù, spesso con i Ray-Ban a goccia da destra italiana che su radio e giornali ripeteva: «Siamo fascisti, gli ultimi rimasti». Un capo carismatico che in una intervista del 2000 spiegava la filosofia che aveva imposto ai suoi ragazzi: «Noi per il bene della Lazio volevamo andare dentro gli stadi, entrare nelle altre curve e ammazzarli. Perché noi ci dovevamo sentire vivi in un mondo di morti». «Noi i pullman» degli altri tifosi «li bloccavamo, gli spaccavamo» i finestrini, e «gli tiravamo la torcia dentro, aspettavamo che uscissero fuori per ammazzarci». Un modo questo - sempre per Diabolik, per «sentirsi vivi». Una condizione di gioia superata unicamente - secondo il suo pensiero - dallo «scontro con le guardie».  Il 30 gennaio del 2000, in occasione di Lazio-Bari nell' annata del tricolore, fecero il giro del mondo le immagini dello striscione esposto in curva nord in onore alla tigre Arkan: il riferimento era a Zeljko Raznatovic, criminale di guerra serbo accusato di genocidio e crimini contro l' umanità, morto in quei giorni. L' apoteosi porta la data del 14 maggio del 2000. La Lazio vince lo scudetto, gli Irriducibili sono il gruppo egemone nella Nord e a comandare, ormai da diversi anni, c' è un gruppo di 30enni. Oltre a Piscitelli ci sono Yuri Alviti, Fabrizio Toffolo e Paolo Arcivieri. Ma si sa, dopo aver toccato il punto più alto, può iniziare solo la discesa. E così accadde per la Lazio che con Sergio Cragnotti rischiò di fare crack mentre Piscitelli, da lì a qualche anno, conoscerà il carcere, perderà la leadership della curva e i rapporti di amicizia con il resto del direttivo. Il club venne acquistato da Claudio Lotito il 19 luglio del 2004. Il nuovo presidente mise subito le cose in chiaro: chiuse i rubinetti e non foraggiò più la tifoseria come il suo predecessore. Finiti i fasti dell' epoca Cragnotti per Lotito la parola chiave era risparmio. La nuova politica piacque poco a chi, fino a quel momento, era riuscito a vivere alla grande facendo di mestiere l' ultras.

Tra questi, appunto Piscitelli e i magnifici tre che con lui avevano guidato la Nord. È l' inizio dello scontro tra il nuovo patron e gli Irriducibili. Famoso l' incontro con Piscitelli raccontato da Lotito: «Presidente, sono Diabolik». «E io sono l' ispettore Ginko», replicò il numero uno del club. Diabolik, a questo punto, con il trio Alviti, Arcivieri e Toffolo ricattò Lotito affinché vendesse il club a un fantomatico gruppo ungherese capitanato dall' ex stella biancoceleste Giorgio Chinaglia. Il risultato fu una condanna per estorsione per i 4 ultras. Tre anni e due mesi per Diabolik, Piscitelli fu messo fuori gioco da ottobre del 2006 a dicembre del 2008. In più incassò un daspo di tre anni. Il gruppo storico perse la leadership in curva che venne presa da Gianluca Tirone. Ma nel 2012 Piscitelli si riprese ciò che aveva perso. È di nuovo al vertice della Nord assieme ad Alessandro Marongelli, detto il Cinese. Arcivieri e Alviti avevano abbandonato la Nord mentre Toffolo, che nutriva ambizioni da leader, perse la battaglia proprio con l' ormai ex amico Piscitelli. Diabolik però fece appena in tempo a festeggiare la coppa Italia vinta con la Roma, il 26 maggio 2013, che subito venne arrestato. Questa volta per droga ad ottobre del 2013. Finì di scontare la pena a luglio del 2017. Il trono della Nord rimase di nuovo vacante, Piscitelli in una diarchia con il cinese lo riprenderà nel 2018. L' impegno, però, non era più lo stesso. Piscitelli distratto dalla sua nuova principale fonte di guadagno, la droga, non era più il capo carismatico dei primi anni 2000. Le ultime iniziative, che portano il suo marchio di fabbrica, sono un volantino sessista a cui si impone alle donne di non occupare i primi dieci gradini della Nord e gli adesivi xenofobi di Anna Frank con indosso la maglietta della Roma. Siamo ormai ai titoli di coda, il 10 maggio del 2019 una bomba carta esplode davanti alla saracinesca della sede degli Irriducibili della Lazio in via Amulio. Diabolik minaccioso replica dicendo in un' intervista: «Siamo pronti a tornare al terrorismo degli anni 70». Insomma la reazione è violenta in salsa Irriducibili come quelli che il calcio te lo danno in bocca, recita lo slogan che accompagna il loro simbolo, Mr Enrich.

CHI HA AMMAZZATO "DIABOLIK"? C’È UNA PISTA CHE PORTA ALL’ASSE TRA CASAMONICA E ALBANESI. Alessia Marani per “il Messaggero” il 18 settembre 2019. Davide Barberis, il personal trainer dell’Infernetto arrestato martedì dall’Antidroga della Squadra Mobile aveva contatti molto stretti con gli albanesi amici di Diabolik. In particolare con Dorian (“Dori”) Petoku, il quarantenne nipote di Arben Zogu, “Ricky”, leader della batteria di Ponte Milvio al soldo dei napoletani di Senese e di cui Dori, stando agli inquirenti, aveva preso il posto dopo l’arresto dello zio (in un blitz contro i “nuovi” casalesi ad Acilia).Con Petoku, Diabolik aveva sicuramente una cosa in comune: il dover tutelare i suoi affari, qualunque essi fossero, rendendo inaccessibile e indecifrabile il contenuto dei suoi tre telefonini, tutti rinvenuti dopo l’omicidio ma muti di fronte agli inquirenti. Telefoni criptati dello stesso tipo erano in dotazione anche a elementi di spicco della mala romana, come Salvatore Casamonica (arrestato dai carabinieri nel luglio 2018) di cui si riforniva proprio tramite Petoku. Una circostanza emersa dalle attività investigative della Guardia di Finanza nell’ambito dell’operazione Brasile low cost che, a gennaio, ha spedito in carcere Dori e il montenegrino Tomislav Pavlovic, un passato come paracadutista, pilota di elicotteri, nonché rapinatore. Proprio parlando di quest’ultimo con Brugia, Massimo Carminati, lo descriveva come un soggetto «brutto forte», «che prende la pistola e  spara». Nel febbraio 2018, in un summit al caffè Trussardi di Milano Casamonica incontra un infiltrato della Finanza, “lo svizzero”, per organizzare l’arrivo a Roma di 7 tonnellate di cocaina dal Sudamerica; al suo fianco appaiono Petoku e Pavlovic, una «triade», scrive il pm,che forma «un vero e proprio sodalizio, stabile e dotato di mezzi d’avanguardia». Casamonica, nell’occasione, infatti, consegna allo svizzero un telefono cellulare criptato con premura di illustrargliene le caratteristiche: «Nessuno può entrare nel nostro sistema...perché è a uso  militare...se tu lo accendi qua è un telefono normale... invece tu lo devi accendere così per usare il nostro sistema... adesso possiamo dirci quello che vogliamo, nessuno controlla, non è rintracciabile niente... impossibile. Questo telefono si paga 1500euroogniseimesi.. i messaggi si cancellano dopo 7 giorni in automatico... io con questo parlo in tutto il mondo (...) non puoi lavorare se non hai questi telefoni...». Il telefono fornito allo svizzero era un dispositivo modello  BQAquaris, utilizzato - riportano gli inquirenti -dalle organizzazioni criminali più agguerrite in quanto ritenuto sicuro per via di una  modifica apportata alkernel (fulcro del sistema operativo). Attraverso una particolare combinazione di tasti si attiva un sistema operativo parallelo dal quale poi si  accede a una chat crittografata nascosta. In alcuni casi da questi apparecchi vengono rimossi fotocamera, microfono e porta Usb; non è possibile associare la sim all’account e un allarme anti-intrusione controlla che i file non siano manomessi. Insomma, un telefono  come quelli trovati in uso a Diabolik.

Ma chi li riforniva al sodalizio? Ci pensava l’albanese, come risulta chiaro da un precedente incontro, avvenuto il 12 dicembre 2017 a Grottaferrata (la città di Fabrizio Piscitelli) in cui Casamonica, Dori, “il francese” (un altro uomo sotto copertura),un non meglio identificato Massimiliano e un ulteriore soggetto rimasto agli atti sconosciuto, concordano il piano per l’arrivo dello stupefacente. Una riunione stabilita da tempo, la cui preparazione era sfuggita ai radar degli investigatori, segno che era stata organizzata con sistemi alternativi a quelli tradizionali. Registrato dalle ambientali, Casamonica chiedeva più volte a Petoku se gli avesse portato un telefono: «A Do’ ciao! M’hai portato il telefono?». «No perché lo devo andare a prende domani però...». Le frequentazioni degli slavi con Casamonica, non erano occasionali. Il 12 aprile 2017 sia Pavlovic che Salvatore vengono geolocalizzati in un’area molto prossima (se non la stessa) al parco degli Acquedotti, il luogo dove Diabolik è stato ucciso, probabilmente attirato in trappola da una persona di fiducia la cui identità resta “criptata” nei telefonini. Chi ha ammazzato Diabolik? In questo thriller che arrovella gli inquirenti c’è una pista che porta a screzi insuperabili. Piscitelli che è descritto come «uno che se aveva i cinque minuti andava fuori di testa ed era prepotente», potrebbe avere pestato i piedi alla persona “sbagliata”. E nella geografia criminale romana, orfana di Michele Senese condannato a due ergastoli, non avrebbe più avuto paracaduti.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 18 settembre 2019. «Un bambino africano era stato sequestrato perché non stavano consegnando l'oro», è Fabio Gaudenzi, soprannominato lo Zoppo, che parla agli investigatori. È l'uomo che ritiene di essere a conoscenza dei mandanti dell'omicidio Diabolik. Una versione, però, tutta da riscontrare da parte dei pm. Ad ogni modo lo Zoppo, nel suo interrogatorio del 9 settembre, aggiunge un dettaglio perché, questo il senso della sua rivelazione, il gruppo di persone che hanno organizzato il contrabbando di metallo prezioso sono disposti a tutto: sequestrare un bambino e quindi capaci anche ad uccidere. Pertanto avrebbero la forza di eliminare uno come Fabrizio Piscitelli, assassinato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto al parco degli Acquedotti.

IL SEQUESTRO. Ma andiamo con ordine, per ricostruire quella che è una vicenda intricata e su cui gli inquirenti hanno diversi dubbi. In pratica Gaudenzi spiega che, nei giorni in cui si stava concludendo l'affare, è l'estate del 2014, qualche cosa va storto. Perciò, il gruppo che doveva comprare l'oro, decide di forzare la mano. Sequestrare un bambino di 9 mesi, figlio di un notabile africano, per farsi consegnare il metallo prezioso. Il blitz produce il suo effetto perché - sempre stando a quanto affermato dallo Zoppo - i 300 chilogrammi di oro grezzo vengono consegnati e il bimbo, dopo una settimana, è di nuovo tra le braccia della madre.

L'IMBROGLIO. Dopodiché Gaudenzi viene tagliato fuori dall'affare. Viene lasciato in un mare di guai, dopo essersi esposto con personaggi, suoi amici neofascista, del calibro di Massimo Carminati, Riccardo Brugia e i fratelli Bracci. A loro, infatti, erano stati chiesti i soldi per finanziare parte della spedizione. Il viaggio era stato lungo e dispendioso: 4 mesi in giro per il Burundi, Congo, Kenya a bordo di un jet privato e un investimento intorno al milione e mezzo di euro. Intanto, nei cinque anni che passano dal viaggio africano, fino al due settembre scorso, giorno in cui Gaudenzi decide di voler parlare con gli inquirenti, accade di tutto. Deflagra l'inchiesta mondo di mezzo che trascina a fondo Carminati e Brugia, con sentenze per associazione a delinquere di stampo mafioso. Nella rete dei carabinieri del Ros finisce Gaudenzi che incassa una pena per usura a due anni e otto mesi, proprio per i soldi (una piccola parte) prestati a strozzo a uno dei registi del contrabbando di oro, Filippo Maria Macchi. Lo Zoppo, nel frattempo, deve scontare anche un obbligo di dimora a Roma. Una misura che gli impedisce di andare a cercare gli autori dell'imbroglio, tra cui Macchi. È in mezzo alle difficoltà che Gaudenzi, sempre secondo la sua versione, si rivolge ai due amici camerati. Il primo è Maurizio Terminali, il secondo Piscitelli. Terminali trova Macchi a Siena e poi lo comunica allo Zoppo. Salvo poi morire a fine giugno per un'overdose, ma Gaudenzi crede sia stato ammazzato. Entra in gioco allora Diabolik che si mette sulle tracce dell'uomo e lo trova ad Anzio. Dopo poco viene assassinato. Le sue parole sono ora al vaglio degli inquirenti che dovranno stabilirne l'attendibilità o peggio capire se si tratta di deposizioni volte a depistare le indagini. Infatti il video che ha postato su YouTube Gaudenzi, il due settembre, a tratti è poco chiaro, come se volesse inviare dei messaggi a qualcuno.

I NARCOS DI ROMA. Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 18 settembre 2019. Dalle principali piazze di spaccio della città a Fabrizio Piscitelli, l' ex capo ultrà della Lazio freddato il 7 agosto nel parco degli Acquedotti. C' è tutto questo nell' indagine Lucifero2017 che ieri ha portato in carcere 19 persone e ad altre due ha imposto l' obbligo di firma. Coordinata dal pm Nadia Plastina della Dda e condotta dalla squadra mobile, l' inchiesta dipinge una città in cui la droga scorre a fiume e con metodi sempre più sofisticati. Ecco così che, oltre ai carichi " scortati" da uno scooter per assicurarsi che arrivino a destinazione, compaiono giovani aspiranti spacciatori che si ispirano ai vecchi boss della mala cittadina (uno di loro, in omaggio al " Tartaruga" si faceva chiamare " Tartarughino") che effettuano i servizi in taxi per eludere i controlli delle forze dell' ordine. Da Torpignattara ad Acilia, da La Rustica all' Infernetto, da Fonte Nuova alla Marranella, passando per Tiburtino e Ponte Milvio. Ed è qui, a pochi passi dal Tevere, che gli investigatori hanno trovato il legame con Diabolik che, secondo gli inquirenti, è stato il capo della " batteria di Ponte Milvio". Il collegamento è Davide Barberis, formalmente personal trainer, di fatto spacciatore di livello e molto vicino a Dorian Petoku, nipote di Arben Zogu e vicino a Piscitelli. Petoku, attualmente detenuto in Albania in attesa di estradizione e accusato essere in " narcoaffari" con Salvatore Casamonica, era un personaggio noto nella vita notturna della capitale. Frequentava i locali più noti di Roma Nord e di via Veneto, spendendo cifre blu per la sua "Dolce Vita". Da gennaio, circa, però, ha lasciato la città. E che le cose fossero cambiate lo aveva capito anche Barberis il quale si era allontanato dagli albanesi « con i quali - scrive il gip Costantino De Robbio - era in costante rapporto sin dall' inizio dell' indagine». D' altronde, viene intercettato mentre, parlando con un suo socio in affari dice: «Inizi a dare fastidio quando te la fai con gente più pesante». L' indagine nasce proprio dal gruppo dell' Europa dell' est ma apre nuovi scenari, svelando un mondo del narcotraffico in cui si affiancano vecchie e nuove figure della criminalità in un spartizione scientifica del territorio. Ci sono Fabrizio Capogna appartenente alla famiglia Capogna e Gaetano Giuseppe Mazza, siciliano, residente in Colombia per gestire da vicino gli illeciti traffici di droga, tuttora ricercato. Per la consegna dello stupefacente era stato collaudato anche un sistema ( ribattezzato " metodo Capogna") che avveniva attraverso la " staffetta" dell' auto che trasportava la droga: lo stesso Capogna accompagnava personalmente tutte le consegne di stupefacente seguendo l' auto condotta da complici che di volta in volta remunerava con denaro senza mai " toccare" lo stupefacente in modo da fugare eventuali arresti da parte delle forze dell' ordine. Ulteriore contatto di Barberis è stato il pregiudicato campano Egidio Longo detto "Gino Crodino", collegato alla camorra, che riforniva la zona del litorale romano. Poi ci sono gli emergenti sognano un futuro da Narcos. Uno di loro su Facebook, da Londra, scrive: «Compro droga».

MAFIA, DROGA E ORO: I SEGRETI DIETRO LA MORTE DI PISCITELLI. Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 18 settembre 2019. Il colpo di scena porta la data del due settembre. Un uomo incappucciato, con una pistola in pugno, in pantaloncini e con indosso una felpa grigia dice di essere a conoscenza dei mandanti dell' omicidio di Fabrizio Piscitelli, 53 anni. È a volto coperto ma declina le sue generalità: «Mi chiamo Fabio Gaudenzi, sono nato a Roma il 3 marzo 1972». Alle spalle una foto, un gruppo di ultras fuori dallo stadio San Siro a Milano e la scritta Opposta Fazione. È la frangia neonazista del tifo giallorosso. È un video delirante. Gaudenzi, soprannominato lo Zoppo, ben conosce la mala romana, è stato condannato per usura a 2 anni e 8 mesi nell' inchiesta mondo di mezzo. Amico e tirapiedi di Massimo Carminati è in ottimi rapporti anche con Piscitelli. Con loro condivide la fede politica, di estrema destra. Ciò che dice a tratti è farneticante: «Apparteniamo al gruppo storico dei fascisti di Roma Nord». Di questa sigla non c' è alcuna traccia. Ad ogni modo è chiaro che voglia essere arrestato. Ha in pugno un' arma e promette vendetta: «Ricordatevi tutti che lo Zoppo non dimentica». In poco tempo la polizia gli piomba a casa, finisce in manette e poi a Rebibbia in attesa di essere sentito dai pm della Dda Giovanni Muasarò e Nadia Plastina. Lui dice di voler parlare solo con Nicola Gratteri, procuratore capo a Catanzaro e storico conoscitore della ndrangheta. Lo Zoppo, in questo modo sembra, implicitamente, suggerire una pista che porta alla mafia calabrese. Un' ipotesi, a dire il vero, che gli investigatori stavano già battendo così come quella della camorra. Di fatto l' assassinio compiuto con quella modalità è tipico della criminalità organizzata, tant' è che i magistrati avevano, da subito, deciso di aprire il fascicolo per omicidio con l' aggravante mafiosa. Come accade nei posti in cui la mafia è di casa, anche attorno all' omicidio Diabolik, si alza un muro di omertà. Nessuno parla con gli investigatori, tutti stanno zitti soprattutto gli amici negli ambienti ultras che più di tutti, a parole, chiedono giustizia. Nessuno si presenta in procura, nemmeno i familiari, per cercare di costruire nei dettagli i rapporti di amicizia di Piscitelli. Il suo storico autista agli agenti della squadra mobile dice: «Arrestatemi, io non so niente». Muto insomma. E in silenzio rimangono anche i tre cellulari di Diabolik, nessuno fornisce un minimo aiuto per decriptarli. Eppure nelle ultime chiamate potrebbe nascondersi il nome dell' uomo che lo ha tradito facendolo cadere nella trappola che gli è costata la vita: l' appuntamento al parco degli Acquedotti. La procura, perciò, è costretta ad affidare gli smartphone ad una società estera nella speranza di riuscire ad esfiltrare i dati. D' altro canto un omicidio così brutale e plateale fa paura a molti e porta con sé un duplice messaggio, oltre ad eliminare un soggetto ingombrante che ha compiuto uno sgarbo, rappresenta anche una prova di forza che può avere questo significato: non provate a reagire siamo forti. Un assassinio che solo un' organizzazione criminale ben strutturata poteva pianificare ed eseguire, un killer travestito da runner che spara e corre via tranquillo. Tanto più che la zona del parco degli Acquedotti, dove Diabolik è stato freddato alle 18.50 del 7 agosto, è una fetta di territorio su cui la camorra esercita il controllo. Perciò, ragionano gli investigatori, l' omicidio forse si sarebbe consumato quanto meno con l' assenso dei napoletani. Anche se una prima smentita arriva dal capoluogo campano. In città, il padre di Michele Senese, l' anziano Vincenzo, piange la morte di Diabolik. D' altro canto Michele o' pazzo era l' uomo, secondo i rapporti del Gico della finanza e del Ros dei carabinieri, con cui era in affari Diabolik. Piscitelli, in un rapporto di subalternità, si interfacciava con un boss di spessore della camorra. Il punto, però, è che il 27 giugno 2013 Senese veniva arrestato. Quattro mesi dopo finiva in cella anche Diabolik con l' accusa di importare hashish dalla Spagna. Tuttavia Michele o' pazzo finiva in carcere, rinchiuso in regime di 41 bis, con la previsione di uscirne in un tempo indefinito. Mentre Piscitelli, a luglio del 2017, era un uomo libero, ma con meno agganci robusti, rispetto a prima, a Roma. La Capitale è una giungla i cui equilibri criminali cambiano velocemente, nell' arco di mesi. Di tutto può essere accaduto nei 4 anni passati da Diabolik tra domiciliari e carcere. GAUDENZI In questo clima di omertà è appunto Gaudenzi a spiazzare tutti. Una deposizione che non ha convinto del tutto gli inquirenti. Quando l' uomo si siede di fronte ai pm fornisce una teoria che nessuno, fino a quel momento, aveva ipotizzato: «Non si tratta di droga», sottolinea sicuro. «È una questione di oro». In realtà questa vicenda veniva trattata marginalmente nell' inchiesta mondo di mezzo, senza che la figura di Piscitelli venisse lambita. Lo Zoppo, però lo tira dentro. E spiega di averlo coinvolto lui in questo affare dopo essere stato imbrogliato da Filippo Maria Macchi. Gaudenzi si sarebbe esposto per recuperare parte del denaro, prestato dagli amici camerati, Massimo Carminati, Riccardo Brugia e i fratelli Bracci, per acquistare nel 2014 tre quintali d' oro in Africa. Macchi sarebbe scomparso con il metallo prezioso e i soldi, lasciando Gaudenzi in un mare di guai. Gli unici ad aiutarlo sarebbero stati due camerati Maurizio Terminali e Fabrizio Piscitelli. Il primo gli avrebbe detto che Macchi si trovava a Siena, salvo poi morire per overdose a fine giugno, «assassinato» per Gaudenzi. Mentre Diabolik gli avrebbe comunicato che il suo uomo era ad Anzio, salvo poi essere sparato. Questa insomma la versione dello Zoppo. Per ora l' unico che ha parlato, nella speranza che altri coraggiosi si facciano avanti per disvelare il mistero dell' omicidio di Diabolik.

È LA CAPITALE DELLA COCA: I TENTACOLI DEI GROSSISTI DAL CENTRO ALLE PERIFERIE. Rinaldo Frignani per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 18 settembre 2019. Decine di arresti per droga a settimana. Giri di spaccio che cambiano di mese in mese. Il prezzo della cocaina che al chilo può passare da 28-29 a 33 mila euro. E poi serate in discoteca con champagne ai tavoli, abitazioni di lusso, fuoriserie a disposizione. La conferma che il 2019 è l' anno dei narcos. E così cambia anche la mappa della droga nella Capitale: non più solo San Basilio e Tor Bella Monaca, con Ponte Milvio, Torrevecchia, Eur e Trastevere, perché tornano alla ribalta Torpignattara, Marranella (il rione della famigerata banda sgominata dalla polizia a metà degli anni Novanta, nonché teatro di sanguinosi regolamenti di conti), Infernetto, Tiburtino-Pietralata. E poi in periferia Acilia, La Rustica, Fonte Nuova. A ridisegnare lo scenario nel quale si muovono gruppi criminali più o meno collegati a esponenti della malavita organizzata, ma comunque con capacità operative molto elevate e possibilità economiche illimitate, sono stati gli investigatori della Squadra mobile, diretti da Luigi Silipo, con l'operazione «Lucifero 2017», portata a termine all' alba di ieri dalla sezione Narcotici con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia: 19 arresti, due obblighi di firma, le misure cautelari disposte dal gip Costantino De Robbio su richiesta del pm Nadia Plastina. Fra i personaggi di spicco in manette, secondo l'accusa, anche Davide Barberis, 42 anni, personal trainer, allenatore dei vip, collegato per chi indaga al clan degli albanesi che gestiva la piazza di spaccio di Ponte Milvio insieme con Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio ucciso in un agguato lo scorso 7 agosto nel parco degli Acquedotti, all' Appio-Tuscolano. In particolare con Dorian Petoku, appartenente al gruppo di Arben Zogu, già in affari con Diabolik. In una conversazione intercettata dai poliziotti proprio il personal trainer ammetteva: «Inizi a dare fastidio quando te la fai con gente più pesante». La droga, soprattutto cocaina, arrivava anche dal Sudamerica, con la collaborazione di Giuseppe Gaetano Mazza, detto «lo zio», 63 anni, residente proprio in Colombia e in rapporti con i cartelli dei narcos locali. È sfuggito alla cattura. Ma il suo era solo uno dei canali di rifornimento: i grossisti romani si occupavano poi della distribuzione sul territorio. Marranella e Torpignattara soprattutto, con capi zona diventati boss che controllavano gli affiliati, fornivano assistenza legale agli arrestati (un «sostegno morale» anche in tribunale), prospettavano punizioni in caso di sgarri. «L'indagine conferma che la Capitale è uno snodo centrale dello spaccio», afferma il procuratore facente funzione Michele Prestipino e il pm Plastina conferma ancora una volta come «gli albanesi abbiano acquisito un ruolo sempre più importante».

IL TRUCCO DEL TRAFFICANTE: NON TOCCAVA MAI LA DROGA. Rinaldo Frignani per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 18 settembre 2019. Già nove anni fa, a Tor Bella Monaca, i carabinieri quantificarono la portata dei suoi investimenti in un milione e mezzo di euro. Adesso, come hanno accertato gli investigatori della Squadra mobile, Fabrizio Capogna, 34 anni, abitava in un lodge nel golf club dell'Infernetto. La sua abilità nel trafficare in stupefacenti era quella di non toccare mai la droga, ma scortarne il trasporto fino a destinazione. La polizia lo definisce il «metodo Capogna», di uno dei protagonisti, secondo l' accusa, della riorganizzazione delle piazze dello spaccio romano, seguendo - come sottolinea il gip Costantino De Robbio - «un protocollo che appare studiato per un numero indefinito di casi». Appuntamenti in luoghi prestabiliti, senza parlarne al telefono, staffette in auto e moto noleggiati per segnalare le forze dell'ordine sul percorso, pagamento dei corrieri senza avere contatti con lo stupefacente. Dall'analisi delle intercettazioni è stato decriptato il codice con il quale venivano chiamate le dosi: «birre», a volte «biglietti», anche al centro di proteste da parte dei clienti per la loro qualità. Battute d'arresto che hanno dato però agli investigatori un quadro di ciò che accadeva, come la perquisizione a casa della «retta», la compagna di un indagato, che aveva tentato il suicidio e che custodiva la droga, che ha portato alla scoperta in una cassaforte di due etti e mezzo di cocaina. Oppure l' incidente con il cliente al quale è stato consegnato un vero pacchetto di sigarette al posto di quello con lo stupefacente. Seguendo il personal trainer Davide Barberis la polizia ha ricostruito la rete di spacciatori. Egidio Longo, 59 anni, detto «Gino Crodino», per chi indaga vicino agli ambienti della camorra, ad Acilia e all' Infernetto - da qui il nome dell' operazione Lucifero 2017, con l'anno riferito all' inizio dell'indagine -, Luca De Dominicis (31), soprannominato «Zoppo» con Davide Fedeli (29), alla Rustica. Anche quest'ultimo si riforniva da Capogna - a casa del quale è stato trovato un camino col doppiofondo -, restando in contatto con utenze telefoniche intestate a stranieri non rintracciabili. Insieme riempivano di droga Marranella e Torpignattara, dove nella prima il boss era diventato Ghareb Hassan Omar Alì, detto «Mauro», romano di 24 anni, con Daniele Alessandri (35), «Ciccio», detenuto a Viterbo, mentre Davide Sellas (33) e Gabriele Cirelli (24) si occupavano della preparazione e della consegna delle dosi. A Torpignattara invece «Ciao so' Sma» era il messaggio sms con il quale il capo zona, Flavio Messina, 43 anni, detto «Sma» appunto, avvertiva i complici di aver cambiato utenza perché non più sicura. Gestiva lo spaccio dal bar della moglie. Con un altro trucco: usare sempre i taxi per consegnare la droga.

Emilio Orlando per leggo.it il 4 ottobre 2019. C’è un sospettato. I poliziotti sanno nome, cognome e soprannome. È romano e legato all’ambiente del narcotraffico. Per l’omicidio di Diabolik, il leader degli Irriducibili freddato ad agosto si è arrivati alla svolta investigativa. Fabrizio Piscitelli, assassinato su una panchina del parco degli Acquedotti a Roma lo scorso 7 agosto con un colpo di pistola sparato dietro la nuca all’altezza dell’orecchio. Le indagini della sezione omicidi della squadra mobile della questura, che indaga per omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso, sembrano esser arrivate a un punto chiave. Si sta stringendo attorno ad un sospettato che al momento è irreperibile. Il killer, leggermente zoppo ad una gamba, che ha sparato con la pistola quasi a bruciapelo, si sarebbe avvicinato a Diablo e lo avrebbe freddato a tradimento senza dargli nemmeno il tempo di reagire. A poca distanza c’era anche l’autista cubano, con un passato di addetto alla reception di una struttura religiosa della Capitale e guardia spalle di troupe televisive impegnate in inchieste giornalistiche. Lo straniero che lavorava alle dipendenze di Piscitelli da una settimana e che ha assistito all’ esecuzione ha fornito agli investigatori elementi utili oltre che per ricostruire la dinamica, anche per l’identificazione del presunto assassino. La moglie di Diabolik e i familiari hanno riferito anche loro particolari che sembrano combaciare con il racconto del testimone oculare. La telecamera di video sorveglianza del palazzo di fronte alla scena del crimine ha immortalato e restituito alla polizia le immagini della fuga del sicario. Gli esami antropometrici sulla sagoma che fuggiva verso il marciapiedi opposto alla panchina dove giaceva il cadavere, sembrano anche avvalorare i racconti delle tante persone che a quell’ ora frequentavano il parco. La fuga in moto è stata ripresa anche da altre telecamere installate nell’ isolato. Il delitto così efferato del leader della Curva Nord sembra maturato per vecchie ruggini che correvano fra i due. La ricostruzione allontana quella che gli investigatori definiscono come «una barzelletta», la storia dell’oro africano tirato in ballo da Fabio Gaudenzi. Questa ipotesi è stata accantonata dalla Procura. Nelle prossime ore potrebbero esserci colpi di scena.

CHI HA AMMAZZATO DIABOLIK? IL NOME DEL KILLER NELLE CHAT. Alessia Marani per il Messaggero il 10 ottobre 2019. C'è un identikit dell'uomo che ha sparato a Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, nel parco degli Acquedotti a Roma. E gli inquirenti nelle ultime settimane stanno raccogliendo elementi preziosi per stringere il cerchio attorno al killer, a partire dalle riprese audio-video registrate dalle telecamere dell'edificio di via Tiburtina che ospita gli uffici di Gianluca Ius, imprenditore già noto per le vicende dell'inchiesta di Mondo di mezzo (fu indicato come il custode del tesoro nero di Carminati, accusa che non trovò alcun riscontro) e implicato con il commercialista Marco Iannilli nella bancarotta Arc Trade, società già coinvolta nell'inchiesta Enav Finmeccanica. É Ius l'ultima persona a vedere vivo Piscitelli il pomeriggio del 7 agosto, prima dell'appuntamento con la morte in via Lemonia. «Fabrizio venne a trovarmi intorno alle 17,30 - racconta - si intrattenne per un'oretta ed era in compagnia del suo autista cubano. Non mi era sembrato preoccupato, solo stanco. Mi diceva che non vedeva l'ora di andare in vacanza, al mare, ma non sapeva a chi lasciare i suoi cani». Ius ricorda che «Fabrizio stringeva il telefonino in mano, non mi pare avesse ricevuto chiamate ma si stava scambiando dei messaggi con qualcuno. A un certo punto ha detto al cubano: Dai andiamo a sto appuntamento così poi partiamo per Anzio. In serata, infatti, doveva raggiungere dei nostri amici ormeggiati in porto per festeggiare un compleanno, in barca, direzione Ponza. Io gli dissi che non sarei andato perché dovevo lavorare. E lui mi prese in giro: Lavori troppo. Eravamo rimasti che ci saremmo rivisti venerdì o sabato. Invece la sera, un amico mi ha mandato un messaggio: Gianlu' hai visto? Hanno sparato a Diabolik. Io risposi che non era possibile: Ma se l'ho visto solo mezz'ora fa!». Gli agenti della Squadra Mobile hanno acquisito le immagini, che hanno anche l'audio, del passaggio di Diabolik nei corridoi e negli atri dell'azienda di Ius. «Mi aveva detto che aveva un appuntamento, ma non con chi - aggiunge Ius - ma da come parlava non mi sembrava che temesse qualcosa. Altrimenti avrebbe preso delle precauzioni, come minimo si sarebbe portato altra gente dietro, era uno attento». Gli investigatori sono alla ricerca di una parola sfuggita e captata dall'audio o di un'immagine che inquadri la schermata del telefonino, che possa fare capire con chi il capo ultras degli Irriducibili avesse appuntamento nel parco di Cinecittà. Il mistero dell'ultimo appuntamento, infatti, finora non è venuto fuori dall'esame dei cellulari, indecifrabili. Ma se fosse stato concordato solo via messaggi potrebbe comunque rimanere un mistero dopo l'analisi degli apparecchi perché Diabolik utilizzava Telegram che cancella il contenuto in automatico. Gianluca Ius aveva conosciuto Piscitelli qualche anno fa, «presentato da amici comuni», spiega. «Eravamo vicini ideologicamente, entrambi di destra, e credo che mi volesse davvero bene. Lui aveva il suo mondo, sia chiaro, io il mio. Ma mi chiedeva consigli imprenditoriali». Come anche il 7 agosto. «Venne da me perché era intenzionato a fare crescere la sua radio, la Voce della Nord - aggiunge il manager, in passato anche patron dell'Ancona calcio -, gli suggerii di arricchirla con programmi e notiziari. Gli dissi che avrebbe dovuto cominciare a raccogliere le sponsorizzazioni sfruttando le tante e importanti conoscenze di cui godeva. Di farsi le ferie e buttarsi nel nuovo progetto da settembre». Ma chi può avere ammazzato Piscitelli? «Chi lo ha fatto ha voluto destabilizzare un ambiente - la teoria di Ius - o rafforzare paradossalmente l'idea che a Roma ci sia una mafia da sconfiggere alla vigilia della sentenza di Cassazione del 16 ottobre su Mondo di mezzo». E i video di Gaudenzi, la pista dell'oro? «A vederlo, pare che abbia parlato sotto dettatura, un delirio. Di sicuro dopo la morte di Fabrizio, in tanti hanno paura. Se sono riusciti a fare fuori lui, in molti si sentono in pericolo. Nessuno si fida più di nessuno».

Da ilmessaggero.it il 10 ottobre 2019. Altro che mandante dell'omicidio di Fabrizio Piscitelli. «Non conosco né lui né Maurizio Terminali» ed «è vero che non ho mai restituito i 30 mila euro a Massimo Carminati ma al mio rientro dal Brasile, Carminati era stato già arrestato. Per quanto avessi avuto delle difficoltà economiche, 30 mila euro costituiscono un importo che avrei potuto restituire ma sono una cifra inaudita per giustificare qualunque atto lesivo nei confronti di una persona, anzi non c'è somma che possa giustificare un omicidio». Rompe il silenzio Filippo Maria Macchi, l'imprenditore accusato da Fabio Gaudenzi di aver avuto un ruolo nell'omicidio del capo ultrà della Lazio. Secondo lo zoppo quest'uomo, classe 1988, lo avrebbe truffato al termine di un viaggio in Africa per l'acquisto di 3 quintali d'oro. Gaudenzi sarebbe riuscito come lo stesso ha poi raccontato ai pm della Dda, Giovanni Musarò e Nadia Plastina a farsi prestare 60 mila euro da Carminati e dai fratelli Bracci per permettere a Macchi di raggiungere la cifra necessaria ad avviare l'operazione africana ma poi sarebbe rimasto senza oro, senza ricompensa e con un debito da rimettere da solo giacché Macchi si sarebbe reso irreperibile, scappando prima in Brasile e negandosi poi una volta rientrato in Italia. Gaudenzi avrebbe chiesto prima a Maurizio Terminali e poi a Fabrizio Piscitelli di rintracciarlo e per questo sarebbero morti. Ora Macchi, assistito dall'avvocato Giuseppina Chiarello, respinge ogni accusa. E non lo fa soltanto a parole. Oggi depositerà una denuncia contro lo zoppo per calunnia e diffamazione: «Gaudenzi mi attribuisce comportamenti che sia da un punto di vista logico che per la mia natura io non avrei mai potuto avere. Con questa vicenda non ho alcun rapporto e sono certo che gli organi di polizia troveranno i responsabili della morte del signor Piscitelli». Di più, Macchi non possiede nessuna barca, men che meno ad Anzio dove secondo Gaudenzi, Diabolik l'avrebbe trovato dicendoglielo poche ore prima di morire. Ma partiamo dall'inizio, da quando Filippo Maria Macchi è ancora un 14enne che conosce Gaudenzi perché il padre gli regala una minicar. I due iniziano a frequentarsi così: Macchi ancora ragazzino passa più di un pomeriggio nell'autofficina gestita a Roma Nord dalla famiglia Gaudenzi. I due, quando Macchi diventa maggiorenne (è il 2006), si perdono di vista ma otto anni più tardi si rincontrano per caso a piazza Euclide. Gaudenzi ha cambiato vita: da impiegato nella rimessa-officina di famiglia veste i panni dell'agente immobiliare e propone a Macchi di entrare in affari per un'operazione che sta svolgendo alle Bahamas. Ma a Macchi non interessa il mattone, punta invece ad accreditarsi agli occhi del padre che in quel periodo era amministratore delegato della Graziella luxury, una società con sede ad Arezzo che tratta e lavora preziosi. Macchi tramite la conoscenza di una reporter che partirà poi con lui, Gaudenzi e un'ex militare alla volta del Gambia, inizia a pensare di acquistare oro grezzo da rivendere a questa società. Nasce così l'operazione Africa che costerà, solo per l'organizzazione, 360 mila euro: Macchi ne parla a Gaudenzi e quest'ultimo si offre di dargli una mano. La prima fase, tuttavia, sfuma tristemente perché i venditori dell'oro all'ultimo non autorizzano il carico della merce sull'aereo di Macchi e lui, come Gaudenzi, resta senza nulla. I due vengono in sostanza fregati. Ma non si perdono d'animo: stando in Africa ci riprovano tramite la mediazione di un'altra conoscenza del Macchi una donna siciliana con un ampio portfolio di rapporti in Kenya partendo per il Burundi. In gioco, nella seconda operazione, entra un'altra persona: un uomo australiano che in cambio di 200 mila euro pagati dal Macchi , si offre come tramite tra il gruppo e i nuovi venditori d'oro ma anche in questo caso a vincere sono i secondi. Complice l'inesperienza, alla fine Macchi spenderà più di 600 mila euro per nulla. Insieme a Gaudenzi ha pagato il rischio imprenditoriale per un'operazione che non frutterà alcun utile ma solo perdite mentre per il denaro chiesto in prestito a Carminati e a Bracci se per il primo Macchi non è mai rientrato, per il secondo ha coperto il debito di 30 mila euro con 2 orologi. Ma perché allora lo zoppo avrebbe raccontato questa storia agli inquirenti? La risposta: «Forse Gaudenzi ha pensato che la sua incolumità fosse in pericolo per aver probabilmente fatto qualche sgarbo a qualche personaggio malavitoso e costituendosi alla polizia si è garantito la sopravvivenza».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 25 Ottobre 2019. Ha un nome la persona con cui si sarebbe dovuto incontrare Fabrizio Piscitelli al parco degli Acquedotti il 7 agosto. Giorno in cui è stato assassinato con un colpo di pistola alla nuca. Di questo almeno è sicura la famiglia di Diabolik. Perciò gli inquirenti stanno verificando l'ipotesi. Una pista che potrebbe aprire nuovi scenari sul fronte della morte collegata ad un'attività di spaccio. Si tratterebbe di Alessandro Capriotti. Un nome di peso nella mala romana, ribattezzato Er Miliardero. Un appellativo che deriva dallo stile di vita elevato e abbondantemente ostentato del 48enne. Un narcotrafficante, imputato per bancarotta, che sta finendo di scontare la sua pena ai domiciliari. Tuttavia l'uomo gode di una serie di permessi che gli consentono di uscire il pomeriggio. A portare la Squadra Mobile, e la procura, su questa pista è stata la moglie di Piscitelli, Rita Corazza. Furibonda era stata la lite tra la vedova di Diabolik e la signora Capriotti: «Devi dire a tuo figlio che il padre è un assassino», aveva detto la Corazza al culmine della lite, un mese fa, a Grottaferrata. Le due si erano incrociate per strada e solo l'intervento di un passante aveva evitato il peggio. Gli inquirenti adesso stanno cercando di riscontrare le affermazioni della Corazza. Intanto, però, la donna ha incassato una denuncia dalla compagna di Er Miliardero, ed è indagata per minacce. Capriotti vanta disponibilità tali da essersi guadagnato il soprannome Er Miliardero. Un appellativo che la dice lunga sulle sue disponibilità economiche: ville, appartamenti, auto di lusso e un tenore di vita da sceicco. Il 24 giugno del 2009 la scure della divisione anticrimine della questura si era abbattuta sui beni dei narcotrafficanti con un sequestro da oltre quattro milioni di euro. Nel mirino, assieme a Capriotti, era finito anche il suo socio in affari Roberto Fois. La polizia aveva messo sotto sequestro le quote societarie di una palestra al Mandrione, un solarium a Genzano, un panificio a via del Mandrione, un'impresa di costruzioni, alcune ville a Tor Vergata, Grottaferrata, Anzio e Porto Rotondo, appartamenti a Roma e Sacrofano e terreni agricoli. Proprietà che, in gran parte, erano poi rientrate nella disponibilità dei due dopo una successiva decisione dei giudici. Irrevocabile era stata la condanna che Er Miliardero aveva incassato, per spaccio internazionale, e che sta ancora finendo di scontare ai domiciliari. Una pena che nell'ultimo periodo si è ulteriormente attenuata. Il pomeriggio gode di alcune ore libere. L'ultima grana giudiziaria, che lo vede oggi imputato, è però per bancarotta. Questa inchiesta nel 2014 lo aveva portato in carcere. Dall'indagine, sempre della Squadra Mobile, era emerso un ruolo di primo piano di Capriotti al fianco di un pezzo da novanta della mala romana, Er Nasca: Vittorio Di Gangi legato in passato a doppio filo alla Banda della Magliana di Enrico Nicoletti e con un dominio assoluto in alcune zone di Roma per quanto riguarda l'usura. Per gli inquirenti il principale alleato Di Gangi era Capriotti. Il 48enne per Er Nasca gestiva attività economiche e commerciali che portava al fallimento dopo averne depauperato il patrimonio. In questo modo Er Miliardero aveva amministrato una concessionaria di auto che aveva poi portato al crack. Ma il nome di Capriotti spunta anche in merito ad un giallo. La scomparsa, nell'ottobre del 2009, del faccendiere Alfredo Guagnelli. Guagnelli era indebitato fino al collo, sotto scacco di un usuraio ed era anche intenzionato a fare soldi nel mondo del narcotraffico, nel quale era stato introdotto da Capriotti. Gli inquirenti, nel marzo del 2015, ascoltarono Er Miliardero che aveva confermato di aver conosciuto il faccendiere, ma aveva negato legami di tipo economico.

Giuseppe Scarpa per ''il Messaggero'' il 27 ottobre 2019. «Non dovevo vedere Fabrizio Piscitelli». Il narcotrafficante Alessandro Capriotti, 48 anni, soprannominato “Er Miliardero” giura di non aver fissato nessun incontro con Diabolik al parco degli Acquedotti il 7 agosto scorso. Giorno in cui il capo degli Irriducibili è stato freddato con un colpo alla nuca. Lo ha affermato lo stesso 48enne di fronte agli agenti della Squadra Mobile che venerdì lo hanno sentito a sommarie informazioni. Nessuna iscrizione nel registro degli indagati perciò. Ma il radar degli inquirenti è comunque su Capriotti. Ma non solo. Diabolik, infatti, aveva appuntamento con altre due persone. Sempre al parco degli Acquedotti, eletto da Piscitelli, a suo personale ufficio. Una location, evidentemente, maggiormente apprezzata dall’ultras per evitare di essere ascoltato da orecchie indiscrete, come le cimici delle forze dell’ordine. Conversazioni con altri narcos che non era il caso di fare, evidentemente, via cellulare o tra le quattro mura di una casa. Una precauzione che, tuttavia, non ha garantito a Piscitelli di evitare l’agguato di un killer. Di certo Er Miliardero e Diabolik si conoscevano. Questo Capriotti non lo ha negato. Pochi anni di differenza tra i due, 48 anni il primo e 53 il secondo. Entrambi vivevano a Grottaferrata e alle spalle avevano incassato delle condanne legate agli stupefacenti. Comprese delle misure di prevenzione, poi in parte revocate, relative a dei patrimoni smisurati - da milioni di euro - rispetto alle entrate economiche ufficiali. Non condividevano di certo la fede calcistica, romanista uno, ultras laziale l’altro. Dati anche questi elementi sul personaggio, rimane elevata l’attenzione del pm Nadia Plastina e del capo della sezione omicidi della Mobile, Andreadi Giannantonio. Capriotti vanta disponibilità tali da essersi guadagnato il soprannome Er Miliardero. Il 24 giugno del 2009 la scure della divisione anticrimine della questura si era abbattuta sui suoi beni (compreso il suo socio in affari) con un sequestro da oltre quattro milioni di euro. Proprietà che, in gran parte, erano poi rientrate nella disponibilità dei due dopo una successiva decisione dei giudici. Irrevocabile era stata la condanna che Er Miliardero aveva incassato, per spaccio internazionale ,e che sta ancora finendo di scontare ai domiciliari. Una pena che nell’ultimo periodo si è attenuata. Il pomeriggio gode di alcune ore libere. L’ultima grana giudiziaria, che lo vede oggi imputato, è per bancarotta. Dall’indagine era emerso un ruolo di primo piano di Capriotti al fianco di Er Nasca, Vittorio Di Gangi legato in passato alla Banda della Magliana. Ma il nome di Capriotti spunta anche in merito ad un giallo. La scomparsa, nell’ottobre del 2009, del faccendiere Alfredo Guagnelli. Gli inquirenti, nel marzo del 2015, ascoltarono Er Miliardero che aveva confermato di aver conosciuto il faccendiere, ma aveva negato legami di tipo economico. «Il nostro assistito ribadisce l’assoluta estraneità ai fatti legati alla morte di Piscitelli», sottolineano i legali di Capriotti, Cesare Placanica e Daniele Fiorni.

Ginevra, la figlia di Diabolik: «Papà non era un boss. Dopo la sua morte ho avuto paura». Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Ginevra Piscitelli stasera a «Non è L’Arena» su La7: «Ci eravamo sentiti poco prima che l’uccidessero, nessuno di noi pensava a qualcosa del genere». «Ci eravamo scambiati dei messaggi poco prima che l’uccidessero, nessuno di noi pensava a qualcosa del genere. Ma nei giorni dopo la sua morte ho avuto paura». A poco più di due mesi dall’omicidio di Fabrizio Piscitelli, sua figlia Ginevra accetta di parlarne in una intervista che andrà in onda stasera all’interno del programma «Non è L’Arena» su La7. Una puntata in cui oltre al delitto dell’ex capo ultrà della Lazio ci sarà un viaggio nel mondo delle curve di tutta Italia. «La cosa che mi ha pesato più di tutto è che quasi il mio dolore non fosse legittimo… perché le notizie che sono uscite lo descrivono come un boss e quindi è come se io e la mia famiglia dovessimo aspettarci una cosa del genere. Mio padre fu condannato a quattro anni di carcere ma oggi era libero: non era un boss mafioso, non ci vuole molto a capire che con quattro anni non puoi essere associato a niente.», dice ancora la 22enne, intervistata da Francesca Fagnani. Piscitelli, noto come Diabolik fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto su una panchina al parco degli Acquedotti. E se le indagini si sono da subito concentrate sul mondo dello spaccio e dei possibili contrasti per la spartizione del territorio e la vendita al dettaglio, nessuna pista definita sembra finora emersa con chiarezza. L’ipotesi più accreditata è che Piscitelli esigesse un sostanzioso credito per una partita di droga e per questo sia stato eliminato in un agguato nel quale fu forse attirato con una trappola, dato che — solitamente protetto e attento a ogni mossa, come mostrano i suoi telefoni criptati — quella sera era di fatto esposto a un pericolo che non si aspettava. L’unica videocamera utile a ricostruire i fatti inquadra il killer che si confonde tra gli altri corridori nel parco frequentato da chi fa jogging ma non ne rende riconoscibile il volto. L’uomo si sarebbe poi allontanato sullo scooter di un complice che lo attendeva poco lontano. Sicuramente non una azione improvvisata. Quanto alle presunte rivelazioni di Fabio Gaudenzi, l’estremista di destra che lo scorso 2 settembre si è fatto arrestare dopo aver sparato alcuni colpi di pistola in casa annunciando di conoscere la verità sul delitto, non trovano finora riscontri. «Dopo due mesi non c’è ancora il nome del killer — dice ancora la figlia di Piscitelli —. Mio padre era molto amato. Ci ripeteva che avrebbe voluto fare di più per noi».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 14 novembre 2019. Un patto tra capi per eliminare Fabrizio Piscitelli, 53 anni. Un accordo tra i mercanti della droga che governano lo spaccio a Roma per assassinare un loro pari che si era ingrandito troppo. Un tavolo di boss a cui, fino all'ultimo momento, aveva trovato posto anche Diabolik. La colpa del capo ultras della Lazio sarebbe stata quella di essere cresciuto troppo in prestigio e potenza. Un'ascesa che gli avrebbe attirato invidie e rancori. Avrebbe spaccato i già fragili equilibri della mala romana, rimodulando a suo favore le quote della vendita di cocaina, marijuana ed eroina nella Capitale. Un ambizioso Piscitelli avrebbe cementato contro la sua persona i pezzi da novanta dello spaccio. Capi che avrebbero sentenziato la sua fine, dividendosi in due categorie: chi voleva la sua morte e chi invece sulla dipartita del Diablo sarebbe rimasto indifferente. La motivazione dell'assassinio, fatta poi girare ad arte nel mondo della criminalità, è invece legata ad un presunto mancato pagamento di una grande partita di droga da parte dell'ultras biancoceleste. Una giustificazione finta, una scusa insomma per armare la mano del killer che il 7 agosto gli ha sparato un colpo alla nuca al parco degli Acquedotti. È questo lo scenario tracciato da chi indaga sull'assassinio di Piscitelli: Squadra Mobile, la sezione omicidi, coordinata da Andrea di Giannantonio e il pubblico ministero Nadia Plastina compongono così il complicato puzzle. Una nuova tessera da aggiungere riguarda la figura di Fabrizio Fabietti, un signore della droga, amico intimo di Diabolik. È lui che ha accompagnato le figlie e la moglie di Piscitelli all'ultimo derby, il primo settembre. Giorno in cui è stato ricordato dalla curva Nord l'ex capo ultras. Ebbene il cellulare di Fabietti sarebbe stato agganciato alla cella telefonica che gestisce le chiamate nell'area che comprende il parco degli Acquedotti il 7 agosto intorno alle 19.00, giorno e ora dell'omicidio del Diablo. L'amico intimo del leader degli Irriducibili avrebbe spiegato la sua presenza in zona agli inquirenti sentito a sommarie informazioni. Da non indagato perciò. In pratica Piscitelli lo avrebbe dovuto raggiungere dopo un appuntamento con un'altra persona (di cui Fabietti non conosce l'identità) per una successiva visita in famiglia. Chi invece sostiene di conoscere l'identità dell'uomo che ha dato l'appuntamento a Diabolik è Rita Corazza. La moglie di Piscitelli ritiene che il marito avrebbe dovuto incontrare Alessandro Capriotti al parco degli Acquedotti. Un nome di peso nella mala romana, ribattezzato Er Miliardero. Un appellativo che deriva dallo stile di vita elevato e abbondantemente ostentato del 48enne. Un narcotrafficante, imputato per bancarotta, che sta finendo di scontare la sua pena ai domiciliari. Tuttavia l'uomo gode di una serie di permessi che gli consentono di uscire il pomeriggio. A portare la procura su questa pista è stata la famiglia di Piscitelli. Capriotti (non indagato) sentito dagli agenti della Squadra Mobile ha negato di aver dato un appuntamento a Diabolik: «Non dovevo vedere Fabrizio Piscitelli», ha detto ai poliziotti un paio di settimane fa. A breve l'inchiesta subirà un'accelerazione.

Droga, Fabrizio Piscitelli a capo della banda del «Grande raccordo criminale» smantellata dalla Finanza. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. Era guidata da Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio ucciso a Roma il 7 agosto scorso, l’organizzazione di narcotrafficanti smantellata dalla Procura di Roma e dal Gico della Guardia di finanza, alla quale è contestata l’aggravante del metodo mafioso. Di questo sono convinti i pubblici ministeri e gli investigatori che hanno condotto l’indagine chiamata Grande raccordo criminale, sfociata in 50 arresti eseguiti stamane. E se l’operazione non porta agli assassini di Diabolik, disegna però un contesto di affari legati al mondo della droga nel quale l’omicidio può essere maturato. Anche per via del ruolo assunto nel tempo da Piscitelli, e per il suo modo di agire. Sono infatti i suoi stessi amici – complici secondo l’accusa – a mostrarsi preoccupati per i comportamenti di Diabolik e per gli atteggiamenti assunti nei confronti di rivali e debitori, paventando reazioni violente nei suoi confronti. «Non sta bene – dice in una conversazione intercettata il 13 maggio dello scorso anno una delle persone arrestate oggi, considerato un suo “fedelissimo” –... lui è Fabrizio Piscitelli… pensa che comunque non ci può essere un matto che prende e gli tira una sventagliata sul portone, non lo capisce…». Un anno e quattro mesi più tardi è stato ammazzato con un colpo di pistola alla nuca, e secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Michele Prestipino e del sostituto procuratore Nadia Plastina, l’esecuzione di Diabolik è la dimostrazione di un «prestigio criminale» accresciuto e riconosciuto a Roma, che lo faceva sentire troppo convinto di sé, al punto di commettere imprudenze che suscitavano timori nei suoi stessi amici. Tra gli arrestati c’è una delle persone più a legate a Piscitelli, il quarantaduenne Fabrizio Fabietti, accusato di capeggiare la banda al suo fianco, e di dirigere i traffici di hashish e cocaina, già arrestato per droga nel 2006. I dialoghi intercettati nel 2018 in casa sua costituiscono l’elemento principale su cui si fondano i capi d’imputazione contestati agli indagati, e in molti di questi compare la voce di Piscitelli, interessato non solo al commercio di sostanze stupefacenti, ma anche al «recupero crediti» nei confronti di acquirenti in ritardo sui pagamenti. Anche attraverso violenti pestaggi di cui s’è avuta la prova quasi in diretta, effettuati da una «batteria di picchiatori» messa in azione quando necessario. Principale fornitore della droga sarebbe stato l’albanese Dorian Petoku, arrestato in patria e in attesa di estradizione verso l’Italia, mentre l’altro indagato Alessandro Telich detto Tavoletta (32 anni, già arrestato nel 2013 insieme a Piscitelli), è accusato di essere «l’esperto informatico» del gruppo, in grado di fornirlo di «dispositivi telefonici dotati di un particolare sistema di comunicazione telematica criptata non intercettabile». Accorgimenti che però non sono bastati a contrare le indagini degli specialisti del Gico e far emergere il mondo sommerso nel quale si muoveva Diabolik prima di essere assassinato.

«Vabbè, spariamogli»: Diabolik, fiumi di droga e picchiatori al recupero crediti. Così operava il clan di nacos. Il Secolo d'Italia giovedì 28 novembre 2019. Narcos a Roma: 51 arresti. Maxi operazione contro pusher e narcotraffico. Sono stati 400 i militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma impegnati a eseguire, con il supporto di elicotteri e unità cinofile, nel Lazio, in Calabria e in Sicilia, un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip. Eseguito su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, nei confronti di 51 persone (50 in carcere e 1 ai domiciliari) appartenenti a un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti. Clan di narcos organizzati, in grado di rifornire gran parte delle “piazze di spaccio” dei quartieri della Capitale. E che aveva costituito una “batteria di picchiatori” appositamente incaricati di attività estorsive per il recupero dei crediti, mediante l’impiego della violenza.

Smantellato clan di narcos: maxi operazione contro la droga. Secondo quanto si apprende dalla Adnkronos, anche il nome di Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”, storico capo degli “Irriducibili”, ucciso il 7 agosto scorso con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti a Roma, tra gli indagati. Il sodalizio smantellato con l’operazione “Grande Raccordo Criminale”, «era capeggiato da Piscitelli e da Fabrizio Fabietti». Per Fabrizio Fabietti, insieme a Piscitelli alias ritenuto a capo dell’organizzazione di narcos smantellata, e ad altri sei indagati, la procura ha chiesto l’aggravante del metodo mafioso. È quanto emerge dall’ordinanza del Gip che ha portato agli arresti. Il Gip tuttavia l’ha esclusa «reputando impropri i richiami al “capitale criminale acquisito” a giustificazione della ritenuta esistenza della contestata aggravante».

L’inchiesta sui narcos romani, le intercettazioni. Le intercettazioni. Il gruppo operava principalmente nella zona di Roma Nord per fornire le piazze di spaccio e recupero crediti. Nell’organizzazione erano presenti per quest’ultimo aspetto picchiatori, anche ex pugili, tra cui alcuni cittadini albanesi. «Vabbé, spariamogli, che dobbiamo fare?», diceva la banda che si occupava della riscossione crediti. «Oh, gli ho preparato una macchina. Li massacriamo tutti eh…» dicevano intercettati, secondo quanto emerso dalle indagini. Inoltre, secondo quanto emerge dall’ordinanza del Gip, uno degli indagati forniva all’organizzazione «dispositivi telefonici dotati di un particolare sistema di comunicazione telematica criptata. Ossia non intercettabili dagli attuali sistema in uso alle forze di polizia. Da utilizzare per le comunicazioni riservate relative al narcotraffico». Tra gli arrestati, anche esponenti del mondo ultras laziale.  

Gli stupefacenti occultati ovunque. Gli stupefacenti. Trovati «dodici kg di sostanza stupefacente del tipo cocaina, di cui sei chili contraddistinti dal marchio “scorpione”, nascosti «nei locali di una società di logistica», emerge ancora dall’ordinanza. Nel corso delle indagini gli inquirenti hanno inoltre sequestrato oltre 640 kg di hashish «occultati all’interno di un autoarticolato» condotto da un corriere. Ma nel complesso delle indagini – svolte nel periodo febbraio-novembre 2018 – è stata ricostruita una compravendita di 250 chili di cocaina e 4.250 chili di hashish. Per un valore complessivo stimato al dettaglio di circa 120 milioni di euro. L’associazione poteva contare su un flusso costante di droga proveniente dal Sud America (cocaina da Colombia e Brasile) e dal Nord Africa (hashish dal Marocco), garantito da fornitori abituali.

Narcotrafficanti, una rete che coinvolge anche insospettabili. «Si tratta di un gruppo che non ha eguali in altre città italiane, un gruppo che operava a Roma Nord e che coinvolge criminalità sportiva, politica e narcotraffico. Tutto ruotava attorno a Piscitelli», ha detto il procuratore facente funzioni di Roma, Michele Prestipino. «Per l’approvvigionamento di droga sono coinvolti soggetti in contatto con clan di ‘ndrangheta. Soggetti che controllano la rete dei grandi grossisti. Tra questi spicca il nome di Piscitelli – ha spiegato – che era indagato prima di essere ucciso. C’erano soggetti che gli erano più vicini e altri che svolgevano attività di garanzia». «Questa operazione, ha concluso la Procura, ci permette di squarciare il velo rispetto al traffico di stupefacenti sulla piazza di Roma. Si tratta di un’indagine trasversale multi-livelli che ci permette di ricostruire in modo verticale come funziona lo spaccio in una piazza come Roma».

Fulvio Fiano per il Corriere della Sera – Roma il 29 novembre 2019. Dalla teoria alla pratica. Le intercettazioni ambientali in casa di Fabrizio Fabietti, via Tiburtina 739, spiegano bene come funzionava la «batteria» di picchiatori dedicata al recupero crediti. Il 19 aprile 2018 Fabietti ne parla in relazione a uno dei due episodi di pestaggio diventanti altrettanti capi di imputazione. La Procura ha chiesto il riconoscimento del metodo mafioso, aggravante che il gip ha però rigettato.

«Mo' ti faccio un esempio...mi chiami a me giusto? E mi dici che vogliamo parlare... ti dico vabbè e vengo io...poi viene Diabolik, poi viene Pluto, poi viene Kevin... gli diciamo "Senti, ci devi dare altri soldi..." li sterminiamo tutti», spiega Fabietti a un associato. Poi passa ai fatti e contatta Piscitelli "Diabolik": «Aho', il ferramenta lo dobbiamo massacrare...dobbiamo fare 3/4 azioni brutte...». Il riferimento è ad Agostino e Vincenzo Vallante, padre e figlio titolari di un negozio di ferramenta ma anche clienti di Fabietti, dal quale comprano all' ingrosso e vendono al dettaglio. Il debito ammonta a 90 mila euro e nonostante il ritardo nel saldo i due chiedono una dilazione. «Al figlio gli mando tutta la batteria, ti faccio vedere come si caga sotto». E ancora: «Mo' lo sfondo al padre, gli faccio male. Mi dà fastidio la maleducazione. Gli mando Pluto, poi da Kevin lo faccio fratturare proprio».

Ancora più esplicito il racconto del pestaggio di un altro debitore, il greco Anxelos Mirashi, conosciuto da Fabietti in cella e diventato suo cliente («Stava in cella con me... gli ho fatto fare il signore in galera...»). La batteria è composta da Kevin Di Napoli, pugile professionista, Andrea Ben Maatoug "Il Pischello" e i due fedelissimi di Piscitelli per la militanza negli Irriducibili della Lazio, Ettore Abramo "Pluto" (celebrato in curva Nord assieme a "Diabolik") e Aniello Marotta. Gli ultimi due sono ritenuti responsabili anche di aver dato fuoco a tre auto dei vigili urbani nella finale di Coppa Italia Lazio-Atalanta dello scorso maggio. Come ricostruito dalle indagini, i quattro si presentano vestiti con le pettorine e i distintivi dei carabinieri e la consegna di non parlare per non farsi riconoscere: «Dobbiamo sfondarlo proprio, lo devi squarta'». «Le coltellate non gliele dò profonde, non le dò sulla femorale sennò lo ammazzo. A parte che poi zampilla...». Una volta rientrati alla base raccontano l' azione con dovizia di particolari: «Lui si muoveva, non stava fermo, non puoi capire la gente che ha fatto uscire tanto che urlava e chiedeva aiuto. "Prendiamo la targa, chiamiamo i carabinieri", ha fatto uno. "Guarda che i carabinieri siamo noi", gli ho detto».

Giovanni Bianconi per corriere.it il 29 novembre 2019. Il 10 agosto 2018, un anno prima di essere ucciso su una panchina del Parco degli Acquedotti, Fabrizio Piscitelli detto Diabolik stava trattando un carico da una tonnellata e mezzo di hashish, comprata a 350 euro al chilo e rivenduta a 850. «Hai capito che ti voglio dire... - spiegava al suo amico Fabrizio Fabietti -, a 850...La porta a 3 e 50... Che ce ne frega». Un bel guadagno, anche con le «stecche» dovute ai complici, che lascia intendere il giro d' affari gestito da quello che la Procura antimafia di Roma e i detective della Guardia di finanza considerano il clan che gestiva buona parte del mercato della droga nella Capitale. Cocaina compresa. «Bella eh...? Te l' ho detto, lo sai che è quella, che è pasta di cocaina...», diceva Fabietti a un bosniaco che appariva preoccupato per l' eccessiva purezza della sostanza stupefacente, pari al 98 per centro: «Eh, ma è troppo potente... 9 e 8 esce...». In un' altra occasione ancora Fabietti discuteva - secondo gli inquirenti - di una partita di «fumo» da 150 chili con un altro interlocutore: «Centocinquanta, quante ne vuoi?... Pigliatene di più, è buono, ce l' hai solo te... Cinque balle pigliati... La devo dare a tutta Roma». L' operazione chiamata «Grande raccordo criminale» svela il lato oscuro del mondo di Diabolik, estremista nero e capo ultrà laziale celebrato dopo la morte non solo nella sua Curva. Ma anche, stando alle accuse, capo di un' organizzazione criminale che agiva «con le modalità del metodo mafioso». Il giudice delle indagini preliminari per ora ha negato questa aggravante, ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il sostituto Nadia Plastina continuano a contestarla; anche in virtù dell' omicidio Piscitelli e altri episodi violenti che hanno coinvolto alcuni indagati. L' inchiesta non ha portato agli assassini di Diabolik, ma ha scoperchiato il contesto nel quale sarebbe maturato il delitto. Confermato dai timori espressi da uno dei suoi amici e complici, che paventava vendette e reazione violente: «Non sta bene... Lui è Fabrizio Piscitelli... Pensa che comunque non ci può essere un matto che prende e gli tira una sventagliata sul portone. Non lo capisce...». È accaduto di peggio, e secondo i pm quell' esecuzione dimostra che «Piscitelli, proprio per la crescita del suo prestigio criminale e del riconoscimento della sua leadership da parte di altri personaggi di primo piano della malavita operante a Roma, si sentiva troppo sicuro di sé ed era divenuto imprudente, destando evidentemente la preoccupazione del suo "fedelissimo", consapevole della fragilità degli equilibri in un contesto delinquenziale così affollato e competitivo». L' eliminazione di Diabolik è uno dei sintomi che quegli equilibri si sono spezzati, e i regolamenti di conti sono proseguiti anche dopo: due settimane fa un altro degli indagati arrestati ieri, il quarantenne Leandro Bennato, è stato ferito in un agguato che probabilmente, nelle intenzioni dei sicari, doveva essere mortale. L' uomo è accusato di aver partecipato (mentre era latitante per un' altra condanna) al pestaggio di un presunto debitore del clan per oltre centomila euro. Gli investigatori hanno seguito quasi in diretta l' aggressione subita dalla vittima attraverso le intercettazioni a casa di Fabietti, 42 anni, considerato il più stretto collaboratore di Piscitelli. Dirigeva i traffici dagli arresti domiciliari pensando di essere protetto da «soffiate» sulle indagini, bonifiche e precauzioni; ma restava sospettoso: «Io sono rovinato se questo ce l' avemo sotto», diceva a proposito di un telefono ritenuto sicuro, mentre le microspie della Finanza registravano le sue parole. Il pestaggio risale all' aprile 2018, e le «cimici» hanno captato ogni dettaglio dei preparativi. Doveva essere una «punizione esemplare» perché i «buffi si pagano», ma soprattutto un' affermazione di «onore criminale» nei confronti di chi aveva sgarrato: «A me dei soldi non me ne frega un c... è la soddisfazione personale che non deve camminare più», spiegava Fabietti. Il quale dopo l' azione doveva avvertire qualcuno (nell' interpretazione degli investigatori proprio Diabolik) che tutto era andato secondo i piani. «Massacrato... Gli posso dire? Proprio distrutto...», chiedeva al complice appena rientrato dalla missione, che confermava: «Spappolato».

Giuseppe Scarpa per  ''Il Messaggero'' il 29 novembre 2019. Era diventato un boss. Il nome di Diabolik, al secolo Fabrizio Piscitelli, negli ambienti della mala romana destava terrore. Tuttavia il capo ultras degli Irriducibili non aveva capito che esibire in modo sfacciato la forza era un segno di debolezza. A criticare questo comportamento erano stati il socio in affari del Diablo, Fabrizio Fabietti e Aniello Marotta, altro pezzo grosso della banda, in un colloquio intercettato dagli inquirenti. Una conversazione che gli stessi investigatori nell'ordinanza definiscono «profetica, considerate le circostanze dell'omicidio di Diabolik, un'esecuzione; è importante perché comprova come il Piscitelli - si legge nell'ordinanza - per la crescita del suo prestigio criminale si sentiva troppo sicuro di sé, ed era divenuto imprudente». Ecco allora cosa si dicono Fabietti e Marotta il 13 maggio 2018, quasi un anno e mezzo prima dell'assassinio di Diabolik: il greco Mirashi Anxhelos «fra tre giorni vuole andare da Fabrizio (Piscitelli, ndr), ci vuole dare tutto quanto», sottolinea Fabietti, che poi prosegue rammaricandosi per l'atteggiamento incosciente tenuto da Diabolik. «Fabrizio certo gli ha fatto capire che siamo stati noi (a farlo picchiare, ndr) ha fatto un macello io gli dico vai sul vago, gli ha fatto mezzo capire che siamo stati noi». In pratica Fabietti e Piscitelli, per convincere, Anxhelos a saldare un debito da 160 mila euro avevano organizzato una spedizione. Una lezione che doveva però rimanere anonima. Diabolik, però, aveva fatto capire ad Anxhelos chi aveva organizzato il suo pestaggio: ovvero lui con il socio. Un azzardo che avrebbe potuto portare a delle rappresaglie. Così, infatti, replica Marotta a Fabietti: «Piscitelli (...) pensa che non ci può essere un matto che prende e gli tira una sventagliata sul portone, non lo capisce». La conversazione si chiude così. Gli investigatori, nelle pagine precedenti, riassumono con dovizia di particolari la lezione inflitta al greco. Non un tipo qualunque. Uno che aveva resistito alle richieste di restituzione di soldi da parte di Fabietti con il quale aveva condiviso anche una detenzione. Anxhelos, inoltre, è finito indagato in Perù, pochi mesi fa, perché a San Martín de Porres era stato fermato insieme a due italiani con tre camper che contenevano 291 chili di cocaina. Inoltre, ad indicare alla batteria di picchiatori di Diabolik e Fabietti, dove individuare il greco, era stato Leandro Bennato: «La localizzazione era avvenuta grazie all'aiuto di un amico dello stesso, identificato in Bennato Leandro», si legge nell'ordinanza. Bennato, giovedì 14 novembre, è stato gambizzato in via di Boccea a Roma. Ad ogni modo il 2 aprile 2018 Fabietti ordinava questo al pugile Kevin di Napoli : «Ti devi portare altri due che menano forte, per sfondarlo (ad Anxhelos) lo dobbiamo mandare all'ospedale poi andiamo a chiedergli» i soldi. Poche ore dopo la spedizione, la batteria di picchiatori, rientra da Fabietti e gli rappresenta il pestaggio: «Gli ha infilato un dito in bocca - spiega Ban Maatoug - gli ha bucato dall'altra parte». Aggiunge Marotta: «Kevin me l'ha girato cosi bammm, ha strillato finché non ha preso le ultime tranvate». Infine nella carte viene citato un altro episodio. La bomba piazzata di fronte alla sede degli Irriducibili in via Amulio a Roma il 6 maggio. Diabolik pubblicamente afferma che si tratta di un' aggressione di matrice politica, vista la collocazione a destra degli ultras. In realtà, scrivono gli investigatori, il messaggio è rivolto «alla mala romana, nel senso che il (suo) gruppo era armato e pronto a raccogliere la sfida». «Con una certa spregiudicatezza», si legge nelle carte. Due mesi dopo Diabolik viene freddato con un colpo alla nuca.

Michela Allegri e Valentina Errante per il ''Corriere della Sera'' il 2 dicembre 2019. «Si stanno attizzà a rompere gli equilibri». Il sospetto del clan rivale era che il gruppo di narcotrafficanti capeggiato da Fabrizio Piscitelli e Fabrizio Fabietti volesse espandersi, rubando le piazze di spaccio e gli affiliati. E non si trattava di un clan qualunque, ma di una delle organizzazioni criminali più potenti di Ostia, capeggiata da Marco Esposito, detto Barboncino, e da Fabio Di Francesco, collegati alla famiglia Triassi. La stessa banda era già finita al centro di un' altra inchiesta l' operazione Maverick, e poco più di un anno fa era interessata a «mantenere la pace globale» tra gruppi di criminali per non attirare l' attenzione delle forze dell' ordine. Un accordo che, però, Diabolik avrebbe violato. È quanto emerge dagli atti del Gico della Guardia di Finanza, che tre giorni fa, su richiesta del pm Nadia Plastina, ha arrestato 51 persone, sodali e gregari del Diablo nel business del narcotraffico. Piscitelli è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa lo scorso agosto, stava aspettando qualcuno al parco degli Acquedotti, a Roma. Un omicidio maturato senza dubbio nel contesto criminale legato al mercato della droga nella capitale, nel quale, già un anno fa, c'era chi covava risentimenti nei confronti del capo ultrà laziale e del suo braccio destro Fabrizio Fabietti. Due esponenti di spicco dell' associazione di Ostia erano convinti che Diabolik e Fabietti stessero tramando per «creare dissidi» interni alla loro organizzazione «per indebolirla e impossessarsi delle piazze di spaccio», annota il Gico in un' informativa. Il pretesto la guerra tra bande sarebbe stato un debito - da circa 40mila euro - contratto da Esposito con i rivali. È l' aprile dello scorso anno: a raccontare dell' ascesa criminale del duo Diabolik-Fabietti e del piano per sgominare la concorrenza sono le intercettazioni. A parlare sono Fabio Di Francesco e Natale Perrulli, considerato il capo di un' articolazione territoriale del gruppo di Ostia legato ai Triassi, che operava nella zona di Casal Bernocchi. Uno dei picchiatori dell' organizzazione di Diabolik, il pugile Kevin Di Napoli, prima di passare con il Diablo e Fabietti faceva parte del gruppo Maverick. E nel periodo della transizione, quando Di Napoli aveva appena ricevuto la proposta di cambiare squadra, i rivali erano inferociti. Parlano del debito di Esposito, contratto pochi mesi prima per l' acquisto a credito di droga. «C' aveva tutti i buffi», dice Perrulli. E Di Francesco: «Dimmi un po' che buffi c'ha? Ancora? Io so che gli ha mandato più de trenta, poi gliene ha dati venti oh, lo so io che glieli ha presi oh, venti e poi dieci, so trenta, tutti de botto». Poi, Perrulli dice che Fabietti ha proposto a Di Napoli di entrare a far parte del suo gruppo criminale, sostiene che il pugile abbia declinato. Ma non sono convinti: «Lui è manovrabile - replica Di Francesco - quando mandarono a chiamà Lorenzo, Lorenzo è venuto da me e mi ha detto: Fa m' ha mannato a chiamà Diabolik. Ndo c... devi annà?». Pochi mesi dopo, in effetti, Di Napoli entrerà a fare parte della batteria di picchiatori del Diablo. Il 21 aprile 2018, Perrulli e Di Francesco si lamentano del fatto che i rivali vogliano rompere i loro equilibri. «Si stanno attizza' Kevin a rompere gli equilibri con Marco - dice Di Francesco - allora tirano fori sto discorso che dice mo se incarogniscono perché stanno a tené tutto tranquillo». E parlando del piano per accaparrarsi le loro piazze di spaccio, Di Francesco aggiunge: «Però c' è qualcosa de infame che e guardie, che vorrebbe fa sti giochi così». E Perrulli: «E per poi fa incomincià a lavorà altra gente? Eh se hanno sto pensiero, ce l' hanno proprio lontano!». Gli antagonisti starebbero cercando di accaparrarsi tutta la loro batteria: «Vonno fa creà qualche zizzania», dicono i due. Il 24 aprile, Di Francesco continua a parlare dei rivali, teme che facciano saltare gli equilibri tra clan. «Io voglio creà una pace globale», afferma, riferendosi alle diverse associazioni criminali della città. Ma Perrulli è preoccupato, teme azioni violente da parte dei narcos di Roma. Di Francesco gli ricorda il loro spessore criminale: «Nun s' avventurano», dice.

Michela Allegri e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 03 dicembre 2019. Diabolik e Fabrizio Fabietti inondavano Roma di droga anche grazie all'appoggio di un pezzo grosso della Banda della Magliana del calibro di Roberto Fittirillo, che avrebbe il suo quartier generale al Tufello. Lo scrivono i finanzieri del Gico nell'informativa finale dell'inchiesta che ha portato in carcere 50 esponenti del gruppo al cui vertice sedeva Fabrizio Piscitelli, il cinquantatreenne ultras della Lazio freddato il 7 agosto, al parco degli Acquedotti, da un killer travestito da runner. Nei giorni scorsi, tutti i 50 indagati finiti in carcere per narcotraffico hanno fatto scena muta di fronte al gip. Dopo la retata di venerdì, in sede di interrogatorio di garanzia, nessuno ha parlato: si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Un atteggiamento che, per i pm che ipotizzano l'aggravante mafiosa a carico di molti arrestati, confermerebbe il sospetto di essere di fronte a un gruppo compatto, coeso, difficile da scardinare. Intanto, però, l'inchiesta continua a galoppare e i dettagli confermano l'autorevolezza raggiunta, nella mala romana, dalla coppia Piscitelli-Fabietti. Quest'ultimo trattava con Fittirillo, uno dei sicari della Banda della Magliana. Acquistava, infatti, da Robertino partite di droga da milioni di euro. «Dalle numerose intercettazioni emerge come Fabietti, per rifornirsi di stupefacente, sia solito rivolgersi a soggetti di elevato spessore criminale. Tra gli altri, spicca la figura di Fittirillo Roberto», sottolineano le fiamme gialle nell'informativa finale. Uno dal grilletto facile che, per Enrico De Pedis e soci, uccise 5 persone nei primi anni Ottanta. In una conversazione intercettata il 20 giugno del 2018, si parla di cifre non completamente saldate da parte di Fabietti. E il disappunto di Fittirillo viene comunicato al socio del Diablo da Danilo Perni: «Rappresentava come Fittirillo si fosse lamentato di un presunto ammanco di denaro». Una lamentela che aveva mandato su tutte le furie Fabietti, convinto di aver pagato fino all'ultimo centesimo la partita comprata dall'ex della Magliana. «Fabietti faceva presente di aver già consegnato 150.000 euro a fronte - si legge nelle carte dell'indagine - di un quantitativo di droga pari a 10 chilogrammi, per un totale di 410.000 euro in appena 4 giorni». Ecco l'intercettazione della conversazione: «Gliel'ho pagata a 30 (30.000 euro/kg, ndr) questa. Io gli ho dato una piotta e mezza per gli altri 10. In quattro giorni gli ho dato 4 e 10 (410.000 euro, ndr) e i centodieci (110.000 euro, ndr) li ho contati - spiega Fabietti a Perni - cento volte». Insomma, il vice di Piscitelli sostiene di aver saldato tutto. Ma la conversazione prosegue. E Fabietti fa riferimento ad altri notevoli acquisti di stupefacente: «Nel prosieguo della discussione, emergevano ulteriori cifre di denaro che, a suo dire, il Fabietti aveva già liquidato al Fittirillo nel corso del loro durevole rapporto lavorativo», scrivono i militari del Gico. «Io - sottolinea Fabietti al suo interlocutore - gli ho dato un milione e otto». Infine l'informativa si concentra su Robertino, un criminale che pareva essersi eclissato negli ultimi anni. Invece, dalle indagini è emerso che non avrebbe «mai rescisso le proprie radici». Secondo gli investigatori, Fittirillo sarebbe «tuttora attivo nel traffico di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, mantenendo la propria base operativa nella zona del Tufello, suo quartiere di origine».

Ilaria Sacchettoni per Corriere della Sera – Roma il 03 dicembre 2019. «La Prada è proprio buona... è mondiale questa cosa», dice Fabrizio Fabietti al telefono. Prada. Vuitton. Rolex. Ferrari. Diamante. Pare una chiacchiera sull' effimero, invece è l' elencazione della merce stoccata. Hashish e coca, commercializzate dai soci di Fabrizio Piscitelli «Diabolik», hanno nomi rubati ai brand extralusso. Nella continua ricerca di un prodotto qualitativamente superiore che fidelizzi il cliente, i narcotrafficanti del «Grande raccordo criminale» s' imbattono in panetti «griffati» che convivono con altri dai nomi meno immaginifici, come «Gulliver» o «Thl». Ma la sorpresa viene da una partita sconosciuta, con un logo verde, che si rivela eccellente: «Se prendi questa - conclude Fabietti - vendiamo solo noi a Roma». Viceversa, la coca di marca «Scorpione» risulterebbe intollerabile all' olfatto. Mentre un' altra, senza nome, sarebbe «caramellata, appiccicosa», dal «saporaccio». A riprova che non è facile selezionare un buon prodotto, anche per gli esperti soci del «Diablo». Solide relazioni criminali e raffinato know how tecnologico sono gli ingredienti primari dell' associazione criminale capeggiata da «Diabolik», Fabietti e Alessandro Telich. E se le competenze informatiche sono appannaggio esclusivo di «Tavoletta» (soprannome di Telich), le relazioni criminali sono invece diffuse all' interno dell' associazione, patrimonio dei più anziani. Come Mauro Ridolfi, che gli uomini del Gico della polizia economico-finanziaria della Finanza pedinano durante un appuntamento con due personaggi vicini a Brian Leonardo Cespedes, contiguo al clan degli Spada. Nel 2009 Cespedes «è stato tratto in arresto, in flagranza di reato, unitamente a Ottavio Spada per i delitti di rapina e porto d' armi clandestine». Per rifornirsi di stupefacenti Fabietti si rivolge «anche simultaneamente a diversi soggetti di elevato spessore criminale, presenti sulla piazza romana, con i quali ha intessuto stabili accordi di fornitura». Tra questi spicca il nome di Roberto Fittirillo, già componente della banda della Magliana «accusato di concorso in diversi omicidi e di traffico di stupefacenti», con base nel suo quartiere, il Tufello. Allo stesso modo, sempre Fabietti si affida ai calabresi Leopoldo ed Emanuele Cosentino. Quest' ultimo in particolare «viene considerato affiliato alla cosca Gallico di Palmi, considerata una delle strutture criminali più potenti e temibili della 'ndrangheta calabrese operante nel mandamento tirrenico della provincia di Reggio Calabria». Per il trasporto della sostanza ci si affida ad auto modificate, come la Peugeot sequestrata dagli investigatori un anno fa, con targa della Germania e un doppiofondo ricavato all' interno del telaio e «sigillato da schiuma poliuretanica», utile per fuorviare eventuali unità cinofile. Dopo gli arresti di giovedì scorso, ieri, è stata la volta degli interrogatori di garanzia: tutti e cinquanta gli arrestati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere davanti al giudice per le indagini preliminari, riservandosi di presentare un ricorso al tribunale del Riesame.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 14 dicembre 2019. Quando Diabolik è stato ucciso c'era anche Fabrizio Fabietti. Il 7 agosto il narcos, socio in affari del capo ultras della Lazio, era a bordo dell'auto posteggiata in via Lemonia dalle parti del civico 273, la strada che costeggia il Parco degli Acquedotti. Quando il killer travestito da runner si è avvicinato a Piscitelli, e gli ha piantato una pallottola nella nuca, Fabietti ha ingranato la prima e si è allontanato. Non si sa se abbia visto il volto dell'assassino del suo amico. Di certo lo sparo lo ha sentito e la deflagrazione della calibro 7,65 ha sortito un effetto in Fabietti. Più che intervenire avrebbe optato per la fuga. Un gesto istintivo davanti a un omicidio così feroce. D'altro canto anche il bodyguard di Diabolik, un cubano dalla stazza imponente di 100 chili, aveva adottato la stessa scelta. Gli inquirenti, oltre alle parole di un confidente, disporrebbero anche di un video in cui viene immortalata la macchina del narcotrafficante mentre si allontana. Si completa, perciò, con un'altra importante pedina il puzzle che gli investigatori della squadra mobile stanno abilmente completando. Un dettaglio non da poco. Fabietti avrebbe quindi accompagnato Diabolik all'appuntamento con qualche personaggio della mala, tuttavia non sarebbe sceso dalla macchina. Con ogni probabilità era a conoscenza delle persone con cui Piscitelli si sarebbe dovuto vedere. Fabietti è comunque rimasto in ottimi rapporti con la famiglia dell'amico e socio. Dopo i fatti del 7 agosto è scomparso per quasi un mese, salvo poi riemergere in pubblico con la moglie Rita Corazza e le figlie di Diabolik durante l'ultimo derby del primo settembre. Tutto ciò potrebbe spiegare anche la reazione della Corazza quando, tre mesi fa, ha aggredito verbalmente la consorte di Alessandro Capriotti, ribattezzato Er Miliardero. Quest'ultimo sarebbe il narcotrafficante - secondo la famiglia dell'ultras della Lazio - che aveva un appuntamento con il leader degli Irriducibili al parco degli Acquedotti. Furibonda era stata la lite tra la vedova Piscitelli e la signora Capriotti: «Devi dire a tuo figlio che il padre è un assassino», aveva detto la Corazza al culmine della lite a Grottaferrata. Le due si erano incrociate per strada e solo l'intervento di un passante aveva evitato il peggio. Gli inquirenti da quel giorno hanno passato al setaccio i movimenti di Er Miliardero. Intanto, però, la donna ha incassato una denuncia dalla compagna del narcos, ed è indagata per minacce. Mentre lo stesso Capriotti, sentito a sommarie informazioni dalla Mobile, ha negato di aver avuto quel giorno un incontro con Piscitelli. Ad ogni modo, l'inchiesta coordinata dal pm Nadia Plastina sull'assassinio di Diabolik corre spedita, in attesa di altri importanti colpi di scena. A fine novembre lo stesso magistrato, in un'indagine portata avanti dalla guardia di finanza, ha scoperchiato una delle più grandi organizzazioni criminali di spaccio della Capitale. Cinquantuno le persone arrestate e non una che non si sia avvalsa del diritto di non rispondere durante l'interrogatorio. Al vertice della banda c'erano, guarda caso, proprio il duo Fabietti - Piscitelli. La coppia poteva contare sull'appoggio dell'hacker Alessandro Telich. Un genio dell'informatica che aveva installato sui cellulari del gruppo un'applicazione per comunicare. Un app che gestiva da remoto e in caso di arresto avrebbe cancellato tutte le conversazioni. Lo stesso servizio l'avrebbe garantito anche a Diabolik, dopo la sua morte avrebbe azzerato i suoi smartphone. La procura per decriptare i telefonini di Piscitelli si è affidata a degli specialisti tedeschi. Da due mesi i cellulari sono a Monaco.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 15 dicembre 2019. Si scrive Fragalà, Fittirillo, Esposito, Vallante e Anxhelos. In realtà si legge Cosa Nostra, la banda della Magliana, i clan di Ostia, i padroni delle piazze di spaccio a Tor Bella Monaca e un ambizioso narcotrafficante greco. La lista dei nemici di Fabrizio Fabietti e Fabrizio Piscitelli è lunga. Ma è soprattutto composta da personaggi temibili. Pericolosi, tuttavia, erano diventati anche il duo Fabietti-Diabolik. Con il primo che aveva il vero ruolo di regista della banda, capace di tenere testa ai mafiosi siciliani. A dimostrazione della sua sfrontatezza (nelle carte di un'inchiesta di giugno dei carabinieri del Ros) è riportato un episodio avvenuto a Rebibbia: il nove marzo del 2016 Fabietti stende in carcere Sante Fragalà: «Arriva e senza parlare prende e mi dà due pugni in faccia», spiega Fragalà in una conversazione intercettata. Il motivo dell'aggressione gliela spiega Fabietti. Uomini vicini a Sante avevano estorto soldi a Fabietti senior. Sante incassa i pugni ma medita vendetta. I Fragalà non sono esattamente dei principianti nel mondo della mala. Vestono i gradi di ufficiali del crimine, sono un clan catanese affiliato ai Santapaola e da anni hanno messo le mani sul litorale romano. Quando Fabietti viene scarcerato nella primavera del 2016 arriva la punizione: botte e 200 mila euro di risarcimento pagati per ristorare la famiglia Fragalà. Ma Fabietti dimostra di non essere un tipo da farsi troppi scrupoli. E con l'amico Diabolik scala le gerarchie del narcotraffico romano fino a entrare in collisione con Marco Esposito, ribattezzato Barboncino, uno dei signori di Ostia. Anche lui è un ambiziosissimo narcotrafficante, che deve però patire la defezione del pugile e picchiatore Kevin Di Napoli. Di Napoli, infatti, con la prospettiva di migliori guadagni decide di passare armi e bagagli dalla parte del Diablo e di Fabietti, abbandonando così il suo vecchio datore di lavoro. Nel frattempo, tra i due gruppi, ci sono anche altri problemi. Barboncino è debitore di Fabietti. La vicenda si sarebbe però risolta, nella primavera del 2018, grazie alla intermediazione di Fabio Di Francesco: «Io voglio creare una pace globale», spiega lo stesso in una conversazione intercettata dalla finanza. Ma se con Barboncino, Diabolik e Fabietti dovevano usare i guanti bianchi, con altri criminali potevano permettersi di azionare Di Napoli. Il 2 aprile 2018 Fabietti ordinava al pugile: «Ti devi portare altri due che menano forte, per sfondarlo (al greco Mirashi Anxhelos) lo dobbiamo mandare all'ospedale poi - si legge nelle carte dell'inchiesta grande raccordo criminale - andiamo a chiedergli i soldi». Una lezione, per un debito non saldato, che doveva rimanere anonima. Diabolik, però, aveva fatto capire ad Anxhelos chi aveva organizzato il suo pestaggio: ovvero lui con il socio. Un azzardo che avrebbe potuto portare a delle rappresaglie. Così, infatti, replica Aniello Marotta a Fabietti: «Piscitelli (...) pensa che non ci può essere un matto che prende e gli tira una sventagliata sul portone, non lo capisce». La conversazione si chiude così. Fabietti si riforniva di droga anche da Roberto Fittirillo. Uno dei sicari della Banda della Magliana, da cui aveva comprato partite di droga per milioni di euro. Unuomo dal grilletto facile che, per Enrico De Pedis e soci, uccise 5 persone nei primi anni Ottanta. In una conversazione intercettata il 20 giugno del 2018, si parla di cifre non completamente saldate da parte di Fabietti. E il disappunto di Fittirillo viene comunicato al socio del Diablo da Danilo Perni: «Rappresentava come Fittirillo si fosse lamentato di un presunto ammanco di denaro», scrive il Gico della finanza. Con Vincenzo Vallante di Tor Bella Monaca, Fabietti vanta invece un credito. Vallante gli deve 90mila euro. «Mo' gli faccio zompare la ferramenta... lo faccio sfondare da Kevin, poi domani gli mando Pluto, lo faccio fratturare». Il padre di Vallante, visto le intenzioni del boss, si rivolge tramite un intermediario a Piscitelli chiedendo la salvezza del figlio. E Diabolik all'intermediario: «Portamelo su a Grottaferrata, che ci parlo una volta per tutte così finisce sta storia». La lista dei nemici di Piscitelli e Fabietti era veramente lunga.

GLI ULTRÀ DELLA LAZIO SE LA VANNO CERCANDO. Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 21 agosto 2019. Preso con la forza, ucciso e poi smembrato dentro un appartamento a San Basilio. Gabriele Di Ponto, 36 anni, ultras della Lazio sarebbe stato massacrato in questo modo quattro anni fa. Il suo piede era stato ritrovato il 12 agosto 2015 sulle rive dell'Aniene, alla confluenza col Tevere. Gli investigatori erano arrivati nella casa degli orrori poco dopo una ristrutturazione radicale. Gli stessi detriti erano stati fatti sparire. Il luminol utilizzato dalla scientifica, perciò, non aveva rilevato alcuna traccia di sangue. Nessuna prova insomma. Le stesse intercettazioni poi non avevano dato il risultato sperato. Ragion per cui l'intera inchiesta, in assenza di elementi, nonostante il lavoro instancabile di procura e squadra mobile, si avvia salvo colpi di scena sul binario dell'archiviazione. Ad ogni modo l'indagine sarebbe riuscita ad inquadrare il perimetro dentro cui si muoveva Di Ponto. A tratteggiarne la personalità. In una unica parola, un prepotente. Il 36enne ultras dei biancocelesti era una testa calda. Uno a cui piacevano i soldi, il guadagno facile, l'esibizione della forza e la pratica della violenza. Un ambizioso, a modo suo, all'interno della mala. La sua arroganza si era rivelata un'arma a doppio taglio: all'inizio gli era stata utile per scalare le gerarchie criminali a San Basilio alla fine però si era rivelata fatale. Lo aveva accompagnato verso la morte. Il 36enne aveva fatto il duro con chi non poteva permetterselo. Secondo gli inquirenti era diventato una sorta di manager in una piazza di spaccio nella periferia popolare a nord-est della Capitale. In una fetta di territorio vicino al bar della coltellata in via Corinaldo, famoso per una serie di fattacci di cronaca nera, regolamenti di conti avvenuti, soprattutto, negli anni Ottanta. Qui Di Ponto gestiva un gruppo di pusher che vendevano al dettaglio la cocaina. Ad introdurlo nell'ambiente sarebbe stato un suo amico che avrebbe fatto da garante. L'ultras della Lazio, però, non si sarebbe comportato in modo corretto. Avrebbe fatto il gradasso con i grandi fornitori della zona, insultato chi non doveva. Anche per questo motivo Di Ponto avrebbe discusso, pochi giorni prima del suo assassinio, anche con lo stesso amico che era riuscito ad introdurlo a San Basilio. Secondo gli inquirenti, perciò, la morte del 36enne si inquadrerebbe all'interno di questo contesto. Anche se sulla fine tragica dell'uomo la squadra mobile ha seguito più piste. Oltre alla casa degli orrori il pm Giorgio Orano e gli agenti per diverso tempo avevano battuto anche un'altra strada. Di Ponto, secondo questa altra ipotesi, sarebbe stato ucciso dentro un'auto. I killer avrebbero lasciato il cadavere dentro la macchina per una notte. Il giorno seguente però, per gli assassini, sarebbe stato impossibile trascinare il corpo, completamente irrigidito, fuori dal mezzo. Per questo si sarebbe reso indispensabile tagliare la gamba per tirare via il corpo dall'auto e disfarsi del 36enne. Tuttavia se sulla prima ipotesi, quella della casa degli orrori, si erano avuti dei riscontri su questa altra non erano emersi elementi significativi. Due tracce su cui avevano lavorato gli investigatori indicate da diverse fonti confidenziali che in comune avevano, comunque, un punto di contatto. Ricorreva, nelle ricostruzioni che offrivano, sempre uno stesso nominativo. Entrambi, in sostanza, indicavano, tra le varie persone che avevano partecipato all'omicidio di Di Ponto, il nome di un uomo. Per questo, per diverso tempo, era stato iscritto nel registro degli indagati. Contro di lui, però, non si era potuto procedere per assenza di gravi indizi. Un'inchiesta delicata e complicatissima. Anche perché Di Ponto aveva fatto terra bruciata attorno a sé. La moglie lo aveva abbandonato, visto il carattere violento era scappata in Francia. Il suocero aveva detto ai cronisti, senza un'ombra di pietas, «io una persona così cattiva non l'avevo mai vista». Tra i due non scorreva buon sangue. L'uomo, inoltre, destando il sospetto degli investigatori, aveva fatto rottamare la moto in uso al genero pochi giorni dopo la sua scomparsa. Mentre su Facebook, il 36enne, tra le tante foto che lo ritraevano, con una faccia da rissaiolo, occhiali scuri e il corpo istoriato di tatuaggi, aveva postato una frase da malavitoso doc: «I soldi servono a tutti ma non devi infamare». Traduzione: vietato fare la spia. Un messaggio che aveva rivolto a qualcuno? Di certo pochi giorni o forse poche ore più tardi dopo quell'ultimo post, Gabriele Di Ponto era stato ucciso.

REBIBBIA CITTÀ APERTA. Enrico Bellavia per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 agosto 2019. C'è il broker internazionale della cocaina nato a Roma ma cresciuto in affari con i Bellocco di Rosarno, quello legato ai Giorgi di San Luca e quell'altro che invece cura gli interessi degli Alvaro di Sinopoli. Ci sono i re dello spaccio dell' hinterland, Guidonia e Tivoli, e quelli delle periferie della Capitale, Tor Bella Monaca, su tutte, e poi Tufello, Montespaccato e San Basilio. Quelli che si sono guadagnati l' esclusiva dell' approvvigionamento dai calabresi e dai napoletani di Michele Senese 'o pazzo e che ora godono del loro appoggio per regolare i conti in casa. Come sembra sia accaduto per Fabrizio Piscitelli "Diabolik". C' è anche il rapinatore di banche che ha ucciso in trasferta. Il balordo che ha sparato dopo una lite in un bar. Il figlio di uno dei pezzi grossi della Banda della Magliana e uno del giro dell' estrema destra di Massimo Carminati. Tutti tossicodipendenti o presunti tali. Alcuni abbastanza in là con gli anni, altri sottoposti al regime di Alta sicurezza. Tutti pronti a uscire dal carcere di Rebibbia o che già hanno detto addio a sbobba e permessini per acquartierarsi in comunità di recupero. Meno restrizioni, maggiori margini di manovra, spesso la possibilità di tornare a casa dalle cinque del pomeriggio, controlli meno severi. Questo significa ottenere l' agognata certificazione che sancisce la necessità di uscire dal tunnel della dipendenza. Un po' quello che accadeva, e accade ancora, con le diagnosi di patologie psichiatriche. Proprio quelle di cui ha goduto Senese, uno dei "Re di Roma". Dopo l' infittirsi di casi che hanno costretto a interrogarsi sul profilo di questi pazienti, mischiati ai tanti che tossicodipendenti lo sono per davvero, la procura della Repubblica di Roma ha deciso di aprire un' inchiesta, affidata al pm Barbara Zuin. Screening mirato su un centinaio di nomi, l' ultimo elenco ne conta 56, la cui storia personale e i trascorsi fanno sollevare legittimi dubbi sulla gravità dello stato clinico. Diari, cartelle, relazioni degli psicologi, tutto da valutare in controluce scrutando tra le pieghe dei trascorsi giudiziari dei beneficiari. L'inchiesta procede con l' acquisizione di tutta la documentazione delle autorità sanitarie che si occupano di droga nel circuito carcerario di Rebibbia. Lì, come dappertutto in Italia, è possibile dichiararsi tossicodipendente, per sottoporsi a un progetto di recupero in comunità. Per farlo occorre che il progetto sia ritenuto adeguato e che ci sia la certificazione di psicologi e medici che dipendono dall' Asl. La valutazione ultima per i condannati spetta al magistrato di sorveglianza, chiamato a decidere sulle carte che il carcere ha prodotto. Per gli imputati in attesa di giudizio, la decisione spetta al giudice per le indagini preliminari. L'inchiesta della procura mira a stabilire se sia tutto regolare o ci siano state pressioni, minacce o peggio un giro di favori e regalie per ottenere i certificati paragonabili a una sorta di salvacondotto per lasciare la prigione. È l' ennesimo ciclone giudiziario per un carcere, Rebibbia, già teatro di inchieste e girandole di rimozioni seguite a evasioni, episodi di corruzione e carte truccate, che tuttavia si sforza anche di innovare e proporsi come modello nell' ottica rieducativa della pena. Molti i progetti di reinserimento, dai detenuti a bassa pericolosità e con poco tempo di pena residua, utilizzati come giardinieri o per il ripristino del disastrato manto stradale della capitale, ma anche l' esperimento di un ristorante aperto al pubblico e la produzione di caffè in una torrefazione interna. L'inchiesta tuttavia prende in esame uno degli aspetti della vita di questa immensa cittadella carceraria che in condizioni di sovraffollamento rispetto alla capienza, conta oltre 2.300 detenuti, 369 dei quali donne. Sulla gestione dei problemi legati alla tossicodipendenza, prima ancora dell' avvio dell' attività della magistratura, esistono delle segnalazioni interne incentrate sulla catena di comando di medici e psicologi addetti al servizio e alle scelte operate per il conferimento di incarichi. Elementi che si sommano a quelli che la stessa direzione del carcere femminile aveva condensato in una nota alla magistratura. Ora il lavoro dei pm su singoli casi di scarcerazioni o di istruttorie avviate con questo obiettivo. Uno dei criteri in esame è il tempo trascorso tra la richiesta e l' ottenimento del beneficio. Perché, come sa chi si occupa di carceri, lì più che altrove, il tempo non è una variabile di poco conto.

Dario Del Porto per “la Repubblica” il 12 agosto 2019. L'erede del boss "Borotalco" e il "capitan futuro" della Roma. Nelle carte dell' inchiesta su una delle più potenti organizzazioni camorristiche della periferia occidentale di Napoli c' è anche l' incontro fra Vincenzo Cutolo, considerato il reggente del clan del Rione Traiano fondato dal padre Salvatore, e Daniele De Rossi, per anni bandiera della squadra giallorossa, oggi in Argentina nelle fila del Boca Juniors. Un colloquio avvenuto sei anni fa, alla vigilia di una partita di campionato fra Napoli e Roma, reso possibile, si desume dalle intercettazioni, grazie all' intervento di un altro calciatore, Antonio Floro Flores, cresciuto nel Napoli e poi protagonista una lunga carriera in serie A con Genoa, Udinese, Chievo. Cutolo e Floro Flores si conoscono da sempre, sono cresciuti nello stesso quartiere e una sorella dell' atleta ha sposato un cugino del presunto capoclan. Il figlio di "Borotalco", tifosissimo della Roma, sognava di conoscere De Rossi. E la sera del 5 gennaio 2013, chiama Floro Flores alle 21.42: «Tutto a posto, sto con Daniele, anche nella stanza. Ora te lo passo», dice Cutolo. I due calciatori scherzano sugli acciacchi. Floro Flores prende in giro il romanista: «Da quando ti sta allenando Zeman sei morto...». E De Rossi gli chiede: «Ma tu lo hai mai avuto?». L' attaccante annuisce: «Sì, quando ho fatto la prima partita in serie A». Poi aggiunge: «È massacrante, lo so». Quindi De Rossi restituisce il telefono a Cutolo: «Enzuccio, tutto a posto allora, dai», dice Floro Flores. L' inchiesta è condotta dai carabinieri, coordinati dal pm Francesco De Falco. Cutolo, difeso dall' avvocato Antonella Regine, è in carcere da maggio. De Rossi e Floro Flores sono estranei all' indagine. Dai dialoghi con i due calciatori non sono emersi illeciti, gli investigatori li citano allo scopo di delineare «la figura autoritaria di cui Cutolo sembra godere in ogni ambiente ». Il giorno successivo, Cutolo parla con un uomo non identificato, che gli dice: «Enzù, De Rossi non gioca, perché si è bloccato con il collo, non ce la fa a muoverlo... Me lo ha detto ora quando gli ho portato le pastiere». E il boss chiede: «Ma chi hai trovato? Proprio Daniele?». L' altro conferma: «Eccome, quello è sceso proprio lui giù, se le è venute a prendere. Mi ha ringraziato, ha detto "ringrazia anche Enzo, ma perché avete fatto questo? Vi ringrazio pienamente..."». Gli inquirenti non hanno dubbi: quelle di cui si parla erano effettivamente «pastiere» e niente altro. E, contrariamente a quanto sostenuto dall' interlocutore di Cutolo, De Rossi giocherà regolarmente quel Napoli- Roma.

Gli amici calciatori del boss della droga: "Incontrò De Rossi". Daniele De Rossi già stella della Roma da cui si è separato pochi mesi fa per andare a giocare nel campionato argentino col Boca Juniors Ha giocato anche in Nazionale. Agli atti dell’inchiesta sulla camorra di Rione Traiano le intercettazioni in cui il capoclan Cutolo conversa con l’ex capitano della Roma e con Floro Flores, ex attaccante di Napoli e Genoa, imparentato con lui. Dario Del Porto per “la Repubblica” il 12 agosto 2019. Ci sono anche i « contatti confidenziali con noti calciatori » , fra gli elementi emersi dalle intercettazioni dell’inchiesta su Vincenzo Cutolo, 35 anni, considerato il reggente del clan attivo nella zona del Rione Traiano capeggiato dal padre, Salvatore detto "borotalco". Spunti che, va chiarito, non hanno fatto emergere rapporti né condotte di natura illecita, ma che gli investigatori citano allo scopo di delineare «la figura autoritaria di cui Cutolo sembra godere in ogni ambiente». Negli atti dell’indagine, condotta dai carabinieri coordinati dal pm Francesco De Falco, c’è anche una conversazione con un big del pallone: Daniele De Rossi, campione del mondo con la Nazionale nel 2006, ex capitano della Roma, da pochi giorni in Argentina nelle file del Boca Juniors. La telefonata risale al 5 gennaio di sei anni fa, alla vigilia della partita Napoli- Roma. Vincenzo Cutolo, tifosissimo dei giallorossi, incontra De Rossi grazie ad Antonio Floro Flores, calciatore di ottimo livello, cresciuto nel Napoli e poi protagonista una lunga carriera in serie A con Genoa, Udinese, Chievo. Cutolo e Floro Flores si conoscono da sempre, sono cresciuti nello stesso quartiere e una sorella dell’atleta ha sposato un cugino del presunto capoclan. Alle 21.42, Cutolo chiama Floro Flores: «Tutto a posto, sto con Daniele, anche nella stanza. Ora te lo passo » , dice Cutolo. Daniele è proprio De Rossi. I due calciatori scherzano sugli acciacchi e sugli allenamenti dell’allenatore Zeman. Floro Flores prende in giro il romanista: «Da quando ti sta allenando lui sei morto...». E De Rossi gli chiede: «Ma tu lo hai mai avuto? » . L’attaccante annuisce: « Sì, quando ho fatto la prima partita in serie A » . Poi aggiunge: « È massacrante, lo so». Quindi De Rossi ripassa il telefono a Cutolo: « Enzuccio, tutto a posto allora, dai», dice Floro Flores. E l’altro lo ringrazia. Il giorno successivo, Cutolo parla con un interlocutore non identificato, che gli dice: « Enzù, De Rossi non gioca, perché si è bloccato con il collo, non ce la fa a muoverlo...Me lo ha detto ora quando gli ho portato le pastiere». E il boss chiede: «Ma chi hai trovato? Proprio Daniele? » . Il suo interlocutore conferma: « Eccome, quello è sceso proprio lui giù, se le è venute a prendere. Mi ha ringraziato, ha detto " ringrazia anche Enzo, ma perché avete fatto questo vi ringrazio pienamente..."». Nessun dubbio, da parte degli inquirenti, che quelle di cui si parla nella conversazione fossero effettivamente « pastiere » e niente altro. Per la cronaca, va aggiunto, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutore di Cutolo, De Rossi giocherà regolarmente quel Napoli- Roma. Nella conversazione si parla anche di un non meglio identificato Alessandro che, sostiene l’interlocutore di Cutolo, avrebbe dato la propria disponibilità per far visitare il centro sportivo della Roma: «Ha detto che quando vogliamo andare a Trigoria, basta chiamarlo ». Le intercettazioni sono state depositate agli atti dell’inchiesta che vede Cutolo in carcere con le accuse di associazione camorristica e droga. L’avvocato Antonella Regine, legale di Cutolo, afferma: « Non c’è alcun illecito in queste conversazioni, né sono state mai contestate ipotesi di calcioscommesse».

Massimo Carminati a processo chiede scusa al pm per il "vaffa". Er Cecato, condannato a 14 anni di reclusione per Mafia capitale, è tornato davanti al giudice per le pesanti offese rivolte al magistrato Tescaroli. Nessun riferimento nelle sue dichiarazioni spontanee ai fatti avvenuti a Roma. Telesio Malaspina il 6 settembre 2019 su L'Espresso. Il capo di "mafia Capitale", Massimo Carminati, oggi davanti al giudice ha ripetuto più volte la frase con la quale ha mandato a quel paese il pm Luca Tescaroli il giorno in cui ha chiesto alla Corte d'appello la condanna per associazione mafiosa per l'estremista di destra. Stamani nell'aula del palazzo di giustizia di Perugia "er cecato" è apparso in videoconferenza ed ha spiegato a modo suo il "vaffa" con il quale ha commentato due anni fa la richiesta di Tescaroli. E per questo motivo che Carminati è imputato a Perugia: oltraggio a magistrato in udienza. I fatti sono stati registrati in aula a Roma il 27 aprile 2017 e proprio perché la parte offesa è un magistrato della Capitale la competenza dei togati spetta a Perugia.

Tribunale di Perugia, Massimo Carminati in video conferenza spiega i pesanti insulti rivolti al pm Luca Tescaroli durante il processo di secondo grado per Mafia Capitale. Carminati è apparso in videoconferenza dal carcere di Oristano, dove sta scontando al 41bis la condanna a 14 anni per associazione mafiosa, in attesa del pronunciamento della Cassazione fissato per il 16 ottobre. L'udienza si svolge nell'aula degli affreschi della corte d’appello di Perugia. L'immagine dell'imputato è proiettata su un grande schermo, indossa una camicia nera, jeans chiari e occhiali dalla montatura scura. Per gran parte dell'udienza è rimasto ad ascoltare le fasi del dibattimento seduto con le braccia incrociate. È stata ritardata l'apertura del processo rispetto all'orario fissato dal giudice perché il difensore dell'imputato, l'avvocato Cesare Placanica, risultava irreperibile. La cancelleria del tribunale non riusciva a contattarlo, tant’è che il giudice aveva chiesto di convocare un avvocato d'ufficio in modo da far cominciare l’udienza. Il caso vuole che questo arrivi quasi contemporaneamente a Placanica, poco dopo le 13. Presente in aula anche Luca Tescaroli. La testimonianza del magistrato che ha seguito Mondo di Mezzo, da poco nominato procuratore aggiunto a Firenze, apre l'udienza. Ricorda cosa è accaduto il 27 aprile di due anni fa, e il motivo per cui oggi Carminati è imputato a Perugia. «Quando chiesi per lui 28 anni di carcere per i vari capi di imputazione, rimase impassibile». Poi proseguendo nelle richieste, quando Tescaroli chiese di dichiararlo “delinquente abituale” (richiesta recepita dal giudice in primo grado, ndr), vide il cecato «alzare pugni chiusi come gesto di euforia e poco dopo dire alcune cose, che mi parvero delle imprecazioni. Io dall’aula non sentii cosa disse, ma vedendo i gesti che ha fatto, immaginai che fosse un’imprecazione correlata alla mia richiesta». Il pm, durante l’udienza di due anni e mezzo fa, non si rivolse subito al giudice «per non dare pubblicità al fatto», ma si rivolse solo al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e chiese agli agenti presenti con Carminati - allora collegato dal carcere di Parma - una relazione su quei momenti, da cui ebbe la conferma dell’insulto attraverso la trascrizione dell'audio di udienza. Carminati ascolta seduto, braccia incrociate, ogni tanto una mano portata a coprire il viso. Niente di più. Dopo dieci minuti, alla fine della testimonianza di Tescaroli, l’avvocato di Carminati non procede con il controesame, dichiarando ironicamente la sua “ammirazione” per la sentenza di Mondo di Mezzo. Poi è il turno dell’ispettore della polizia penitenziaria che era presente con Carminati quel 27 aprile a Parma, che conferma quanto detto dal magistrato, sottolineando che «quel vaffanculo era stato rivolto al pm». Poi è il turno del "Cecato", che decide di rilasciare una dichiarazione spontanea. Carminati si scusa con il pm, che pure «era stato molto duro nei miei confronti durante il processo». Spiega poi che il suo gesto di “esultanza” era ironico e che l’insulto non era rivolto a nessuno in particolare, ma era «impersonale» in quanto giudicava «eccessiva la richiesta a 30 anni (28 per i capi di imputazione, 2 per la delinquenza abituale) da parte dei magistrati». Carminati parla per quasi cinque minuti, ripetendo più volte l'offesa, dando la sua versione dei fatti. Ma nessuna frase insolita, nessun gesto che può far intendere un secondo significato di quel che sta dicendo. Ripete però più volte "vaffa..." con la scusa di spiegare. Nessun riferimento alla morte del suo amico Fabrizio Piscitelli, il “Diabolik” della Curva Nord della Lazio morto in un agguato dalle modalità mafiose lo scorso 7 agosto. Né nessun accenno alla sceneggiata e all’arresto del suo “braccio destro” Fabio Gaudenzi, alle sue frasi sui “fascisti di Roma Nord”, alla sua richiesta di condanna per lui, Carminati e Riccardo Brugia per banda armata. Finita la dichiarazione, il "Cecato" chiede di poter conferire con l’avvocato Placanica, con cui parla per qualche minuto riservatamente. L’udienza finisce poco dopo, con Carminati che se ne va avvicinandosi allo schermo, verso cui alza la mano due volte. Il processo è rinviato al 2020 ma l’attesa è tutta per il 16 ottobre, quando la Cassazione si pronuncerà su "mafia Capitale".

Mafia Capitale. Come tutto ebbe inizio, scrive il 26 Marzo 2019 Carmelo Carbone su  Mafiathemisemetis.com. Poco tempo dopo il rientro forzato di Frank Coppola in Italia, (ricordiamo che Coppola era stato espulso dagli Stati Uniti come “elemento indesiderabile” aveva acquistato una Villa e terreni a Pomezia e li risedeva) ed esattamente il 14 ottobre 1952, l’allora Senatore comunista Girolamo Li Causi dagli scranni di Palazzo Madama, presente il Ministro dell’Interno Mario Scelba, denunciò i legami del boss con alcuni politici e giornalisti e membri delle forze dell’ordine. “Mi permetto onorevoli colleghi, con quel rammarico e senso di responsabilità che ritengo di avere avuto in tutti questi anni di così aspro travaglio per la mia terra, di denunciare a voi una nuova forma di delinquenza che si manifesta nel nostro Paese ed è collegata col gangsterismo italo-siculo-americano, e di additare i legami di questo fenomeno, con uomini del nostro mondo politico. Potete dirmi: spacciatori di stupefacenti esistono a Milano e nelle altre metropoli europee; è vero, però non è risultato finora che vi siano direttori di grandi giornali legati a queste bande di delinquenti. Risulterà certo all’onorevole Scelba e all’onorevole Vannoni che uomini politici, alti burocrati, giornalisti, sono legati a questi trafficanti, moltissimi in buona fede, senza saperlo, altri, pochi, in modo consapevole. Ecco brevemente i fatti: verso la fine di marzo di quest’anno i nuclei di polizia investigativa tributaria della guardia di Finanza della Sicilia e del Lazio hanno scoperto alla stazione di Alcamo un tale che aveva nascosto dentro un baule dell’eroina. Dalle indagini è risultato che il principale responsabile, oggi ancora latitante, è un tale Francesco Paolo Coppola, ex gangster americano, come la Polizia lo definisce, espulso dagli Stati Uniti, e molto legato ad ambienti politici della capitale e dell’isola. Questo signore ha comprato una tenuta ad Anzio di 50 ettari, per il valore di cinquanta milioni, e via ha costruito una villa ed una vaccheria modello per un valore di altri venti milioni. Ad Anzio era riverito dal Maresciallo dei Carabinieri, naturalmente ignaro dell’attività del personaggio, tanto più che spesso il Coppola veniva visto in macchina insieme con un colonnello della Guardia di Finanza. In occasione del matrimonio della figlia, il Coppola ricevette felicitazioni da oltre quattrocento personaggi del mondo politico, economico e dell’alta burocrazia statale, fra cui ufficiali e funzionari delle forze di polizia. Alla Polizia risulta l’intimità di questo Coppola con Lucky Luciano altro personaggio che voi conoscete come gangster siculo americano. E con Frank Costello, del quale tutti voi avete sentito parlare in questi giorni. Mi fermerò su due fatti che dimostrano la collusione tra questo mondo e quello politico. Eccovi una lettera de il direttore de “Il Giornale d’Italia” a Francesco Paolo Coppola che vi leggo da una riproduzione fotografica: Carissimo Don Ciccio, dovrei rimproverarla, ma non posso non accettare il gentile pensiero che rivela il suo animo e testimonia del suo affetto per me. Di questo ne sono molto grato. Posso assicurarla che ricambio con pari affetto la sua amicizia. Siamo di Partinico e ci comprendiamo benissimo. Disponga di me. Non ho avuto ancora risposta da Atene, appena la avrò gliela comunicherò. Venga da me quando vuole. Avrò sempre piacere a vederla. Grazie ancora del bel regalo e mi creda. Suo affezionatissimo Santi Savarino”. Quest’altra lettera di un deputato: “Carissimo Don Ciccio, l’ultima volta che ci vedemmo all’Hotel delle Palme ( a Palermo – n.d.a), lei mi diceva che giustamente che a Partinico occorreva un deputato regionale giovane, svelto ed a portata degli amici. (N.N.) e qui il nome, risponde a tutti questi requisiti ed io ho deciso di aiutarlo con tutte le mie forze. Se a partinico mi aiutate lo faremo diventare deputato. Con affettuosi Saluti mi creda… segue la firma”. “Ora, nel numero delle conoscenze più o meno intime del Coppola figurano anche deputati democristiani e di altri partiti dell’ordine, naturalmente persone molto rispettose dei beni dell”anima e dei valori dello spirito! Non v’è dubbio, ripeto, che fra centinaia di nomi che vengono fuori dai taccuini e dalla corrispondenza del Coppola e tra coloro che scrivono e si felicitano con Don Ciccio per il matrimonio della figlia, molti sono di gente in buona fede, raggirata da questo “mariuolo”. Ma queste isole non sono forse un quinto dell’Italia, indispensabili alla sua esistenza di Nazione e punti nevralgici nella nostra situazione attuale?” *Candidato nelle liste della DC,  venne eletto senatore nel 1953 è morto Roma, a settantanove anni, nel 1966. Intitolati a suo nome il Liceo Classico di Partinico e due vie, una a Partinico suo paese natale e l’altra a Roma.

Rinaldo Frignani per corriere.it il 24 novembre 2019. Quattro anni fa era stata arrestata dai carabinieri per aver accoltellato più volte il compagno della figlia nel corso di una spedizione punitiva nella sua abitazione. Lo stesso ragazzo adesso 27enne che venerdì pomeriggio sedeva accanto a lei su una Citroen C1 fermata a un posto di blocco lungo via Laurentina. Al volante dell’utilitaria però c’era proprio lei, Fabiola Moretti, 64 anni, la «primula rossa» della Banda della Magliana, personaggio-chiave oltre che collaboratrice di giustizia in inchieste che vanno dall’omicidio Pecorelli alla scomparsa di Emanuela Orlandi. L’ex compagna di Antonio Mancini, l’«Accattone», che prima ancora aveva avuto una relazione sentimentale con Danilo Abbruciati, altro boss della Magliana ucciso nel novembre ‘82 a Milano durante il fallito agguato al vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, è stata perquisita e trovata in possesso di oltre un etto di cocaina nascosto nel reggiseno. I carabinieri della compagnia di Pomezia l’hanno così arrestata per detenzione e spaccio di stupefacenti, mentre hanno denunciato il «genero», che aveva invece una modica quantità di hashish. Ora i militari dell’Arma indagano sulla provenienza della droga e sulla sua destinazione, visto che dai primi accertamenti Moretti stava tornando a casa, nel fortino di Santa Palomba, fra Roma e Albano, già al centro di numerose operazioni delle forze dell’ordine. Tre anni fa proprio l’amica che fu più vicina a Enrico De Pedis, il super boss della Magliana, fu arrestata nell’ambito di un’altra operazione antidroga di Squadra mobile e Gico della Finanza, mentre solo pochi mesi prima proprio il genero e la figlia erano finiti in manette sempre per stupefacenti.

Banda della Magliana, vita dei boss superstiti tra nuovi hobby e malanni. Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Molti, quasi tutti, all’età delle passeggiate nel parco col nipotino non ci sono arrivati. La loro scellerata corsa criminale si è fermata prima, al tempo in cui si sentivano invincibili: «a bocca sotto» sull’asfalto, freddati da una raffica di revolverate per mano di ex amici o clan rivali. Elenco lunghissimo: da Franco Giuseppucci detto «Er Negro» (1980) a «Renatino» De Pedis (1990), fino ad Angelo Angelotti, noto nell’ambiente come «il Giuda», mandato al Creatore nel 2012. Banda della Magliana: una saga infinita di sangue. Intanto gli altri, i malacarne arrestati, assistevano alla mattanza dalle patrie galere. Si passavano voce di cella in cella. Talvolta esultavano, se a cadere era stato un nemico. Ma tutti in cuor loro - pur senza ammetterlo - benedicevano il giorno in cui le «guardie» se li erano «bevuti». Perché basta farci l’abitudine e dal purgatorio si esce, prima o poi. E infatti. Quel momento è arrivato. Dopo un bel po’ di anni al «gabbio» (chi venti, chi trenta, i pentiti molti meno) quasi nessuno dei vecchi boss o luogotenenti è ancora dentro. Incanutiti, ingrassati, alle prese con i controlli periodici alla prostata e ai livelli di colesterolo. Ma vivi. E neanche troppo scontenti, in fondo. Specie quelli che, grazie ai programmi di rieducazione, hanno trovato il modo di coltivare qualche interesse.

Il precursore è stato Renzo Danesi, tra i fondatori della «bandaccia», sulle spalle una doppia condanna a 20 e 25 anni per il sequestro del conte Grazioli (concluso con la morte dell’ostaggio) e al termine del processo scaturito dall’operazione Colosseo (1993). «Er Cabbajo» s’era fatto notare come un buon attore già a Rebibbia, da dove usciva con la compagnia stabile «Assai» per partecipare all’Estate romana o ad altre manifestazioni. Poi, dal 2015, una volta tornato a casa al Trullo, la carriera ha preso il volo. «Già da bambino facevo teatro, è una passione che ho sempre avuto». Peccato che nel periodo di mezzo si sia dedicato agli atti più efferati... «Ho capito di aver sbagliato da tantissimo tempo. Il nostro gruppo ha iniziato con le rapine per poi arrivare ai crimini più brutti, che visti col senno di poi non rifaresti». Il teatro come terapia: «Oggi recitare mi diverte, scrivo anche i testi...» E il pubblico apprezza: in cartellone a Rocca di Papa, per l’aprile 2020, c’è lo spettacolo «Roma criminale», regia di Antonio Turco. Attore protagonista? Renzo Danesi. Chi meglio di lui...

Il «Palletta», al secolo Raffaele Pernasetti, testaccino e amico fraterno del boss De Pedis, quattro ergastoli («ma tre me li hanno annullati in appello») e 22 anni di carcere sul groppone, sempre sull’arte punta, ma culinaria. Fin da quando beneficiò dei primi permessi, nel 2012, il fu rapinatore di banche e sicario dalla mano fermissima scelse la cucina come luogo della rinascita: in particolare quella del ristorante di famiglia «Da oio a casa mia», in via Galvani, dove la nipote Cristina lo adora, premette che «mio zio ha pagato per tutti, è una persona cambiata, e oggi è diventato uno chef bravissimo, attento agli alimenti naturali, e come lo cucina lui, il baccalà, non ci riesce nessuno». Peccato per la salute. In una pausa dai suoi intingoli, è lo stesso Pernasetti a rispondere al telefonino. Lo slang romanesco è sempre quello: «Ahò, ma voi giornalisti quann’è che ve scordate de me? Ormai so’ sur viale del tramonto, zoppico, colpa dell’artrosi...» Progetti al di là dei manicaretti? Forse un libro sugli anni ruggenti al fianco del Dandi? «E tu come lo sai? Sì, c’ho pensato. E sta’ sicuro che se parla Pernasetti vie’ giù tutto... Ho cominciato a scrive’, però so’ stanco, me fanno male le gambe...»

Guai fisici affliggono anche il pentito Maurizio Abbatino, 65 anni, il «Crispino» (per i capelli ricci) dei tempi andati, che sul cellulare ha un programma impostato sulle scadenze delle pastiglie quotidiane (lui stesso raccontò in un’intervista di essersi iniettato il virus dell’Aids tramite il sangue di un detenuto a Rebibbia, per essere trasferito in clinica ed evadere). Di recente a Raffaella Fanelli, nel libro «La verità del Freddo», Abbatino ha confidato la sua matematica certezza che prima o poi verrà ucciso per vendetta («sono un morto che cammina»). Nell’attesa, in seguito alle rivelazioni sull’omicidio Pecorelli e alle minacce giunte al suo avvocato (Alessandro Capograssi), ha lasciato Roma. Gli unici sfizi che si concede sono il look da figurino, completi impeccabili con tanto di foulard, e per scaricare la tensione «la guida come un pazzo, ad altissima velocità: io ci sono stata sulla sua Golf e non vedevo l’ora di toccare terra», testimonia la Fanelli.

Un altro che non disdegna di finire in copertina è Antonio Mancini, «l’Accattone», così ribattezzato in quanto estimatore di Pier Paolo Pasolini, capo (e pentito) storico della banda: dopo l’uscita di galera, ha lavorato per un’associazione pro-disabili a Jesi, nelle Marche, e dal 2015 fatto parlare di sé in quanto autore (con Federica Sciarelli) della sua biografia dannata («Con il sangue agli occhi») e poi del romanzo, scritto da solo, «Qualcuno è vivo», una storia di «mala» frutto di fantasia, ambientata negli anni Sessanta a San Basilio, borgata natia.

Non solo nostalgia e voglia di riscatto, però. I modi bruschi restano, se li hai nel sangue: Fabiola Moretti, un’altra pentita nonché ex donna dei boss, da Danilo Abbruciati allo stesso «Accattone», a fine 2015 tornò sulle cronache per aver accoltellato il fidanzato di sua figlia, che non le andava a genio, in zona Santa Palomba. Modi spicci che invece Marcello Colafigli detto «Marcellone», altro recordman di condanne tuttora recluso, giura di aver rinnegato. «Io non ho mai ucciso e so’ l’unico dentro», non fa che ripetere al suo avvocato Gianluca Pammolli, che ha presentato istanza per una misura alternativa al carcere e promosso una class action alla Corte europea sui diritti degli ergastolani. Il suo assistito, per ora, fa il buono. Tiene a bada la micidiale forza fisica, che in gioventù gli consentì di incrinare un vetro blindato con un pugno, e in cella si dedica alla lettura: dopo il «Codice da Vinci» si è appassionato ai romanzi di Wilbur Smith, e deve essere un modo per continuare a vivere avventure incredibili, finalmente innocue, di sola fantasia.

Giampiero Calapà per il “Fatto quotidiano” il 18 novembre 2019. Tor Bella Monaca, San Basilio, Romanina, Quarticciolo, Corviale, Primavalle, Ostia e Acilia, Tufello, Val Melaina, Quadraro. Sono alcune delle venti "piazze di spaccio" di Roma, quelle considerate chiuse, spesso con tanto di vedette alla Scampia di Gomorra, che da oggi lo Stato proverà a scardinare con l' invio, annunciato in pompa magna dal ministro dell' Interno Luciana Lamorgese, di 250 agenti in attesa per il 2020 di altri colleghi per arrivare a un piccolo esercito di 550 uomini e donne in divisa. Perché Roma è inondata di droga, con 572 chili di polvere bianca sequestrati nel 2018 degna capitale di un' Italia al secondo posto mondiale, rileva il Global drug survey, per consumo di cocaina, dietro solo agli Stati Uniti e davanti al Canada. Le piazze aperte e i narco-albanesi La preoccupazione maggiore per l' Antidroga della polizia, però, sono le "piazze di spaccio" aperte, spesso coincidenti con i luoghi della movida notturna e più vicine al cuore della città: Pigneto, San Lorenzo, Centocelle, Trastevere, Ponte Milvio, la centralissima Campo de' Fiori. È tanta parte del business criminale, qui non ci sono famiglie mafiose storiche che perpetuano il controllo del territorio e l' intimidazione. Qui ci sono cani sciolti e bande di diverse nazionalità. Il ruolo centrale lo hanno via via assunto i narco-albanesi, col dissolversi della pax mafiosa e degli equilibri garantiti dal Mondo di mezzo di Massimo Carminati (detenuto, ma non più al 41bis dopo la sentenza della Cassazione che ha cancellato Mafia Capitale). La banda dei narco-albanesi - molti di loro vivono ad Acilia, agglomerato urbano tra i confini sud occidentali della città e Ostia - è suddivisa in quattro o cinque gruppi criminali. Devono le loro fortune, i narco-albanesi, a Arben Zogu , detto Riccardino, che fu capace di accreditare la "batteria di Ponte Milvio" nel gotha del narcotraffico internazionale, quando in carcere ad Avellino conobbe nel 2013 Rocco Bellocco, uno dei capi della 'ndrangheta di Rosarno. Zogu, ora in carcere, amico storico del narco-ultrà Diabolik Fabrizio Piscitelli (ammazzato lo scorso agosto al Parco degli Acquedotti), è stato capace di avere ottime relazioni sia con Massimo Carminati, sia con il clan di Afragola, sia con il clan Pagnozzi, sia con Michele Senese 'o Pazzo, e questo ha garantito l' ascesa dei suoi eredi, oggi imbattibili come rivenditori di droga all' ingrosso per spacciatori più o meno organizzati e cani sciolti, che si possono rivolgere ai narco-albanesi pagando la cocaina 28 mila euro al chilo. Ai narco-albanesi piace la bella vita, le fuoriserie sportive e il lusso sfrenato, tallone d'achille non da poco. È ritornato sul ring, tra Italia e Albania, Orial Kolaj , nel curriculum svariati titoli da campione di pugilato e il "rispetto" di chi ha usato i suoi pugni per intimidire tra Acilia e Ponte Milvio, nel 2013 arrestato proprio perché al servizio del clan Iovine dei Casalesi. Un altro pezzo del puzzle, perché Roma è una grande mangiatoia: accoglie criminali e mafie da ogni angolo d' Italia e non solo. Saltato il tappo del "Samurai" Dal 2 dicembre 2014, con gli arresti per la Mafia Capitale derubricata solo a Mondo di mezzo dalla Cassazione, molto è cambiato. Massimo Carminati rappresentava l' alfa e l' omega teso a garantire la pax mafiosa, la tranquilla spartizione di traffici e territorio. In ultima istanza la Cassazione della strada era rappresentata dal Samurai di Suburra. Dopo cinque anni il terremoto criminale sta generando una corsa al trono. E questo provoca una guerra tra le vecchie storiche famiglie di mafia e di malavita. L' ultimo episodio soltanto qualche giorno fa a Boccea alle 19,30: in pieno traffico, con le auto incolonnate, una moto affianca la vettura di Leonardo Bennato , un tempo tra i fedelissimi di Diabolik, già latitante in Spagna e già arrestato in passato; nipote di Mario Maida, che fu ucciso nel 2012 con un colpo di pistola alla tempia a Torrevecchia, parente del narcotrafficante Walter Domizi. La pistola giovedì sera a Boccea ha sparato. Bennato, colpito all' addome, è sopravvissuto. Nel periodo, 2013, in cui si nascondeva a Barcellona la città catalana era rifugio di un altro latitante romano, Alessandro Falciani , nipote del super boss di Ostia Carmine Falciani, al 41bis da anni. Sempre giovedì sera Falciani, precedenti per omicidio, è stato arrestato mentre si stava recando a Fiumicino: avrebbe preso un volo per Cancun, Messico, e di lì una "base" americana gli avrebbe garantito protezione in Belize. L' arresto è stato rocambolesco, Falciani non ha risposto allo stop e, anzi, ha tentato di investire un agente. Ma le manette ai suoi polsi sono scattate. Nelle stesse ore un altro grosso arresto veniva eseguito a Tor Bella Monaca: Giuseppe Moccia dell' omonimo clan camorristico di Afragola è stato fermato con addosso 124,8 grammi di cocaina già suddivisi in 197 pratiche dosi. Il giorno seguente, venerdì, l' antidroga della polizia guidata dalla dirigente Mariangela Sciancalepore è riuscita ad arrestare altri nomi che evocano clan dall' enorme caratura criminale, questa volta 'ndrangheta: Antonio Pelle , 'ndrina di San Luca, e Sebastiano Pizzata , 'ndrina di Bovalino, con loro un siciliano, Domenico Arigò. Avevano adibito la stanza di un albergo a Ostia Antica come centro di raffinazione e smercio di cocaina. Gli agenti sono entrati in azione dopo aver visto il siciliano allontanarsi con uno zaino, "i due calabresi hanno cercato invano - si legge nel comunicato della Questura - di lavare una pentola che stavano utilizzando per cuocere la cocaina ed un frullatore e, successivamente, hanno cercato di gettare dalla finestra interi bustoni contenenti cocaina e di darsi alla fuga". Cinque i chilogrammi di polvere bianca ritrovati a Ostia Antica venerdì. Il trono non è vacante, c' è il fratello di 'o Pazzo Ostia oggi è quindi orfana dei Fasciani come degli Spada - di qualche giorno fa la condanna a sei anni per la famosa "testata" con metodo mafioso di Roberto Spada - ma i vicerè della borgata di mare romana sono Roberto De Santis detto Nasca e Roberto Giordani detto Cappottone: già responsabili nel 2007 della gambizzazione del "padrino" Vito Triassi, colpo che garantì sul Litorale la pax mafiosa - come emerso dall' indagine Nuova Alba della squadra mobile di Roma nel 2013 - tra i Fasciani e i Senese. Già i Senese. Gli unici di questi protagonisti della storia criminale romana ancora col vento in poppa, dominatori incontrastati dei traffici nel quadrante est, anche senza il capo storico Michele 'o Pazzo, detenuto da anni ormai. È suo fratello Angelo Senese oggi a svolgere quel ruolo di paciere, risolutore delle controversie, dispensatore di buoni consigli che un tempo 'o Pazzo ha diviso con Massimo Carminati. Compito che don Angelo assolve nel suo regno e al quartier generale di famiglia, un bar nella zona vicina alla fermata della metro Porta Furba. Un gradino sotto i Senese ci sono i celeberrimi Casamonica. Il folklore delle case pacchianamente lussuose non ne restituisce bene il reale spessore criminale. Intere strade sono assoggettate alla forza di intimidazione della famiglia sinti e anche loro spesso si preoccupano di metter le mani nel business principale della città, il commercio di droga. Se lo scorso gennaio un' operazione della Guardia di finanza bloccò l' arrivo a Roma di sette tonnellate di cocaina organizzato proprio dai Casamonica insieme con la criminalità slava, altri traffici sono rimasti aperti in questi ultimi mesi. Sotto l' occhio vigile del primus inter pares Guerino Casamonica , detto Pelè, in passato capace di mediare con i narcos colombiani. La droga, la maledetta cocaina soprattutto, famiglie e spacciatori, criminali e boss, piste che si intrecciano e portano sempre al narcotraffico, come l' omicidio di Diabolik appunto; secondo la strada che stanno prendendo le indagini della pm Nadia Plastina il 53enne ultrà della Lazio avrebbe avuto l' ambizione di scalare il mondo criminale, così come anni fa provò senza riuscirci a scalare la società biancoceleste ai danni di Claudio Lotito utilizzando l' ex campione, poi morto in Florida, Giorgio Chinaglia; clan e narcotrafficanti avrebbero addirittura stretto un patto per frenare queste ambizioni in modo irreversibile: l' omicidio al Parco degli Acquedotti. Ma cosa è rimasto, quindi, di quel Mondo di mezzo - dopo la sentenza della Cassazione non si può più chiamare Mafia Capitale - che garantiva la pace, faceva riposare le pistole nelle fondine (quasi sempre), calmava gli animi? Poco o niente, però Riccardo Brugia , detto er Boro, considerato il numero 2 di Carminati, l' amico a cui Carminati stesso confidava il manifesto programmatico del Mondo di mezzo è uscito dall' Alta sicurezza del carcere di Agrigento ed è già tornato nell' abitazione di Formello. Grazie a un' istanza di scarcerazione presentata dall' avvocato Giosuè Bruno Naso e andata a buon fine la scorsa settimana, dopo 5 anni già passati dentro.

I CASAMONICA COME I SOPRANO. Patrizio J. Macci per Affari Italiani il 5 giugno 2019. Il clan dei Casamonica entra ufficialmente nella letteratura criminale. Come la Banda della Magliana. Vita, morte e miracoli finanziari riassunti in un libro e forse presto anche in un film o una serie televisiva. I Casamonica hanno un patrimonio stimato in 100 milioni di Euro e più di 1000 affiliati tra soldati semplici e capi dei singoli nuclei familiari, i caminetti per bruciare la droga nel caso di controlli delle forze dell’ordine sono sempre accesi nelle loro ville hollywoodiane disseminate nel quadrante sud est della Capitale; l’architettura e l’arredamento interno scimmiottano la reggia del film Scarface. In garage hanno Ferrari, Lamborghini, Porsche accessoriate in esclusiva. Al polso sfoggiano orologi da centinaia di migliaia di euro. Servizi igienici in oro, scintillanti marmi preziosi, tigri e felini di ogni razza come soprammobili arredano le stanze delle loro ville. Confinati ai margini della città socialmente e geograficamente ne sono divenuti i padroni. I soldi in contanti durante le perquisizioni sono stati trovati ovunque: nel forno, murati dietro l’intonaco. Sono una banca sempre aperta alla quale si rivolgono tutti: liberi professionisti in difficoltà, commercianti strozzati dalla crisi, personaggi del mondo dello spettacolo scivolati nel dimenticatoio, calciatori in disarmo. Il cash non lascia tracce e risolve parecchi problemi. E’ il Clan Casamonica raccontato da Floriana Bulfon nel volume “Casamonica La storia segreta” (Rizzoli Editore). Sostengono di mantenersi con il commercio di automobili ma la maggior parte di loro dichiara redditi del tutto incongrui rispetto al tenore di vita. Le sentenze invece parlano di usura, traffico di sostanze stupefacenti, tentati omicidi e reati contro il patrimonio. Roma si è accorta della loro esistenza in occasione dei sontuosi funerali con cavalli e carrozza dell’agosto 2015 (sei cavalli neri che trainavano una carrozza antica, una folla di gente che accompagnava la bara e la banda musicale che intonava il celebre motivo di Nino Rota, indimenticabile colonna sonora del Padrino di Francis Ford Coppola) ma il loro insediamento nella Capitale comincia addirittura negli anni Sessanta. Arrivano dall’Abruzzo nei quartieri dove c’è solo polvere e le ultime propaggini dei terreni coltivati a vigneti dei Castelli Romani. Lo sviluppo urbanistico della città e l’inaugurazione della linea A della metropolitana con l’apertura delle fermate successive a Cinecittà segna la loro marcia trionfale, inizia l’edificazione di quelle che un magistrato ha definito “enclavi fortificate”. All’inizio sono costruzioni abusive per la maggior parte e poi condonate, strade dove dettano legge e transita solo chi ha il loro permesso. L’autrice che ha visitato i territori dove spadroneggiano ed è stata loro “ospite” sfata alcuni luoghi comuni, il primo tra tutti che esista un “capo degli zingari”, una sorta di re che governi i diversi clan. Ciò è impossibile perché il loro orgoglio non concede a nessuno il potere assoluto. L’organizzazione del Clan è quanto di più vicino a quello della ‘ndrangheta, nuclei familiari con un capo che regola i conti e tira le fila dell’organizzazione che procede nell’escussione dei crediti come uno schiacciasassi con un marketing fondato sull'uso della violenza che vale come avviso per chi avesse la tentazione di allontanarsi senza aver pagato. Non si sono rassegnati neanche davanti alla contestazione di mafia, il carcere non li turba più di tanto. Se qualcuno di loro cade c’è sempre un membro della famiglia destinato a occuparsene, il Clan non ammette tradimenti o pentimenti anche se la diga dell’omertà si è incrinata per la prima volta per opera di una donna. Analizzato il folclore visto e stravisto e letto fino alla nausea, la Bulfon va oltre le carte delle procure e il sentito dire sbozzando un libro che è un gioiello di antropologia urbana arricchito nelle ultime pagine da una preziosa mappa per orizzontarsi nell’albero genealogico della famiglia.

I CASAMONICA? Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 7 maggio 2019. Una metropoli e una famiglia, unite da vite parallele. Più cresce il degrado della prima, più aumenta la potenza della seconda. Non è la trama di un romanzone ottocentesco, ma l'epopea di quella che i magistrati considerano l' ultima mafia romana: i Casamonica. Floriana Bulfon, cronista che ne ha raccontato i misfatti sulle pagine di Repubblica e de L'Espresso, affronta la saga del clan in un volume edito da Bur-Rizzoli: Casamonica. La storia segreta. «Tutti li conoscevano, tutti li hanno guardati con il sospetto riservato ai popoli rom: sorvegliati speciali dalle polizie sin dalla notte della Storia, in quella periferia sono rimasti invisibili. Sono stati confinati ai margini della società eppure ne sono diventati i padroni. Un miracolo che affonda nel mistero di Roma, nelle radici della sua decadenza contemporanea: sono fiori del male spuntati nel degrado fisico e morale della Capitale». Quartiere dopo quartiere, da Romanina a Tor Bella Monaca, quando sorgono i palazzi loro sono già lì, pronti a imporre la loro legge violenta. Spesso sono stati complici delle speculazioni immobiliari, come quella che permise a Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana, di realizzare l'università di Tor Vergata: l'apoteosi della commistione fra mafia e politica capitolina. Sbagliato fermarsi al folklore, ai lussi cafoni e allo sfarzo delle ville: i Casamonica sono un modello di sviluppo malavitoso, basato sulla diffusione di un brand - termine usato dagli stessi magistrati - creato da "Zio Vittorio", il patriarca a cui venne tributato il funerale trionfale con carrozza ed elicottero. «Per i Casamonica il fatto che lo zio Vittorio avesse avuto rapporti con la Magliana era motivo di vanto, dimostrava il loro potere e la loro forza», ha messo a verbale Debora Cerreoni, la donna che ha rivelato le dinamiche del clan. Bulfon decifra come la famiglia abbia sempre maneggiato con cura gli elementi chiave del potere a Roma, dosando i soldi, la violenza e le relazioni insospettabili. «Dietro Nicoletti e i Casamonica c'è tutto il generone romano che ha finito per fruire dei bassi o alti servizi di questi gentiluomini: inclusi finanziamenti illeciti ai politici e interventi nelle partite elettorali. Insomma, era l' intimidazione generale degli ambienti», ricorda Otello Lupacchini, il primo giudice istruttore a svelarne le trame. Leggendo questo volume si capisce quanto a lungo il problema sia stato sottovalutato, permettendo al clan di trasformarsi in una mafia - questa la contestazione dei pm - capace di controllare parte del territorio, investire milioni di euro, importare tonnellate di cocaina e stringere accordi con narcos colombiani. Tutte le strade portano a Roma e lì i Casamonica si sono dimostrati per decenni gli interlocutori più affidabili di ogni cosca italiana o straniera. Solo l'arrivo del procuratore Giuseppe Pignatone, che scrive la prefazione del libro, ha permesso alle istituzioni di dare una risposta sistematica e colpire la famiglia con arresti e sequestri. Ma la sola repressione è inutile: «C'è la necessità di restituire dignità a una moltitudine oppressa dalla crisi economica e dalla carenza di servizi, che qui più che altrove ha smesso di credere nel futuro». Questa convinzione nasce dal metodo con cui Floriana Bulfon ha affrontato la sua ricerca: si è immersa nei territori dove i Casamonica spadroneggiano. È riuscita in passato a farsi aprire la porta del loro quartiere generale di Porta Furba, ha abitato in una delle piazze di spaccio di Tor Bella Monaca, si è allenata nelle palestre del clan e ha conquistato la fiducia di tanti abitanti delle nuove borgate dove troppo raramente i giornalisti si avventurano. Nonostante le minacce, ne ha fatto una missione e, da friulana, una sorta di atto d' amore verso quella romanità pasoliniana. Ed è così che è riuscita a rivelare l' aggressione del Roxy Bar, il brutale pestaggio del gestore e di una donna disabile da parte di due esponenti dei Casamonica. Una testimonianza e un video pubblicati su Repubblica che hanno scosso l'Italia: «Quella ferocia finisce sotto gli occhi dell' intero paese, si impone nei titoli dei tg. Nessuno può negare, nessuno può chiudere gli occhi. E la città si risveglia, esce da un torpore troppo lungo e mostra cosa significa coscienza civile». Il presidente Mattarella ha nominato cavaliere la barista che ha avuto il coraggio di denunciare i Casamonica: è una cittadina romena, mentre tanti italiani ripetono che il clan non è un pericolo. E, tra crisi economica e crollo dei servizi pubblici, la maggioranza degli abitanti di quei quartieri desolati pensa solo a sopravvivere. 

Sentenza al maxi processo al clan Spada:  «Tre ergastoli. È associazione mafiosa». Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 da Corriere.it. Tre ergastoli e riconoscimento dell’associazione mafiosa. È quanto deciso dai giudici della Corte d’Assise di Roma nel maxiprocesso ad appartenenti al clan Spada. Ergastoli per i capi Carmine Spada, detto Romoletto, per Roberto Spada, già condannato per la vicenda della testata ad un giornalista della Rai e per Ottavio Spada, detto Marco. La Corte, ha accolto le richieste avanzate in tal senso dai pm Mario Palazzi e Ilaria Calò. In aula, c’è anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, così come aveva anticipato nei giorni scorsi. È lungo l’elenco dei reati a vario titolo contestati agli imputati. Oltre all’associazione di stampo mafioso, l’omicidio, l’estorsione, l’usura, la detenzione e porto di armi e di esplosivi, incendio e danneggiamento aggravati, ed altri crimini contro la persona, oltre al traffico di stupefacenti, l’attribuzione fittizia di beni e l’acquisizione, in modo diretto e indiretto, della gestione e il controllo di attività economiche, e appalti legati a stabilimenti balneari, sale giochi e negozi. «Questa sentenza riconosce che sul litorale di Roma c’è la mafia. Si può parlare di mafia a Roma. Ringrazio magistratura e forze dell’ordine e soprattutto quei cittadini che denunciano la criminalità - ha commentato la sindaca Virginia Raggi - Io sono qui per stare accanto a quei cittadini. Restituire fiducia ai cittadini onesti che per troppo tempo hanno avuto paura». Carabinieri, polizia, finanza e guardia costiera, tutti esperti delle dinamiche della malavita sul litorale romano, ha sostenuto la Procura durante il processo, «convergono nel delineare questa unione come un’associazione di stampo mafioso». L’inchiesta, ribattezzata «Eclissi», aveva portato alla luce responsabilità per alcuni omicidi (fra cui quello di Baficchio), estorsioni, minacce e incendi. Dalla difesa hanno ribattuto che il processo è stato inquinato dall’onda mediatica di alcuni episodi (come ad esempio la testata assestata da Roberto al giornalista della Rai). Fra le parti civili anche il Comune di Roma.

Ostia, tre ergastoli al clan Spada. Per la Corte d'Assise è un'associazione mafiosa. Carcere a vita per Carmine, Ottavio e Roberto Spada, quest'ultimo già condannato per l'aggressione con una testata al giornalista Rai Daniele Piervincenzi. Dopo oltre nove ore di camera di consiglio confermata, come chiesto dall'accusa, l'associazione a delinquere di stampo mafioso per la potente famiglia sinti del litorale romano. Anche la sindaca Raggi in aula: "Gli onesti vincono". Federica Angeli il 24 settembre 2019 su La Repubblica. Tre ergastoli. Per Carmine, Roberto e Ottavio Spada, detto "Marco". E la sentenza di primo grado riconosce che il clan Spada, la potente famiglia sinti del litorale romano, è un'associazione mafiosa. Dopo oltre nove ore di Camera di consiglio i giudici della Corte d'Assise hanno confermato i capi d'accusa, e quindi il 416bis agli oltre 20 imputati a processo per associazione a delinquere di stampo mafioso e videocollegati dai rispettivi carceri. L'inchiesta era partita dopo gli oltre 30 arresti del 25 gennaio 2018 con cui le forze dell'ordine hanno eseguito l'ordinanza per gli omicidi del 2011 di Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, considerati come l'inizio dell'ascesa degli Spada. Gli imputati erano accusati a vario titolo di reati come l'associazione di stampo mafioso, l'omicidio, l'estorsione, l'usura, la detenzione e porto di armi e di esplosivi, incendio e danneggiamento aggravati, ed altri crimini contro la persona, oltre al traffico di stupefacenti, l'attribuzione fittizia di beni e l'acquisizione, in modo diretto e indiretto, della gestione e il controllo di attività economiche, e appalti legati a stabilimenti balneari, sale giochi e negozi. Dei 24 imputati, 17 sono stati condannati e sette escono assolti con formula piena. I due pm che hanno istruito il processo, Ilaria Calò e Mario Palazzi, nel corso della requisitoria avevano chiesto duecentootto anni più tre ergastoli per associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti degli imputati che avevano scelto il rito ordinario nel maxi processo del clan. Le pene più alte erano state richieste per il boss Carmine Spada, detto Romoletto, il fratello Roberto Spada, noto alle cronache per la testata che fracassò il setto nasale al giornalista Daniele Piervincenzi nel novembre del 2018, e il nipote Ottavio Spada, detto Marco: per loro tre ergastoli. E sono stati confermati. Roberto Spada era già stato condannato a sei anni per la testata a Piervincenzi. Oltre ai tre ergastoli, condannato a 16 anni di reclusione Ottavio Spada, detto "Maciste", a 9 anni Nando De Silvio, detto "Focanera" e a 10 anni a Ruben Alvez del Puerto, anche lui coinvolto nell'aggressione al giornalista Rai di Nemo. Assolti invece Armando Spada, Enrico Spada, Roberto Spada detto "Zibba", Francesco De Silvio, Samy Serour, Stefano De Dominicis e Roberto Sassi. "Sono indignato, è una follia vera", così il commento a caldo dell'avvocato Mario Girardi, difensore di Carmine Spada, che ha aggiunto: "Questa decisione è una vergogna, non condivisibile in alcun suo aspetto". Nell'attesa della sentenza l'aula bunker si era riempita di cittadini di Ostia che volevano assistere alla lettura del verdetto. Era presente anche la sindaca Raggi che ha espresso "soddisfazione" per la sentenza e ha aggiunto: "Istituzioni e cittadini onesti se uniti vincono sempre. Continuerò #atestaalta la battaglia per la legalità". In aula anche qualche familiare degli imputati, in netta minoranza rispetto al pubblico di residenti del X Municipio, accompagnati dal presidente dell'associazione antimafia Noi Massimiliano Vender, dal presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti e da Giampiero Cioffredi presidente dell'Osservatorio sulla legalità della Regione Lazio.

Mirko Polisano per il Messaggero - Roma il 19 dicembre 2019. È morto all’ospedale San Camillo di Roma martedì notte, Enrico Spada, figlio di Ottavio “Maciste” e soprannominato a sua volta “Macistino”, vista la mole fisica imponente anche se negli ultimi tempi - dopo essere entrato e uscito dal carcere - aveva perso diversi chili. Classe 1986, era considerato l’erede, il «predestinato» colui che doveva portare avanti gli affari di famiglia, di quel clan Spada che per metà è in carcere e i cui vertici sono stati condannati - in primo grado - all’ergastolo. Tra questi anche il padre Ottavio e gli zii Carmine e Roberto -quello della testata - mentre Enrico in quel processo a seguito dell’operazione “Eclissi” era stato assolto. Era tornato in libertà a fine settembre ed era per questo considerato uno degli eredi, pronto a prendere in mano le redini dell’organizzazione criminale, sradicata ma che aveva a Ostia il suo quartier generale.

IL DOCUMENTO. Enrico Spada è morto per una patologia cardiaca all’ospedale San Camillo di Roma e i funerali sono previsti per questa mattina alla parrocchia Sant’Agostino nel quartiere Stagni di Ostia. Un’informativa è arrivata in questura che sta lavorando per blindare le esequie e vietare qualsiasi tipo di «fuori programma». Niente show, dunque, in stile Casamonica, secondo lo stile sinti. Ai familiari di Enrico Spada sarà o notificato un provvedimento che obbliga a svolgere una cerimonia strettamente privata, priva di «modalità clamorose». Le esequie saranno comunque superblindate con istituzioni e forze dell’ordine in stato di allerta per evitare carrozze, cavalli e musica a tutto volume. Amava la canzone neomelodica, Enrico e la sua pagina facebook è piena di suoi video con le esibizioni in locali e feste. E non è stato escluso l’ingaggio di uno dei cantanti neomelodici che arrivasse da Napoli per un breve concerto da dedicare aEnrico Spada.

GLI OSPITI. In un primomomento era addirittura circolato il nome di Tony Colombo che qualche mese fa ha sposato Tina Rispoli, la vedova del boss della camorra Gaetano Marino, con una cerimonia nuziale su cui è stata poi aperta un’inchiesta dalla Procura Antimafia. Stop anche a qualsiasi tipo di corteo. L’allerta è alta. Le forze dell’ordine saranno pronte a entrare in azione. Niente bande, musiche equivoche e Ferrari multicolori che potrebbero creare ingorghi alla viabilità. Gli uomini in divisa e in borghese saranno appostati in ogni angolo del litorale per monitorare i flussi di traffico. Per l’ultimo omaggio al figlio del boss è prevista la partecipazione delle grandi folle. Il dispositivo di sicurezza non può permettersi falle. Quelle leggerezze e distrazioni che anni quasi costarono la testa all’ex sindaco Marino nel giorno dell’ultimo saluto a Vittorio Casamonica, capo stipite dell’altra famiglia criminale di rom e sinti che è imparentata proprio con gli Spada.

IL PRECEDENTE. Aveva un nome importante “Macistino”, si chiamava Enrico Spada proprio come “Pelè”, il «Re» di piazza Gasparri il primo boss che negli anni’80 aveva seminato terrore e paura a Ostia: noto sieropositivo, usava il suo sangue infetto per minacciare chi non obbediva ai suoi ordini. Morì di Aids nel 2016: anche a lui furono vietati i funerali show. Il carro, simbolo degli zingari, anche questa volta – salvo colpi di scena in barba alle regole- non accompagnerà nessuno.

La Cassazione sul clan Casamonica: «È un’associazione mafiosa». Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 da Corriere.it. Ancora una conferma dalla Cassazione, «il clan Casamomica-Spada è un’associazione di stampo mafioso, attivo in diverse zone della Capitale e composto da persone dai ruoli interscambiabili animate dallo stesso fine delinquenziale». Tra gli affiliati, rilevano gli ermellini nelle motivazioni fresche di deposito e relative alla convalida di diciotto arresti nell’udienza svoltasi davanti alla terza sezione penale lo scorso nove gennaio, c’è «un solido vincolo familiare», sono persone «interscambiabili nei ruoli e accomunati dal fine comune di commettere svariati reati». Gestiscono insieme anche il grosso business dello spaccio di droga. Nel verdetto 17851, l’alta corte sottolinea come ormai sono numerosi i collaboratori di giustizia, oltre alle vittime di estorsioni e usura, che hanno «concordemente ricostruito l’organizzazione del sodalizio criminoso e hanno identificato i ruoli svolti da ciascun componente, segnalando talvolta lo svolgimento di una mansione specifica e immutata (si pensi a Casamonica Giuseppe, vertice del sodalizio), talaltra alla interscambiabilità delle funzioni svolte dai singoli». Ad esempio, per la riscossione dei prestiti a usura, per intimidire, per entrare «nella base logistica del clan». Gli ermellini spiegano che le dichiarazioni dei collaboratori sia quelle delle vittime dell’associazione di stampo mafioso, «sono state ampiamente riscontrate da plurimi atti di indagine», e da «svariate intercettazioni telefoniche». Da questi elementi - scrive la Cassazione - «emerge chiaramente che tutti gli indagati erano parte di un nucleo associativo familiare fortemente radicato nel territorio romano e ben noto alla popolazione, godevano di una base logistica comune all’interno della quale tenevano le armi e la sostanza stupefacente e nei pressi della quale le varie persone offese erano state convocate da diversi membri dell’associazione, disponevano di una cassa comune, svolgevano la propria attività con metodo fortemente intimidatorio, ponevano in essere condotte di aiuto e di reciproca sostituzione e recuperavano le somme di denaro conseguenti al reato di estorsione o di traffico di sostanze stupefacenti nell’interesse del sodalizio». I singoli «sodali», spiega ancora la Cassazione, «ricevevano precise istruzioni criminali dai vertici del clan» e si riferisce all’episodio in cui il boss Giuseppe Casamonica, detenuto, «dava istruzioni al figlio Guerrino e alla moglie Katia Tolli, che attendevano il colloquio in carcere per istruire a loro volta gli altri membri dell’associazione». Sulla `fortezza´ nel vicolo di Porta Furba tra le rovine dell’acquedotto romano, si è accertato «che vi era un notevole andirivieni di soggetti, tra cui Pasquale Casamonica e Ottavio Spada, che prelevavano la droga per portarla all’esterno e smerciarla a clienti nuovi o abituali, i quali si recavano indifferentemente da tutti i venditori, proprio perché questi ultimi agivano in comune come emissari del clan». I supremi giudici aggiungono che è «ingente il quantitativo di droga commercializzato» dai Casamonica che lo acquistavano dalla `ndrangheta, trattando con Domenico Strangio. «Non meno rilevante, il ruolo delle `vedette´ che avevano il compito preciso di allertare l’intero vicinato in caso di arrivo delle forze dell’ordine o di soggetti estranei alla famiglia».

Roma, il pentito dei Casamonica: "Minacciarono di sciogliermi nell'acido". Massimiliano Fazzari sentito in videoconferenza nel corso del maxiprocesso al clan che vede oltre 40 persone imputate con accuse che vanno dall'associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all'estorsione, l'usura e detenzione illegale di armi. La Repubblica il 13 dicembre 2019. "Il primo dei Casamonica che ho conosciuto è stato Massimiliano che era sposato con un'amica della mia ex compagna. In quel periodo ero in difficoltà e mi servivano soldi perché una persona era scappata con la droga". A dirlo Massimiliano Fazzari, il collaboratore di giustizia, sentito in videoconferenza nel corso del maxiprocesso al clan dei Casamonica che vede oltre 40 persone imputate con accuse che vanno dall'associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all'estorsione, l'usura e detenzione illegale di armi. Al processo si è arrivati dopo l'indagine 'Gramigna', coordinata dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino e dal pm Giovanni Musarò, che ha colpito il clan che aveva come roccaforte la zona della Romanina, periferia della Capitale. "Ho vissuto per un periodo in vicolo di Porta Furba dove vivono gli altri Casamonica. - ha aggiunto Fazzari - Mentre Massimiliano era in carcere, girava la voce che la moglie Debora Cerreoni lo tradisse. Liliana Casamonica venne da me e mi chiese se sapevo qualcosa, arrivando a minacciarmi di squagliarmi nell'acido se non avessi raccontato ciò che sapevo". "Allora - ha proseguito Fazzari - ho costretto la mia ex compagna a registrare un incontro con Debora perché aveva paura di quello che ci potevano fare. Poi la consegnai la registrazione di quell'incontro a Liliana che aggredì Debora e la portò in un appartamento". Fazzari, nel corso dell'udienza, ha inoltre ricordato i suoi legami con la 'ndrangheta.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 dicembre 2019. «Mi avevano detto che dovevo andare al reparto G9 per il cambio delle lenzuola. C' era solo Giuseppe Casamonica ad attendermi. Ha aspettato che andassi verso lui e non mi ha detto niente. Mi ha guardato, e mi è bastato il suo ghigno minaccioso: erano venuti a sapere che volevo collaborare». Oggetto della minaccia è Massimiliano Fazzari, uno dei due "pentiti" che hanno permesso di fare luce sui Casamonica di Porta Furba, il gruppo familiare di origine sinti finito in manette e ritenuto dalla procura mafia. Ieri Fazzari, proveniente da una famiglia 'ndranghetista, ha reso la sua testimonianza nel maxi processo che vede alla sbarra 44 componenti del clan, accusati per lo più dal pm Giovanni Musarò di associazione di stampo mafioso. In videoconferenza da un luogo protetto ha evidenziato il potere dei Casamonica nel carcere di Rebibbia ricordando, fra gli altri, l'episodio nel quale Giuseppe Casamonica, uno dei vertici, lo ha minacciato dopo aver saputo che avrebbe potuto spifferare i loro segreti. «I Casamonica facevano il bello e il cattivo tempo a Rebibbia. Con le guardie se la comandavano». Ed è proprio andando avanti con la testimonianza che Fazzari ha ricordato che la sua volontà di redimersi fosse trapelata da quelle mura: «Era il 2015. Stavo dentro da un po' quando ho iniziato a mandare delle lettere con l' intenzione di collaborare con l' Antimafia. Non so come ma poi c' è stato quell' incontro con Giuseppe» . Un sospetto che man mano che passava il tempo diventava più concreto: « Un giorno Massimiliano Casamonica mi ha minacciato: ' Prima che vai a parlare con qualcuno noi lo sappiamo. Noi ce la comandiamo qua». Fazzari, ad ogni modo, aveva avuto più di una volta la possibilità di testare la padronanza del clan. Appena arrestato, a fine 2014, in virtù della sua amicizia con i Casamonica aveva ricevuto un trattamento particolare: « Era appena finito dentro. Mi arriva lo spesino (il detenuto che prende gli ordini per lo spaccio alimentare ndr) e mi dà un fogliettino da parte di Massimiliano, sui cui c'era scritto che in due o tre giorni mi avrebbero cambiato di cella: ' Sali al mio reparto'. E così è stato». La spavalderia dei Casamonica in carcere era anche nel quotidiano: «Nel reparto G12 durante l' ora d' aria Massimiliano giocava a tennis. E solo lui decideva chi poteva entrare e chi nel cortile » . Ma c' era anche impunità: « Una volta Massimiliano ha preso a schiaffi la compagna (Debora Cerreoni, la seconda ' pentita' ndr) nell' area verde dei colloqui col pubblico. Era un punto cieco dove non c' erano le telecamere. Il posto è sempre presidiato da agenti: quella volta non c' era nessuno».

Come hanno fatto i Casamonica a diventare così potenti. Le palestre, l'usura, le minacce, la paura e l'omertà dei vip. E una città che si è arresa. il libro-inchiesta sulla famiglia che ha preso in ostaggio Roma. Floriana Bulfon il 24 aprile 2019 su L'Espresso. C'è un solo spazio dove puoi respirare la forza della Famiglia. Dove puoi vivere quella dimensione in sospeso tra bene e male, tra ambizione e delinquenza. L’unico posto dove capire quale sia la loro capacità di conquistare simpatie e costruire relazioni negli ambienti più disparati. Il problema è che per essere ammessi bisogna superare una diffidenza spessa, dimostrando con i fatti di essere dotati dell’unico elemento a cui tributano rispetto: i pugni. Varcare questa barriera per una donna è doppiamente difficile. Grazie alla mia vocazione giovanile per le arti marziali, riesco a provare la mia competenza: il sacco non mente, si vede subito se sai dare i colpi giusti. Solo così riesco a scendere quei gradini che portano all’ingresso di grotte di cemento dove si ritrovano per praticare lo sport che sentono più loro. Qui, sotto il livello strada, la luce entra con difficoltà. Le panche scheggiate rimangono in penombra tra guantoni lisi e protezioni rattoppate con lo scotch. Attorno vecchi sacchi appesi a catene rugginose, stracci buttati in un angolo, asciugamani che tracimano dalle ceste di fronte agli spogliatoi.

ROMA BULLIZZATA DAI CASAMONICA. Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 maggio 2019. Nella sua abitazione al Tuscolano, la donna aveva un piccolo tesoro oltre che droga e soldi Ma al giudice ha detto di essere povera Aveva un piccolo tesoro nascosto in casa ma al giudice, Mariannina Di Silvio, 23 anni, convivente di Guerrino Casamonica ha detto di essere povera e di voler fare richiesta del reddito di cittadinanza. Il piccolo tesoro è saltato fuori durante una perquisizione della polizia: gli agenti stavano cercando tutt' altro, ovvero droga in una casa occupata di proprietà dell' Inps, nel quartiere Tuscolano- Don Bosco. Quando l' altro ieri i poliziotti sono entrati in casa di Mariannina Di Silvio, 23 anni, convivente di Guerrino Casamonica, 39 anni, gli si è schiuso davanti agli occhi uno scrigno pieno di monili d' oro: cinque orologi fra cui due Rolex, 16 ciondoli, 31 anelli con brillanti e non (tra cui due fedi nuziali con inciso "Ale e Ledy"), 15 orecchini, 4 bracciali, 8 collane, 7 catenine, 2 croci, una spilla e, per finire, una bustina di polvere dorata. Una gioielleria, di fatto. Infilata all' interno di una cassaforte in un vano nel salotto. Il ritrovamento dei gioielli, poi sequestrati, che gli investigatori ipotizzano siano provento di attività illecita, hanno fatto passare in secondo piano il motivo originario del blitz. Ovvero mettere fine a un traffico di droga all' interno di un condominio ritenuto il feudo delle famiglie di origine sinti - poco lontano dalla basilica di San Giovanni Bosco, divenuta famosa 4 anni fa per il funerale show di Vittorio Casamonica. La segnalazione era arrivata agli agenti del commissariato Tuscolano alcuni giorni prima. E al mattino, quando sono arrivati in casa della donna, i poliziotti hanno subito notato qualcosa che non andava. In bella vista c' era un bilancino di precisione e, poco più in là, un contenitore con dentro della cocaina e 2mila euro in contanti in banconote di vario taglio. Mariannina Di Silvio si è subito dichiarata proprietaria della droga e, per questo, sono scattate le manette. Gli agenti hanno passato al setaccio anche l' appartamento accanto ma non è stato trovato nulla. Trascorsa una notte in cella, ieri mattina si è svolta l' udienza di convalida davanti al giudice. Dopo la testimonianza dei poliziotti il giudice ha convalidato l' arresto, perché ritenuto nei termini di legge, e disposto la misura cautelare dell' obbligo di firma: l' indagata, adesso, dovrà andare ogni giorno in commissariato per segnalare la sua presenza. In aula, ad ogni modo, la donna non ha mostrato alcun timore. Incalzata dal pm Gianluca Mazzei non ha dato alcuna spiegazione sulla provenienza di quel tesoretto. Anzi, ha rilanciato. Dichiarandosi indigente, si è spinta oltre: «Ho tre figli, chiederò il reddito di cittadinanza».

IL SOLITO CLAN CLAN. Federica Angeli per “la Repubblica – ed. Roma” il 16 maggio 2019. Una cappella funeraria gentilizia da 80mila euro costruita nel cimitero di Ciampino. Una polizza assicurativa da 500mila euro. E ancora: denaro contante e su conti correnti, orologi e oggetti in oro, auto di lusso per un ammontare complessivo di un milione e cinquecentomila euro. È questo il tesoretto del clan Casamonica che ieri i carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati hanno sequestrato con un decreto di sequestro preventivo di beni, emesso dal gip del tribunale di Roma e richiesto della Dda. Il provvedimento cautelare fa riferimento a tutti quei beni trovati nella disponibilità dei 22 arrestati nel corso dell' operazione Gramigna bis lo scorso 15 aprile appartenenti al clan Casamonica. Dall' esame dei documenti acquisiti è stato ricostruito come per il rilascio della concessione e per la realizzazione dell' opera funeraria gli indagati abbiano sostenuto una spesa complessiva di oltre 80mila euro. A fronte di dichiarazioni di redditi mai presentate. Un colpo decisivo, come ogni sequestro sia preventivo che definitivo, per il clan che, ad oggi, ha oltre 150 persone arrestate, alcune in carcere altre ai domiciliari, e di queste circa la metà ha contestata l' aggravante mafiosa o l' associazione a delinquere di stampo mafioso. Contestualmente al sequestro, i carabinieri hanno dato esecuzione ad un' ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa sempre dal gip di Roma nei confronti di 2 soggetti, ritenuti responsabili di intestazione fittizia di beni: per uno dei due c' è anche l' aggravante del metodo mafioso. I due nuovi arrestati sono Giorgio Vitale e Michele Panza, due romani titolari di concessionarie auto, che hanno accettato, secondo le accuse mosse dal giudice e spiegate nell' ordinanza di 34 pagine con cui si è dato seguito al sequestro dei beni, di intestarsi loro i beni dei Casamonica per offrirgli una " copertura" reddituale. A loro il provvedimento dedica molto spazio. È un passaggio importante quello della rete dei prestanome del clan su cui il giudice si sofferma per poi giungere alla decisione finale di arrestarli. Si comprende infatti come attraverso la complicità di insospettabili le malefatte della famiglia sinti possano realizzarsi, consolidando il loro potere sul territorio. I due soggetti nel corso della retata di un mese fa, erano stati indagati ma non arrestati. Il gip Gaspare Sturzo, che firma questa ordinanza alla luce delle nuove prove portate dalla pubblica accusa, stavolta ribalta la posizione di Vitale e Panza. Dopo gli arresti di aprile infatti succede che Cinzia Casamonica, sorella del boss Giuseppe, detto " Manomonca", arrestato insieme alla moglie Rosaria, chiami Vitale ed esprima la sua preoccupazione per il sequestro sia dell' Audi A4 che della Golf dei coniugi. Chiede a lui di aiutarla per fargli avere un' altra auto e di assumerla, fittiziamente, nel suo autosalone. L' uomo le risponde che ha già detto a Consiglio, il primogenito della coppia in carcere «aspetta, magari ti ridanno la tua e poi ci ridanno la Golf». Poi si mostra preoccupato che si possa risalire a lui. Ma Casamonica ha già pronta la linea difensiva: « Tu dici che era nelle nostre disponibilità perché quella nostra era in riparazione e ci hai dato la Golf » . Concordano quindi, secondo il gip, « una strategia finalizzata a inquinare le prove e a ottenere il dissequestro della macchina». Poi c' è la vicenda di Michele Panza che fa istanza al tribunale per il dissequestro di una Mercedes a lui intestata ma, per gli inquirenti, appartenente a Giacomina Casamonica, detta Stella, e al marito Salvatore. Per dissimulare la reale proprietà dell' auto, in accordo con Panza, i coniugi simularono il furto della Mercedes che avevano in uso in sostituzione della loro auto ( esattamente come stavano progettando di fare con Vitale) lasciata al concessionario di Panza perché guasta. Con un cambio di targhe quell' auto sparì ufficialmente dalla circolazione, salvo ricomparire nel giardino dei coniugi al momento dell' arresto. Lo stratagemma è stato ricostruito dall' accusa in ogni suo falso passaggio smascherando quindi la verità sull' intestazione. « Ciò rendeva necessario - scrive il giudice Sturzo - riattivare il Panza Michele per tentare di riprendere possesso dell' auto mediante un interessato dissequestro » . Quando dopo le catture la compagna lo chiama e lui gli spiega che è indagato per 416bis insieme ai Casamonica, lei gli chiede « ma perché, che t' eri intestato?». Lui prosegue agitato per la pesante accusa che lo ha travolto e lei incalza dicendo che le spese legali «le famo pagà tutte a loro » . Purtroppo per le due teste di legno, che si sono consapevolmente prestate ad aiutare i componenti del clan, le spese legali saranno loro a doversele pagare, perché « al massimo te mettono l' avvocato » i Casamonica. Ovvero indicano il legale che potrà assisterli. Avendo però sotto sequestro il loro tesoro, non sarà facile farsi pagare l' avvocato. Il danno e la beffa dello stare dalla parte della mafia.

Mirko Polisano per “il Messaggero”il 26 settembre 2019. Alleate e capoclan a tutte gli effetti. Reggenti dell'organizzazione con mariti, padri, fratelli e cognati in carcere. Sono le «quote rosa» delle cosche di Ostia, insostituibili aiutanti nella gestione degli affari e dei contatti con i «soldati», con gli «affiliati» e con i pusher quando si tratta di spartire la droga. Le mogli e le figlie della mafia del litorale che iniziano ad avere un ruolo di primo piano nello scacchiere della mala del Lido. Non più vestali silenziose degli «uomini d'onore» ma complici sempre in prima linea. Dagli Spada ai Fasciani, le donne dei clan di Ostia, sono finite al centro delle indagini della procura e della Direzione Distrettuale Anti-mafia. All'indomani della sentenza di primo grado che ha condannato all'ergastolo i tre capi dell'associazione Carmine detto Romoletto, Roberto e Ottavio, a portare avanti gli affari di famiglia con gli uomini in carcere sono state anche le donne.

I NOMI. Bella e Principessa non sono i nomi delle protagoniste delle favole, ma sono quelli delle donne al servizio del clan sinti. Maria Dora Spada, detta Bella, è stata arrestata nell'operazione Sub-Urbe e nel dicembre scorso le è stata confermata dalla Corte d'Appello la condanna a 7 anni e 4 mesi con l'aggravante del metodo mafioso. Era lei che si occupava della gestione delle case popolari e della loro assegnazione «abusiva». Estorsioni e racket, la cosiddetta «mafia degli alloggi popolari». Moglie di Massimiliano Spada e cognata di Romoletto e Roberto, definirla affiliata è poco. Ordinava - da quanto si legge nelle carte delle ordinanze - chi entrava e usciva dagli alloggi di Comune e Regione. Le case ottenute con le pistole e «se non la lasci, esci coi piedi all'infuori», diceva insieme al marito a chi si opponeva agli Spada. «Sono la nipote del boss Romoletto e faccio come mi pare», rispondeva così invece Filomena Spada ai carabinieri che la stavano arrestando a Isernia. Doveva scontare la pena dei domiciliari ma andava a spasso per il centro della città molisana con atteggiamenti «innegabilmente plateali» per rimarcare la forza del clan e di chi comanda. Coinvolta nell'operazione New opening in cui si consegnava la droga utilizzando i bambini. Un mercato di stupefacenti che partiva proprio da Ostia, stando alla ricostruzione degli investigatori. Nella rete dei controlli delle forze dell'ordine è finita anche Principessa Spada, sorella di Enrico Maciste: insieme gestivano un bar in via della Tolda. La polizia municipale poi mise i sigilli. Soltanto venerdì all'alba, sono state arrestate Silvia Bartoli e Sabrina Fasciani, rispettivamente moglie e figlia del boss don Carmine Fasciani. Le signore Fasciani gestivano a Ostia estorsioni, usura, traffico internazionale di stupefacenti e controllo delle concessioni balneari, oltre a una serie di ristoranti, bar, ed esercizi commerciali che avrebbero portato soldi al clan. Un giro d'affari notevole manovrato dalle due donne diventate le referenti del boss.

 “LE DONNE BOSS DEI CASAMONICA? PIÙ VIOLENTE DEGLI UOMINI”. Michela Allegri per “il Messaggero” il 16 aprile 2019. Più violente dei mariti, dei compagni, dei fratelli. Hanno preso in mano il clan dopo gli arresti della scorsa estate, quando 37 affiliati della famiglia mafiosa Casamonica sono finiti in carcere. E loro, le donne del clan, sono diventate, all' occorrenza, vere e proprie boss. Hanno continuato a vessare commercianti, a prestare soldi a interessi usurari, a minacciare. A riscuotere il denaro che serviva per sostenere le spese giudiziarie dei familiari detenuti. Ieri, la Dda di Roma ha inflitto un altro duro colpo alla famiglia Sinti «arroccata nella parte sud-est della Capitale, con roccaforte a Porta Furba e nella zona Appio-Tuscolano», si legge nell' ordinanza di custodia cautelare. Un clan che, sottolinea il gip Gaspare Sturzo, «terrorizza gli abitanti e li induce all' omertà». Altre 23 persone sono state arrestate. Otto sono già detenute, come il capoclan Giuseppe Casamonica, detto Bìtalo, Massimiliano, soprannominato Ciufalo, e Rocky. In manette pure esponenti delle famiglie Spada e Di Silvio. Ma ci sono anche sette donne, appunto. In carcere sono finite Celeste, detta Paparella, Lauretta, Liliana, Rosaria, Gelsomina Di Silvio e Concetta Morelli, detta Lilli. Giacomina Casamonica - Stella, per gli amici - è invece ai domiciliari. Dalla nuova ordinanza emerge il ruolo centrale di tutte loro nel clan: violente come e più degli uomini, andavano in prima persona a minacciare, estorcere denaro. Tenevano i conti e gestivano gli affari del gruppo grazie alle direttive impartite dai detenuti durante i colloqui in carcere. Anche grazie a loro, per il gip, il clan sinti ha dimostrato «straordinaria capacità criminosa» e ha messo in atto una vera e propria «sfida allo Stato» arrivando addirittura a rioccupare l' abitazione in vicolo di Porta Furba - confiscata - dove aveva il suo quartier generale il boss Giuseppe Casamonica. Un gesto di sprezzo di cui è protagonista Asia Sara Casamonica, nuora di Giuseppe, ora sottoposta all' obbligo di dimora: ha forzato la serratura e ha anche riattivato l' utenza telefonica fissa. Lauretta Casamonica, invece, insieme al fratello Luciano, ha costretto un commerciante a consegnarle una parure di gioielli per onorare un debito inesistente. E quando Luciano è stato arrestato, ha preteso altri soldi, «facendo leva sulla forza di intimidazione derivante dalla appartenenza alla famiglia ed evidenziando che la somma sarebbe servita per sovvenzionare la carcerazione del fratello», sottolinea il gip. «Se tu denunci ne arrestano uno, due di noi, ma ne restano sempre cento», ha detto un' altra indagata, intercettata. Liliana, invece, ha minacciato un' estetista che mesi prima era entrata in società con lei. Quando il centro è fallito, l' indagata ha preteso la restituzione della quota di apertura: «Questo è il sudore di mio fratello, lui sta dentro a pagare dieci anni, questi sono soldi suoi e me li devi dare», ha detto. Lilli, invece, è la moglie di Rocco Casamonica. Teneva la contabilità del marito, che prestava soldi a strozzo ed estorceva denaro. «Devo sentire mia moglie - diceva lui intercettato - se mia moglie mi dice una piotta, due piotte». Per il gip, i comportamenti del clan sono «un chiaro messaggio allo Stato e ai cittadini romani». Dimostrano la «volontà di continuare a imporre, sebbene ferita, la propria prepotenza mafiosa». L' indagine «Gramigna bis», condotta dai carabinieri di Frascati e coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal pm Giovanni Musarò, è il secondo step dell' inchiesta che nel luglio scorso ha portato alla retata che aveva decapitato il clan della Romanina. Sono almeno cinque le nuove vittime che, nonostante il terrore, hanno deciso di raccontare le violenze subite. Le accuse vanno, a seconda delle posizioni, dall' estorsione all' usura, dall' intestazione fittizia di beni allo spaccio di droga. Reati commessi, spesso, con l' aggravante del metodo mafioso. Ieri, nelle abitazioni degli indagati, i carabinieri hanno trovato beni per almeno 400mila euro, che sono stati sequestrati, insieme a ville e gioielli. Per l' accusa, sono il provento di attività illecite, portate avanti anche grazie alle amicizie «importanti» del clan, come confermato dal pentito di ndrangheta Roberto Furuli: «Hanno rapporti anche con importanti famiglie di ndrangheta, fra cui i Piromalli di Gioia Tauro».

UN ALANO IN CERAMICA, TAVOLO IN AVORIO E POI TANTO ORO. Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2019. «Un alano in ceramica costa intorno ai cinquecento euro. La consolle dorata parte dai mille, a seconda della grandezza. (...) Non può mancare un tavolo avorio e oro da milleottocento euro con sedie in foglia d' oro da centosessanta al pezzo. Non bisogna dimenticare il divano, due posti, con cristalli e decori, con al centro una medusa, ovviamente in foglia oro, che vale millecinquecento euro. La tv per rivedere le proprie performance deve essere inserita in una cornice di legno e oro dal valore di cinquecento euro e poi una fontana con posacenere da interno per la modica cifra di duemila euro. Per finire, lampade e vetri di Murano, vetrinette veneziane, marmi. In bagno l' obbligatoria vasca con idromassaggio, laccata in oro come i rubinetti. In ogni angolo devono sentirsi re». Il libro di Nello Trocchia «Casamonica. Viaggio nel mondo parallelo del clan che ha conquistato Roma», anticipava già alcune settimane fa il mondo orrido e pacchiano della famiglia rom emerso nei filmati di questi giorni dopo la retata che ha visto finire in carcere 23 persone. Oro, oro, oro: «I Casamonica», dice la collaboratrice di giustizia Debora Cerreoni, «sono malati di potere, hanno la necessità di dimostrare che sono potenti e questo, dal loro punto di vista, si dimostra mediante rapporti con le altre organizzazioni criminali e mediante l' ostentazione di un lusso sfrenato». La pagina Facebook di Luciano, uno dei capi della famiglia, «è una straordinaria vetrina». In una foto c' è lui, Luciano, con una Ferrari Testarossa. Indimenticabile la didascalia: «Il mio giolielo ferarri 458». Più analfabeta di un caucciù, ma milionario. «Dietro», però, c' era spesso l' inferno. «La mia storia è tremenda», si sfoga Sandra, nome di fantasia, ex amante di uno dei capibanda, «Ho pagato conseguenze enormi perché ho scelto di andarmene con mio figlio. Ho preso bastonate ovunque. Loro vanno in giro con le Ferrari, io prendo la morfina tutti i giorni. Mi hanno massacrata, mi hanno rotto sei volte le mascelle, quattro volte le costole. Io l' ho conosciuto già l' inferno e pure i diavoli. Per un periodo il mio ex aveva il divieto di avvicinarsi a me, per loro i divieti sono carta straccia. Veniva e mi menava...». E lo Stato? Per anni «alla legge non fregava niente. Così sono diventati grandi. Perché lo Stato li ha ignorati...».

Casamonica chiede i danni al Comune: vuole maxi risarcimento da 10 milioni di euro. Luciano Casamonica si è affidato a Luca Di Carlo, conosciuto come "L'avvocato del Diavolo". Roma Today il 30 novembre 2019. Dieci milioni di euro. E' il maxi risarcimento che Luciano Casamonica è pronto a chiedere al Comune di Roma nella vicenda che un anno fa ha portato all'abbattimento delle ville in via del Quadraro. Indirizzata alla sindaca Virginia Raggi è partita intanto una diffida "a rimuovere nell'immediatezza la barriera cementizia che impedisce l'accesso al terreno assegnato a residenza e civile abitazione all'elevato manufatto che illegittimamente è stato demolito". Luciano Casamonica si è affidato a Luca Di Carlo, conosciuto come "L'avvocato del Diavolo", il legale che ha difeso Ilona Staller nel processo internazionale vinto contro l'ex marito, l'artista americano Jeff Koons. "Il Comune di Roma dovrà risarcire il mio assistito di tutti i danni - ha spiegato all'agenzia Dire - Chiederemo 10 milioni di euro, e sono anche pochi". La diffida è chiara: "In mancanza di tempestivo riscontro alla richiesta", Luciano Casamonica "sarà costretto ad agire presso le competenti magistrature per la tutela dei propri diritti, anche risarcitori. E senza ulteriore altro avviso".  

Virginia Raggi a Mario Giordano: “Vergogna, ospitare un Casamonica”. Laura Pellegrini il 04/12/2019 su Notizie.it. Duro attacco di Virginia Raggi e Nicola Morra contro il conduttore di Fuori dal Coro, Mario Giordano: Luciano Casamonica non è gradito. Nel corso della trasmissione Fuori dal Coro andata in onda nella serata di martedì 3 dicembre è intervenuto Luciano Casamonica. Il tema al centro della discussione era il “risarcimento dei Casamonica allo Stato italiano per i terreni e le case sequestrate e demolite”. In studio erano presenti anche Rita Dalla Chiesa e altri appartenenti al clan. Virginia Raggi, però, non ha approvato la scelta di Mario Giordano di ospitare in tv un Casamonica. La sindaca di Roma, infatti, attacca il conduttore su Twitter.

Virginia Raggi contro Mario Giordano. La sindaca di Roma Virginia Raggi si sfoga contro la scelta di Mario Giordano di ospitare in televisione Luciano Casamonica. In un post su Twitter, la prima cittadina scrive: “Ospitare in tv un membro della famiglia Casamonica è una vergogna. Ringrazio il presidente della commissione antimafia Nicola Morra per le sue parole. Ospitare in tv un membro della famiglia Casamonica è una vergogna. Ringrazio il presidente della commissione antimafia Nicola Morra per le sue parole. Le istituzioni unite #AtestaAlta nella loro battaglia per la legalità. Nelle scorse settimane, infatti, il presidente della Commissione Antimafia aveva sollevato il problema spiegando che “si tratta di un segnale grave, contrario al senso di legalità che dovremmo avere a cuore tutti”. Nonostante Nicola Morra abbia “sempre difeso il diritto all’informazione”, si augura “che ci sia un reale contraddittorio, ma soprattutto la voce delle vittime”. Infine, il presidente aveva ricorda che “i Casamonica sono esponenti criminali” e che “invitare i loro parenti significa abbassare pericolosamente la guardia. Non si può accettare che la mafia sia avanspettacolo”.

Mario Giordano ospita Luciano Casamonica e attacca Virginia Raggi. Enzo Boldi il 04/12/2019 su giornalettismo.com. Ancora polemiche per la presenza di Luciano Casamonica negli studi di Fuori dal Coro. Mario Giordano ha replicato al Tweet polemico di Virginia Raggi. Il membro della famiglia Casamonica ha chiesto 10 milioni di risarcimento per lo sgombero del novembre 2018. L’avere ospite in trasmissione un membro della famiglia Casamonica, nello specifico Luciano (di professione attore, o così lui si è definito), aveva provocato tantissime reazioni ancor prima della messa in onda di Fuori dal Coro. Tra le tante voci che si sono levate contro la decisione di Mario Giordano di dare spazio alla richiesta di un risarcimento da 10 milioni di euro da parte di uno dei componenti della grande famiglia – in cui vari componenti sono stati protagonisti di deprecabili fatti di cronaca – c’è stata anche la prima cittadina della capitale. E il conduttore-giornalista ha voluto replicare al sindaco di Roma. Giordano contro Raggi per una questione di tweet. Partiamo dalla vigilia. Virginia Raggi, alle 18.23 di martedì sera, aveva twittato polemicamente: «Ospitare in tv un membro della famiglia Casamonica è una vergogna. Stasera sulle reti tv di Berlusconi andrà in onda una trasmissione che ospiterà un membro del clan Casamonica. A voi i commenti». Con tanto di foto annessa con questa dichiarazione polemica nei confronti di Mario Giordano. Anche perché, occorre ricordarlo, Virginia Ragi vive sotto scorta per via delle minacce ricevute dal clan proprio per quegli sgomberi.

Lo sgombero e il risarcimento. Poi la trasmissione. Intorno alle 22.30, in studio ha fatto il proprio ingresso Luciano Casamonica – accompagnato dal suo legale – che ha parlato dello sgombero dello scorso anno dalle loro ville (nella zona del Quadraro) e della demolizione del 21 novembre 2018, parlando di una richiesta da 10 milioni di euro per i danni provocati da questa azione da parte del Campidoglio. Il conduttore ha più volte risposto piccato alle parole del membro della famiglia Casamonica, ricordando tutti i misfatti di cui il clan si è reso protagonista negli anni, oltre alla costruzione abusiva di quel comprensorio extra-lusso da cui sono stati sgombrati.

Giordano contro Raggi per i Casamonica. Poi la chiusa, con l’attacco alla sindaca di Roma. Mario Giordano contro Raggi proprio per quel tweet polemico e considerato «stupido e inutile». Secondo il giornalista e conduttore di Fuori dal Coro, infatti, ospitare Luciano Casamonica è stato un atto molto più fattivo per presentare agli italiani i veri problemi. Infine ha ricordato alla prima cittadina di pensare a risolvere i problemi di Roma invece di passare il tempo su Twitter. 

Vincenzo Bisbiglia per ilfattoquotidiano.it il 5 dicembre 2019. Virginia Raggi e Nicola Morra contro Mediaset. A scatenare la rabbia della sindaca di Roma e del parlamentare M5s e presidente della Commissione parlamentare Antimafia, è la decisione del programma di Rete 4, Fuori dal Coro, condotto da Mario Giordano, di ospitare Luciano Casamonica, uno dei volti più noti del clan degli “zingari” di Roma e proprietario delle villette abusive in zona Quadraro che il Campidoglio fece sgomberare e abbattere con un blitz, il 20 novembre 2018. Casamonica, attraverso il suo avvocato, nei giorni scorsi ha inviato alla prima cittadina una lettera di diffida annunciando l’intenzione di richiedere un maxi-risarcimento danni da 10 milioni di euro per l’abbattimento delle ville “senza preavviso” e il “danno d’immagine” derivante dall’esposizione mediatica, nonostante gli uffici comunali abbiano segnalato ai proprietari questi abusi sin dalla fine degli anni ’90. “Dieci milioni sono anche pochi”, ha fatto scrivere Luciano nella missiva. Contro l’ospitata su Rete4 si è schierato il presidente Antimafia Nicola Morra: “È incomprensibile – ha detto il parlamentare – il motivo per il quale si debba dare voce a chi ha saccheggiato e sfruttato un’intera città, agendo con violenza e prevaricazione. Voglio stigmatizzare questa comparsata che, se anche con le migliori intenzioni, non spiega la presenza di tale soggetto se non per meri motivi di share. Ho sempre difeso il diritto all’informazione e quindi mi auguro che vengano poste le giuste domande, che ci sia un reale contraddittorio, ma soprattutto la voce delle vittime”. E ha aggiunto: “I Casamonica sono esponenti criminali, invitare i loro parenti che invece di dissociarsi li difendono, anzi chiedono i danni al comune di Roma per l’abbattimento delle loro ville abusive, significa abbassare pericolosamente la guardia. Non si può accettare che la mafia sia avanspettacolo”. Luciano Casamonica, fra le altre cose attore e comparsa tv, è solo omonimo del boss raccontato dall’inchiesta sui “quattro re di Roma” di Lirio Abbate sull’Espresso – personaggio legato alla camorra che per anni ha guidato il clan fino a raggiungere lo spessore criminale attuale – nonché del “mediatore culturale” arrestato nell’aprile scorso (noto per la foto scattata con l’ex sindaco Gianni Alemanno alla cena del 28 settembre 2010 al centro Baobab) e finito nelle carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo” per i suoi rapporti con Massimo Carminati. Suo zio, invece, era Vittorio Casamonica, il “re di Roma” celebrato dal funerale-show dell’agosto 2015 al quartiere Don Bosco. La Corte di Cassazione, il 30 aprile scorso, ha sentenziato che il clan Casamonica è “un’associazione di stampo mafioso” secondo i criteri stabiliti dall’articolo 416 bis del codice penale, nella quale c’è “un solido vincolo familiare” fra persone “interscambiabili nei ruoli e accomunati dal fine comune di commettere svariati reati”. “Ospitare in tv un membro della famiglia Casamonica è una vergogna. Ringrazio il presidente della commissione antimafia Nicola Morra per le sue parole. Le istituzioni unite a testa alta nella loro battaglia per la legalità. Fuori la mafia da Roma”, ha scritto Virginia Raggi su Twitter. Ospite della trasmissione sarà anche Paolo Del Debbio, che nel suo Dritto e Rovescio, sempre su Rete 4, aveva già ospitato Luciano Casamonica qualche mese fa: “Io penso che con il giusto contradditorio e con le giuste domande non ci sia niente di male – ha detto il giornalista contattato da Ilfattoquotidiano.it – L’importante è non permettergli di fare un soliloquio, altrimenti non potremmo più invitare nessuno”.

Clan Fasciani, la Cassazione conferma le condanne: "È mafia". Riconosciuta per la prima volta nella storia criminale della Capitale con una sentenza passata in giudicato la mafia a Roma. Raggi: "Sentenza storica, ora Ostia è stata liberata". Federica Angeli il 29 novembre 2019 su La Repubblica. Il clan Fasciani è un'associazione a delinquere di stampo mafioso. Per la prima volta nella storia criminale della Capitale è stata riconosciuta con una sentenza passata in giudicato la mafia a Roma. Non era accaduto con la banda della Magliana, né con la banda della Marranella e un mese fa si è sgretolata davanti alla Suprema Corte anche l'accusa di 416 bis per la banda capeggiata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Stavolta invece la II sezione della Cassazione, presieduta dal presidente Giovanni Diotallevi ha accolto le accuse del procuratore generale Pietro Gaeta e ha sentenziato che don Carmine, le sue due figlie, Sabrina e Azzura, la moglie Silvia Bartoli, i fratelli, il nipote Alessandro (arrestato due settimane fa mentre tentava di fuggire in sud America) e tutti i sodali sono mafia. Le angherie, le violenze, le estorsioni e il traffico di droga portati avanti fino al 2013 dalla famiglia originaria di Capistrello ma a Ostia dai primi anni Ottanta, che hanno per anni piegato il litorale romano a regole spietate non sono opera di una semplice associazione criminale. Qui il salto di qualità del clan ha portato a un controllo del territorio capillare, vorace, costante proprio come una associazione mafiosa fa in terre considerate storicamente feudo di mafie. La sindaca Raggi presente alla lettura della sentenza ha così commentato: "Questa è una sentenza davvero storica, è la prima volta che si riconosce l'esistenza della mafia romana, autoctona. Ora Ostia è stata liberata". Soddisfazione è stata espressa dall'avvocato di parte civile di Libera, Giulio Vasaturo: "Questa sentenza riconosce in via definitiva e conferma dal punto di vista giuridico il profilo delle nuove mafie".

Mirko Polisano per ''Il Messaggero'' l'1 dicembre 2019.

L' OPERAZIONE. È notte fonda quando i lampeggianti della polizia entrano in piazza Gasparri. «Li stanno annà a prendere», sussurra chi nonostante l' ora tarda sta rientrando a casa. Gli agenti della Squadra Mobile di Roma sono arrivati a Ostia per arrestare sei esponenti del clan Fasciani dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la mafiosità dell' organizzazione criminale che operava sul litorale romano. A finire in manette - in esecuzione degli ordini di carcerazione - sono stati Terenzio Fasciani, 65 anni, fratello del noto boss Carmine, condannato alla pena di 6 anni e 9 giorni di carcere per associazione di tipo mafioso e detenzione illegale di armi aggravata dal metodo mafioso. Insieme a lui è stata arrestata Azzurra Fasciani, figlia di Carminuccio (altro soprannome del capoclan, ndr) 35 anni, condannata, a seguito di rideterminazione della pena, a 2 anni e 2 mesi di reclusione per associazione di tipo mafioso e intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso. Arrestati nella notte anche John Gilberto Colabella, 35 anni, condannato alla pena di 13 anni di carcere per associazione di tipo mafioso, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e detenzione illegale di armi aggravata dal metodo mafioso; Danilo Anselmo, 43 anni, condannato in via definitiva alla pena di 7 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga; Eugenio Ferramo, 35 anni, condannato alla pena di 6 anni e 8 mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga; Mirko Mazzoni, 39 anni, condannato alla pena di 6 anni e 8 mesi di carcere per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga.

L' INDAGINE. Fratello e figlia del boss in carcere, dunque, e con loro altri quattro affiliati del clan. Erano gli ultimi in libertà. Un' operazione complessiva che vede condannate 13 persone, boss compreso. L' inchiesta «Nuova Alba» partì nel luglio del 2013 e portò alla disarticolazione del clan. Droga, usura ed estorsioni erano il core business dei Fasciani, la famiglia egemone di Ostia e ora completamente «decapitata» come organizzazione. Adesso gli appetiti si fanno ghiotti per i rivali che puntano a prendersi la piazza di Ostia. Dai clan legati ai casalesi, nella vicina Acilia ai calabresi, i luogotenenti legati alle ndrine del reggino, che proprio sul litorale hanno iniziato a smerciare la «coca». Ostia si conferma l' area della Capitale più esposta alle infiltrazioni della malavita, uno dei nodi strategici del narcotraffico. Ne basta - ed è questo quello che temono gli inquirenti - per far iniziare una nuova guerra tra bande, volta al controllo del territorio.

LA RETE. I Fasciani controllavano tutto: dagli stabilimenti ai medici, come un professore del Gemelli che forniva al clan certificati falsi utili per far uscire boss e affiliati dal carcere. Tra gli eredi di Fasciani potrebbero esserci alcuni nipoti, i cosiddetti «rampolli» di famiglia. Ma anche tanti rivali, disposti a tutto pur di «prendersi Ostia».

Mirko Polisano per ''Il Messaggero'' l'1 dicembre 2019. Ostia è sempre stata la loro terra di conquista, la roccaforte dove comandavano e da cui facevano partire la droga non solo per rifornire il litorale ma anche interi quartieri della Capitale. Poi aggressioni, agguati ed estorsioni ai commercianti. La famiglia Fasciani sul mare di Roma è sempre stata un’organizzazione criminale ben serrata a cui ieri la Cassazione ha riconosciuto l’aggravante mafiosa. Sono state rese così definitive le 10 condanne nei confronti di persone affiliate al clan di “don” Carmine. La Suprema corte ha in gran parte confermato la sentenza della Corte d’appello di Roma del 4 febbraio scorso.

LE PENE. Oltre 27 anni di reclusione al ras Carmine Fasciani, originario di Capistrello ed ex fornaio che ha fatto la sua fortuna sul mare di Roma con usura e cocaina. Dodici anni e 5 mesi alla moglie Silvia Franca Bartoli, 11 anni e 4 mesi alla figlia Sabrina e 6 anni e dieci mesi all’altra figlia Azzurra. Il collegio della seconda sezione penale della Cassazione, presieduta da Giovanni Diotallevi, ha condannato anche Alessandro Fasciani, nipote di Carmine, a 10 anni e cinque mesi (con uno sconto di pena di un mese), Terenzio Fasciani (8 anni e mezzo), Riccardo Sibio (25 anni e mezzo), Luciano Bitti (13 anni e tre mesi), a John Gilberto Colabella 13 anni, Danilo Anselmi 7 anni. Ci sarà un nuovo processo per la determinazione della pena, invece, per Mirko Mazzoni ed Eugenio Ferramo. «Nei loro confronti - spiega il legame di Ferramo, Francesco Monarca - c’è stato un annullamento con rinvio della pena». È la seconda volta che la Cassazione si esprime sul processo al clan del litorale. Il 26 ottobre 2017 la Suprema Corte aveva annullato con rinvio le condanne, disponendo di fatto un Appello bis per valutare l’esistenza della mafia che nel precedente secondo grado era caduta. Con la sentenza di oggi diventano definitive condanne per circa 140 anni.

IL METODO. Le accuse sono quelle a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, droga, usura ed estorsioni. Il leader indiscusso del clan è sempre stato «don» Carmine, abruzzese di Capistrello, 69 anni, pluricitato in tutte le relazioni antimafia (da quelle della Dia a quelle redatte in Parlamento) a Ostia da quando era giovanissimo. Negli anni Settanta «don» Carmine ha ufficialmente una panetteria, ma è già vicino alla banda della Magliana dove si occupa del settore «soldi a strozzo». Poi, dagli Ottanta in poi, l’escalation incontrastata sul litorale.

LA SCALATA. Dopo droga e estorsioni ha tentato il salto imprenditoriale “acquistando” uno stabilimento balneare a Ostia Ponente: il Village. Aveva amicizie nei reduci dei Nar altre “importanti” come Gennaro Mokbel il faccendiere che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. I Fasciani a Ostia e sul litorale romano controllavano tutte le attività criminali ovvero gestione del traffico di droga, usura e vendita di armi. Disponevano di un vero arsenale, compresa una Glock, che in una intercettazione Carmine Fasciani aveva ordinato «di consegnare carica».

EREDI E ALLEANZE. Sul litorale di Roma la sentenza della Cassazione non sorprende nessuno. A piazza Gasparri, che i Fasciani hanno trasformato nel loro feudo, nessuno commenta. L’omertà continua a regnare da queste parti. «Adesso Ostia può alzare la testa», ha commentato la sindaca Raggi. Quello che però ora spaventa è la nuova stagione della mala che potrebbe aprirsi in questo quadrante della Capitale, dove gli appetiti sono ancora molti. I Fasciani sono stati condannati e c’è chi vorrebbe prendere il loro posto. A partire dagli eredi, da quei nipoti che la droga non la vendono «a grammi o a chili - come si legge nelle intercettazioni - ma a pacchi». E che ci faceva il fratello di “Carminuccio” in macchina con un boss di Primavalle?

·         Le Mafie di Napoli: Cosa Nostra e Camorra.

Così i superboss della mafia "scelsero" Napoli. L´incontro fra Corleonesi e camorristi cambiò le regole: dai duelli agli agguati plateali. L´affiliazione di Bardellino, considerato "un giovane d´azione, che si dava molto da fare". La ricostruzione di quel periodo nel libro di Enrico Bellavia "Un uomo d'onore", scrive Giovanni Marino il 24 aprile 2010 su La Repubblica. Quando la mafia colonizzò Napoli. Ne fece una irrinunciabile filiale di affari e delitti. Trasformò camorristi emergenti in "uomini d´onore". Condivise grandi progetti criminali. E, inedito assoluto, mise in piedi con i napoletani un eclatante agguato per eliminare un uomo dello Stato. Racconta questo e molto altro il pentito di Cosa nostra Francesco Di Carlo, ex padrino della Cupola. Misteri antichi e nuovi raccolti dal giornalista di "Repubblica" Enrico Bellavia in 375 pagine che si leggono con l´intensità di un legal-thriller. "Un uomo d´onore" attraversa la lunga saga nera della mafia siciliana. Molte pagine sono dedicate al rapporto tra Cosa nostra e camorra. Di Carlo, l´ex boss che ha risposto ai giudici anche su Andreotti, Berlusconi, Dell´Utri, fa capire con queste parole quale sia stata l´incidenza di Cosa nostra nel dna della camorra: «L´incontro tra i Corleonesi e i napoletani ha cambiato profondamente le regole della criminalità da quelle parti. Era come una peste. Nacquero mille problemi tra gli uomini d´onore. E la violenza aumentò. La storia criminale di Napoli era una storia fatta di duelli. L´avversario veniva intimidito: se si usavano le armi, si mirava alle gambe. Siamo noi ad avere esportato l´agguato plateale e il sistema della lupara bianca». Sono davvero tanti i retroscena del rapporto mafioso Palermo-Napoli e il pentito mostra di conoscerli nelle pieghe più nascoste. Ecco come  descrive l´affiliazione a Cosa nostra di Antonio Bardellino, considerato l´antesignano della cosca dei Casalesi: «Un giorno arrivai a Marano di sera e mi dissero che in un furgone c´erano due che avevano strangolato (....) mi dissero che avevano anche intenzione di "combinare" chi glieli aveva portati (...) l´indomani feci da padrino ad Antonio Bardellino (...) gli spiegai le regole e lui divenne "compariello"(...) era un giovane di azione e aveva una famiglia che si dava molto da fare (...) un nome conosciutissimo nel Casertano». Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e lo stesso Francesco Di Carlo erano di casa tra Napoli e Marano, impegnati a «disciplinare il contrabbando», ospiti dei Nuvoletta, con Zaza, tra i più vicini al gotha di Cosa nostra. Al punto da essere coinvolti nel tentativo di omicidio del questore Angelo Mangano. Il pentito svela come andò. Anni Settanta, Mangano dà la caccia a Liggio, nel frattempo riparato in Campania, che decide di assassinarlo a Roma. Il raid in via Tor Tre Teste a Roma, nell´aprile 1973. Liggio agisce con Michele Zaza, Angelo Nuvoletta e Ciro Mazzarella. Ma non tutto va liscio: si inceppa la pistola di Nuvoletta, si perde tempo, Zaza, alla guida, è costretto a scendere per fare fuoco. Mangano e il suo autista restano gravemente feriti, ma si salvano. Liggio ha un diavolo per capello, «l´esitazione di Nuvoletta lo fa molto arrabbiare». Storie di mafia. Raccontate da chi le ha vissute in prima persona: Di Carlo, che vide un´ala della camorra sposare rituali, strategie e crudeltà della mafia siciliana. 

·         Mafia Export.

Così la mafia ha conquistato la Germania (grazie anche alla caduta del muro di Berlino). I clan tra la capitale tedesca e Duisburg sono sempre più potenti. Una forza che nasce dopo la caduta del muro, quando i boss hanno sfruttato le privatizzazioni fatte nella ex Ddr. L'inchiesta finanziata da Journalismfund.eu, scrivono Ambra Montanari e Sabrina Pignedoli il 21 marzo 2019 su L’Espresso. «Il capoclan aprì negozi e capannoni in Germania un momento prima dell'apertura della frontiera con la DDR – racconta un pentito –. Dopo il crollo del muro di Berlino si lanciò sui mercati della Germania Est, avendo come base la stessa Berlino». 'Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra si sono date appuntamento a Berlino per la caduta del muro. Dalla notte del novembre 1989, in cui i berlinesi dell’est si riversarono a ovest, le maggiori mafie italiane, invece, si spostano a est. Investono in modo massiccio i capitali mafiosi in imprese legali, alterando le leggi del libero mercato.  Un mosaico cominciato trent'anni fa, e ora ricostruito da questa inchiesta giornalistica realizzata con il patrocinio europeo di Journalismfund, non profit che ha come obiettivo quello di promuovere e gestisce progetti di giornalismo investigativo cross border. «Arrivavano con valigette piene di contanti, volevano comprare edifici e terreni agricoli. I funzionari la ritenevano una cosa curiosa, ma non era nulla di illegale all’epoca - ricorda Bernd Finger ex investigatore capo della BKA, l’ufficio federale della la polizia criminale.- All’epoca non ci furono indagini, nulla di quello che veniva registrato era illegale». Finger racconta per la prima volta ai giornalisti le infiltrazioni legate al meccanismo di privatizzazione. La Treuhand o Treuhandgesellschaft era un’azienda fiduciaria incaricata dal governo della DDR in transizione di vendere le proprietà pubbliche della Germania Est. I suoi dipendenti, estremamente impreparati alla mole di lavoro che avevano davanti, furono soggetti a pesanti critiche, minacce, accuse di corruzione. La Treuhand continuò comunque nel suo sforzo di cambiare l’economia della Germania Est, arrivando a vendere compagnie a ritmo di 20 al giorno. Era incaricata di privatizzare 22mila imprese, due terzi delle foreste, 8mila compagnie, innumerevoli edifici, e il 28% dei terreni agricoli. Fu un'opera di privatizzazione senza precedenti. Alle accuse di avere un approccio morbido sulla corruzione, l’allora presidente della Treuhand rispose: «Non è evitabile quando si lavora con migliaia di aziende - sbottò Birgit Breuel, presidente dal 1991 - Se si prendessero altrettante aziende della Germania ovest e si revisionassero, si troverebbe corruzione anche lì». Le mafie italiane questo lo capirono presto e cominciano ad acquistare. «Nei periodi di transizione economica, di crisi congiunturali o strutturali, si sono presentate occasioni prontamente sfruttate dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso per trarre motivi di più ingenti profitti, di ulteriore arricchimento, di più profonda penetrazione nell'economia e nella finanza». Sono le parole pronunciate da Piero Grasso, allora a capo della Direzione nazionale antimafia, nell'audizione del 25 febbraio 2009 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. I primi a vedere nel territorio tedesco un campo fertile per gli investimenti furono i mafiosi di Cosa Nostra. «Ricordo – continua Grasso durante l'audizione – un'intercettazione telefonica raccolta il giorno della caduta del muro di Berlino nel corso della quale un mafioso diceva al suo corrispondente a Berlino Ovest di recarsi subito a Berlino Est per comprare. Alla richiesta di chiarimenti del suo interlocutore il mafioso rispose che doveva comprare tutto quello che capitava: pizzerie, discoteche, alberghi». Gli investimenti di Cosa Nostra in territorio tedesco, secondo quanto riportato dal pentito Gaspare Mutolo alla Commissione parlamentare antimafia, cominciano già negli anni Ottanta. «Quando si parlava della legge di Pio La Torre – racconta il pentito riferendosi a quello che poi è diventato il 416 bis –, siamo nei primi mesi del 1982, Madonia (Nino, boss del mandamento di Resuttana, alleato dei Corleonesi, ndr) ci consigliò, a me e a Micalizzi, poiché sapeva che lavoravamo a pieno ritmo con l'eroina, di non correre rischi. Ci disse che, se avessero approvato questa legge, ci avrebbero tolti i soldi e ci proposero di investirli in Germania dove c'era tranquillità». E precisa: «La maggior parte degli investimenti consiste in terreni». La 'ndrangheta è sicuramente la mafia più attiva in territorio tedesco. E proprio la caduta del muro di Berlino è stato il momento in cui ha fatto il salto di qualità. Ma gli atti giudiziari al riguardo sono pochi perché la ‘ndrangheta all’epoca era ancora vista come una mafia di serie B. Molte risposte potrebbero trovarsi, invece, nei documenti della Treuhandgesellschaft presenti nell’archivio di Stato di Berlino: se si allineassero tutti si conterebbero 70 chilometri di polverosa carta ingiallita. Il vincolo legale che per 30 anni rende secretati i documenti, non permette di accedere a nomi e date. Alcuni protagonisti però sono emersi da atti informativi della polizia italiana e tedesca. Come Spartaco Pitanti, proprietario di numerosi ristoranti nella Germania Est, compresa, per un periodo, la pizzeria ‘Da Bruno’, dove a Ferragosto del 2007 ci fu la strage di Duisburg, epilogo di una lunga guerra di ‘ndrangheta, iniziata a San Luca, in Calabria, e terminata in Germania. Il nome di Pitanti e del suo socio Domenico Giorgi compaiono in diverse relazioni della BKA e nuovamente nella recente inchiesta Stige, condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. La loro attività di ristorazione, “Il Convento” di Kassel, viene indicata, insieme a una decina di altre attività commerciali, come “intestate o comunque collegate ad esponenti della cosca o a persone vicine alla cosca”. Allo stato si tratta solo di ipotesi investigative, che dovranno trovare conferme nei processi ancora in corso. Certo è che Pitanti, al momento della sua morte, avvenuto nell’ottobre scorso, non aveva mai ricevuto condanne per questioni legati alla criminalità organizzata. Nemmeno i clan della camorra si sono lasciati sfuggire gli investimenti della Germania Est. «A seguito della caduta del muro di Berlino – spiega il pentito Guglielmo Giuliano – l'associazione che fa capo ai Licciardi, Contini e Mallardo (l'Alleanza di Secondigliano, ndr) ha iniziato a operare nei paesi dell'est e in particolar modo nella ex Germania dell'est. Utilizzando canali facenti capo a napoletani che già si trovavano in Germania, è iniziato un vero e proprio monopolio nella commercializzazione di abbigliamento in finta pelle - oltre che - a trapani di marca Bosch taroccati». Un vero e proprio colpo al cuore del 'made in Germany'. A partire dalla caduta del muro di Berlino, viene messa in piedi dalla camorra una rete capillare di attività commerciali, presenti in tutto il territorio tedesco. «I negozi in questione – spiega il collaboratore di giustizia Gaetano Guida – spesso sono gestiti da prestanome ma sempre servono in realtà come riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite ma anche come coperture di ulteriori attività criminali quali il traffico di droga e armi e la copertura di latitanti. Questi negozi sono presenti in tutta la Germania, ad esempio a Berlino, Amburgo, Francoforte, Dortund, Dusseldorf, Lipsia». Così come succede nel nord Italia, anche in Germania – e all'estero in generale – le differenti organizzazioni criminali non entrano in contrasto tra loro, ma collaborano, stringono alleanze, si spartiscono, più che i territori, le attività economiche da portare avanti. In questo modo dalla caduta del muro a oggi le  mafie italiane sono cresciute e si sono insediate indisturbate in territorio tedesco. Anche perché una presenza così forte e capillare trova un contrasto solo parziale: in Germania non esiste il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Un discrimine non da poco dal momento che in Italia può essere punita la semplice appartenenza all'associazione anche se chi vi appartiene non commette altri reati. In Germania servono reati fine per poter perseguire una persona. Un altro fattore di debolezza ancora più grave, se si considera che larga parte delle attività della criminalità organizzata in Germania è di tipo economico, è rappresentato dalla normativa sul sequestro dei beni è differente. È necessario che l'accusa dimostri l'esatta provenienza da uno specifico reato: prova che diventa molto difficile da portare davanti a un giudice nel momento che in territorio tedesco vengono riciclati i capitali accumulati illecitamente dalle cosche, ma in vario modo e spesso in altri Stati. Alcuni passi verso il miglioramento del contrasto si stanno compiendo, per esempio con l'ultima risoluzione Onu approvata a Vienna e con una nuova normativa sul sequestro dei beni a livello di Unione Europea che entrerà in vigore nel 2020. Ma mentre le mafie si internazionalizzano velocemente, gli accordi bilaterali hanno tempi molto più lenti. Anche perché troppo spesso 'ndrangheta, Cosa nostra e camorra vengono viste all'estero come una questione fra italiani. Anche se questi italiani ormai sono diventati cittadini tedeschi ed è anche l'economia teutonica a essere messa a repentaglio.

La mafia è un modello da esportazione: così le cosche si sono radicate in Germania. Massoneria, servizi segreti e clan siciliani. Il Sistema è arrivato in terra tedesca. Con altre garanzie di credito e nuove generazioni da coltivare, scrivono Floriana Bulfon e Giulio Rubino il 22 gennaio 2018 su L’Espresso. Il sole a picco d’agosto e i vacanzieri immersi nelle acque cristalline. Quella di San Vito Lo Capo, provincia di Trapani, è una delle spiagge più belle d’Italia, ma il “turista” Salvatore Rinzivillo non ama frequentarla. Lui è un capomafia di Gela e preferisce rimanere nella sua villa. È all’inizio del piccolo centro trapanese e le imposte sono sempre accostate, perché da qui pianifica la conquista della Germania. I suoi due fratelli, Antonio e il gemello Crocifisso, sono in carcere al 41 bis; lui invece è libero dal 2013 e ha sulle spalle la responsabilità di un impero che si estende dalla Sicilia al Lazio, dalla Lombardia al Marocco. Don Salvatore ha importanti intuizioni per espandere gli affari, capisce che la creazione di una “nuova generazione” di uomini fidati, luogotenenti che lo accompagnino in un grande progetto criminale, può fare la differenza. E così invita nella casa scelta per le vacanze il suo nuovo braccio destro, un uomo in grado di aprirgli le porte in terra tedesca. Si chiama Ivano Martorana, è giovane, non ha neppure quarant’anni, è incensurato e insospettabile. È cresciuto nel Baden-Württemberg, ricca regione del sud-ovest, dove si trova la più numerosa comunità di nostri connazionali all’estero in Europa, seconda al mondo solo all’Argentina. L’italiano riecheggia nelle strade, si legge in molte insegne di negozi, è entrato a far parte del patrimonio culturale. Il clan l’ha individuata come base logistica, ha già avviato un florido traffico di cocaina e Rinzivillo ha dimostrato di saper mantenere bene gli equilibri: ha contatti tanto con gli “stiddari” che si contrapponevano a Cosa nostra Angelo e Calogero Migliore, quanto con il latitante di ’ndrangheta Antonio Strangio, titolare del ristorante “Da Bruno” dove nel 2007 avvenne la strage di Duisburg. La droga però è solo una parte marginale degli affari criminali. Rinzivillo ha trovato in Martorana la chiave per entrare nel giro che conta. Lo stima così tanto da averlo scelto come padrino di cresima per il figlio Giovanni, ha fiuto e conoscenze «con quelli che comandano il mondo». A Rinzivillo parla chiaro: «è un gruppo di massoni…», persone così potenti che possono avviare grandi investimenti in Europa, Nord Africa e persino Arabia Saudita. Ad introdurlo nelle potenti logge è stato un avvocato tedesco e non è stata cosa semplice. «Zio Totò lo sai che ho fatto per entrare là dentro… per avere questo amico avvocato? Mi sono fatto il mazzo che non ho avuto nemmeno dieci minuti per me nella vita», si lamenta Martorana. Dopo tanta fatica, ora finalmente è tempo di fare il grande passo. Naturalmente c’è un prezzo da pagare. Per comprarsi l’accesso alla loggia, spiega il fido Martorana al boss, serve una consistente «fiche di ingresso: cinquanta milioni di euro. È una specie di investimento… che vogliono. È come per dire benvenuto!». L’avvocato tedesco in grado di far accedere la mafia al gruppo di massoni, secondo gli investigatori di Karlsruhe, avrebbe un ruolo nell’ufficio criminale di Colonia. È stata sua figlia Julia a favorire il contatto con Martorana e per lui è una fonte di notizie preziosa. Al telefono con un imprenditore si lascia sfuggire che la utilizzerà per controllare alcuni nomi. Una comodità: Julia lavorerebbe infatti per la Kriminalpolizei di Düsseldorf. È lo stesso schema usato in Italia. Questo il colpo di genio di Ivano Martorana che ripropone il canovaccio che gli ha già assicurato parecchi risultati in patria attraverso il sodale Marco Lazzari. L’eroe di Nassiriya che scavò tra le macerie per cercare i feriti e i morti, poi arruolato nei nostri servizi di sicurezza, considera il boss «un maestro di vita, da stringergli la mano e stare zitti». Si compiace quando Rinzivillo gli dice «io sto parlando con degli uomini», perché «una volta se parlavi con uno sbirro ti dicevano che cazzo stai a fa’ però i tempi sono cambiati adesso ci sono i colletti bianchi». Quelli pronti a portare rispetto. Lazzari si considera un prescelto, tanto da rivelare a un amico: «credo che voglia far costruire la nuova generazione su me e Ivano». E così si prodiga a fare sopralluoghi per compiere un’estorsione ai danni del titolare del caffè Veneto di Roma e confida intercettato di essersi spinto persino a bloccare una relazione dei servizi che «pure sopra so’ stati fatti i favori…oltre all’Italia». Proprio in Germania dove agisce Martorana, l’uomo che ha le carte giuste per avviare il clan agli affari più lucrosi. Primo fra tutti, il grande progetto di sviluppo Stuttgart 21. Oltre 6 miliardi per il rifacimento della stazione centrale della città. Tutti i binari dovranno passare sottoterra e questo libererà un’ampia zona di nuovi terreni edificabili nel pieno centro di Stoccarda. Un’occasione unica, anche perché i tedeschi non hanno interdittive antimafia. Così anche se in passato Aldo Pione e Alfredo Salvatore Santangelo hanno avuto condanne per mafia, in Germania sono i soci perfetti. Santangelo, imprenditore edile catanese operante nel bresciano, potrà fornire le maestranze per un progetto di costruzione di sette villette nell’area in cui prima passavano i treni e aprire persino punti vendita di abbigliamento a Colonia. Anche Pione e il figlio cercano di accreditarsi, fanno avanti e indietro da Busto Arsizio a Colonia a San Vito Lo Capo «per espandere i loro lavori in Germania». Avendo sempre cura di rispettare l’intermediazione di Martorana, raccomanda Rinzivillo. Martorana del resto si muove con grande intraprendenza negli spazi opachi delle operazioni finanziarie internazionali. Tratta l’investimento di una consistente somma di denaro, pari a sei milioni di euro, con una società tedesca di fatto riconducibile a Viktor Grassmann, personaggio di spicco della mafia russa e poi l’avviamento nel quartiere italiano di San Pietroburgo di iniziative imprenditoriali nel settore edile. Non solo, è addirittura entusiasta per un progetto che, secondo la polizia tedesca, nasconderebbe un’operazione di riciclaggio. Il meccanismo è piuttosto intricato: Martorana, come socio occulto di un’azienda intestata a un prestanome tedesco, è alla ricerca di un partner con il quale dar vita, naturalmente solo su carta, ad una joint-venture. Tutto deve essere in ordine: le aziende devono apparire sane e l’idea di business credibile. Ci vuole anche un bel capitale iniziale da presentare, serve a garanzia del progetto e per ottenere l’appoggio delle banche, ma i soldi per il clan non sono un problema. «Il denaro proviene presumibilmente dall’Italia, o direttamente o tramite un’importante banca internazionale di Londra», sostengono gli investigatori tedeschi. La provenienza non ha importanza, il capitale iniziale poi non serve a dar vita a nessun lavoro, ma solamente a far sì che la banca possa emettere una garanzia di credito a favore della joint-venture. Il gioco può così iniziare: un capitale sporco comincia a diventare virtuale. La garanzia di credito «può essere usata in centinaia di modi», espone compiaciuto l’imprenditore Martorana a un suo collega. Per esempio può essere comprata e venduta, e questo passaggio permette di mettere le mani su somme che possono essere immediatamente reinvestite, anche in progetti pubblici. «Se una banca non mette in dubbio la provenienza del mio denaro, posso depositare capitale sporco come “pegno” di una garanzia che poi un’altra banca accetterà per darmi un finanziamento. A questo punto avrò denaro pulito, che potrò utilizzare in qualsiasi modo», spiega Gian Gaetano Bellavia, esperto di diritto penale dell’economia e consulente di diverse procure. E se qualcosa va storto c’è sempre il capitale iniziale a coprire gli interessi della banca. «Si fa apposta a far fallire la joint-venture, così le banche si prendono soldi sporchi che diventano puliti e chi riceve il prestito se lo tiene», chiarisce Bellavia. Un trucco solo apparentemente complicato se si hanno gli appoggi giusti. Per gli investigatori Martorana avrebbe avviato questa strada con diversi partner, non solo in Germania, anche in Svizzera. A supervisionare i contratti sarebbe stato proprio il padre di Julia, il potente avvocato pronto ad aprire a Martorana le porte della finanza globale. «Zio Totò sono linee di credito aperte che hanno solo loro, è per questo che si dice che comandano il mondo delle finanze», chiarisce Martorana al suo boss che deve depositare i 50 milioni. Con la fiche d’ingresso arrivano le entrature nei canali della grande distribuzione e delle catene di supermercati internazionali. Così tentano di avviare anche un profittevole business legato al pesce che avrebbe unito ben tre paesi: dal Marocco il pesce arriva in Sicilia e viene imposto nei mercati ittici di mezza Italia. E da lì in Germania. Le attività in Marocco sono gestite da Francesco Guttadauro. Suo padre Giuseppe, “u dutturi”, ex aiuto primario dell’ospedale Civico di Palermo e capomafia della zona di Brancaccio, è legato al latitante Matteo Messina Denaro perché è cognato di suo fratello. Rinzivillo li frequenta e lo considera un onore: «Sono persone intelligentissime», ripete. È ormai così vicino alla famiglia del ricercato che Marco Lazzari intercettato avverte: «Per il noto che stanno cercando giù, si so n’cafoniti». L’ultima inchiesta per trovarlo ruota proprio attorno al capomafia gelese che ama la Germania. Del resto durante l’estate a San Vito, con il fido Martorana al seguito, ha fatto tappa anche a Castelvetrano, il paese della primula rossa. Poi le vacanze sono finite. Lo scorso ottobre, i finanzieri del Gico di Roma hanno bussato alla porta di “don” Rinzivillo e l’hanno arrestato. L’accusa è associazione mafiosa. Con lui i suoi complici: l’agente segreto Lazzari e il colletto bianco Martorana che è stato estradato dalla Germania. Il grande progetto è stato interrotto. Nessuno però è riuscito ancora ad individuare il potente avvocato. Il sistema mafioso massonico è stato esportato. Sopravvive con altre garanzie di credito e nuove generazioni da coltivare. Baciamo le mani e auf Wiedersehen.

"Io, emigrato in Germania, prigioniero e schiavo della mafia". Ricattato, sottopagato e umiliato. Ecco la vicenda di un ragazzo milanese che per scappare dalla crisi ha cercato fortuna all'estero. Finendo però vittima di una società compromessa con la 'ndrangheta calabrese, scrive Luca Steinmann il 15 giugno 2015 su L’Espresso. Federico aveva 22 anni quando da Milano partì per la Germania. Era il 2011, Berlusconi capitolava, l'Italia sembrava sull'orlo del baratro e il paese della Merkel veniva descritto come un Eldorado. Forti di questi racconti, migliaia di ragazzi lasciarono il Belpaese per il mercato tedesco. Per alcuni è stato l'inizio di una storia felice, per Federico invece l'ingresso in un mondo con  molte zone di contatto con la criminalità organizzata. “Sono partito a novembre per andare a Costanza, nella regione di Stoccarda, ai confini con la Svizzera", racconta oggi Federico. "Come prima cosa ho cercato un appoggio presso la comunità locale di connazionali, convinto di potere trovare qualcuno che mi avrebbe aiutato per senso di appartenenza e solidarietà. E, in effetti, alla prima porta alla quale ho bussato la risposta è stata positiva. Era uno dei tanti ristoratori italiani. Mi prese a lavorare in nero come cameriere e mi offrì una sistemazione. Mi sembrava l'ideale per iniziare”. Il sogno di riscoprire all'estero quella solidarietà tra italiani che non trovava in patria si è però rapidamente infranto. "Mi resi subito conto che la situazione non era come mi aspettavo. Venni sistemato in una stanza da condividere con altre otto persone, tutti ragazzi italiani o albanesi che facevano i camerieri o i cuochi nei ristoranti italiani della città". Secondo una legge regionale del Land Baden-Württemberg, in cui Costanza si trova, per avere un regolare contratto di lavoro è necessario avere un contratto d'affitto. Chi risulta senza fissa dimora non ha alcuna possibilità di lavorare se non per gli unici che assumano in nero: gli italiani. "La mattina ci svegliavamo e andavamo a lavorare, ognuno per il proprio locale. Avevamo un solo mazzo di chiavi da condividere in nove persone, che era sempre in mano allo stesso ragazzo. I datori di lavoro erano apparentemente persone diverse, ma si conoscevano tutte e si spartivano, oltre che i camerieri, anche il controllo delle diverse attività italiane della zona. In caso di problemi con uno di loro si avevano problemi con tutti". Per problemi Federico intende la rivendicazione dei propri diritti: lavorare non oltre le otto ore al giorno, avere gli straordinari pagati, avere uno stipendio fisso. Cosa che però non gli era garantita. «Quando si parlava di stipendio il 'padrone'  diceva che ne avremmo parlato più avanti e se gli facevo presente che la sistemazione non era ottimale lui mi rispondeva che se non mi andava bene potevo anche andarmene a dormire per strada. I soldi, dunque, me li dava quando voleva lui e quanti voleva lui. Quando ho provato a ribellarmi e sono andato a bussare alla porta di altri ristoranti italiani sono stato mandato via malamente. Ero di proprietà del mio 'padrone' e gli altri non mi avrebbero mai accettato. I datori di lavoro non-italiani, invece, volevano vedere un contratto d'affitto che non avevo e di conseguenza mi trovavo costretto ad accettare qualsiasi cosa». Così Federico ha scoperto che la Germania non era il paradiso che aveva creduto. Scappato dall'Italia per trovare una sistemazione, si era ritrovato vittima di rapporti di dipendenza personale regolati da ricatti e minacce contro chi si ribellava, bollato come infame. "Tutta questa situazione contrastava nettamente con il resto della società circostante, piena di studenti Erasmus e turisti. Mi sono chiesto tante volte come fosse possibile che nessuno da fuori si accorgesse di come venivamo sfruttati".  Allora Federico non poteva sapere che la polizia tedesca stava controllando la zona di Costanza e che la comunità italiana locale era sotto inchiesta per i suoi stretti legami con la criminalità organizzata di origine calabrese. 

Costanza, la colonia delle 'ndrine.

Z: "Ascolta io volevo parlare con te per dirti una cosa... ma sono vere tutte le scemate che dicono per quel cornuto della Svizzera?"

N: "che cosa stanno dicendo?"

Z: "eh... dicono che vi siete litigati, vi siete litigati bene... e poi dicono che ti hanno dato uno schiaffo!"

N: "E se mai mi avesse dato uno schiaffo, gli avrei sparato!"

Questa telefonata intercettata non viene dalla Locride. E' partita da Singen, cittadina alle porte di Costanza con  circa il 40 per cento degli immigrati calabresi. A parlare è Bruno Nesci, che rende conto al boss Domenico Oppedisano di Rosarno. Le intercettazioni mostrano i dissapori tra Nesci e la cosca rivale di Frauenfeld, nella vicina Svizzera. Perché il Sud della Germania e il Nord della Svizzera sono zone di colonizzazione da parte dei clan che, mimetizzandosi all'immigrazione di massa di origine calabrese iniziata negli anni '50, hanno ricreato sul territorio logiche criminali facendo direttamente riferimento alle case-madri in Calabria.

A Costanza si fanno affari. Il Baden-Württemberg costituisce una forza economica trainante, per questo è stato oggetto di ingenti flussi migratori da parte di affiliati della 'ndrangheta che hanno scelto di insediarsi sul territorio sfruttandone la sua posizione, che garantisce un facile accesso ai paesi confinanti. Essendo una cittadina sul confine tra Germania e Svizzera , è diventata una roccaforte strategica dei clan, una base logistica per il traffico di armi e di stupefacenti, per l'estorsione e soprattutto per il riciclaggio nel settore degli alberghi e della ristorazione. E' proprio in uno di questi ristoranti che Federico si trova a lavorare. Dall'esterno l'attività sembra completamente regolare, ma dal suo interno emerge un'altra realtà: i soldi sono ripuliti nelle attività legali, non producono allarme sociale e destano pochi sospetti. Dagli anni '80 la 'ndrangheta ricicla i profitti criminali in queste terre. Solo a Costanza e nei paesi limitrofi sono stati individuati cinque locali. La presenza dei clan è così capillare da comportare addirittura dei contrasti interni per la spartizione del territorio, che però vengono risolti grazie alla grande disponibilità di denaro. Peccato che a questa ricchezza contriuisca anche lo sfruttamento di Federico. "Dovevo sottostare al volere del 'padrone'. Ero completamente succube delle sue decisioni e vittima delle sue minacce. Ho pensato anche di denunciarlo alla polizia, ma ho avuto paura. La mia parola contro quella di tanti ristoratori italiani della città. Oltretutto nessuno dei miei coinquilini aveva fiducia nelle istituzioni tedesche, forse perché ci sentivamo intrappolati in un mondo invisibile lontano dalla Germania in cui vivevamo". 

Il nuovo inizio. Federico oggi non vive più a Costanza. Dopo sette mesi di schiavitù ha deciso di tornare a Milano, dove lavora come cuoco. Si è sposato e ha un bambino. «Quando penso al mio periodo in Germania ricordo la frustrazione che provavo nell'essere preso in giro da chi mi sfruttava. Il mio rimpianto più grande è quello di aver vissuto in un paese senza poterlo conoscere veramente». «Mi sembra di essere rimasto imbrigliato in una rete che mi ha impedito di costruire il sogno che avevo. Il primo periodo di ritorno a Milano non è stato facile, perché sentivo di avere fallito. Poi però ho capito che con lo stesso impegno che avevo messo a Costanza, potevo lavorare qui e ho trovato la mia stabilità. Una cosa l'ho capita: nella vita non conta tanto dove tu sia, ma soprattutto l'impegno che ci metti».

Così la mafia è diventata europea. I ristoranti in Germania, le pale eoliche in Serbia, le discoteche in Romania, la movida a Malta, i soldi in Svizzera. E poi i traffici di coca che passano da Olanda e Spagna. I clan italiani si sono internazionalizzati. Mentre le armi per combatterli restano spuntate, scrive Giovanni Tizian il 19 maggio 2014 su L’Espresso. Poliziotti vicini al cadavere di uno dei 6 italiani assassinati a Duisburg il 15 agosto 2007«Noi siamo in Europa per cosa? Per discutere due mesi delle quote latte e per discutere dieci giorni della lunghezza delle banane da importare, e poi non ci preoccupiamo della sicurezza». Nicola Gratteri è il procuratore aggiunto della distrettuale antimafia di Reggio Calabria. E ha risposto così ai parlamentari della commissione antimafia che gli chiedevano delle difficoltà che i magistrati italiani incontrano nell'inchieste di respiro internazionale. L'Europa, in pratica, come una grande prateria, «dove chiunque può andare a pascolare», ha continuato Gratteri. «Si continua a pensare che la mafia esiste se c’è il morto a terra, se ci sono segni di spari alle serrande o alle macchine. Invece non è così. Le mafie italiane sono in Europa per fare due reati: per vendere cocaina e per fare riciclaggio. Da Roma in su, fino alla Norvegia, vanno a comprare tutto ciò che è in vendita, perché sono gli unici ad avere contanti. Se loro comprano un ristorante a Francoforte, stanno attenti affinché in quella via non si rubi nemmeno una bicicletta, sia per non svalutare il bene sia perché la polizia non vada a ficcare il naso», è l'analisi del magistrato calabrese fatta durante l'audizione in commissione.

Gratteri racconta anche di un'indagine su traffico internazionale di cocaina. I container sarebbero passati dal porto di Rotterdam, grande quanto «la metà di Roma», dice il pm. Gli investigatori italiani avrebbero dovuto soltanto seguire il trafficante olandese per vedere dove andava a finire il carico. Ma il procuratore di Rotterdam bloccò tutto. «Mi disse che dovevano arrestarlo. Io risposi che, se l'avessimo arrestato, avremmo perso il container. Lui ribatté che, visto che dall'intercettazione emergeva che questo aveva due chili di cocaina a casa, lui non poteva ritardare il sequestro, e dal momento che entrando in questa casa avrebbe trovato la droga, avrebbe dovuto arrestarlo. In quel modo però avremmo perso il container». Regole e procedure differenti per un obiettivo che dovrebbe essere comune a tutti gli Stati membri. Eppure mentre nell'Unione persone, merci e capitali circolano liberi, il contrasto alle mafie trova numerosi ostacoli e frontiere. Così il cortocircuito è assicurato. Per questo, in vista del semestre europeo, la commissione d'inchiesta presieduta da Rosy Bindi sta preparando un piano antimafia da presentare all'Europa. Se ne occupa un gruppo di lavoro costituito ad hoc. Che si è già riunito per stabilire alcune linee guida. Il premier Renzi avrà l'occasione di presentarsi con un pacchetto di proposte antimafia. E di esportare buone pratiche legislative e investigative. Una competenza che ci è costata migliaia di morti, ma che è anche la più avanzata al mondo. «Proporremo il miglioramento di alcuni strumenti già previsti ma poco utilizzati», spiega a “l'Espresso” Laura Garavini, tra i componenti in quota Pd della commissione antimafia. «Penso agli Aro, piattaforme di incontro dove le forze di polizia europee possono scambiarsi informazioni e dati, o al Maoc, che viene utilizzato per intercettare i barconi dei migranti e che potrebbe essere utilizzato anche per i grandi traffici di droga». Ma la vera partita si gioca su quattro questioni fondamentali: «Il riconoscimento del reato europeo di associazione mafiosa, lo snellimento delle procedure di sequestro e confisca e una normativa, nei Paesi dove manca, che permetta di indagare sulle società, e non solo sulle persone». Punti che non troveranno d'accordo numerosi ministri europei. Lo scetticismo è diffuso. Così come la convinzione che la mafia sia un problema solo italiano.

Negli Stati membri c'è poca consapevolezza di quanto sta accadendo. Nonostante gli allarmi lanciati dagli organi investigativi europei: fatti come la strage di Duisburg del ferragosto 2007, in cui vennero uccise 6 persone legate alla 'ndrangheta, non sono casi isolati. Ma delineano una presenza stabile delle cosche italiane nel cuore dell'Unione europea. Non è un caso, sostengono gli inquirenti, che tra Germania, Olanda, Spagna, Belgio e Bulgaria, in dieci anni sono stati presi 44 latitanti affiliati a 'ndrangheta, camorra e cosa nostra. Uno di questi è Francesco Nirta, catturato a Utrecht, cittadina a pochi chilometri da Amsterdam. Considerato uno dei killer dell'agguato di Duisburg. In passato le inchieste hanno dimostrato una solida alleanza tra il clan Nirta di San Luca e la famiglia mafiosa di Castelvetrano governata da Matteo Messina Denaro, l'ultimo grande latitante della mafia siciliana. E quando le organizzazioni battezzano un posto come loro rifugio, vuol dire che lì hanno una base logistica su cui contare.

Anversa, Rotterdam, Barcellona. Le porte d'Europa da cui transitano tonnellate di cocaina purissima partite dalla Colombia, dal Messico, dal Perù, dal Venezuela e dal Brasile. Arrivano negli scali del vecchio continente dopo un lungo percorso e varie soste. Spesso vengono scaricate in Guinea Bissau, o in altre isole africane dilaniate da guerre e corruzione. Per poi salpare in direzione Spagna, Olanda e Belgio. Il porto calabrese di Gioia Tauro continua a occupare una posizione strategica nello scacchiere del narcotraffico. Ma i controlli sono aumentati, così come in tutti gli hub italiani. In Italia infatti viene controllato circa il 10 per cento dei container in transito, mentre a Rotterdam e Anversa solo l'1 per cento. Un buon motivo per spostare il baricentro del business in altri Stati. La gestione è in mano alla 'ndrangheta. Per la distribuzione collabora con i gruppi albanesi. Ma sono i clan calabresi a gestire i rapporti con i cartelli del Sud e del Centro America. Hanno uomini della “famiglia” che vivono stabilmente tra Bogotà e Caracas, alcuni sono nati lì e parlano perfettamente spagnolo e americano. Questo avviene mentre in Europa diversi Stati membri credono che le loro economie siano immuni dal virus contagioso dei soldi sporchi.

«Il traffico di droga rimane uno dei principali reati perpetrati a livello internazionale», spiega a “l'Espresso” Davide Ellero di Europol. «Una capillare rete di mediatori e intermediari, in particolare la 'ndrangheta, cura l'acquisto, il trasporto e la vendita di immense quantità di stupefacenti. Secondo un recente studio il 62 per cento del reddito della 'ndrangheta deriva dal traffico di droga. Questo spiega i numerosi arresti di mafiosi italiani nei paesi di transito come i Paesi Bassi e Spagna». Ma i clan in Europa non lavorano solo con il narcotraffico. Le agenzie investigative internazionali hanno rilevato alcune novità: il settore dei rifiuti e le truffe carosello, che permettono l'evasione dell'Iva e delle accise. Queste ultime vengono realizzate attraverso la creazione di alcune società estere che scambiano in maniera fittizia merci con le aziende italiane. Il traffico di rifiuti è monitorato dalle procure antimafia che hanno diversi filoni di indagine aperti sulle rotte estere. Viaggia in direzione degli inceneritori tedeschi e delle discariche rumene. Proprio in Romania c'è il sito di stoccaggio più grande d'Europa, la discarica di Glina . La società che la gestisce è stata sequestrata dai giudici italiani. Secondo i pm di Roma e Palermo fa parte del tesoro di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Ma ci sarebbero altri indizi. Il proliferare di società rumene gestite da personaggi legati alla camorra. E le numerose indagini sul trasporto illegale di plastica verso l'Asia e i Paesi dell'Est Europa, Romania e Bulgaria. In particolare, da quanto risulta a “l'Espresso”, l'attenzione degli inquirenti della Procura nazionale antimafia è concentrata sul riciclaggio del polietilene, il materiale utilizzato per le coperture delle serre agricole. Quando il telone viene tolto diventa rifiuto. E l'azienda dovrebbe trattarlo prima di smaltirlo. Ma non sempre avviene. Il costo del recupero è molto alto. Così gruppi di imprenditori preferiscono affidarsi a consorzi che fanno il doppio gioco. Da una parte sono autorizzati a ricevere il materiale, dall'altra garantiscono altri canali di smaltimento. Non solo, chi produce il rifiuto e dichiara di averlo trattato incassa pure il contributo comunitario. Come per gli sversamenti dei veleni chimici in Campania, tra gli anni '80 e '90, anche in questo caso i clan operano come agenzia di servizi. Il ruolo centrale è sempre dei Broker. Intermediari che consigliano alle società agricole a chi rivolgersi. Un fenomeno che riguarda tutto il Paese, da Sud a Nord, e un pezzo di Europa.

Il 15 agosto 2007 la Germania ha scoperto la 'ndrangheta. La strage di Duisburg, i sei morti ammazzati, i simboli del rito di affiliazione trovati nel ristorante Da Bruno, teatro dell'agguato, hanno mostrato ai tedeschi la vera natura dell'organizzazione calabrese. Una holding criminale, in grado di gestire una rete di oltre 300 tra ristoranti, alberghi e pizzerie. Eppure, ancora molti, da Berlino a Francoforte, considerano la mafia calabrese alla stregua di un'associazione folcloristica, con i suoi riti, le sue canzoni, le leggende degli anziani padrini. Una convinzione che fa da scudo agli affari dei boss. Che stringono alleanze con professionisti tedeschi. La procura antimafia di Catanzaro e quella di Osnabruk, stanno indagando su una storia di riciclaggio che coinvolge la Calabria, San Marino e Amburgo. Un finanziamento concesso da una banca tedesca, la HSH Nordbank, finito in mano all'azienda del clan Arena di Isola Capo Rizzuto che doveva realizzare il più grande parco eolico d'Europa. Sono scattate le perquisizioni e i magistrati di entrambe le procure proseguono l'inchiesta coordinandosi e riunendosi una volta al mese. La vicenda è destinata a sviluppi eclatanti. Anche perché di mezzo c'è un insospettabile tedesco, Martin Frick, avvocato e politico locale del partito Csu. I clan riciclano all'estero non solo comprando ristoranti e alberghi. Hanno diversificato molto gli investimenti. Come dimostra il caso del mega parco eolico. Le rinnovabili sono un pallino anche per la camorra. In Romania e in Serbia ci sono in ballo grossi interessi nel settore della green economy. Le indagini dei pm antimafia di Napoli, per esempio, hanno scoperto che i clan di Gomorra, appoggiati da una cordata di imprenditori rumeni e italiani, sono interessati a pale eoliche e pannelli fotovoltaici da installare nelle distese verdi dell'Est europeo. Tra Bucarest, Timisoara e Brasov, le cosche campane hanno avviato numerose attività. Ristoranti, discoteche, locali alla moda. «Ma anche aziende agricole di grosse dimensioni che producono mozzarelle di bufala, prodotte per il mercato locale e non solo», rivela a l'Espresso un'autorevole fonte investigativa. Infine, capitali sporchi, anche della 'ndrangheta, sarebbero alla base di industrie e società immobiliari molto attive nell'economia rumena. Il copione si ripete nei Paesi limitrofi. In Bulgaria e Ungheria.

Pacevil è il distretto della movida maltese. La strada principale pullula di bar, ristoranti, discoteche, casinò e nightclub. Un'ottima piazza per investire denaro contante. Qui il clan dei Casalesi ha puntato sulla ristorazione e il gioco d'azzardo. Nicola Schiavone sull'isola ha blindato parte del patrimonio di famiglia. I particolari, inediti, risalgono a qualche anno fa, prima del suo arresto per camorra. Ora si trova rinchiuso al 41 bis, il carcere duro. Come il padre, Francesco Schiavone detto “Sandokan”, dal quale ha ereditato lo scettro del potere criminale.

Il boss di Casal di Principe era riuscito ad agganciare un professionista romano con la doppia cittadinanza. I detective scoprono che fin dal 2001 i due frequentavano gli stessi casinò. Le trattative proseguono, qualche affare va in porto, altri si bloccano perché il padrone di Gomorra viene informato di un'inchiesta che lo riguarda. «Già lo sanno che lui stava a fa una cosa qua capito?», spiega il maltese a un amico riferendosi alle notizie riservate in possesso di Schiavone. Dopo qualche tempo gli investigatori intercettano un'altra telefonata internazionale che dà conferma dell'imminente apertura a Malta di un locale che «appena apriamo si riempie di gente». Il pentito Francesco Della Corte descrive così Nicola Della Corte, il braccio destro del giovane Sandokan: «Si occupava per degli interessi economici del clan a Malta, Romania, Corsica, Isola D'Elba ed Emilia Romagna». I business maltesi della camorra non finiscono qui. Altri imprenditori, finiti in inchieste antimafia e ritenuti prestanome di Nicola Schiavone, hanno concluso grossi affari. Edilizia e ristorazione i settori. Anche in questo caso i capitali del clan vengono gestiti da esperti del settore. Sconosciuti in Italia ma protagonisti a Malta. Sono loro a organizzare incontri con manager locali e a fornire i contatti del «commercialista numero uno di tutta Malta». Isola che solo nel 2010 è entrata nella “white list” dei Paesi che assicurano trasparenza e collaborazione per contrastare l'evasione fiscale. Di certo il suo sistema fiscale vantaggioso attira molti quattrini dal resto dell'Unione europea.

La caccia al padrino cosmopolita si complica quando i nostri investigatori mettono le mani sui conti e ricchezze custoditi in Svizzera. Stato europeo, ma che non fa parte dell'Unione. E dove il segreto bancario garantisce ancora massima riservatezza. Qui infatti le autorità si muovono solo in presenza di una precisa indicazione del conto corrente da setacciare. Lo sa bene la procura antimafia di Reggio Calabria che ha chiesto ai magistrati elvetici di verificare il numero di correnti intestati ad Antonio Velardo, l'avvocato napoletano, residente a Londra, indagato di pm calabresi per riciclaggio assieme a potenti boss della 'ndrangheta reggina. Non è stato possibile superare il muro del segreto svizzero: «Senza la specifica indicazione di un conto corrente intestato agli indagati non è possibile effettuare una ricerca generica di prove, da poco non consentita a causa della modifica normativa». Velardo è il professionista di fiducia di Henry Fitzsimons, ex cassiere dei terroristi irlandesi dell'Ira. Insieme, secondo la procura calabrese, fanno affari nel settore turistico con gli 'ndranghetisti. I due uomini d'affari manovrano un sacco di soldi. Non solo per conto dei boss.

Accettano qualunque proposta. Velardo è in contattato con numerosi investitori. Tra questi un un commerciante parigino di diamanti. Che gli fa una proposta che non può rifiutare: è pronto a pagare fino a 12 milioni di euro in contanti per un complesso turistico in Calabria. Gli inquirenti notano un particolare, «il comportamento è sospetto perché l'acquirente non vuole neppure vedere ciò che compra, non chiede neppure uno sconto, non vuole firmare contratti e rifiuta di entrare in banca per timore di essere ripreso dalle telecamere interne». L'uomo del mistero si presenta con un nome falso. L'incontro tra i due è avvenuto in uno Stato dell'Europa. Per questo gli investigatori non sono riusciti a risalire né al compratore né al villaggio vacanze acquistato. Come si ricicla nel vecchio continente lo spiega l'avvocato della City, che è partito senza un soldo da un piccolo paese della Campania e in pochi anni si è trovato a maneggiare milioni di euro al giorno nel cuore della finanza mondiale. «I soldi devono arrivare in Irlanda, poi ritornano in Italia, devono fare movimenti psicopatici». Stessi meccanismi messi in piedi da altri uomini dei clan calabresi per investire in Spagna. Il segreto è non lasciare mai fermo il denaro. Muoverlo in continuazione per pulirlo. Finché non si sbianca del tutto. L'Europa, insomma, come una grande lavatrice.

“'Credono che la mafia sia un problema italiano”. Sonia Alfano, europarlamentare uscente, spiega la percezione del mondo delle cosche in Europa. "In alcuni casi la politica è negazionista, in altri sottovaluta il problema. Ma la lotta deve essere comune", scrive Giovanni Tizian il 16 maggio 2014 su L’Espresso. I clan in Europa spadroneggiano? A Bruxelles e Strasburgo in molti non concordano. «Ci sono forti resistenze e un'indifferenza strisciante rispetto alla presenza mafiosa negli Stati membri». Sonia Alfano è figlia di Beppe, il giornalista ucciso da Cosa nostra in Sicilia. È stata eletta nel 2009 al Parlamento europeo. Dal 2012 è presidente della commissione antimafia. La prima dopo tanti anni in cui le procure italiane hanno lanciato appelli alle istituzioni europee con cui hanno chiesto di armonizzare gli strumenti di contrasto. Alfano però non sarà tra i candidati delle prossime elezioni del 25 maggio. Il Pd si era impegnato a inserirla . E lei aveva detto di no ad altre proposte. Così, dopo cinque anni di mandato e alcune battaglie vinte, lascia l'europarlamento. Intanto però «è stata approvata la direttiva confische, non senza difficoltà, e il testo unico antimafia», spiega a “l'Espresso”. 

In Europa di mafia non ne vogliono sentire parlare. Lei però, da quando ha messo piede nel Parlamento europeo, ha cominciato a dire le cose come stavano. Ha descritto ai suoi colleghi un'Unione europea minacciata dai denari delle organizzazioni. Le reazioni? 

«Mi consideravano una fissata. Per loro ero solo la figlia del giornalista ucciso e per questo ossessionata dalla mafia. Ho incontrato forti resistenze. Per loro resta un fenomeno lontano, che non gli appartiene. Capito l'atteggiamento, ho deciso di procedere in maniera diversa: li ho messi davanti ai fatti. Ho convocato magistrati e poliziotti europei per le audizioni in commissione. Questi sì, ben consapevoli di quanto sta accadendo sui loro territori. Durante le audizioni, molti degli esperti hanno detto ai parlamentari che l'indifferenza ha fatto crescere le mafie. E il capo della polizia tedesca ha chiesto espressamente e urgentemente una modifica della normativa, perché in queste condizioni aveva serie difficoltà a reprimere il fenomeno».

E ha convinto i suoi colleghi? 

«Siamo andati oltre. Abbiamo fatto delle relazioni sulle rotte che i clan utilizzano per l'invio della droga. I porti del Nord Europa sono diventati centri fondamentali dei traffici internazionali. Penso a Rotterdam o agli scali del Belgio. Abbiamo spiegato che non sono più solo luoghi di scambi commerciali, ma punti di arrivo di un business mondiale gestito dalla 'ndrangheta. Ecco, quando hanno capito questo, qualcuno dei presenti è sbiancato. Abbiamo parlato anche di carceri. Della necessità di estendere il carcere duro nei Paesi membri. Quando convocammo il capo dell'amministrazione penitenziaria spagnolo, lui sosteneva che da loro non c'era bisogno, che le loro carceri erano sicure e i criminali erano controllati. Allora gli feci notare, leggendo in aula alcune intercettazioni di un boss calabrese detenuto in Spagna, che non era proprio come diceva lui. Questo capo mafia dal carcere spagnolo gestiva traffici, ordinava omicidi e rassicurava gli affiliati sul fatto che se fossero stati arrestati in Spagna sarebbe finiti in carcere che era un hotel a cinque stelle».

I tedeschi sembrano quelli più scettici. Credono che la 'ndrangheta sia solo un fenomeno folkloristico. E che, in fondo, l'importante sia che gli imprenditori legati alle cosche paghino le tasse. Sembra che non li preoccupi il riciclaggio. 

«Da un lato polizia e magistratura sono preoccupati e sono molto attenti, dall'altro la politica è arroccata su posizioni negazioniste. I partiti non vogliono ammettere il fallimento. Non hanno capito che cosa si stava muovendo sul territorio. L'esempio lampante è la dura opposizione che i tedeschi hanno fatto contro la direttiva europea sulle confische dei beni alle organizzazioni mafiose. Uno strumento che serve a rendere omogenee le procedure di contrasto ai patrimoni dei criminali. Su alcuni punti gli esponenti di tutti i partiti tedeschi si sono opposti bollandola come troppo giustizialista, quando la normativa è già applicata in Italia e in Irlanda, e nessun giudice, neppure europeo, ha sollevato dubbi sul rispetto dei diritti. Tanto hanno fatto queste frange, che l'articolo sulla confisca anche in caso di morte del sospettato è sparito. In Germania, ma non solo, in molti sono convinti che finché gli imprenditori delle cosche pagano le tasse e rispettano formalmente le regole, va bene. L'origine dei soldi che reinvestono in Germania non desta particolare allarme.

In quali Stati le mafie italiane sono più presenti?

«Dagli studi che abbiamo realizzato emerge una forte presenza in Germania, Francia, Spagna, Romania, Portogallo, Belgio. In alcuni di questi Stati hanno il controllo totale dei traffici insieme ad altri gruppi criminali; in altri gestiscono il business della droga. In tutti riciclano grandi quantità di denaro. In Spagna per esempio hanno società immobiliari con sede nel centro di Barcellona, stanno costruendo interi complessi immobiliari e turistici in Cosa del Sol, hanno catene di ristoranti, salumerie. Il marchio “Mafia” viene esportato anche con catene di locali che portano nomi inquietanti. Una di queste è “La mafia si siede a tavola”. E questi imprenditori che hanno trasformato in brand un'associazione mafiosa, non suscitano alcuna reazione nella politica spagnola».

Insomma, non esiste un'idea comune di lotta alle cosche. 

«Dopo il trattato di Lisbona in molti ritenevano che la sovranità dei singoli Paesi sarebbe stata limitata, in realtà non è stato così. La verità è che l'Europa non riesce a imporre nulla agli Stati membri. Finché sarà così è impensabile immaginare gli Stati uniti d'Europa. Che devono essere uniti anche dalla lotta comune alle organizzazioni mafiose.

Alle prossime elezioni europee non sarà tra i candidati? Cosa è successo?

«Avevo accettato la proposta del Pd, mi avrebbe concesso l'opportunità di continuare quanto avevo cominciato nel 2009. Poi quando è stato il momento di presentare le liste, il mio nome è scomparso. Credo che la mia esclusione derivi da contrasti interni al partito siciliano. Sono delusa, perché credo di aver dimostrato impegno e determinazione. Ho superato tante resistenze. La commissione antimafia europea e il testo unico contro i clan, la direttiva confische, le audizioni con gli investigatori dei singoli Paesi. Cose che nessuno prima aveva mai messo in agenda. Ma è andata così. Resta il rammarico per un lavoro che temo nessuno abbia voglia di portare avanti».

·         La Mafia di Foggia è la "nuova Gomorra".

La Mafia di Foggia è la "nuova Gomorra". L'inchiesta esclusiva di Panorama sulla nuova e potente criminalità organizzata che agisce in Puglia e non solo. Panorama 9 maggio 2019. Il trucco più audace del diavolo è far credere di non esistere. E se non avete mai sentito parlare della Quarta Mafia è perché i clan della provincia di Foggia sono stati diabolici nel nascondersi dietro le fiamme degli attentati incendiari e delle bombe che da 30 anni seminano il terrore in una provincia che, da sola, è grande quasi quanto il Friuli-Venezia Giulia. Oltre mille affiliati in libertà per 28 organizzazioni criminali censite, dicono i report riservati delle forze dell’ordine. La malavita di quella che un tempo era la Daunia è un mix micidiale dei tratti caratteristici di camorra, cosa nostra e ’ndrangheta. Capace di «coniugare tradizione e modernità», scrivono gli analisti della Dia. Il sangue e i soldi. Nel capoluogo c’è la Società Foggiana (fondata sul modello della Nco di Raffaele Cutolo) che conta tre «batterie» che si dividono cassa comune, territorio e morti ammazzati. Perché non si può andare sempre d’accordo. I Sinesi-Francavilla, i Moretti-Pellegrino-Lanza e i Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese: spesso, tutti contro tutti. La provincia è invece ripartita in due macroaree. Il Gargano se lo contendono i Notarangelo, i Raduano e il gruppo Iannoli-Perna. L’area tra Manfredonia e Cerignola è «proprietà» dei Piarulli-Mastrangelo-Ferraro. «Ma i reali vertici della mafia di Cerignola», spiega uno 007 a Panorama «stanno a Milano». «E da lì impartiscono le direttive ai picciotti in Puglia». Non esistono rituali, non ci sono affiliazioni. L’appartenenza si tramanda di padre in figlio. Come un’eredità o una malattia. E di un padre (assassinato) e di un figlio (arrestato) è fatta la storia dei Bruno. Il papà, Rodolfo, ucciso in una sala giochi nel novembre 2018. Il giovane rampollo Antonio arrestato poco prima di vendicarlo. Un discreto calciatore, ricorda chi lo ha visto giocare nel Foggia ai tempi della Lega Pro, quando fu ingaggiato, insieme ad altri affiliati dalle velleità sportive, per volontà del clan. È passato dagli agguati in area di rigore agli agguati in strada. Bruno jr doveva freddare per rappresaglia Gioacchino Frascolla o Mario Clemente. Le cimici, piazzate nell’auto dai finanzieri, lo sorprendono mentre ordina al complice, Giuseppe Ricco, organico alla camorra napoletana: «Se esce il fratello, devi schiattare prima al fratello». Giuseppe Silvestri viene invece abbattuto a fucilate, a Monte Sant’Angelo, per aver osato organizzare una rapina da 200 mila euro in una gioielleria «protetta» dai rivali Romito-Ricucci-Lombardi. Di recente, sono stati arrestati i due presunti killer: Antonio Zino e Matteo Lombardi. Nella bara, il padrino della famiglia Libergolis, detta anche dei Montanari, esibiva un doppiopetto da 750 euro acquistato per l’occasione dalle prefiche del clan. L’ultimo omaggio prima di seppellirlo. Gli affari si fanno con la droga (gli albanesi trasportano sui gommoni quintali di cocaina e hashish) e soprattutto con le estorsioni. «Ci devono pagare tutti i costruttori» arringa un capoclan, intercettato dalla polizia. «Può accadere che taluni, nel timore di subire eventuali atti intimidatori, preferiscono anticipare la classica richiesta del mafioso» spiega a Panorama il questore di Foggia, Mario Della Cioppa «che non sempre è richiesta di denaro, ma talvolta è imposizione di assunzione di proprie persone di fiducia. Non mancano casi in cui sono gli stessi estorti ad anticipare le mosse e a proporsi agli estorsori, pur di ottenere la protezione che essi erroneamente ritengono il male minore». Su chi si ribella piovono bombe. Come quelle sequestrate in un villaggio vacanze, a Vieste, «ad alto potenziale», confezionate in casa da «professionisti». Oppure cenere e lapilli. «Le fiamme le voglio vedere da qui, incendialo tutto» ringhia il padrino Antonio Quitadamo, soprannominato Baffino, se un imprenditore non gli verserà i 2 mila euro da consegnare all’avvocato. Lo stesso legale che il boss vorrebbe intimidire per i ritardi nella scarcerazione: «Tu sei un morto che cammina». Quitadamo cova odio per chi lo ha spedito «sulla branda». «Li devo prendere e fare a pezzi (ripetuto 6 volte, ndr)... me li devo mangiare il cuore... li devo scannare... li devo ficcare le mani negli occhi, li devo sventrare come i cani». Baffino era in galera, ma parlava al cellulare. E pianificava l’evasione dal penitenziario di Foggia insieme al compagno di cella Hechmi Hdiouech. Volevano segare le sbarre grazie ai fili diamantati fatti entrare nella struttura con un ricambio di biancheria. «Il 20 gennaio mi butto fuori» lo ascoltano i finanzieri che intervengono giusto in tempo. Il piano prevedeva la fuga sul tetto del padiglione dove i due complici sarebbero stati prelevati da una gru con un «cestello». Un modello di motrice simile a quello che un commando ha usato, sulla provinciale Candela-Foggia, per provare ad assaltare un furgone blindato della Cosmopol. La specialità dei clan di Cerignola. L’autista ha intuito il pericolo e al bivio per Castelluccio ha cambiato direzione all’ultimo istante. Ad attenderlo, dall’altro lato, c’erano migliaia di chiodi sull’asfalto, una macchina incendiata a sbarrargli la strada e una selva di kalashnikov. A differenza di Corleone o di Casal di Principe, la mafia foggiana tollera la criminalità predatoria. «Il motivo è semplice: i boss si fanno pagare la tangente anche dai delinquenti comuni», spiegano fonti investigative. Violenza gratuita. Due balordi, dopo un colpo a un’area di servizio, hanno sparato al cane del titolare. Non c’è refurtiva che non interessi. In zona Margherita di Savoia, un autotrasportatore è stato sequestrato e rapinato di 20 mila litri di gasolio e di 5 mila di benzina. In Orta Nova, una pecora è stata rubata da un allevamento e nascosta in un’Audi A3, anch’essa rubata. A poca distanza, un uomo è stato fermato a un finto posto di blocco e convinto a scendere dalla Volkswagen Golf per un controllo. Un finto carabiniere gli ha dato un calcio, e si è messo al volante sgommando. Altre occasioni di guadagno (illecito) sono la gestione dei rifiuti, le slot machines e il caporalato. E poi ci sono i colletti bianchi che rilevano le aziende in difficoltà e le trasformano in «cartiere» per evadere il fisco o per «ripulire» i capitali sporchi. I clan della Società Foggiana hanno anche un loro «servizio segreto» negli ospedali e nelle cliniche che li avvisa dei decessi giornalieri così da chiedere più soldi alle agenzie funebri. Un vecchietto napoletano, invece, è addetto a truccare le scommesse della Tris corrompendo con mazzette da 600 euro i fantini favoriti. Il potere è rappresentazione e ostentazione, da queste parti. Un cartello affisso alla casa di Gianfranco Bruno, fratello del boss Rodolfo e zio del calciatore Antonio, ammonisce: «Attenti al padrone, prima spara poi avverte». Non a caso è soprannominato il «primitivo». Una donna, con precedenti per rapina ed evasione, ha invece piazzato una batteria di fuochi d’artificio davanti alla casa circondariale cittadina e, all’altoparlante, ha rincuorato il compagno in cella: «Ti sposo appena esci da questo cazzo di carcere». Il tutto ripreso da un telefonino. La percentuale di denunce è tra le più basse d’Italia. La mamma di una 17enne, a cui hanno staccato con un morso il lobo dell’orecchio e quasi lacerato un capezzolo, si è rifiutata di parlare con le forze dell’ordine. Nel 2018, ci sono stati appena 4 esposti all’autorità giudiziaria per usura e soli 179 per estorsione. Dal 2016 ad oggi, ci sono stati 67 tentati omicidi e 58 omicidi, compresa la strage di San Marco in Lamis con 4 morti ammazzati, di cui due testimoni innocenti. Numeri che però non rendono giustizia all’enorme sforzo dello Stato per arginare mafie e criminalità comune. Il piano straordinario integrato per la sicurezza pubblica, coordinato dal prefetto di Foggia Massimo Mariani, è un argine che regge come hanno retto in tribunale le 30 «interdittive antimafia» da lui firmate in appena 18 mesi. I reati sono calati da 6.291 a 5.267, e i clan sentono finalmente il fiato sul collo. La Guardia di Finanza ha recuperato oltre 100 milioni di redditi in nero e acceso i radar sui tesori che puzzano di zolfo. «D’intesa con la Procura di Foggia, abbiamo creato un pool specializzato, composto da finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria, che opera in stretta sinergia con il pm delle Misure di prevenzione» sottolinea a Panorama il colonnello Ernesto Bruno, comandante provinciale delle Fiamme gialle. «Dal 2018 ad oggi, abbiamo eseguito 38 accertamenti patrimoniali antimafia nei confronti di 141 affiliati e di 35 società ad essi riconducibili che hanno portato a proposte di sequestro di beni per un valore complessivo di 42,6 milioni, di cui 14 milioni di euro sottoposti a sequestro e 2,3 milioni confiscati». Attualmente, sono in corso due ispezioni antimafia nei Comuni di Manfredonia e Cerignola. Nel 2018, è stato sciolto l’Ente di Monte Sant’Angelo. In quello di Mattinata, commissariato invece nel 2015, due pluripregiudicati vicini alla mafia del Gargano erano stati assunti come agenti di polizia municipale. Ma c’è chi non si piega. Appesa alla maniglia della porta d’ingresso dell’ufficio anagrafe di Monte Sant’Angelo sono stati ritrovati una busta con una scheggia di teschio umano e minacce al sindaco Pierpaolo D’Arienzo, all’assessore al Bilancio Generoso Rignanese e a un ex funzionario comunale e a sua sorella. Il sindaco di Stornarella, Massimo Colia, ha invece scoperto due proiettili sul ballatoio di casa e davanti al garage. Analoga intimidazione al segretario comunale di Monte Sant’Angelo e di San Giovanni Rotondo. Al primo cittadino di Troia, Leonardo Cavalieri, è stata incendiata l’auto. A un penalista, che assiste una famiglia in un caso di lupara bianca, hanno infilzato la testa di un capretto nel cancello davanti allo studio. In Procura, a Foggia, non esiste però la Direzione distrettuale antimafia. Sotto questo aspetto, la competenza è di Bari che ha già il suo bel (stra)carico di lavoro. Ma i sacrifici sono davvero di tutti. E più di tutti paga tributo l’Arma dei carabinieri che il 13 aprile scorso ha visto morire il maresciallo Vincenzo Di Gennaro, trucidato a Cagnano Varano da Giuseppe Papantuono, esasperato a suo dire dai controlli dell’Arma a cui era stato sottoposto nei giorni precedenti. Controlli rientranti nella serrata e incisiva attività di prevenzione e repressione condotta dal comando provinciale dei carabinieri, retto dal colonnello Marco Aquilio. «La situazione è difficile, ma nell’ultimo anno e mezzo si sono ottenuti importanti risultati sul piano investigativo. Il problema vero è la vastità di un territorio peraltro impervio» commenta con Panorama il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro. «Il circondario è di 7.200 chilometri quadrati, è gigantesco. Intere regioni (come la Liguria) hanno una estensione molto minore del nostro circondario e hanno molti più magistrati». Alla Procura di Foggia sono appena 25: 22 pm, due aggiunti e il capo. E di questi solo 7 sostituti si occupano di criminalità. In pratica uno ogni 1.000 chilometri quadrati. «La gente sente lo Stato troppo lontano, anche fisicamente. Purtroppo, c’è poca o nessuna collaborazione da parte dei cittadini, anche sui fatti più gravi. Da Vieste al mio ufficio, ci s’impiegano due ore d’auto». Il diavolo, invece, corre molto più veloce.

·         La Mafia del “tranquillo” Veneto.

Il “tranquillo” Veneto. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta su La Repubblica il 23 luglio 2019. C'è stato il Veneto di Felice Maniero e della mafia del Brenta e c'è stato il Nordest della droga con Verona che veniva chiamata la Bangkok d'Italia, ci sono stati mafiosi di rango inviati lì in soggiorno obbligato e latitanti eccellenti come Giuseppe “Piddu” Madonia catturati da quelle parti, ci sono stati i camorristi che negli anni '90 si erano insediati sulle sponde dell'Adriatico e quegli altri che svernavano sul lago di Garda. Veneto, una terra di confine dove il silenzio è d'oro. C'è mafia, ma c'è anche tanta corruzione. Con tre governatori scivolati uno dopo l'altro in inchieste e inghiottiti nell'indifferenza. Tutto è sotto traccia, evanescente. Anche quando sono coinvolti in brutti affari - insieme a malacarne che arrivano da giù - imprenditori locali al di sopra di ogni sospetto, commercialisti, funzionari pubblici. Mai un rumore, mai un gesto di ribellione. Sembra quasi che in Veneto la “soglia di sopportazione”  alle mafie si sia spostata molto ma molto in alto. Ogni volta che un'operazione poliziesca e giudiziaria scoperchia una vergogna in tanti cadono dalle nuvole. Fingono sorpresa, sconcerto. Eppure le mafie si sono "sistemate” qui già da qualche decennio. Una convivenza “tranquilla”, con reciproca soddisfazione. Dopo la famigerata mafia del Brenta il territorio è stato conquistato dai rappresentanti del clan dei Casalesi e dalla 'Ndrangheta, le ultime investigazioni raccontano di una rete mafiosa che penetra dappertutto. Per la prima volta in Veneto ci sono stati casi di voti comprati e venduti sotto la regia di boss. In questa serie del Blog parliamo delle mafie nella regione prendendo spunto da "Mafia come M - la criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” (Linea Edizioni, 2019), un libro ideato e scritto dalle ragazze e dai ragazzi dell'associazione Cosa Vostra. Dodici giorni di storie e di personaggi che si intrecciano per farvi scoprire che in Veneto la mafia c'è. Anche se, come spesso accade, in troppi preferiscono non vederla. Se non spara e se porta soldi, che mafia è?

(Hanno collaborato Elisa Boni, Carolina Frati, Silvia Giovanniello, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Valentina Nicole Savino e Asia Rubbo)

Felice Maniero arrestato per maltrattamenti sulla compagna. Faccia d'Angelo è stato arrestato grazie alle nuove regole del Codice Rosso. Ora si trova nel carcere di Bergamo. Giovanna Stella, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. Il boss della Mala del Brenta, Felice Maniero, è stato arrestato a Brescia con l'accusa di maltrattamenti sulla compagna. A rivelarlo è il Giornale di Brescia. "Faccia d’Angelo", così era chiamato, da tempo viveva nella città lombarda con una nuova identità. L'arresto è scattato ieri dopo la denuncia della donna e secondo le nuove regole del Codice rosso. Maniero è ora in carcere a Bergamo. L'ordinanza di custodia cautelare per Felice Maniero è stata firmata giovedì dal gip di Brescia Luca Tringali e le manette sono scattate immediatamente grazie il nuovo Codice rosso, la legge introdotta ad agosto e che garantisce un canale privilegiato per le donne che subiscono violenza. Come ricorda il Corriere, un anno fa in un'intervista trasmessa su Nove, "Faccia d'Angelo" si vantava davanti a Saviano per gli orrori commessi: "Guardi, io sono stato condannato per 7 persone. La prima persona ammazzata è stato Ottavio Andrioli (un suo importante collaboratore, ndr). A noi del Brenta non aveva fatto niente, però voleva uccidere due dei mestrini, voleva ucciderli. E noi lo abbiamo anticipato... Eravamo in 4 e niente… abbiamo dato un calcio alla porta: era un festino di cocaina, erano in 7-8… Abbiamo visto Andrioli e gli abbiamo sparato". Maniero, sempre in questa intervista, non si diceva tormentato dai troppi omicidi, "perché in uno ho vendicato un mio caro amico, che mi sono sentito colpevole della sua uccisione. Forse Andrioli (poteva sentirci un po' in colpa, ndr), forse, perché non m'aveva toccato a me. Però voleva ammazzare i miei compagni, per cui…". Ma ora pagherà per tutto ciò che ha fatto.

Andrea Priante e Mara Rodella per il “Corriere della sera” il 20 ottobre 2019. È il 21 maggio. Una donna si presenta al pronto soccorso dell' ospedale di Brescia: ha 47 anni, è magrissima, debilitata. E fragile. «Forte cefalea», annota un' infermiera. Ma mentre si sottopone agli accertamenti improvvisamente scoppia a piangere. Un crollo emotivo che la spinge a confidare tutto ai medici: «Sopporto una situazione ormai insostenibile con il mio compagno, non ce la faccio più. Mi maltratta e alza le mani». Anni di violenze, fisiche e psicologiche. È l' ennesima storia di uomini violenti e di mogli costrette a subire. Ma l' uomo che la donna denuncia è Felice Maniero, 65 anni, l' ex boss della Mala del Brenta, che tra gli anni Ottanta e gli inizi del decennio successivo gestiva il gioco d' azzardo tra Nord Italia e Jugoslavia, rapinava banche, assaliva furgoni blindati e seminava morti di overdose con lo spaccio di droga in Veneto. Una tempesta criminale che finì dopo la cattura nel 1994, quando «Faccia d'Angelo» decise di collaborare e fece i nomi di tutti i suoi compari. Spedì in galera decine di complici e si guadagnò un nuovo nome e una vita sotto copertura lontano da quella Riviera del Brenta che lo trattava come un re. Con lui c'era già quella donna che per oltre vent'anni gli è sempre stata accanto. Fino al 30 luglio, quando viene sentita dagli investigatori e subito dopo decide di andarsene di casa. Destinazione: una comunità protetta. Quella sera Maniero non la vede rientrare e resta di sasso. Poi contatta le cognate e si sente dire che «sta bene, è al sicuro. Se n'è andata perché non ne poteva più». Quel che non poteva immaginare è che le indagini sarebbero andate avanti fino a venerdì, quando la polizia ha bussato alla sua villetta a due passi dal centro di Brescia per arrestarlo sulla base delle procedure del «Codice Rosso». Lui - che con gli agenti aveva sempre giocato a guardie e ladri - è scoppiato a piangere. Ma dieci pagine di ordinanza firmate dal gip raccontano tre anni di soprusi psicologici e fisici tra le mura domestiche. Perché Maniero «a seguito di un litigio schiaffeggiava ripetutamente la moglie», si legge. Le minacce: «Se non torni a casa con i pagamenti ti brucio tutte le borse», «Ti butto tutti i vestiti, regalati». E le umiliazioni: «Non sei in grado di fare nulla, sei un' incapace». Alla base dei litigi, c'era l'unica cosa che Felicetto ha sempre dimostrato di amare: i schei. Quei soldi che negli anni feroci della Mala arrivavano a miliardi ogni settimana. E che ora cominciavano a scarseggiare, al punto che da mesi la famiglia Maniero non pagava l'affitto e rischiava lo sfratto. Di «difficoltà economiche» parlò anche ai pm di Venezia quando, nel 2016 - per vendicarsi del cognato - decise di rivelare che fine avesse fatto il suo famoso «tesoro». All'epoca fu anche costretto ad ammettere di aver perso 150 mila euro nel fallimento di Madoff, in America, e che, tra il Natale 2015 e l' Epifania, finì ricoverato a Verona per un esaurimento. «È vero, ammetto di averla insultata, o che a volte sia volato uno schiaffo, ma non posso accettare che lei parli di tre anni di maltrattamenti e d' inferno», ha provato a spiegare al suo avvocato Luca Broli, che ieri l' ha incontrato in carcere a Bergamo. L' immagine di Maniero oggi è quella di un (ex) boss senza soldi e sull' orlo di una crisi di nervi. E forse c' è anche questo all' origine degli scoppi d' ira denunciati dalla sua compagna: l' incapacità di accettare il paragone tra passato e presente. L'adrenalina, il lusso, il potere. Per Felice Maniero, era tutto finito.

Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 20 ottobre 2019. «Vi prego non portatemi in carcere. Fatelo per mia figlia». Che poi Felice Maniero, arrestato per le botte alla sua compagna, abbia davvero pronunciato queste parole in lacrime, è difficile giurarlo. Perché Felice Maniero, il bandito simbolo di un' epoca, quella degli yuppies, Anni 80, della ricchezza facile e del disimpegno, è sempre stato tutto e il contrario di tutto, espressione di due personalità distinte, due universi paralleli, così lontani da non doversi incrociare mai, capo feroce di una banda criminale che poi ha voluto distruggere e imprenditore ambientalista, padre tenero e marito violento. Lo yacht Non è un caso che la carriera di Faccia d' Angelo abbia cominciato a finire nel 1993 su uno yacht da un miliardo e mezzo appena comprato che dondolava nel mare di Capri fra ostriche e champagne. L' uomo venuto su dal niente, dalla terrigna povertà di Campolongo Maggiore, non poteva più rinunciare al lusso, lui che agli inizi della sua carriera costruita sulla violenza diceva ai capi della malavita che aveva la fame e la rabbia dei poveri: «Che voi altri siete di Venesia. Non sapete cosa vuol dire la tera. Noi altri siamo invece contadini... capito? A noi per secoli ci hanno preso per il culo tutti. Allora viene come una specie d' istinto, no? Lo capisci subito se uno ti prende per i fondelli». Aveva messo su un esercito, cominciando dai piccoli furti e dalle estorsioni ai locali della Riviera del Brenta assieme a un gruppetto di amici. Il salto di qualità però l' aveva fatto in fretta, rapine miliardarie e colpi clamorosi al Casinò e all' Hotel Des Bains del Lido, traffico di droga, spietate esecuzioni e contatti con i mafiosi spediti al confino, come Totuccio Contorno, per entrare nel giro che conta. Da lì in avanti Faccia d' Angelo ha vissuto la sua tragedia shakesperiana, fra guerre di potere, omicidi e tanti soldi, assieme alla morte misteriosa di tre donne molto importanti: il suo grande amore, Barbara Scarpa, che si è schiantata con il maggiolino nel 1987; la madre di Alessandro, il suo terzo figlio, Rossella Bisello, precipitata dalle scale dell' abitazione dei genitori; e la figlia Elena, che non si sa bene se si è tolta la vita, tagliandosi le vene, cercando di impiccarsi e poi buttandosi dal sesto piano di un condominio di Pescara, o se è stata uccisa per vendetta. Elena viveva sotto falso nome, come tutta la famiglia di Maniero, costretta a nascondersi dopo che Faccia d' Angelo aveva deciso di diventare un collaboratore di giustizia decretando così la fine della banda che aveva inventato dal niente nelle lagune sperdute e nebbiose del Veneto, facendosi largo a spallate dentro al mare magnum della violenza, venerato dai suoi soldati come un semidio che garantiva soldi e potere. Ma lui sapeva di essere diverso da loro, l' unico per cui il riscatto dalla miseria significava comandare. E non obbedire. Diventò un pentito dopo l' ultimo arresto, a Torino, novembre 1994, a pochi mesi dall' ennesima evasione. Spaghetti e Prosecco Prima di quel momento, al processo di Venezia, si faceva portare in aula spaghetti all' astice e una bottiglia di prosecco, per brindare assieme a sua figlia Elena, che veniva a trovarlo, bionda, alta, bella come una mannequin. In fondo, la Mala del Brenta non sarebbe esistita senza di lui. Ed è esistita solo quando ha voluto lui. Maniero è a tutti gli effetti un indecifrabile personaggio shakesperiano, che ha cominciato la sua carriera di capo sfidando una guardia che gli puntava una pistola contro fino a quando non abbassò l' arma: «Comandavo io perchè il coraggio non è di molti, e quelli che comandavano prima di me erano dei pappamolla». E ha sempre continuato a farlo, anche quando nella sua seconda vita s' è inventato imprenditore, fondando Anyaquae assieme al figlio, per la depurazione delle acque. E' fallito anche lì e allora si è trasformato, lui, capo spietato, in un guru ambientalista, rivolgendosi a Salvini per chiedergli di fare «un decreto sicurezza per la salute dei più piccoli». E' come se un egocentrismo folle lo spingesse a salire sempre, anche gli scalini più impervi. «Delle 300 persone che comandavo l' unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri sono in galera, vecchi, distrutti, disperati». Lui ne aveva fatti tanti. E nell' aula bunker di Venezia chiedeva all' avvocato: «Lo sai quanti soldi ho io?». «No». «Beh. Neanche io». 

Felice Maniero scrive alla figlia: "Mamma ha esagerato, aspettami, torno presto". Arrestato dopo la denuncia della compagna. I gip: "La donna è credibile". La Repubblica il 20 ottobre 2019. La sua compagna di una vita, Marta Bisello, 47 anni,  l'ha denunciato per maltrattamenti fisici e psicologici. "Cose di ordinaria amministrazione, una storia di maltrattamenti in famiglia", hanno commentato alla squadra mobile di Brescia. Solo che la famiglia è quella dell'ex boss della Mala del Brenta, Felice Maniero, Faccia d'Angelo, colui che ha tenuto in scacco per anni la zona del Brenta con rapine, estorsioni, minacce, sequestri e omicidi. La sua famiglia però ha resistito. E lui ha vissuto per sua figlia, quella rimasta dopo il suicidio della primogenita, una ragazza di 18 anni. Al suo arresto, qualcuno dice in lacrime, l'ex boss ha detto qualcosa simile a "Non arrestatemi, fatelo per lei". E a lei ha pensato appena entrato nel carcere di Bergamo dopo 9 anni da uomo libero arrestato in virtù del codice rosso che tutela le donne maltrattate. "Torno presto, ma tu studia e vai avanti. Solo così mi fai felice. Mamma ha ingigantito tutto e ha raccontato cose che non ho fatto nemmeno quando ero giovane. Sei il mio tutto". Maniero ha scritto queste parole a mano sul retro dell'ordinanza di custodia cautelare. Nell'ordinanza è scritto: "La donna era vittima di violenze fisiche e verbali diventate ormai quotidiane. Temeva le reazioni del compagno". Lo scrive il gip di Brescia Luca Tringali nell'ordinanza di custodia cautelare. Nell'ordinanza sono riportate alcune minacce che Maniero avrebbe pronunciato nei confronti della donna, con la quale ha una relazione del 1993. L'avrebbe obbligata a fare flessioni gridando, "colonnello 100 flessioni" e durante un litigio minacciando di picchiare la donna Maniero avrebbe detto: "Non sai con chi ti sei messa io comandavo 500 persone". Agli atti dell'inchiesta c'è un certificato di accesso al pronto soccorso il 21 maggio scorso quando la compagna di Maniero avrebbe manifestato agitazione e paura. Non ci sono però certificati medici su episodi di violenza fisica. "La donna non romanza e i suoi racconti sono circostanziati e precisi" scrive il gip di Brescia che ritiene credibile la compagna 47enne di Maniero che da luglio si trova in una comunità protetta. Le contestazioni riguardano gli ultimi tre anni della coppia. Per il gip bresciano il carcere è l'unica misura idonea perché "sarebbe illusorio il deterrente del braccialetto elettronico".

Fabio Poletti per “la Stampa” il 21 ottobre 2019. Un uomo preoccupato, molto preoccupato. Non tanto per il carcere, dove Felice Maniero, l'ex boss della Mala del Brenta poi pentito, torna dopo avere già scontato 20 anni, questa volta per maltrattamenti nei confronti della compagna 42 enne. La sua principale preoccupazione è la figlia 18 enne, rimasta sola a casa. A lei Felice Maniero scrive poche righe di suo pugno dietro l' ordinanza del giudice bresciano che lo rimanda in carcere: «Torno presto, ma tu studia e vai avanti. Solo così mi fai felice. Mamma ha ingigantito tutto e ha raccontato cose che non ho fatto nemmeno quando ero giovane. Sei il mio tutto». Ora che è venuto fuori che Felice Maniero risiedeva a Brescia, che girano le carte di questo nuovo guaio giudiziario dove l' ex boss è indicato con il suo nome fittizio L.M., la cosa che più teme è che qualcuno degli uomini della sua banda, finito in carcere per le sue confessioni assai meticolose, anche a distanza di anni voglia fargliela pagare. Proprio per ragioni di sicurezza Felice Maniero è rinchiuso nell' area protetta del carcere di Bergamo. La sua compagna dalla fine di luglio si trova in una casa famiglia per donne maltrattate, proprio per essere al sicuro da quel convivente manesco. Libera, anche se in Questura stanno studiando misure di protezione, per questo si indaga anche sulla fuga di notizie, rimane appunto la figlia 18 enne. La ragazza davanti alla quale Felice Maniero è scoppiato in lacrime, quando l' altro giorno gli agenti sono andati a casa per mettergli le manette: «Non mi portate in carcere, fatelo per mia figlia». L'immagine di padre così premuroso stride molto con i racconti contenuti nell' ordinanza del gip di Brescia Luca Tringali. A Felice Maniero sono contestati una decina di episodi, tra insulti e ingiurie. Non risultano violenze fisiche. Quando la sua compagna lo scorso maggio si è fatta visitare in Pronto soccorso a Brescia, denunciando lo stato d' ansia e un forte mal di testa, non ha parlato di violenze fisiche. Né sono stati stilati certificati medici. Ma il suo racconto per il giudice bresciano è veritiero: «La donna non romanza e i suoi racconti sono circostanziati e precisi». Quelle che racconta la compagna di Maniero sono soprattutto violenze verbali. Lui che la minaccia di compiere alcune commissioni per la sua società, poi destinata a fallire: «Se non ti muovi ti brucio tutte le borse». Lui che la obbliga a fare esercizi fisici punitivi: «Colonnello, 100 flessioni». Lui che le urla: «Non sai con chi ti sei messa. Io comandavo 500 persone». Risulta che la donna sapesse perfettamente chi fosse il compagno e cosa avesse fatto in passato, omicidi compresi. Così come la figlia, che in alcuni episodi avrebbe addirittura assistito alle aggressioni verbali. Per Felice Maniero che oggi cercherà di spiegare le sue ragioni nell' interrogatorio di garanzia, secondo il giudice non restava che il carcere: «Illusorio il braccialetto elettronico».

Felice Maniero: "Così trattai con gli uomini dello Stato. Ho rimorsi per un solo delitto". Roberto Saviano intervista l'uomo che fu leader e fondatore della mafia nata in Veneto negli anni 70, ora collaboratore di giustizia. Da oggi, 14 novembre, ogni mercoledì alle 21.25 su Nove, torna "Kings of Crime", le interviste inedite dello scrittore ai protagonisti del crimine. Roberto Saviano su La Repubblica il 13 novembre 2018. Quando intervisti un uomo che è stato un capo criminale, il primo obiettivo è capire cosa vuoi ottenere. Inchiodarlo alle sue responsabilità? Denunciare i suoi crimini più nascosti? Rintracciare il suo lato più umano? La mia ossessione è sempre la stessa: mostrare come i boss siano parte della nostra economia, siano capitalisti con mezzi diversi, farne emergere miserie e contraddizioni. E volevo, in questo caso, accendere un riflettore necessario sul nord Italia. Le mafie al Nord esistono da lunghissimo tempo. Per decenni si è negata la loro presenza e la loro esistenza, e questo è stato uno dei più dannosi tabù. Si cerca di relegarle a fenomeno locale, meridionale, di ridimensionarne la potenza economica, di negarne la presenza militare nelle regioni settentrionali o di attribuire tutto questo esclusivamente a gruppi di invasori che dal Sud "infettano" alcune zone del Nord. Non si tiene mai conto che le mafie si sono ramificate nel Nord Italia grazie a un'alleanza con l'imprenditoria e la politica settentrionale. Senza queste sinergie, le mafie non sarebbero mai riuscite a fare il salto di qualità. Il Nord è il motore del Paese e lo è stato anche per le organizzazioni criminali nate al Sud, che hanno investito in imprese e appalti, hanno venduto droga sulle migliori piazze, che hanno riciclato e moltiplicato nei circuiti finanziari i loro soldi sporchi. Ma è esistita una mafia - una sola ad oggi - che al Nord non è solo cresciuta, ma è anche nata. Si è strutturata in Veneto negli anni '70 e il suo fondatore e capo indiscusso è stato Felice Maniero. Ho incontrato Maniero, ora collaboratore di giustizia. Studiando e incontrando boss, killer e gregari di mafia, capisci che si possono dividere in due categorie: quelli che scelgono il crimine contro il mondo e quelli che scelgono il crimine per scalare il mondo. Non si sfugge a questa divisione. Ci sono boss per cui la vita è una guerra in cui ognuno si prende ciò che vuole in base al proprio coraggio, alla propria spietatezza: questi vedono lo Stato come un'altra organizzazione di banditi governata da persone tutto sommato interscambiabili, che si alternano al potere. Il loro guadagno sarà tanto più alto quanto più riusciranno a contrapporsi alle istituzioni, a sfidarle, a batterle. E ci sono boss che, invece, vogliono infiltrare lo Stato e utilizzare il crimine per avere un ruolo istituzionale: non guadagnano dalla alterità rispetto alle istituzioni, ma dall'identificazione con esse, mirano a diventare loro stessi le istituzioni. Il boss Felice Maniero apparteneva alla prima categoria, a quei boss di mafia che valutano l'essere giusto non in relazione al rispetto delle leggi, ma in relazione alla capacità di stare al mondo. Il giusto non è giusto perché indossa una divisa, ma perché risponde a valori che il mafioso stesso valuta come fondamentali, come l'essere feroce, magnanimo col debole, efficiente o sprezzante del pericolo.  La filosofia morale criminale parte da un pilastro chiaro: potere, danaro, donne sono gli obiettivi di tutti: c'è chi è nato con maggiore possibilità di averli e chi deve invece trovare una strada per raggiungerli. Maniero ha una visione del mondo chiara, descrive se stesso come qualcuno che non voleva passare la vita in fabbrica, guadagnare due soldi, rimanere confinato alla provincia. Nato negli anni '50 in un Veneto in miseria, dove in molti avevano scelto la via dell'emigrazione in Sud America, Maniero cresce con il mito dei fuorilegge, che gli sembrano "esseri superiori". A 9 anni la prima pistola, a 12 anni i primi furti ai camion di caffè e formaggio, a 16 la prima rapina in una fabbrica. Dalle fabbriche di scarpe presto si passa ai laboratori di oro, e la vita di Felicetto cambia. Ferrari, viaggi all'estero, yacht: i soldi sono così tanti che non sa come spenderli. Tutti vogliono fare rapine con Felice Maniero, perché con lui si porta a casa la pelle e la grana. I colpi sono studiati da lui in modo meticolosissimo. "La prima cosa che valutavo era il piano di fuga, se non c'era possibilità di un piano di fuga, non veniva fatto niente", ma anche se qualcosa andava storto e si veniva arrestati, Maniero aveva escogitato un metodo efficace per uscire in fretta dai guai: usare le opere d'arte come merce di scambio con lo Stato. Qui Felice Maniero svela la dinamica di una trattativa:

All'alba del 23 febbraio del '79 alcuni uomini entrano nella Basilica di San Marco a Venezia. 

"Sì".

Rubano una collana di diamanti e altre pietre preziose dal quadro di una Madonna...

"Nicopeia".

Esattamente. Valore stimato all'epoca: un miliardo di lire. Qualche settimana dopo, però, i gioielli vengono ritrovati, o meglio, fatti ritrovare. Perché avete deciso di rubare?

"Perché io avevo una pesante sorveglianza speciale, dovevo essere a casa alle 7 e venivo controllato tre volte al giorno... non ce la facevo più! E allora ho fatto fare il furto e poi ho contrattato..."

Quindi era una forma di riscatto, di sequestro con riscatto?

"Eh".

Lo Stato nega, ma in realtà c'è stato un meccanismo di questo tipo...

"Sì. M'hanno tolto la sorveglianza speciale e recuperato i gioielli".

Quindi, il furto delle opere d'arte, in genere, viene usato come forma di ricatto? [...] E con chi avveniva la trattativa? I Servizi? Le polizie?

"Ah, guardi, a me a casa ne arrivavano tre o quattro ogni giorno di potentati".

Cioè uomini dello Stato?

"Sì"

Forze dell'Ordine, Servizi...?

"Sì, sì".

Tra l'inizio degli anni '80 e la metà degli anni '90 l'organizzazione di Maniero gestisce il gioco d'azzardo in Veneto, a Modena e in Jugoslavia. Le bische devono dargli dal 40% al 50% dei guadagni. Ma Maniero riesce a guadagnare anche dal Casinò di Venezia, perché impone il pizzo ai cambisti, cioè coloro che prestano soldi a interessi altissimi ai giocatori che hanno perso tutto ma vogliono continuare a giocare. Il 10 ottobre 1980, in quella che è conosciuta come "la notte dei cambisti", gli uomini della Mala del Brenta arrivano al Casinò di Venezia, cacciano i cambisti fuori a calci e gli intimano di non farsi più vedere prima di aver trattato un accordo con loro. Per quel raid "abbiamo fatto anche due mesi di carcere" ricorda Maniero "ma ne è valsa la pena perché poi mi hanno pagato per quindici anni 2 milioni al giorno. Arrivavano circa 60 milioni di lire ogni mese in contanti, senza fare niente". A quel punto il suo potere sul Nord-Est è tale che sono le mafie a bussare alla porta del bandito Maniero. Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, i Bono e Francis Turatello, che condivide con Maniero lo stesso soprannome: Faccia d'angelo. Ma anche i Misso di Napoli chiedono di fare rapine con lui. La sua ormai consolidata fama criminale riesce ad azzerare i pregiudizi e le diffidenze dei mafiosi verso il boss del Nord. Dai più potenti boss di Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta Maniero era rispettato e temuto, tanto che nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il suo sì. Al boss del Brenta non si rivolgono solo per le rapine, ma anche per la droga. A Maniero la coca arriva direttamente dalla Colombia; da lui si riforniscono per il mercato settentrionale anche camorra e 'ndrangheta. Le stesse mafie che vendevano droga in tutta Italia, sul Veneto devono fare un passo indietro, perché lì c'è Maniero. Non appena aveva visto la droga, infatti, il boss del Brenta aveva intuito non solo il grande business che avrebbe potuto ricavarci, ma anche la necessità di occupare quel mercato. Maniero si appella alla solita logica: anche se non vorresti fare soldi con la droga, se non la gestisci tu, chi la gestirà ti eliminerà. 

Quando iniziate a fare traffico di droga?

"Negli anni '80 quando sono arrivati siciliani, camorristi e 'ndranghetisti a venderla".

Quindi arrivano le mafie storiche a commercializzarla, e lì capite che...

"Che non era possibile non farlo noi altrimenti avrebbero preso il mercato, e li avremmo avuti in casa!" 

È vero che inizialmente lei era contrario al traffico di droga?

"Sì".

Anche perché, tra l'altro, dopo che iniziate a farlo, cominciano ad esserci in Veneto molti morti per droga...

"Eh certo..."

Quindi all'inizio c'era questa contrarietà morale quasi...

"Sì, anche perché noi, non usandola, la criticavamo. Chi prendeva droga non poteva entrare..."

Però di fronte al business non vi fermate...

"Di fronte al business e all'invasione di mafie esterne".

Quanto si ricavava dal traffico di droga? 

"Molto. Guardi, il traffico di droga oggi è l'unica fonte di reddito - a parte il racket, che io non credo sia molto importante - delle mafie".

Se ci fosse stata la legalizzazione, i suoi affari ci sarebbero stati lo stesso o sarebbero stati fermati?

"I miei affari ci sarebbero stati lo stesso, perché io poco prima di collaborare ho fatto una rapina di quattro quintali di lingotti d'oro, quattro quintali e mezzo, in una banca che serviva gli orafi nel Vicentino. Però per le altre organizzazioni la legalizzazione sarebbe la ghigliottina. Mi chiedo come mai ancora non lo abbiano fatto. Beh, un narcotraffico però controllato, non è che uno va a prendersi un chilo! Deve tirar fuori i documenti, codice fiscale e tutto. E poi se uno Stato acquista la cocaina o l'eroina da un altro Stato, con 50 euro può comprarne 2 chili credo, perché non costa niente... e la può vendere anche a 100 euro, 200, tanto per dire, senza porcherie dentro. E io vorrei sapere la stragrande maggioranza degli italiani dove va ad acquistarla: se va a pagare 200-300 euro per un grammo - dipende dalla qualità - o 5 euro. Il prezzo crolla! Crolla il mercato! E quelli le rapine non le sanno fare, non sanno fare neanche i furti! Per cui vorrei vederli che si ammazzano per una... cassa di pomodoro! Ovvio che bisogna fare una cosa che è molto delicata, però visto che sono 50 anni che imperversa in tutto il mondo e in tutta Italia soprattutto - perché l'Italia è uno dei principali Paesi - perché non provano qua?" 

Per cui, per un narcotrafficante, il nemico principale è la legalizzazione?

"Io ne sono certo. Mi metto nei miei panni di una volta eh..."

Quindi lei da narcotrafficante avrebbe combattuto la legalizzazione...

"Oh! Guardi che hanno il terrore della legalizzazione eh! Tutti, non solo io!"

Ma lei sta ragionando sulla possibilità di legalizzare tutte le droghe, sia leggere che pesanti?

"No, io sto ragionando su come distruggere le mafie. A un prezzo che si pagherà ovviamente..."

Da un ex trafficante non si accettano, certo, lezioni, né indicazioni politiche, ma la testimonianza in questo caso è particolarmente significativa, perché Maniero ammette che per gli affari delle mafie - soprattutto per quelli delle mafie del Sud - la legalizzazione sarebbe stata la fine. La droga della Mala del Brenta devastò una intera generazione e collocò le province venete in cima alle classifiche delle morti per droga. Rapine, furti, sequestri, droga: era in queste forme che si palesava la Mala del Brenta ai veneti, che solo molti anni più tardi, dopo il pentimento di Maniero, ne avrebbero conosciuto davvero le dimensioni e la pericolosità. Volevo capire come ha fatto un uomo del Nord, veneto ad avere il rispetto militare delle organizzazioni militari meridionali che storicamente considerano i settentrionali criminalmente incapaci di vera ferocia, deboli e al massimo in grado di evadere le tasse e far qualche rapina. La risposta la dà Francesco Saverio Pavone, giudice istruttore del maxiprocesso alla Mala del Brenta: durante un processo a Gaetano Fidanzati per traffico di droga, "mentre con altre persone che avevano reso dichiarazioni contro di lui Fidanzati ha inveito dalle gabbie, minacciandoli, bestemmiando, quando ha parlato Felice Maniero, che lo ha sempre guardato negli occhi, non ha mai detto una parola, quasi che ne temesse lo sguardo. Le dichiarazioni più pesanti contro Fidanzati sul traffico di droga sono state proprio di Maniero, e Fidanzati non ha detto neanche una parola..." Maniero fissa negli occhi i boss meridionali, lo sguardo è territorio, conosce le regole, le apprende e le mantiene. Anche sulle condanne a morte agisce come i capi di cui aveva maggior rispetto criminale, come Antonio Bardellino, gli omicidi erano circoscritti ai regolamenti di conti all'interno della banda: "Doveva essere punito o uno che ci voleva uccidere o uno che aveva tradito ed era dannoso. Se non era dannoso, veniva allontanato e non ce ne fregava niente, un divorzio totale. Invece la mafia siciliana, la camorra... ammazzano anche per soldi, ammazzano il miglior amico per convenienza", ci tiene a sottolineare il boss del Brenta, che è stato condannato per 7 omicidi. Per nessuno di questi ha provato rimorso: 

È cambiato qualcosa in lei quando ha fatto l'esecuzione o in fondo non ha pesato questo gesto?

"Non mi ha fatto niente perché queste erano le nostre regole". 

Dopo un omicidio non è mai successo che abbia avuto un tormento?

"No".

Solo per una morte Maniero dice di provare rimorsi: quella di Cristina Pavesi, la studentessa di 22 anni rimasta uccisa durante la rapina della Mala al vagone postale del treno Venezia-Milano il 13 dicembre 1990. Maniero pronuncia ufficialmente le sue scuse alla famiglia di Cristina, sapendo bene che le scuse non potranno riportarla indietro e che, molto probabilmente, non potranno nemmeno essere accettate. Dopo due evasioni da due diverse carceri di massima sicurezza e latitanze vissute tra lussi di ogni tipo, il capo della Mala del Brenta venne catturato l'ultima volta il 12 novembre del 1994 e sei giorni dopo decise di diventare collaboratore di giustizia. Le sue rivelazioni hanno portato alla condanna di quasi cinquecento persone e alla fine della Mala del Brenta.  Maniero, con la sua perenne aria di sfida, è un uomo che - come ha descritto il giudice Pavone - ha gettato il patrimonio della sua intelligenza in imprese criminali. Imprese criminali che hanno generato un dolore esponenziale. Ecco, il dolore: tra tutte le domande che gli ho posto in questa lunga intervista, quella sul dolore è l'unica su cui l'ho sentito vacillare.

La selezione dei migliori articoli di Repubblica da leggere e ascoltare.

Il covo di don Piddu e degli altri latitanti, a cura della redazione di Cosa Vostra il 27 luglio 2019 su La Repubblica. Nel Blog Mafie abbiamo già parlato dei mafiosi mandati in soggiorno obbligato in Veneto; è bene ribadire che tali personaggi non sono la causa principale dell'attuale presenza delle mafie in regione ma sicuramente si possono considerare come una sorta di “acceleratore sociale” per le dinamiche criminogene e gli interessi illeciti delle organizzazioni criminali. Ma in Veneto, così come in altre regioni, hanno trovato spazio d'azione anche altri mafiosi, latitanti o apparentemente cittadini normali. Nel libro “Mafia come M” abbiamo raccontato chi sono questi mafiosi e cosa ci facevano o cosa ci fanno nel Nordest. “Alcuni mafiosi, anche ricercati, si sono mescolati e adattati al tessuto sociale del Triveneto o hanno tentato di farlo; altri hanno intrattenuto rapporti, anche di affari, con la società civile; e nessuno – di fronte alla possibilità di lavorare e guadagnare – sembrava obiettare alla loro presenza, sempre discreta, lontana dalla ribalta delle grandi città, nei piccoli comuni di provincia. Inoltre, il fatto che alcuni mafiosi, latitanti, abbiano deciso di trascorrere parte della propria vita in Veneto o in Friuli Venezia Giulia, presuppone che si siano sentiti tranquilli nel farlo. In altre parole ci sono state alcune condizioni – contatti con individui già in loco; scarsa informazione e mancanza di comunicazione riguardo i suddetti individui – che hanno permesso agli stessi di stare o transire nel Nordest indisturbati”. Nell'estate del 1992, subito dopo le stragi di Capaci e di Via D'Amelio, veniva arrestato dalla Squadra Mobile di Vicenza Giuseppe “Piddu” Madonia, braccio destro di Totò Riina, a Longare.  “Sempre in provincia di Vicenza, a San Pietro di Rosà, ci sono stati i fratelli Agizza, camorristi affiliati al clan Nuvoletta. Molte loro aziende, di costruzione e di pulizia, avevano ottenuto appalti pubblici, anche se non erano iscritte ad alcun albo di costruttori; per giunta alcuni istituti di credito avevano finanziato le loro attività senza chiedere garanzie. In Veneto l'azienda che portava il cognome dei due fratelli, aveva ottenuto lavori per centinaia di milioni di lire dalle Ferrovie dello Stato e da enti pubblici a Venezia, Mestre e San Donà di Piave, oltre che a Roma e Bari”. Sempre nel 1992, a fine maggio, a Thiene viene arrestato Nunzio Perrella, il famigerato colletto bianco della Camorra, businessman dello smaltimento illecito di rifiuti. Ma non sarebbe stato l'ultimo mafioso arrestato nel vicentino. Poi c'è Verona e la zona del Garda dove hanno trovato terreno fertile uomini legati al clan Licciardi e Grimaldi, ma anche Gioacchino la Barbera, colui che con la sua macchina, il 23 maggio 1992 affiancò l'auto in cui c'erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, per misurarne la velocità di viaggio e a dare poi il segnale ai mafiosi appostati poco più avanti per azionare il radiocomando a distanza che avrebbe ucciso il giudice, sua moglie e i tre agenti di scorta. Nel veronese ci sono nomi di criminali noti, come Domenico Multari “Gheddafi”, e di altri meno noti. Anche nel trevigiano “scopriamo che qualche anno fa ci sono stati due importanti fermi: Vito Zappalà a Mogliano Veneto nel 2010 e Valerio Crivello a Preganziol nel 2012 e nel 2017. […] Sia Zappalà che Crivello hanno in comune la modalità d'arresto: sono stati fermati definitivamente mentre si apprestavano a fare jogging”. “A Mestre nel 2014 veniva arrestato Vito Galatolo, arrivato in città due anni prima, dopo una condanna per associazione mafiosa, e sottoposto a sorveglianza speciale. Galatolo, considerato un elemento di primo piano all'interno di Cosa Nostra, ha intrapreso di recente la strada della collaborazione con la giustizia e ha parlato del tritolo arrivato in Sicilia per eliminare il pm Nino Di Matteo. A Venezia Galatolo aveva trovato lavoro da Otello Novello, soprannominato “Coco Cinese”. Costui, con precedenti penali, è indicato come dominus della zona del Tronchetto, in grado di gestire i flussi turistici attraverso alcune società d'imbarcazione e attualmente si trova a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. In Veneto Galatolo aveva messo in piedi un'organizzazione dedita a rapine – per cui è stato condannato – senza dimenticare di gestire i traffici della propria famiglia, come dimostrato dagli incontri avvenuti a Venezia con Giuseppe Corona, arrestato nel 2018 nell'ambito dell'operazione “Delirio”; Raffaele Favaloro, figlio di Marco, uno dei responsabili dell'omicidio di Libero Grassi e attualmente collaboratore di giustizia, arrestato anche lui nell'operazione “Delirio”; alcuni rampolli della famiglia Graziano, coinvolti nell'operazione “Apocalisse”; e Maurizio Caponnetto, suo complice anche in alcune rapine. Il cognome Caponetto, però, si collega a un altro fatto. Nel dicembre del 2018 è stato arrestato, durante l'operazione “Cupola” – che ha fatto luce sul tentativo di riorganizzazione del vertice di Cosa Nostra dopo la morte di Totò Riina – il fratello di Maurizio, Francesco Caponetto, della famiglia mafiosa di Villabate. Il soggetto in questione, una decina di anni fa, abitava a Mirano e qui era stato arrestato; dopo aver scontato la pena, aveva fatto ritorno sempre in Veneto, ben inserito nel tessuto sociale della città, salvo poi decidere di trasferirsi definitivamente a Palermo nel 2016”. E in effetti il Veneto orientale non sono mai mancati personaggi di un certo spessore criminale, come Costantino Sarno, Vincenzo Pernice, Antonio Barra e Luigi Cimmino, il cui nome si lega all'omicidio di Silvia Ruotolo. Anche nella provincia di Padova le ultime operazioni condotte dall'autorità giudiziaria hanno portato all'arresto di esponenti o personaggi comunque legati alla 'Ndrangheta ma vogliamo concludere questo contributo ricordando un fatto di qualche anno fa, ancora tutto da chiarire. “Negli anni Novanta, nel pieno della stagione delle “bombe in continente” i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, si trovavano in Veneto, in provincia di Padova. I Graviano non sono mafiosi qualunque; coinvolti nella Strage di Via D'Amelio, sono ritenuti responsabili proprio della strategia terroristica delle “bombe in continente” e sono stati condannati all'ergastolo, in qualità di mandanti, per l'omicidio di Don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio che voleva salvare i giovani dalle strade, quelle stesse governate dai fratelli Graviano. Sicuramente fino al 6 ottobre del 1993 i due mafiosi sono stati ospitati ad Abano Terme dall'imprenditore ed editore televisivo palermitano Antonino Vallone, che qui abitava e che sarebbe stato condannato a quattro anni di carcere per favoreggiamento. Ma i Graviano in Veneto non vivevano nascosti. È certo che trascorressero una vita “normale”, accompagnando le allora fidanzate (che poi sarebbero diventate mogli e madri dei loro figli – nonostante fossero già in carcere, i Graviano riuscirono a fecondare le rispettive donne; un'impresa non da poco) a fare shopping nei negozi del centro di Padova, come in quello “Versace”. Allora non può non sorgere una domanda: cosa ci facevano i Graviano in Veneto?” [Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Come si “lavano” i soldi sporchi. A cura della redazione di Cosa Vostra il 28 luglio 2019 su La Repubblica. Si sa che nel Nordest mafie e o mafiosi investono il proprio patrimonio in attività per lo più lecite, inquinando il mercato economico e, di conseguenza, la società. Si dice anche che i mafiosi non sparano e ammazzano più come prima e di certo in questa macro regione non hanno bisogno di alzare troppo la voce. C'è un fatto molto inquietante che genera purtroppo poca preoccupazione: certi  reati contro la persona, anche violenti, non fanno clamore; neppure le minacce fisiche o gli incendi. Perché tutto questo? Collusione di parte della società civile? Complicità di alcuni professionisti? Impreparazione ad affrontare le mafie? Sicuramente ancora si fa fatica ad accettare il concetto che le organizzazioni di stampo mafioso siano tra noi; perché ancora oggi esponenti delle principali istituzioni negano la loro presenza, non utilizzano neppure il termine “mafia” oppure la strumentalizzano per il proprio tornaconto politico; “perché solo di recente si stanno promuovendo interventi per il contrasto al crimine organizzato e, quindi, per molti anni, non si sono volute conoscere le mafie e il loro modo di agire; perché più di qualcuno, appartenente al variegato mondo dei colletti bianchi – avvocati, commercialisti, broker, funzionari pubblici, imprenditori e, in genere, faccendieri – pensa che la mafia convenga. D'altronde l'economia e, in generale, il tessuto sociale è fertile, non stantio e, soprattutto, molte inchieste dell'Autorità Giudiziaria hanno mostrato quanti individui – indagati per gravi reati di natura economica come corruzione, bancarotta fraudolenta, turbativa d'asta, ecc. – possono essere complici di altri soggetti, inquisiti per altri delitti – dall'estorsione all'usura, passando per il traffico di droga – a loro volta collegati alle mafie. In altre parole, se vogliamo comprendere le mafie, occorre saper guardare dentro un'ingarbugliata rete di delitti”. Inoltre “esistono decine e decine di modi per “lavare” i soldi sporchi. Essi viaggiano di continuo nei circuiti finanziari, salvo poi materializzarsi per essere utilizzati nel concreto con l'acquisto di immobili (abitazioni, terreni, ecc.), di beni mobili (macchine, opere d'arte, ecc.), con la creazione o l'acquisizione di quote societarie o di intere aziende che operano nei settori più vari: dalla sanità al turismo, dagli appalti pubblici all'edilizia e ai rifiuti, dalla filiera agricola agli esercizi commerciali, da bar e ristoranti al gioco d'azzardo e alle scommesse online. Stando agli ultimi dati disponibili e consultabili, al primo semestre del 2018 in Italia ci sono state 49.376 segnalazioni di operazioni bancarie sospette, di cui 326 in Trentino Alto Adige, 832 in Friuli Venezia Giulia e 4.213 in Veneto. Proprio quest'ultima regione ha registrato una vera e propria impennata di segnalazioni passando da 6.430 del 2015 alle 8.181 del 2017”. Ricordiamo che di recente in Veneto è scoppiato uno dei più gravi e costosi scandali di corruzione che l'Italia abbia mai avuto; riguarda il MOSE, ossia il “Modello Sperimentale Elettromeccanino”, un'opera ingegneristica che dovrebbe “salvare” Venezia dall'acqua alta. Nel giugno del 2014 sono finiti in manette 35 persone per tangenti versate dal Consorzio Venezia Nuova, la società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per la realizzazione dell'opera. “Il consorzio è stato commissariato, mentre i lavori sono portati avanti faticosamente; il termine per ultimarli, prima previsto nel 2011, continua a slittare in avanti mentre I costi sono lievitati rispetto alla stima iniziale e i lavori di manutenzione per la gestione annuale dell'opera supereranno il centinaio di milioni di euro. Il giornalista Ugo Dinello commenta: «Se quanto successo per il MOSE – Presidente della Regione e assessori, consiglieri regionali, magistrati e alti ufficiali a libro paga di un “cartello” che decideva chi lavorava, a quanto e quanto dovevano costare le opere pubbliche – fosse successo a Palermo di cosa avremmo parlato? Di mafia. Perché in Veneto no?»”. Infine “occorre comprendere come si muovono le organizzazioni mafiose e utilizzare una chiave di lettura per determinati fatti, partendo dal presupposto che la mafia viene trovata solo se la si sa e la si vuole cercare. Essa non è un soggetto avulso ed esterno alle dinamiche illegali del Triveneto. È parte integrante di un sistema di malaffare diffuso. Non dobbiamo solo chiederci dove sono le mafie ma anche come operano. Sempre il giornalista Ugo Dinello, a proposito del Veneto, ci dice: «Cosa nostra è concentrata principalmente e sempre di più nell’area di Venezia, dove da tempo gestisce enormi capitali nel settore turistico, grazie anche al proficuo lavoro che ha sviluppato con la Mafia del Brenta, nella sua parte ancora attiva e mai toccata dalle indagini, cioè quella imprenditoriale. La Sacra Corona Unita è attiva a Chioggia, ma anche in questo caso non vi sono inchieste in corso. Varie famiglie camorriste sono attive a Padova, Treviso e nel Veneto orientale, specie per quanto riguarda la criminalità finanziaria, le grandi opere e la gestione dei rifiuti. La 'Ndrangheta è invece operativa principalmente a Verona, con le 'ndrine attive in Lombardia ed Emilia, specie nel settore costruzioni, grandi opere, logistica e movimento terra»”. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Per comprenderlo nel libro abbiamo analizzato alcune indagini potendo osservare come sono cambiate le infiltrazioni mafiose nel corso del tempo. A metà degli anni Novanta si scoprì che l'hotel “San Martino” nella zona del Nevegal (Belluno) era riconducibile a Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana e che attorno ad essa gravitavano personaggi assai discutibili, come il faccendiere Flavio Carboni. Quasi quindici anni dopo, nel novembre 2007 sono stati catturati a Palermo Salvatore Lo Piccolo, latitante da 25 anni, e suo figlio Sandro, esponenti di peso di Cosa Nostra. Si è scoperto attraverso alcune intercettazioni che i mafiosi, tramite l'avvocato Marcello Trapani, arrestato anche lui nel 2008, sarebbero stati interessati a investire denaro sporco in Veneto. E per farlo avrebbero voluto servirsi di un imprenditore edile di Piove di Sacco.  Nel gennaio 2015 nell'ambito dell'inchiesta “Aemilia”, tra le decine e decine di arrestati, otto erano residenti in Veneto e qui svolgevano le proprie attività imprenditoriali. “Soffermiamoci, però, su un personaggio che compare nel processo “Aemilia”, Paolo Signifredi, coinvolto in altre due inchieste – quella “Pesci” a Brescia e quella “Kyterion” a Crotone – oggi collaboratore di giustizia, sedicente commercialista di Parma, legato alla 'Ndrangheta. Signifredi, in contatto con Nicolino Grande Aracri, a capo dell'omonima 'ndrina, per conto dell'organizzazione mafiosa calabrese, aveva il compito di rilevare le quote di società in liquidazione per poterne acquisire l'intero patrimonio”. Possiamo osservare che rispetto a vent'anni fa qualcosa è cambiato. Si è evoluta l'operatività delle organizzazioni mafiose nel Nordest e sono aumentate anche le inchieste giudiziarie. Ma se “prima si pensava, erroneamente, a sporadici tentativi di infiltrazione nel tessuto sociale del Triveneto – comunque già allora non impermeabile visto quanto successo con la Mafia del Brenta – per ripulire il denaro sporco, talvolta mediante qualche intermediario o qualche imprenditore oppure un colletto bianco. Oggi assistiamo a un vero e proprio mescolamento, con la presenza in loco di affiliati o di elementi comunque contigui al crimine organizzato anche se formalmente non inseriti in esso. E così oggi nel Nordest molte operazioni antimafia coinvolgono soggetti locali, società e aziende che qui sono attive”.

[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Da Il Gazzettino il 27 luglio 2019. «Buongiorno. Sono Felice Maniero, e da oggi il mio lavoro sarà quello di giornalista d'inchiesta». Voce inconfondibile, nel marcato italiano-veneto, l'ex boss della Mala del Brenta presenta in un video in rete la sua nuova trasformazione: quella di "guru" anti-inquinamento, crociato nella lotta per l'eliminazione delle micro-plastiche nell'acqua. Un passaggio quasi naturale per uno che, divenuto collaboratore di giustizia, e libero dal 2010, nella vita sotto copertura s'era messo in proprio con un'azienda di depurazione delle acque (fallita nel 2016). Business che Maniero, col nome di Luca Mori, realizzava anche con lo Stato: perché le capannine di purificazione della sua "Anyacquae" erano vendute per piazze e scuole di diversi comuni italiani. Decretato il fallimento della ditta - c'era stata anche una dura polemica con la trasmissione Report che metteva in dubbio l'efficacia dei filtri anti-arsenico della "Anyacquae". Faccia d'Angelo si è rimesso in gioco, annunciando l'avvio di una start up con nuovi brevetti. La svolta ecologica potrebbe per questo essere preludio di una nuova iniziativa commerciale. Volto coperto dai pixel, camicia blu, in mano i fogli con il testo dell'intervento, Maniero elenca dati e analisi di enti e media sul pericolo micro-plastiche, e se la prende con la politica: «Nessuno è andato a fondo dell'argomento, nonostante la pericolosità di questo inquinante. Ma chi ci governa ne è a conoscenza da alcuni anni..». Un monologo di 19 minuti, tra qualche incertezza e ripartenza. Felice Maniero pare tutt'altro che lo spietato criminale la cui banda terrorizzò il Nordest per 20 anni, con rapine, omicidi, sequestri. Tempi in cui amava farsi beffe delle istituzioni, ordinando spaghetti all'astice e prosecco mentre da una gabbia assisteva nel 1994 al processo in Corte d'assise Venezia. Parla della salute dei bambini da tutelare, Maniero, e dei rischi connessi all'inquinamento: «Fonti autorevoli affermano che ingeriamo 100 microplastiche a pasto, che si decompongono dopo 500 anni, restando nell'organismo tutta la vita». E su questo si rivolge al ministro dell'Interno: «Signor ministro - dice - perché non fate un sacrosanto decreto sicurezza, ne fate tanti che non servono, per la salute dei più piccoli?». Il video si chiude, come tutti i promo, con l'annuncio della prossima puntata, e lo spot incorporato: «Al prossimo video illustrerò come si possono eliminare le microplastiche con una spesa di qualche decina di euro...un fai da te che però è indispensabile, altrimenti si rischiano di spendere migliaia di euro».

L'enigmatico Felice Maniero. A cura della redazione di Cosa Vostra su La Repubblica il 24 luglio 2019. Nel libro “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, trova spazio la ricerca della nostra associazione sulle mafie nel Nordest e in particolare in Veneto. Perché proprio questa (macro) regione? Abbiamo lavorato quattro anni, cercando articoli di giornale, inchieste giudiziarie, dialogando con esperti e poi con la cosiddetta società civile e ci siamo accorti che “nella narrazione della storia delle mafie, il Nordest – e il Veneto in particolare – ha assunto il ruolo del non luogo. Qui non c'è la mafia; qui non c'è mai stata la mafia; Felice Maniero non era il capo della Mafia del Brenta, ma della “Mala” del Brenta; lui non era un mafioso, ma era un bandito! Qui, nella terra che produce, motore trainante l'economia dell'Italia negli anni Novanta, si pensava solo a lavorare. E i mafiosi – tutti meridionali “per forza” e quindi pigri, nullafacenti e persino sporchi, secondo un pensiero razzista abbastanza comune, diffuso fino a poco tempo fa – non avrebbero potuto di certo trovare terreno fertile per mettere radici”. Ma nel Nordest è nata fino ad oggi l'unica organizzazione mafiosa autoctona del Settentrione e riconosciuta come tale dall'Autorità giudiziaria. Eppure c'è chi ha voluto dimenticare...Inoltre “attorno alla figura di Felice Maniero circolano migliaia di voci e mezze verità. Storie che hanno alimentato e alimentano una leggenda assai distorta su uno dei peggiori criminali e mafiosi italiani. A iniziare dai soprannomi che certuni si erano affrettati a dargli: “Faccia d’angelo”, perché era bello, “Felix”, oppure “Cotoa”, ad indicare lo stretto legame con la madre. I nomignoli, comunque, non aiutano a comprendere la capacità “criminale” di Maniero e anzi hanno il triste merito di renderlo quasi dotato di umanità. Nato a metà del Novecento e precisamente nel 1954, a Campolongo Maggiore, in provincia di Venezia, Maniero organizzò e fu a capo della Mafia del Brenta, la sua associazione criminale su cui improntò il “modello mafioso”. Non solo. Ma anche creare quel clima di violenza, omertà e favori. Tutti sapevano, tutti avevano paura. Lo si difendeva, ma non è dato sapere – ma solo ipotizzare – quanto il timore di possibili ritorsioni non fosse anche complicità”. Ci siamo trovati di fronte a un primo problema da affrontare, diverso dalle altre mafie: mentre Cosa Nostra, le Camorre o la 'Ndrangheta, con una storia ultra centenaria, hanno avuto vari mafiosi e capi di spessore, la Mafia del Brenta ne ha avuto uno solo, Felice Maniero, che ha plasmato la “sua” mafia su se stesso; pertanto per comprendere il fenomeno mafioso veneto occorre scindere il personaggio criminale dall'organizzazione mafiosa. “La Mafia del Brenta è stata un'organizzazione mafiosa che ha agito nel Nordest dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Perché riesce a nascere in Veneto? Come si sviluppa? È stata davvero una mafia?” Sono queste le tre principali domande a cui abbiamo cercato di dare risposta. “Le mafie nascono dove hanno possibilità di nascere, crescere e svilupparsi. In Veneto, soprattutto, non abbiamo avuto uno sviluppo omogeneo e inquadrato su alcuni centri abitati che hanno fatto da polo d'attrazione per le industrie o i servizi; al contrario, troviamo uno sviluppo economico, e di conseguenza sociale, basato sull'espansione dell'impresa familiare. Campolongo Maggiore, dove nasce Maniero e dove nasce di fatto la Mafia del Brenta, appare come una piccola comunità della provincia veneta in cui oggi campi coltivati e capannoni si alternano alle villette moderne, con il proprio giardino, i propri muretti grigi e pioppeti e siepi a delimitare confini largamente antropizzati mentre ci avviciniamo agli argini del fiume Brenta. Anche un tempo Campolongo sembrava incarnare il modello di provincia, lontana dai fasti di Venezia. Ma è una città a metà. Dista pochi chilometri anche da Padova. È essa stessa una terra “di confine”. Qui si sviluppa un gruppo criminale, composto da delinquenti che già negli anni Settanta si comporta come una proto-mafia. Nel 1974 il rapporto dei Carabinieri n.32/1 del 12 gennaio, descriveva così la situazione che si era creata: “Da alcuni giorni un gruppo di teppisti, di giovane età e palesemente armati, durante le ore serali e notturne, commette atti di intimidazione e di violenza ai danni di inermi cittadini e pubblici esercizi dei comuni del Piovese. In particolare i malviventi tentano, con il loro provocatorio atteggiamento, di diffondere panico in alcuni centri a cavallo tra le provincie di Padova e Venezia onde creare un terreno su cui svolgere l'attività delittuosa contro il patrimonio, cui sono normalmente dediti, senza timore di essere denunciati. Tali episodi, infatti, hanno già scosso l'opinione pubblica locale con conseguente rifiuto da parte di alcuni denuncianti di sottoscrivere le dichiarazioni rese oralmente agli organi di Polizia. Ed esplode improvvisamente l'omertà nei testimoni e la sfiducia dei cittadini verso l'autorità”. Il gruppo criminale di Maniero, in altre parole, riesce a imporsi sul contesto sociale perpetuando una serie di reati violenti che non trovano un'adeguata risposta da parte delle comunità interessate e, di conseguenza, facendo venire meno la reazione dello Stato”. Inoltre “l'associazione criminale di Maniero si dedicò al traffico di stupefacenti per lo più attraverso i contatti con le altre mafie, in particolare con Cosa Nostra – anche con i mafiosi in “soggiorno obbligato” nel Nord Italia – e alcuni esponenti di clan camorristi. In Veneto, infatti, nella fase in cui l'organizzazione di Maniero si sviluppava ancor di più, divenendo a tutti gli effetti un'impresa criminale […]. La Mafia del Brenta, in altre parole, rispose all'esigenza di espansione delle mafie meridionali, in particolare a quella di Cosa Nostra; creò una forte domanda all'interno del mercato della droga e inondò il Nordest con cocaina ed eroina. Poi, c'era il forte “vincolo associativo mafioso”, che la mafia veneta possedeva. Lo intuiamo dal comportamento stesso dell'organizzazione: chi si trovava impossibilitato a partecipare alle attività illegali – era in carcere – riceveva comunque assistenza, soprattutto in termini economici, da parte del gruppo”. In queste righe viene descritta la “mafiosità interna” alla Mafia del Brenta; ma tale mafiosità la ritroviamo anche all'esterno, verso le famiglie dei criminali uccisi che non si rivolgevano allo Stato per ottenere giustizia; verso chi subiva i reati, ma non denunciava; in questo modo la comunità della Riviera del Brenta, in cui nacque tale organizzazione sembrava tollerare la presenza del gruppo criminale. “Era nata così una vera e propria mafia, intesa – va detto – come organizzazione più che come fenomeno sociale, adattata al contesto geografico in cui operava”. Nonostante sia diffusa l'idea che la Mafia del Brenta non abbia colluso con le classi dirigenti per appropriarsi delle risorse pubbliche, lo stesso Maniero ebbe contatti con esponenti delle istituzioni, sempre in ottica di sviluppare i propri interessi e le proprie strategie criminali. Felice Maniero, ad esempio, aveva contatti molto importanti con personaggi legati alle istituzioni croate. Infine Felice Maniero in tempi recenti ha aperto alcune attività economiche apparentemente pulite, come “Anyaquae” – le casette dell'acqua installate in accordo con enti privati ma soprattutto pubblici. Cosa si nascondeva dietro l'azienda di Maniero? Un altro modo per riciclare denaro sporco? A tal proposito occorre notare che il numero e il valore dei beni che appartenevano alla Mafia del Brenta e che sono stati sottratti ai mafiosi e consegnati allo Stato, non sono poi così tanti se paragonati all'enorme mole di affari illeciti e soldi guadagnati. Quindi è giusto chiederci, ad esempio, che fine abbia fatto il patrimonio criminale di Felice Maniero. “Un indizio ce l'ha fornito lui stesso quando, di recente, ha raccontato alla magistratura di aver dato al cognato 33 miliardi di lire per riciclarli e di aver ricevuta indietro solo una minima parte di quei soldi”. Ipotizzando che la maggior parte del denaro guadagnato illecitamente dalla Mafia del Brenta e dal suo capo sia sparito nei “tessuti sociali” del Nordest o fuori dall'Italia, allora possiamo ritenere che la stessa organizzazione criminale di Maniero sia stata una vera e propria mafia, capace di inquinare il contesto sociale in cui ha agito per il proprio tornaconto e quello dei suoi sodali.

[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Passaggio a Nordest, la via della droga. A cura della redazione di Cosa Vostra il 25 luglio 2019 su La Repubblica. Nel libro “Mafia come M”, tenendo presente quanto sia importante il valore della memoria, non solo delle vittime innocenti, ma anche delle inchieste giudiziarie passate (a fronte della continua sottovalutazione o della negazione della presenza delle mafie nel Nordest), abbiamo ricordato anche due importanti indagini a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. “La prima indagine che vogliamo ricordare è quella portata avanti dal giudice Carlo Palermo che a Trento fece luce su un traffico di droga e di armi tra l'Italia e il Medio Oriente. Al centro dell'inchiesta giudiziaria stava la figura del trentino Karl Kofler, legato al turco Arslan  Hanifi e al siriano Henry Arsan, a sua volta in contatto con Renato Gamba, titolare di un'industria di armi e membro del comitato per il controllo delle stesse, operante presso il Ministero degli Interni. L'indagine nasceva in seguito al ritrovamento di 110 chili di morfina, dentro contenitori metallici per il trasporto del latte, interrati vicino l'abitazione di tale Herbert Oberhofer, il cui nome già si era legato in passato al terrorismo sudtirolese e ai Servizi segreti, che il giorno dell'arresto, il 22 dicembre 1980, si trovava in compagnia di un importante costruttore edile di Bolzano e del vicedirettore della locale Cassa di Risparmio Landessparkasse”. Karl Kofler era in contatto con narcotrafficanti legati alla mafia, come Leonardo Crimi, inviato in soggiorno obbligato proprio in Veneto negli anni Settanta; sempre Kofler “aveva organizzato insieme ad altre persone – quasi una quarantina sarebbero state quelle incriminate – l'importazione dalla Turchia e dalla Siria di grossi quantitativi di eroina e di morfina base; aveva creato depositi per conservare tali sostanze a Trento, Verona e Bolzano e, in quest'ultima città, persino una raffineria per lavorarla. L'eroina era destinata al mercato circostante mentre la morfina veniva consegnata ad alcuni esponenti di Cosa Nostra, in particolare a Gerlando Alberti, considerato uno dei criminali responsabili dell'espansione della mafia siciliana nel Nord Italia, ai fratelli Grado, ai fratelli Fidanzati e a Salvatore Enea. Da questi mafiosi, la droga, una volta raffinata, veniva smerciata nel Nord Italia o seguiva la rotta atlantica, per gli Stati Uniti. Al contrario, dal nostro Paese veniva organizzato un traffico di armi verso il Medio Oriente, in cui erano coinvolti personaggi della massoneria deviata e uomini dei Servizi segreti”. L'indagine condotta dal giudice Carlo Palermo, tuttavia, fu pesantemente ostacolata, quando toccò proprio il traffico di armi. In particolare l'attività giudiziaria di Palermo fu osteggiata dal potere politico, quando il giudice scoprì un presunto finanziamento illecito al Partito socialista italiano, il PSI. “Assai singolare, infine, la conclusione della vicenda giudiziaria per alcuni imputati: Henry Arsan e Karl Kofler sarebbero morti in carcere. Kofler fu “suicidato” tagliandosi la gola con una lametta e perforandosi il cuore con uno oggetto acuminato, contemporaneamente”. La seconda indagine che vogliamo ricordare è quella riguardante Verona, quando la città scaligera era conosciuta come “Bangkok di Italia”. “La centralità di Verona nelle rotte del narcotraffico era da ascriversi sia, come detto, all'espansione dei mercati internazionali della droga, sia alle sue intrinseche peculiarità: era un ambiente socio-economico in via di sviluppo, aveva bassi livelli di delinquenza locale e le forze dell’ordine erano sotto dimensionate. In altre parole, Verona era una terra promessa, da conquistare. Quando aumentò la domanda di beni e di servizi illeciti, due furono le caratteristiche che definirono l'evoluzione criminogena della “Bangkok italiana”: la disseminazione della piccola e media imprenditoria, a carattere ovviamente familiare – come tratto distintivo veneto – e della mentalità di mercato in ogni settore, compreso quello illegale; l’assenza di una tradizione di conflittualità violenta e di criminalità organizzata”. Ma l'espansione del mercato degli stupefacenti a Verona scavalcò in quegli anni le risorse e le possibilità di un suo controllo effettivo da parte dei mafiosi presenti sul territorio tanche che “l'assai remunerativo traffico di stupefacenti, furono criminali professionisti locali, sicuramente cresciuti all’ombra delle stesse famiglie mafiose e “promossi” al rango di importatori e distributori di eroina. […] Il ruolo dei “mercanti di Verona” crebbe nel corso degli anni Ottanta, fino ad assumere una posizione di centralità nell’importazione e nel rifornimento di eroina a Verona e in altri mercati minori dell’Italia settentrionale: consegnavano a domicilio e distribuivano con regolarità negli stessi luoghi”. E così Verona non solo era diventata luogo di spaccio ma anche di deposito delle sostanze stupefacenti. La distribuzione dell'eroina, coordinata in città dai “mercanti”, all'apparenza normali cittadini e professioni, “era così ramificato e affidabile che anche le organizzazione mafiose lasciarono libertà d'azione a questi criminali locali che nulla avevano da invidiare ai loro più famosi colleghi”. Negli anni Novanta l'“Operazione Arena” portò all'arresto dei “mercanti”, di fatto chiudendo questa impresa criminale a carattere familiare, che aveva dimostrato quando la “via del narcotraffico” fosse un facile metodo di arricchimento, a discapito delle migliaia di giovani tossicodipendenti e delle decine di morti per overdose. [Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

La stagione dei sequestri di persona, a cura della redazione di Cosa Vostra il 26 luglio 2019 su La Repubblica. Nel libro “Mafia come M” abbiamo voluto inserire anche la stagione dei sequestri di persona avvenuta in Veneto tra gli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta. Infatti, spulciando le cronache giornalistiche di qualche decennio fa, ci siamo accorti di quante persone siano state rapite da organizzazioni criminali per ottenere i soldi dei riscatti. Vicende spesso dimenticate e poco conosciute, così come i nomi delle vittime e i drammi familiari collegati. “In Veneto, ad esempio, la Mafia del Brenta si era resa protagonista di alcuni rapimenti, spesso fallimentari, come nei casi di Marina Rosso Monti e dell'industriale Renato Andretta. Poi anche l'anonima sequestri aveva rapiti e successivamente liberato Gianni Comper e Sergio Mosole; la 'Ndrangheta aveva sequestrato Carlo Celadon nel 1988 e rilasciato dopo 831 giorni di prigionia – il più lungo della storia – in Aspromonte. Diversa sorte era toccata a Marco Padovani, rapito sempre dalla 'Ndrangheta nel 1982 e liberato dopo un anno, dietro pagamento di riscatto; egli, però, sarebbe uscito psicologicamente distrutto da quella terribile esperienza, tanto da suicidarsi nel 1985”. Rapire una persona al fine di ottenere il riscatto sembrava essere davvero un reato facile e imitabile, tanto che anche una donna fu rapita da alcuni imprenditori piemontesi, mentre una ragazza fu sequestrata da alcuni studenti. “Ma nel Nordest chi orchestrava e perpetrava questo crimine per lo più faceva parte della cosiddetta “banda dei giostrai”. E giostrai lo erano di nome e di fatto. Così, per restare in tema, è stata ribattezzata “Operazione Luna Park” l’azione delle Forze dell'Ordine, avviata con le inchieste dei giudici Francesco Saverio Pavone e Carlo Mastelloni. Nel 1987 il dottor Pavone aveva fatto arrestare una trentina di criminali, poi altri sei nel 1990. Nel 1994 il dottor Mastelloni aveva emesso altri quarantaquattro mandati di cattura: con la collaborazione del ROS dei Carabinieri, la Direzione distrettuale antimafia di Venezia, aveva fermato il gruppo criminale in questione. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Abruzzo”. Tra il 1975 e il 1986 la “banda dei giostrai” aveva messo a segno un numero impressionante di sequestri di persona. “Vittime erano uomini facoltosi, spesso imprenditori, ma anche ragazze minorenni. I rapimenti venivano messi in atto persino sulle attrazioni dei luna park. Non deve trarre in inganno il nomignolo della banda, che di un’organizzazione mafiosa sembrava condividere alcuni aspetti: la struttura gerarchica e l'omertà che vigeva all'interno delle famiglie dei giostrai, assai restie a collaborare con lo Stato. Spesso gli affiliati non conoscevano i nomi di chi partecipava ai delitti (per rendere ancor più difficile il lavoro dell'Autorità Giudiziaria nel caso di fermo di un sospettato); soltanto le menti dell’organizzazione, i vertici, conoscevano le identità dei criminali”. Inoltre non tutti i rapimenti si erano conclusi con un “lieto fine”; ad esempio l'imprenditore milanese Gianfranco Lovati Cottini, rapito a Caorle, fu trovato carbonizzato nella propria auto malgrado fosse stato pagato interamente il suo riscatto; non sarebbe stata l'unica vittima. Nel libro abbiamo raccolto i nomi di chi ha subito un sequestro, nomi che uniscono il Veneto a quanto accadeva nel resto d'Italia. Poi, c'è l'importante tema del riciclaggio del denaro sporco. Che fine hanno fatto i soldi dei sequestri di persona? “Parecchi miliardi, secondo l’inchiesta giudiziaria, erano finiti nei circuiti dei casinò jugoslavi, gestiti della Mafia del Brenta, anche per conto della mafia siciliana – in quegli anni infatti i rapporti “criminali” nel Nordest erano divenuti sempre più stretti e significativi. E così, anche in questa vicenda, ricompaiono nomi già noti alle cronache per attività illecite, come quello del milanese Mario D’Agnolo e quello del chioggiotto Armando Boscolo Meneguolo”. Infine sottolineiamo quanto sia stato difficile l'attività giudiziaria che ha portato all'arresto della “banda dei giostrai”. Attraverso cinque collaboratori di giustizia si è riusciti ad individuare i capi della struttura criminale, ma catturarli non è stato semplice. Ad esempio, “Walter Prina, detto “Cinenti”, è stato arrestato soltanto nel 2008, grazie a circostanze fortuite: un brigadiere l’ha riconosciuto – nonostante la patente falsa – perché era stato lui ad arrestarlo vent’anni prima, per un sequestro di persona. In caserma, Prina ha mantenuto fino all’ultimo la calma, arrendendosi soltanto davanti alla prova schiacciante fornita dalle impronte digitali. Vicenda dalle tinte romanzesche, che non devono però distogliere l'attenzione dal chi ci troviamo di fronte: capi responsabili di un'organizzazione criminale, talvolta assassini”.

[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Cosa Nostra. Il covo di don Piddu e degli altri latitanti. A cura della redazione di Cosa Vostra il 27 luglio 2019 su La Repubblica. Nel Blog Mafie abbiamo già parlato dei mafiosi mandati in soggiorno obbligato in Veneto; è bene ribadire che tali personaggi non sono la causa principale dell'attuale presenza delle mafie in regione ma sicuramente si possono considerare come una sorta di “acceleratore sociale” per le dinamiche criminogene e gli interessi illeciti delle organizzazioni criminali. Ma in Veneto, così come in altre regioni, hanno trovato spazio d'azione anche altri mafiosi, latitanti o apparentemente cittadini normali. Nel libro “Mafia come M” abbiamo raccontato chi sono questi mafiosi e cosa ci facevano o cosa ci fanno nel Nordest. “Alcuni mafiosi, anche ricercati, si sono mescolati e adattati al tessuto sociale del Triveneto o hanno tentato di farlo; altri hanno intrattenuto rapporti, anche di affari, con la società civile; e nessuno – di fronte alla possibilità di lavorare e guadagnare – sembrava obiettare alla loro presenza, sempre discreta, lontana dalla ribalta delle grandi città, nei piccoli comuni di provincia. Inoltre, il fatto che alcuni mafiosi, latitanti, abbiano deciso di trascorrere parte della propria vita in Veneto o in Friuli Venezia Giulia, presuppone che si siano sentiti tranquilli nel farlo. In altre parole ci sono state alcune condizioni – contatti con individui già in loco; scarsa informazione e mancanza di comunicazione riguardo i suddetti individui – che hanno permesso agli stessi di stare o transire nel Nordest indisturbati”. Nell'estate del 1992, subito dopo le stragi di Capaci e di Via D'Amelio, veniva arrestato dalla Squadra Mobile di Vicenza Giuseppe “Piddu” Madonia, braccio destro di Totò Riina, a Longare.  “Sempre in provincia di Vicenza, a San Pietro di Rosà, ci sono stati i fratelli Agizza, camorristi affiliati al clan Nuvoletta. Molte loro aziende, di costruzione e di pulizia, avevano ottenuto appalti pubblici, anche se non erano iscritte ad alcun albo di costruttori; per giunta alcuni istituti di credito avevano finanziato le loro attività senza chiedere garanzie. In Veneto l'azienda che portava il cognome dei due fratelli, aveva ottenuto lavori per centinaia di milioni di lire dalle Ferrovie dello Stato e da enti pubblici a Venezia, Mestre e San Donà di Piave, oltre che a Roma e Bari”. Sempre nel 1992, a fine maggio, a Thiene viene arrestato Nunzio Perrella, il famigerato colletto bianco della Camorra, businessman dello smaltimento illecito di rifiuti. Ma non sarebbe stato l'ultimo mafioso arrestato nel vicentino. Poi c'è Verona e la zona del Garda dove hanno trovato terreno fertile uomini legati al clan Licciardi e Grimaldi, ma anche Gioacchino la Barbera, colui che con la sua macchina, il 23 maggio 1992 affiancò l'auto in cui c'erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, per misurarne la velocità di viaggio e a dare poi il segnale ai mafiosi appostati poco più avanti per azionare il radiocomando a distanza che avrebbe ucciso il giudice, sua moglie e i tre agenti di scorta. Nel veronese ci sono nomi di criminali noti, come Domenico Multari “Gheddafi”, e di altri meno noti. Anche nel trevigiano “scopriamo che qualche anno fa ci sono stati due importanti fermi: Vito Zappalà a Mogliano Veneto nel 2010 e Valerio Crivello a Preganziol nel 2012 e nel 2017. […] Sia Zappalà che Crivello hanno in comune la modalità d'arresto: sono stati fermati definitivamente mentre si apprestavano a fare jogging”. “A Mestre nel 2014 veniva arrestato Vito Galatolo, arrivato in città due anni prima, dopo una condanna per associazione mafiosa, e sottoposto a sorveglianza speciale. Galatolo, considerato un elemento di primo piano all'interno di Cosa Nostra, ha intrapreso di recente la strada della collaborazione con la giustizia e ha parlato del tritolo arrivato in Sicilia per eliminare il pm Nino Di Matteo. A Venezia Galatolo aveva trovato lavoro da Otello Novello, soprannominato “Coco Cinese”. Costui, con precedenti penali, è indicato come dominus della zona del Tronchetto, in grado di gestire i flussi turistici attraverso alcune società d'imbarcazione e attualmente si trova a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. In Veneto Galatolo aveva messo in piedi un'organizzazione dedita a rapine – per cui è stato condannato – senza dimenticare di gestire i traffici della propria famiglia, come dimostrato dagli incontri avvenuti a Venezia con Giuseppe Corona, arrestato nel 2018 nell'ambito dell'operazione “Delirio”; Raffaele Favaloro, figlio di Marco, uno dei responsabili dell'omicidio di Libero Grassi e attualmente collaboratore di giustizia, arrestato anche lui nell'operazione “Delirio”; alcuni rampolli della famiglia Graziano, coinvolti nell'operazione “Apocalisse”; e Maurizio Caponnetto, suo complice anche in alcune rapine. Il cognome Caponetto, però, si collega a un altro fatto. Nel dicembre del 2018 è stato arrestato, durante l'operazione “Cupola” – che ha fatto luce sul tentativo di riorganizzazione del vertice di Cosa Nostra dopo la morte di Totò Riina – il fratello di Maurizio, Francesco Caponetto, della famiglia mafiosa di Villabate. Il soggetto in questione, una decina di anni fa, abitava a Mirano e qui era stato arrestato; dopo aver scontato la pena, aveva fatto ritorno sempre in Veneto, ben inserito nel tessuto sociale della città, salvo poi decidere di trasferirsi definitivamente a Palermo nel 2016”. E in effetti il Veneto orientale non sono mai mancati personaggi di un certo spessore criminale, come Costantino Sarno, Vincenzo Pernice, Antonio Barra e Luigi Cimmino, il cui nome si lega all'omicidio di Silvia Ruotolo. Anche nella provincia di Padova le ultime operazioni condotte dall'autorità giudiziaria hanno portato all'arresto di esponenti o personaggi comunque legati alla 'Ndrangheta ma vogliamo concludere questo contributo ricordando un fatto di qualche anno fa, ancora tutto da chiarire. “Negli anni Novanta, nel pieno della stagione delle “bombe in continente” i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, si trovavano in Veneto, in provincia di Padova. I Graviano non sono mafiosi qualunque; coinvolti nella Strage di Via D'Amelio, sono ritenuti responsabili proprio della strategia terroristica delle “bombe in continente” e sono stati condannati all'ergastolo, in qualità di mandanti, per l'omicidio di Don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio che voleva salvare i giovani dalle strade, quelle stesse governate dai fratelli Graviano. Sicuramente fino al 6 ottobre del 1993 i due mafiosi sono stati ospitati ad Abano Terme dall'imprenditore ed editore televisivo palermitano Antonino Vallone, che qui abitava e che sarebbe stato condannato a quattro anni di carcere per favoreggiamento. Ma i Graviano in Veneto non vivevano nascosti. È certo che trascorressero una vita “normale”, accompagnando le allora fidanzate (che poi sarebbero diventate mogli e madri dei loro figli – nonostante fossero già in carcere, i Graviano riuscirono a fecondare le rispettive donne; un'impresa non da poco) a fare shopping nei negozi del centro di Padova, come in quello “Versace”. Allora non può non sorgere una domanda: cosa ci facevano i Graviano in Veneto?”[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

La colonizzazione della 'Ndrangheta. Francesco Trotta il 2 agosto 2019 su La Repubblica. È proprio la 'Ndrangheta, l'organizzazione mafiosa più subdola e pervasiva in Italia e in Europa, che attraverso alcuni suoi uomini e i loro complici – anche veneti – è presente nel Veneto Occidentale, nei piccoli comuni da poche migliaia di abitanti, tra le colline veronesi e la piana vicentina. E in questi territori detta legge e da questi orchestra affari illeciti, ricicla soldi, si muove veloce per accaparrarsi appalti pubblici nel resto della regione, come pure fuori, e così via. Accanto a Domenico Multari compaiono nomi ma soprattutto cognomi noti agli inquirenti. C'è la famiglia Giardino originaria di Isola Capo Rizzuto, con Alfonso che minaccia un imprenditore urlandogli “Se non paghi finirai a far compagnia ai vermi”; c'è Francesco Frontera, residente a Lonigo, qualche chilometro più in là di Zimella, condannato nel processo “Aemilia”, definito da un collaboratore di giustizia come: “Un elemento diciamo importante nell’ambito di Grande Aracri Nicolino, perché è una persona che spara”; ci sono i Grisi, con la loro azienda Gri.ka di San Bonifacio; ci sono i Bolognino, al centro dell'importante operazione “Camaleonte” del 12 marzo del 2019, in cui figurano 58 indagati. Anche Michele e Sergio Bolognino, quest'ultimo residente a Tezze sul Brenta (Vicenza) sono legati ai Grande Aracri e sono stati condannati in primo grado nel processo “Aemilia”, ma hanno intessuto i loro affari in Veneto. Secondo l'accusa, Michele manteneva i suoi rapporti con la casa madre calabrese «sia per assicurarsi il benestare e il riconoscimento dell'estensione della zona di operatività della nuova articolazione, sia per ottenere la disponibilità di denaro contante da impiegare per i risanamenti aziendali». Il modus operandi pare sempre lo stesso nei casi finiti sotto la lente della magistratura (116 capi di imputazione): estorsioni e usura ai danni di imprenditori veneti, con anche minacce e violenza fisica; le false fatturazioni e operazioni inesistenti per riciclare il denaro sporco, con imprenditori veneti compiacenti, monetizzando per avere denaro pulito attraverso gli sportelli postali al servizio della 'ndrina Grande Aracri. Un giro d'affari al mese tra i 200 e 250 mila euro. In questo senso il Veneto diventa davvero una “lavatrice”: c'è la consegna del contante da riciclare, con incontri in luoghi sempre diversi; poi, attraverso società gestite o controllate dai criminali, si effettuano le le false fatturazioni verso  aziende dei medesimi imprenditori, talvolta compiacenti, talvolta vittime, che pagano con bonifici su conti correnti postali (in Emilia Romagna) dove i soldi venivano ritirati con operazioni ripetute e di modesta entità per restare sotto della soglia d’attenzione. E a finire nei guai in particolare sono i veneti Leonardo Lovo, definito “il contabile” della cosca, residente a Roncade, Adriano Biasion di Piove di Sacco, indagato per false fatturazioni, e l'imprenditore Federico Semenzato. A loro era corrisposto il 7% delle somme movimentate. Tanti soldi visto il guadagno illecito contestato ai tre: più di 3 milioni a carico di Lovo per riciclaggio (e 2 milioni per reati fiscali); stessa cifra per Biasion; e più di 1 milione e mezzo per Federico Semenzato per riciclaggio (e più di 1 milione per reati fiscali). Quest'ultimo è un pezzo da novanta dell'imprenditoria veneziana; stando a quanto riportato da quotidiano “La Stampa” le sue società, Se.ge.co srl e Segeco srl, è impegnata nei lavori della metro a Torino e avrebbe partecipato ai lavori della Linea 5 di Milano per conto di Alstom e alla Metro C di Roma. Inoltre l'azienda lavorerebbe anche all'interconnessione Brescia Ovest della linea ad Alta velocità Milano Venezia, il raddoppio ferroviario della linea Palermo-Messina, la manutenzione della stazione di Bologna centrale; e per conto di Rfi, tra il 2018 e il 2020, la manutenzione dell’armamento ferroviario dell’intero lotto Nord Est. Appalti per un valore di 700 milioni di euro. Altra azienda di Semenzato coinvolta nell'indagine è la Segea che gestisce gli alberghi di Palazzo Giovannelli a Venezia e di Villa Pace a Preganziol (Treviso). Non risulta coinvolta nell'indagine la società Segim srl, partecipata anche dalla madre e dai fratelli di Semenzato, che ha acquisito all’asta per più di 1 milione di euro il palazzo in piazza Ferretto a Mestre fronte Duomo e che avrebbe offerto più di 10 milioni di euro per acquistare Palazzo Gussoni Grimani a Cannaregio (Venezia), ex sede del Tar Veneto. Se i complici veneti dei Bolognino e loro sodali pare se la stessero passando veramente bene, non altrettanto si può dire per chi veniva minacciato. “Pezzo di merda, vengo e ti prendo a te, tua moglie e tuo figlio, ti squaglio dentro l’acido, tutti vi ammazzo, hai capito bastardo? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai”. Una frase rivolta a Diego Carrano, imprenditore che noleggiava auto di lusso, che qualche anno fa era stato processato per appropriazione indebita. Altra storia è quella capitata a Stefano Venturin, titolare della “GS Scaffalature”, al cui interno troviamo, nel ruolo di liquidatore, Paolo Signifredi, il “commercialista della 'Ndrangheta”, attualmente collaboratore di giustizia. Nel libro “Mafia come M” (Linea Edizioni, 2019), troviamo scritto: “Nel 2013 Sergio e Michele Bolognino, indicato dalla Prefettura di Reggio Emilia per precedenti penali tra cui l'associazione mafiosa, pestavano il compagno della proprietaria della GS scaffalature; la vicenda provocò persino un'interrogazione parlamentare da parte dell'Onorevole Alessandro Naccarato, componente della Commissione Parlamentare antimafia, ma fu largamente sottovalutata tanto che la famiglia Bolognino, residente a Rosà (Vicenza), tenne una conferenza stampa nell'azienda in questione per affermare che loro con la mafia non avevano nulla a che fare”. Poi l'inchiesta emiliana ha portato alla condanna di Michele Bolognino e di Sergio. E oggi, a seguito dell'operazione “Camaleonte”, possiamo leggere anche alcune delle frasi che venivano rivolte a Stefano Venturin, l'imprenditore sequestrato e tenuto in ostaggio per ore, che non lasciano dubbi sullo stato di vessazione in cui viveva la stessa famiglia veneta. «Ti svito la testa... ti uccido te, tuo figlio, stermino la tua famiglia, non finisce qui», avevano detto Sergio Bolognino quando Venturin aveva cambiato la serratura per non permettergli l'accesso all'azienda. «Tu devi fare quello che ti dico io... se non fai quello che ti dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa... tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti... dovete compiacere la mia famiglia». La sottovalutazione del potere economico della 'Ndrangheta in Veneto è ancor più evidente se si pensa a una vicenda che coinvolge presunti 'ndranghetisti e direttori di banca. Leggiamo sempre dal libro “Mafia come M”: “Nel gennaio del 2018, l'operazione “Fiore Reciso” si è conclusa con l'arresto di 16 persone da parte della Direzione investigativa antimafia di Padova. Secondo gli inquirenti, i soggetti fermati facevano parte di un'associazione a delinquere “finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti, al riciclaggio, all’auto-riciclaggio, allo spaccio e al traffico di sostanze stupefacenti”. Tra gli arrestati troviamo: Antonio Bartucca, Giovanni Spadafora, Antonio Giardino e Vincenzo Giglio. Tutti nomi e cognomi che ritornano sempre in questa nostra storia. A interessarci, però, è anche il ruolo svolto da Direttore della filiale di Vigonza della Banca Popolare di Vicenza, Federico Zambrini, insieme al funzionario della stessa filiale, Roberto Longone, anche loro fermati. I due, secondo gli investigatori, hanno aiutato Antonio Bartucca a muovere il denaro con operazioni anomale rispetto alle capacità economiche del soggetto in questione: a fronte di un reddito dichiarato di 17 mila euro, sono stati documentati nel solo 2016 prelievi per 150 mila euro. Oltre alle cospicue somme di denaro avute in cambio, Zambrini aveva ottenuto da Bartucca anche la sottoscrizione di azioni della BpVi per un valore di 61 mila euro; ma il tutto è stato azzerato dal fallimento dell'istituto di credito”. E se dal carcere Due Palazzi di Padova, il boss di Strongoli, Savaltore Giglio, impartiva ordini e consigliava a Giuseppe Farao, dell'omonima cosca e detenuto pure lui, di rispettare e far rispettare ai suoi sodali, la “presenza” dello stesso Giglio e dei suoi uomini nel padovano, qualcosa vorrà pur dire... Non vedere, negare, sottovalutare denunce, episodi violenti e negare ancora che non via sia la mafia nel Nordest, è uno dei modi per agevolare la stessa mafia.

Il potere e i cani feroci di "Gheddafi”. Francesco Trotta l'1 agosto 2019 su La Repubblica. Per molti anni, a partire del secondo decennio del Duemila, varie relazioni della Dia e della Dna hanno lanciato l'allarme sulle infiltrazioni e gli interessi della criminalità organizzata in Veneto; ma senza gli arresti e e le operazioni dell'autorità giudiziaria era un po' come fare discorsi sui massimi sistemi. Si sapeva dell'appetibilità del Nordest per ragioni squisitamente economiche eppure senza nomi e volti, senza le manette e il suono delle sirene era come se la mafia e il suo potere fosse un nemico lontano e non ancora giunto in Veneto. Tutto è cambiato (o forse non lo è affatto nelle sue cause e nelle sue conseguenze sociali) negli ultimi anni, quando Forze dell'Ordine e magistratura hanno iniziato a fermare taluni personaggi, per una serie di reati assai gravi (usura, estorsione, false fatturazioni, minacce e violenze fisiche, ecc.), ritenuti dagli inquirenti legati alle mafie o espressione di qualche associazione mafiosa. E così abbiamo potuto dare un volto e un nome – e anche più di uno –  ai mafiosi, ai loro complici, agli affaristi della peggior specie. E di colpo si è passati dall'allarme sulle infiltrazioni alla presenza sul territorio di precisi soggetti dalle indiscusse capacità criminali. Probabilmente neanche il termine radicamento è corretto per comprendere quanto stia succedendo in Veneto; potremmo cercare di trovare nuovi termini – mescolamento, colonizzazione, camuffamento e così via – ma sarebbero comunque opinabili. Intanto, partiamo da un dato: la presenza di mafiosi (o presunti tali per gli organi investigativi) in Veneto, in particolare nelle zone di provincia, per lo più lontani dai riflettori, ben integrati nel tessuto sociale a tal punto che quando vengono arrestati il resto della società civile, a partire dagli organi istituzionali locali, pare cadere dalle nuvole; contemporaneamente, mentre si leggono le intercettazioni e le ordinanze, gli inquirenti parlano invece di climi di omertà, di complicità, del famoso “tutti sapevano” e di qualche cittadino che si è pure rivolto ai soggetti arrestati per sbrigare faccende più o meno illegali. Bel paradosso. Ma basta andare “sul campo” e dialogare con le persone per capire che sì, c'è un clima di paura, che davvero tutti conoscevano la “fama” di certi personaggi e che alcuni cittadini si sono piegati al potere del malavitoso locale ma che ci stanno anche i cittadini che non si sono piegati, che vogliono poter fare qualcosa, che hanno denunciato episodi strani ma non hanno ottenuto le risposte che si aspettavano dallo Stato e dai loro rappresentanti. Sono stato invitato dal coordinamento di Libera Vicenza a Zimella, comune a cavallo tra le province di Verona e Vicenza. Qui abita Domenico Multari, soprannominato “Gheddafi”, accusato di sequestro di persona, omicidio colposo, ricettazione e altri gravi reati, ritenuto il “referente” della 'Ndrangheta in Veneto, legato alla 'ndrina cutrese dei Grande Aracri e prima ancora dei Dragone. E tra i tanti discorsi che mi hanno riferito comuni cittadini, uno è assai esplicativo: Multari lasciava i suoi tre cani di razza di grossa taglia, liberi di scorrazzare a proprio piacimento in paese. Di giorno e di notte. E c'è chi si è lamentato, ripetutamente, nel corso di questi anni. Ma la risposta, tardiva, l'ha avuta soltanto quando Multari è stato arrestato il 12 febbraio del 2019, a seguito dell'operazione “Terry”. I cani di Zimella simboleggiano quel potere beffardo e autoritario che Multari amava ostentare in città. Lui stesso dirimeva le questioni tra compaesani: per un debito di 8.000 euro «riusciva a mettere d’accordo i due contendenti portandoli a raggiungere una soluzione pacifica». Capita poi che un abitante nota un auto sospetta, chiama Multari che affronta il conducente dell'auto e poi lo stesso Multari si rivolge ai carabinieri per informarli che «quello è un porco, un mezzo maniaco, le ragazze in zona mi hanno chiamato in quanto hanno preso paura al punto di chiudersi in casa». Scrivono gli inquirenti: «è evidente che con tali comportamenti viene sempre a conoscenza di ogni possibile movimento che si verifica in paese, circostanza che gli permette un costante controllo del territorio». Ma la “fama” di Multari va oltre il veronese. Si rivolge a Multari l'imprenditore veneziano Francesco Crosera, che aveva costruito uno yacht – “Terry” appunto, da cui il nome dell'operazione – per Luciano Pagotto, il quale inizia nei confronti del primo una causa legale per difetti di fabbricazione. E allora Crosera chiede a Multari di bruciare l'imbarcazione esclamando «se a me mi fanno la guerra, io rispondo con la guerra». Eppure, quando Multari è stato arrestato, Alessia Segantini, sindaco di Zimella, ha dichiarato ai quotidiani locali: “Mi dispiace per la nostra comunità, ma anche per la sua famiglia: non credo sia una grande ‘soddisfazione’ subire un arresto e una perquisizione in casa” e poi “Saranno le indagini e i processi a fare chiarezza, certo che sono rimasta spiazzata ad avere nel mio comune fenomeni che siamo abituati a vedere solo in tv. Noi conosciamo da anni questa famiglia che è ormai integrata nel tessuto sociale, essendo arrivata oltre 30 anni fa”. Dispiacersi per la famiglia Multari – sono stati arresti anche i fratelli di Domenico, Carmine e Fortunato, il figlio Antonio, mentre l'altro figlio, Alberto, risulta solo indagato – pare quantomeno fuori luogo considerando la caratura del soggetto in questione, già conosciuto a livello locale sin dal 2013, quando gli erano stati sequestrati beni per un valore complessivo di 3,5 milioni di euro. E proprio rispetto a quei beni lo stesso Multari aveva interferito sulla loro possibile vendita all'asta attraverso contratti con prestanome o minacciando anche violentemente i pubblici ufficiali preposti.

Proprio le capacità economiche del cutrese e il fatto che si sia integrato nel tessuto sociale cittadino pone un'importante questione: al di là di quanto emerso dall'operazione “Terry” e dei reati contestati o contestabili, quali rapporti ci sono stati con gli organi istituzionali? E con le imprese locali, a fronte anche della crisi economica che ha colpito la piccola imprenditoria del Nordest qualche anno fa? Quali dinamiche si sono innescate, data la presenza di Multari, tra le aziende e i lavoratori? Certo, i segnali non sono dei più positivi visto che, come si legge nell'ordinanza di arresto: «la sudditanza psicologica e il costante controllo che Domenico Multari esercita nella sua zona di residenza al punto che, in presenza di un problema che interessa i negozi della cittadina, gli stessi negozianti non si rivolgono ai carabinieri ma contattano direttamente lui».

La camorra e i padroni del Veneto orientale. Alessia Pacini e Francesco Trotta il 3 agosto 2019 su La Repubblica. Il 19 febbraio 2019, Polizia e Guardia di Finanza, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia sequestrano beni per un totale di 10 milioni; mettono in atto 9 provvedimenti tra obbligo di dimora e divieto di esercitare la professione di avvocato; e, infine, eseguono 50 misure cautelari, tra cui 3 ai domiciliari. L'elenco degli indagati nell'operazione “At least”, però, non finisce. In tutto sono 82 le persone coinvolte in un'inchiesta che fa luce su quella che è considerata una vera e propria “gomorra veneta”. L’epicentro che sconvolge la terra del Doge è Eraclea, comune che si affaccia sulla laguna adriatica, con poco più di dieci mila abitanti, località balneare che vive principalmente di turismo. Il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, ha sottolineato il fatto che per la prima volta in Veneto una cosca, seppur facendo riferimento al noto Clan dei Casalesi, “si era organizzata autonomamente”. La struttura criminale – secondo l'indagine degli inquirenti – si è formata a metà degli anni Novanta, quando nel Nordest la Mafia del Brenta veniva sgominata e lasciava un vuoto di potere criminale, riempito poi da altri malavitosi. A capo di questa organizzazione, secondo gli inquirenti, stavano Antonio Buonanno, Raffaele Buonanno – quest'ultimo imparentato con il capo Francesco “Ciccotto 'e mezzanotte” Bidognetti – entrambi residenti in Campania, e Luciano Donadio, anche lui di origine meridionali ma da anni trasferitosi proprio a Eraclea. Il gruppo criminale, che inizialmente poteva contare su altri personaggi di Casal di Principe e dell'agro aversano, si è pian piano sviluppato, interagendo e integrandosi con altri malavitosi e soprattutto con individui apparentemente puliti, soprattutto locali; gente veneta, insomma, che non si sarebbe fatta remore a far affari illeciti, diventando di fatto tassello fondamentale di una cellula camorrista, che nell'arco di due decenni si è impadronita del Veneto orientale. E una lunga serie di gravi reati testimonia la pervasività e la sua capacità criminale: estorsione, usura, bancarotta fraudolenta, contraffazione di valuta, emissione di false fatture, truffe e truffe aggravate ai danno dello Stato, riciclaggio e auto-riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, rapina, ricettazione, sottrazione fraudolenta di valori, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, intermediazione illecita di manodopera, detenzione illegali di armi, danneggiamenti e incendi. In poche parole: controllo del territorio. Fatto assai grave, che si abbina a quanto affermato dal Procuratore Bruno Cherchi, quando spiega che parlare di mafia in Veneto significa anche parlare di una “criminalità strutturata e penetrata nei settori economico e bancario”. In effetti, stando a quando emerge dalle indagini, all'utilizzo della violenza e alla commissione dei reati più “vistosi” – come lo spaccio e la gestione della prostituzione lungo il “Terraglio”, la strada che collega Mestre a Treviso (attività illecita spesso collegata solamente alla malavita dell'Est) – corrispondevano anche le potenzialità imprenditoriali del gruppo criminale, capace di coinvolgere commercialisti, funzionali pubblici, direttori di banca e, appunto, imprenditori. Sottolineiamo quest'ultimo aspetto per far comprendere il ruolo chiave dei “veneti”: se non ci fossero stati loro, probabilmente i criminali non sarebbero diventati così potenti da creare una cellula mafiosa in grado persino di intessere legami con l'apparato istituzionale. Il legame con la politica. “In più, in meglio”, si legge oggi sul sito internet dell’ormai ex sindaco di Eraclea, Mirco Mestre, 44 anni. E ancora: “Credo che la mia città possa rappresentare il paese in cui i cittadini siano felici di vivere. Non sono un politico ed il mio impegno nasce dalla sincera determinazione di poter aiutare il mio paese. Per far ciò abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e formulare questa nostra proposta per dire a tutti oggi si cambia!”. Mestre è tra gli arrestati del 19 febbraio. Il mondo dell’amministrazione pubblica di Eraclea, quindi, si sarebbe incontrato con quello dei Casalesi nella pratica del voto di scambio. Secondo le indagini la cellula camorrista sarebbe riuscita a fare affari d'oro con l’edilizia lungo la costa adriatica, accaparrandosi permessi, in cambio dell’elezione del sindaco di Eraclea. Sempre il Procuratore Bruno Cherchi ha affermato: “L’arresto del sindaco di Eraclea, Mirco Mestre, rappresenta il primo caso in Veneto di voto di scambio, accertato nel corso delle elezioni comunali del 2016”. Mentre però il sindaco viene messo in carcere e il vice, Graziano Teso è indagato, la maggioranza al comune non vuole lasciare il proprio posto di potere, sottolineando che l’amministrazione sia in realtà estranea dalle attività mafiose di cui è accusato il sindaco. Tra gli arrestati del 19 febbraio anche Denis Poles, direttore di banca che avrebbe lasciato via libera ai presunti mafiosi, operando sui conti societari, omettendo sistematicamente di segnalare le operazioni sospette e concordando persino i prestanome da utilizzare. Il nome di Poles è finito alla ribalta poiché si sarebbe rivolto nel 2002 direttamente al gruppo criminale per recuperare una valigetta che gli era stata rubata dalla macchina, in cui c'era la tesi di laurea della fidanzata. Efficientissimi sono stata i casalesi di Eraclea, in grado di far riavere a Poles la valigetta in ventiquattro ore, come annotano gli inquirenti nell'ordinanza di arresto. Un altro Poles, questa volta Graziano, è stato coinvolto nell'indagine. L'imprenditore veneziano di settantanni è una vecchia conoscenza delle cronache giudiziarie locali causa il fallimento delle sue società per cui già nel 2013 si sospettava l'interessamento da parte della criminalità organizzata. Poles, insieme alla figlia e alla moglie, aveva creato una holding, attorno alla quale gravitavano altre undici società, costruita su debiti bancari; tutti soldi mai restituiti: un bancarotta da 7,5 milioni. Nel suo impero c'era anche l’Hotel Victory, che l’allora sindaco Graziano Teso avrebbe cercato di vendere in cambio di autorizzazioni edilizie e concessioni. Le società di Poles, secondo la Procura, erano in parte controllate da Luciano Donadio e sodali. Attraverso i prestiti ad usura il gruppo criminale avrebbe ottenuto il controllo anche di altre aziende, i cui titolari in certi casi dapprima vittime, si sarebbero poi trasformati in complici del “sistema”, come nel caso – secondo la magistratura – di Giorgio Minelle, titolare di Soluzione Mipa a Padova, che dopo le minacce e la cessione della sua attività a Donadio per i debiti insoluti, si sarebbe rivolto insieme a Vittorio Orietti di Galzignano, al gruppo criminale per farsi dare centomila euro dall’imprenditore Domenico Chiapperino. Scrivono gli inquirenti: «Di quest’ultima famigerata e assai temibile organizzazione criminale [Clan dei Casalesi, ndr.] il sodalizio in questione ha riprodotto in queste terre i metodi violenti ed intimidatori, le strutture organizzative e i fini illeciti nei più diversificati ambiti illeciti imponendosi, in breve tempo, come compagine criminale assolutamente egemone nei confronti delle preesistenti formazioni locali, sia quelle che costituivano i residui della banda Maniero sia i gruppi successivamente costituitisi prevalentemente nel settore del traffico di stupefacenti e nell’attività di sfruttamento della prostituzione. Per ottenere questo risultato il sodalizio si è fin da subito accreditato come formazione incondizionatamente disponibile alla commissione di qualsivoglia violenza con uso di armi ed esplosivi.[...] Negli anni successivi il sodalizio mafioso ha accresciuto la sua nomea non solo negli ambienti delinquenziali ma anche in vasti settori, imprenditoriali e non, della comunità locale tanto da divenire il ricettacolo di richieste di occuparsi – con modalità ovviamente estorsive – della riscossione di crediti o di attività di ritorsione e punitive ovvero di proteggere da legittime richieste di pagamento gli imprenditori che si sono affidati al

sodalizio stesso». Altro nome illustre nell'inchiesta è quello di Annamaria Marin, la Presidente della Camera penale veneziana, difensore di Luciano Donadio, al quale avrebbe fornito informazioni su indagini e arresti. Ma non solo: a prender parte a queste operazioni “mafiose”, secondo la Procura di Venezia sarebbe stato anche Moreno Pasqual, della Polizia di Stato, che avendo accesso alle banche dati di pubblica sicurezza, sarebbe riuscito a passare informazioni riservate. Non mancano all'interno del sodalizio personaggi già noti alle Forze dell'ordine, come Angelo di Corrado, consulente del lavoro, e Michele Pezone, già colpito in passato da provvedimenti di confisca. Sorprende – ma non troppo – che all'interno dell'organizzazione avesse un ruolo apicale il venetissimo Christian Sgnaolin, titolare dell'azienda "Imperial Agency", che si occupa di sicurezza sul lavoro e nel caso dell'assenza di Donadio, gestiva gli affari dell'associazione criminale. Troviamo scritto nell'ordinanza di arresto: «Questa inquietante presenza criminale, sviluppatasi nel corso dello scorso decennio e consolidatasi negli ultimi anni, è tuttora viva è vegeta ancorché potata in alcuni dei suoi rami più spinosi attraverso indagini collegate condotte da questo Ufficio». Come ci ha candidamente ammesso una signora incontrata ad Eraclea. “Io ho ancora paura, perché ne hanno arrestati parecchi, ma molti altri li vedo ancora passeggiare tranquillamente in giro...”.

I disonesti e quel patto fra Nord e Sud. A cura della redazione di Cosa Vostra il 29 luglio 2019 su La Repubblica. Nel libro “Mafia come M”, abbiamo ricordato una delle principali inchieste passate in giudicato che ha svelato le capacità criminali di un'organizzazione mafiosa creata da cittadini campani e veneti e situata nel padovano. Nel 2011 si è svolta l'operazione “Serpe”: più di venti persone sono finite in carcere con la pesante accusa di associazione di stampo mafioso e altri gravi reati come usura ed estorsione. Nel 2012 il Tribunale ha condannato ventidue incriminati per 416bis; tale sentenza è diventata definitiva nel 2015. Contro chi si è abbattuta l'operazione “Serpe”? Contro ...un aspide! “Aspide è un serpente della famiglia delle vipere, molto diffuso in Europa e famoso per essere stato lo “strumento” con cui la regina Cleopatra si sarebbe tolta la vita. Aspide, però, è anche il nome di una società finanziaria al centro dell'operazione “Serpe” – l'Autorità Giudiziaria sa essere molto ironica – che ha svelato come in realtà dietro questa impresa si celasse una vera e propria organizzazione mafiosa dedita in Veneto principalmente all’usura e all’estorsione. “Aspide s.r.l.”, con sede a Selvazzano (Padova), era capeggiata da Mario Crisci, soprannominato “O’ Dottò”, insieme ad Antonio e Ciro Parisi, di Napoli, Massimo Covino di Secondigliano, sempre in Campania, Christian Tavino, ex poliziotto, e Johnny Giuriatti, entrambi di Padova. Tavino ha spiegato quest'unione: “Ci voleva gente del Veneto per metterci la faccia. I veneti si fidano poco di chi ha l’accento campano”. L'azienda agiva nell'apparente normalità, tanto da agganciare inizialmente gli imprenditori attraverso campagne pubblicitarie sul proprio sito e sui giornali; sarebbe stato poi il passaparola un altro metodo per rintracciare nuovi clienti. “Aspide s.r.l.”, però, non si limitava a offrire prestiti a tassi usurai, ma anche altri servizi finanziari illegali, come frodi e fallimenti societari pilotati, e la riscossione violenta dei crediti non pagati”. Durante un suo interrogatorio, Crisci ha dichiarato: “Molti, grazie a me, hanno mandato i capitali all'estero, e poi lavoravano in nero, la pratica della fatturazione fasulla per abbassare i costi era costante”. E ha aggiunto poi: “Quando con la mia società, la Aspide, prestavo i soldi spiegavo a tutti quale era il tasso d'interesse, non è vero che lo scoprivano dopo, sapevano e accettavano con l'avallo dei loro professionisti, che erano presenti alle trattative”. “Nella rete di Crisci, in effetti, erano finiti ben 115 imprenditori operanti nel Nordest ma soltanto uno ha avuto inizialmente il coraggio di denunciare gli estorsori e, per giunta, la persona in questione è di origine campane. Capita anche questo nel Veneto che si professa avulso dalla criminalità organizzata...Nel successivo processo, che ha portato alla condanna dello stesso Crisci e dei suoi soci, è stata riconosciuta al gruppo criminale il reato di associazione di stampo mafioso. Tale gruppo non era in collegamento con il Clan dei Casalesi, ma non per questo era “meno mafioso”; anzi era capace comunque di incutere timore e intimidire con mezzi violenti, solo alludendo ad una presunta contiguità con la Camorra. Questa è un'altra particolarità del gruppo: Crisci, infatti, per ottenere quanto voleva da chi non pagava, sfruttava la sua provenienza per spaventare i debitori, facendo del marketing criminale non solo il suo biglietto da visita ma anche il suo metodo mafioso, presentandosi di fatto come un camorrista e venendo accettato come tale. Interessante, poi, la visione del Nordest da parte del mafioso. Al magistrato che gli chiedeva come avesse fatto a creare la propria rete criminale, Crisci rispondeva: “Perché qui so’ più disonesti di noi”. [Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Come si “lavano” i soldi sporchi. A cura della redazione di Cosa Vostra il 28 luglio 2019 su La Repubblica. Si sa che nel Nordest mafie e o mafiosi investono il proprio patrimonio in attività per lo più lecite, inquinando il mercato economico e, di conseguenza, la società. Si dice anche che i mafiosi non sparano e ammazzano più come prima e di certo in questa macro regione non hanno bisogno di alzare troppo la voce. C'è un fatto molto inquietante che genera purtroppo poca preoccupazione: certi  reati contro la persona, anche violenti, non fanno clamore; neppure le minacce fisiche o gli incendi. Perché tutto questo? Collusione di parte della società civile? Complicità di alcuni professionisti? Impreparazione ad affrontare le mafie? Sicuramente ancora si fa fatica ad accettare il concetto che le organizzazioni di stampo mafioso siano tra noi; perché ancora oggi esponenti delle principali istituzioni negano la loro presenza, non utilizzano neppure il termine “mafia” oppure la strumentalizzano per il proprio tornaconto politico; “perché solo di recente si stanno promuovendo interventi per il contrasto al crimine organizzato e, quindi, per molti anni, non si sono volute conoscere le mafie e il loro modo di agire; perché più di qualcuno, appartenente al variegato mondo dei colletti bianchi – avvocati, commercialisti, broker, funzionari pubblici, imprenditori e, in genere, faccendieri – pensa che la mafia convenga. D'altronde l'economia e, in generale, il tessuto sociale è fertile, non stantio e, soprattutto, molte inchieste dell'Autorità Giudiziaria hanno mostrato quanti individui – indagati per gravi reati di natura economica come corruzione, bancarotta fraudolenta, turbativa d'asta, ecc. – possono essere complici di altri soggetti, inquisiti per altri delitti – dall'estorsione all'usura, passando per il traffico di droga – a loro volta collegati alle mafie. In altre parole, se vogliamo comprendere le mafie, occorre saper guardare dentro un'ingarbugliata rete di delitti”. Inoltre “esistono decine e decine di modi per “lavare” i soldi sporchi. Essi viaggiano di continuo nei circuiti finanziari, salvo poi materializzarsi per essere utilizzati nel concreto con l'acquisto di immobili (abitazioni, terreni, ecc.), di beni mobili (macchine, opere d'arte, ecc.), con la creazione o l'acquisizione di quote societarie o di intere aziende che operano nei settori più vari: dalla sanità al turismo, dagli appalti pubblici all'edilizia e ai rifiuti, dalla filiera agricola agli esercizi commerciali, da bar e ristoranti al gioco d'azzardo e alle scommesse online. Stando agli ultimi dati disponibili e consultabili, al primo semestre del 2018 in Italia ci sono state 49.376 segnalazioni di operazioni bancarie sospette, di cui 326 in Trentino Alto Adige, 832 in Friuli Venezia Giulia e 4.213 in Veneto. Proprio quest'ultima regione ha registrato una vera e propria impennata di segnalazioni passando da 6.430 del 2015 alle 8.181 del 2017”. Ricordiamo che di recente in Veneto è scoppiato uno dei più gravi e costosi scandali di corruzione che l'Italia abbia mai avuto; riguarda il MOSE, ossia il “Modello Sperimentale Elettromeccanino”, un'opera ingegneristica che dovrebbe “salvare” Venezia dall'acqua alta. Nel giugno del 2014 sono finiti in manette 35 persone per tangenti versate dal Consorzio Venezia Nuova, la società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per la realizzazione dell'opera.“Il consorzio è stato commissariato, mentre i lavori sono portati avanti faticosamente; il termine per ultimarli, prima previsto nel 2011, continua a slittare in avanti mentre I costi sono lievitati rispetto alla stima iniziale e i lavori di manutenzione per la gestione annuale dell'opera supereranno il centinaio di milioni di euro. Il giornalista Ugo Dinello commenta: «Se quanto successo per il MOSE – Presidente della Regione e assessori, consiglieri regionali, magistrati e alti ufficiali a libro paga di un “cartello” che decideva chi lavorava, a quanto e quanto dovevano costare le opere pubbliche – fosse successo a Palermo di cosa avremmo parlato? Di mafia. Perché in Veneto no?»”. Infine “occorre comprendere come si muovono le organizzazioni mafiose e utilizzare una chiave di lettura per determinati fatti, partendo dal presupposto che la mafia viene trovata solo se la si sa e la si vuole cercare. Essa non è un soggetto avulso ed esterno alle dinamiche illegali del Triveneto. È parte integrante di un sistema di malaffare diffuso. Non dobbiamo solo chiederci dove sono le mafie ma anche come operano. Sempre il giornalista Ugo Dinello, a proposito del Veneto, ci dice: «Cosa nostra è concentrata principalmente e sempre di più nell’area di Venezia, dove da tempo gestisce enormi capitali nel settore turistico, grazie anche al proficuo lavoro che ha sviluppato con la Mafia del Brenta, nella sua parte ancora attiva e mai toccata dalle indagini, cioè quella imprenditoriale. La Sacra Corona Unita è attiva a Chioggia, ma anche in questo caso non vi sono inchieste in corso. Varie famiglie camorriste sono attive a Padova, Treviso e nel Veneto orientale, specie per quanto riguarda la criminalità finanziaria, le grandi opere e la gestione dei rifiuti. La 'Ndrangheta è invece operativa principalmente a Verona, con le 'ndrine attive in Lombardia ed Emilia, specie nel settore costruzioni, grandi opere, logistica e movimento terra»”. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Per comprenderlo nel libro abbiamo analizzato alcune indagini potendo osservare come sono cambiate le infiltrazioni mafiose nel corso del tempo. A metà degli anni Novanta si scoprì che l'hotel “San Martino” nella zona del Nevegal (Belluno) era riconducibile a Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana e che attorno ad essa gravitavano personaggi assai discutibili, come il faccendiere Flavio Carboni. Quasi quindici anni dopo, nel novembre 2007 sono stati catturati a Palermo Salvatore Lo Piccolo, latitante da 25 anni, e suo figlio Sandro, esponenti di peso di Cosa Nostra. Si è scoperto attraverso alcune intercettazioni che i mafiosi, tramite l'avvocato Marcello Trapani, arrestato anche lui nel 2008, sarebbero stati interessati a investire denaro sporco in Veneto. E per farlo avrebbero voluto servirsi di un imprenditore edile di Piove di Sacco.  Nel gennaio 2015 nell'ambito dell'inchiesta “Aemilia”, tra le decine e decine di arrestati, otto erano residenti in Veneto e qui svolgevano le proprie attività imprenditoriali. “Soffermiamoci, però, su un personaggio che compare nel processo “Aemilia”, Paolo Signifredi, coinvolto in altre due inchieste – quella “Pesci” a Brescia e quella “Kyterion” a Crotone – oggi collaboratore di giustizia, sedicente commercialista di Parma, legato alla 'Ndrangheta. Signifredi, in contatto con Nicolino Grande Aracri, a capo dell'omonima 'ndrina, per conto dell'organizzazione mafiosa calabrese, aveva il compito di rilevare le quote di società in liquidazione per poterne acquisire l'intero patrimonio”. Possiamo osservare che rispetto a vent'anni fa qualcosa è cambiato. Si è evoluta l'operatività delle organizzazioni mafiose nel Nordest e sono aumentate anche le inchieste giudiziarie. Ma se “prima si pensava, erroneamente, a sporadici tentativi di infiltrazione nel tessuto sociale del Triveneto – comunque già allora non impermeabile visto quanto successo con la Mafia del Brenta – per ripulire il denaro sporco, talvolta mediante qualche intermediario o qualche imprenditore oppure un colletto bianco. Oggi assistiamo a un vero e proprio mescolamento, con la presenza in loco di affiliati o di elementi comunque contigui al crimine organizzato anche se formalmente non inseriti in esso. E così oggi nel Nordest molte operazioni antimafia coinvolgono soggetti locali, società e aziende che qui sono attive”. [Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

Le ricchezze dei “re” della monnezza. A cura della redazione di Cosa Vostra il 30 luglio 2019 su La Repubblica. La premessa è che la questione del rapporto mafia-rifiuti in Veneto è ancora quasi tutta da scoprire. Eppure i segnali non sembrano essere proprio dei più positivi. Nel libro “Mafia come M” abbiamo ricordato le due vicende più importanti. La prima riguarda l’avvocato campano Cipriano Chianese, al quale si attribuisce addirittura l’invenzione di questa attività criminale. Chianese, già condannato in primo grado a 20 anni di reclusione per associazione mafiosa, disastro ambientale, avvelenamento delle falde acquifere ed estorsione. Ha avuto un potere che si può definire “tentacolare, ramificato anche al nord Italia tanto da coinvolgere nelle sue attività, tra gli altri, un imprenditore padovano di Santa Giustina in Colle. Franco Caccaro, questo è il suo nome, nell’aprile del 2011 viene inquisito nell'ambito dell'inchiesta "Ferrari come Back". Gli viene sequestrato un capannone della sua azienda specializzata “Tpa Tritarifiuti” e viene anche accusato di essere un prestanome di Chianese. L’imprenditore aveva beneficiato di ingenti somme di denaro da parte del “Re dei rifiuti” – si parla di circa tre milioni di euro, che agli inquirenti aveva giustificato come crediti personali”. “[...] Nel 2016 Caccaro è stato condannato per false fatture e bancarotta fraudolenta a più di quattro anni di carcere. Anche in questa vicenda riscontriamo il modus operandi mafioso, ossia quando l'enorme disponibilità economica, dovuta ai proventi illeciti, viene utilizzata per sostenere le imprese in difficoltà. Cipriano Chianese, in effetti, aveva ricapitalizzato l'azienda di Caccaro, che aveva debiti per 20 milioni di euro, con tre milioni di euro; una mossa apparentemente illogica che sarebbe servita solo alla commissione di reati di natura fiscale a meno che, tra le righe, non volessimo leggere anche il tentativo di un clan camorrista di inserirsi nel tessuto economico della regione, minando la sana concorrenza del mercato. Per di più, in un settore a forte rischio, come quello dei rifiuti”. La seconda vicenda da ricordare è quella del padovano Sandro Rossato. “Il signore in questione, con un curriculum imprenditoriale di tutto rispetto e varie società di rifiuti messe in piedi e operanti tutt'ora in Veneto, anche se non più sotto la sua egida, nel primo decennio del Duemila viene rinviato a giudizio nell'ambito dell'inchiesta “Rifiuti spa” per associazione di stampo mafioso, ma assolto nel 2008. Passa qualche anno e di nuovo nel 2014 Rossato ricompare in un'inchiesta della magistratura di Reggio Calabria. Stesso capo di imputazione: 416bis; stessi affari: rifiuti; stesso partner: 'Ndrangheta. I magistrati reggini hanno evidenziato gli stretti legami tra Rossato e la cosca Alampi, legata alla famiglia 'ndranghetista dei Libri, “a tal punto che Mamone Lauro, definito alter ego di Alampi Matteo, capo indiscusso della cosca mafiosa, era l’amministratore unico della Rossato Sud srl”, con la piena consapevolezza di Rossato. L'inchiesta del 2014 è la prosecuzione di quella del 2006 in cui si era sancita per la prima volta l’esistenza della cosca di matrice ‘ndranghetista facente capo alle famiglie Alampi/Siclari, la quale, con un modus operandi diverso da altre cosche, aveva condotto la sua attività criminale esclusivamente per l'accaparramento e la gestione delle gare di appalto, attraverso la propria impresa-cosca, per assicurarsi risorse pubbliche. In questo contesto emerge il ruolo “strategico” di Rossato, che si attiva e si mette a disposizione dell'associazione mafiosa, la quale non ha bisogno di intimidire o di condizionare dall'esterno l'impresa, ma agisce dall'interno di essa; un salto di qualità criminale enorme, con la compiacenza dell'imprenditore del Nord. Rossato, posto agli arresti domiciliari, è deceduto per cause naturali nel 2015”. Concludiamo questo articolo sottolineando il grave problema dei tantissimi incendi di natura dolosa o dalle cause non chiare, che hanno colpito negli ultimi anni  un numero impressionante di strutture edili, impianti e veicoli, per lo più di imprese dedite alla gestione dei rifiuti o al trasporto. “Se in certi casi si sono esclusi collegamenti con il crimine organizzato di stampo mafioso, la stessa tipologia di azione – ossia l'incendio doloso – richiama alla modalità mafiosa con cui si conducono avvertimenti e minacce”. Tali vicende non possono essere sottovalutate. Infatti sempre più spesso capannoni (dati in affitto o comprati), lautamente assicurati, vengono stipati con carichi di rifiuti tossico-nocivi e poi “prendono” fuoco. Pare che dietro questo fenomeno ci sia la 'Ndrangheta... *Il nome di Rossato, soprannominato “il calabrese”, è tornato di recente alla ribalta grazie all'inchiesta di Fanpage sul compost prodotto dalla società SESA spa, fondata nel 1995 proprio da Rossato. [I virgolettati sono tratti da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

L'ecomafia made in Veneto. A cura della redazione di Cosa Vostra il 31 luglio 2019 su La Repubblica. Nel libro “Mafia come M” abbiamo voluto evidenziare un aspetto assai grave dello smaltimento illecito dei rifiuti, sottolineato anche dalla magistratura inquirente: a commettere reati che riguardano il business dei rifiuti spesso sono gli imprenditori veneti. “La condizione principale dell’esistenza dell’ecomafia è sicuramente la corruzione. Che non per forza deve essere quella che prevede l'accordo segreto tra due soggetti in cambio di denaro o altro ancora; ma anche una corruzione di tipo etico, morale. Come si può, altrimenti, decidere di avvelenare la terra, l'acqua, l'ambiente in cui viviamo e quindi noi, se non si è corrotti dentro? Il gioco criminale che sta dietro ai reati ambientali è un gioco formato da più attori provenienti da vari settori: dalla politica, dall’imprenditoria, dai colletti bianchi, dagli addetti ai lavori, dai mafiosi. È un sistema e molto spesso le organizzazioni criminali di stampo mafioso sono solo parte di ingranaggi già collaudati; prestano il fianco ai professionisti del mestiere”. Per spiegare quanto scritto, basta rileggere alcune delle inchieste giudiziarie che hanno coinvolto imprese del Veneto già negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila come l'operazione “Adelphi” e l'operazione “Cassiopea”, “definita come la madre di tutte le indagini riguardanti il traffico illecito di rifiuti speciali per una serie di motivi – dal numero dei soggetti inquisiti alle aree regionali interessate, dalle strategie dei traffici illeciti alla stessa durata dell'inchiesta – che si fa luce sul binomio tra imprenditori del Nord e organizzazioni di stampo mafioso”. Ma questa imponente indagine si è conclusa con un classico italiano: impunità, grazie alla prescrizione. “Con “Cassiopea”, in effetti, ci si era concentrati più sulla sfera imprenditoriale e quindi sulla “catena” di imprese normali che si occupavano di rifiuti, ma a cui ugualmente la magistratura aveva contestato anche il reato di associazione di stampo mafioso, come pure quello di associazione a delinquere semplice, di disastro ambientale, di getto pericoloso di cose, di realizzazione e gestione di discariche abusive e di una serie di reati “meno” gravi rispetto a quelli appena elencati, come truffa e abuso d'ufficio. Tutto in prescrizione. Tutto finito nel 2011. Intere zone e città compromesse, inquinate da colpevoli senza nomi. Da fantasmi, a conti fatti”. “Ancora altre inchieste degli anni Duemila, come “Murgia violata” e “Houdini” – quest'ultima riguardante la società “Nuova Esa s.r.l.” di Marcon che insieme alla “Servizi Costieri” si occupava dei rifiuti di Marghera – descrivevano le rotte che dal Nordest facevano confluire illegalmente la “munnezza” nel Meridione, in Puglia, in Molise o in Calabria. Sono le parole di Antonio Menga, allora Comandante del Gruppo Roma tutela ambiente, a chiarire la centralità del Veneto nel sistema criminale: “Nell'indagine di Venezia [“Houdini” ndr.] abbiamo rilevato una particolarità: per la prima volta (anche se già durante le attività pregresse era emerso il problema delle bonifiche) c'era proprio il coinvolgimento diretto dei titolari della società che svolgeva attività di smaltimento di rifiuti – il centro di stoccaggio –, che erano allo stesso tempo titolari di una società che svolgeva attività di bonifica. Quindi, questi stessi soggetti acquisivano a prezzi stracciati le terre e le rocce provenienti dalle bonifiche, sapendo benissimo che avrebbero speso anche molto poco per lo smaltimento successivo [...]”. In concreto, i rifiuti giungevano all’impianto della “Nuova Esa” da tutte le regioni italiane ed erano destinati a proseguire senza alcun trattamento – anzi, miscelando rifiuti speciali pericolosi, rendendone impossibile l’identificazione – verso altre regioni. Il fine, ovviamente, era quello di conseguire cospicui profitti attraverso l’abbattimento dei costi di smaltimento dei rifiuti”. In tempi più recenti, a Zero Branco, Treviso, è stata indagata la “Mestrinaro s.p.a.”. “Secondo gli organi inquirenti, all'inizio del secondo decennio del Duemila, i titolari dell'azienda, i tre fratelli Mestrinaro, “cedevano, ricevevano, trasportavano, smaltivano e, comunque, gestivano abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti (quantificabili in decine di migliaia di tonnellate), allo scopo di conseguire i risparmi di spesa correlati all’abbattimento dei costi da sostenere per il regolare recupero/smaltimento dei rifiuti”. In particolare i Mestrinaro avrebbero impastato e mescolato in maniera grossolana e approssimativa i rifiuti, alcuni per giunta inidonei a tale trattamento, di fatto non inertizzandoli; poi i prodotti ottenuti sarebbero stati declassificati in maniera illecita in materie prime secondarie per l'utilizzo in cantieri e opere edili, anche al di fuori del Veneto, con grave pericolo per l’ambiente. Infatti, tali materiali forniti con la qualifica di “Rilcem” per i sottofondi stradali, rilasciano nel suolo sostanze inquinanti e, di fatto, è assai complicato se non impossibile la loro completa asportazione”. Nella vicenda Mestrinaro compare la figura dell'ingegnere Fabio Fior, dirigente della Regione Veneto, settore ambiente. “Fior aveva ricevuto l'incarico del collaudo dell'impianto ma non avrebbe potuto svolgere tale lavoro poiché, in virtù del ruolo pubblico ricoperto, aveva approvato lo stesso progetto per la realizzazione dell'impianto dei Mestrianaro per trattare i rifiuti speciali e aveva dato parere positivo di compatibilità ambientale. In altre parole, c'era un palese conflitto di interessi poiché, in concreto, è risultato che il controllore controllava se stesso”. “Fabio Fior non è un personaggio di secondo piano; è stato dirigente generale presso la direzione tutela ambiente della regione Veneto, dal 2002 al 2010; vicepresidente della Commissione regionale di valutazione di impatto ambientale (VIA), dal 2002 al 2005; vicepresidente della Commissione tecnica regionale per l’ambiente (CTRA), dal 2002 fino al 2010; dirigente preposto all’unità di progetto energia presso la sezione energia, dal 2010 fino al 2014. Nonostante il ruolo di dirigente pubblico svolto, Fior, secondo gli organi inquirenti che lo hanno indagato, ha “operato come socio occulto di una serie di società, che facevano capo a lui, abusando delle sue funzioni”. Un giro di malaffare organizzato, in un clima di omertà diffusa, perché Fior, ad una serie di aziende operanti nel settore rifiuti, a lui riconducibili e di cui lui era il “dominus” incontrastato, procurava l’affidamento di incarichi per programmi di attuazione, di monitoraggio e di controllo; svolgendo, per di più, questa attività imprenditoriale «in concorrenza sleale con gli operatori del settore e, addirittura, dirottando verso le società anzidette quota parte di finanziamenti e contributi pubblici nel settore ambientale»”. La Commissione Bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti della scorsa legislatura ha evidenziato “un dettaglio non di poco conto: «Fior ha operato impunemente per circa quindici anni, grazie alle “coperture” di assessori e di funzionari della regione Veneto, alcune disvelate dalle indagini della procura della Repubblica in Venezia, altre rimaste in sottofondo”; senza dimenticare il grave danno economico (concernente i tanti soldi pubblici a lui destinati) recato a tutti noi»”. [Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” - Linea Edizioni, 2019]

·         La mafia nigeriana.

La mafia nigeriana. Attilio Bolzoni e Alessia Pacini su La Repubblica il 13 ottobre 2019. Sarà come dicono gli esperti “una delle mafie più potenti del mondo” ma in realtà qui in Italia sappiamo ancora ben poco. Ogni tanto ne sentiamo parlare, leggiamo qualche articolo, ascoltiamo un'intervista fatta a Brescia o a Castel Volturno. Ma per avere un'idea un po' più precisa di cosa sia veramente quella mafia bisogna prendere in mano un testo appena arrivato in libreria. Così, finalmente, scopriremo ancora qualcosa su quella che la Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, definisce “la mafia straniera più feroce e strutturata in Italia”. Questa serie del Blog lo dedichiamo a “Mafia Nigeriana, la prima indagine della squadra antitratta” (Citta Nuova edizioni), libro firmato dal giornalista e scrittore Sergio Nazzaro che in 135 pagine ripercorre le fasi di un'inchiesta poliziesca e giudiziaria ma soprattutto ci spiega cos'è la mafia nigeriana, come è nata, come si è diffusa anche nel nostro Paese. Ne pubbliciano per una dozzina di giorni alcuni estratti. Racconto che parte dalle indagini di Fabrizio Lotito, commissario della Polizia Locale di Torino e della sua “sporca dozzina”, gli agenti della squadra antitratta. Tutto comincia negli Anni Novanta, migliaia di donne sfruttate provenienti dall'Est europeo, poi "cambia solo il colore della pelle”, le nigeriane. Tutto comincia anche quando la squadra scopre e inchioda un'armata criminale con moltissimi affiliati, in realtà sono due organizzazioni denominate Maphite ed Eye, trafficano in stupefacenti e controllano il racket della prostituzione. Il libro poi ci fa conoscere “dal di dentro” questa mafia, intercettazioni che svelano riti e cariche, strutture, collegamenti internazionali («La “famiglia” è registrata in tutto il mondo, siamo in Canada, Regno Unito, anche in Nigeria, Asia, Malesia, Ghana») associazioni apparentemente legali come copertura di quelle segrete. Un mondo fino a qualche tempo fa inesplorato e rivelato con analisi e studi approfonditi. O, per dirla con le parole che Sergio Nazzaro affida al commissario Lotito: «Bisogna essere specializzati, solo così si può affrontare un problema e venirne a capo per davvero. Se non si è specializzati non si comprendono le evoluzioni dei fenomeni».

(Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Asia Rubbo, Valentina Nicole Savino e Francesco Trotta)

A Macerata la mafia nigeriana ha messo le radici. La città marchigiana, dicono i magistrati, è centrale per le "cosche nere". Eppure nessuno, soprattutto la sinistra, se ne occupa. Panorama il 23 dicembre 2019. Con tutte le mafie sono uguali per la sinistra. Se nel milieu giudiziario, politico e giornalistico progressista si sono costruite importanti carriere occupandosi di Cosa nostra, di camorra e di ’ndrangheta, quelli che per Leonardo Sciascia erano i professionisti dell’antimafia esercitano un altrettanto robusto impegno negazionista sulla mafia nigeriana. Eppure il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, appena 20 giorni fa in un’audizione parlamentare l’ha definita «l’organizzazione criminale attualmente più potente in Europa in forza della tratta di esseri umani e dello spaccio di droga». Per Cafiero De Raho «ha ormai articolazioni presenti in quasi tutte le regioni d’Italia e in quasi tutta Europa». Ma c’è una regione dove proprio la mafia nigeriana non deve esserci: le Marche e in particolare Macerata. Il motivo? Esclusivamente politico e legato a una vicenda che ha scosso il mondo intero: l’uccisione di Pamela Mastropietro, la ragazza romana massacrata dal nigeriano Innocent Oseghale, che dopo averla stuprata e uccisa ne fece a pezzi il corpo, poi ritrovato in due trolley abbandonati in una strada di periferia, il 31 gennaio del 2018. Pochi giorni dopo Luca Traini compì un raid per le strade di Macerata sparando contro persone di colore: ne ferì sei, tre furono in seguito arrestate per spaccio. Traini sta scontando 12 anni per l’accusa di strage, su di lui l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro ha scritto un libro, L’Uomo Bianco. Ma su Pamela Mastropietro nessun maître à penser si è esercitato. Nessuno che abbia risposto alle cento domande poste dall’avvocato di parte civile Marco Valerio Verni, lo zio della povera ragazza, che si risolvono in un’affermazione: Pamela è vittima della mafia nigeriana. Ma il procuratore di capo di Macerata Giovanni Giorgio ha sempre negato questa eventualità. Oseghale è un cane sciolto: ha preso l’ergastolo e il caso è chiuso. Ma le cose stanno davvero così? Una settimana fa, all’arrivo di Giorgia Meloni a Macerata, un gruppetto di contestatori l’ha accolta con cartelli di scherno: «Un soldino per la droga, uno per la mafia nigeriana». A Macerata, la sinistra non riesce a mandar giù l’idea che questa città sia stata elevata a cattedrale delle «cosche nere». Dopo il delitto di Pamela, la Lega è passata da 4 al 38 per cento e Oseghale ha fatto saltare il banco dell’accoglienza che aveva consentito al Gus di Macerata - una onlus di sinistra che ha ancora conti aperti con la giustizia per presunte evasioni fiscali milionarie e ha ora licenziato metà dei suoi 400 dipendenti - di passare in cinque anni da due a oltre 40 milioni di fatturato. Eppure lo stesso procuratore Giovanni Giorgio ha elogiato il lavoro del questore Antonio Pignataro che in meno di due anni - è stato spedito a Macerata dopo il delitto Mastropietro - ha arginato il fiume di droga che passava dai Giardini Diaz in centro città. Ha sequestrato quasi cinque quintali di stupefacenti e operato centinaia di arresti nell’Hotel House, un condominio a Porto Recanati dove vivono oltre tremila persone di 34 etnie diverse, e dove è stato anche trovato un cimitero clandestino. Pignataro sostiene che lo spaccio è organizzato, ma guai a chiamare tutto ciò mafia. Eppure Cafiero De Raho insiste: «Sta emergendo l’ipotesi di una struttura verticistica unitaria che opera al di sopra dei diversi gruppi criminali nigeriani e coordina il traffico di droga e di clandestini». Insomma è mafia. E appena una settimana fa un’indagine partita dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari ha dimostrato che le Marche sono un crocevia della malavita nigeriana. A Bari sono comparsi due culti - i Supreme Vikings Confraternity Arobaga e Supreme Eyie Confraternity - che avevano base operativa nel centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Palese e nel quartiere Libertà. È accertato che facevano riti vudù e iniziazioni rituali con sangue umano, tagli sul corpo praticati dal santone e che esistevano ordini gerarchici. Ebbene, dei 32 arresti operati in otto regioni italiane e in quattro Stati europei su ordine di cattura del pool costituito dalle pm Simona Filoni e Lidia Giorgio, con il procuratore Giuseppe Volpe e l’aggiunto Francesco Giannella, uno è stato eseguito ad Ancona: è il nigeriano God Parawa Agedu, 29 anni, ritenuto il capo di una delle due «cosche», con il suo quartier generale a Falconara. Anche un’altra procura si è mossa nelle Marche: la Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila. Tra Teramo, Ascoli, Fermo e Macerata sono stati fermati nove nigeriani (cinque uomini e quattro donne). Gli inquirenti abruzzesi sono convinti di aver messo le mani su una cosca che, con riti vudù e altre violenze, faceva prostituire ragazze reclutate in Libia e fatte arrivare da clandestine in Italia, ma aveva anche compiuto il salto nella finanza. In meno di un mese son stati spediti, in oltre cento voli tra Pescara, Ancona e la Nigeria, più di sette milioni e mezzo di euro: la conferma che sulla sponda adriatica ha preso piede la «awala», un sistema di trasferimento fiduciario illegale di denaro. Gli inquirenti sospettano che la mafia nigeriana stia infiltrando anche l’economia legale. Il pentito di ’ndrangheta Vincenzo Marino lo aveva anticipato al processo Mastropietro: Oseghale gli avrebbe confidato di essere affiliato alla mafia e di dover reinvestire i soldi della droga in case dove far prostituire le nigeriane. Ma di questa deposizione non si è saputo più nulla, così come di un furto di due computer denunciato da Daniel Amanze, nigeriano che da oltre 25 anni vive a Macerata. I computer sono spariti nei giorni caldi di Traini dalla sede della sua Acsim, una onlus (finita anch’essa nel mirino del fisco come il Gus) che si occupa dell’accoglienza di nigeriani. Cosa c’era in quei computer? Nessuno lo sa. E nessuno ha prestato attenzione a un rapporto della Digos steso il 10 agosto 2016, subito dopo i funerali di Emmanuel Chidi Namdi. Il giovane nigeriano morì dopo una rissa con Amedeo Mancini che ha patteggiato quattro anni. Ai funerali c’erano Laura Boldrini, Maria Elena Boschi (allora ministro), David Sassoli (attuale presidente del Parlamento europeo) e Cécile Kyenge per il Pd. La Digos scrive che in Duomo, a pochi banchi dal governo italiano, «c’erano affiliati alla mafia nigeriana che rendevano omaggio al loro adepto».  Ma a quel report non c’è stato seguito, così come alle dichiarazioni di Marino. Perché quando parla di ’ndrangheta consentendo al magistrato Nicola Gratteri di concludere importanti blitz, è ritenuto credibilissimo, ma se parla dei nigeriani rischia un’incriminazione per falso. Le mafie non sono tutte uguali.   

Mafia nigeriana, da Bari oltre 30 arresti in Italia e all'estero: la base era il Cara.  L'inchiesta della Dda di Bari ha interessato diverse regioni, Arresti anche in Germania, Francia, Olanda e Malta. La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Dicembre 2019. La Squadra Mobile di Bari ha eseguito nelle prime ore della mattinata odierna in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria, Marche, Basilicata, Lazio, Emilia Romagna, Veneto ed all’estero, grazie al coordinamento del Servizio Centrale Operativo sul territorio nazionale ed alle attività di cooperazione internazionale condotte dalla Divisione Interpol in Germania, Francia, Olanda e Malta, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Bari su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, a carico di 32 persone di nazionalità nigeriana, ritenute responsabili, con vari ruoli, di associazione mafiosa finalizzata al favoreggiamento della immigrazione clandestina, alla tratta di esseri umani, alla riduzione in schiavitù, alle estorsioni, alle rapine, alle lesioni personali, alla violenza sessuale, all’uso di armi bianche ed allo sfruttamento della prostituzione e dell’accattonaggio. In totale sono indagate 50 persone. Si tratta della operazione in materia di mafia nigeriana con il più alto numero di arrestati in Italia. L’attività è eseguita dai poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Bari, con la collaborazione degli omologhi uffici investigativi provinciali ed il coordinamento del Servizio Centrale Operativo. Con la collaborazione della Divisione Interpol del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, alcuni degli indagati sono stati rintracciati e catturati in Germania, Francia, Olanda e Malta.

IL QUARTIER GENERALE AL CARA DI PALESE. Era dal Cara di Bari-Palese (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) e poi dal quartiere Libertà dove si erano stabiliti, che gli appartenenti alle gang nigeriane arrestati oggi dalla polizia controllavano i traffici illeciti in città e in provincia. L’indagine, coordinata dalle pm della Dda di Bari Simona Filoni e Lidia Giorgio, ha accertato che diversi episodi di aggressioni avvenuti negli ultimi anni all’interno del centro di accoglienza, violenza sessuale su connazionali, risse e accoltellamenti, sarebbero riconducibili alle attività delle gang, ritenute vere e proprie associazioni per delinquere di stampo mafioso con suddivisione gerarchica dei ruoli, rituali di affiliazione, ricorso alla violenza e alla intimidazione. Tra le principali fonti di guadagno dei gruppi criminali nigeriani presenti a Bari e documentate in questa inchiesta ci sono lo sfruttamento della prostituzione e l’accattonaggio davanti ai supermercati. Gli arrestati sono tutti accusati di aver fatto parte, insieme a numerose altre persone non identificate, di due distinte associazioni a delinquere di stampo mafioso, di natura cultista, operanti nella provincia di Bari quali cellule autonome delle fratellanze internazionali denominate “Supreme Vikings Confraternity - Arobaga” e “Supreme Eiye Confraternity”, che hanno agito per lungo tempo allo scopo di ottenere il predominio sul territorio barese e di gestire i propri affari illeciti.

LE INDAGINI DOPO LA DENUNCIA TRE ANNI FA. Le indagini della Squadra Mobile barese hanno preso avvio dalle denunce sporte, sul finire del 2016, da due cittadini nigeriani ospiti del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Bari, i quali hanno dichiarato di esser stati vittima di pestaggi, rapine e ripetuti tentativi di condizionamento per esser ‘arruolati’ tra le fila di un gruppo malavitoso che stava espandendo la sua influenza all’interno del Centro, poi scoperto essere quello dei c.d. “Vikings”. I dettagli contenuti nelle denunce permettevano di comprendere che molte delle violenze commesse dagli ospiti nigeriani del C.A.R.A. nei mesi successivi non erano casi isolati, ma si inserivano in un contesto di scontri tra le due principali gang criminali ivi presenti, quella dei “Vikings” e quella degli “Eyie”, la prima più numerosa e più violenta della seconda. Entrambe reclutavano nuovi adepti attraverso cruenti riti di iniziazione consistenti in ‘prove di coraggio’, per tentare di prevalere l’una sull’altra e commettevano violenze, rappresaglie e punizioni fisiche (il c.d. ‘Drill’, che ha dato il nome alla odierna operazione di polizia). I due raggruppamenti si sono connotati per la solidità del vincolo associativo, la programmazione di reati fine di varia natura e per un capillare e costante controllo da parte dei ‘capi’ per il rispetto dei ruoli e delle regole, con l’applicazione di cruenti metodi punitivi ogni qualvolta si rendesse necessario per ristabilire gli equilibri compromessi. I due gruppi hanno dimostrato di possedere una struttura rudimentale quanto ai mezzi adoperati, ma solidissima dal punto di vista della ideologia, della organizzazione e dei reati da perseguire, senza cercare in alcun modo aderenze con le mafie locali (dando prova, quanto allo sfruttamento della prostituzione, di supremazia anche nei confronti delle bande composte da albanesi e rumeni).

LE DONNE ERANO "INFERIORI". Si sono registrati casi di inaudita violenza nei confronti di coloro che non accettavano di aderire alle confraternite o che non ne rispettavano le regole. Le vittime hanno raccontato agli investigatori di veri e propri pestaggi, frustate, pugni, calci e bastonate con l’utilizzo di spranghe, mazze e cocci di bottiglia. Nei confronti delle donne nigeriane, in particolare, è emersa anche la vessazione psicologica riservata ad un ceto ritenuto inferiore, buono solo a soddisfare le esigenze sessuali della comunità maschile e, soprattutto, a produrre denaro attraverso lo sfruttamento della prostituzione; in tal senso è risultata, ad esempio, emblematica la figura delle c.d. “blu queen”, donne considerate una merce di proprietà esclusiva del gruppo degli “Eyie” dopo essersi sessualmente concesse ai capi e destinate a gestire, per loro conto, le giovani prostitute fatte entrare nel C.A.R.A. Una delle principali attività illecite condotte dalle associazioni mafiose in questione è stata proprio quella dello sfruttamento della prostituzione. Si ricorda, ad esempio, il caso della tratta e riduzione in schiavitù di una donna nigeriana gestito da uno degli indagati, VICTOR Sunday il quale, dopo averla accompagnata su una delle tante imbarcazioni di clandestini che giungono in Italia dalla Libia ed averla fatta entrare abusivamente nel C.A.R.A, le ha imposto di prostituirsi e consegnare i ricavi al gruppo; alla sua ribellione, la donna è stata punita con ripetute violenze fisiche, sino ad arrivare ad accendere il focolaio di una vera e propria rissa tra bande il 22 marzo 2017. Insieme a lei, veniva punito anche il compagno. Si sono registrati numerosi casi analoghi durante le indagini. I servizi di intercettazione telefonica ed i riscontri sul territorio hanno accertato che uno dei principali interessi delle bande criminali era quello di fare entrare clandestinamente le connazionali nel Centro di accoglienza e farle prostituire e se, in una fase iniziale, si è notato che tale pratica veniva gestita solo all’interno del C.A.R.A, in un secondo momento si è compreso che i malviventi fornivano prostitute a clienti anche al di fuori della Struttura, per le strade o nelle abitazioni cittadine. A tal fine, infatti, gli appartenenti ai gruppi di derivazione cultista “ Vikings” e gli “Eiye” si sono estesi arrivando ad occupare immobili in questo centro, adibiti al meretricio, nonché le strade sulle quali collocare le giovani vittime da fare prostituire. Si è verificato, inoltre, un ‘asservimento’ delle “maman” nigeriane che operano a livello locale alle richieste delle due gangs relative alla necessità di dover “piazzare” ragazze in strada per farle prostituire.

LE ELEMOSINE DAVANTI AI SUPERMERCATI. Altra attività delinquenziale portata avanti dalle due associazioni è stata quella dello sfruttamento dei nigeriani che mendicano davanti ai supermercati ed altri esercizi commerciali di Bari e provincia. Anche in questo caso, i servizi di intercettazione telefonica hanno delineato uno spaccato di vita e di criminalità all’interno della comunità nigeriana ben chiaro, peraltro confortato anche dalle parole delle vittime che hanno confermato agli investigatori la sottomissione al pagamento del "pizzo" sui loro miseri ricavi, con consegna di denaro agli esponenti delle gangs o con ricariche telefoniche sulle utenze di costoro. Le indagini della Polizia, coordinate dalla DDA di Bari, hanno fatto luce sia sul fenomeno associativo nel suo complesso, sia sui singoli e gravi fatti che hanno afflitto il territorio barese negli ultimi anni determinando anche un notevole allarme sociale e pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica. Gli episodi che hanno destato un gravissimo allarme sociale sono stati dapprima trattati singolarmente. La loro comprensione ed il loro inserimento in un più complesso ed articolato quadro, sono stati possibili soltanto grazie alla creazione di una squadra di investigatori dedita alla osservazione del fenomeno. L’accoltellamento di una donna nigeriana nel gennaio 2017, la già citata rissa del 22 marzo 2017 con gravi ferimenti di alcuni dei partecipanti, un altro scontro all’interno del C.A.R.A. dell’8 maggio 2017, in cui perse la vita uno dei nigeriani corrissanti appartenente alla compagine dei “Vikings”, ed ancora una rissa nell’agosto dello stesso anno per le strade del quartiere Libertà ed uno stupro di gruppo commesso all’interno del C.A.R.A. ai danni di una ragazza nigeriana nel mese di marzo 2017, sono solo alcuni dei violenti episodi che si sono verificati nel Capoluogo e che hanno caratterizzato il perdurante contrasto tra i due gruppi criminali. Fra l’altro, i dati pian piano acquisiti alle indagini si sono dimostrati perfettamente sovrapponibili agli esiti investigativi che, nel frattempo, molte altre Squadre Mobili in Italia hanno sviluppato in quel periodo, a conferma del fatto che la mafia nigeriana si è radicata i molte zone del territorio nazionale (dal Veneto alla Sicilia, dal Piemonte alla Campania, dalle Marche alla Puglia) con numerosi insediamenti di cellule di ispirazione cultista, tutte votate a perseguire i medesimi obiettivi delinquenziali e tutte operanti secondo le classiche metodologie mafiose improntate alla violenza, all’assoggettamento e all’omertà.

NEL 2011 L'ALLARME DELL'AMBASCIATA. Già nel 2011 l’Ambasciata Nigeriana a Roma emanava una nota in cui si leggeva “ nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete, proibite dal governo a causa di atti violenti: purtroppo ex membri sono riusciti ad entrare in Italia e hanno fondato nuovamente l’organizzazione qui, principalmente con scopi criminali”. La voluminosa informativa di reato depositata dalla Squadra Mobile alla Procura della Repubblica nell’aprile del 2019, nella quale sono state individuate responsabilità a vario titolo di ben 50 cittadini nigeriani per i reati sopra descritti, ha ben evidenziato le forme organizzative delle due associazioni criminali. Le gangs in esame – inquadrate nel più ampio scenario internazionale delle confraternite universitarie sorte in Nigeria agli inizi degli anni ’50 per contrastare una Università di élite frequentata solo da studenti facoltosi, legati al mondo coloniale – erano volte a favorire gli studenti poveri promettenti, per poi, negli anni ’70/’80, essere finanziate ed armate dai leader militari. Esse sono strutturate in forma verticistica e militare, e traggono la loro forza dall’intimidazione, dalla violenza e dall’assoggettamento omertoso inculcato nelle vittime; si caratterizzano, al pari delle mafie nostrane, per i rituali di affiliazione – paragonabili a vere e proprie prove di forza difficilmente superabili, in quanto basate su primitive pratiche di sofferenza corporale – per l’utilizzo di codici interni e di vocaboli pregni di un simbolismo pressoché incomprensibile, e per una rigida suddivisione dei ruoli, così da risultare impenetrabili ed altamente efficienti.

OLTRE 74 MILIONI DI EURO IN PARTENZA DALL'ITALIA. La presenza delle gang nigeriane in forma associativa costituisce una realtà sempre più diffusa sul territorio nazionale, sebbene la loro esistenza ed operatività sia di difficile accertamento. Basti pensare alla crescita esponenziale dei flussi di denaro dall’Italia verso la Nigeria rilevatasi nel corso degli ultimi anni: soltanto nell’anno 2018, le rimesse di denaro dall’Italia alla Nigeria, come rilevato dalla Banca d’Italia, sono state pari a 74,79 milioni di euro, corrispondenti al doppio di quelle dell’anno 2016. E ciò sul dato di una popolazione nigeriana presente in Italia stimato, alla data del 30.06.2019, in circa 105 mila presenze, in prevalenza uomini e senza contare che la comunità dei nigeriani ha in Italia il più basso tasso di occupazione ( 45,1% in confronto al 59,1% dei non comunitari ) ed il più alto tasso di disoccupazione (34,2% contro il 14,9 dei non comunitari).

E’ in costante aumento, tra l’altro, anche il numero di donne nigeriane sbarcate in Italia: basti pensare che nel 2013 sono sbarcate nel nostro paese n.433 giovani donne nigeriane, fino ad arrivare, soltanto a metà dell’anno 2017, a più di 5000 unità.

Bari, dalla punizione «drill» alle cellule «nest»: il codice dei mafiosi nigeriani. La Gazzetta del mezzogiorno il  03 Dicembre 2019. Quello che ne è emerso è stato, in estrema sintesi, il quadro di uno ‘Stato dentro lo Stato’, fatto di proprie regole e totalmente incurante delle leggi, ma anche di molte basilari norme di convivenza civile. È uno spaccato che emerge dal blitz di Polizia e Dda contro due organizzazioni mafiose nigeriane smantellate oggi con decine di arresti in Italia e all'estero. Una delle due «confraternite» finite al centro dell'indagine - si legge nella nota degli investigatori - si è vantata di una fitta presenza sul territorio italiano, diviso, secondo le parole dei protagonisti, in “13 nest” (cellule operative), oggetto di intercettazioni telefoniche e ambientali:“… Eh ... perchè adesso è diventato un solo comando ... perchè i "world aviary" hanno già detto ... e hanno fatto in Edo State ... loro vogliono che ci siano 13 "nest" in Italia..”

Il linguaggio degli associati, dai capi ai semplici partecipi, è stato indicativo di un forte senso di appartenenza militante riferita ad un gruppo associativo: “… no ... da quel giorno che sono andato via da Bari, non sono più tornato ... non posso venire a Bari senza chiamarti ... e adesso che ho una casa ... e ho tutto ... e adesso che voglio far navigare nuovamente la "ship" a Bari, posso tornare a Bari in qualsiasi week-end ..” -

Anche il ritualismo di iniziazione (battesimo) è stato descritto dalle parole degli associati, ad esempio, con particolare drammaticità, il momento in cui un candidato non superava la prova di forza prevista: “… stava succedendo questo H.F. ha cominciato ad avere i dubbi e forse non ce la fa a superare questo fatto, ha cominciato a sanguinare, H.F. ha cominciato a piangere, ha cominciato a fare cose strane, da lì tu hai detto che tipo di persona hanno portato, sta piangendo … tu hai detto che il ragazzo deve andare via, che loro devono dire al ragazzo che deve andare via …” -

Ed ancora, carico di soggezione si è dimostrato il rapporto tra i mendicanti ed i capi delle organizzazioni che pretendevano da loro la tangente sui ricavi delle elemosine davanti ai supermercati; i poveri mendicanti chiamavano “Signori” i loro estorsori. Ma l’elemento più caratterizzante della metodologia mafiosa è rappresentato dal potere sanzionatorio, che impone una punizione (drill) a chi non si adegua alle regole dell’associazione, cioè non ne entra a far parte quando richiesto, non si impegna a pagare la periodica retta di appartenenza, non si prostituisce e, in generale, non rispetta le direttive dei capi: “… mi ha detto che il suo ID si è lamentato perchè se non si riusciva a fare "drill" a Ifa nel campo tu dovevi farglielo sapere ... perchè Ifa ogni domenica viene in città ... e lui può dare ordine di far prendere Ifa ... può parlare di questo fatto.. e fare "drill" a lui ....” - “… questa notte gli taglierò le orecchie a quel "Junior" ... si comporta male ... gli farò "drill" ... tu non preoccuparti ... sappiamo quello che gli faremo …” - “...  Aro, stai zitto! ... sto ancora parlando con lui ... stai zitto ... stai zitto ... ma che cosa stai dicendo? ... ma cosa gli sta prendendo a questo german (cioè ‘fratello’, appartenente al gruppo criminale)? ... se vieni vicino a me ti metto sotto e ti faccio "drill" per quello che stai dicendo ... Aro non mi nascondo ... Aro non ho paura e questo non posso nasconderlo ... se vieni qui ti metto sotto e faccio "drill" ...” - “non lo picchiare ... Eiye non picchia ... tu hai detto di essere "old set" ... ci sarà "drilling" ... bisogna osservare il protocollo per forza...” - “eh... tu aspetta che veniamo... se sbaglia noi facciamo "drill" a lui... lui sa come funziona a casa ... e così funziona anche qui... invece di gridare con lui tu lascialo perdere... quando io esco lo chiamiamo... quando una persona sbaglia bisogna ...” -

Dall'Africa all'Italia. Sergio Nazzaro il 13 ottobre 2019 su La Repubblica. Sergio Nazzaro - giornalista e scrittore è autore di "Mafia Nigeriana, la prima indagine della squadra antitratta”, Editore Città Nuova. Castel Volturno è l’avamposto e centro di insediamento della mafia nigeriana. È nell’anno 2000 che il Commissariato della città del litorale campano porta a compimento l’operazione Restore freedom. Per la prima volta s’indaga per i reati di 416bis. Quell’informativa stilata, nel cuore nero dell’Italia, Castel Volturno appunto, rimane il modello cui fanno riferimento la Polizia di Stato e la magistratura inquirente, per molti anni. Per la prima volta si ipotizzano reati di mafia per gruppi criminali nigeriani. Allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di droga vanno ad aggiungersi altri reati quali la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Castel Volturno viene individuato quale base della mafia nigeriana, le cui ramificazioni arrivano nel nord Italia. L’attività della polizia recupera un ritardo di almeno vent’anni nello studio e nella comprensione del fenomeno. Eppure, il 24 aprile 1990, c’era già stata la strage di Pescopagano, in cui erano morte cinque persone e ne erano rimaste ferite sette. Il clan La Torre di Mondragone non aveva tollerato lo spaccio di droga nel proprio territorio da parte di una banda straniera. Stranieri e italiani in egual misura. Spacciatori e innocenti finiti in un’unica mattanza. Cadono sotto i colpi di pistola Haroub Saidi Ally, Ally Kha- lifan Khanshi e Hamdy Salim, tanzaniani. Trasportati in ospedale, la polizia gli troverà addosso diverse confezioni di eroina. Completamente estranei alla vicenda, invece, Naj Man Fiugy, iraniano, che voleva solo bere una birra, e Alfonso Romano. Ironia della sorte, solo un mese prima, Romano, intervistato dalla trasmissione Samarcanda, aveva parlato dell’assenza di sicurezza a Mondragone, puntando il dito contro gli immigrati piuttosto che contro i camorristi che compiranno la strage. Un altro innocente rimasto vittima della mattanza è il figlio del gestore del bar in cui è avvenuta strage. Rimane ferito alla spina dorsale, rimarrà paralizzato a vita. Tra i feriti tre tunisini di 19, 20 e 31 anni e un turco di 27 anni. Aprile del 1990: tanzaniani, iraniani, tunisini, marocchini, turchi, egiziani. Ci sono tutti al sud. Ma le lancette del tempo devono scorrere all’indietro: il 5 dicembre del 1986 un ghanese viene ucciso a colpi di pistola sulla Domiziana. Il 25 ottobre del 1986 viene ferito a colpi di arma da fuoco Stefan Mustafà Dia. I killer della camorra lo sorprendono a Castel Volturno. In ospedale, la polizia gli trova quasi venti milioni di lire addosso. La comunità africana sta entrando in un nuovo affare, quello della droga, i primi che se ne rendono conto sono i poliziotti di Castel Volturno, che oggi sono quelli che meno si meravigliano della mafia nigeriana. Ecco che trenta anni fa una nuova geografia delle migrazioni prendeva forma nel sud da una strage di camorra in guerra per il territorio dello spaccio. Ma non è tutto. Il 18 settembre del 2008 sarà ancora una volta strage: sette morti, tutti di origine ghanese. Nessuno implicato in attività criminali. Setola, l’autista dei boss casalesi che si autoproclama boss, compie una strage nella sartoria Ob Ob Exotic Fashion che dista pochi chilometri da Pescopagano: è sempre il litorale Domizio, dimenticato e dimentico. In queste terre, dove il cemento abusivo arriva fin dentro la spiaggia, il fenomeno della mafia nigeriana prende forma e potere. Sono in migliaia a essere sfruttati nelle campagne. Qualcuno diventa ovulatore, cioè ingoia di bustine di droga, vola alla destinazione assegnata (non si va assolutamente su un barcone con un carico prezioso di droga) e defeca la droga prima che le bustine si rompano e si muoia. Pochi tra loro comandano, ma sempre e devotamente sono sottomessi ai bianchi, perché le mafie italiane non cedono un centimetro del loro territorio e mai lo faranno. Moltissimi gli arresti con annessa radiografia, perché solo così si possono scovare gli ovulatori, guardando nelle loro viscere si espande sempre di più il mercato della droga, oltre a quello della prostituzione, alimentato solo e comunque dall’uomo bianco.

Schiavismo e riti vudù. Sergio Nazzaro su La Repubblica il il 17 ottobre 2019. Sergio Nazzaro è l'autore di “Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova”. A seguito delle indagini della Polizia di Stato del commissariato di Castel Volturno, la DIA di Napoli ha contestato per la prima volta il reato di associazione mafiosa a un’organizzazione criminale straniera operante sul territorio nazionale. Aveva una base operativa anche a Modena l’organizzazione di immigrati ghanesi e nigeriani che gestiva la tratta di giovani connazionali per poi avviarle alla prostituzione. Per la prima volta, nell’ambito dello sfruttamento della prostituzione e dei reati connessi, la magistratura ha applicato il 416 bis, il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Come copertura, l’organizzazione creava associazioni che erano, sulla carta, di tipo culturale (Sweet Mother, Supreme Ladies Association e Great Binis Association), ma che servivano in realtà per gestire il traffico delle ragazze. Dalle indagini della magistratura antimafia partenopea è emerso lo spaccato di uno spietato mercato di schiave che aveva la sua base operativa tra Castel Volturno e Casal di Principe, fino a Baia Domizia. Vittime anche ragazze minorenni, che venivano acquistate direttamente in Africa. Il contatto con le famiglie avveniva attraverso insospettabili mediatori. Le giovani venivano poi portate in Italia e sottomesse tramite riti vudù, costrette a prostituirsi per restituire i soldi del viaggio (circa 50.000 euro) e pagarsi l’affitto del marciapiede, liberarsi dal maleficio e far cessare le minacce ai familiari. Molte di queste ragazze sono passate per Modena, dove nel corso delle indagini, in quella che è stata ribattezzata Operazione Restore Freedom (Restituzione alla libertà), sono stati perquisiti numerosi alloggi nei quali le giovani erano tenute segregate di giorno. A gestirle erano le madame nere che avevano l’assoluto monopolio nell’organizzazione territoriale delle prostitute. Agli uomini, spesso fiancheggiatori locali, anche modenesi, era demandata la protezione delle ragazze e il loro accompagnamento con i pulmini sul luogo di lavoro. Nel corso delle indagini è emerso come i clan neri di sfruttatori utilizzassero il medesimo, violento, efficace, modus operandi della criminalità casalese, e campana più in generale, con la quale pare vi fossero contatti e interscambi di interessi, soprattutto nel traffico della droga. Un settore nel quale tuttavia gli sfruttatori non interferivano direttamente, ma nel quale investivano parte dei proventi, fornendo anche manovalanza per lo spaccio minuto.

Anno 2004. Pisa, Terni, Roma, Caserta e Napoli. Operazione Santa Lucia.

Militari dell’Arma dei Carabinieri hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 84 persone, prevalentemente di origine africana, responsabili di traffico illecito di sostanze stupefacenti. In particolare l’indagine, avviata nel 2004, ha consentito di disarticolare un’organizzazione criminale dedita al traffico di cocaina, con ramificazioni in Olanda, Germania e Nigeria.

Anno 2006. Indagine Little Cut 2. Svolta dalla DDA di Roma e conclusasi nell’aprile del 2006 con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 14 persone, nigeriane e italiane, per associazione per delinquere finalizzata al traffico di cocaina proveniente dalla Spagna e dall’Olanda per mezzo di corrieri ovulatori.

Anno 2006. Indagine Area Franca. Dell’AG di Santa Maria Capua Vetere, nei confronti di 16 persone ritenute responsabili di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Le investigazioni hanno accertato che alcuni gruppi locali casertani acquistavano le droghe da un’organizzazione nigeriana, attiva nella provincia di Caserta.

Anno 2006. Indagine Multilevel 2. Conclusasi nel maggio del 2006 con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP di Modena nei confronti di 9 persone di etnia nigeriana ritenute responsabili di riduzione in schiavitù finalizzata allo sfruttamento della prostituzione di giovani ragazze nord africane acquistate nei Paesi di origine e costrette, con violenza, a prostituirsi per pagare alle madame il debito contratto per il viaggio, che oscillava tra gli 80.000 e i 100.000 euro.

Anno 2006, Indagine Niger. Svolta dalla DDA di Torino, nei confronti di una organizzazione criminale operante nel capoluogo piemontese, a Roma e in altre regioni del centro-nord Italia, nel traffico di sostanze stupefacenti, nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nello sfruttamento della prostituzione. Nel corso delle investigazioni, sono stati accertati conflitti tra due gruppi criminali nigeriani, gli Eye (associazione magico-religiosa) e i Black Axe, per il controllo delle attività illecite. Per la prima volta c’è una condanna per mafia di gruppi criminali nigeriani in Italia.

Anno 2008. Indagine Viola. Nei confronti di 66 persone responsabili a vario titolo di associazione finalizzata alla tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e traffico internazionale di stupefacenti. Arrestati in flagranza di reato 49 corrieri e recuperati 60 kg di eroina e 118 kg di cocaina.

Anno 2006. Indagine Itako. Condotta dalla DDA di Napoli e conclusasi con l’esecuzione, nel febbraio 2006, di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nei confronti di tre nigeriani e di un italiano affiliato al clan Di Lauro, ritenuti responsabili di traffico internazionale di eroina importata dalla Gran Bretagna.

Anno 2006. Indagine Aye Mi Assman. Conclusasi, nell’aprile del 2006, con due ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal GIP di Ferrara nei confronti di due organizzazioni nigeriane collegate tra loro e dedite allo spaccio di sostanze stupefacenti del tipo cocaina e marijuana nella provincia emiliana. Nel corso delle investigazioni sono stati arrestati 32 cittadini nigeriani.

Anno 2009 Indagine Foglie Nere. Nei confronti di 30 indagati, di nazionalità prevalentemente nigeriana, per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, alla riduzione in schiavitù, al favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione ed altri reati. Un ulteriore provvedimento è stato emesso dal GIP del Tribunale di Roma nei confronti di altri quattro indagati per associazione per delinquere finalizzata all’interruzione abusiva della gravidanza. Gli interventi hanno interessato le Marche, il Lazio, l’Emilia Romagna e la Lombardia, ma anche la Nigeria, Spagna, Francia, Olanda, Germania, Grecia e Repubblica di San Marino, dove, grazie alla collaborazione assicurata dal Servizio di cooperazione internazionale di Polizia e da Europol, sono stati localizzati 11 indagati.

Indagine Fantasia 2. Nei confronti di 80 indagati appartenenti a un’organizzazione criminale, prevalentemente di etnia nigeriana (ma anche maghrebina), attiva nella provincia di Caserta, con ramificazioni in altre province del centro-nord Italia (Roma, Firenze, Perugia, Bologna e Brescia) dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti (cocaina ed eroina) e al traffico di esseri umani finalizzato allo sfruttamento sessuale di giovani donne.

Indagine Volturno. Nei confronti di 20 persone (17 africani, 2 ragazze dell’Europa dell’Est e 11 italiani) nelle province di Caserta, Napoli, Latina, Frosinone, Nuoro, Teramo e Vicenza, un’organizzazione ritenuta responsabile di associazione per delinquere finalizzata all’importazione e alla detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (eroina e cocaina). I carabinieri del Comando provinciale di Caserta, al termine di un’indagine durata oltre un anno, hanno condotto un’operazione antidroga, disarticolando un’organizzazione criminale composta da 31 persone. Di questi, due sono italiani e altri 29 extracomunitari originari del Mali e della Costa d’Avorio. I trafficanti, che importavano gli stupefacenti dall’Africa attraverso la rotta parigina, avevano la propria base a Castel Volturno, da dove gestivano lo smercio su diverse piazze italiane dello spaccio (Firenze, Prato, Bergamo, Caserta e il basso Lazio).

L'invasione in Italia dei Don nigeriani. Sergio Nazzaro il 23 ottobre 2019 su La Repubblica. Sergio Nazzaro è l'autore di "Mafia Nigeriana, la prima indagine della Squadra Antitratta”, edizioni Città Nuova).

Anno 2009. Torino. Operazione Milord. Militari della Guardia di Finanza hanno rilevato l’esistenza di un’articolata organizzazione criminale avente le caratteristiche di una setta, composta da soggetti di origine nigeriana, con connotazioni tipiche previste dall’art. 416 bis c.p. Le principali attività illecite intraprese dai membri del sodalizio criminale sono risultate: la riduzione in schiavitù di giovani donne nigeriane al fine di esercitare lo sfruttamento della prostituzione e le connesse attività dell’immigrazione clandestina, il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, lo smercio di documenti falsi e le truffe. Complessivamente sono stati segnalati all’Autorità giudiziaria competente 40 soggetti.

Teramo. Personale della Polizia di Stato ha deferito alla competente AG 17 individui (tre italiani, due nigeriani, sei cinesi, un indiano, un turco, due senegalesi, un bulgaro e un cingalese) ritenuti responsabili del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione in pregiudizio di giovani donne nigeriane anche minorenni.

Torino. Operazione Black Summer. Personale della Polizia di Stato ha dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di otto persone (6 nigeriane e 2 italiane) ritenute responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla violazione della normativa sugli stranieri e all’induzione, al favoreggiamento e allo sfruttamento della prostituzione di giovani donne nigeriane.

Torino. Operazione Black Bishop. Militari della Guardia di Finanza hanno portato alla luce un’associazione per delinquere «composta da cittadini nigeriani» finalizzata alla commissione di illeciti nel settore dell’abusivismo finanziario. In particolare, la predetta operazione, relativa al periodo marzo 2003-maggio 2006, originata dal sequestro di circa 11 kg di marijuana, ha determinato l’arresto di cinque cittadini nigeriani per associazione a delinquere finalizzata all’abusiva raccolta di denaro ed esercizio dell’attività finanziaria, la denuncia a piede libero di 37 cittadini nigeriani con analogo capo di imputazione, la ricostruzione di un complesso sistema finanziario non ufficiale, del tipo hawala, attraverso il quale sono stati illecitamente movimentati importi, anche provento di attività illecite, pari a circa 10 milioni di euro.

Roma. Operazione Notti Bianche. Personale della Polizia di Stato ha arrestato un cittadino nigeriano colto nella fragranza di reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il predetto è stato trovato in possesso di 581 gr di cocaina suddivisa in 51 ovuli. Nel corso della perquisizione domiciliare veniva sequestrata la somma di denaro di 418.650 euro.

Fiumicino (RM). Operazione Zero Virgola. Militari dell’Arma dei Carabinieri hanno arrestato, presso il locale aeroporto, una cittadina nigeriana proveniente da Amsterdam (Olanda) per traffico internazionale di sostanze stupefacenti, in quanto trovata in possesso di 82 ovuli contenenti complessivamente 1, 9 kg di eroina.

Firenze. Operazione Smalli. Personale della Polizia di Stato ha dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di quindici persone (dieci maghrebini, quattro nigeriani e un senegalese) riferibili a un’organizzazione criminale dedita all’immissione sul territorio nazionale di ingenti partite di cocaina provenienti dall’Olanda tramite i cosiddetti ingoiatori.

Ferrara, Parma e Occhiobello (RO). Operazione Novecento New. Militari dell’Arma dei Carabinieri hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 10 extracomunitari, responsabili di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Nell’ambito della stessa operazione erano già state tratte in arresto 35 persone, 20 delle quali di nazionalità nigeriana.

Firenze. Operazione Money Order. Militari della Guardia di Finanza hanno accertato il coinvolgimento di 9 nigeriani in un sodalizio criminale, radicato a Firenze ma con proiezioni in altre regioni (Liguria, Piemonte e Sardegna) e all’estero (Olanda, Spagna, Germania e Nigeria), dedito a una pluralità di attività criminose di particolare gravità e pericolosità quali truffa, riciclaggio, clonazione di carte di credito, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, nonché in episodi di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e furti di autovetture.

Palermo. Smantellata un’organizzazione mafiosa transnazionale, con base in Nigeria, denominata Black Axe. Gli investigatori della squadra mobile di Palermo e di altre città hanno eseguito complessivamente 17 provvedimenti di fermo in tutta Italia, di cui 16 a Palermo. Gli indagati avrebbero gestito in modo diretto o indiretto, attività economiche illecite: dalla riscossione di crediti allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di stupefacenti. I membri sono accusati di aver messo a repentaglio l’incolumità di diverse persone e di averne assoggettato altre anche con il vincolo dell’omertà. L’operazione della Polizia di Stato, coordinata dalla DDA, ha permesso di individuare i vertici dell’organizzazione criminale ed è stata ricostruita la struttura verticistico-piramidale, basata su rigide regole fatte di “battesimi”, riti di affiliazione dei membri e precisi ruoli all’interno del sodalizio.

Settembre 2016. Torino. Operazione Athenaeum. 44 arresti e sequestri a Torino. 53 persone identificate, 44 delle quali gravate dal provvedimento di custodia cautelare in carcere eseguito dalla polizia locale di Torino e dai carabinieri. È il bilancio dell’Operazione Athenaeum, nata nel dicembre 2012 a seguito di denuncia sporta da una cittadina nigeriana a carico di due suoi connazionali, per tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione. Le indagini hanno consentito di individuare due organizzazioni segrete, denominate Maphite e Eye, composte da cittadini nigeriani, specializzate nello sfruttamento della prostituzione e nel traffico di droga. L’indagine, è stato spiegato, ha portato a scoprire «una grande organizzazione internazionale, dai contorni paragonabili alle nostre mafie, che minaccia, sfrutta e talvolta uccide; un fenomeno che appare da anni in pieno sviluppo, ben radicato nel territorio e operante a pieno regime, tanto da poter essere ormai considerato parte integrante del sistema malavitoso italiano». «Sono state monitorate diverse riunioni – hanno spiegato ancora gli inquirenti – dove si è comprovato giuridicamente il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, accertando un organigramma interno rigido e caratterizzato da una struttura piramidale». I reati accertati nel corso dell’indagine sono: rapina, tentato omicidio, lesioni personali, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, falsificazione di carte di credito, immigrazione clandestina. Sono già stati arrestati quindici corrieri e/o pusher e recuperati più di 20 kg di sostanze stupefacenti. Sono state identificate 53 persone, tutte facenti parti a vario titolo delle due organizzazioni segrete, 44 delle quali gravate dal provvedimento di custodia cautelare in carcere. Sia che in primo grado che in secondo grado vengono confermate 44 condanne per 416bis contestate agli affiliati del gruppo Maphite.

Novembre 2018. Cagliari. Sono 21 i cittadini nigeriani fermati dalla polizia di Cagliari nell’ambito dell’operazione Calypso Nest che ha portato a sgominare una cellula criminale specializzata nel traffico di eroina e cocaina e nello sfruttamento della prostituzione collegata alla consorteria mafiosa, che opera a livello internazionale, Supreme Eiye Confraternity. 36 complessivamente gli indagati, 27 i decreti di fermo, di cui 21 eseguiti tra Sardegna, Veneto (Venezia) e Campania (Castel Volturno).

Marzo 2019. Trento. Operazione Bombizona. La Polizia di Stato di Trento ha arrestato tredici centroafricani richiedenti asilo e un italiano, accusati di traffico di sostanze stupefacenti. Scoperti altri tentacoli della mafia nigeriana, anche nell’estremo nord dell’Italia. La Polizia di Stato di Trento ha arrestato 13 centroafricani richiedenti asilo e un italiano, accusati di traffico di sostanze stupefacenti. Le indagini avevano già portato all’arresto di altri sedici nigeriani e all’esecuzione di diverse perquisizioni e divieti di dimora nelle province di Trento, Verona e Ferrara. L’operazione ha portato alla luce un vasto traffico di droga tra Trento, Verona, Vicenza e Ferrara, gestito da un’organizzazione criminale i cui appartenenti erano giunti in Italia come richiedenti asilo.

Aprile 2019. Agrigento. Operazione Piazza pulita. Condotta dai carabinieri. Dieci arresti. Sgominata banda di nigeriani e gambiani che controllavano lo spaccio nella zona vecchia della città.

Maggio 2019. Arezzo. Operazione Pusher 3 - Piazza Pulita. 41 gli arresti. Colpo al business della droga gestito dai nigeriani. Gli arresti scattati ad Arezzo per lo spaccio di sostanze stupefacenti tra Pionta, Campo di Marte e Saione. Un’operazione condotta dalla squadra mobile della Questura, applicando lo strumento degli arresti differiti, che permettono in certi casi di mettere in manette chi delinque anche senza la flagranza, sulla scorta di elementi acquisiti. La presenza dei nigeriani attivi nello spaccio sul territorio è emersa ripetutamente negli ultimi anni ed è culminata in episodi come la precedente operazione dei carabinieri, Nigerian Connection.

(Estratto da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova)

Da Benin City all'inferno. Sergio Nazzaro il 15 ottobre 2019 su La Repubblica. Sergio Nazzaro è l'autore di "Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta edizioni Città Nuova”). Il traffico di esseri umani, considerato nelle due forme dello smuggling e del trafficking, costituisce ormai, per gli illeciti profitti che ne derivano, il secondo settore d’interesse illecito delle più qualificate organizzazioni criminali di matrice etnica, dopo il traffico di droga. Tale dato è riscontrato anche per la criminalità nigeriana, affermatasi negli ultimi venti anni in Europa, negli Stati Uniti e nel Sud America in entrambe le attività. In Italia, in particolare, gruppi di tale etnia hanno cominciato a mettersi in evidenza negli anni Ottanta, in coincidenza coi consistenti flussi migratori provenienti dal continente africano, insediandosi inizialmente nel casertano e dedicandosi allo sfruttamento di giovani prostitute connazionali. Nel corso degli anni, i sodalizi nigeriani si sono diffusi su tutto il territorio nazionale, creando stabili e consistenti insediamenti, soprattutto nella città di Torino, divenuta la principale destinazione italiana delle giovani donne nigeriane trafficate ai fini di sfruttamento sessuale, ma anche nel Veneto (Padova), in Lombardia (Brescia e Milano) e, in misura minore, nel centro-sud, come confermato dalla presente attività di indagine. La maggiore colonia di cittadini nigeriani è situata tuttavia proprio in Campania, a Castel Volturno, un piccolo paese del casertano che sorge sul litorale Domizio, a poche decine di chilometri da Napoli, dove una sensibile quota della popolazione è formata proprio da persone di tale nazionalità. Ed è proprio nel casertano, e nella zona Domiziana della provincia di Napoli, che sono state effettuate, anche nel recentissimo passato, innumerevoli operazioni di polizia nei confronti di tantissimi soggetti di nazionalità nigeriana. Ciascun gruppo si caratterizza per la comune provenienza etnico-tribale che contribuisce a garantire, unitamente ai vincoli familiari e alle tradizioni magico-religiose, una elevata compattezza interna, che rende possibile un’efficace operatività nonostante la ricorrente suddivisione in cellule attive in diverse aree territoriali. Si tratta di gruppi connotati da un alto livello organizzativo e di pericolosità, ai quali sono riconducibili i caratteri dell’associazione mafiosa, sotto il profilo del metodo “violento” scaturente dalla forza di intimidazione del vincolo associativo adoperato dai promotori dell’associazione per ottenere l’assoggettamento dei soggetti sfruttati a fine di prostituzione. I dati dell’attività di contrasto alla matrice criminale relativi agli ultimi tre anni, ne confermano la capillare distribuzione sul territorio, la tendenza a un accresciuto coinvolgimento in attività illecite di vario tipo, tra le quali prevalgono quelli in materia di stupefacenti e immigrazione clandestina. La maggior parte delle ragazze trafficate ai fini dello sfruttamento sessuale proviene dal sud della Nigeria (Benin City o Lagos) o da alcune cittadine dell’interno e appartiene solitamente alle tribù Igbo, Yoruba, Bini, Edo. Sono tutte donne con una età compresa tra i 16 ed i 25 anni con un basso livello di istruzione. La situazione di precarietà economica e la speranza di trovare all’estero migliori condizioni di vita, agevolano le attività delle organizzazioni criminali. Le famiglie delle vittime, allo scopo di finanziare il viaggio verso l’estero delle proprie figlie, contraggono debiti con le “madame” che possono arrivare a 50.000, e in alcuni casi anche a 60.000 euro. Cifre che verranno saldate proprio attraverso il successivo sfruttamento delle trafficate. Una volta esaurita la fase del reclutamento, i gruppi criminali organizzano il viaggio verso le destinazioni finali. Predispongono la documentazione necessaria all’espatrio, spesso assicurata dalle proprie cellule attive in territorio estero, con specifici compiti di reperimento, attraverso canali internet, dei documenti di viaggio e dei biglietti. Tali attività vengono compiute attraverso l’uso fraudolento di codici di carte di credito, preventivamente captate da sodali incaricati dell’attività. Il passaporto, in alcuni casi, viene ottenuto direttamente da soggetti che hanno contatti di natura illegale con la polizia locale e con elementi che si trovano all’interno delle varie ambasciate che rilasciano i visti d’ingresso. Sono passaporti “regolari”, acquisiti attraverso l’organizzazione criminale, che poi, in maniera fraudolenta, si limita a sostituire la fotografia. In alcuni casi i passaporti sono inviati per posta in Italia o fatti arrivare attraverso un amico o un parente. Il luogo di partenza, nella maggior parte dei casi, è l’aeroporto di Lagos in Nigeria. Il primo scalo è un altro aeroporto africano, spesso in Ghana, dove è presente storicamente una forte comunità di origine nigeriana, ma anche a Cotonou, città del vicino Stato del Benin. Altre volte la prima tappa è invece nel Togo, da dove le donne partono per la Spagna (Barcellona e Madrid) prima di arrivare in Italia. Le principali città di elezione dei traffici di “smistamento” delle donne, sono: Torino,  Milano, Genova, Verona, Padova, Brescia e Mestre per il nord; Livorno, Rimini, Perugia e l’hinterland romano per il centro; Napoli, Castel Volturno e l’agro domiziano per il sud. Queste donne arrivano in Italia in aereo, facendo scalo negli aeroporti di Milano e a Fiumicino, e vengono prese in consegna dai referenti delle consorterie che le affidano alle madame o ad altre donne di fiducia delle stesse madame che hanno compiti di controllo e riscossione dei proventi della prostituzione. Le madame rivestono una funzione essenziale all’interno del sodalizio criminale. Spesso, infatti, è la stessa madame, scaricatasi a sua volta del debito contratto, a inserirsi nell’attività di “acquisto”, pagando tra i 10.000 e 12.000 euro, per l’ingresso delle ragazze. In tal modo si garantisce la destinazione e l’amministrazione finale delle ragazze, usufruendo di un maggior guadagno. Queste stesse donne hanno il compito di sorvegliare le ragazze e di avviarle all’esercizio della prostituzione, e lo fanno ricorrendo a metodi di coercizione psicologica e morale come la sottrazione dei documenti d’identificazione, utilizzati dall’organizzazione per l’ingresso di altre donne, e la segregazione delle vittime in alloggi gestiti dai sodalizi, oltre che con il ricorso ai riti magico-esoterici, come i riti vudù, particolarmente efficaci per l’assoggettamento delle giovani sfruttate.

La rete dei cult nelle Marche: l'ombra della mafia nigeriana sul caso di Pamela. Dopo gli arresti di diversi affiliati ai clan della mafia nigeriana il legale della famiglia di Pamela Mastropietro, Marco Valerio Verni, torna a chiedere che si faccia luce sui presunti legami tra Innocent Oseghale e i cult della mafia nera. Alessandra Benignetti, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. Facevano parte di un’associazione a delinquere specializzata “nella tratta di donne da avviare alla prostituzione e nel riciclaggio di denaro” gli otto nigeriani fermati lunedì tra Marche e Abruzzo. "Collettori di denaro di provenienza illecita”, che era periodicamente trasferito in patria tramite voli di linea, ricostruisce il sostituto procuratore della Dda di dell'Aquila, David Mancini. Nascosti nelle valigie di quelli che all'apparenza sembravano semplici passeggeri sono stati trasferiti in Nigeria un totale di 7 milioni e mezzo di euro. Gli arresti sono stati eseguiti a Fermo, Civitanova Marche, San Benedetto del Tronto, Porto Sant'Elpidio e nel Teramano. Al gruppo di “travelers”, dal nome dell’inchiesta, non è stata contestata l’associazione mafiosa, ma è chiaro che facessero parte di una rete. Anche alla luce dell’arresto di ieri, a Falconara, nell'Anconetano, di God Power Aghedo, 29enne esponente della confraternita dei Vikings, uno dei clan più spietati della mafia nigeriana, fermato nell’ambito dell’operazione “Drill” coordinata dalla Dda di Bari, che ha sgominato decine di cellule della mafia nera, che avevano il loro quartier generale nel centro di accoglienza per richiedenti asilo del capoluogo pugliese.

La rete delle confraternite nelle Marche. Secondo l’ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) le Marche sarebbero controllate da due confraternite nigeriane: i Vikings e i Maphite. Questi ultimi amministrano il territorio tramite la cosiddetta “Famiglia Vaticana”. Per questo, quando due settimane fa sono state pubblicate le motivazioni della condanna all’ergastolo dell'assassino di Pamela Mastropietro, Innocent Oseghale, il legale della famiglia, Marco Valerio Verni, ha criticato il fatto che la Procura di Macerata non abbia approfondito i presunti legami tra l’uomo e le gang africane. Legami che secondo l’avvocato sarebbero suffragati da una serie di indizi emersi durante il processo. “Pamela è stata violentata, accoltellata, depezzata chirurgicamente, scuoiata, scarnificata, esanguata, privata degli organi interni, lavata con la candeggina, messa in due trolley e abbandonata sul ciglio della strada”, ricorda Verni a ilGiornale.it. Un caso che il consulente medico legale della stessa Procura ha definito “un unicum nella storia della criminologia mondiale degli ultimi 50 anni”. “Oseghale ha fatto tutto da solo? Lo aveva fatto altre volte?”, sono le domande che ancora non hanno avuto una risposta.

L'ombra della mafia nigeriana sul delitto di Pamela. In questo senso, secondo Verni, la presunta appartenenza alla mafia nera di Oseghale e dei due nigeriani inizialmente co-indagati, Lucky Desmond e Lucky Awelima, rappresenta “un importante profilo di indagine”. “È per questo – spiega - che abbiamo sempre insistito, inascoltati, affinché i documenti e gli atti venissero inviati alla Direzione Distrettuale Antimafia competente, l’unica in grado di poter valutare il tutto”. L’omicidio della diciottenne romana, secondo il legale della famiglia, va inquadrato in un contesto più ampio. A farlo pensare ci sono le minacce che hanno spaventato sia l'interprete nigeriana inizialmente incaricata della traduzione degli atti processuali, che si rese irreperibile, sia diversi altri a cui la Procura aveva tentato di rivolgersi. Una circostanza che si è ripetuta in modo speculare nell’inchiesta coordinata dalla Dda di Bari che ha portato agli arresti di ieri, nell’ambito della quale sono state riscontrate lo stesso tipo di intimidazioni da parte dei clan. Non solo. In carcere Lucky Desmond e Lucky Awelima, intercettati dagli inquirenti, in un'occasione hanno affermato come Oseghale fosse “un capo” e avesse già “ridotto in quel modo altre donne”. “Proprio sul cellulare di Awelima – sottolinea Verni - sono state trovate foto di persone di colore probabilmente torturate che ricordano le punizioni cui vengono sottoposti gli affiliati alla mafia nera in caso di violazione di qualche regola di condotta, le sevizie alle quali alcuni migranti, rinchiusi nei campi di prigionia libici, vengono sottoposti nel caso in cui la somma versata per la traversata sui barconi sia inadeguata, o alcuni passaggi dei violenti rituali di affiliazione alla stessa organizzazione malavitosa”.

Oseghale era legato ai cult? Ad ipotizzare che l’assassino di Pamela facesse parte di una delle confraternite è anche un collaboratore di giustizia, a cui lo stesso Oseghale avrebbe confidato in carcere di essere un esponente dei cult. Le Marche, secondo quanto avrebbe gli riferito il nigeriano, sarebbero considerate un “crocevia” fra le roccaforti di Padova e Castelvolturno. “Il suo compito, in particolare – spiega l’avvocato – doveva essere quello di affittare appartamenti per promuovere lo sfruttamento della prostituzione e lo spaccio”. La testimonianza è stata ritenuta inattendibile durante il processo. Tuttavia, ad avvalorarla c’è un fatto avvenuto successivamente alle dichiarazioni dell’uomo. L’arresto, nel 2019, di un pusher ghanese che fino al novembre 2017 sarebbe stato ospitato proprio nell’appartamento di via Spalato. Lo stesso dove il nigeriano ha fatto a pezzi Pamela. “Inoltre – prosegue il legale - a testimoniare l'affiliazione alle confraternite ci sarebbero anche alcuni segni sul corpo dell’assassino, su cui pure abbiamo cercato di far luce”. C’è un altro particolare che fa pensare che dietro di lui ci sia un’organizzazione ricca e potente. “Oseghale ha potuto contare su un pull composto da due avvocati e sei consulenti tecnici, come ha fatto a pagarli se risultava nullatenente? Dicono con i soldi dello spaccio, ma, se fosse così, chi li ha movimentati, visto che lui è finito subito in carcere? I legali hanno risposto che si può lavorare anche solo per pubblicità o curiosità scientifica, ma solamente la copia di un cd su cui vengono riversati interrogatori o intercettazioni costa diverse centinaia di euro. E in un processo come questo ce ne sono tantissimi. Come è possibile?”, si chiede Verni.

Gli affari dei nigeriani a Macerata. “Che le Marche siano un feudo delle gang africane – dice il legale della famiglia Mastropietro – non è una novità”. Lo testimoniano i numerosi arresti di nigeriani coinvolti in giri di spaccio portati a termine proprio a Macerata nel corso del 2018. Come pure un processo contro 21 connazionali accusati di traffico internazionale di droga e sfruttamento della prostituzione con riduzione in schiavitù tramite riti "juju", caduto clamorosamente in prescrizione nell’ottobre dello scorso anno per una “dimenticanza” di chi doveva disporre le perizie sull’ingente quantitativo di sostanze sequestrate. Poi c’è l’informativa di polizia del 20 luglio 2016 che segnalava come al funerale di Emmanuel Chidi Nnamdi, il nigeriano ucciso da un italiano dopo una lite a Fermo, al quale aveva partecipato un nutrito gruppo di istituzioni - dall’allora presidente della Camera, Laura Boldrini, alle ministre Maria Elena Boschi e Cécile Kyenge - ci fosse anche una folta rappresentanza della confraternita mafiosa dei Black Axe. Gli affiliati al clan, arrivati per rendere omaggio al connazionale, erano riconoscibili perché indossavano abiti con i colori simbolo del cult: rosso e nero. Porta a Macerata anche il caso di Alice Sebaste, la cittadina tedesca detenuta a Rebibbia dopo essere stata trovata assieme a due nigeriani con 10 chili di marijuana, sposata con un terzo nigeriano arrestato a sua volta nella città marchigiana per il coinvolgimento in un vasto giro di spaccio. La donna ha ucciso i suoi due figli piccolissimi gettandoli dalle scale del settore in cui era rinchiusa proprio per paura delle minacce ricevute dalla mafia nera. “Macerata – sottolinea ancora Verni – è una delle città in cima alle classifiche per lo spaccio, attività prediletta da questi clan”. Per questo il legale di Pamela, anche alla luce degli arresti di lunedì scorso, continua a battersi perché si vada a fondo sulla vicenda. “Quello che abbiamo sempre chiesto - afferma Verni - è che se dalle indagini si possono ricavare indizi riguardo profili investigativi di più ampio spettro - ed è quello che è accaduto - essi devono essere seguiti. Affinché venga fuori e sia estirpato tutto il marcio possibile: solo così il martirio di Pamela avrà avuto davvero giustizia”.

L'“operazione Niger”, la prima volta a Torino. Sergio Nazzaro il 14 ottobre 2019 su La Repubblica.  Con l’operazione Niger – nel 2006, a Torino – si registra la prima condanna per mafia di un gruppo di criminali provenienti dall’Africa. Toccherà poi a Napoli, con l’Operazione Viola, nel 2008. Un susseguirsi di arresti. Ma le condanne per mafia dei Cults, ovvero i clan nigeriani, sono complesse. I Cults nascono nelle università, prima in chiave anticoloniale, poi come braccio armato della lotta politica, poi diventano imperi criminali che conquistano il potere politico. Le gang africane si strutturano come le “cupole” in Italia, apprendono “i codici mafiosi” in Italia – come scrive la Procura di Napoli. Dopo Castel Volturno, anche Palermo diventa importante nella geografia della mafia nigeriana. Ma è Torino, riferimento per tutto il nord Italia, il centro nevralgico di questa struttura criminale. La mafia nera – allogena – è funzionale a quella bianca, svolge il lavoro sporco e pericoloso: spaccio e prostituzione che crea allarme sociale e distrae le forze dell’ordine da appalti, corruzione e infiltrazione nell’economia legale, cioè i campi di azione delle mafie indigene. La mafia nigeriana non può aspirare e non aspira a corrompere sindaci e amministrazioni, e non concorre per gli appalti pubblici. Tutte le mafie tendono al denaro, così anche le gang: accumulano soldi che ritornano in forma di rimesse economiche alla casa madre in Nigeria: money transfer su money transfer. È un flusso di contante per comprare armi e, traverso le armi, il potere politico. Le mafie sono uguali dappertutto, e dappertutto ognuna torna a casa propria. Come Cosa Nostra s’è incardinata nel mondo attraverso l’emigrazione, allo stesso modo la mafia nigeriana ha seguito le rotte migratorie. E, come per ogni mafia, i primi a essere sfruttati, sottomessi e uccisi sono i propri connazionali: uomini, donne e bambini che diventano le ombre di questo racconto sulla mafia nigeriana. I gruppi criminali africani controllano oggi le periferie di molte grandi città del nord Italia, posti in cui le mafie nostrane non hanno nessun interesse. Nella più stanca delle analisi si ritiene che ogni spacciatore nero sia mafioso – un assioma che non funziona per i bianchi e così si accresce la confusione. La mafia nigeriana è fluida ed estremamente mobile. Usa fantasmi, cioè persone senza documenti. Nella visione da avanspettacolo che emerge dagli episodici interessamenti dell’opinione pubblica, la mafia nigeriana, a Castel Volturno, gestirebbe il traffico di organi. Ma è credibile che in un posto in cui manca tutto, la mafia si riesca a fare un espianto di una parte del corpo umano, in sicurezza, in modo che sia rivendibile in un ipotetico mercato nero? «Si dice», ma senza una prova evidente. Anche se poi, l’evidenza di migliaia di donne, uomini e bambini senza nome e senza documenti che scompaiono senza lasciare traccia non inquieta nessuno. Un investigatore delle forze dell’ordine una volta mi ha detto: «Non draghiamo il fiume Volturno perché altrimenti ne troveremmo di cadaveri senza nome, ma non finiremmo mai più; qui ci sono solo ombre». E mentre le opinioni improvvisate creano confusione mediatica, e in corso ci sono guerre tra clan di camorra, la domanda del mercato preme e va soddisfatta, e la mafia nigeriana è sempre disponibile per i propri clienti. Da qui deriva la loro fama di affidabilità: loro ci sono sempre. E da piccoli spacciatori, non da oggi, diventano grandi broker. La mafia è anche nera, ma oggi la mafia nera serve quasi per coprire la pericolosità e la pervasività delle nostre mafie. Quelli, gli africani, i nigeriani, che sono pericolosi, i nostri neanche più sparano quasi. Il pericolo è sempre un altro, straniero a noi.

Come i Cults somigliano agli 'ndranghetisti. Sergio Nazzaro su La Repubblica il 16 ottobre 2019. (Intervista di Sergio Nazzaro al magistrato Stefano Castellani estratta da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova). Il pubblico ministero di Torino Stefano Castellani.

«L’esperienza giudiziaria (parlo sia dei processi del 2005-2006, che delle operazioni, che dei processi più recenti che ho personalmente coordinato) dimostrano che c’è una presenza molto diffusa e profondamente radicata sul territorio italiano di questi gruppi. Gruppi criminali di provenienza nigeriana che sono denominati Cults e che hanno tutte le caratteristiche di associazioni mafiose ai sensi del 416bis. Gli affiliati sono decine, anzi centinaia, su tutto il territorio nazionale. Recentemente, grazie anche al lavoro della DDA  di Torino, è stato condiviso tutto il patrimonio investigativo risultato da anni di indagini. Abbiamo quindi una maggiore condivisione che ha coinvolto anche altre DDA sul territorio, che avevano avviato indagini autonome. Così si sta componendo un quadro d’insieme. Quindi la risposta è sì, il fenomeno è concreto e grave; parliamo una mafia radicata i cui appartenenti sono numerosi, non di un fenomeno marginale o transitorio.

Si discute molto, oggi, con poca cognizione alle volte, di mafia nigeriana; sembra esserci mafia nigeriana dovunque, ma il dato reale lo può fornire solo il numero dei processi. Bisogna cioè distinguere tra criminalità nigeriana e veri e propri gruppi mafiosi. Lei ha condotto un processo con 44 imputati, tutti condannati per mafia, in primo e in secondo grado. Perché non ci sono, quindi, tanti processi contro la mafia nigeriana?

«Per la precisione devo dire che di 44 ordinanze di custodia cautelare, 22 ne sono state eseguite, di altre 22 persone non ci sono tracce, al momento, sul territorio italiano, e quindi non possiamo processarli. Anzi, dopo i primi 22 ne abbiamo arrestati altri cinque e quindi ne mancano dal giudizio una decina, sempre per essere precisi. Ritornando alla sua giusta domanda, c’è da mettere in conto che non sempre esiste la percezione del fenomeno. Chi coordina le indagini e chi le esegue sul campo, quindi magistratura e polizia giudiziaria, devono avere delle coordinate basilari. Si può indagare sullo sfruttamento della prostituzione, sulla tratta, sullo spaccio, e possono sembrare tutti fatti slegati tra loro se non si ha un quadro d’insieme che invece delinea i contorni di un fenomeno mafioso. Accade che s’intercettino questi gruppi, ma non sempre si riesce a cogliere la reale portata della loro azione criminale. Anche se, bisogna dire, oggi una maggiore consapevolezza sta facendo cambiare indirizzo. Abbiamo moltissime inchieste per 416bis contro i gruppi criminali nigeriani. Possiamo finalmente parlare di un cambio di passo. A me sembra che oggi sia tutta mafia nera e mi sembra che ci stiamo dimenticando la mafia bianca. Ovviamente rimangono entrambe pericolose, ma una è ospite, l’altra controlla pezzi di Stato e di economia, oltre che interi pezzi di territorio. Credo che ci sia un poco più di attenzione. Recentemente c’è stata una maggiore condivisione di conoscenze investigative e, di conseguenza, una maggiore azione congiunta da parte degli investigatori e delle procure. Fino a oggi ci siamo mossi a macchia di leopardo. Unire le conoscenze, possedere dei database unificati, credo sia questo il passaggio chiave. La stessa cosa è stata fatta nella lotta alle mafie in Italia, sono state unificate tutte le conoscenze investigative. E oggi si prosegue in questa direzione».

Che cosa l’ha colpita maggiormente di questa inchiesta sulla mafia nigeriana e quali sono i tratti che trova più allarmanti?

«Mi ha colpito l’elevato tasso di violenza e crudeltà con cui avvengono i riti di affiliazione e d’iniziazione attraverso i quali si è inseriti nel gruppo criminale. Hanno caratteristiche e tratti in comune con quelli delle mafie tradizionali. Mi sono occupato anche di mafia e ’ndrangheta al nord. Le caratteristiche e le tipologie di affiliazione sono molto simili. Quello che caratterizza i gruppi mafiosi nigeriani è l’estrema violenza. Una vera e propria gara di resistenza fisica che il nuovo affiliato deve subire. Una violenza che lascia sgomenti. Un tratto di differenza con le mafie tradizionali, dettato anche dal contesto, è la completa chiusura che questi gruppi hanno. Sono comunità straniere in territorio straniero e quindi già chiuse di per sé, ma in un contesto criminale diventano ancora meno penetrabili. Le dinamiche degli affiliati, le dinamiche criminali sono un bel rompicapo per chi investiga su questi gruppi. Crudeltà e violenza da un lato, chiusura e coesione dall’altro».

Nel 2005 avete avuto l’operazione Niger a Torino. Io studio il fenomeno da decenni e credo che l’epicentro sia Castel Volturno, ma Torino è senza dubbio l’altro polo della mafia nigeriana. Come si spiega questo movimento dal sud al nord?

«Non saprei darle una spiegazione precisa, perché coinvolge aspetti psicologici e sociologici. Probabilmente il motivo è da ricercare nel fatto che in Piemonte e a Torino la comunità nigeriana è grande, una delle comunità più numerose, e ciò agevola il flusso da Castel Volturno a Torino. Un flusso tra due comunità che comunque sono le più numerose nei rispettivi territori. E quindi, a fronte di una maggioranza onesta che lavora (come sicuramente succede anche a Castel Volturno) è presente anche una componente criminale».

Che evoluzione intravede in questa mafia? Conoscendola, come pensa che si muoverà nei prossimi anni? Pensa veramente che possano prendere il sopravvento sulle nostre mafie?

«Il primo pericolo che mi sento di sottolineare è la possibilità concreta di maggiore contatto e cooperazione con le mafie italiane. Da un punto investigativo, almeno qui a Torino, non abbiamo registrato direttamente questa possibilità, anche se l’esperienza investigativa ce lo suggerisce. Qui nel nord la presenza della ’ndrangheta è forte, e quindi è possibile una sorta di collaborazione. Abbiamo avuto un collaboratore di giustizia nigeriano che ci ha indicato contatti con ’ndranghetisti in Calabria, in particolare un acquisto di armi da spedire in Nigeria. Anche se il collaboratore è assolutamente affidabile, non abbiamo trovato riscontri. Quindi, da un punto di vista processuale, non ci sono evidenze, ma credo che ci siano contatti e affari che vengono fatti insieme. Altro aspetto importante è l’azione dei gruppi criminali che hanno agito in maniera da non toccare gli interessi delle mafie tradizionali, e hanno quindi la capacità di muoversi avendo chiari i confini di azione. Ogni gruppo ha il suo ambito di competenza. La mafia nigeriana è autoreferenziale, nel senso che delinque avendo come riferimento, come platea di riferimento, gli stessi immigrati nigeriani: estorsioni, prostituzione… le vittime sono i loro stessi connazionali. Un aspetto che potrebbe creare frizioni è lo spaccio di droga, ma purtroppo la domanda è così forte che crea spazio per tanti gruppi criminali senza che possano entrare in contrasto tra di loro. Al momento, quindi, non ci sono conflitti. Ma la situazione evolve giorno dopo giorno, e come magistratura e polizia investigativa noi operiamo per comprendere quanto accade».

La procura di Torino è l’unica che ha la SAT, la Squadra antitratta, composta da uomini della polizia locale. Ecco, quanto ha inciso il lavoro di un gruppo speciale in questo lavoro di contrasto alla mafia nigeriana?

«È l’understatement sabaudo che ha fatto la differenza, se mi permette la battuta. Esattamente come ha detto lei, il valore aggiunto è stato proprio il loro essere polizia locale. Da una parte per la volontà di dimostrare le proprie capacità, dall’altra perché si tratta un gruppo dotato di grandissime professionalità, oltre che di passione per il proprio lavoro, e che da oltre un decennio che si occupa di Tratta, credo che sia stata proprio questa peculiarità a fare la differenza. Si tratta di una squadra che probabilmente sarebbe necessario avere in ogni Procura, o almeno in quelle più esposte al fenomeno della mafia nigeriana, e in tutti quei territori dove il fenomeno della tratta è presente. Bisogna possedere, e implementare nel tempo, conoscenze e professionalità. Stiamo affrontando crimini, se così vogliamo dire, nuovi, anche se la tratta di esseri umani è un fenomeno presente da tempo, un crimine ignobile che offende qualsiasi coscienza civile. Atti criminali che si intrecciano con i fenomeni migratori. Ecco, credo che ci sia bisogno di squadre investigative specializzate». (Intervista di Sergio Nazzaro al magistrato Stefano Castellani estratta da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova)

La Sat, la squadra Antitratta. Sergio Nazzaro su La Repubblica il 19 ottobre 2019. La mafia nigeriana, la mafia africana, tutti ne parlano, pochi hanno un’idea chiara di quali siano i contorni reali del fenomeno, le ramificazioni, le violenze brutali, il grado di penetrazione. È solo un altro gioco delle contrapposizioni tra bianchi e neri, uno scontro politico a uso e consumo dei telegiornali. Un mercato fatto di domanda e offerta in cui i neri vendono servizi (droga, puttane, carte di credito, organi, qualsiasi cosa) e i bianchi comprano, e cercano sempre un prezzo migliore. Tutto qua. Poi tutti al bar, a insultare gli stranieri, che sono tanti, troppi, sporcano. Prima di tornare a casa, a farsi l’ennesima striscia di coca. Il commissario Lotito ripensa alle tante conversazioni che sta avendo con un giornalista di giù, Antonio. Si fidano l’uno dell’altro e confrontano i diversi materiali. Con le mafie tutti s’improvvisano esperti, pochi leggono le carte. Che sono troppe, complesse, piene di nomi astrusi e soprannomi. Una confusione perenne e sempre identica, che va avanti da decenni: dentro a centinaia di inchieste, tanti pezzi che nessuno riesce mai a mettere insieme. Sta dalle parti di Castel Volturno Antonio, e come Lotito cerca di stare dietro ai dettagli, di metterli insieme. A Castel Volturno, in provincia di Caserta, sono quarant’anni che il fenomeno dell’immigrazione è incontrollato. È una cosa che fa notizia solo ogni tanto, un po’ come quando allo zoo ci si ricorda di andare a vedere le belve feroci. Castel Volturno è una fascia costiera mangiata dal cemento e devastata oltre ogni limite. Migliaia di abitazioni che sarebbero solo da abbattere sono casa per migliaia di migranti che pagano l’affitto all’uomo bianco. E l’economia in nero continua a girare, per milioni di euro, senza sosta, senza regole. Ma con codici prestabiliti e ferrei. I gruppi mafiosi africani si muovono tutti alla stessa maniera, da nord a sud. C’è un disegno generale che sfugge quasi a tutti. Solo in pochi riescono a seguire, da anni, troppi anni forse. I fenomeni non vanno giudicati, vanno studiati. Ma studiare è un verbo caduto in disuso. In Italia rendono meglio gli slogan, un supermercato di opinioni che nessuno ha chiesto mai. Commissario, i colleghi della penitenziaria stanno portando qui la fonte. Tra mezz’ora dovrebbero arrivare. CP si affaccia nella stanza di Fabrizio. Quando non usa il soprannome significa che la comunicazione è seria. O forse è solo un modo per mostrare rispetto verso il capo. Va bene, avvisa la Suora e Wonder Woman che saranno loro a portarlo dentro. Perché? Un tiro di pipa. Affacciato alla porta ci sta Sherlock, all’anagrafe Claudio. Perché, se so come ragiona il nostro commissario, vuole dargli una lezione e metterlo subito sotto pressione. Claudio, il mago dell’analisi dei tabulati, una specializzazione che nelle indagini sulle mafie è essenziale. I nigeriani usano tante schede diverse: schede europee, schede africane, numeri clonati, di tutto e di più. I tabulati sono una mappa incomprensibile a molti, ma non a Sherlock, che si piega lì sopra ore e ore, con la sua pipa, a leggere i movimenti e gli spostamenti di tutti quelli che finiscono nel radar delle intercettazioni. [..] Chiudo la porta? No, lasciala aperta. Fabrizio Lotito, commissario e capo della SAT di Torino, raramente chiude la porta del suo ufficio. Solo quando deve leggere le carte con attenzione. Ma di solito tutto è aperto per i suoi uomini. Si fida, li ha scelti lui, uno per uno. Il rimbombo dei passi nei corridoi è un suono che gli piace. Il rimbombo nei corridoi ampi, dove ogni rumore è amplificato. E dove, quando regna il silenzio, è un silenzio tombale. Sembra un carcere quel posto, anzi lo era. Era la loro promozione, il riconoscimento del lavoro svolto. Nuovi spazi, più grandi, comodi. Quelli del carcere “Le Nuove”, ormai dismesso e riadattato per farci gli uffici per diverse squadre investigative. La SAT, per meriti sul campo, per i risultati ottenuti, aveva ricevuto un’intera ala del vecchio edificio, e diverse stanze. Una porta blindata, grigia e pesante, a dividerli da tutte le altre unità presenti nel vecchio carcere. Una storia già vista e sentita in Italia. Per fare il tuo lavoro contro la criminalità organizzata te ne vai nelle patrie galere. Questa volta, almeno, avevano risistemato la struttura. Ma tutto era rimasto essenziale. Porte blindate, armadi grigi di ferro per contenere i fascicoli, sedie blu da ufficio, scrivanie marroni, pareti dipinte di beige piene di riconoscimenti, articoli di giornale, crest di altre forze di polizia, il simbolo della SAT un po’ ovunque, nei corridoi e nelle stanze operative. Avevano lottato per quella squadra. Ma all’inizio era solo una squadretta. Anzi la squadretta. E il commissario Lotito, nei locali della Procura, era solo “quello delle puttane”. Vigili urbani non si usa più dagli anni Ottanta, ma per la gente siamo sempre i vigili, quelli delle multe. Anche gli spazzini hanno cambiato nome, come noi, ma a loro è riuscito il cambio culturale. A noi no. Spiegare, ogni volta, che siamo polizia locale è un bel casino. È frustrante vedere la faccia colma di sorpresa della gente, quando ci presentiamo, come se non potessimo fare questo lavoro, se non ne fossimo capaci. La realtà e le opinioni, il solito scontro. Riggs si alza dalla sua sedia e si avvia per i corridoi degli uffici con questi pensieri nella testa. [..] Negli anni Novanta, l’ex sottufficiale dei carabinieri, diventato poi vice comandante della Polizia Locale di Torino, aveva avuto l’intuizione di creare un nucleo di PG, polizia giudiziaria. Dodici uomini, la sua sporca dozzina. Microcriminalità, borseggi, prostituzione, piccolo spaccio i campi d’intervento dei primi uomini della PG di Torino. Poi il gruppo si era diviso in due squadre di sei uomini: la prima squadra dedita al contrasto delle droghe, l’altra a quello della prostituzione. Lotito aveva sempre avuto un’inclinazione per il sociale, non era mai riuscito a mandare giù lo sfruttamento delle donne. Siamo alla metà anni Novanta, un pugno di uomini e una fiumana di donne sfruttate dell’Europa dell’Est sulle strade italiane. Una tratta delle bianche, migliaia di donne, una tratta dimenticata, ormai molto ridimensionata, una tratta di cui non si conoscono bene i contorni e forse, conoscerli, non interessa a molti. Sono solo le puttane dell’est, quelle che rubano i mari- ti delle italiane, quelle che non vogliono lavorare. Solita storia, cambia solo il colore della pelle. Donne, sfruttate, di qualsiasi colore ed etnia o provenienza. Solo merce per soddisfare le voglie predatorie degli uomini. Riggs ne ha fatta di strada, letteralmente. Ogni notte in servizio nelle strade della città, da quelle più desolate a quelle più trafficate. Strade su strade, ogni volta, a cercare di contrastare il mercato della carne umana. E non tutte le donne che ha incontrato sono riuscite a uscirne. Alcune sono morte ammazzate di botte, o sparate. Il ricordo di Karen lo affligge. Alle pareti dell’ufficio del capo della SAT c’è una foto con il giudice Caselli che lo prende sottobraccio sorridente. Bisogna essere specializzati, solo così si può affrontare un problema e venirne a capo per davvero. Se non si è specializzati non si comprendono le evoluzioni dei fenomeni. Il giudice Caselli lo ripeteva sempre, e per Lotito era diventato come un passaggio della Bibbia, sacro e vero. È questo il motivo per cui il suo telefono squilla in continuazione. Tutti, ora, hanno bisogno della specializzazione della SAT. Prima lui era “quello delle puttane”. Dopo anni a lavorare nel nucleo di PG, e dopo un cambio al vertice, aveva deciso di gettare la spugna. Di mollare tutto. La gente crede che le forze dell’ordine siano immutabili, e così la magistratura. Non è per niente vero. Dipende dalle persone, sono sempre e solo le persone che possono fare la differenza. Caselli e il suo vecchio comandante avevano dato un’impronta, una svolta. Gente pratica, operativa. Avevano capito come dare battaglia alla criminalità organizzata in città. I nuovi cambi, invece, lo avevano scoraggiato. Funzioni di potere affidate a incapaci, questa era la verità. Era il momento di farsi trasferire in Procura. Lì c’era un’altra persona di quelle che fanno la differenza, il vice pro- curatore Ausiello, che conosceva la caparbietà di Lotito. Non possono metterla con un magistrato soltanto, sarebbe uno spreco, lei conosce troppe cose, conosce i meccanismi che animano la tratta, sa chi muove i fili. Non posso rimanere dove sto, non c’è più spazio per me. Altrimenti me ne vado in pensione anticipata. Lasci stare la pensione che m’impazzisce il giorno dopo. E se creassimo una squadra antitratta, con compiti specifici e forze specifiche, un pool di magistrati che si occupano di questo fenomeno in maniera continua? Di quanti uomini stiamo parlando? Cinque, compreso lei. Pensavo cinque senza di me. Il tono sarcastico gli era uscito quasi senza accorgersene. E solo una stanza, per cominciare. Non posso fare molto di più. Ma credo che questa squadra sia necessaria e lei mi dovrà dimostrare che funziona che porta risultati, altrimenti si chiude subito. Accetto, per me va bene, ma gli uomini li scelgo io. Perché pensa di essere così bravo? No, non penso di essere bravo, ma so di chi mi posso fidare, e voglio dei giovani, devo formarli io per questo incarico. Ha carta bianca, ma gli uomini sono quattro, cinque con lei, e gli spazi una stanza. Un errore e si chiude, lo sa bene come funziona il nostro mondo. Inizi con questa squadretta e vediamo dove si va a finire.Così era nata la squadretta. Mal visti da polizia di Stato, Carabinieri e Finanza. Anzi, neanche visti, tanto erano troppo piccoli e troppo Polizia locale per riuscire a combinare qualcosa. Erano solo una squadretta.Non hanno sbagliato un’inchiesta, neanche una. La squadretta ha fatto miracoli e arresti. E ora è un gruppo di dieci uomini con degli uffici che stanno dentro un corridoio di un ex carcere. Ecco perché a Lotito piace ascoltare i passi dei suoi uomini, perché significa che hanno spazio. Molto spazio. Prima, nell’unica stanza che avevano a disposizione per lavorare, i passi non rimbombavano. Lotito si avvia verso le stanze dell’ascolto protetto. Un piccolo orgoglio della squadra. Pareti dipinte di verde, colori rilassanti, frasi di autostima in inglese, immagini di paesi africani. Qui le donne vittime di sfruttamento vengono ascoltate, dopo essere state liberate. Un ambiente protetto, semplice, per far capire loro che non sono sole. Hanno fatto tutto da soli, le donne e gli uomini della SAT: pittura, quadri, soprammobili etnici, tutto per non far spaventare le donne che andavano lì a raccontare le atrocità subite. Ma non avevano potuto portarci Glory. Era stata lei a dare inizio a tutto, un’operazione durata quattro anni, con quarantaquattro arresti e due cults, clan africani, smantellati. Glory Omorogbue, con l’aiuto di un’associazione, aveva denunciato le sue madame, madre e figlia: Omosigo e Faith. Aveva avuto il coraggio di ribellarsi e di denunciare. E quel fascicolo redatto in un commissariato era stato il primo affidato alla neo costituita SAT. Riggs ricordava ancora il tonfo delle carte sulla sua scrivania, in quell’unica stanza nella procura di Torino. Vediamo di capirci qualcosa di più di questa denuncia. Nessuno avrebbe immaginato che stavano per fronteggiare uno dei clan più agguerriti delle mafie africane. (Estratto da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova)

Il comandante che conosce tutti i segreti. Sergio Nazzaro su La Repubblica 18 ottobre 2019.

(Intervista di Sergio Nazzaro al commissario Fabrizio Lotito estratta da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova).

Fabrizio Lotito, comandante della Squadra Antitratta della Polizia Locale di Torino.  Dal tuo punto di vista d’investigatore e analista, quanto è stato compreso il fenomeno delle mafie di provenienza africana e, soprattutto, della mafia nigeriana?

«Abbiamo capito poco, purtroppo. Abbiamo capito poco nonostante ci siano stati diversi segnali e anche un documento dei servizi segreti datato 2011, che rilevava una disattenzione verso le mafie straniere. Il documento sottolineava come a una forte attenzione verso le nostre mafie, estremamente pericolose, non corrispondesse una stessa attenzione verso quelle straniere, soprattutto di origine africana, che si stavano rafforzando sempre di più. Adesso sembra esserci un’attenzione maggiore, ma rispetto alla mafia nigeriana c’è sempre l’idea che sia una mafia passeggera, incapace di incidere sui territori e non troppo pericolosa».

A me sembra che si vada avanti, piuttosto che con le analisi, con le sensazioni e le paure. Manca un serio ragionamento sull’origine, la pericolosità e i metodi di contrasto.

«Esattamente questo è il punto. Ormai tutti parlano di mafia nigeriana, dovunque, anche quando non c’è la mafia nigeriana. Non c’è uno studio serio e analitico del fenomeno a tutti i livelli, eppure noi siamo il porto del Mediterraneo e, di conseguenza, il fenomeno dovremmo affrontarlo con estremo rigore e attenzione. Non si può improvvisare in questo campo».

Vogliamo sfatare alcuni falsi miti che ora si stanno costruendo in merito? Il primo: la mafia nigeriana potrebbe “spodestare” quella italiana. Mi pare un’affermazione senza senso.

«Neanche io lo credo, assolutamente no. Ma non bisogna sottovalutarne la pericolosità. La mafia nigeriana sta occupando lo spazio lasciato vuoto dalle nostre organizzazioni criminali, si occupa di tutti quei reati che creano allarme sociale come lo spaccio e la prostituzione. Come tu hai evidenziato, le mafie coesistono ed è qui che intravedo la loro pericolosità, in questa saldatura di mafie diverse ma unite per lo stesso fine».

L’allarme sociale permette alle nostre mafie di operare silenziosamente. Lo dicevano anni fa gli uomini del clan dei Casalesi: lasciare lo spaccio e la prostituzione agli africani mentre loro si occupano di cemento e TAV. È così?

«Precisamente. Così facendo le organizzazioni criminali si dividono territori e interessi e controllano completamente il malaffare, dai grandi appalti allo spaccio in strada. Come ti ho detto più volte, credo che il nord stia diventando una zona franca».

Mi fa riflettere il dato sugli spacciatori in strada…

«Un’analisi svolta direttamente sul terreno. La quasi totalità degli spacciatori in strada è straniera. Italiani non ce ne sono più. Non perché non gestiscano il traffico di droga, ma perché gestiscono i traffici piuttosto che lo spaccio al dettaglio. Le mafie si muovono con i loro colletti bianchi nella finanza, nell’edilizia, nei grandi investimenti e negli appalti, mentre la massa, in strada, è tutta manovalanza sacrificabile, anche perché c’è molto ricambio, e immediato. Tempo fa, la maggioranza degli spacciatori era marocchina, tunisina, dei Paesi mediterranei. Oggi sono tutti senegalesi, nigeriani, ivoriani… West Africa. Questo ti permette di comprendere gli spostamenti e le influenze».

Facciamo un punto sui campi d’azione delle mafie di provenienza africana: tratta di esseri umani, prostituzione, spaccio…

«Non tralasciamo la clonazione di carte di credito, le truffe telematiche, nelle quali i nigeriani sono un’eccellenza, se così si può dire. E aggiungiamo anche caporalato».

Anche traffico di organi umani?

«No, nessun traffico di organi, almeno a quanto mi risulta. Ovviamente, quando hai una massa così enorme di disperati, tutto è possibile. Ma devono essere sempre i fatti e le prove provate a parlare, non le semplici deduzioni. Io credo che questa possibilità appartenga molto di più ai Paesi dell’est Europa, dove le mafie hanno conoscenze e specializzazioni di ottimo livello in campo medico le quali, purtroppo, possono essere sfruttate dalla criminalità organizzata».

Quale può essere l’evoluzione di questa realtà criminale? La stiamo studiando entrambi da anni, e mentre se ne parla confusamente si dovrebbe invece capire dove si sta andando.

«Concordo sul fatto che per capire dove si sta andando, si dovrebbe prima aver compreso il fenomeno. Noi abbiamo a che fare con reati di strada, che creano allarme sociale, e allo stesso tempo producono disordine nelle città, e la progressiva perdita di controllo di interi quartieri. La prostituzione e lo spaccio sono crimini visibili, percepiti dal cittadino comune, che si sente insicuro. È questo che crea allarme sociale».

Un mercato di cui gli acquirenti sono gli uomini bianchi, ribadisco.

«Certamente, se hai un’offerta è perché c’è una domanda, e questo deve essere chiaro a tutti. Se in un mondo ipotetico, i bianchi la finissero di sfruttare la prostituzione e di comprare droga, le strade sarebbero sicure dall’oggi al domani».

Razzisti di giorno e acquirenti la sera.

«Razzisti di giorno che poi alimentano il caos la sera. Sai quante volte abbiamo ascoltato nelle intercettazioni insospettabili cittadini fare la parte degli irreprensibili e poi, la sera, andare a cercarsi la loro prostituta e la loro coca? Non si contano. Sono gli stessi cittadini perbene che poi al bar se la prendono coi trans, che dicono perché non spariamo ai neri al confine e via dicendo. Una doppiezza che disgusta, perché sono complici della criminalità, bianca o nera che sia».

Tutti questi traffici generano enormi somme di denaro, rimesse economiche.

«Che vanno in Nigeria».

Esattamente.

«In Nigeria i soldi servono per acquistare armi. Lì i conflitti politici non vanno avanti con gli slogan, come qui, ma a colpi di arma di fuoco.

Perché in Nigeria ci stanno i vertici apicali, che sono anche nella politica.

«Hai inquadrato perfettamente il problema. La politica è corrotta al punto che governatori di alcuni stati nigeriani sono nei Secret cult, sono parte organica dei gruppi mafiosi. Non proprio una novità, anche questa, per noi in Italia. Ogni forza criminale ha profonde connessioni con la politica, le mafie nigeriane le sviluppano, “giustamente”, nella loro madre patria».

E la casa madre ha uno o più capi che comandano?

«È un sistema verticistico: c’è un capo e poi, a scendere, tutti sotto capi. Una struttura ben consolidata e non improvvisata. I gruppi all’estero, per quanto indipendenti, alla fine rispondo ai clan di riferimento in Nigeria o nel Paese di appartenenza, e rispondono alla gerarchia.

I vertici si rinnovano, o finché morte non lo decreta?

«In Italia i vertici si rinnovano ogni due anni, questo lo abbiamo accertato attraverso le nostre indagini. In Nigeria non abbiamo ancora un quadro preciso, ma presumo che alcune dinamiche non possono che essere simili».

Abbiamo mai avuto in Italia la presenza del capo dei capi nigeriani?

«Per fortuna sì, e come hai scritto nel tuo racconto, le investigazioni hanno bisogno anche di un pizzico di fortuna per andare avanti. Per dirimere la lotta interna dei Maphite è venuto nel nostro Paese il numero due a livello mondiale dell’organizzazione, che proveniva da Londra. Questo dimostra anche che sì, c’è una casa madre, ma i capi di questa casa madre possono risiedere anche altrove. E dimostra la fluidità di questa mafia, mostra come si muove globalmente e come i rapporti gerarchici siano comunque forti e rispettati. Se non fosse venuto in Italia non lo avremmo mai incastrato».

La liquidità di questa mafia, il rinnovo delle cariche, la fluidità nelle gerarchie… che cos’è che determina tutto questo?

«La voglia di emergere dei vari componenti».

Beh anche i nostri clan hanno elementi che spingono per emergere, ma vengono ammazzati.

«Qui in Italia, fortunatamente, come emerge dalle intercettazioni, evitano di ammazzarsi tra di loro, semplicemente perché si ricordano di essere in Europa, in Italia e quindi le faide interne, gli omicidi attirerebbero troppo le attenzioni sulle loro attività. Le cariche si rinnovano anche perché nei ruoli apicali si guadagna molto, e i più capaci e intraprendenti scalano in fretta la vetta».

Quanto guadagna un ruolo apicale?

«Parliamo di quasi diecimila euro al mese per un capo, a scendere fino ai tremila euro al mese per i ruoli alla base gerarchica. Quindi stiamo parlando di cifre non piccole. Vengono pagati su base trimestrale. Un “professore” percepisce quasi trentamila euro ogni tre mesi. Sono soldi importanti. Arrivare a quei livelli significa guadagnare. Si organizzano fazioni per scalare e guadagnare. È una mafia più grezza, se vogliamo dirla tutta, differente dalla nostra, dove se sgarri muori. Questo è un tratto di netta differenza».

Qui in Italia non si ammazzano, ma in Nigeria la storia è diversa.

«In Nigeria è una guerra continua, non saprei come dirtela altrimenti.

Noi parliamo diffusamente di mafia nigeriana, ma ovviamente non è l’unica mafia proveniente dall’Africa.

«Accertata è l’unica. Comprendo il tuo punto di vista, ma tieni conto che la nostra giurisprudenza ha canoni di legge molto severi per definire la mafia. E, ad oggi, solo la mafia nigeriana ha “guadagnato” questo titolo con tutte le condanne ricevute. Per parlare di mafia occorre ci siano i presupposti».

Ovviamente. Se arresto uno spacciatore bianco, non significa che sia un mafioso o un camorrista.

«Precisamente, devi dimostrarlo, e ci vogliono tre gradi di giudizio. A mia memoria ci sono poche condanne portate al terzo grado per mafia. Il che non vuol dire sottovalutare il fenomeno, ma affermare che occorre un lavoro investigativo serio e fondato per reggere ai tre gradi di giudizio».

L’operatività quotidiana della mafia nigeriana.

«Lo spaccio è libero, ma devi acquistare da loro, l’unica fonte sono loro. Poi te la cavi da solo. Puoi organizzarti il tuo giro di spaccio liberamente, non come per la camorra o altre piazze di spaccio che sono inquadrate rigidamente. Anche qui, da telefonate intercettate, emerge chiaro che gli affari si fanno tra loro e basta, guai a rivolgersi ad altri gruppi criminali. Se questo avviene, scattano gli accoltellamenti e le spedizioni punitive, nelle quali però evita però sempre di arrivare a uccidere».

In merito alla droga, acquistano qui in Italia o la importano dall’Africa?

«C’è un paradosso, come dicevamo prima: anche se la loro struttura sembra grezza, hanno delle caratteristiche che li rendono ben organizzati, efficienti e, soprattutto, diffusi nel mondo. Loro sono dovunque, come le nostre mafie: ramificazioni, famiglie, contatti ai quattro angoli del globo. Se parliamo, nello specifico, dei Maphite, loro comprano direttamente in Sud America la droga, perché hanno una famiglia che ha contatti con i colombiani. Acquistano e, attraverso i loro canali, la fanno arrivare in Europa, in Italia, ai loro affiliati. Questa la è loro forza».

Domanda difficile: c’è distrazione rispetto alla mafia nigeriana o si tratta più di una volontà di ignorarne la pericolosità?

«Domanda complessa davvero. La distrazione nasce dalla sottovalutazione. All’occhio del cittadino comune la mafia nigeriana è disordine urbano, non viene percepita come una struttura criminale complessa e radicata. E siccome non avrà mai rapporti con la politica, nemmeno ai livelli più bassi, rimane disordine urbano, da qui nasce la sottovalutazione della sua pericolosità come entità criminale. Che sia una volontà non voglio neanche pensarlo e non lo credo. La magistratura, i colleghi delle forze dell’ordine lavorano ogni giorno e non sottovalutano nessun pericolo. Certo, è necessario un database, una maggiore organicità di informazioni e forze in campo che si dedichino a questo specifico problema».

Io penso che le nostre forze dell’ordine abbiano bisogno anche di seconde generazioni nelle loro fila, sempre di più. Non averle, in un mondo globale, con mafie globali, sarebbe un errore colossale.

«Sicuramente la globalizzazione ha necessità di una risposta globale da parte delle nostre forze dell’ordine. Abbiamo bisogno di infiltrare le diverse mafie straniere e quindi servono seconde generazioni operative, che parlino la lingua ma, soprattutto, comprendano la mentalità criminale che abbiamo contro».

Cosa ti ha colpito di questa decennale lotta contro la mafia nigeriana?

«Vedi, dovunque c’è una mafia ci sono persone oppresse, donne, bambini e uomini sfruttati, impoveriti. Tanto possono essere forti le mafie, tanto può essere determinata la reazione dei buoni, degli onesti. In Italia abbiamo una cultura antimafia diffusa e forte, ma anche con tante debolezze. Vedere nigeriani, senegalesi e tante altre persone oneste che si vogliono costruire una vita onesta e non cedono al ricatto delle loro mafia, a me pare un esempio di grande coraggio. Ascoltare ragazze che denunciano le loro sfruttatrici, a volte nella completa solitudine, significa sempre e solo una cosa: i mafiosi, così come gli onesti, non si possono e non si devono suddividere in base al colore della pelle».

La Cupola nera che si riunisce. Sergio Nazzaro su La Repubblica il 20 ottobre 2019. Estratti dal libro di Sergio Nazzaro "Mafia Nigeriana, la prima indagine della squadra antitratta, editore Città Nuova”. Il commissario Lotito guarda la gente in piedi, schiacciata. Tutti addosso a tutti. La grande nazione avanzata che siamo. Treno in ritardo, sovraffollato. Lo stesso, ogni giorno. Non cambia mai. Eppure, a leggere il giornale sembra che i problemi siano sempre altri. Un’apocalisse annunciata dietro ogni pagina. L’aria pesante del vagone, il sudore e il senso di superiorità di un Paese che non riesce a far sedere nessuno. Questa è la verità. Ma loro chi sono? Quanto potenti sono? Non sparano. Lo fanno dopo. Prima ti tolgono i documenti e ti sbattono in carcere. Tutto comincia a tornare, un film già visto. Le mafie al potere, semplicemente. In Nigeria arrivano, come in Italia, a controllare i gangli vitali delle istituzioni. Si ricorda di un altro passaggio che ha letto. La sua squadra sta analizzando migliaia di ore di intercettazioni. Un lavoro che avrebbe angosciato anche il più volenteroso degli agenti. Un fiume di parole da controllare e ricontrollare, per sostenere l’esame in un processo. Dialetti stranieri, italiano parlato male, interferenze telefoniche, cambi continui di numero. È tutto un casino. Ci vuole pazienza. Non titoloni sparati solo per vendere qualche copia in più. Ci vuole pazienza per arrivare a prenderli, appena mettono piede in Italia. Loro. Il Commissario Lotito sfoglia velocemente le carte, evitando di dare una gomitata nello stomaco a uno studente sdraiato addosso a un fortunato che ha trovato un posto a sedere. Innocent, il condannato a morte, ha dato le indicazioni giuste, bisogna seguire le sue tracce.

Innocent: «Lo sai che per colpa di quegli uomini da Londra e da altri Paesi hanno detto di no. Lo stai capendo?».

Precious: «Sì, lo capisco».

Innocent: «Okay, ma domani Londra verrà, il Don in Nigeria verrà, Olanda verrà, Belgio verrà, anche il Double di Belgio. Vogliono identificare tutti quanti. Quindi tutti quanti, anche quelli di Roma. Verranno presto tutti quanti, soltanto per essere riconosciuti, che vuol dire che sarai ben conosciuto al mondo intero. Mi capisci? Se loro ti riconoscono qui, ti riconosce il mondo intero».

Qualcosa sta accadendo. Loro stanno per radunarsi tutti insieme, stanno arrivando. Ma dove, quando e come rimane un mistero, è tutto avvolto nella nebbia. Questa volta non ci stanno solo i ragazzi, i piccoli spacciatori di strada, quelli che clonano le carte di credito. No, questa volta ci stanno i capi, italiani e internazionali, che stanno per arrivare in Italia. Lotito vuole guardarli in faccia, stanarli, capire fin dove arriva il loro potere. E quanto di quel potere lambisce i poteri di casa nostra. Un terreno che non è mai stato esplorato prima. Si alza in piedi, per modo di dire. Piegato tra i tanti che devono scendere alla sua fermata. Questo il volto sconosciuto della lotta al crimine organizzato. Provare a scendere alla propria fermata. Venti minuti di ritardo, puntuali. Il commissario cammina verso casa. Chiama CP al telefono. Stanno per arrivare, si riuniscono qui in Italia per sistemare tutte le questioni in sospeso. CP non capisce. Scusa capo, chi si sta radunando? I tuoi parenti? C’è qualche festa? Non fare lo spiritoso, i Maphite stanno organizzando un raduno nazionale, la loro cupola si vedrà qui a breve. Silenzio dall’altra parte del telefono.

Come troviamo il luogo? Li dobbiamo seguire. Dobbiamo seguire i pesci piccoli. Che ci porteranno dai loro Don locali. E una volta arrivati lì, non li molliamo più. Basta mettere ordine tra le intercettazioni.   È chiaro che sta succedendo qualcosa. Qualcosa di grosso. C’è poco da fare, il desiderio di potere fa commettere errori, sempre.

Che devo fare? Concentriamoci sulle telefonate di Innocent. Non lo sa ancora che è un bersaglio, ma la sua voglia di scalare la gerarchia ci può dare indicazioni precise su quando potrebbe avvenire l’incontro dei capi. Ricevuto, ci vediamo domani in ufficio. Anche se a piccoli passi, Lotito sente che si stanno avvicinando a loro. Il centro del male. Sì, questo sarebbe stato proprio un bel titolo per un giornale: il centro del male. Suona bene. Ma la realtà è meno poetica e più semplice: una banda di cri- minali, molto ben organizzata, padroni a casa loro e ospiti in Italia, che si muove rapidamente, approfittandosi della confusione di uno Stato con troppi problemi e in cerca di soluzioni facili, perché non c’è tempo di andare a fondo, di capire cosa sta succedendo. Mentre sale le scale, squilla il telefono. Nello stesso mo- mento la porta di casa si apre. C’è una vita privata che aspetta sempre che tu finisca le tue telefonate. Lo sguardo della mo- glie del commissario è sconsolato.

Sono il capitano dei Carabinieri. Mi dia solo un attimo. Un bacio al volo, lo sguardo di una vana promessa: è l’ultima telefonata della giornata. Li abbiamo fermati all’uscita del casello dell’autostrada. Due macchine, quattro per ogni macchina. Uno non aveva la patente, ma abbiamo lasciato correre, gli abbiamo detto che se l’aveva a casa poteva portarcela il giorno dopo. Non hanno mostrato segni di nervosismo. Aveva ragione lei. Non aveva- no nulla addosso. Si stavano radunando. Abbiamo fermato anche i suoi uomini. Così da non destare sospetti. Controllo generale di tutti i veicoli in uscita dall’autostrada. Abbiamo tutti i nomi, le residenze, e abbiamo piazzato il segnalatore, come ci avete chiesto. Grazie per tutto l’aiuto capitano. Se me lo avessero detto, che avrei lavorato per i vigili urbani, non c’avrei creduto. Succede anche ai migliori, mi creda. Le sensazioni del commissario Lotito sono giuste. Qualcosa si sta muovendo. È in corso un incontro a livello di forum locale. Ogni gruppo si sta incontrando per portare le proprie istanze ai Don mondiali che stanno per arrivare.

Si siede a tavola, il piatto pronto, squilla il telefono: Ti giuro, è l’ultima telefonata. Allora, si sono sposati? Sì capo, abbiamo un bel servizio fotografico. Alcuni sospettati stavano partecipando a un matrimonio. Sherlock si è offerto volontario per diventare il fotografo ufficiale del comune, solo per quel giorno. Si sono insospettiti all’inizio. Poi li ho convinti. Le foto era- no da parte del comune, gli ho detto, prezzi concorrenziali, anche perché sarebbero servite per far vedere la multietnicità del territorio. Con l’aria che tira, il comune si sta offrendo di immortalare il giorno più bello della vostra vita. Con un minimo di contributo, che poi serve anche per fare una raccolta fondi alla fine dell’anno.

E si sono bevuti questa cazzata? Ho il mio modo di fare capo, so essere convincente.

Li hai fotografati tutti? Dal primo all’ultimo, ora comincio gli incroci.

Il commissario guarda l’orologio, le dieci di sera. Il piatto freddo, la moglie seduta sul divano a guardare la televisione. Non si è accorto di nulla, lui. Lei invece sì.

(Estratto da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova, Roma, 2019 - pp. 39-43)

"Sputare fuoco” e terribili vendette.  Sergio Nazzaro su La Repubblica il 21 ottobre 2019. Sergio Nazzaro è l'autore di "Mafia Nigeriana, la prima indagine dell Squadra Antitratta”, edizioni Città Nuova. Sputare il fuoco. Ejor non lo ha capito. Appena entrato nel bagno, I.K. ha dato l’ordine e ha cominciato a scorrere il sangue. Un massacro di botte perché Ejor ha trasgredito agli ordini, ha affiliato senza consenso, ha commerciato con il gruppo degli Eye. Era stato avvisato più e più volte, ma nulla. Un matrimonio è il momento adatto per regolare i conti. Alla maniera nigeriana, con una violenza brutale e devastante. Gli omicidi ancora non rientrano nel catalogo degli orrori, ma solo perché attirano troppa attenzione. Almeno al momento. Poi probabilmente c’erano e ci sono luoghi in Italia pieni di cadaveri, tanti nessuno senza documenti e senza storie, fantasmi abbandonati in un fosso. Ma la regola è chiara: non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Ejor lo ha imparato a sue spese. Insieme a Uyi, massacrati di botte dentro un bagno, durante un matrimonio di connazionali. Un palo a fare da guardia e dentro si regolano i conti. Gli Show Guy, ovvero gli affiliati Maphite, sempre pronti a marcare il terreno. E siccome il terreno di azione non è solo l’Italia, ma la casa madre in Nigeria, la direttiva è che i conti si regolano giù, con omicidi continui. Sgarri in Italia e muoiono i tuoi parenti in Nigeria. La direttiva è chiara: «Non attirare l’attenzione, niente di troppo rumoroso. Silenzio. E nella casa madre si colpiscono traditori, infami e nemici». Ejor, insieme a Uyi, è finito in una pozza di sangue. Denudato, le scarpe buttate vie. L’umiliazione oltre la violenza. Le regole non si possono sgarrare. Niente affari con i gruppi rivali. Non si ruba, non si tradisce il silenzio, non si collabora con le forze di polizia. Non ci si pente. Altrimenti paghi, tu e i tuoi familiari, anche se sono in Africa e non a Torino, o a Bergamo, a Brescia, a Castel Volturno o a Palermo. La lunga mano nera della vendetta arriva dovunque. Senza risparmiare nessuno. Maga, la punizione corporale, è impartita appena viene “sputato il fuoco”, ovvero appena viene dato l’ordine di attacco, e i man fighters, il gruppo di fuoco, massacrano. E i Maphite continuano a imporre il loro potere. Stessa sorte è toccata a Sege. Ha infranto la regola degli M., i Maphite. «Gli uomini si sono presentati a casa della madre di Sege, direttamente. Anche una visita alla madre di Ede. Ti dico, adesso Sege deve stare zitto. Lui non potrà neanche più entrare a Benin City. Infatti da quello che so la faccenda di Sege ha oltrepassato i limiti. Si è messo in una posizione che non ti dico. Lui è malmesso, e se lo beccano gli fanno male. Non doveva fare arruolamenti nel gruppo illegali. Non possiamo prendere tutti. Tu dovresti ricordare che “quelli là su”, i capi dell’organo internazionale del GCA-Maphite, ci avevano dato la possibilità di risolvere questo tipo di problema a casa nostra, senza dover intervenire loro, ma ormai è tardi. Loro sono andati a casa dei parenti di questi. Si sono presentati a casa di Ede, di A-B e di Sege. Ti dico, per il pestaggio tutti i presenti sono dovuti scappare. Ede si è subito messo in contatto con i suoi parenti in Nigeria, stava provando a impedire la spedizione punitiva contro i suoi parenti. Ma non c’è scampo. La notte di sangue arriva sempre. Non c’è scampo per nessuno». Riggs alza la testa dai suoi fogli. Nel corridoio qualche passo sparuto dei suoi uomini. Un’indagine è fatta di infinite ore dietro a una scrivania oppure in strada a un appostamento. Poi qualche giorno di azione, breve, intensa. Poi di nuovo analisi, studio, incrocio dei dati. Un orrore dopo l’altro. Lo lascia senza fiato l’ascolto di un’altra intercettazione. Può solo ascoltare. Non sa dove si trova l’intercettato. Un’intercettazione sporca, dove si sentono solo le grida di un presunto membro del gruppo massacrato di botte. Lacrime e urla. Avrebbero voluto intervenire ma nessuno sa dove si sta compiendo il massacro. Potrebbe essere dietro l’angolo come a centinaia di chilometri. Ha preso in mano lui la registrazione e si è incaricato di trascriverla per non dimenticarla. Nel perfetto linguaggio burocratico della polizia giudiziaria. Si è messo dietro la scrivania, mani sulla tastiera: «Nella telefonata di cui al prog. Nr. 673 è stata registrata in diretta l’esecuzione di una punizione corporale da parte di Edogiawerie Bright, Don nazionale, nei confronti di una persona non identificata. Ha precisato la p.g. operante che non ha potuto predisporre un intervento per impedire che l’azione criminosa venisse portata a compimento in quanto non era noto il luogo ove gli interlocutori si trovassero. Inoltre l’ambientale non è stata ascoltata e tradotta “in tempo reale”, bensì a distanza di qualche giorno dal momento in cui il segnale è stato registrato». Il senso di impotenza è la cosa peggiore. Non le ore infinite di lavoro, gli straordinari pagati il minimo. Non gli ostacoli burocratici, ma il senso di impotenza di non esserci al momento giusto. Anche se è una faida interna e potrebbe valere l’antica regola del “basta che si ammazzano tra di loro”. Per Riggs non funziona così, lui li vuole prendere tutti, interi e vivi. Non si devono uccidere tra di loro, li vuole vedere marcire in galera per mano sua. Una bella differenza. Per chi riesce a capirla. Il commissario riprende in mano una vecchia informativa, anzi, per dirla tutta, un vecchio interrogatorio svolto in una piccola stazione di polizia nel sud Italia. Se vuole capire l’evolversi della mafia nigeriana, deve studiare quanto più possibile quello che è successo prima. Quella testimonianza è fondamentale, per certi versi. È la dimostrazione di come si muovono, di come dall’Africa arrivano in Italia, dal nord al sud, e poi di nuovo al nord, a Torino per la precisione. Tutto torna, bisogna solo unire i punti. Gira i fogli ingialliti e trova una stampa di quelle traforate ai lati. È un fenomeno vecchio quello della mafia nigeriana. E quella stampa dei colleghi del commissariato di Castel Volturno ne è la dimostrazione. Una stampa a fogli traforati, fatta ad aghi, sembra una cosa di un secolo fa. Gli hanno fatto avere  la copia originale, tanto a chi potrebbe interessare? Quei fogli dicono tutto, anche se non li ha ancora letti. Spontanee dichiarazioni, chissà quanto spontanee poi. Sorride e comincia a leggere. Per capire un fenomeno, meglio cominciare all’inizio piuttosto che dalla fine. Per quanto ovvio possa sembrare, è così che funziona. Legge sul foglio la data: 2005, quattordici anni prima. «Amico bello, non sono arrivato qui su un gommone. Tu capisci? Ho scelto Jean come nome perché è elegante. Nome italiano no, io nero che mi chiamo Salvatore o Antonio. Sanno che è falso. Sono arrivato a Napoli con il treno. Semplicemente, cosa credi che sono disperato? L’Italia è sempre stato il Paese più facile dove stare. Basta entrare e rimanere. Sono partito da Benin City, sono andato a Lagos. E ho preso un aereo per Parigi. Poi con il treno sono andato prima a Torino, perché a Torino ci sono tanti fratelli e si sta costruendo una grande base. Poi sono sceso a Napoli, passando per Roma. A Napoli avevo già amici del mio Paese che potevano darmi da dormire, sai no, un posto. Prima era molto più facile, no. Tutti quelli dell’Est Europa che entravano, erano i nuovi, le facce nuove e chi li aveva mai visti. Erano più strani loro che noi con la pelle nera. Non vogliamo problemi. Sono arrivato a Napoli e mi sono spostato a Qualiano. Più tranquillo. Sono arrivato con solo una valigia sai, qualche vestito. E qualche soldo che avevo preso. Sapevo che alcuni lavoravano, ma per che cosa, pochi soldi, nella terra. A fare ricchi i bianchi. Voi non volevate fare più il lavoro pagato poco e lo facevamo noi, semplice. C’è sempre qualcuno che si accontenta di poco, se prima non hai proprio niente. Per i bianchi fanno schifo le case povere, non dire no amico, lo so che per voi fa schifo. Ma vedi, le case povere sono vicino al mare, il tempo è quasi sempre bello, io non avrei mai avuto una casa così a casa mia. E non ci sono topi. Il cesso funziona. La merda va via con l’acqua. Tutto regolare eh, si paga affitto. Sì, a nero. Nessuno sa mai di chi sono le case qui, però c’è sempre qualcuno a cui devi pagare l’affitto. Al padrone di casa. Meglio noi e i nostri soldi che nessuno. E poi la teniamo un poco a posto. Così non si rompe tutta. E poi facciamo la guardia che nessuno ruba. Ci sono troppi ladri, zingari, sai, che rubano qua. Ma ora hanno capito che quando vedono un satellite, sai, la televisione, devono stare lontani. Non devono avvicinarsi che si fanno male. Cerchiamo di tenerle nascoste, altrimenti sanno che c’è qualcuno dentro, ma loro, gli zingari, quando si avvicinano troppo possono vederle. Io vado a Qualiano e mi dicono che a Castel Volturno ci sono tante case. Che si sta più tranquilli, che basta seguire le regole. E basta così. C’è da lavorare, molto. E vado a stare a Castel Vol- turno. Con autobus. Arrivo e mi portano in un bar dove c’è già il padrone della casa. Qualcuno di noi fa solo questo di lavoro. Trova i padroni delle case e organizza gli affitti. Loro vengono da Napoli, da Caserta, una volta al mese, e prendono i soldi. Tu paghi e sai che loro non dicono niente. Non conviene. Devi essere preciso a pagare. Basta questo. Noi siamo tranquilli. Loro sono tranquilli. E tutto va a posto. Non bisogna imbrogliare il padrone di casa. Vedi, quelli che vengono con il gommone, non sanno proprio cosa fare. Noi nigeriani non facciamo queste cose. Noi veniamo come persone normali e rimaniamo. Tanto tempo fa. Ero venuto qui, come ti dicevo. Spacciare droga è il lavoro che dà molti soldi. Ma non è così facile. Tu puoi fare quello che vuoi qua. Ma devi stare attento agli altri gruppi. Poi ti spiego. Se hai soldi puoi organizzarti. Io volevo incontrare chi comandava. Nigeriani come me. Ora sono troppi gruppi che vogliono fare tutti la stessa cosa. Loro sono venuti da nord, da Amsterdam, dal Belgio. Una riunione qui a Castel Volturno per i fatti loro. Tutti con belle macchine, permessi regolari, niente droga o schifezze. Tutto regolare. Sapevo che venivano. Volevo cominciare a lavorare, sai no. Devo mangiare anche io. Che succede però. Loro volevano dare una lezione a uno che non stava nei patti, no. Questo non portava mai i soldi puntuale. Chiedeva sempre, ma non portava mai. Sempre a mani vuote a dire che non funziona questo o quello. Lo chiamano e lo puniscono. Sai, non si deve fare molto rumore, però una lezione la devi dare. Loro si fanno chiamare Eye Supreme Lords, Black Axe, ma ci sono anche i Sea Dogs, i Pirati e i Bucanieri. Tanti nomi, ma poi hanno capito che basta la parola mafia. Come da voi. Questi chiamano questo ragazzo, Noel si chiamava. Lo chiamano per chiedere spiegazioni e per dare una lezione. Lo incontrano in una campagna vicino al mare. E gli danno una lezione. Lui cosa fa? Va dalla polizia, perché non aveva nessuna altra possibilità. Lui aveva sbagliato, non pagare non si fa, non hai più amici. Io vado con il motorino a incontrare i capi. Loro stanno in una villetta ad Ischitella, appena prima di Napoli. Io vado e arriva anche la polizia mandata dall’infame. E che posso fare?Lascio il motorino e vado via. Là è rimasto. Puoi lasciare le cose qua, come da noi, scompaiono un poco alla volta. Se provi a nascondere qualcosa, la trovano tutti, se la lasci davanti agli occhi, nessuno lo vede. E poi scompare. Il giorno dopo sul giornale non c’era niente. Loro sono stati lasciati liberi e nessuno aveva capito che qui facevano riunione i capi. Troppi problemi qua, non puoi pensare anche ai neri. Io poi sono riuscito a incontrare i capi. Ora te la racconto. Sai, mi hanno anche arrestato. Perché ultimamente Castel Volturno stava diventando troppo conosciuta e dovevamo portare droga in altri posti, perché la cercano sempre tutti. Qui c’è lavoro da tutti i posti. Noi portiamo quello che cercano. Mi hanno arrestato molte volte, sempre cacciato, e io sono tornato qua. L’ultima volta mi hanno arrestato in questo posto nuovo, vicino Salerno. Stavo cercando di incontrare i miei piccoli. Poi ti spiego chi sono i piccoli. Però poi sono uscito. Come sempre. E ho comprato i fogli nuovi. Tanto per rimanere qui hai solo bisogno di fogli di carta. E non sono difficili da fare. E mi hanno portato al nord. Non ho capito perché, ma non penso che anche altri hanno capito perché. Sai, la prima volta ti spaventi quando ti arrestano, poi è normale. Qualche volta è pesante. Ma cosa hai da perdere? Quando non hai niente nella valigia, puoi solo riempirla. Non svuotarla. E così al nord sono rimasto. Ci sono tanti nuovi fratelli e non ci stanno tanti capi bianchi e lavori in santa pace. Torino è bella città. Nessuno ti dà fastidio».

(Estratto da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova)

Torino è “bruciata”. Sergio Nazzaro su La Repubblica il 22 ottobre 2019. Sergio Nazzaro è l'autore di "Mafia Nigeriana, la prima indagine della Squadra Antitratta”, edizioni Città Nuova.

Capo, posso fare una domanda? Lotito alza lo sguardo verso il Menestrello, gli fa cenno di andare avanti. Lo so che non è questo il momento, ma che facciamo dopo? Mi spiego: abbiamo dimostrato quello che sappiamo fare. Siamo una vera e propria squadra investigativa e lo stiamo dimostrando a tutta Italia. Dopo, ci faranno ancora lavorare o cominceranno a metterci i bastoni tra le ruote?

Lotito lo guarda dritto negli occhi: Qual è il punto, me lo spieghi meglio?

Tiziana interviene per portare a termine il ragionamento di Carlo il Menestrello. Lo sai come funziona capo, se metti a segno una buona indagine, qualcuno si inalbera. Fuori da queste mura, la gente crede che andiamo tutti d’amore e d’accordo, ma la verità è un’altra. Non lo so che cosa succede dopo e non ci deve neanche interessare. So bene cosa state pensando tutti. Oggi ci prendiamo la rivincita verso quelli che ci hanno preso per il culo tutto questo tempo. Non solo siamo polizia locale, ma ci siamo messi anche a dare la caccia alla fantomatica mafia nigeriana. So che cosa abbiamo affrontato e come ci hanno preso poco seriamente, eppure eccoci qua. A qualcuno darà fastidio? Se ne faranno una ragione. Adesso dobbiamo rimanere concentrati e chiudere questo lavoro. Al resto ci pensiamo domani. È il momento di andare. Riggs si alza, raccoglie l’enorme fascicolo di carte sul tavolo e si avvia verso la sala riunioni. Se fosse stato un film, una serie tv, quello sarebbe stato il momento dell’emozione, quello in cui i protagonisti camminano al rallentatore con una musica trionfante in sottofondo. Invece niente di tutto questo. Solo il rumore dei passi e il vociare di centinaia di colleghi stipati e all’oscuro di tutto. Appena Lotito si affaccia in sala riunioni cala il silenzio. Tutti in piedi. Il commissario capo va subito a stringere la mano al capitano dei carabinieri. Sono da poco passate le cinque del mattino.

Dopo poco meno di un’ora di relazione, gli uomini escono: carabinieri e polizia locale. È il 13 settembre 2016. Una lunga fila di macchine senza lampeggianti accesi e senza sirene parte, alle prime luci dell’alba, per compiere una delle più importanti retate contro la mafia nigeriana. Le pattuglie raggiungono il loro obiettivo e attendono l’ordine dalla sala operativa, stabilita negli uffici della SAT. A coordinare l’operazione il commissario capo e il capitano dei carabinieri. Appena tutti gli obiettivi sono stati raggiunti, non solo a Torino ma anche nelle altre regioni d’Italia, parte l’ordine: eseguite. In simultanea, quasi 200 uomini delle forze dell’ordine scendono dalle loro auto e, armi in mano, sfondano le porte e cominciano ad arrestare gli affiliati dei Maphite e degli Eye. I telefonini vengono immediatamente sequestrati per impedire che gli affiliati possano avvisare complici e sodali. Poco prima delle sei e trenta del mattino cominciano ad arrivare da ogni pattuglia i nomi degli arrestati. Nell’ufficio centrale un tratto di penna mette una spunta a ogni nome. Dopo poco meno di un’ora il risultato è di 22 arrestati. Nei giorni successivi se ne aggiungono due, presi dalla polizia di frontiera mentre tentavano di scappare. La mattina successiva, l’operazione Athenaeum diventa un’agenzia giornalistica di poche righe. Anni di lavoro sintetizzati in poche righe. Perché nel 2016 la mafia nigeriana non fa ancora notizia. [..] Nel prosieguo delle indagini sulle ramificazioni della mafia nigeriana in Italia, la SAT ha intercettato la seguente conversazione: Dove possiamo fare affari fratello, possiamo andare a Torino?

Torino è bruciata, non va bene. È rischioso fare affari, c’è gente cattiva lì fratello. Sono fantasmi, ti ascoltano, sanno sempre tutto di te, lascia stare fratello non è buona città. Ce ne sono tante altre dove siamo forti e dove si può fare affari in pace fratello. Non tutti i Maphite credevano che Torino fosse bruciata. E il commissario Lotito lo sapeva. 19 Luglio 2019. Il commissario Lotito, riconosciuto come uno dei massimi esperti di lotta alla mafia nigeriana, nominato consulente della Commissione parlamentare antimafia, dopo aver condotto diverse altre indagini sulla tratta di esseri umani e un’altra sulla mafia nigeriana (Athenaeum Return), quest’ultima conclusasi il 18 luglio 2019 con l’esecuzione di quindici arresti a carico della nuova struttura del Secret cults Maphite, chiede di essere assegnato ad altro incarico, abbandonando il comando della Squadra antitratta.La profezia fatta dai suoi uomini durante la notte dei primi arresti diventa realtà. Anche le più importanti indagini, come sempre succede, diventano un trafiletto di agenzia. Anni di indagini, racchiusi in poche righe: (ANSA) – TORINO – Era un vero e proprio traffico di ragazze quello creato da una donna di origini nigeriane arrestata a Torino dagli agenti della Polizia municipale della sezione di polizia giudiziaria della Procura, Squadra antitratta. La “maman” è accusata di reclutamento, induzione e sfruttamento della prostituzione di due sue connazionali. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, coordinati dal pm Valentina Sellaroli, la donna costringeva le giovani a stare in strada: le vittime dovevano anche pagare un “affitto” per occupare lo spazio sul marciapiede. Chi non lo faceva, veniva allontanato. (ANSA) – TORINO – Mafia Nigeriana, trovata la “Bibbia”. Grazie alla “Bibbia Verde”, contenuta in un pacco inviato dal- la Nigeria all’Italia e intercettato nel capoluogo Piemontese,  gli investigatori sono riusciti a ricostruire la struttura del clan Maphite, le regole, le cariche e le investiture, i riti di iniziazione, le punizioni. Ogni operazione criminale – spiegano alla Polizia municipale – aveva un nome in codice. Il “Mario Monti” era uno di questi. L’inchiesta svolta dalla squadra mobile e dagli agenti della Poli- zia municipale di Torino, a cui appartiene la Squadra antitratta della Procura, ha portato a una quarantina di fermi, di cui quindici a Torino.Intercettazioni, pedinamenti, informative, interpreti, lingue, dialetti, tutto sintetizzato in poche righe. Notti insonni, pasti saltati. Tutto dipende dal momento: la mafia nigeriana deve essere sventolata come un trofeo? Fa paura? Non gliene frega niente a nessuno? Basta un’opinione banale, durante un talk televisivo, per riaccendere l’interesse. Nel frattempo, donne, uomini e bambini vengono abbandonati al proprio destino. Sobbalzi momentanei di coscienze assopite. (Estratto da Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta di Sergio Nazzaro, edizioni Città Nuova)

COME FA LA MAFIA NIGERIANA A REINVESTIRE I SUOI SOLDI IN ITALIA? Fabio Amendolara per “la Verità” il 21 ottobre 2019. Se per trasferire il denaro dei traffici illeciti all' estero la mafia nigeriana usa il vecchio e consolidato sistema dell' hawala, basato, come nel Medioevo, sull' onore dei mediatori che si passano il contante tra di loro fino a farlo giungere a destinazione, per reinvestire gli incassi in Italia, invece, ha messo su una sorta di credito cooperativo criminale: «Osusu», lo definiscono i magistrati della Procura nazionale antimafia che lo stanno studiando. Il fenomeno è nuovo ed è semisconosciuto agli investigatori, che gli dedicano un paragrafetto di poche righe in un documento in cui analizzano anche la diffusione dei clan nigeriani in Italia. Per ora si sa che l' Osusu è stato mutuato dalla regione a Sud della Nigeria in cui è usato tradizionalmente. «È una forma di risparmio», annotano i magistrati antimafia, «di cui i soci dispongono a turno». In Italia viene utilizzato soprattutto per la raccolta dei proventi derivanti dallo sfruttamento della prostituzione e per la successiva ripartizione tra papponi. Ma - è qui la novità importante - «a tale fondo», scrivono i magistrati, «possono attingere anche i connazionali per ottenere prestiti, talvolta creando le condizioni per pratiche usuraie». Non è, quindi, solo una cassaforte in cui depositare il contante da lavare. Perché alla raccolta seguono gli impieghi. Ricapitolando: i soldi dello sfruttamento delle ragazze su strada (ma anche provento di altre attività illegali) finiscono in una cassa. Una parte viene divisa tra chi si occupa di quel business. E una parte diventa microcredito per chi ne fa richiesta. Ovviamente, trattandosi di attività in mano ai criminali, i tassi spesso sono da usura. Un pezzo alla volta e dopo grandi sforzi investigativi i meccanismi usati dalla mafia nera, fino a qualche anno fa completamente inesplorata, vengono svelati dagli investigatori. La cassa, hanno scoperto le toghe, è mobile. Si sposta di città in città, «così come gli assetti territoriali dei vari gruppi non rimangono quasi mai stabili nel tempo». L'estremo dinamismo, valutano i magistrati, «è dettato principalmente dall' arrivo di cult competitor su quel particolare territorio». Insomma, quando si avvicina il clan rivale, la cassa mutua con finalità usuraie viene spostata in una piazza in cui l' attività criminale si può gestire con maggiore sicurezza. E, così, viene protetta. Una delle centrali di riciclaggio della mafia nigeriana più imponenti è in Piemonte. A Torino, dove da tempo ha messo radici una vasta comunità cultista, si sospetta che per pulire i proventi delle truffe informatiche, parte degli introiti finisse nella cassa, per poi tornare sul territorio tramite prestiti a chi ha avviato le classiche attività che rappresentano la zona grigia della mafia nigeriana: un negozio di telefoni cellulari, un money transfer o un Africa shop. «Nel dettaglio», valutano gli investigatori, «il sistema per trasferire illecitamente i proventi delle varie attività criminali è operante in quasi tutti gli Africa shop, gestiti dagli stessi membri del clan». Lì circola quotidianamente denaro contante ed è più facile non dare nell' occhio. Con molta probabilità finiscono nel sistema dell' Osusu, dopo vari passaggi su conti correnti e carte prepagate, anche i proventi di un altro grande business dei nigeriani, quello delle frodi informatiche e della clonazione delle carte di credito.

Passaggi di denaro. L' ultimo caso di riciclaggio scoperto risale al 15 ottobre: un cittadino nigeriano, già noto agli investigatori con svariati alias e una donna originaria del Kenya ricevevano sui rispettivi conti correnti ingenti somme di denaro, che poi venivano immediatamente prelevate o distratte verso altri conti, finché non se ne perdevano le tracce. Le operazioni servivano a monetizzare bonifici provenienti da ignare società estere vittime di frodi informatiche per un danno economico di 100.000 euro. Il sistema prevedeva che nelle conversazioni telematiche tra due aziende con consolidati rapporti finanziari si insinuasse un terzo soggetto (estraneo alle due aziende) che riusciva a carpire e modificare i contenuti delle comunicazioni societarie. Poi il criminale individuava la figura titolare del potere di spesa per conto dell' azienda al quale sarebbe stata inviata una falsa email da un indirizzo creato ad hoc e simile a quello del reale interlocutore; con la stessa mail fraudolenta si chiedeva di effettuare il pagamento su un nuovo iban, diverso da quello utilizzato abitualmente nelle transazioni.

Soldi facili. Una parte dei quali, con molta probabilità, viene immessa nel circuito economico, dopo essere passata dalla cassa mutua della mala nigeriana. A luglio era stato arrestato un altro mago dell' informatica che usava praticamente gli stessi metodi e gli stessi canali, sempre a Torino, incassando anche bonifici da 70.000 euro l' uno. Anche in questo caso non è stato possibile ricostruire completamente il flusso economico. E il terzo arresto in un anno di un riciclatore nigeriano, beccato a Torino, risale a marzo: aveva 140.000 euro da far sparire. Come al solito, dopo diversi passaggi di conto, il denaro diventa non rintracciabile. Quindi finisce in un posto fisico. E le strade sono due: l'hawala, se i fondi vanno investiti all' estero, o l' Osusu, se si sceglie di riciclare in Italia. Il giro d'affari che ruota attorno ai due sistemi per ripulire soldi, però, è sconosciuto. «Dati precisi non possono raccogliersi», spiega Stefano D' Auria su Gnosis, la rivista dell' intelligence italiana, «operando gli stessi al di fuori di qualsivoglia controllo e sfuggendo, quindi, alle statistiche ufficiali». Ma probabilmente è vasto. Anche perché sembra che sia l'ultima spiaggia per quegli immigrati che, dopo essersi indebitati in patria per pagare il viaggio, a volte anche tramite Ong che immettono flussi di denaro per i prestiti di rimessa (ovvero quelli che qualcuno deve pagare dall' estero e che vengono usati di solito per comprare il biglietto per emigrare), poi finiscono per rivolgersi al sistema dell' Osusu per estinguere il primo debito. A quel punto restano legati al sistema criminale per molti anni.

Fenomeno da studiare. «Gli sforzi investigativi, in un rinnovato e fattivo rapporto di cooperazione con le autorità nigeriane, favorito, tra l' altro, da progetti dell' Undoc (l'ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine, ndr) con il distacco di un magistrato di collegamento in Italia», scrivono il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Giovanni Russo e il sostituto, Cesare Sirignano, «stanno producendo i primi apprezzabili risultati anche in termini di maggiore conoscenza del fenomeno». E tra questi risultati c'è proprio la scoperta dell' Osusu.

Esclusivo: ecco la “Bibbia verde” della mafia nigeriana. Il servizio di Quarta Repubblica che mostra in esclusiva la cosiddetta “Bibbia Verde” spiegandone alcuni estratti. Un vero e proprio manuale contenente le regole e gli obiettivi del “Clan Maphite”, una delle più potenti cerchie della mafia nigeriana, presente anche in Italia. Dalla puntata del 23 settembre 2019

La bibbia verde della mafia nigeriana. Quarta Repubblica spiega cosa è la bibbia verde, il testo principale del Clan Maphite. Quarta Repubblica mostra in esclusiva un servizio spiegando alcuni passi della cosiddetta “Bibbia Verde”, il testo contenente le regole e gli obiettivi del Clan Maphite, una delle più potenti cerchie della mafia nigeriana, presente anche in Italia. Dopo anni di ricerca, gli uomini della Squadra Mobile e della Polizia locale di Torino, sono venuti in possesso di questo documento segreto che enuncia le regole e gli obiettivi dell’organizzazione criminale. Le telecamere della trasmissione hanno mostrato un video di due minuti girato all’interno di una discoteca dove si sono riuniti i Maphite. Il Primo dirigente della Squadra Mobile di Torino afferma: "Chi detiene la Bibbia Verde ha il potere su quella struttura presente sul territorio".

Che cos’è la Bibbia Verde, il testo sacro della mafia nigeriana copiato. Duro colpo contro la mafia nigeriana in Italia. La polizia ha smantellato l’organizzazione Maphite, un clan criminale dedito allo spaccio e alla prostituzione in Piemonte e Emilia Romagna. In manette i capi e decine di affiliati. Sequestrata anche la “Bibbia verde”, vero e proprio manuale con le regole per i boss. Famiglie mafiose, nate negli anni ’80 in Nigeria, che si erano spartite il territorio italiano. Mirko Bellis su Fanpage il 18 luglio 2019. Duro colpo contro la mafia nigeriana in Italia. Il blitz della polizia, scattato all'alba di stamane a Torino e in diverse città dell’Emilia Romagna, ha smantellato il clan Maphite, potente "cult" o confraternita della mala nigeriana. A finire in manette non solo semplici “soldati” ma anche i boss, accusati di decidere le nuove iniziazioni, di gestire la prostituzione, nonché di mantenere i rapporti con le altre organizzazioni criminali e di gestire lo spaccio di droga a Bologna, Modena e Parma. All'operazione denominata “Burning Flame” hanno partecipato più di 200 uomini e donne della Polizia di Stato, coordinati dalla Dda di Bologna. Una quarantina gli arrestati. Per tutti gli indagati è stata contestata l'associazione di tipo mafioso. L'indagine, avviata nel 2017 grazie anche alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, ha permesso di annientare gran parte di quello che, all'interno della comunità nigeriana, viene denominato cult “Maphite” (acronimo di Maximum Academic Performance Highly Intellectuals Train Executioner), operante in tutta l'Emilia-Romagna.

La “Bibbia verde”, il “testo sacro” con le regole del clan. Gli agenti della polizia municipale di Torino hanno sequestrato la ‘Green Bible' (Bibbia verde), vero e proprio manuale con le regole del clan. Un documento prezioso che ha permesso agli inquirenti di ricostruire la struttura del cult Maphite: ruoli, gerarchie, riti di iniziazione e punizioni all'interno dell'organizzazione criminale nigeriana. Un vero e proprio manuale di istruzioni per gli affiliati. “Ogni membro…che viola le regole del Maphite deve pagarne e soffrirne le conseguenze”, “Un membro rimarrà membro fino alla morte” oppure “Un'automatica sentenza di morte sarà emessa in capo ai membri che diventano codardi, traditori o disertori”, sono alcuni dei passaggi contenuti nel “testo sacro” della confraternita malavitosa. Tipico e conosciuto soltanto dagli adepti il modo di comunicare; rituale e prestabilita la modalità di ingresso all'interno dell'organizzazione, di affiliazione, rigidissime le regole di comportamento e puntualmente codificate. Per rappresentare il potere sul territorio ed essere riconosciuti dai loro connazionali, ad esempio, gli affiliati del cult nigeriano Maphite indossavano baschi o abiti con il colore verde. Una struttura simile in parte a quella delle organizzazioni di tipo mafioso italiane. “Giuro di essere leale e fedele all'organizzazione dei Maphite. Se domani deciderò di svelare questi segreti questo fuoco brucerà me e le cose che mi appartengono; ovunque mi trovi i Maphite mi faranno a pezzi sino alla morte”, era il rito di iniziazione per i “soldati” del gruppo criminale. Grazie alla ‘Bibbia Verde', contenuta in un pacco inviato dalla Nigeria all'Italia e intercettato nel capoluogo piemontese, gli investigatori sono riusciti a scoprire altri importanti elementi. Per esempio, il piano di riciclaggio di denaro nei Paesi di origine era indicato come ‘Mario Monti'. “Ogni operazione criminale – spiegano alla polizia municipale di Torino – aveva un nome in codice. Il Mario Monti era uno di questi”.

La struttura delle “Famiglie” nigeriane che si sono spartite l’Italia. La confraternita Maphite originariamente creata in Italia è denominata Famiglia Vaticana. Successivamente se ne aggiunsero altre con competenza sulle diverse regioni italiane: Famiglia Latino (Italia nord-occidentale), Famiglia Roma Empire (Italia centrale), Famiglia Light House of Sicily (Italia peninsulare). L’indagine ha consentito di ricostruire l’intera struttura gerarchica di comando, al cui vertice si trova il Don (capo), incaricato di impartire ordini e direttive al Deputy Don (vice capo). Sotto ci sono il Fire (addetto alla diffusione di ordini e notizie tra gli affiliati), il Main Chief (addetto alla difesa) e il Checker (tesoriere). A eseguire materialmente gli ordini e le direttive impartite c’è un comitato esecutivo, a competenza regionale, denominato C.I.C. (Coordinator in Council), capeggiato da un coordinatore che ha il compito di gestire una serie di altre figure con competenza operativa provinciale, le quali materialmente gestiscono gli affiliati di una determinata città.

La storia del cult Maphite. Il Maphite o Green Circuit Association si è consolidato negli anni ’90 in Nigeria come confraternita o “cult”. L’origine embrionale del gruppo – hanno reso noto gli inquirenti italiani – risale, già dagli anni ‘80, all'ambiente universitario dello Stato del Benin, così come gli analoghi, ma contrapposti, gruppi come ad esempio gli “Eiye”, i “Black Axe”, i “Vikings”. Gli scontri, anche fisici e molto violenti, con le contrapposte confraternite per la supremazia territoriale ne determinarono la progressiva ed inesorabile trasformazione in vere e proprie bande criminali. Utilizzate nel tempo anche dal potere militare nigeriano per determinare il controllo su parti del territorio, i cult si consolidarono ben presto anche al di fuori dell’ambiente universitario. Gli episodi di efferata violenza di cui si rendevano responsabili determinarono però poi le autorità nigeriane a sancirne l’illegittimità. La confraternita Maphite si radicò nella società nigeriana, richiamando a sé numerosi adepti e strutturandosi, seppur inizialmente in modo rozzo e dozzinale, similarmente al modello della mafia italiana, della quale ne volle ricalcare per sommi capi lo scheletro strutturale verticistico. Il risultato nel tempo fu il consolidamento di una struttura solida e ben radicata in Nigeria, mimetizzata in ambito internazionale sotto il nome di Green Circuit Association, e diffusa oramai in moltissimi Stati in tutto il mondo. Nel 2012 la “Green Circuit Association Italia” è stata registrata a Bologna: i soci fondatori sono tra gli attuali indagati.

Una Mafia poco raffinata da non sottovalutare. “Non è una mafia raffinata ed è un fenomeno interno alla comunità nigeriana, ma non va sottovalutato. Ed è da reprimere adesso”. Lo ha detto Paolo Borgna, procuratore reggente a Torino, in merito all'indagine che ha portato allo smantellamento del cult nigeriano Maphite. “E’ un fenomeno – ha aggiunto Borgna – che bisogna reprimere sino da quando è ancora sviluppato in maniera rude”. Il magistrato ha ricordato che la procura di Torino è stata la prima, anni fa, a contestare l'associazione per delinquere di stampo mafioso per i clan nigeriani. Anche il ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha commentato gli arresti delle ultime ore contro l’organizzazione criminale nigeriana. “Maxi operazione contro la mafia nigeriana alla faccia di chi ne negava l'esistenza. Grazie a Forze dell'Ordine e inquirenti. Non abbiamo bisogno di questo tipo di immigrazione. Porti chiusi, galere aperte!”.

La furia della mafia nigeriana è nella loro Green Bible (la bibbia verde della mafia nigeriana) (Fabio Amendolara – la Verità il 20 luglio 2019) – Quando l’uomo del clan ha dettato l’indirizzo, gli investigatori hanno capito subito che poteva trattarsi di roba seria. Hanno intercettato il pacco partito dalla Nigeria e hanno fatto quella che definiscono «una scoperta preziosissima per l’ inchiesta». Un libro. La Green Bible, la bibbia verde della mafia nigeriana, con i suoi comandamenti, le sue regole e la scala gerarchica. E, così, gli investigatori della Squadra mobile di Torino che l’ altro giorno, insieme ai colleghi di Bologna, hanno smantellato un clan che si era ben radicato all’ ombra della Mole, hanno scoperto che in molti casi i codici sono identici a quelli delle mafie tradizionali italiane. «Hanno capi che chiamano don, proprio come da noi. E codici criminali che abbiamo trovato scritti in quel libro e tramandati da capo a sottoposto in via piramidale». Il primo dirigente della polizia di Stato Marco Martino guida la Squadra mobile di Torino, una delle prime città che ha fatto i conti con la mafia nigeriana. Quello di giovedì scorso, infatti, non è che l’ ultimo blitz. Qui è da tempo che gli investigatori tengono d’ occhio i nigeriani. Seguono le loro mosse. E hanno anche ottenuto la collaborazione di un pentito che, esattamente come in una inchiesta siciliana, li ha accompagnati nel mondo oscuro del clan dei Maphite, che a Torino era anche spaccato in due: da un lato c’ era la Famiglia latina e dall’ altro la Famiglia vaticana.

Dottor Martino, che livello di infiltrazione avete riscontrato nel tessuto sociale?

«A volte gli affiliati riescono a mimetizzarsi tra la popolazione comune, alcuni di loro hanno anche un lavoro stabile e conducono una vita assolutamente normale».

Ciò non toglie che siano molto pericolosi e, come sottolineato negli atti dell’inchiesta, sono anche aumentati numericamente dopo gli sbarchi a Lampedusa.

«Sono pericolosi e molto violenti. Già nei riti di affiliazione si denota una crudeltà fuori dal comune, con prove durissime da superare prima di riuscire a ottenere la fiducia del gruppo e dei capi. Noi siamo intervenuti in un momento di crisi, proprio mentre i rapporti all’ esterno del gruppo si stavano surriscaldando e la situazione poteva diventare esplosiva».

C’erano problemi con qualche mafioso locale?

«No, anzi, con uomini della criminalità organizzata italiana abbiamo riscontrato qualche contatto che stiamo approfondendo e buone relazioni collaborative».

Allora cominciavano a dar fastidio ad altri nigeriani?

«Uno dei gruppi non riconosceva all’ altro la possibilità di affiliare nuovi uomini e non accettava la presenza di un altro capo sul territorio».

Litigavano, insomma.

«Non esattamente. In realtà le questioni si consumavano nel gruppo di appartenenza, ma gli animi cominciavano a surriscaldarsi. E mentre li ascoltavamo con i più potenti mezzi che la normativa antimafia ci mette a disposizione abbiamo scoperto fitti collegamenti con cellule estere»

Erano eterodiretti?

«Più che altro erano controllati, ma questo è un po’ ciò che accade anche con altre cellule sparse sul territorio italiano».

E magari finivano proprio all’estero i flussi finanziari.

«Esatto. E senza lasciare traccia. Niente conti corrente, niente carte di credito. E neanche money transfer. Usavano il classico metodo degli spalloni con la 24 ore. Abbiamo monitorato una partenza in aereo prenotata solo poche ore prima, proprio perché rendendola improvvisa diventava meno verificabile».

Era l’incasso della droga?

«È una delle attività prevalenti, insieme allo sfruttamento della prostituzione. C’erano aree della città completamente nelle loro mani. Tanto che, in un caso, cominciavano a innervosirsi gruppi di cittadini pachistani che in un quartiere gestiscono dei negozi. Ma i nigeriani sono violenti anche al loro interno. Abbiamo scoperto una notevole capacità d’ intimidazione e ai capi veniva riconosciuta molta autorevolezza».

Torniamo ai codici.

«Per indicare la città di Torino, ad esempio, veniva usato un codice numerico. E per rendersi riconoscibili ai loro connazionali, gli affiliati Maphite indossavano baschi o abiti di colore verde. Una forma di comunicazione non verbale, diretta ad altri rappresentanti della comunità nigeriana che, riconoscendo quei simboli sapeva esattamente con chi aveva a che fare. È stato possibile capirci qualcosa proprio grazie alla bibbia verde che abbiamo intercettato. Ogni gesto è ben catalogato nel libro ed è riconosciuto da tutta la comunità».

E poi c’è un collaboratore di giustizia.

«Che ha dato un altro importante contributo non senza correre dei rischi. Nel gruppo, infatti, cominciavano a sospettare qualcosa ed erano diventati diffidenti».

Avete trovato armi?

«I nigeriani, è risaputo, prediligono le armi bianche, coltelli, machete, roncole. A Bologna, durante, le perquisizioni è saltato fuori qualcosa. Ma questo non vuol dire che sia una mafia meno pericolosa. Per fortuna è ancora molto rozza e, pur presentando tutte le caratteristiche dei clan, è ancora a livello embrionale, ossia il momento giusto per intervenire e provare a debellarla».

(F. Ame. – la Verità) – La mafia nigeriana è oggi diffusa in tutta Italia. Dal mercato palermitano di Ballarò, ormai controllato dai nigeriani con il placet di Cosa nostra, alla Mole torinese, dove non manca la ‘ndrangheta, che a volte lavora con gli africani. E per la prima volta il fenomeno trova consacrazione in un capitolo a sé della relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia. I nigeriani, al di là delle pratiche primitive e tribali, come i riti voodoo, «declinano in maniera sorprendente grandi capacità nell’ impiego di tecnologie avanzate e nella realizzazione di sistemi finanziari paralleli, grazie ai quali fanno affluire, verso la terra di origine, ingenti somme di denaro acquisite con le attività illegali». È una delle valutazioni della Dia. Fa affari con la droga e la tratta di persone ridotte in schiavitù e «non di rado», si legge nella relazione, «mimetizzate fra i flussi di immigrati clandestini». La Dia ricorda che anche in Nigeria, dove Boko Haram continua a diffondersi, esistono posizioni estremiste filo islamiche e invita per questo motivo a riservare la massima attenzione verso i nostri istituti di pena «per evitare che si alimentino percorsi di radicalizzazione». Con la magistratura nigeriana c’ è da tempo un costante scambio di dati e informazioni», sottolinea la Dia, «nell’ auspicio che tutto ciò porti a investigazioni più mirate e maggiormente efficaci». La cooperazione giudiziaria, però, che deve cominciare anzitutto dall’ Unione europea. E quando le sinergie funzionano il contrasto riesce al meglio. D’ altra parte, quello dell’ infiltrazione della mala africana non è un fenomeno isolato. «Si è inserita perfettamente nel territorio italiano, avviando importanti sinergie criminali con le organizzazioni mafiose del Paese, diventando anch’ essa un’ associazione di stampo mafioso e, a volte, impressionando persino la criminalità locale», scrivono gli analisti dell’ antimafia. Come a Castel Volturno (Caserta), «luogo legato a membri dell’ organizzazione Eiye per dimora, transito, legami familiari, episodi delittuosi e altro». L’ area, fortemente inquinata dalla presenza del clan dei Casalesi, «può essere sicuramente considerata, da almeno tre decenni», valuta la Dia, proprio l’ espressione della coesistenza tra gruppi camorristici e criminalità nigeriana. Quest’ ultima è riuscita a imprimere a quel territorio l’ immagine, anche a livello mediatico, di una sorta di free zone, punto nevralgico dei traffici internazionali di droga e della massiva gestione della prostituzione su strada, favorita anche dalla disponibilità alloggiativa, talvolta abusiva, da parte di proprietari del posto senza scrupoli».

La coesistenza tra la mafia locale e quella africana non è mai stata indolore. Già nel 1990 le conflittualità culminarono nella cosiddetta strage di Pescopagano, frazione di Castel Volturno, quando, sotto i colpi della camorra, rimasero uccise cinque persone, un italiano e quattro stranieri, nel corso di un assalto armato eseguito all’ interno di un bar. «L’ obiettivo della camorra casertana era eliminare la presenza di extracomunitari dediti allo spaccio sul litorale domitio», ricorda la Dia. Ma alla fine non c’ è riuscita. I nigeriani sono ancora lì, più forti di prima. La Corte di Cassazione ne aveva già sottolineato i tratti tipici della mafiosità, rappresentati dal vincolo associativo, dalla forza di intimidazione, dal controllo di parti del territorio e dalla realizzazione di profitti illeciti. Il tutto, sommato a una componente mistico religiosa, a codici di comportamento ancestrali. Che restano sempre collegati alla madre patria.

Dalla prostituzione al traffico di organi: così la mafia nigeriana allarga il suo business. Un falso contratto di lavoro a Dubai dietro al quale si nasconde il commercio peggiore. Ecco come le ragazze già costrette a vendersi in Italia vengono ingannate di nuovo. Con il sogno di sottrarsi al marciapiede. Sara Lucaroni il 29 agosto 2019 su L'Espresso. Le ragazze nigeriane sono l’80 per cento delle vittime dello sfruttamento sessuale in Italia, fenomeno che interessa in totale tra le 30 e le 50 mila donne. E il decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini rende più vulnerabile chi è arrivato negli anni scorsi, in particolare le vittime di tratta. Mentre si fanno largo fenomeni di sfruttamento nello sfruttamento. sempre più difficili da combattere e segnali allarmanti di come il fenomeno stia cambiando, in peggio. Ad esempio, ormai ci sono tratte dentro la tratta: donne ingannate più volte, passate di paese in paese, scomparse e spesso uccise: circa 500 in Italia negli ultimi 20 anni. Quello che accade dentro la rete fittissima e autoreferenziale che è la comunità nigeriana - in cui i legami sono una protezione ma anche una trappola, in cui tutti conoscono tutti e se un destino è deciso nessuno tenta di cambiarlo - a volte emerge grazie a donne coraggiose come Isoke Aikpitanyi. Isoke ha visto per la prima volta la neve a Torino, il 26 dicembre di venti anni fa, appena arrivata, accanto al fuoco, semi svestita. Non si capacitava di essere caduta nella trappola della tratta. Ribellarsi le è costato un pestaggio il cui intento era ucciderla: si è salvata solo perché gli aguzzini l’hanno creduta morta. Poi ha incontrato Claudio, che è diventato suo marito e suo sostenitore, ha fondato l’associazione “Vittime della tratta” che oggi si occupa di quattro centri di accoglienza in cui lei stessa e le operatrici fanno una sensibilizzazione mirata: «Come siete arrivate qui, possono ingannarvi ancora e portarvi altrove, non accettate nulla», ripetono a tutte. Perché il destino può essere ancora peggiore della schiavitù e della prostituzione: e si chiama traffico di organi.

IL TRUCCO DEI FALSI FIDANZATI. «A Verona una ragazza nigeriana ci ha mostrato un contratto di assunzione per un lavoro a Dubai, ottenuto tramite il fidanzato. Un contratto come quello non ti fa dubitare, ci credi sempre», racconta Isoke. Dietro però, spesso, si nasconde il traffico peggiore: quando si ricevono queste opportunità allettanti, addirittura con contratto firmato, c’è dietro una rete criminale transnazionale attiva da tempo, ma che negli ultimi cinque anni è emersa con forza: «Questi falsi fidanzati conquistano la loro fiducia, dicono alla ragazza “tu sei sveglia, cosa fai qui in attesa, c’è questa possibilità”. Arriva il contratto e le giovani donne vengono spedite nel Golfo, di solito a Dubai, Gibuti ed Emirati. Ai “fidanzati”, contemporaneamente, arrivano i soldi tramite money transfer o su carte ricaricabili. «Delle ragazze poi non si sa più nulla», dice Isoke, che accusa il racket degli organi: «In quei paesi operano medici cinesi, stando a quello che ci hanno detto, non arabi. Magari loro fanno i broker, ma chi fa le operazioni è asiatico», aggiunge. Il fenomeno delle sparizioni e in generale della tratta, riguarda anche i minori. «Qualche anno fa collaborai con i Carabinieri del Ros all’indagine per il ritrovamento di un bambino africano nel Tamigi, a Londra, privato di tutti gli organi. Non era chiaro se fosse per qualche rito o altro. Con Esther Ekanem, anche lei nigeriana, che da Londra si occupa di tratta di esseri umani, ci siamo subito attivate. Lei stava indagando sulla tratta delle donne sfruttate per fare figli destinati alla vendita, alle adozioni illegali, ma non si nasconde che i bambini servano per più scopi». Joseph Chidiebere Osuigwe, avvocato e direttore del Devatop Centre for Africa Development in Nigeria, conferma che la mafia nigeriana ha ormai un ruolo di primo piano in questo traffico, annidato dentro la tratta tradizionale per lo sfruttamento sessuale o lavorativo che dalla Nigeria, anche attraverso il Mediterraneo, si indirizza verso tre continenti». È un commercio fiorente perché raddoppia il guadagno del trafficante che costringe le vittime, donne, giovani e capifamiglia attratti da un lavoro all’estero, a vendere un organo per saldare il proprio debito: pagano lui con la vendita di un rene, il quale poi riceve soldi anche dal broker. «Le vittime, al netto dei casi di rapimento o convinte da qualcuno di necessitare di un’operazione, vendono a partire da 1.500 dollari, ignare dei 50 mila che guadagna l’organizzazione e dei 128.500 di base che i ricchi pazienti danno alle gang per un rene», dice. «Questo commercio in Nigeria è tra le forme allargate di sfruttamento degli ultimi dieci anni, insieme a schiavitù domestica, matrimoni forzati, traffico di minori attraverso gli orfanotrofi o il lavoro di apprendistato, i bambini soldato, il traffico per scopi rituali. Siamo a conoscenza di casi avvenuti in India, Malesia e Dubai che coinvolgono cittadini nigeriani, la mia organizzazione ha ricevuto due segnalazioni di rimozione illegale di organi di due nigeriani in India», spiega Osuigwe.

DOPPIO INGANNO. L’eventualità che la tratta finalizzata al traffico d’organi coinvolga anche l’Italia non è, allo stato, suffragata da prove giudiziarie. Don Carmine Schiavone, direttore della Caritas diocesana di Aversa e referente regionale Caritas per l’immigrazione, ha rilasciato però un’intervista al sito Vatican News dicendo che «una delle ragazze a ottobre scorso ha cominciato a raccontare di questo commercio, rivelando che alcuni amici suoi, per arrivare in Italia, hanno dovuto dare un rene, alcuni la cornea». Sotto osservazione poi è il litorale di Castel Volturno, dove sono noti i rapporti tra la mafia nigeriana e la camorra. Va detto però che difficilmente può svilupparsi un traffico d’organi “interno” al nostro Paese: per un trapianto servono strutture ospedaliere complici e molto vicine al luogo in cui l’organo viene espiantato. Il problema, da noi, sono invece le ragazze nigeriane già in Italia e che per sottrarsi alla prostituzione accettano le improbabili “offerte di lavoro” in Paesi dove il traffico d’organi non è una leggenda metropolitana ma è stato provato, come appunto l’India e i Paesi del Golfo. Ingannate una volta per farle venire in Italia e una seconda volta per portarle via dal nostro Paese, verso un destino ancora peggiore. Nel 2018 sono arrivati in Italia solo 1.250 migranti nigeriani, ma aumentano gli adescamenti di chi è già presente da tempo in Europa. Mentre la crescente instabilità libica e la politica dei “porti chiusi” hanno trasformato le rotte: si rafforza quella Nigeria-Mali-Spagna mentre è storico il legame diretto tra la Nigeria e i Paesi del Golfo Persico. «Nel 2014 sono arrivate in Italia circa 2.400 ragazze. 5.600 nel 2015 e nel 2016 erano 11 mila», spiega Anna Pozzi, giornalista e studiosa esperta di tratta. Col tempo è diminuita l’età delle ragazze, minorenni che spesso non si dichiaravano tali per evitare di essere inserite in strutture protette, con scolarità bassa se non analfabete. Secondo il rapporto di ActionAid pubblicato ad aprile sulla base di 60 verbali di vittime di tratta presentati presso la Commissione territoriale di Roma tra il 2016 e il 2017, il decreto Sicurezza colpirebbe soprattutto loro: stabilendo il rigetto della richiesta di asilo avanzata da chi ha in esecuzione già un provvedimento di espulsione, queste non hanno la possibilità di presentare nuove richieste e non c’è il tempo di indagare sulle loro storie di sfruttamento. Il decreto inoltre non solo abroga il permesso di soggiorno per motivi umanitari prima concesso anche in ragione delle violenze subìte nei Paesi di transito, ma richiedenti asilo e i beneficiari di protezione umanitaria non accedono più al sistema ex Sprar (ora solo per titolari di status di rifugiato o protezione sussidiaria e minori non accompagnati) ma ai Centri ordinari, Cas e Cara: affollati, privi di personale qualificato e programmi di inclusione. L’eliminazione dell’obbligo di denuncia da parte della vittima di tratta per ottenere il permesso di soggiorno depotenzia anche l’articolo 18 del Testo Unico sull’Immigrazione che prima le tutelava.

L’INCROCIO CON LA RELIGIONE. Una sera scaricano Gioia da un’auto davanti alla porta della Caritas di Aversa. La accolgono, non ha documenti, non parla. Se la ricordano a fissare il muro, con le braccia appoggiate su un tavolo per interi pomeriggi. «Quando ha ricominciato a parlare abbiamo capito che era molto confusa. Aveva bisogno di un supporto psicologico importante. Ovunque mi incrociasse, voleva per forza una benedizione», dice don Carmine Schiavone. Con suor Rita Giarretta delle Orsoline del Sacro Cuore di Maria, fondatrice di Casa Rut, Schiavone svolge la sua pastorale in una delle «periferie del mondo»: la strada. «Un giorno ha detto di aver conosciuto un pastore, un reverendo: aveva un numero che chiamava in continuazione perché adesso poteva stare finalmente bene, diceva. Una mattina è uscita e nessuno l’ha più vista». I sedicenti “pastori” religiosi sono tra le più insidiose pedine della tratta: alcuni sfruttano direttamente ragazze e ragazzi, altri li mettono in mano ai trafficanti. Case di preghiera delle Chiese pentecostali africane sono presenti sul litorale Domizio e a Castel Volturno, l’enclave dei clan mafiosi nigeriani che gestiscono, dentro una comunità di 25 mila nigeriani e ghanesi, arrivi, traffico di droga e prostituzione. Certi leader spirituali organizzano momenti di preghiera per la “liberazione”: i migranti raccontano che non ottenere il permesso di soggiorno è un maleficio e loro si offrono di toglierlo a pagamento. «Ce n’è uno considerato potente e allora, quando arriva, molti nigeriani si riversano lì anche da altre parti d’Italia. Vende braccialetti con la scritta Holy ghost fire», spiega Blessing Okoedion nel libro in cui racconta la sua storia. L’intreccio tra religione cristiana, business e il rito ju ju, che lega le ragazze ai propri sfruttatori, è un capitolo anche della sua storia personale: «Alice è stata molto furba, mi ha ingannata facendosi passare per una donna di Chiesa. Faceva di tutto per mostrarsi molto pia e devota ma non si è fatta scrupolo a raggirarmi e trafficarmi». Blessing ha 33 anni ed ha appena superato l’esame di maturità in Italia: «Ho preso 64», racconta. Laureata in informatica, assembla e ripara computer a Benin City quando incontra una donna che le propone di trasferirsi a Napoli per lavorare nel nuovo negozio del fratello. Quando arriva a Castel Volturno però si ritrova una “maman” che le spiega di accettare anche 15, 10 euro e di non rifiutare nessuno. Era il marzo 2013. Oggi lavora come interprete e mediatrice culturale e la sua nuova vita la deve alla Polizia e a Casa Rut, che negli anni di ragazze ne ha accolte 500 più 80 bambini. Alcune lavorano nella cooperativa NewHope: accessori fatti con stoffe africane e negozio nella più bella via di Caserta, perché «la dignità si restituisce con la bellezza. Non le facciamo sentire delle bisognose, ma persone in grado di farsi valere per quello che sono, che pensano con la propria testa» dice suor Rita. «Si tollerano le ragazze anche in zone centrali», dice don Carmine. «Lo stiamo notando anche dalla geografia delle abitazioni da cui partono e rientrano». La Caritas di Caserta le va a trovare in strada. Alle 20 parte l’auto con lui in tonaca e i volontari. Si chiede il permesso prima di scendere, e se c’è, ci si stringe la mano, sono festose. «Chiedo di potermi sedere con loro, poi iniziamo a parlare bevendo cioccolata o il tè caldo che abbiamo portato, o regaliamo loro una rosa». Solo dopo varie visite escono le loro storie. L’importante è non essere invadenti, non chiedere, meritare la loro fiducia. «Parlando, emerge che vivono in condizioni pietose. Poi arriva la telefonata di chi le controlla», racconta don Carmine. Quando qualche auto passa con insistenza vuol dire che il tempo è scaduto: si prega tutti insieme, benedizione e si risale in auto. Certe sere le ragazze sono più felici di altre: «Stasera gioca il Napoli». Vuol dire che per strada i clienti saranno pochissimi.

LE “COSE NOSTRE”. Ha la forma di una sirena, uno specchio in mano, i capelli lunghi, indossa perle e pettini preziosi. «Mami Wata è una divinità recente, le organizzazioni criminali fanno giurare le ragazze su di lei, è creata per invocare e giustificare la ricerca sfrenata di benessere. Gli africani vogliono somigliare nello stile di vita all’Europa. E per raggiungerlo, fanno soldi con tutto, hanno perduto i loro valori antichi». Isoke riflette sulle radici culturali della vendita di esseri umani e spiega che ha dovuto lasciare le indagini sui fidanzati perché ha ricevuto minacce di morte dalla sua stessa comunità: «Le cose nostre devono rimanere tra noi», le hanno detto. «Donne e minori sono mercificati da genitori, familiari e persino leader della comunità e questo ha autorizzato la società a ignorare i loro diritti fondamentali. Questo è pericoloso per il benessere delle donne in qualsiasi Paese», spiega Joseph Chidiebere Osuigwe, che ha ideato e lanciato Talkam, un’app con cui si può segnalare ogni tipo di violazione dei diritti umani. A inizio anno è stata resa nota l’esistenza di uno scambio di informazioni tra Fbi e Polizia italiana, i cui investigatori sono esperti delle modalità criminali e della ramificazione in Italia e in Europa dei clan mafiosi nigeriani. Per Osuigwe «è importante lo scambio di informazioni. La condanna di queste mafie dovrebbe comprendere anche la destinazione delle loro ricchezze alla cura dei sopravvissuti». La maggioranza delle “sopravvissute” in Italia, si trova in carcere. O nel “sommerso”. La speranza, per Isoke, arriva dalla seconda e terza generazione: «Non ha nulla a che vedere con questo fenomeno, bisogna valorizzarle, dare loro opportunità, altrimenti si innesca lo stesso meccanismo. Da troppo tempo gli africani pensano che si possa fare soldi con tutto. Cosa possono fare di più che vendere le proprie sorelle?».

 “PENA DI MORTE PER CHI TRADISCE LA FRATELLANZA”, ECCO IL MANUALE SEGRETO DELLA MAFIA NIGERIANA. Giuseppe Legato per ''la Stampa'' il 29 Agosto 2019. Ferree regole e punizioni che suonano come campane a morte per chi sgarra. Rigide gerarchie che attingono a piene mani dal gergo militare (Capitani, tenenti, sergenti e soldati), ancestrali riti di affiliazione, obblighi di versare una royalty alla casa madre per ogni profitto criminale e imperativi di assistere le famiglie dei carcerati per almeno tre mesi successivi all' arresto. Ancora: segretezza assoluta con chiunque non faccia parte del gruppo, aree di competenza e segmenti di economia criminale definiti per settore, articolazioni territoriali in franchising che riproducono la cellula di origine. Sembra la 'ndrangheta e invece sono i Maphite, potente mafia nigeriana, impressa nel manuale istitutivo, la Green Bible: un libro mastro, che ha svelato codici e regole, di uno dei sette secret cults della mafia africana. I poliziotti della squadra Mobile di Torino l' hanno sequestrata a Roma, in un ufficio postale, in transito (dalla Nigeria) tra pacchi e raccomandate. Nei giorni scorsi il testo completo è stato depositato ai Tribunali della Libertà di Catania, Modena e Torino. Uno dei capi italiani dell' organizzazione è difeso dal legale torinese Manuel Perga La traduzione dall' inglese effettuata da un consulente nominato dalla Dda di Torino, è in calce agli atti dell' inchiesta. Si scopre cosi che i Maphite in Italia sono divisi in 4 ramificazioni esattamente come i mandamenti delle 'ndrine calabresi. «Qualsiasi individuo che desideri farne parte deve essere della nostra razza africana. Lo deve raccomandare un membro». Come i «contrasti onorati» delle 'ndrine che devono superare un periodo di prova prima di diventare «picciotti lisci», l' aspirante Maphite «dovrà essere tale per 120 giorni».

Solo dopo «e previa osservazione» avverrà «una votazione». Una volta entrato «si occuperà di droga, "contract killing", prostituzione, rapine su larga scala, armi». Con una consapevolezza. E cioè che «non ci sono soldi buoni o soldi cattivi.

Ci sono solo soldi. Questa è la nostra vita, ed è meravigliosa. Se riesci ad averla e a farla franca, hey, è grandioso». Con delle regole inderogabili, però: «Non frodare la fratellanza. Non essere un informatore, non fare amicizia con nessuno della famiglia della polizia: tutte queste cose comportano la pena della morte». Chiunque «ha qualcuno della famiglia coniugato con poliziotto non può entrare: non possiede i valori morali».

Ancora: «Chi si appella alla legge contro i suoi simili o è un pazzo o è un codardo e deve pagare il grande prezzo per la sua follia a tempo debito. E' vigliacco tradire un criminale davanti alla giustizia, anche se i suoi reati sono contro di te». I Maphite si definiscono una organizzazione criminale «autarchica», quindi autosufficiente: «Ogni accordo con gruppi di mafie locali italiani viene annientato: noi non abbiamo bisogno di loro per operare in Italia. Possiamo agire da soli per il momento». Anche con i cults africani non devono esserci collegamenti. Anzi: «Gli Eiye e i Black Axes saranno per sempre vostri nemici». Ai giovani (showguy) che entrano nella grande famiglia Maphite si raccomanda: «Tieni gli occhi aperti e la bocca chiusa. Non lamentarti delle punizioni perché se non puoi pagare, non puoi giocare». E per rassicurarli è stato stabilito che per «ognuno di essi che finisce in carcere per la prima volta saranno stanziati 10 mila dollari entro 48 ore». Nella 'ndrangheta è la «bacinella» destinata al mantenimento dei parenti dell' arrestato. Il fine è trasversale alle due mafie: evitare pentimenti. Anche perché - si legge nel testo della Green Bible - «violare il codice di omertà può portare all' assassinio dell' informatore». Lo decide un Gran Jury equivalente al Tribunale della 'ndrangheta, una giustizia interna, parallela a quella dello Stato. Ma violenta, più veloce. E senza appello.

Fabio Amendolara per “la Verità”  il 20 luglio 2019. Quando l'uomo del clan ha dettato l'indirizzo, gli investigatori hanno capito subito che poteva trattarsi di roba seria. Hanno intercettato il pacco partito dalla Nigeria e hanno fatto quella che definiscono «una scoperta preziosissima per l' inchiesta». Un libro. La Green Bible, la bibbia verde della mafia nigeriana, con i suoi comandamenti, le sue regole e la scala gerarchica. E, così, gli investigatori della Squadra mobile di Torino che l' altro giorno, insieme ai colleghi di Bologna, hanno smantellato un clan che si era ben radicato all' ombra della Mole, hanno scoperto che in molti casi i codici sono identici a quelli delle mafie tradizionali italiane. «Hanno capi che chiamano don, proprio come da noi. E codici criminali che abbiamo trovato scritti in quel libro e tramandati da capo a sottoposto in via piramidale». Il primo dirigente della polizia di Stato Marco Martino guida la Squadra mobile di Torino, una delle prime città che ha fatto i conti con la mafia nigeriana. Quello di giovedì scorso, infatti, non è che l' ultimo blitz. Qui è da tempo che gli investigatori tengono d' occhio i nigeriani. Seguono le loro mosse. E hanno anche ottenuto la collaborazione di un pentito che, esattamente come in una inchiesta siciliana, li ha accompagnati nel mondo oscuro del clan dei Maphite, che a Torino era anche spaccato in due: da un lato c' era la Famiglia latina e dall' altro la Famiglia vaticana.

Dottor Martino, che livello di infiltrazione avete riscontrato nel tessuto sociale?

«A volte gli affiliati riescono a mimetizzarsi tra la popolazione comune, alcuni di loro hanno anche un lavoro stabile e conducono una vita assolutamente normale».

Ciò non toglie che siano molto pericolosi e, come sottolineato negli atti dell'inchiesta, sono anche aumentati numericamente dopo gli sbarchi a Lampedusa.

«Sono pericolosi e molto violenti. Già nei riti di affiliazione si denota una crudeltà fuori dal comune, con prove durissime da superare prima di riuscire a ottenere la fiducia del gruppo e dei capi. Noi siamo intervenuti in un momento di crisi, proprio mentre i rapporti all' esterno del gruppo si stavano surriscaldando e la situazione poteva diventare esplosiva».

C'erano problemi con qualche mafioso locale?

«No, anzi, con uomini della criminalità organizzata italiana abbiamo riscontrato qualche contatto che stiamo approfondendo e buone relazioni collaborative».

Allora cominciavano a dar fastidio ad altri nigeriani?

«Uno dei gruppi non riconosceva all' altro la possibilità di affiliare nuovi uomini e non accettava la presenza di un altro capo sul territorio».

Litigavano, insomma.

«Non esattamente. In realtà le questioni si consumavano nel gruppo di appartenenza, ma gli animi cominciavano a surriscaldarsi. E mentre li ascoltavamo con i più potenti mezzi che la normativa antimafia ci mette a disposizione abbiamo scoperto fitti collegamenti con cellule estere».

Erano eterodiretti?

«Più che altro erano controllati, ma questo è un po' ciò che accade anche con altre cellule sparse sul territorio italiano».

E magari finivano proprio all'estero i flussi finanziari.

«Esatto. E senza lasciare traccia. Niente conti corrente, niente carte di credito. E neanche money transfer. Usavano il classico metodo degli spalloni con la 24 ore. Abbiamo monitorato una partenza in aereo prenotata solo poche ore prima, proprio perché rendendola improvvisa diventava meno verificabile».

Era l'incasso della droga?

«È una delle attività prevalenti, insieme allo sfruttamento della prostituzione. C'erano aree della città completamente nelle loro mani. Tanto che, in un caso, cominciavano a innervosirsi gruppi di cittadini pachistani che in un quartiere gestiscono dei negozi. Ma i nigeriani sono violenti anche al loro interno. Abbiamo scoperto una notevole capacità d' intimidazione e ai capi veniva riconosciuta molta autorevolezza».

Torniamo ai codici.

«Per indicare la città di Torino, ad esempio, veniva usato un codice numerico. E per rendersi riconoscibili ai loro connazionali, gli affiliati Maphite indossavano baschi o abiti di colore verde. Una forma di comunicazione non verbale, diretta ad altri rappresentanti della comunità nigeriana che, riconoscendo quei simboli sapeva esattamente con chi aveva a che fare. È stato possibile capirci qualcosa proprio grazie alla bibbia verde che abbiamo intercettato. Ogni gesto è ben catalogato nel libro ed è riconosciuto da tutta la comunità».

E poi c'è un collaboratore di giustizia.

«Che ha dato un altro importante contributo non senza correre dei rischi. Nel gruppo, infatti, cominciavano a sospettare qualcosa ed erano diventati diffidenti».

Avete trovato armi?

«I nigeriani, è risaputo, prediligono le armi bianche, coltelli, machete, roncole. A Bologna, durante, le perquisizioni è saltato fuori qualcosa. Ma questo non vuol dire che sia una mafia meno pericolosa. Per fortuna è ancora molto rozza e, pur presentando tutte le caratteristiche dei clan, è ancora a livello embrionale, ossia il momento giusto per intervenire e provare a debellarla».

F. Ame. per “la Verità” il 20 luglio 2019. La mafia nigeriana è oggi diffusa in tutta Italia. Dal mercato palermitano di Ballarò, ormai controllato dai nigeriani con il placet di Cosa nostra, alla Mole torinese, dove non manca la 'ndrangheta, che a volte lavora con gli africani. E per la prima volta il fenomeno trova consacrazione in un capitolo a sé della relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia. I nigeriani, al di là delle pratiche primitive e tribali, come i riti voodoo, «declinano in maniera sorprendente grandi capacità nell' impiego di tecnologie avanzate e nella realizzazione di sistemi finanziari paralleli, grazie ai quali fanno affluire, verso la terra di origine, ingenti somme di denaro acquisite con le attività illegali». È una delle valutazioni della Dia. Fa affari con la droga e la tratta di persone ridotte in schiavitù e «non di rado», si legge nella relazione, «mimetizzate fra i flussi di immigrati clandestini». La Dia ricorda che anche in Nigeria, dove Boko Haram continua a diffondersi, esistono posizioni estremiste filo islamiche e invita per questo motivo a riservare la massima attenzione verso i nostri istituti di pena «per evitare che si alimentino percorsi di radicalizzazione». Con la magistratura nigeriana c' è da tempo un costante scambio di dati e informazioni», sottolinea la Dia, «nell' auspicio che tutto ciò porti a investigazioni più mirate e maggiormente efficaci». La cooperazione giudiziaria, però, che deve cominciare anzitutto dall' Unione europea. E quando le sinergie funzionano il contrasto riesce al meglio. D' altra parte, quello dell' infiltrazione della mala africana non è un fenomeno isolato. «Si è inserita perfettamente nel territorio italiano, avviando importanti sinergie criminali con le organizzazioni mafiose del Paese, diventando anch' essa un' associazione di stampo mafioso e, a volte, impressionando persino la criminalità locale», scrivono gli analisti dell' antimafia. Come a Castel Volturno (Caserta), «luogo legato a membri dell' organizzazione Eiye per dimora, transito, legami familiari, episodi delittuosi e altro». L' area, fortemente inquinata dalla presenza del clan dei Casalesi, «può essere sicuramente considerata, da almeno tre decenni», valuta la Dia, proprio l' espressione della coesistenza tra gruppi camorristici e criminalità nigeriana. Quest' ultima è riuscita a imprimere a quel territorio l' immagine, anche a livello mediatico, di una sorta di free zone, punto nevralgico dei traffici internazionali di droga e della massiva gestione della prostituzione su strada, favorita anche dalla disponibilità alloggiativa, talvolta abusiva, da parte di proprietari del posto senza scrupoli». La coesistenza tra la mafia locale e quella africana non è mai stata indolore. Già nel 1990 le conflittualità culminarono nella cosiddetta strage di Pescopagano, frazione di Castel Volturno, quando, sotto i colpi della camorra, rimasero uccise cinque persone, un italiano e quattro stranieri, nel corso di un assalto armato eseguito all' interno di un bar. «L' obiettivo della camorra casertana era eliminare la presenza di extracomunitari dediti allo spaccio sul litorale domitio», ricorda la Dia. Ma alla fine non c' è riuscita. I nigeriani sono ancora lì, più forti di prima. La Corte di Cassazione ne aveva già sottolineato i tratti tipici della mafiosità, rappresentati dal vincolo associativo, dalla forza di intimidazione, dal controllo di parti del territorio e dalla realizzazione di profitti illeciti. Il tutto, sommato a una componente mistico religiosa, a codici di comportamento ancestrali. Che restano sempre collegati alla madre patria.

Palermo, blitz contro mafia nigeriana, scrive il 04/04/2019 Adnkronos. Vasta operazione contro un sodalizio criminale di stampo mafioso, denominato "Eiye", ramificato su tutto il territorio nazionale. "Abbiamo eseguito un fermo che riguarda 13 nigeriani a cui viene contestato il reato di associazione mafiosa. Quelli eseguiti a Palermo sono sette, gli altri sono attualmente ricercati" ha detto il dirigente della Squadra mobile di Palermo, Rodolfo Ruperti, parlando dell'operazione "No Fly Zone" eseguita a Palermo. Dopo la denuncia di una ragazza nigeriana, vittima di tratta e di sfruttamento della prostituzione, che ha fornito agli agenti significativi elementi in ordine all’appartenenza agli "Eiye" del suo sfruttatore, è stata individuata la casa di prostituzione all’interno del quartiere storico di Ballarò e avviata una capillare attività investigativa che ha consentito di ricostruire l’organigramma dell’associazione a livello locale, fino a giungere all’identificazione dei suoi vertici. Nel corso delle indagini sono stati documentati numerosi episodi violenti, nonché diverse attività delittuose connesse allo spaccio di stupefacenti e alla prostituzione, principalmente localizzate nel quartiere Ballarò. Numerose anche le riunioni documentate nel corso delle indagini, tra cui una relativa al "battesimo di un nuovo Bird", con la captazione dell’intero rito da parte degli investigatori. Nel corso delle indagini è emerso, inoltre, come gli stessi membri cercassero di mascherare l’associazione a delinquere "Eiye", costituendone una regolare denominata "Aviary".

IL RITO - Molti i segreti rivelati dai due pentiti nigeriani che hanno aiutato la Mobile di Palermo a indagare sulla "Eiye" e sui suoi riti, anche violenti, per l'affiliazione. Come emerso da quanto registrato con una una microspia, in una casa di Ballarò a Palermo, l'adepto - a conferma di quanto raccontato dai collaboratori - viene prima spogliato e poi preso a calci e pugni. Successivamente è costretto a bere un liquido composto dal suo stesso sangue e le sue lacrime. "Lacrime e sangue vengono mescolate con alcol, riso e tapioca... viene chiesto di giurare fedeltà e totale silenzio sulle pratiche dell'organizzazione'', si sente nelle registrazioni delle microspie. Gli adepti devono inoltre prestare una sorta di giuramento, anche questo registrato. "Debitamente giuro - dice il nuovo affiliato - di sostenere "Eiye" confraternita moralmente, spiritualmente, finanziariamente e in qualsiasi altro modo e se non lo faccio, che il vulture (avvoltoio, ndr) spietato mi strappasse gli occhi...".

L'AFFILIAZIONE - Per entrare a far parte del gruppo era necessario pagare una "quota" di affiliazione: dai 100 ai 500 euro a seconda delle disponibilità economiche del nuovo associato. A gestire la cassa comune, alimentata dalla raccolta di fondi tra i membri dell'associazione, è una specifica figura, il "Pecker" (picchio), una delle cariche previste nella composizione dell'Exco, il consiglio ristretto di membri scelti da ciascun Ibaka (capo) per coadiuvarlo nella gestione. "In Nigeria ho pagato 4mila naire che in moneta italiana equivalgono a 140-150 euro - racconta il neo collaboratore -. Li ho pagati al mio God Father, cioè colui che mi ha fatto conoscere gli Eiye". Una quota associativa che deve essere pagata anche da chi si affilia in Italia. "Se vedono che non hai molti soldi - racconta ancora il pentito - ti chiedono 100-150 euro. Se sanno che hai un'attività, ad esempio vendi droga, possono chiederti 400-500 euro. Chiedono di più perché sanno che è più ricco". "In Nigeria il pagamento di queste tasse durante i meeting tra Ibaka - spiega ancora il pentito della mafia nigeriana - è assolutamente obbligatorio". E il denaro raccolto serve a comprare armi da usare negli scontri con gli altri Cult, per "uccidere i Black Axe e i mafiosi. Ci sono molti gruppi mafiosi in Nigeria, si possono chiamare Black Axe, Juris, Arubaga. Anche Sea Lord". Omicidi e non solo. Perché la cassa dell'organizzazione serve anche ad aiutare i membri che ne abbiano bisogno.

IL PM - Sanzioni non solo pecuniarie ma anche e soprattutto corporali per gli affiliati della mafia nigeriana che non si attenevano alle regole. Secondo gli inquirenti, gli affiliati "si avvalevano della forza di intimidazione del vincolo associativo", nonché "si avvalevano della condizione di assoggettamento e di omertà che dall'associazione deriva" e "che si sostanziava nell'osservanza delle rigorose regole interne di rispetto ed obbedienza alle direttive dei vertici".

La mafia nigeriana, storia delle cosche venute dall'Africa Nera. Alleanze con Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra. Apparato gigantesco, gerarchia rigida. Un libro spiega come è cresciuta la mafia nigeriana. Roberto Saviano il 7 maggio 2019 su L'Espresso. La mafia nigeriana non è leggenda metropolitana, ma una realtà criminale presente nel nostro come molti altri paesi, eppure quando se ne parla senza conoscenze, quando il racconto viene strumentalizzato per criminalizzare gli immigrati, ci si allontana pericolosamente dal comprenderne la reale portata. Anche per la mafia nigeriana vale la regola aurea: parlarne in maniera superficiale è il più grosso favore che le si possa fare. Oggi, chi volesse approfondire, potrà leggere il libro di Leonardo Palmisano, “Ascia Nera”, edito da Fandango. Palmisano ci presenta una mafia che non è affatto minore, ma un’organizzazione criminale che parte dal delta del Niger e trova terreno fertile ovunque decida di estendere le proprie attività. E avverte: guai a ritenere la mafia nigeriana dedita unicamente alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione, ha in realtà la capacità di entrare anche in altri mercati, grazie alle consorterie che è stata in grado di creare con le mafie autoctone. I punti di riferimento di Black Axe sono rintracciabili nella predicazione antischiavista, derivata strumentalmente dalle Black Panther. Agli esordi l’egemonia di Ascia Nera si determina grazie alla massa di giovani istruiti, studenti universitari che imbracciano le armi a Benin City, nel 1977. Nasce come confraternita studentesca (Neo Black Movement), ma si distingue subito per l’adesione al cultismo e alla pirateria. Nel libro di Palmisano gli Aye (African Youth Empowerment), i picciotti, rivelano la lunga trama degli affari e delle affiliazioni, l’evoluzione di un apparato gigantesco. Dalle grandi città universitarie nigeriane, si sono spostati nel mondo occidentale, prima governando la tratta delle donne, poi entrando nello spaccio di piazza, nella gestione partecipata del narcotraffico transcontinentale, nel riciclaggio di denaro sporco nelle banche svizzere, nella compravendita di armi e di pietre preziose sul mercato olandese e di Dubai. L’affidabilità del sistema è garantita da una gerarchia rigida e molto ben strutturata, un’organizzazione che ha preso a modello le mafie italiane. Palmisano trova similitudini tra la stratificazione interna di Ascia Nera e le gerarchie ’ndranghetiste e anche la suddivisione del territorio, come i processi decisionali, sono mutuati dalle organizzazioni criminali italiane. In Nigeria, Ascia Nera continua a farsi chiamare Neo Black Movement e si comporta come un’associazione benefica, aprendo ospedali, regalando automobili alle polizie locali, edificando un sistema di welfare criminale in parte paragonabile a quello vigente in vaste aree del sud Italia. Contemporaneamente il movimento mafioso corrompe colletti bianchi, politici ed imprenditori, diventando un interlocutore privilegiato per le classi dirigenti nigeriane. E, in ultimo, partecipa alle elezioni con l’arma della minaccia e dell’assassinio. Fuori dalla Nigeria fa affari con i narcos messicani e con i fondamentalisti pakistani per l’importazione di cocaina e di eroina gialla. Si raccorda con grande facilità alle grandi mafie sul territorio italiano, approfittando dell’esclusione sociale dei neri per ricattare, minacciare e assassinare chi si oppone alle sue regole. Palmisano racconta di come in Italia si sia insediata in Sicilia, dove ha patteggiato il proprio radicamento con una decina di mandamenti; in Calabria, dove gestisce con la ’ndrangheta i ghetti; in Puglia, dove compera marjuana dalla mafia del Gargano e smercia droga al dettaglio per conto della mafia barese e dalla Sacra Corona Unita. E in Campania, dove spaccia e ricetta al servizio della camorra. Poi c’è il radicamento al Nord, dove gode dello spazio conquistato dalle mafie meridionali e della permeabilità del tessuto economico e imprenditoriale. In Europa ha relazioni con la camorra marsigliese insediata a Parigi e con la mafia russa a Londra e a San Pietroburgo. Di tutto questo possiamo continuare a parlare come di un pericolo tanto onnipresente quanto generico, cosicché nulla cambierà. La marginalizzazione e l’esclusione dal mercato del lavoro sono le prime cause di affiliazione tanto per gli italiani quanto per gli stranieri. Continuino pure i nostri politici a urlare #primagliitaliani e #lamafiafaschifo: non avranno risolto nulla, ma tutti quegli hashtag li avranno fatti sentire almeno al passo con i tempi. Magra consolazione.

I SEGRETI DELLA MAFIA NIGERIANA «BEVI LACRIME, SANGUE E ALCOL». Valentina Raffa per ''il Giornale'' 5 aprile 2019. Botte e schiaffi. Seguono lamenti e ancora rumore di schiaffi, mentre gli altri cantano una canzone dal sapore rituale tribale, con evocazioni spirituali che richiamano il «volo», «l' aria» e «gli uccelli». Servono lacrime e sangue per giurare fedeltà alla mafia nigeriana. Il battesimo del nuovo «Bird», l'adepto del clan «Eiye» di matrice cultista, con base operativa nel quartiere storico di Ballarò, nel cuore di Palermo, clan sgominato dalla Squadra mobile palermitana, coordinata dalla Dda, è un rito doloroso quanto disgustoso visto che l' adepto deve bere un intruglio senza fiatare, così come in rispettoso silenzio dovrà eseguire gli ordini, senza palesare rimostranze. È in ballo la sua vita. È diventato il nuovo schiavo dei membri più anziani del clan mafioso e, come tale, non ha diritti. Due pentiti nigeriani, reduci da contrasti in ordine al comando del clan, vuotano il sacco e ogni singolo particolare raccapricciante raccontato agli inquirenti viene confermato dalla registrazione di una microspia piazzata ad hoc dalla Mobile che, con l' operazione «No Fly Zone», ha disarticolato il sodalizio mafioso ramificato su tutto il territorio nazionale, arrestando 13 nigeriani, tra i 21 e i 33 anni, per associazione mafiosa. «Avvicinano del peperoncino sulla testa e la faccia. Intanto, feriscono il corpo con un rasoio. Il peperoncino fa lacrimare l' occhio, loro raccolgono la lacrima che viene mescolata con il sangue delle ferite. Lacrime e sangue vengono mescolate con alcol, riso e tapioca, viene chiesto di giurare fedeltà e totale silenzio sulle pratiche dell' organizzazione». Dopo avere ingurgitato l' intruglio, con tanto di ordine urlato: «Ingoia, ingoia!» segue il giuramento: «Debitamente giuro di sostenere Eiye confraternita moralmente, spiritualmente, finanziariamente e in qualsiasi altro modo e se non lo faccio che il vulture (avvoltoio) spietato mi strappasse gli occhi». Un altro spietato criminale è pronto a farsi valere per compiacere i capi e passare al livello successivo. Sono i due collaboratori di giustizia, a dirlo: «Poi, nel gruppo, sali di grado in base a quanti reati commetti». È grazie ai due che la squadra mobile di Palermo ha arrestato i 13 nigeriani, sette dei quali si trovavano ancora a Palermo, due nel Cara di Mineo, dove a gennaio sono stati decimati dalla mobile di Catania, coordinata dalla Dda etnea, i vertici e gli affiliati del clan cultista «Vikings» o «Supreme Vikings Confraternit». Altri due sono stati fermati a Castelvolturno, uno a Treviso, uno a Vicenza. Fondamentale è stata pure la denuncia di una ragazza nigeriana vittima di tratta e di sfruttamento della prostituzione, che ha fornito elementi significativi in ordine all' appartenenza agli Eiye del suo sfruttatore. La casa utilizzata per costringere le ragazze a prostituirsi era a Ballarò. Dopo il blitz, gli investigatori hanno via via ricostruito l' organigramma dell' associazione a livello locale, fino all' individuazione dei vertici. Prostituzione e spaccio di sostanze stupefacenti erano le attività principali del clan per fare soldi e, per imporre la propria egemonia contro l' avanzare di altri gruppi cultisti nigeriani, non mancano episodi di inaudita violenza, come alcuni scontri armati avvenuti nel 2010 per le vie di Palermo tra gli Eiye e il gruppo cultista Blake Axe decimato negli anni scorsi dalla mobile palermitana, che ha scoperto come in gran parte i nigeriani affiliati alla mafia siano giunti in Sicilia via mare. Esulta il ministro dell' Interno, Matteo Salvini: «Altro colpo alla mafia nigeriana, con tredici fermi disposti dalla Direzione distrettuale Antimafia di Palermo. Violenti, organizzati, senza scrupoli: i boss africani rappresentano un pericolo crescente che va subito estirpato. Grazie a forze dell' ordine e inquirenti».

Nicola Porro: «IO IL PRIMO A DENUNCIARE UN FENOMENO PERICOLOSO COPERTO DALL' ACCOGLIENZA». Jacopo Granzotto per ''il Giornale'' il 5 aprile 2019. Direttore, Quarta Repubblica è stata la prima testata a occuparsi di mafia nigeriana come un problema che si stava sottovalutando.

«Da novembre abbiamo cominciato a scavare nel mondo della mafia nigeriana in Italia, un' inchiesta che ha toccato varie tappe, da Mineo in Sicilia, a Castevolturno in Campania, passando per le baraccopoli del Sud Italia, per arrivare nei ghetti torinesi e delle grandi città del Nord».

La magistratura sembra confermarlo, con i barconi arriva anche la manovalanza di una nuova, cruenta organizzazione criminale.

«Si. Però all' inizio i miei ospiti non volavano sentir parlare di mafia nigeriana. Sembrava l' ennesimo attacco all' accoglienza. Si volava negare il problema».

Malafede?

«Si voleva dare il messaggio che nei barconi non c' erano delinquenti. E comunque una volta qui sarebbero stati gestiti da un' unica mafia, la nostra».

E invece?

«Invece i nigeriani lavorano in proprio».

Torniamo a «Quarta Colonna». Avete intervistato in esclusiva un ex affiliato alla mafia nigeriana.

«Si. E seguito la maxinchiesta che ha portato allo smantellamento della cellula al Cara di Mineo, 16 nigeriani di cui 3 donne, dedita a droga, prostituzione, riti voodoo, patti di sangue, violenze brutali. In quell' inchiesta si è capito come il cuore dell' organizzazione in Nigeria opera per infiltrare la propria manovalanza criminale sui barconi di disperati per farli arrivare in Italia».

E poi l' altra grande storia dell' omicidio della povera Pamela Mastropietro.

«Oseghale è accusato di averla fatta a pezzi, il processo stabilirà se è colpevole. Un fatto è certo, una nostra cronista ha visto quel corpo così terribilmente mutilato e dissanguato. Chi l' ha ridotta così aveva una mano esperta e anche su questo caso aleggia lo spettro della mafia nigeriana. Il potere di un' organizzazione criminale si misura in base al volume di affari e questi cult, così vengono chiamate le cosche nigeriane, gestiscono milioni di euro. Ma si insinuano anche in piccoli racket: disperati che chiedono l' elemosina e che vengono taglieggiati dai capi. Una nuova mafia in Italia».

Prossima mossa?

«Andremo in Nigeria, nel cuore nero della nuova mafia».

L'Italia in mano alla mafia nigeriana. Inchiesta sulla nuova criminalità, violenta e pericolosa, che sfrutta i migranti arrivati sui barconi, scrive il 18 febbraio Panorama. Il «culto», o, per capirci, la cosca emergente sono i Black Cats: i Gatti neri. Hanno tatuato il felino su una spalla e le profonde cicatrici sull’addome sono il risultato del rituale di affiliazione. Sono l’evoluzione della mafia nigeriana, una delle «più pericolose, aggressive e pervasive tra le mafie transnazionali» come l’ha definita l’ex procuratore antimafia Franco Roberti. I Gatti neri, che vestono di giallo e di verde, sulla dorsale adriatica hanno in mano lo spaccio di droga, la prostituzione soprattutto minorile e la tratta delle bianche: italiane tossicodipendenti adescate con le dosi e poi segregate negli appartamenti. Ne affittano a centinaia, ora li comprano anche, soprattutto nelle zone terremotate, investono in attività commerciali e prestano a usura. I Black Cats sono una derivazione «colta» dei Black Axe, la più aggressiva tra le mafie nere e hanno la loro cattedrale in Campania sulla costa domiziana a Castelvolturno: 20 mila italiani e 25 mila clandestini africani in un labirinto dove c’è una sola legge, la violenza. I Black Cats hanno la loro centrale operativa a Padova e lì, a Cadoneghe, il 22 novembre scorso la Squadra mobile ha arrestato il capo dei capi, Fred Iyamu. Lo chiamano «Gran Ibaka». Ci sono arrivati con un’inchiesta partita a Cagliari dove hanno arrestato altri 15 nigeriani. La sua storia è comune a molti mafiosi neri. È arrivato nel 2006 col barcone. Si è sposato a Cadoneghe con una ragazza pugliese, ha ottenuto il permesso e ha sostituito al vertice della mafia il capo dei capi in Italia Osahenagharu Uwagboe, detto Sixco, arrestato nel 2016 a Zivio vicino a Verona. E, ancora, nella città del Santo nel corso dell’operazione che ha acceso la polemica tra l’allora procuratore di Torino Antonio Spataro e Matteo Salvini, accusato dal magistrato di aver favorito i nigeriani annunciando prematuramente l’arresto di 15 pericolosissimi componenti dei Black Axe il 5 dicembre del 2018, sono state messe le manette a Edoseghe Terry, un don (cioè un capo), a Ezuma Christian Onya e a una maman, che gestisce le prostitute, Franca Udeh. Da Padova la mafia nera ha cominciato una nuova espansione, ma nessuno ne parla per evitare che passi l’idea che con l’immigrazione clandestina importiamo anche la malavita più pericolosa. A definirla così è il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci. Dopo un’operazione condotta a Ballarò, il quartiere di Palermo concesso ai neri da Cosa nostra, che ha portato alle prime condanne per 416 bis di nigeriani, Aguici ha detto: «Questa mafia è più violenta di quella palermitana». Nelle carte del processo per l’uccisione e lo squartamento di Pamela Mastropietro, la ragazza romana ammazzata il 30 gennaio del 2018 a Macerata, che si apre adesso in corte d’Assise, ci sono le rivelazioni di un pentito che indica in Innocent Oseghale - 30enne nigeriano arrivato anche lui come profugo, accusato dell’omicidio e dello scempio del cadavere della ragazza - l’uomo di collegamento tra Castelvolturno e Padova. Oseghale sarebbe stato incaricato di reclutare tra nigeriani e ghanesi nuovi affiliati, di organizzare lo spaccio e la tratta delle bianche. Pamela Mastropietro - il cui corpo è stato sezionato in 24 pezzi (manca il collo) abbandonati in due trolley in una strada di periferia - sarebbe stata uccisa perché si è rifiutata di prostituirsi. I verbali del pentito sono puntualissimi. Il procuratore capo di Macerata Giovanni Giorgio ne fa uno dei pilastri dell’accusa contro Oseghale, ma le dichiarazioni di questo collaboratore non valgono l’etichetta di antimafia. Il testimone V.M., ora recluso nel carcere di Pescara, che ha consentito anche lo smantellamento di molte ’ndrine resterà privo di qualsiasi protezione e così la sua famiglia. V.M. è stato preciso nel dire: «Oseghale ha sull’addome i segni dell’iniziazione, mi ha detto che se testimonio che Pamela è morta di overdose mi fa avere 100 mila euro da Castelvolturno perché a loro i soldi non mancano». Nessuno ha controllato, in compenso la figlia di V.M. è stata minacciata da alcuni nigeriani e la moglie vive nascosta, alla fame. Se un collaboratore di giustizia parla dei nigeriani c’è da stare attenti: ci sono in gioco le politiche dell’accoglienza. Esiste però il «Buscetta dei neri». È il primo pentito dall’interno di Black Axe. Austine Johnbull al sostituto procuratore di Palermo Gaspare Spedale ha dettato a partire dalla primavera del 2016 migliaia di pagine raccontando tutto: dai riti di iniziazione a come e perché la mafia nigeriana composta da Black Axe, Black Cats, Vikings e Supreme Eye, che tra loro osservano una tregua armata, ha scelto l’Italia come trampolino per la diffusione in Europa, facendo di Castelvolturno la base di arrivo ed espansione. Ha raccontato come soprattutto i Black Axe abbiano stretto solidi legami con Cosa nostra e ha rivelato che quelle che appaiono come risse tra immigrati sono invece regolamenti di conti mafiosi: a partire dalla rivolta del 2010 nel ghetto di Rosarno, dove a organizzare il caporalato sono i mafiosi nigeriani che schiavizzano gli altri clandestini. Johnbull ha confermato che il capo dei capi in Italia era Sixco che a Verona nel 2013 organizzò la festa dei «culti». Era il segnale partito da Benin City, in Nigeria, dominio dei Black Axe, che si tornava all’azione. Nel 2009 i capi africani dopo le mattanze tra nigeriani del 2006 e 2007 tra Padova e Torino (il codice di Supreme Eye prevede di uccidere 15 membri della banda rivale per ogni proprio affiliato ammazzato) ordinarono di mettere in sonno l’organizzazione. Poi cominciò la trattativa con Cosa nostra e con le altre mafie nostrane che vendono la droga ai nigeriani e hanno appaltato loro lo spaccio e la prostituzione. La Dia nella relazione antimafia del primo semestre del 2018 conferma che le cosche nere comandano in almeno sette regioni - Lazio, Campania, Calabria, Piemonte, Puglia, Sicilia e Veneto - dove trattano da pari a pari con la malavita italiana e ci sono otto città che sono i loro capisaldi: Torino, Verona, Bologna, Roma, Napoli, Palermo, Bari, Caserta. Ma i pentiti e le tante operazioni di polizia (gli arresti hanno passato i 300 nel solo 2018) rivelano che anche Padova, Macerata e Ferrara sono entrate a far parte di questo elenco e che in Sardegna, a Cagliari in particolare, c’è un forte radicamento dei Supreme Eye, mentre in Lombardia cominciano a farsi vedere i colletti bianchi della mafia nera nel bresciano, nell’hinterland milanese e nella bergamasca. A Capriate San Gervasio, dove si stanno facendo strada i Vikings, è stato arrestato un mese fa Anthony Leonard Iezedomni, ritenuto una sorta di «capo mandamento». È la mappa del crimine d’importazione che ha un volume d’affari impressionante: un pusher viene stipendiato 2 mila euro al mese, una prostituta deve rendere almeno 500 euro al giorno, un «baseball cap» incassa non meno di 200 euro al giorno. I soldi vengono versati al don che è il boss locale, il quale a sua volta li versa all’head zone, il «capo zona», che lo compensa con 10 mila euro mensili. Stando alle ultime indagini la mafia nera avrebbe messo in piedi un altro orribile mercato: il traffico di organi. La «clinica» degli espianti è a Castelvolturno: è lì che deportano i minori non accompagnati? Ne sono scomparsi 15 mila di quelli arrivati con i barconi. A Castelvolturno un rene varrebbe 60 mila euro, le cornee 10 mila, il midollo 15 mila. Il cuore, volendo, si paga 250 mila euro e non è la finzione shakespeariana di Shylock. Su questi orrori a Lago Patria, una frazione di Giugliano, sta indagando l’Fbi statunitense insieme al Servizio centrale operativo, alla Polizia postale e ai carabinieri. Pare certo che il traffico di organi sia gestito sul darknet (il terzo livello, quello oscuro, di internet) da un cartello tra camorra e mafia nera. Per questo a Castelvolturno sta arrivando l’esercito: 200 uomini. È un territorio totalmente in mano alla mafia nera, che ha sfrattato i Casalesi, recluta nei centri di accoglienza «cavie» e prostitute, e che deve essere riconquistato allo Stato. Le ragazze le comprano in Nigeria poi via Libia e - anche a bordo delle navi delle Ong - arrivano in Italia. Le maman le radunano a Castelvolturno: le ricattano con riti vudù o ju ju e le smistano a tutti i centri dell’organizzazione. Questa attraverso le prostitute controlla il territorio - hanno l’obbligo di riferire al don - ed espande lo spaccio. Se qualche ragazza si rifiuta, fa la fine di Pamela Mastropietro: fare a pezzi i cadaveri è il rituale di vendetta previsto dallo ju ju. Quante sono? Almeno 50 mila, di cui la metà minorenni, e incassano non meno di 38 milioni di euro al mese. La riprova che i centri di accoglienza dei migranti sono i luoghi di reclutamento si è avuta con l’ultima retata al Cara di Mineo, il più grande d’Europa, smantellato in questi giorni. Ospitava nella piana di Catania 4 mila immigrati. Lì, il 27 gennaio scorso sono stati arrestati 19 nigeriani affiliati ai Vikings: avevano organizzato sia il mercato della droga sia quello della prostituzione. A dimostrazione che gli arrivi dalla Nigeria sono un’emergenza nell’emergenza migranti. Dal 2014 a oggi sono state circa 70 mila le domande di asilo presentate, un quinto di minorenni, soprattutto ragazze. In Italia i nigeriani sarebbero poco meno di 110 mila e in carcere, dove un detenuto su tre è straniero (dati 2017), ne sono reclusi 1.125. Nel 2017 hanno compiuto 12.387 reati: uno su cinque di quelli commessi da stranieri. Dentro c’è di tutto: importazione dell’eroina gialla con gli ovulatori (i corrieri che ingoiano gli ovuli, sono soprattutto donne pagate 3 mila euro a viaggio), spaccio di coca, hashish e marijuana, sfruttamento degli accattoni, prostituzione, traffico di clandestini e, ora, anche la vendita di organi. È un’escalation impressionate di cui pochissimi parlano. Perché? La risposta forse sta ancora nelle carte del processo Mastropietro. Dalla Questura di Fermo l’11 luglio 2016 arrivò una segnalazione che non ebbe seguito. Un italiano, in una lite, aveva ucciso Emmanuel Chidi Nhamidi e il 10 luglio si tennero i funerali. C’erano la presidente della Camera Laura Boldrini, il ministro Elena Boschi, l’ex ministro Cécyle Kyenge, l’eurodeputato Pd David Sassoli tutti a esecrare il vile attentato razzista. Dietro il governo italiano sedevano in Duomo dei nigeriani vestiti di rosso e di nero. Quell’informativa afferma: «Sono Black Axe con le loro insegne per rendere omaggio al morto che era forse affiliato alla mafia nigeriana». Se si dà peso a una tale informativa allora un po’ di retorica antirazzista e buonista viene meno. Ora però cominciano a parlare le sentenze. L’11 gennaio di un anno fa il Gup di Torino - la città con più nigeriani, un feudo della mafia nera - ha condannato per associazione mafiosa 21 affiliati ai «culti» Eye e Maphite. Nelle motivazioni il giudice Stefano Sala scrive: «Tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri della droga... I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni». Sarà per questo che i professionisti dell’antimafia su quella nera tacciono?

Così la mafia nigeriana controlla almeno nove città italiane. La mafia nigeriana si muove su tre direttrici: tribalismi spiritualisti, criminalità e investimenti, ma tutti e tre questi fattori sono correlati, scrive Giuseppe Aloisi, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". Di mafia nigeriana si parla ancora poco - almeno in termini mediatici -, ma tra gli elementi citati spesso c'è la correlazione tra i rituali vodoo e l'organizzazione criminale in questione. Il Viminale sembra voler agire con decisione: il ministro Matteo Salvini ha predisposto l'invio di 200 soldati presso Castelvorturno, quello che sembra essere il vero centro di comando, magari di diffusione, del fenomeno in oggetto.

Ma a leggere alcune delle analisi che vengono pubblicate, come quella di Marco Gregoretti per Voi, che è stata riportata da Dagospia, non sembra possibile circoscrivere questa tipologia di mafia a un unico territorio. Se Castelvorturno piange, insomma, altre città non ridono. Tanto che quelle "controllate" in Italia - nel senso di essere assoggettate - sarebbero ben nove. Il legame tra una certa ritualità tribale e i comportamenti messi in atto da vari gruppi criminali, che sono almeno tre, è uno dei capisaldi teorici del dottor Alessandro Meluzzi, che si è detto più volte certo di questo nesso: "Quello che hanno fatto alla povera Pamela Mastropietro - ha dichiarato lo psichiatra alla rivista citata -, ma anche alla piccola Desirée Mariottini non trova parole per essere descritto. Sono state vittime di rituali criminali con i quali rischiamo di dover convivere quotidianamente". Le modalità d'azione, insomma, hanno delle drammatiche costanti. Lo dovremmo dedurre da recenti fatti di cronaca. Meluzzi, però, non è il solo a rintracciare un collegamento tra i tribalismi e i delitti: "Anche la criminologa Valentina Mercurio - si legge ancora - ha fatto diversi «studi sul campo» sui rituali e i sistemi punitivi adottati da queste bande criminali in Nigeria e in occidente". Volendo essere precisi, varrebbe la pena spiegare cos'è lo Juju, che alcuni ascrivono al Vodoo e altri, orientalizzandone l'espressione, usano citare in funzione di una sorta di spiritualismo africano. Fatto sta che Voi ha deciso di non pubblicare, considerato l'"incubo permanente" che rappresenta, un reportage fotografico al riguardo. I filoni da seguire, sempre secondo quanto si è dedotto in questi mesi, sono almeno tre: prostituzione, droga e traffico di esseri umani. Sul terzo punto, com'è noto, c'è bagarre: la mafia nigeriana - dicono - favorisce l'immigrazione clandestina, ma come distinguere gli scafisti mafiosi da quelli che non fanno parte dell'organizzazione di cui stiamo parlando? Un certo tratto buonistico, poi, non sembrerebbe coadiuvare il tenativo di porre un freno alla brama di coloro che trasportano donne nel Belpaese col solo scopo di estendere il mercato della prostituzione, quindi di guadagnare soldi che in seguito verrebbero investiti sì, ma dove? Nel pregevole pezzo di Gregoretti si legge che: "Le indagini dello Sco, della Dia, dei Carabinieri e della Guardia di finanza, coadiuvati in alcune città, come a Torino, anche dalla Polizia municipale, hanno portato alla scoperta di guadagni immensi che vengono già investiti in attività “lecite” come gli alimentari etnici e i phone center. Un fiume di danaro che, con il sistema Hawala, un sorta di fiduciario sulla parola, uno in Italia e uno in Nigeria, viaggia all’interno di valigette nere che contengono 100 mila euro. Il 30 per cento se lo spartiscono i fiduciari". Per comprendere la mafia nigeriana, insomma, bisogna tener conto di una serie di fattori intrecciati: quello rituale, quello criminale e quello economico - finanziario. Tutti e tre i fattori, però, viaggerebbero su una sola direttrice e finirebbero col produrre un effetto comune: una sorta di dominio territoriale che nove città d'Italia dovrebbero, loro malgrado, conoscere bene.

Mafia Nigeriana spietata come l’Ndrangheta: lo Stato deve sterminarle, scrive Andrea Pasini il 20 gennaio 2019 su "Il Giornale". Tra i più vecchi e i più sclerotizzati cancri d’Italia occupa un posto importante il crimine organizzato. Mafia, ‘ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita hanno riempito le pagine della nostra storia sia monarchica che repubblicana, di sangue innocente. La presenza sul nostro territorio delle maggiori e più pericolose organizzazioni al mondo ha sicuramente sviluppato un settore della giustizia massimamente esperto nel combattere questo tipo particolare di criminalità. Si potrebbe dedurre che se qualche altro insieme organizzato di criminali iniziasse ad operare in Italia, verrebbe utilizzata l’esperienza fatta combattendo la malavita di casa nostra. Purtroppo per la nostra Patria non è andata così. La sfida posta da questa nuova criminalità è stata ignorata a lungo fino a che, come spesso accade con i problemi che vengono ignorati, è esplosa l’emergenza (che tale non sarebbe stata se si fosse stroncato da subito il malcostume): L’Onorevole Giorgia Meloni, Segretario Nazionale di Fratelli d’ Italia, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni in Aula sul fenomeno della mafia nigeriana: “Noi crediamo che ci debba essere [l’esercito] perché a Castel Volturno si stima la presenza di 25 mila immigrati clandestini e 22 mila case occupate”. Questi, che sembrano dati di un paese in guerra civile, sono invece i dati di una città italiana. Eppure 22mila case non sono state occupate in un giorno. Per caso i media tradizionali (e tradizionalmente di sinistra o infiltrati dalla sinistra) hanno parlato dedicando il giusto tempo e i giusti approfondimenti alla questione della mafia nigeriana? Per caso i professionisti dell’antimafia ne hanno parlato, scritto o divulgato l’esistenza? Macché, l’unico che ne ha fatto una battaglia vera e coerente prendendosi su la solita lista di insulti standardizzati (fasciorazzistanazista ecc. ecc.) da parte dei soliti ruffiani, è stato Alessandro Meluzzi. Il governo si troverà forse nella necessità di mandare l’esercito. La mafia nigeriana è inoltre nota per l’utilizzo dei ritivoo-doo per obbligare le ragazze (portate in Italia coi barconi) a prostituirsi, per le pratiche rituali cannibali, per l’espianto e il mercato nero degli organi, oltre che per il più classico spaccio di droga ed annessi. La descrizione appena fatta è talmente nera ed aliena alla nostra civiltà da far vedere le organizzazioni criminali italiane (che ormai operano in settori meno truculenti come gli appalti e il riciclaggio di denaro sporco) come dei principianti del crimine organizzato. Ci si Augura che il Ministro Matteo Salvini, che della sicurezza ha fatto una delle colonne portanti della sua campagna elettorale, si occupi di questa vicenda che sta prendendo toni sempre più bui e raccapriccianti. Anzi lancio come giovane imprenditore mettendoci la faccia e nome e cognome senza paura “Andrea Pasini di Trezzano Sul Naviglio” al Ministro Salvini un appello: “non perdiamo tempo e cerchiamo di tagliare le gambe subito a questa nuova magia nigeriana che sta in poco tempo ramificandosi in maniera capillare nel nostro paese perché ogni giorno che passa questa feroce organizzazione criminale prende sempre più potere e lascia per strada morti e feriti”. Non dobbiamo fare lo stesso errore nel trattare la mafia nigeriana come abbiamo fatto con la mafia e poi con Ndrangheta bisogna da subito dare un segnale forte che lo Stato è presente e che non permetterà a questi banditi di poter venire in Italia a delinquere.

·         La Mafia Albanese.

LE MANI DELLA MAFIA ALBANESE SULLE STRADE: SONO 120 MILA LE SCHIAVE DEL SESSO IN ITALIA. Flavia Amabile per “la Stampa” il 7 ottobre 2019. Aveva 16 anni Corinna quando fu venduta dalla madre. Viveva in un piccolo paese di una Romania appena approdata nell' Unione Europea, una terra di speranze e miseria. La famiglia di Corinna non volle credere alle speranze, si lasciò vincere dalla miseria. La mamma intascò trecento euro e lasciò andare la prima di tre figlie nelle mani di un lover boy. Sono i compagni-padroni, innamorati per finta, illusionisti di professione. Gestiscono gran parte del traffico della prostituzione di romene in Italia e stanno provando a fare altrettanto anche con le giovani italiane. Corinna attraversò il confine italiano con una procura della mamma che l' autorizzava ad andare verso l' inferno. Lei questo, però, non poteva saperlo. Al suo fianco c' era un uomo che giurava di essere perdutamente innamorato di lei, di volere una famiglia e una vita insieme: come avrebbe potuto immaginare di essere diretta verso l' orrore? Per vivere però bisogna riuscire a pagare almeno l' affitto di una casa, cibo, vestiti. Il compagno le chiese di andare con altri uomini per soldi. La parola giusta da usare in questi casi è prostituirsi. Il compagno lo chiamò amore e purtroppo anche secondo Anna era amore. Divenne la sua vita e quell'uomo il suo carceriere. Corinna arrivò a pesare 42 chili. Il compagno ogni giorno le ripeteva: «Sei brutta, non vali niente, se non stai con me non ti prende più nessuno». Corinna gli credeva e accettava di stare con lui e con tutti gli uomini che la avvicinavano in strada. Anche dopo un aborto, anche con un braccio rotto perché lui l' aveva picchiata. Al ritorno a casa ogni sera metteva i soldi sul tavolo, e a lei rimaneva poco o nulla. Corinna ha due sorelle, anche loro cedute al miglior offerente. Stesso copione, stesso epilogo: in qualche strada italiana a farsi comprare e poi subito a consegnare il denaro guadagnato. Senza nemmeno aver capito del tutto di essere state costrette a farlo.

Nella trappola da sola. «Le figlie femmine sono oro per i romeni», spiega Nicole Puiu. E' lei a raccontare la storia di Corinna e delle sue sorelle, tre vite vendute per meno di mille euro dalla loro mamma ai lover boy romeni. Sono le sue cugine, figlie di una sorella della mamma. Nicole ne parla perché vorrebbe salvarle, così come sta provando a salvare sé stessa. Anche sulla sua strada è capitato un lover boy, ma nessuno l' ha venduta a lui o glielo ha imposto: in trappola è finita da sola. «Mi sono sposata a 20 anni in Romania. Il nostro era un bellissimo amore. E' nato il primo figlio, è nato il secondo. Poi lui ha iniziato a buttare tutti i nostri soldi nelle macchinette per il poker. Dovevo trovare un lavoro, mi hanno offerto un posto come cameriera in un bar a Monza. Ho lasciato i figli ai miei genitori, sono venuta in Italia. Mi sono ritrovata senza più un lavoro e con una persona accanto che sembrava dolcissima. Mi ha chiesto di prostituirmi per qualche mese in modo da tornare in Romania con qualche soldo. A casa avevano bisogno, i problemi erano tanti e io mi sentivo in dovere di risolverli tutti. L' ho accontentato e sono finita in un baratro. Ero convinta di non poterne più uscire». Nicole è riuscita a liberarsi, invece. Ha capito la trappola, ha smascherato i carcerieri vestiti da innamorati. Il 3 gennaio di quest' anno è tornata in Romania, ha riabbracciato i figli e ora vive con loro. Lavora come può ma è padrona della sua vita. «Non chiedo altro», conclude. Vendute dalle madri o vittime da sole di un atroce inganno, ogni anno migliaia di donne romene finiscono nella trappola dei lover-boy. Sono in continuo aumento e non sono più solo romene.

Tappe dell' assoggettamento. Ci sono anche le italiane grazie a un meccanismo di reclutamento e sfruttamento in grado di sfuggire ai controlli. Per la legge e le statistiche sono semplici prostitute e chi le usa al massimo rischia una condanna per sfruttamento della prostituzione, due anni che diventano 16 mesi con lo sconto previsto dal rito abbreviato. La battaglia di chi sta provando a fermare la crescita di questo fenomeno è far capire che sono invece vittime di tratta, schiave come le prostitute nigeriane: costrette, ricattate, prigioniere. E che chi ha il dominio delle loro vite è colpevole di un reato diverso, da punire con una pena dai sei ai dodici anni di carcere.

Le prigioniere dei lover boy sono sotto gli occhi di chiunque passi sulle strade della prostituzione, eppure sono invisibili. Secondo i dati del Dipartimento per le Pari Opportunità, le vittime di origine rumena minorenni entrate nel circuito di assistenza sono 23. Rappresentano il 2,8% del totale, una cifra irrilevante e, soprattutto, irreale. Le donne che hanno la forza di liberarsi sono una goccia rispetto al mare di quelle che restano. E' vero per le donne nigeriane: 660, cioè 8 su 10 di quelle che hanno accettato la rottura con il passato. Ma è ancora più vero per le donne romene. Sono in 729 le minorenni originarie della Romania vittime di tratta intercettate in una sola notte dagli operatori dell' associazione Save The Children lungo le strade di 5 regioni italiane, come è raccontato nel rapporto Piccoli schiavi invisibili 2019. «Basta saper contare», sostiene Michelangela Barba, presidente dell' associazione Ebano. «Le regioni sono 20. Vuol dire una media di 2800 donne in tutta Italia soltanto di notte. Bisogna poi considerare le minorenni che scendono in strada durante il giorno e aggiungere tutte le altre che non sono state intercettate. Si arriva rapidamente a settemila. Se si inseriscono nel conteggio anche le romene che lavorano negli appartamenti e le minori ancora più nascoste, si arriva almeno a 12 mila minorenni. Si sa che le minorenni rappresentano un terzo del totale: vuol dire 40 mila romene che si prostituiscono a ogni età. Una stima del tutto ottimistica: è probabile che siano molte di più», conclude Barba. E' più o meno la cifra calcolata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. «Le strade delle nostre città sono "di proprietà" della mafia albanese che poi, a caro prezzo, ne cede l' uso ad altri clan nazionali: un mercato disumano di abusi e violenze: migliaia di donne costrette a vendere il loro corpo per alimentare senza sosta un racket sanguinario. La prostituzione coatta è un crimine contro l' umanità ed è il terzo business illegale dopo droga e armi», attesta don Aldo Buonaiuto, animatore del Servizio anti-tratta fondato da don Oreste Benzi. Sono 120 mila le donne che si prostituiscono sulle strade e al chiuso. 3,5 milioni i clienti, un giro d' affari di 90 milioni di euro al mese. Dopo le ragazze nigeriane, le romene costituiscono il gruppo nazionale più numeroso presente nella prostituzione su strada in Italia. Su questo sono d' accordo tutti gli osservatori. Secondo Paolo Botti, fondatore dell' associazione Amici di Lazzaro «la giovane età e l' inesperienza rendono le minori rumene particolarmente manipolabili dai loro sfruttatori: ci troviamo di fronte a persone che operano in proprio o sono affiliate a organizzazioni che sempre più vanno specializzandosi sia durante il reclutamento sia nel controllo». E «la sorveglianza costante sulle vittime viene esercitata da figure maschili che monitorano le aree di sfruttamento, ma al controllo maschile si aggiunge quello a vista, effettuato da una ragazza o una donna più anziana che hanno il compito di denunciare allo sfruttatore eventuali mancanze delle ragazze in strada». E' il nuovo volto della tratta: alle donne nigeriane si affiancano sempre più romene, o anche albanesi o bulgare, con una capillare presenza, appunto della mafia albanese sul mercato della prostituzione italiana, come spiega il rapporto di Save The Children. Il controllo dei lover boy è «totale e violento». Un' organizzazione sempre più efficiente e spietata, giustificata dall' aumento dei guadagni. «Prima agivano con il rapporto di uno a uno e ognuno aveva una ragazza, poi hanno imparato tecniche di manipolazione più articolate e complesse e ora riescono a gestire più di una ragazza, raccontando la stessa storia a ognuna di loro, tenendole in appartamenti separati», spiega Silvia Dumitrache, presidente di Adri, l' associazione delle donne romene in Italia.

I danni dell' onere della prova. Come uscirne? Secondo Barba va aggiornato il concetto di tratta. «Bisogna rendere la vita più difficile ai trafficanti. Abbiamo presentato proposte di modifica delle leggi. Non si può subordinare l' ingresso nei percorsi di assistenza al racconto da parte delle donne e alla prova di essere state costrette a prostituirsi. Non si chiede al tossicodipendente perché si trovi alle dipendenze della droga. Allo stesso modo bisogna liberare le donne dall' onere della prova, altrimenti saranno sempre troppo poche quelle che avranno il coraggio di accettare l' aiuto». E' proprio sul loro silenzio terrorizzato che contano i clan.

·         La mafia cinese.

Prato, in ostaggio del "Dragone". Nonostante arresti e Polizia la comunità cinese ormai ha cambiato il tessuto culturale e sociale della città toscana. Giorgio Sturlese Tosi il 20 settembre 2019 su Panorama. Dopo le retate, la pax mafiosa è finita e i vecchi boss si riprendendo Prato, grazie anche ad alleanze inquietanti. Prendiamo la storia di Lin Cai Wang. Corpulento e alto un metro e 90, si rasava completamente il cranio. Per questo era soprannominato «Hesan», il Monaco. Stava nel tinello di casa sua, nel cuore della Chinatown cittadina, quando, nel 2009, i carabinieri gli hanno messo le manette. Dieci anni dopo, scontata la pena, è tornato ai suoi affari. Allora la guerra che il Monaco combatteva per il monopolio dello spaccio di droga, del gioco d’azzardo e della prostituzione, dopo il suo arresto, era sfociata in una mattanza. Il 17 giugno 2010 due ragazzi cinesi furono fatti letteralmente a pezzi a colpi di mannaia, in pieno giorno, in una rosticceria di via Strozzi. Eppure per il Monaco è passato il tempo ma non il vizio. E così è tornato in carcere. I poliziotti della sezione Criminalità straniera dalla Squadra mobile di Prato l’11 luglio scorso l’hanno arrestato ancora per sfruttamento della prostituzione. Il blitz della polizia in sei hotel di Prato oggi racconta vizi e corruzione dell’anima orientale della città toscana. Escort asiatiche, arrivate in Italia col visto turistico, erano a disposizione di ricchi cinesi che pagavano 500 euro a notte per festini a basse di sesso e droga. Dell’organizzazione farebbe parte anche un pezzo grosso della criminalità, Lin Xia, detto Lucas. I pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Gianpaolo Mocetti sospettano che fosse il punto di contatto tra malavita cinese e alcuni carabinieri corrotti. Era già successo, a Prato, che i poliziotti dovessero arrestare i propri colleghi. Per gli investigatori Lucas è coinvolto anche in una sparatoria tra clan rivali avvenuta in mezzo ai passanti ai giardini pubblici. Giocava al fare boss, Lucas, che ha nominato come difensore di fiducia l’avvocato Luca Cianferoni, il legale di Totò Riina. Il Monaco e Lucas però sono criminali dal coltello facile e dalle visioni ristrette. I veri boss non hanno interesse a dimostrare il loro potere con le mannaie. I padrini sanno mediare, sono maestri del brokeraggio e gestiscono un capitalismo criminale grazie anche alla collaborazione di professionisti italiani, commercialisti e consulenti del lavoro, che costituiscono quella zona grigia che di Prato, nelle parole del procuratore Giuseppe Nicolosi, fa «una palude». Colletti bianchi che agevolano un’economia parallela a quella legale che condiziona il mercato e, a lungo andare, lo stesso tessuto sociale. La crisi, la pressione fiscale e le difficoltà burocratiche hanno permesso che questa arrembante forma di capitalismo attecchisse sulle fragilità del sistema produttivo. Tra gli imprenditori locali c’è chi resiste, chi soccombe e chi cerca nella sponda criminale un appiglio per sopravvivere, divenendo talvolta complice. Chi comanda davvero la malavita cinese a Prato gestisce colossali traffici che pompano denaro liquido da reinvestire in attività apparentemente legali. Talvolta, come ha svelato la colossale inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze con l’operazione «China Truck» del 2018, le due economie si intrecciano e si alimentano. In manette, con decine di connazionali, era finito il presunto capo della triade italiana, Zhang Naizhong. Chiamato dalle sue vittime l’Uomo nero, per gli inquirenti era «il capo dei capi» che da Prato comandava su mezza Europa. Il Tribunale del riesame prima, e la Cassazione poi, hanno cancellato l’accusa di mafia. In attesa del processo a 85 indagati che partirà a breve, anche l’Uomo nero, scaduti i termini della custodia cautelare, è tornato un cittadino libero. Le accuse contro la sua organizzazione però sono paradigmatiche della capacità di diversificare gli interessi, anche criminali, dei clan cinesi. Si va dal trasporto merci, al traffico internazionale di rifiuti, al mercato della contraffazione, alla gestione di sale giochi e centri benessere. Poi c’è il racket delle estorsioni, con annessi incendi di magazzini e supermercati (l’ultimo, a fine agosto, a Monsummano Terme, con decine di famiglie evacuate ma nessun ferito: era solo un avvertimento). Senza dimenticare il core business di tutte le triadi che operano in Italia in stretta collaborazione con la Cina: l’organizzazione e lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Un’inchiesta della Guardia di finanza, la «Money to money», ha calcolato in quattro miliardi di euro il denaro in nero che da Prato prendeva la via della Cina attraverso i money transfer e la complicità di Bank of China. Dopo gli arresti e un processo con centinaia di imputati dilatato fino all’inverosimile per difficoltà burocratiche e di traduzione degli atti (e azzerato dalla prescrizione), quel fiume carsico di valuta che veniva generato a Prato ma finiva all’estero si è prosciugato. Oggi i soldi viaggiano direttamente nei container o, come sospettano gli inquirenti, vengono riciclati grazie alla criminalità organizzata di stampo mafioso italiana che ha messo a disposizione di alcuni imprenditori cinesi la propria, collaudata, rete. Intanto sempre più attività commerciali passano di mano e vengono acquistate da orientali. Un terzo degli alberghi della città, anche di lusso, ha cambiato proprietari e nazionalità. Dopo le confezioni e le tintorie, dopo i parrucchieri e gli estetisti e i ristoranti, l’avanzata cinese ha conquistato i bar, dalla periferia fino al centro. L’ultimo a essere ceduto è lo storico bar Magnolfi, aperto nel 1926, famoso per le sue ciambelle e i clienti vip, da Roberto Benigni a Francesco Nuti. Era in vendita da tempo e nessun italiano si è fatto avanti. Finché è arrivato Weng Yu, classe 1990, che aveva già rilevato la famosa pasticceria Orgiu. Stesso destino è toccato al centralissimo bar Andrei, cent’anni di storia. Il titolare, Bruno Rosi, racconta: «Un giorno nel locale si sono presentati due ragazzi d’origine cinese che mi hanno fatto una proposta di acquisto. Ci abbiamo pensato e deciso di vendere. Di italiani a chiedere informazioni per acquistare il bar non se n’è visto nemmeno mezzo». Già nel 2010 Edoardo Nesi scriveva nel libro Storia della mia gente: «Quando vendi un’azienda vendi anche la sua storia». E qui in gioco c’è la storia di Prato, ostaggio di una mutazione demografica ed economica di cui qualcuno sa approfittare, ma nessuno sa gestire. Il procuratore Nicolosi, lo dice tra il serio e il faceto: «Qui siamo come a Fort Alamo. La nostra è una procura di frontiera, non abbiamo il mare ma abbiamo un mare di cinesi». Perché nella valle del Bisenzio, il piccolo fiume che attraversa la città, gli immigrati clandestini non arrivano sui barconi ma in aereo. Si chiamava Hang Ke Yuek il primo cinese residente a Prato; era il 1968. L’ultimo censimento del Comune conta 23.647 cinesi iscritti all’anagrafe (gli italiani sono 153 mila), in costante aumento. A cui vanno aggiunti migliaia di irregolari. Oggi Marco Wong e Teresa Lin siedono in consiglio comunale. Ingegnere elettronico con un passato da vice presidente di Huawei Italia, Wong per la sua campagna elettorale ha scelto uno slogan profetico: «La preferenza al futuro di Prato». Da imprenditore ha toccato con mano la presenza dei clan cinesi: «Ho ricevuto minacce telefoniche da qualcuno che voleva che pagassi il pizzo, ma sono andato subito in questura a sporgere denuncia. Esiste un gravissimo problema sociale. La manovalanza criminale è frutto della mancata integrazione e dell’abbandono della scuola dei ragazzi cinesi che formano prima delle baby gang e poi delle vere e proprie bande criminali». Sul fronte della lotta all’illegalità però Wong è ottimista: «È vero che c’è ancora una diffusa ignoranza delle regole, ma la situazione sta migliorando, grazie ai controlli nelle aziende e perché gli imprenditori più giovani vedono il proprio futuro in Italia e si uniformano al sistema legale». I dati sembrano dargli ragione: dopo il rogo del 2013 della ditta Teresa moda, nel quale morirono carbonizzati sette operai che dormivano in fabbrica, la Regione Toscana ha avviato un piano straordinario di controlli interforze nelle aziende cinesi. Le imprese regolari erano appena il 6 per cento del totale. Nel 2017 erano arrivate al 56 per cento. Oggi a Prato, secondo i dati di Camera di commercio, ci sono 6.288 imprese con titolare cinese (le italiane sono 28.590). Ma sono quasi tutte imprese individuali, facili da chiudere e riaprire, e infatti il tasso di mortalità è precoce: il 35 per cento chiude entro i tre anni di vita. Un chiaro segnale di allarme, denuncia Luca Giusti, presidente della Camera di commercio di Prato: «Questa volatilità delle società induce a pensare che queste imprese restino aperte il tempo necessario per massimizzare i guadagni prima che arrivino i controlli di legge, riuscendo senza conseguenze a evadere le tasse, il versamento dell’Iva e dei contributi previdenziali e aggirando le leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro». L’Irpet, l’istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, ha stimato che il 22 per cento del Pil pratese sia cinese e che le imprese orientali in città valgano miliardi di euro. Prato è, in percentuale, la prima provincia italiana con imprese a conduzione straniera. I numeri affermano che a Prato l’economia dipenda della Cina, ma per il presidente della Camera di Commercio i dati vanno letti diversamente: «Qual è la reale ricaduta economica sul territorio? Le aziende cinesi acquistano e rivendono “estero su estero”, non è che se spariscono i cinesi Prato va in crisi. Piuttosto la presenza di attività cinesi sul territorio deve essere una risorsa, una opportunità per tutti, nel rispetto delle regole, altrimenti diventa concorrenza sleale». Un tema all’ordine del giorno. Il procuratore Nicolosi rivela che su circa mille procedimenti l’anno per violazioni delle normative sulla sicurezza sul lavoro, almeno novecento sono a carico di imprenditori cinesi. In procura, ogni giorno, si firmano procedimenti, indagini e sequestri a carico di cittadini cinesi. «Ma affrontiamo molte difficoltà, l’organico dei magistrati e del personale è insufficiente, l’evidenza di rapporti tra il mondo legale e la criminalità organizzata emerge costantemente dalle indagini, mentre le nostre richieste alle autorità diplomatiche cinesi vengono ignorate». Un po’ come un fortino, Prato resiste come può alle cariche. Nessun segnale, però, di un arrivo della cavalleria. Non lontano da Prato un magistrato antimafia che i cinesi li conosce bene afferma sconsolato: «Della mafia cinese non importa nulla a nessuno».

Il padrino che viene dalla Cina: come funziona (e fa soldi) la Piovra asiatica in Italia. Estorsioni, usura, droga, prostituzione, omicidi. E fiumi di denaro cash. Per la prima volta le indagini fanno luce sugli affari italiani del boss Zhang Naizhong soprannominato “L’uomo nero”. Contro cui da pochi giorni è cominciato il processo, scrive Lirio Abbate il 15 gennaio 2019 su "L'Espresso". Le auto di lusso si fermano una dopo l’altra davanti all’ingresso di un ristorante cinese a Prato. È sera. Dalle berline tirate a lucido sbucano uomini di bassa statura e robusti, magri e alti, eleganti o vestiti con abiti alla moda. Hanno tutti gli occhi a mandorla e uno dopo l’altro si infilano nel locale con passo svelto. Arrivano a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro - sembra quasi fila indiana - ed entrano composti, in silenzio, puntando dritti al centro della sala del ristorante dove ad attenderli in piedi c’è un signore piccolo e magro, dai capelli corti e neri che indossa un abito scuro. E davanti a quest’uomo s’inchinano tutti con deferenza. Non pronunciano alcuna frase. È un segno di rispetto, anzi un omaggio a quest’uomo che chiamano “il capo”. Poi girano i tacchi, riprendono l’uscita del ristorante e vanno via a bordo delle loro auto. All’anagrafe la persona al centro della sala si chiama Zhang Naizhong, detto anche “L’uomo nero”. Ha 58 anni, è nato nello Zhejiang, provincia orientale costiera della Cina che ha stretti legami con il nostro Paese: lo Zhejiang meridionale e in particolare, la città-prefettura di Wenzhou e i distretti di Qingtian e Wencheng sono la terra d’origine del 90 per cento delle comunità di immigrati cinesi in Italia e in Europa. L’inchino a Zhang non è un semplice saluto a un connazionale venuto dalla Cina, ma il riconoscimento al “capo” che sovrasta sulla comunità cinese di Prato, la seconda più grande d’Europa dopo quella di Parigi. Lui vive a Roma, dove gestisce i suoi affari milionari e i business illegali, e a Prato periodicamente porta il suo saluto come lo porta in giro per le comunità italiane, da Padova a Milano a Torino, fino a Parigi. E in ogni posto in cui arriva è accolto con deferenza. Perché gran parte dei cinesi che vivono in Italia e nelle più grosse comunità europee hanno paura di Zhang, conoscono la sua potenza, sono consapevoli di ciò di cui è capace servendosi della manovalanza criminale. E poi ha un potere economico vastissimo. A gennaio dello scorso anno - quando gli agenti della polizia di Stato sono andati a notte fonda ad arrestarlo su richiesta della procura antimafia di Firenze perché accusato di essere al vertice di una grande organizzazione mafiosa cinese (accuse che il tribunale del riesame toscano ha poi fatto cadere) - Zhang Naizhong dormiva sonni tranquilli, anche perché ai piedi del suo grande letto vegliava su di lui un robusto cinese residente a Prato: seduto su una poltrona, come usano fare i guardaspalle, con il compito di proteggerlo. Da chi non si sa. Ma anche quando dorme Zhang viene guardato a vista dai suoi uomini. Nulla però ha potuto fare il bodyguard quando hanno fatto irruzione i poliziotti: ha alzato le mani e si è limitato a vedere come veniva portato via il suo boss. Gli investigatori hanno osservato e controllato Zhang per anni, registrandone le mosse e le conversazioni. Così ne hanno tracciato, attraverso i fatti documentati, un quadro in cui emerge il suo ruolo di vertice di una grande organizzazione che fa affari in vari campi. Non sono episodi parcellizzati, ma legati da un unico filo giallo. Ufficialmente Zhang è imprenditore del settore trasporto merci, con centinaia di tir e furgoni che viaggiano per l’Italia e l’Europa. Queste società però non sono intestate a lui, benché poi “l’uomo nero” incassi tutto. Zhang fa anche prestiti ad usura ed è accusato di controllare sale da gioco illegali, prostituzione, traffici di droga, estorsioni e riciclaggio.

Obiettivo: invisibilità. “L’uomo nero” oggi è a piede libero anche se da pochi giorni per lui è iniziato a Firenze un processo in cui è imputato per diversi reati. Tra questi non c’è la mafia, che però resta ancora in piedi nelle inchieste e pende come una spada sulla sua testa: per farlo arrivare a processo per mafia occorre saper cucire bene i tantissimi fatti documentati dalla polizia di Prato e dal Servizio centrale operativo, dimostrando ai giudici che si tratta di un’unica organizzazione gerarchicamente strutturata che miete terrore e morte non solo in Toscana, ma anche nel resto delle comunità cinesi in Italia e in Europa. Il potere di Zhang Naizhong è ben recepito dalla base della comunità cinese. L’uomo nero riesce a muovere ogni giorno, attraverso i suoi mezzi di trasporto, scatoloni pieni di banconote da 500 euro che formano complessivamente milioni di euro. Cash a volontà consegnato a domicilio ogni giorno in città diverse direttamente a prestanome che acquistano attività commerciali, investono in attività lecite, inquinano l’economia legale di intere città, minano l’imprenditoria sana che paga le tasse. Durante le indagini la polizia ha intercettato una conversazione fra alcuni componenti del clan di Zhang: parlavano tra loro del fatto che la Guardia di Finanza di Roma, in una sua indagine sul traffico di droga, aveva fermato un tir dell’organizzazione proveniente dalla Spagna con un carico di stupefacenti. I cinesi però non erano in fibrillazione per aver perso il carico di droga, ma per uno scatolone pieno zeppo di banconote nascosto fra i trecento colli che trasportava il tir. I finanzieri, controllando, i pacchi hanno fatto la scoperta e il denaro è stato sequestrato. Fino a pochi anni fa, secondo i dati della Banca d’Italia, da Prato partiva ogni giorno verso la Cina un milione e mezzo di euro attraverso money transfer o bonifici bancari. Questi sono i volumi di denaro che circolano nella comunità cinese. E rendono potenti personaggi come Zhang Naizhong ai quali i suoi connazionali si rivolgono per risolvere ogni genere di problema. La strategia di dominio di Zhang nella comunità cinese si è divisa tra la necessaria politica di formale rispetto delle leggi, comprese quelle economiche di mercato, e la gestione degli interessi delinquenziali del clan dell’uomo nero. Rispetto alle istituzioni, la mafia cinese non è mai stata troppo visibile, non si è mai messa in aperto antagonismo con lo Stato, cercando anzi di apparire il meno possibile. Meno ci si fa vedere, meno c’è il rischio di entrare nel mirino delle forze dell’ordine e dei magistrati. Per questo i clan cinesi procedono nell’invisibilità, sfruttando però al massimo il metodo mafioso. Nel tempo, Zhang Naizhong è riuscito a creare una rete e una struttura piramidale della sua organizzazione, mettendo la comunità cinese in uno stato di profonda soggezione e omertà, tanto che molti hanno paura anche solo a pronunciare i nomi dei leader del gruppo davanti alle forze di polizia. L’associazione criminale ha mostrato di possedere una pervasiva influenza e una riconosciuta autorità nell’ambito della comunità cinese in generale - e non limitata ai territori classici di competenza - derivatagli dalla capacità dei vertici del sodalizio di risolvere qualsiasi tipo di problematica e controversia riguardante i propri connazionali. Proprio in virtù di questa autorità riconosciutagli - e della forza intimidatoria esercitata - in svariate circostanze la comunità cinese ha investito i capi del clan del compito di risolvere le loro questioni, riconoscendo a Zhang e ai suoi il ruolo di veri e propri “giudici” informali ma potenti. Ci sono conversazioni registrate in cui donne e uomini si rivolgono al boss per avere aiuto, e la considerano «una cosa logica e giusta».

Basta una telefonata. La necessità della criminalità organizzata cinese non è quella di radicarsi in un territorio, ma in una comunità. Ecco perché l’epicentro di tutti gli affari è Prato, area intorno alla quale ruotano i maggiori interessi del gruppo che, da qui, coinvolgono tutta l’Europa. A Prato c’è tutto il gruppo di Naizhong, c’è la base dell’associazione e tutti gli uomini più importanti dell’associazione, sia a livello di vertici sia a quelli più bassi. Controllare Prato, essere forti a Prato - come spiegano gli investigatori - consente di essere forti in tutta Europa. Il centro degli interessi dell’associazione di Zhang Naizhong è dunque questa cittadina toscana, trampolino per l’egemonia in Italia e in Europa. Basta pensare che le estorsioni ai cinesi le fanno gli stessi connazionali e il taglieggiamento all’interno della comunità è estremamente diffuso. Fino a pochi anni fa capitava che alcuni titolari di aziende di Prato che fanno capo agli asiatici (sono quasi cinquemila le imprese cinesi nella cittadina toscana) denunciassero alla polizia la richiesta di pizzo che ricevevano dai propri connazionali. Gli agenti, indagando, erano riusciti ad arrestare in flagranza di reato gli esattori. Dopo decine di arresti però i malavitosi cinesi hanno cambiato strategia: hanno capito che andare di persona a riscuotere il pizzo era diventato pericoloso e così si sono organizzati diversamente. Adesso imprenditori e commercianti ricevono direttamente dalla Cina la chiamata con la quale viene imposto il pizzo, con conseguente minaccia. Al telefono dicono: «Se non paghi ti bruciamo l’azienda». Bastano poche parole e la vittima capisce che non è uno scherzo, si convince subito. Per il pagamento viene dato un numero di conto bancario in Cina su cui vengono versate con un bonifico on line le somme estorte. In questo modo il clan fa capire alle sue vittime che può sfuggire alle indagini italiane (inutile provare a far denuncia) ma fa comprendere anche l’ampiezza dell’organizzazione piramidale e legata dalla Cina all’Italia fino in Europa. Sono una cosa sola. In qualche modo, si potrebbe paragonare alla ’ndrangheta: ciò che viene ordinato nel piccolo paesino della Locride, può essere eseguito anche in Australia o in Germania. Basta quindi una telefonata dalla Cina in cui le vittime vengono minacciate in Italia e queste eseguono gli ordini, pagano ciò che gli viene richiesto, perché la comunità cinese riconosce la potenza criminale e internazionale del clan. Ci sono intercettazioni sull’organizzazione di Zhang Naizhong in cui si ascoltano persone che chiamano dalla Cina e chiedono ai “colleghi “di Prato se sono stati loro a fare delle estorsioni ad alcuni commercianti amici di Padova. «Sì, sono i miei che hanno fatto l’estorsione», dicono a Prato; e dalla Cina ribattono: «Si potrebbe evitare?». Dalla Toscana rispondono: «Certo, se sono veri amici si può evitare». In Cina insomma sanno perfettamente che l’organizzazione a Prato è abbastanza forte da poter fare estorsioni anche a Padova.

L’alleanza strategica. Il braccio destro di Zhang Naizhong oggi è Lin Guochun detto Laolin, 51 anni, capo della malavita proveniente dalla regione del Fujian in Cina, che opera soprattutto nell’area pratese e fiorentina, ma il cui ruolo è riconosciuto da tutti i fujianesi in Europa. LaolinIn passato i due gruppi erano separati: quello di Zhang Naizhong e quello di Laolin. C’erano stati anche scontri e conflitti tra i due clan per il controllo del territorio a Prato. Ora questa guerra è stata superata: Zhang e Laolin sono alleati, anche se quest’ultimo ha dovuto accettare un ruolo subordinato, per garantire tranquillità al suo gruppo e mantenere un peso all’interno della criminalità. Quando Zhang Naizhong ha avuto un problema a Parigi con i fujianesi Laolin è andato con lui all’incontro e di fronte a tutti lo ha chiamato “capo”, così legittimando il suo ruolo anche per i fujianesi in Francia. Laolin si è poi trasferito in Cina, ma continua a fare il numero due del clan italiano attraverso il suo luogotenente Xue Bin detto Xiaoliao e viene periodicamente in Italia per mantenere i contatti diretti con Zhang Naizhong e i suoi uomini di fiducia. I due capi hanno stretto un patto criminale che ha consentito al sodalizio di espandere sempre più la propria influenza e i propri guadagni. Laolin, che già controllava i tradizionali settori delinquenziali in mano alla mafia sinica, grazie a Naizhong è entrato da protagonista nel redditizio settore del trasporto merci, mentre Zhang, in virtù dell’alleanza con Laolin, ha potuto contare su un’imponente schiera di affiliati particolarmente inclini alla violenza, temuti nel territorio pratese, ma anche in altre aree, che gli hanno consentito di accrescere la propria influenza ed il proprio incontrastato dominio nel settore trasporti e in altri ambiti criminali. L’alleanza tra i due non si esaurisce al settore trasporti, ma passa anche da altri business illegali, tra i quali il controllo del gioco clandestino, e ogniqualvolta l’uno necessiti dell’assistenza dell’altro: come nel caso di alcune azioni intimidatorie e violente messe in atto dal braccio armato del sodalizio di origine fujianese a Prato, sollecitate da Naizhong o dai suoi uomini di fiducia che gravitano in Toscana. Questo patto tra i due, secondo gli investigatori, non è difficile da spiegare. Laolin era il capo di un’associazione criminale forte, temuta e rispettata a Prato, dove controllava bene il territorio ed era stata in grado di imporsi e affermarsi, anche con la forza, compresi gli omicidi. Numerose indagini lo hanno dimostrato nel tempo. Ma la sua forza non era tale da potersi confrontare con quella di Naizhong e quindi giocoforza ha voluto che tra i due si stringesse una necessaria alleanza dove, comunque, l’ultima parola spetta sempre a Naizhong. È sembrato, in numerose sfumature dell’indagine, che Naizhong sia stato “imposto” a Laolin dalla Cina e che - e questo il capo dei fujianesi lo ha capito perfettamente - se fossero arrivati allo scontro, lui ne sarebbe uscito perdente. Da qui la ovvia decisione di allearsi, di proseguire insieme. Allo stesso tempo, però, Naizhong ha sempre riconosciuto a Laolin un ruolo speciale, quasi di suo pari, apprezzandone le doti criminali e le sue potenzialità di leader. Naizhong è il capo, ma Laolin ricopre una posizione del tutto privilegiata all’interno dell’organizzazione e questo ruolo gli è riconosciuto da Naizhong in più occasioni. E di tutto ciò le vittime innocenti della comunità cinese ancora oggi ne sono a conoscenza. E obbediscono.

Filippo Santelli per “la Repubblica” il 20 ottobre 2019. Sul passaporto canadese sembra un signore qualunque, mezza età, origini cinesi, i capelli neri con la scriminatura al centro. Ma a guardarli in foto non sembrano persone qualunque anche El Chapo o Pablo Escobar? Secondo alcune delle maggiori agenzie mondiali per la lotta al narcotraffico Tse Chi Lop, 55 anni, apparterebbe alla stessa categoria. Uno dei più grandi signori della droga d' Asia, se non il più grande. Sospettato di essere il capo de "La società", un cartello composto da almeno cinque grandi clan delle triadi di Hong Kong e Taiwan, capace di produrre tonnellate di metanfetamina e di smerciarla in una dozzina di Paesi dell' area, dal Giappone alla Nuova Zelanda, nascosta dentro bustine di tè. Un giro d' affari stimato tra gli 8 e 18 miliardi di dollari l' anno e che continua a crescere, nonostante le polizie di mezzo mondo, guidate da quella Australiana, gli stiano alle calcagna. Le carte dell' inchiesta internazionale chiamata Operazione Kungur, lette dall' agenzia di stampa Reuters , descrivono un' organizzazione perfino più capillare e disciplinata dei cartelli sudamericani. Guidata da Sam Gor, soprannome che in cantonese significa "fratello numero tre". Tse Chi Lop nasce nel Guangdong, Sud della Cina, durante il caos della Rivoluzione culturale e da giovane si affilia a una triade. Nel 1988 approda in Canada, Paese di cui qualche tempo dopo diventa cittadino, ma da dove continua a gestire il traffico di droga in Asia. Quando prova a importare eroina negli Stati Uniti la polizia lo arresta, in qualche modo se la cava con nove anni di carcere e una volta uscito riprende da dove aveva lasciato. Non è facile capire come sia riuscito a mettere in piedi una rete illecita di portata continentale. Una delle chiavi sarebbe alla fonte, la capacità di cucinare in mezzo alla giungla del Myanmar quantità enormi di cristalli a prezzi ridotti, da rivendere poi in tutta l' Asia con ricarichi fino a 3mila volte. Grazie a profitti del genere Sam Gor avrebbe messo d'accordo tutti i clan locali, dalla mafia taiwanese ai biker australiani, promettendo nuove partite gratuite in caso di sequestro. Si fa scortare da una squadra di kickboxer tailandesi, pare che in una notte al casinò abbia perso 66 milioni di dollari. Eppure rispetto ai boss sudamericani, materiale infinito per Hollywood, il suo stile di vita è meno appariscente. Anche per questo "fratello numero tre" è ancora in vita, e libero. In Asia i sequestri salgono ma il prezzo delle metanfetamine scende, segno che gli affari vanno a gonfie vele.

Jet privati e kickboxer,  chi è Tse Chi Lop,  il Chapo d’Asia. Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 da Corriere.it. El Chapo messicano è rinchiuso in una prigione Usa e i suoi non lo hanno dimenticato. Manovrano, si agitano. La battaglia di Culiacan in difesa di uno dei figli del boss ne è la prova. Sono, a loro modo, ben visibili. L’opposto del padrino della droga che ha costruito il suo impero sull’altro lato dell’Oceano Pacifico e non solo. Il suo nome è Tse Li Chop. Cinese di 55 anni, passaporto canadese, è il criminale più ricercato dell’Asia. Comanda un «cartello» di trafficanti legato a cinque Triadi. Nel 2018 ha guadagnato tra gli 8 e i 17 miliardi di dollari, secondo stime dell’Unodoc, l’agenzia Onu che si occupa di droga e crimine. «Tse Chi Lop è la versione asiatica del suo “collega” messicano e del colombiano Pablo Escobar», dice Jeremy Douglas, direttore Unodoc per la regione orientale. Segnalato a Bangkok, dove sarebbe protetto da una squadra di kickboxer thailandesi, a Macao, dove in una notte ha perso 66 milioni di dollari al casinò, Tse vola su un jet privato. La caccia è guidata dalla polizia australiana, in collaborazione con investigatori di altri venti Paesi. La storia di questo venditore di morte è stata ricostruita dalla Reuters, in un’inchiesta durata più di un anno e pubblicata ieri. L’«Azienda», come la chiamano gli adepti, è specializzata in metamfetamine, eroina e ketamina, spedite a tonnellate in una dozzina di Paesi, dal Giappone alla Nuova Zelanda. Una struttura tentacolare con dimensioni globali. La polizia taiwanese, infatti, descrive Tse come l’«amministratore delegato di una multinazionale». Alla rete del «most wanted» la polizia ha dato il nome Sam Gor, che in cantonese significa «Fratello numero tre» ed è anche uno degli alias di Tse. E nella regione di Canton comincia la storia del narcotrafficante: subito dopo la Rivoluzione culturale maoista un gruppo di Guardie Rosse cadute in disgrazia costituì una banda criminale chiamata Grande Cerchio, simile a una triade. Il giovane Tse aderì e come altri banditi si trasferì a Hong Kong, poi si rifugiò in Canada nel 1988. Era diventato un trafficante di eroina di medio livello. Lo ritroviamo arrestato a New York nel 1998. Sfuggì all’ergastolo sostenendo di avere i genitori in fin di vita, bisognosi di cure continue, anche il figlio sarebbe stato malato ai polmoni. La storia lacrimevole fu creduta e la corte americana gli diede solo nove anni. Scontata la pena nel 2006 tornò in Canada e scoprì le metamfetamine. Dice ancora il dossier della polizia australiana: diversamente da El Chapo e Pablo Escobar, che conducevano vite esagerate, il cinese si mimetizza e soprattutto ha dato al suo «cartello» un’organizzazione estremamente disciplinata, degna di un’agenzia di intelligence. Niente sparatorie e rese dei conti spettacolari, come in Messico, dove tutto è più cruento. Solo lunedì, in Michoacan, hanno sterminato 13 agenti in un’imboscata, attacco rivendicato dai sicari di Jalisco, fazione che «tratta» anche il fentanyl, potente stupefacente che arriva spesso dalla Cina a conferma di una realtà transnazionale. La sostanza è micidiale ed è spesso contrabbandata in direzione degli Stati Uniti insieme all’eroina. Le notizie di massacri fanno da sfondo alle mosse dei parenti de El Chapo più famoso, il messicano Joaquin Guzman. Loro provano a rifarsi un’immagine. La mamma del bandito, Maria Consuelo, ha offerto del denaro per costruire un’università a Badiriguato, la località da dove proviene il gangster. Una delle tante iniziative attuate nella speranza che il governo messicano si mobiliti per far rientrare il padrino dalla prigione di Supermax: in cambio – dicono – il clan sarebbe pronto a investire nel sociale usando un po’ dei suoi fondi. Non gli mancano certo i liquidi.

·         La Mafia Messicana.

DAGONEWS il 12 novembre 2019. Emma Coronel Aispuro, la moglie di El Chapo, parteciperà a un reality show dell’emittente VH1: la reginetta di bellezza sarà nel cast di "Cartel Crew", un programma sulla vita di otto persone che vogliono costruirsi una nuova immagine al di fuori del mondo del crimine dopo aver avuto legami con boss e narcos. Il programma partirà il prossimo 18 novembre: Aispuro, sposata con Guzman dal 2007 e con il quale ha due gemelli, cerca di farsi un’immagine diversa sul piccolo schermo dopo che il marito è stato condannato a 30 anni di prigione che sta scontando nella prigione di massima sicurezza del Colorado conosciuta come “the Alcatraz of the Rockies”. Aispuro farà "diverse apparizioni" su "Cartel Crew", raccontando dettagli sulla sua vita dopo El Chapo e parlando della sua "prossima impresa commerciale". La conferma è arrivata una settimana dopo che sono emerse le foto di Aispuro e di Michael Blanco, figlio più giovane della "madrina della coca" Griselda Blanco, insieme su uno yacht a Miami. Blanco, che ha già partecipato alla prima stagione, durante un episodio di febbraio, ha pianto per la perdita di sua madre, Griselda, che è stata assassinata il 3 settembre 2012 a Medellin, in Colombia. Griselda, il cui patrimonio netto era di 2 miliardi di dollari, era conosciuta come “la madrina”, “la vedova nera”, “la madrina della cocaina” e “la regina del narcotraffico”: è stata lei ad aprire al commercio di droghe di cocaina a Miami negli anni '80, spianando la strada a nuovi narcotrafficanti come El Chapo.

Strage  dei mormoni, arrestato il capo della municipale. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. Un nuovo arresto per il massacro dei mormoni in Messico. Le autorità hanno annunciato il fermo del capo della polizia municipale di Janos, l’uomo è sospettato di essere collegato agli assassini o di averli protetti. Notizia da accogliere – come sempre – con cautela. Il governo “deve” trovare dei colpevoli per un eccidio che ha suscitato reazioni internazionali. E già in occasione di due precedenti arresti sono emersi dubbi. Fidel Villegas – questo il nome del funzionario – potrebbe sapere molto sul commando coinvolto nell’imboscata di novembre costata la vita a tre mamme e ai loro 6 figli, tutti parte della comunità dei LeBaron, stato di Sonora. Non è escluso che abbia rapporti con le organizzazioni criminali coinvolte nel taglieggiamento e nelle estorsioni. La cittadina di Janos è meta di quanti vengono ad acquistare dalle regioni vicine carburante a basso costo e i banditi spesso lucrano imponendo un pizzo. Se vuoi la benzina devi pagare una tassa di passaggio. Un giro dove ha un ruolo La Linea, il braccio armato del cartello di Juarez entrato subito nella lista dei possibili colpevoli. Inizialmente gli inquirenti hanno sostenuto che il convoglio dei mormoni era stato attaccato per errore dai sicarios. Tesi smentita dai fatti e dalle famiglie delle vittime. Indiscrezioni successive hanno parlato di minacce nei confronti dei LeBaron, di intimidazioni, di avvertimenti. Clima teso reso ancora più pericoloso dalla battaglia tra i pistoleri che si contendono i traffici. I Los Jaguares, i Los Paredes vicini al capo storico Mayo Zambaba, altre gang di Sinaloa e poi quelle connesse ai network di Ciudad Juarez. Dunque è possibile che donne e bimbi siano stati assassinati per una serie di ragioni: venivano da un settore controllato dai rivali; i killer hanno voluto mandare un messaggio di morte; il massacro ha rappresentato una sfida dura al governo. Ipotesi che non escludono ovviamente altre e chissà che non vi siano altre sorprese.

Mormoni bruciati vivi, anche due neonati. L’orrenda strage dei narcos in Messico. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. Senza pietà, senza limiti, senza timore. Una banda di sicari ha teso un’imboscata ad un gruppo di mormoni americani in Messico: tre donne e 7 bimbi assassinati. Un bilancio provvisorio per un massacro, per ora, senza una motivazione apparente. Il convoglio di veicoli, con a bordo numerosi mormoni, stava procedendo in una zona al confine tra gli stati di Sonora e Chihuahua, quando è finito sotto il fuoco di uomini armati. I killer hanno sparato su una delle donne che è uscita da uno dei veicoli con le mani alzate, hanno inseguito i bambini che cercavano di fuggire per poi freddarli. Quindi hanno ripetuto l’attacco ad alcuni di chilometri di distanza contro il resto del corteo. Nel primo agguato hanno assassinato Rohita LeBaron, con lei un bimbo di 11 anni e una di 9, quindi due di appena un anno. L’eccidio si è ripetuto poco più tardi. I criminali hanno bloccato altre vetture, assassinando una coppia di donne e altri minori. I mezzi sono stati dati poi alle fiamme. Fin dagli anni 40 si è stabilita in Messico una comunità di mormoni, un nucleo che è stato in passato vittime di aggressioni. E proprio i LeBaron sono stati bersaglio dei narcos che non hanno mai gradito le loro posizioni anti-violenza. Tuttavia esponenti della famiglia hanno sostenuto che non c’erano state minacce recenti o problemi particolari, tranne quelli che coinvolgono intere regioni messicane. Difficile dire, per il momento, se il commando che abbia scambiato i civili per dei rivali o si sia trattato di un attacco deliberato. Purtroppo le storie messicane possono nascondere risvolti non sempre chiari. L’eccidio segue settimane difficili per le autorità. Il bilancio della narco-guerra – dove muovono non solo i cartelli ma anche squadroni della morte – continua a crescere. Mentre il governo ha dovuto subire l’umiliazione di Culiacan con il figlio de El Chapo rimesso in libertà dopo che i banditi hanno paralizzato la città con un’incursione in stile guerrigliero.

Da NBC News: il 6 novembre 2019. La famiglia LeBaron ha una storia sordida. I figli del fondatore finirono in una faida familiare. Uno, Ervil, formò la sua chiesa che divenne presto una setta, racconta Anna LeBaron, che era una dei 51 figli (da 13 mogli) di Ervil. Nacque nella colonia LeBaron in Messico e fuggì dalla setta del padre quando aveva 13 anni. Ha raccontato la sua esperienza in un libro del 2017, ''La figlia del poligamo''. La setta fu smembrata nei primi anni '90 e il padre morì in prigione nel 1981 mentre scontava l'ergastolo per omicidio. ''Mio padre ordinava assassinii in stile mafioso, che venivano eseguiti da membri della setta. Spesso contro chi smetteva di credere in lui o o nei suoi culti, oppure venivano uccisi capi di sette rivali perché erano 'falsi profeti', tanto che i media lo avevano soprannominato 'il Manson dei mormoni'''.

Viviana Mazza per il “Corriere della sera” il 6 novembre 2019. La famiglia colpita dalle strage di ieri in Messico è segnata da una storia di violenza, non solo subita ma in passato anche perpetrata dai suoi membri. I LeBaron sono fondamentalisti mormoni scomunicati dalla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni perché poligami. Anche se il profeta e fondatore Joseph Smith aveva tra le 30 e le 40 mogli, la più giovane quattordicenne, la poligamia è stata vietata nel 1890 dal Tempio di Salt Lake City in Utah, il Vaticano mormone, dopo durissime pressioni del governo americano. Il rifiuto della poligamia ha aperto le porte all' accettazione dei mormoni in America, ma alcuni gruppi «ribelli», stimati intorno all' 1%, hanno continuato a praticarla, rifugiandosi in Messico, in Canada o in enclave più o meno isolate negli Stati Uniti: sostengono che è un ordine divino e che almeno tre mogli sono necessarie per la pienezza dell' esaltazione della vita ultraterrena, come sancito dalla sezione 132 di Dottrina e Alleanze, una delle Scritture. Tra di loro ci sono i LeBaron. La presenza dei mormoni in Messico risale al 1886, quando un gruppo di poligami comprò 50mila acri lungo il Rio Piedras Verdes, a 250 chilometri da El Paso, Texas. Alma Dayer LeBaron si trasferì qui nel 1902: c' era un insediamento di 3500 mormoni, Colonia Juarez, ma nel 1944 Dio gli rivelò che doveva comprare un pezzo di deserto a 80 chilometri di distanza e lui piantò fagioli e chiamò quel luogo Colonia LeBaron. Negli anni tre dei suoi sette figli si sono proclamati profeti capaci di riportare la Chiesa sulla retta via abbandonata con il rifiuto della poligamia. Il primogenito, Benjamin, ruggiva in pubblico per provare di essere «il Leone di Israele». Negli anni Cinquanta, bloccò il traffico facendo flessioni in strada a Salt Lake City: arrivato a 200, dichiarò che nessuno poteva superarlo e dunque era lui il messia; fu ricoverato in un ospedale psichiatrico. I suoi fratelli Joel e Ervil emersero come leader. Ervil, attraente e permaloso, sognava di avere 25-30 mogli per ripopolare la Terra; la tredicesima raccontò che stava chiuso per giorni a scrivere Scritture senza lavarsi o radersi, al punto che il sudore puzzava di caffè. Nel 1969 Joel lo cacciò dalla setta per insubordinazione; tre anni dopo un seguace di Ervil ammazzò Joel. I fedeli di Ervil al confine della California hanno lanciato campagne contro le tasse e i controlli sulle armi; nel 1976 minacciarono Jimmy Carter (troppo liberal) in corsa per la presidenza. Nel 1975 Ervil fu arrestato in Messico ma subito rilasciato (probabili mazzette); nel 1979 fu estradato e condannato all' ergastolo in America, lo trovarono morto in cella. Lasciò 400 pagine, una lista di nemici ai quali per i successivi 15 anni i figli e i seguaci - una gang di ragazzi vittime di abusi da parte dei membri più anziani della setta - diedero la caccia, portando a segno 5 omicidi. Di queste violenze si sono macchiate anche donne del clan come una moglie e una figlia di Ervil. Oggi la poligamia è in declino, assicurano i LeBaron. Ma la violenza li perseguita. Si sono opposti ai cartelli della droga, chiedendo di creare una propria forza di sicurezza. Dieci anni fa quando il sedicenne Erick, pronipote del fondatore, fu rapito dalle gang, il fratello Benjamin rifiutò di pagare il riscatto di un milione di dollari, si rivolse alle autorità; in 7 giorni Erick fu liberato. Allora i contadini chiesero a Benjamin di fermare le estorsioni delle gang: i suoi tentativi di aiutarli avrebbero portato alla sua uccisione. Ma i contadini hanno anche accusato i LeBaron di accaparrarsi l' acqua e hanno tentato di distruggere i pozzi illegali della Colonia: i mormoni li hanno cacciati sparando. 

Guido Olimpio per il ''Corriere della Sera'' il 5 novembre 2019.

La sfida. Per la procura il massacro a nord della località di Bavispe potrebbe essere opera dei Los Jaguares. Guidati da Francisco «El Jaguar» Arvizu, sono parte del braccio armato di Sinaloa – Gente Nueva – e agiscono nello stato di Chihuahua. Negli ultimi mesi sono stati impegnati in scontri feroci contro i rivali de La Linea, i sicari del Cartello di Juarez. Una sfida per il controllo dei traffici che ha contagiato anche il vicino stato di Sonora, al confine con l’Arizona. Ma nella zona provano a infiltrarsi anche altri gruppi – come Jalisco-Nueva Generacion -, una lotta aperta che stritola criminali e innocenti. Oltre alla marijuana trattano fentanyl, coca, benzina rubata e si dedicano alle estorsioni, molto redditizie.

La tesi dell’errore. Ieri la polizia accreditava l’ipotesi che i banditi abbiano scambiato i veicoli dei mormoni per mezzi degli avversari. Qualcuno ha ribattuto: i Juaguares, essendo della zona, avrebbero dovuto riconoscerli, dunque questo porta a ipotizzare che l’imboscata sia da attribuire a formazioni arrivate da fuori. Inoltre l’agguato è avvenuto in fasi diverse: una prima auto sotto il fuoco, poi le altre a 18 chilometri di distanza in un secondo momento. Un doppio errore? E ancora. Se è vera la ricostruzione che parla di una delle mamme con le mani alzate che implora pietà ed è falciata lo stesso significa che gli assassini sapevano chi fossero i bersagli. Stessa cosa per i minori freddati nei campi e nelle vetture. Hanno voluto compiere un massacro per mandare un messaggio usando donne e minori americani come povere pedine? Erano consapevoli che l’assalto avrebbe provocato reazioni e attenzione internazionale, ben diverse dal silenzio che accompagna il martirio quotidiano di tanti messicani.

Senza scorta. Ci si chiede anche perché le donne si siano avventurate su una strada rurale senza alcuna scorta e con ben 14 bambini, alcuni in tenera età. La famiglia ha spiegato che era normale per loro in quanto conoscevano la zona. Un altro membro del clan ha spiegato che la situazione nella Sierra era deteriorata da tempo, non c’erano minacce specifiche – altro scenario da considerare - ma i criminali gli avevano imposto solo di «non girare alla notte». Tutti aspetti da chiarire in una realtà non di rado ambigua, con verità mai definite. Resta la tragedia delle vite distrutte e il risvolto politico. Pesante. Il governo del presidente Obrador è di nuovo sotto accusa. Anche questa volta la risposta delle forze di sicurezza è stata lenta, gli agenti sono arrivati dopo ore sul luogo dell’eccidio. 

(ANSA il 6 novembre 2019. - Il Messico non ha bisogno dell'intervento americano per risolvere i suoi problemi. Così il presidente Andres Manuel Lopez Obrador replica a Donald Trump che su Twitter ha ipotizzato l'invio di forze Usa per combattere i cartelli della droga responsabili della strage di mormoni. "Il Messico è pronto a lavorare con l'Fbi purché la sua indipendenza sia rispettata, e non penso che avremo bisogno di un intervento straniero", ha affermato Obrador, spiegando che vuole comunque parlare con il presidente americano. 

Figli rapiti, violenze e ricatti:  saga dei «Lebarones» finiti nel mirino dei boss della droga. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. Il legame della famiglia LeBaron con il Messico è profondo. Il primo nucleo si è stabilito nella regione di Chihuahua nel 1924, un gruppo di mormoni staccatisi dopo che la casa madre decise di rinunciare alla poligamia. A questo passo – storico – è seguita la nascita nel 1955 di una comunità religiosa strutturata. E il gruppo è cresciuto in questa terra tra difficoltà interne, compresa una scissione marcata da un omicidio, e grande determinazione. I Lebarones, come sono stati ribattezzati, hanno lanciato numerose attività commerciali ed agricole conquistando una posizione di rilievo nelle terre di confine, regioni dove – purtroppo – hanno le loro basi numerosi network criminali. E il clan è finito nel mirino, così come altri civili, stretti tra molti fuochi. Estorsioni, violenze, minacce, ricatti. Uno scenario sempre più aspro e violento. Nel maggio del 2009, Erik Le Baron, di appena 17 anni, è sequestrato da una gang, per il suo rilascio chiedono un riscatto di un milione di dollari. La minaccia questa volta non funziona perché la comunità si rifiuta di pagare la somma. E alla fine riesce ad ottenere la liberazione del giovane. Una sfida impossibile e coraggiosa. Passano pochi mesi e sono di nuovo nel mirino. Il 6 giugno Benjamin LeBaron, capo del gruppo SOS Chihuahua e il cognato Luis Stubbs sono uccisi in modo brutale sotto gli occhi di mogli e figli. E’ una punizione dei cartelli. Non potevano permettere che il loro potere fosse messo in discussione. Il duplice omicidio non fermerà i mormoni che continueranno ad impegnarsi nelle campagne contro la violenza. Cercheranno il sostegno delle autorità, difenderanno la loro enclave, ma c’è poco da fare contro formazioni sempre più ampie che si muovono come narco-terroristi e godono di complicità estese. Realtà ambigua, dove si nascondono a volte sorprese e rapporti insospettabili. La regione – attraversata da corridoi della droga e dei clandestini - è stata dominata a lungo dagli uomini di Sinaloa, i fedeli de El Chapo, e di recente ha fatto da scenario a scontri tra gruppi rivali.

Strage di mormoni, la polizia indaga sui «Jaguares» del cartello di Sinaloa. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Guido Olimpio. Le indagini: il massacro di tre mamme e sei bambini nel nord del Paese sarebbe opera del ramo più violento del cartello di Sinaloa. Dopo l’orrore, le indagini. Le autorità messicane sono alla caccia dei killer responsabili dell’uccisione di tre mamme e sei bambini, tutti membri della comunità dei mormoni americani nel nord del paese. La magistratura fa trapelare dei sospetti, i media ne rilanciano altri, non mancano le domande. Per la procura il massacro a nord della località di Bavispe potrebbe essere opera dei Los Jaguares. Guidati da Francisco «El Jaguar» Arvizu, sono parte del braccio armato di Sinaloa – Gente Nueva – e agiscono nello stato di Chihuahua. Negli ultimi mesi sono stati impegnati in scontri feroci contro i rivali de La Linea, i sicari del Cartello di Juarez. Una sfida per il controllo dei traffici che ha contagiato anche il vicino stato di Sonora, al confine con l’Arizona. Ma nella zona provano a infiltrarsi anche altri gruppi – come Jalisco-Nueva Generacion -, una lotta aperta che stritola criminali e innocenti. Oltre alla marijuana trattano fentanyl, coca, benzina rubata e si dedicano alle estorsioni, molto redditizie. Ieri la polizia accreditava l’ipotesi che i banditi abbiano scambiato i veicoli dei mormoni per mezzi degli avversari. Qualcuno ha ribattuto: i Juaguares, essendo della zona, avrebbero dovuto riconoscerli, dunque questo porta a ipotizzare che l’imboscata sia da attribuire a formazioni arrivate da fuori. Inoltre l’agguato è avvenuto in fasi diverse: una prima auto sotto il fuoco, poi le altre a 18 chilometri di distanza in un secondo momento. Un doppio errore? E ancora. Se è vera la ricostruzione che parla di una delle mamme con le mani alzate che implora pietà ed è falciata lo stesso significa che gli assassini sapevano chi fossero i bersagli. Stessa cosa per i minori freddati nei campi e nelle vetture. Hanno voluto compiere un massacro per mandare un messaggio usando donne e minori americani come povere pedine? Erano consapevoli che l’assalto avrebbe provocato reazioni e attenzione internazionale, ben diverse dal silenzio che accompagna il martirio quotidiano di tanti messicani. Ci si chiede anche perché le donne si siano avventurate su una strada rurale senza alcuna scorta e con ben 14 bambini, alcuni in tenera età. La famiglia ha spiegato che era normale per loro in quanto conoscevano la zona. Un altro membro del clan ha spiegato che la situazione nella Sierra era deteriorata da tempo, non c’erano minacce specifiche – altro scenario da considerare - ma i criminali gli avevano imposto solo di «non girare alla notte». Tutti aspetti da chiarire in una realtà non di rado ambigua, con verità mai definite. Resta la tragedia delle vite distrutte e il risvolto politico. Pesante. Il governo del presidente Obrador è di nuovo sotto accusa. Anche questa volta la risposta delle forze di sicurezza è stata lenta, gli agenti sono arrivati dopo ore sul luogo dell’eccidio. 

Messico, strage mormoni: arrestato uomo, era con due superstiti. Valerio Sofia il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. Strage di Mormoni. Attaccate tre madri in viaggio: almeno 9 morti. Arrestato un uomo che aveva con se due superstiti. Ferocia senza pietà nel Messico senza tetto né legge. Una strage difficile anche solo da comprendere per la sua assurda crudeltà. E intanto si apre un nuovo tassello nei complicati rapporti tra il Paese centroamericano e gli Stati Uniti di Donald Trump. Donne e bambini con cittadinanza statunitense di una comunità mormone nel nord del Messico, in una zona di confine tra gli stati di Chihuahua e Sonora, sono stati brutalmente sterminati in un agguato. Difficile all’inizio persino distinguere il numero dei corpi delle vittime, dato che i loro veicoli dopo essere stati crivellati di colpi sono stati dati alle fiamme e diversi corpi sono carbonizzati. Le vittime sarebbero tre donne e sei bambini, anche di tenerissima età, probabilmente neonati. Almeno altri cinque bambini, uno dei quali stato colpito e ferito, sono riusciti a fuggire e a tornare a piedi a casa, mentre una ragazza è stata segnalata come scomparsa dopo essere corsa nel bosco per nascondersi. Rancho de la Mora, dove è avvenuta quella che è stata una vera e propria imboscata, è una zona famosa per la costante presenza de i trafficanti di droga e di banditi di ogni genere. C’è chi ha ipotizzato che si sia trattato di uno scambio di persone, e che la trappola sarebbe dovuta forse scattare contro una gang rivale. L’attacco però è stato multiplo, e c’è chi ricorda come i mormoni ( arrivati in Messico dagli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento per sfuggire alle leggi contro la poligamia, e per questo distaccatisi anche dalla chiesa mormone ufficiale) siano stati già oggetto di minacce e vessazioni a causa della loro posizione contro la violenza e delle denunce contro i gruppi criminali della zona. Tra l’altro un parente di alcune delle vittime era il fondatore di un gruppo di lotta al crimine chiamato SOS Chihuahuahua, assassinato nel 2009. In Messico ci sono stati più di 250mila omicidi da quando, nel 2006, il governo ha dispiegato l’esercito per combattere il traffico di droga. Una guerra che paradossalmente ha rinforzato e reso ancora più feroci i cartelli dei narcos. La famiglia mormone LeBaron che ha la doppia cittadinanza messicana e statunitense ha sollecitato un intervento dell’Fbi per individuare i responsabili della strage. Il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, ha parlato con il presidente Usa Donald Trump di una cooperazione con gli Stati Uniti, «Tutta la cooperazione che sarà necessaria». Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti sono «pronti ad aiutare il Messico a ripulirsi dai mostri». Ma allo stesso tempo il tycoon non sembra voler aprire un ulteriore conflitto diplomatico con i vicini messicani: «Una meravigliosa famiglia dello Utah è finita in mezzo a uno scontro tra cartelli della droga, che si sparavano l’un l’altro, con il risultato che molti americani sono stati uccisi, compresi i bambini», ha infatti twittato il capo della Casa Bianca, accreditando prima ancora degli inquirenti la pista dello scambio di persona e della tragica casualità.

Messico, strage di mormoni: arrestato un uomo, aveva con sé due ostaggi legati e imbavagliati. Ancora non si conosce l'identità dell'uomo raggiunto dalla polizia sulle colline di Agua Priests, nello Stato di Sonora. Secondo il procuratore generale dello Stato di Chihuahua, dietro al massacro ci sarebbe il cartello Los Jaguares, una recente frazione di quello di Sinaloa. La Repubblica il 06 novembre 2019. La polizia messicana ha arrestato una persona sospettata di essere coinvolta nell'attacco di lunedì scorso nei confronti di una famiglia di mormoni. Una strage in cui sono morte nove persone, tra cui sei bambini. L'Agenzia ministeriale per le indagini penali (Amic) ha reso noto che al momento della cattura l'individuo aveva con sé due ostaggi legati e imbavagliati nelle colline di Agua Priests, nello Stato di Sonora. L'indagato aveva diversi fucili e una grande quantità di munizioni, un certo numero di armi di grosso calibro, ha dichiarato l'agenzia. Il procuratore generale dello Stato di Chihuahua, Cesar Peniche Espejel, confermando l'arresto in un'intervista con la radio messicana Imagen, non ha rilasciato dettagli sull'identità del sospettato: "Stiamo aspettando altri dati dall'intelligence per emettere una dichiarazione ufficiale". Ieri l'Fbi si era offerta di aiutare le autorità messicane nelle indagini sulla strage al confine con gli Stati Uniti. Le vittime, aveva reso noto un membro della famiglia, erano tutte con doppia cittadinanza americana e messicana. Peniche Espejel ha dichiarato di ritenere che dietro al massacro potrebbe esserci il cartello Los Jaguares, una frazione recente che si è staccata dal cartello di Sinaloa. Secondo un funzionario americano, il responsabile sarebbe invece il cartello rivale, La Línea. "Questi stessi cartelli di Sinaloa, dopo l'arresto di Guzman 'El Chapo', hanno subito frammentazioni", ha detto Peniche Espejel. "Sono cresciuti vicino al confine con gli Stati Uniti e sono fortemente coinvolti nel traffico di immigrati negli Stati Uniti e nel traffico di droga". L'arresto arriva il giorno dopo l'omicidio di tre donne e sei bambini della famiglia LeBaron, tutti brutalmente uccisi mentre viaggiavano vicino al confine tra Stati Uniti e Messico. Le nove vittime del massacro erano membri di una comunità chiamata Colonia LeBaron, fondata da un gruppo mormone 'scismatico' nella prima metà del XX secolo, dopo che la Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell'ultimo giorno negli Stati Uniti aveva iniziato a reprimere la poligomia. La Chiesa dei mormoni ha respinto la pratica di avere più mogli nel 1890 e da allora alcuni gruppi di fedeli hanno deciso di staccarsi. La famiglia LeBaron ha alle spalle una storia di lotta contro i cartelli della droga messicani, per questo, secondo l'ex ministro degli Esteri messicano Jorge Castañeda, potrebbero essere stati presi di mira. Ministro degli Esteri del Messico per tre anni, Castañeda, che ha lasciato l'incarico all'inizio del 2003, ha aggiunto che la donna alla guida della prima macchina poi data alle fiamme, era un'attivista molto attiva nella sua comunità, che "difendeva la famiglia, i compagni della comunità contro i cartelli, la e si occupava della questione dei diritti dell'acqua ". L'ex ministro ha anche affermato che la più ampia comunità di LeBaron ha ricevuto la protezione di 90 poliziotti federali nel 2011 a causa delle tensioni tra la famiglia e i cartelli. La protezione è stata eliminata all'inizio di quest'anno, forse neanche completamente. "I cartelli hanno preso troppi membri della nostra famiglia. I morti di lunedì non sono stati i primi", ha detto Kendra Lee Miller, cognata di una delle vittime, Rhonita Maria Miller. Miller ha raccontato che un ragazzino di 13 anni è rimasto illeso nell'attacco. Ha camminato per circa 22 chilometri in cerca di aiuto, dopo aver nascosto i suoi fratelli feriti tra i cespugli e averli coperti di rami. Sette bambini feriti nell'imboscata sono stati trasportati dal Messico a Douglas, in Arizona, per ricoverati negli ospedali di Tucson, ha detto LeBaron. La Colonia LeBaron comprende sia mormoni che cattolici, noti per la loro opposizione alle gang e per le denuncia della violenza dei cartelli del narcotraffico. La comunità è stata già presa di mira in passato dai cartelli della droga messicani. Nel 2002, Erick LeBaron era stato rapito con la richiesta di riscatto. La colonia, allora, aveva deciso di non pagare per il suo rilascio perchè avrebbe solo incoraggiato altri sequestri. Erick alla fine era stato liberato, ma mesi più tardi, suo fratello Benjamin, che aveva condotto la campagna per il suo rilascio, era stato ucciso. Anche il cognato di Benjamin è morto di morte violenta. Nel 2010, Julian LeBaron ha pubblicato un articolo sul Dallas Morninh News, chiedendo ai messicani di opporsi al crimine organizzato. Proprio lui, oggi, alla radio messicana ha raccontato che la sua famiglia aveva ricevuto minacce. "Queste sono le conseguenze", ha dichiarato, a quanto riporta la Bbc. In passato, la Colonia LeBaron aveva chiesto l'autorizzazione a creare una propria forza di sicurezza.

Da repubblica.it il 6 novembre 2019. La polizia messicana ha arrestato una persona sospettata di essere coinvolta nell'attacco di lunedì scorso nei confronti di una famiglia di mormoni. Una strage in cui sono morte nove persone, tra cui sei bambini. L'Agenzia ministeriale per le indagini penali (Amic) ha reso noto che al momento della cattura l'individuo aveva con sé due ostaggi legati e imbavagliati nelle colline di Agua Priests, nello Stato di Sonora. L'indagato aveva diversi fucili e una grande quantità di munizioni, un certo numero di armi di grosso calibro, ha dichiarato l'agenzia. Il procuratore generale dello Stato di Chihuahua, Cesar Peniche Espejel, confermando l'arresto in un'intervista con la radio messicana Imagen, non ha rilasciato dettagli sull'identità del sospettato: "Stiamo aspettando altri dati dall'intelligence per emettere una dichiarazione ufficiale". Ieri l'Fbi si era offerta di aiutare le autorità messicane nelle indagini sulla strage al confine con gli Stati Uniti. Le vittime, aveva reso noto un membro della famiglia, erano tutte con doppia cittadinanza americana e messicana. Peniche Espejel ha dichiarato di ritenere che dietro al massacro potrebbe esserci il cartello Los Jaguares, una frazione recente che si è staccata dal cartello di Sinaloa. Secondo un funzionario americano, il responsabile sarebbe invece il cartello rivale, La Línea. "Questi stessi cartelli di Sinaloa, dopo l'arresto di Guzman 'El Chapo', hanno subito frammentazioni", ha detto Peniche Espejel. "Sono cresciuti vicino al confine con gli Stati Uniti e sono fortemente coinvolti nel traffico di immigrati negli Stati Uniti e nel traffico di droga". L'arresto arriva il giorno dopo l'omicidio di tre donne e sei bambini della famiglia LeBaron, tutti brutalmente uccisi mentre viaggiavano vicino al confine tra Stati Uniti e Messico. Le nove vittime del massacro erano membri di una comunità chiamata Colonia LeBaron, fondata da un gruppo mormone "scismatico" nella prima metà del XX secolo, dopo che la Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell'ultimo giorno negli Stati Uniti aveva iniziato a reprimere la poligomia. La Chiesa dei mormoni ha respinto la pratica di avere più mogli nel 1890 e da allora alcuni gruppi di fedeli hanno deciso di staccarsi. La famiglia LeBaron ha alle spalle una storia di lotta contro i cartelli della droga messicani, per questo, secondo l'ex ministro degli Esteri messicano Jorge Castañeda, potrebbero essere stati presi di mira. Ministro degli Esteri del Messico per tre anni,  Castañeda, che ha lasciato l'incarico all'inizio del 2003, ha aggiunto che la donna alla guida della prima macchina poi data alle fiamme, era un'attivista molto attiva nella sua comunità, che "difendeva la famiglia, i compagni della comunità contro i cartelli, la e si occupava della questione dei diritti dell'acqua ". L'ex ministro ha anche affermato che la più ampia comunità di LeBaron ha ricevuto la protezione di 90 poliziotti federali nel 2011 a causa delle tensioni tra la famiglia e i cartelli. La protezione è stata eliminata all'inizio di quest'anno, forse neanche completamente. "I cartelli hanno preso troppi membri della nostra famiglia. I morti di lunedì non sono stati i primi", ha detto Kendra Lee Miller, cognata di una delle vittime, Rhonita Maria Miller. Miller ha raccontato che un ragazzino di 13 anni è rimasto illeso nell'attacco. Ha camminato per circa 22 chilometri in cerca di aiuto, dopo aver nascosto i suoi fratelli feriti tra i cespugli e averli coperti di rami. Sette bambini feriti nell'imboscata sono stati trasportati dal Messico a Douglas, in Arizona, per ricoverati negli ospedali di Tucson, ha detto LeBaron. La Colonia LeBaron comprende sia mormoni che cattolici, noti per la loro opposizione alle gang e per le denuncia della violenza dei cartelli del narcotraffico. La comunità è stata già presa di mira in passato dai cartelli della droga messicani. Nel 2002, Erick LeBaron era stato rapito con la richiesta di riscatto. La colonia, allora, aveva deciso di non pagare per il suo rilascio perchè avrebbe solo incoraggiato altri sequestri. Erick alla fine era stato liberato, ma mesi più tardi, suo fratello Benjamin, che aveva condotto la campagna per il suo rilascio, era stato ucciso. Anche il cognato di Benjamin è morto di morte violenta. Nel 2010, Julian LeBaron ha pubblicato un articolo sul Dallas Morninh News, chiedendo ai messicani di opporsi al crimine organizzato. Proprio lui, oggi, alla radio messicana ha raccontato che la sua famiglia aveva ricevuto minacce. "Queste sono le conseguenze", ha dichiarato, a quanto riporta la Bbc. In passato, la Colonia LeBaron aveva chiesto l'autorizzazione a creare una propria forza di sicurezza.

DAGONEWS il 7 novembre 2019. Dietro il massacro dei nove mormoni della famiglia LeBaron, tre donne e sei bambini uccisi nello stato di Sinaloa, ci potrebbe essere una feroce guerra tra due cartelli della droga messicani in lotta per il controllo del territorio. È quanto sostengono le autorità convinte che la famiglia sia stata vittima di una guerra tra il cartello di Sinaloa, Salazar, e il cartello di Juarez, La Linea. L'area nello stato di Sonora in cui è stata uccisa la famiglia è dominata da un ramo del cartello di Sinaloa mentre i responsabili dell’attacco alla famiglia sarebbe l’ala armata del cartello La Linea. Poche ore prima tra i membri delle due bande criminali c’era stata una sparatoria in cui era rimasto ucciso un uomo. Gli uomini armati della Linea, infatti, erano entrati nel territorio del cartello di Sinaloa e avevano allestito un avamposto armato su una collina e aveva fatto un’imboscata ai rivali a poca distanza dal luogo del massacro. Le macchine della famiglia, dunque, sono passate in quel tratto nel momento peggiore. Quando gli uomini armati hanno iniziato a crivellare di colpi le vetture, Christina Marie Langford Johnson è scesa agitando le braccia per dimostrare di non essere un membro del cartello: è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre la sua bambina di sette mesi si è salvata perché la mamma l’aveva spostata dietro ai sedili prima di scendere. In un primo momento gli investigatori avevano detto che gli uomini del cartello avevano scambiato i grandi suv per quelli della banda rivale. Ma i parenti delle vittime credono che gli omicidi siano stati un’esca per attirare gli uomini del cartello rivale. E infatti dopo che le tre auto sono state bruciate una cinquantina di uomini armati del cartello Sinaloa si sono presentati sul posto per vedere cosa era successo. Le autorità affermano che c’è stata una guerriglia che è durata ore nella notte dopo il massacro dei mormoni.

Devin, eroe a 13 anni: ha nascosto gli altri e poi ha corso per sei ore. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. La strada sterrata l’aveva percorsa altre volte, l’ultima quella stessa mattina, in auto, con la mamma al volante e altri sei tra sorelle e fratelli, tutti composti nel Suv come tesserine di un bel puzzle familiare. Ma mai l’aveva fatta a piedi, e con quel peso addosso. Il dolore e lo sgomento che hanno accompagnato il tredicenne Devin Langford in sei ore di cammino li conosce solo lui. Quattordici miglia, ventitrè chilometri a ritroso tra le colline desertiche dello Stato di Sonora, un nome che per noi ha il suono di dolce Far West così come La Mora, il paese di mille anime dove Devin è cresciuto e dove finalmente è arrivato nel pomeriggio per dare l’allarme, per attivare i soccorsi. Si fatica a immaginare le parole che avrà usato per i vivi e per i morti. La madre Dawna uccisa con due dei suoi fratellini, e gli altri cinque lasciati non lontano dalle auto crivellate di proiettili. Nessun adulto sopravvissuto. È stato Devin, diventato il grande della famiglia, a nascondere i più piccoli tra i cespugli, sotto una coperta di rami. Brixton, 9 mesi di vita, con una ferita nel petto. Xander, 4 anni, colpito alla schiena. Cody di anni otto, con la mascella insanguinata. E poi Jake di sei e la sorella McKenzie di nove, fortunatamente illesi, nella parte di baby infermieri. Possiamo immaginare Devin che cerca di calmare i fratelli traumatizzati, dicendo loro che li lascerà soli per un po’. Chiede loro di non fare rumore, di non piangere perché i cattivi potrebbero tornare. Ci vorranno molte ore prima che il silenzio venga rotto dalla carovana dei buoni. Quando era giunto a La Mora, Devin era andato dagli zii. Che avevano subito preparato i fucili, prima di decidere che era meglio aspettare le forze dell’ordine. Nella mattanza quotidiana che vive il Messico, cento morti al giorno la media delle vittime, ci voleva una strage di mamme e bambini con il doppio passaporto per smuovere sergenti e presidenti. Famiglie che si spostano lungo il confine per strade secondarie, regolari ma non troppo, con i loro pick-up affollati di infanti e la loro storia settaria di altri tempi, ai margini della rispettabilità, in odore di poligamia. Doveva essere un allegro viaggio di quattro ore, da La Mora a Colonia LeBaron, da Sonora allo Stato di Chihuahua. Si è tramutato nel giorno più lungo della loro vita. Non vedendo Devin arrivare, McKenzie era partita alla ricerca di soccorsi, senza seguire la strada, lasciando Jake di sei anni al comando del rifugio. E così facendo si era persa lei stessa sulle colline, tra pietre e serpenti a sonagli: è stata l’ultima a essere recuperata, dopo quattro ore, quando il buio era già calato e i fratelli feriti volavano sugli elicotteri verso ospedali oltre il confine. Devin e Jaw sono tornati a La Mora. Le loro ferite sono tutte dentro. Ha raccontato ai media Usa una parente, Kendra Lee Miller, che i due sono «piuttosto tranquilli». La prima notte «Devin l’ha passata sotto shock, sfinito per tutto quello che era successo. Penso che si siano comportati da campioni». Tra i sopravvissuti inconsapevoli c’è Faith Johnson. La piccola di 7 mesi era in una delle due auto che non hanno preso fuoco. La madre Christina Langford Johnson, 29 anni, ha preso il suo seggiolino dal sedile e l’ha posato sul fondo dell’auto, prima di uscire con le mani alzate e prendersi una raffica mortale nel petto. Faith dorme con la nonna a La Mora. Ci vorrà molto, prima che le raccontino la vera storia di quel giorno, di sua madre e del suo seggiolino.

Michele Farina per il “Corriere della sera” il 7 novembre 2019. La strada sterrata l' aveva percorsa altre volte, l' ultima quella stessa mattina, in auto, con la mamma al volante e altri sei tra sorelle e fratelli, tutti composti nel Suv come tesserine di un bel puzzle familiare. Ma mai l' aveva fatta a piedi, e con quel peso addosso. Il dolore e lo sgomento che hanno accompagnato il tredicenne Devin Langford in sei ore di cammino li conosce solo lui. Quattordici miglia, ventitrè chilometri a ritroso tra le colline desertiche dello Stato di Sonora, un nome che per noi ha il suono di dolce Far West così come La Mora, il paese di mille anime dove Devin è cresciuto e dove finalmente è arrivato nel pomeriggio per dare l' allarme, per attivare i soccorsi. Si fatica a immaginare le parole che avrà usato per i vivi e per i morti. La madre Dawna uccisa con due dei suoi fratellini, e gli altri cinque lasciati non lontano dalle auto crivellate di proiettili. Nessun adulto sopravvissuto. È stato Devin, diventato il grande della famiglia, a nascondere i più piccoli tra i cespugli, sotto una coperta di rami. Brixton, 9 mesi di vita, con una ferita nel petto. Xander, 4 anni, colpito alla schiena. Cody di anni otto, con la mascella insanguinata. E poi Jake di sei e la sorella McKenzie di nove, fortunatamente illesi, nella parte di baby infermieri. Possiamo immaginare Devin che cerca di calmare i fratelli traumatizzati, dicendo loro che li lascerà soli per un po'. Chiede loro di non fare rumore, di non piangere perché i cattivi potrebbero tornare. Ci vorranno molte ore prima che il silenzio venga rotto dalla carovana dei buoni. Quando era giunto a La Mora, Devin era andato dagli zii. Che avevano subito preparato i fucili, prima di decidere che era meglio aspettare le forze dell' ordine. Nella mattanza quotidiana che vive il Messico, cento morti al giorno la media delle vittime, ci voleva una strage di mamme e bambini con il doppio passaporto per smuovere sergenti e presidenti. Famiglie che si spostano lungo il confine per strade secondarie, regolari ma non troppo, con i loro pick-up affollati di infanti e la loro storia settaria di altri tempi, ai margini della rispettabilità, in odore di poligamia. Doveva essere un allegro viaggio di quattro ore, da La Mora a Colonia LeBaron, da Sonora allo Stato di Chihuahua. Si è tramutato nel giorno più lungo della loro vita. Non vedendo Devin arrivare, McKenzie era partita alla ricerca di soccorsi, senza seguire la strada, lasciando Jake di sei anni al comando del rifugio. E così facendo si era persa lei stessa sulle colline, tra pietre e serpenti a sonagli: è stata l' ultima a essere recuperata, dopo quattro ore, quando il buio era già calato e i fratelli feriti volavano sugli elicotteri verso ospedali oltre il confine. Devin e Jaw sono tornati a La Mora. Le loro ferite sono tutte dentro. Ha raccontato ai media Usa una parente, Kendra Lee Miller, che i due sono «piuttosto tranquilli». La prima notte «Devin l'ha passata sotto shock, sfinito per tutto quello che era successo. Penso che si siano comportati da campioni». Tra i sopravvissuti inconsapevoli c' è Faith Johnson. La piccola di 7 mesi era in una delle due auto che non hanno preso fuoco. La madre Christina Langford Johnson, 29 anni, ha preso il suo seggiolino dal sedile e l' ha posato sul fondo dell' auto, prima di uscire con le mani alzate e prendersi una raffica mortale nel petto. Faith dorme con la nonna a La Mora. Ci vorrà molto, prima che le raccontino la vera storia di quel giorno, di sua madre e del suo seggiolino.

DAGONEWS l'8 novembre 2019. Un poliziotto messicano che aveva partecipato all’arresto di uno dei figli di  "El Chapo" Guzman è stato assassinato in un parcheggio. L’esecuzione di Eduardo N, 32 anni è stata catturata dalle telecamere a circuito chiuso di un centro commerciale a Culiacán, la capitale dello stato di Sinaloa. I due sicari, a bordo di un’auto rossa, hanno seguito la vittima e hanno sferrato l’attacco armati con fucili semiautomatici: in 30 secondi sono scesi dalla loro macchina e hanno crivellato con 150 colpi la Nissan bianca sulla quale stava viaggiando l’agente. Secondo i resoconti dei media locali, la vittima aveva partecipato è all'arresto del 17 ottobre di Ovidio Guzmán López, figlio del capo del cartello di Sinaloa Joaquín "El Chapo" Guzmán.

Messico, due i figli di El Chapo catturati e poi sfuggiti alla polizia. Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 da Corriere.it. Le storie dei narcos nascondono bugie, verità e tante versioni. La scorreria di Culiacan scatenata dai seguaci de El Chapo ne è la conferma. Una ricostruzione del New York Times afferma che i militari avevano catturato due figli del boss: Ovidio e il più famoso Ivan. I soldati hanno condotto un’operazione nel quartiere Tre Rios, a Culiacan, stato di Sinaloa. Un blitz conclusosi con il fermo dei due esponenti del cartello. Colto di sorpresa, Ivan è stato però deciso nel reagire. I suoi uomini avrebbero neutralizzato le guardie e quindi è iniziata un’azione massiccia per bloccare l’intera città. Una strategia del caos con blocchi stradali ed attacchi. L’obiettivo era quello di ottenere il rilascio di Ovidio, ancora in mano alle forze dell’ordine. Per accentuare la pressione i criminali avrebbero preso in ostaggio familiari dei militari, inoltre hanno inviato video alle autorità mostrando i loro prigionieri. Il ricatto, alla fine, ha funzionato, umiliando lo Stato. Non solo. I parenti dei Guzman hanno inviato una lettera di ringraziamento ai funzionari per come si era conclusa la vicenda, costata peraltro la vita a 8 persone. Già nelle prime ore degli scontri si erano diffuse voci sul coinvolgimento non solo di Ovidio, ma di molti altri esponenti del clan. Comprese alcune mogli. Circostanza poi smentita. Ora il New York Times l’ha rilanciata citando due fonti statunitensi. Non sarebbe una sorpresa se l’attività dei soldati a Culiacan sia stata ispirata da segnalazioni dell’intelligence Usa, spesso decisiva nella localizzazione dei grandi ricercati messicani. Uno degli elementi della battaglia è stata la rapidità della reazione dei trafficanti. La tecnica dei blocchi stradali è consueta in Messico, l’hanno utilizzata dozzine di volte. Però in questa occasione i sicari di Sinaloa hanno mostrato capacità di intervento «pesanti»: un centro di 800 mila abitanti è stato messo sotto assedio per circa due ore; i banditi si sono mossi in base ad un piano ricorrendo a veicoli blindati dotati di mitragliatrici e fucili dall’alto potenziale, tipo Barrett. Al tempo stesso è disarmante la debolezza – se non la collusione – di chi deve garantire la sicurezza. È evidente che i network criminali useranno lo stesso modus operandi nel caso che uno dei loro capi venga arrestato.

El Chapo, figlio in arresto: Messico in fiamme e l'uomo viene liberato. Le Iene il 18 ottobre 2019. Ovidio Guzmán López, accusato come il padre di traffico di sostanze stupefacenti, era stato arrestato dalla polizia di Culiacàn, feudo del cartello di Sinaloa. Ma una volta arrestato, i suoi uomini hanno messo a ferro e fuoco la città, obbligando la polizia a liberarlo. Con Cizco e Gaston Zama vi abbiamo raccontato la guerra per la successione a El Chapo, oggi all’ergastolo nella prigione più sicura d’America. Il figlio del Chapo, Ovidio Guzmán López, non può essere arrestato. È la durissima verità di cui si è resa conto anche la polizia messicana, dopo che era riuscita a mettere le manette al figlio dello storico capo del cartello del narcotraffico di Sinaloa. Lo hanno sorpreso durante un normale controllo nella città di Culiacàn, feudo del cartello che in Messico domina il traffico di stupefacenti. Ovidio Guzmán López, come già il padre che è all’ergastolo in una prigione americana, gestiva lo spaccio di cocaina, marijuana e  metanfetamine. La reazione degli uomini del suo clan, scesi immediatamente nelle strade di Culiacàn, è stata violentissima, tra colpi d’arma da fuoco verso gli agenti, barricate e auto date alle fiamme. E così il capo della polizia si è visto costretto a lasciar andare l’uomo. "Il rilascio del signor Guzmán López è stato necessario per evitare ulteriori violenze, nell'ottica di recuperare e mantenere la calma in città", ha spiegato ai giornalisti increduli. Non potrà invece essere mai liberato il padre, lo storico fondatore e capo del cartello di Sinaloa. El Chapo, che era già evaso due volte da un carcere messicano, si trova oggi rinchiuso nella “fortezza” denominata Adx Florence, in Colorado, il carcere più sicuro degli Stati Uniti. Una struttura  inaugurata nel 1994 per ospitare "the worst of the worst", i peggiori di tutti. I prigionieri sono infatti terroristi, jihadisti, capi-gang e boss del narcotraffico: tra questi il famigerato terrorista Unabomber, Zacharias Moussaoui complice nell’attentato dell'11 settembre e Terry Nichols, complice nella strage di Oklahoma City. Per El Chapo la lista dei reati è lunghissima: associazione a delinquere, criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, uso e traffico di armi da fuoco e vari omicidi. Il re del narcotraffico era stato arrestato in Messico nel 2016, un anno dopo una delle sue sorprendenti evasioni, quella dal carcere di massima sicurezza di Almoloya, grazie a un tunnel scavato di un chilometro e mezzo. Nel 2017 era stato poi estradato negli Stati Uniti. È stato inserito nella lista delle dei 50 uomini più ricchi del mondo: basti pensare che negli anni gli sono stati sequestrati 590 aeroplani e 13 elicotteri. E ora si cerca di mettere le mani sul suo tesoro, che sfiora i 13 miliardi di dollari. Nel frattempo però in Messico, come ha documentato il reportage di Cizco e di Gaston Zama che potete rivedere qui sotto, la guerra per la successione a El Chapo si è fatta ancora più violenta. Nel reportage vi abbiamo raccontato della mattanza dei Narcos in corso ad Acapulco, in Messico, documentando un’ intera giornata in questa città, tra esecuzioni di giornalisti e poliziotti e corpi dei rivali squartati e appesi sotto ai cavalcavia.

Arrestato e poi rilasciato il figlio di El Chapo, guerriglia urbana a Cualican. Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 da Corriere.it. Giovedì pomeriggio le forze di sicurezza dello stato messicano di Sinaloa hanno localizzato Ovidio Guzmán López, uno dei dieci figli di Joaquín Guzmán — più noto come El Chapo — nella città di Culiacan, 750mila abitanti. Il tentativo di catturarlo ha scatenato una vera e propria guerriglia, con sparatorie, automobili in fiamme, barricate, diversi feriti (ma non è chiaro quanti). Le forze dell’ordine non escludono Ovidio Guzmán López (Foto: Twitter/El Horizonte)che ci possano essere stati anche dei morti. Le autorità messicane hanno poi annunciato di aver catturato il trafficante di droga — ricercato anche negli Stati Uniti — salvo poi rilasciarlo. Una decisione che, ha spiegato all’agenzia Reuters il ministro alla Sicurezza Alfonso Durazo, è stata presa per «proteggere delle vite umane». Jose Luis Gonzalez Meza, uno degli avvocati della famiglia di El Chapo, ha detto ad Ap che «Ovidio è vivo e libero», ma di non avere altri dettagli sull’accaduto. La situazione rimane comunque confusa e alcune fonti messicane continuano a ribadire che l’uomo è ancora agli arresti. Ancora non ci sono comunicati governativi. Il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, ha fatto sapere di aver convocato il suo comitato di sicurezza: nelle prossime ore dovrebbe rilasciare una nota ufficiale a commento della vicenda. Si ritiene che Ovidio, 28 anni (soprannominato il “topo”) gestisca una parte dell’impero criminale del padre insieme Ismael “El Mayo”’ Zambada. Nel 2018 le autorità giudiziarie di Washington hanno spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti per traffico di cocaina, metanfetamina e marijuana. Il 28enne è ricercato anche in Messico. Le autorità dello stato di Sinaloa hanno spiegato che giovedì trenta agenti della Guardia Nazionale, impegnati in una normale attività di pattuglia, sarebbero stati bersagliati da colpi d’arma da fuoco provenienti da una casa. Dopo aver respinto l’attacco, i militari sono entrati nell’abitazione ed è lì che avrebbero trovato Ovidio. L’uomo sembra essere stato trattenuto («brevemente», si legge sulle agenzie di stampa) ed è proprio a quel punto che in città è iniziato il caos. Cualican, che si trova in uno degli stati più violenti del Messico, è stata messa a ferro e fuoco da civili armati, presumibilmente legati all’organizzazione criminale guidata dalla famiglia di El Chapo. Alcune immagini pubblicate sui social media mostrano anche camion con delle mitragliatrici montate sul tetto, oltre a mezzi in fiamme, pozze di sangue e civili terrorizzati in fuga. Nel corso degli scontri, alcuni prigionieri sarebbero inoltre evasi dal penitenziario di Aguaruto, sempre a Culiacan. El Chapo, catturato nel 2016 ed estradato negli Stati Uniti l’anno successivo, è stato condannato a all’ergastolo (più trent’anni). Era stato chiamato a rispondere di ben 17 capi d’accusa: dall’omicidio al riciclaggio, oltre naturalmente al traffico di droga. Sconterà la sua pena nella prigione federale di massima sicurezza in Colorado, soprannominata «Alcatraz of the Rockies». Una misura considerata necessaria dalle autorità, dato che El Chapo è già evaso due volte: la prima nel 2001, la seconda nel 2015.

Guido Olimpio per il “Corriere della sera” il 19 ottobre 2019. Umiliazione per lo Stato. Contropotere. Impunità. Sono i messaggi dell'incursione a Culiacán, cittadina nella regione messicana di Sinaloa. Un raid lanciato dai narcos dopo la cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli de El Chapo: missione riuscita visto che le autorità lo hanno rimesso in libertà insieme ad alcuni complici. Otto le vittime - compresi 5 assalitori - e 21 feriti. Davanti allo sfregio, il presidente populista López Obrador ha cercato la giustificazione «umanitaria»: è stata una decisione dei funzionari locali - ha detto - però la condivido perché così hanno evitato ulteriore perdite tra i civili. Spiegazione che potrebbe aver senso se ogni giorno non fossero compiuti eccidi, atti che vedono coinvolti i trafficanti ma non di rado anche chi indossa una divisa. E nei primi nove mesi dell' anno ci sono già stati oltre 16 mila omicidi. L'assalto nella località di 800 mila abitanti è iniziato attorno alle 15 e 30 di giovedì. Un reparto della Guardia nazionale e soldati ha scovato in una casa del quartiere di Tre Rios numerosi banditi. Tra loro Ovidio, uno dei 10 figli avuti dal boss Joaquín Guzmán con tre donne diverse. Detto El Ratón (il Topo), 28 anni, è ritenuto un personaggio minore, anche se contro di lui c'è un ordine di arresto statunitense per traffico di stupefacenti. Ha comunque un cognome pesante, un eventuale arresto sarebbe stato un colpo propagandistico. «Invece l'operazione è stata eseguita in fretta, senza adeguata preparazione», hanno spiegato i funzionari della Difesa in una ricostruzione che potrebbe cambiare ancora. Il reparto di soldati è stato circondato dai sicari del cartello di Sinaloa, piombati nel quartiere su mezzi corazzati in modo artigianale e dotati di mitragliatrici pesanti. Alcuni banditi imbracciavano fucili Barrett, in grado di perforare blindature anche a lunga distanza. Armi acquistate in America oppure negli Stati a sud, resti delle tante guerre. I narcos hanno creato blocchi stradali, ingaggiato scontri in una dozzina di punti. Un nucleo ha attaccato una prigione favorendo l'evasione di 49 detenuti. Otto soldati sono stati presi in ostaggio e liberati in cambio di Ovidio. Non si è trattato di tattiche improvvisate, bensì di un modus operandi ripetuto nel tempo. La cavalcata selvaggia - con scene di panico tra i passanti in fuga - ha avuto successo. Video postati sul web hanno mostrato un momento surreale con i soldati che stringevano la mano a civili armati. Erano dei banditi? Suonano stonate le affermazioni che non si fanno patti con l' illegalità. La realtà racconta l' opposto, infatti i Guzmán hanno ringraziato attraverso i loro legali. Ancora una volta quelli di Sinaloa hanno mostrato il volto feroce. Perso il re, rinchiuso in un carcere del Colorado, il network ha affrontato una fase non facile. I figli Alfredo, Ivan, Ovidio si sono scontrati con il fratello del padrino, Aureliano alias El Guano, e El Mayo Zambada, uno dei leader storici. Ognuno vuole dominare gli affari e secondo gli investigatori sarebbe stato Alfredo ad aver imposto un' azione più aggressiva. La faida, però, ha offerto il fianco ai rivali del cartello di Jalisco - oggi forza dominante - la possibilità di allargare le proprie mire sui corridoi della droga. Alfredo venne rapito e poi rilasciato a Puerto Vallarta, nel 2016, sequestro organizzato dagli avversari capitanati da El Mencho, in teoria l' uomo più ricercato del Messico. Ancora i membri di questo network hanno massacrato, pochi giorni fa, 13 agenti per difendere un congiunto del boss. La storia, andando oltre i confini messicani, dice una cosa evidente: le organizzazioni criminali hanno ormai un carattere paramilitare e gli Stati si troveranno ad affrontare nemici simili a terroristi.

Le drammatiche immagini della cattura del figlio di El Chapo video. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Guido Olimpio. Episodio drammatico avvenuto pochi giorni fa e conclusosi con il rilascio del giovane in seguito alla guerriglia scatenata dai suoi uomini. Le autorità messicane hanno diffuso le immagini della cattura di Ovidio Guzman, il figlio de El Chapo a Culiacan. Episodio drammatico avvenuto pochi giorni fa e conclusosi con il rilascio del giovane in seguito alla guerriglia scatenata dai suoi uomini. Il filmato mostra gli agenti, ben equipaggiati, davanti ad un edificio. Puntano i fucili, costringono le persone all’interno ad uscire. Una donna grida che ci sono dei bambini, un altro afferma che non sono armati. Poi spunta il figlio del boss, in camicia e con al collo un ciondolo religioso. Lo spingono contro il muro tenendolo sotto tiro ma senza mettergli le manette. Successivamente Ovidio contatta al telefono il fratello Archivaldo, chiedendogli di evitare violenze, ma la risposta è un no. Un rifiuto accompagnato da minacce verso i militari. Infatti i sicari di Sinaloa entreranno in città mettendola a ferro e fuoco. L’azione rapida dei narcos, dotati di veicoli blindati in modo artigianale, armati di mitragliatrici, avrà successo. Dopo aver creato una ventina di posti di blocco, incendiato mezzi e attaccato le forze dell’ordine, i banditi costringono le autorità a rilasciare Ovidio. Durante l’assalto – costato la vita a 13 persone - i criminali avrebbero preso in ostaggio dei soldati e minacciato le loro famiglie. Il governo ha spiegato di aver ceduto per evitare uno spargimento di sangue ulteriore.

El Chapo è in galera, la procura  ora vuole i suoi 12,6 miliardi. Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. La procura federale americana vuole mettere le mani sulla cassa del Chapo: con un atto ufficiale ha chiesto che il boss del cartello messicano di Sinaloa consegni 12,6 miliardi di dollari. Una stima al ribasso, hanno precisato i magistrati, convinti che ne abbia accumulati molti di più. Ma il padrino è davvero così ricco? O meglio, è in possesso di tutto questo denaro? I legali negano, quasi piangono miseria, ricordano — come se Joaquin Guzman fosse un qualsiasi cittadino — che ha sempre avuto spese enormi di gestione. Un esempio? Un gruppo di spie costava 800 dollari di stipendio alla settimana per il capo locale e 40 per i sottoposti. Uno schema che se moltiplicato per dozzine di località significa uscite considerevoli. E poi El Chapo ha sempre vissuto da clandestino, latitante in una serie di appartamenti e fattorie dove il lusso era secondario. Niente zoo privati, colonnati o stravaganze. L’unica cosa importante era una galleria per fuggire. Alcuni esperti hanno contestato le valutazioni delle autorità statunitensi. A loro dire sono dati con poco fondamento. Inoltre il boss era parte di un network con altri personaggi, alcuni ancora fuggiaschi e magari veri detentori del potere. Non è detto che sappia le coordinate del tesoro. Le sortite dei procuratori, però, hanno fatto breccia. Come non ricordare che il senatore del Texas, Ted Cruz, ha proposto di usare i soldi del narcotrafficante per finanziare la costruzione del muro al confine con il Messico. Però gli investigatori dovevano trovarli e non ci sono riusciti. Magari avranno miglior fortuna con qualche collaboratore del capo: in cambio di una riduzione di pena potrebbe dare indicazioni utili. Gli inquirenti speravano di fare lo stesso con Guzman applicandolo regole ferree di detenzione, quelle in vigore al Metropolitan Correctional Center di New York, la piccola Guantanamo. Il bandito è rinchiuso in una cella cinque metri per tre, con la luce sempre accesa. Da qui può uscire solo una volta al giorno, per un’ora. Gli avvocati, invocando ragioni mediche, hanno chiesto misure meno severe. Richiesta respinta insieme a quella di un nuovo processo. Per ora nulla cambia, il 17 il tribunale annuncerà il destino per El Chapo, già riconosciuto colpevole. Tutti danno per scontato l’ergastolo. Magari il condannato, angosciato dalla prospettiva di un’esistenza da sepolto vivo, accetterà di cooperare, ma non è detto che sappia le coordinate del tesoro.

Alessandra Benignetti per il Giornale il 17 luglio 2019. Forbes lo incluse nella lista degli uomini più ricchi del mondo, mentre le sue fughe spettacolari e le foto con le armi ricoperte d’oro massiccio hanno ispirato film e serie tv. Oggi nell’aula di tribunale di New York dove il giudice federale lo ha condannato all’ergastolo più trent’anni di reclusione, Joaquin Guzman Loera era soltanto l’ombra del Chapo, il boss del cartello di Sinaloa che ha costruito il suo impero con la vendita di tonnellate di droga in tutto il mondo. Finirà i suoi giorni nella prigione di massima sicurezza di Florence in Colorado. La chiamano “l'Alcatraz delle montagne rocciose” perché è a prova di evasione. Anche per uno come lui, sfuggito già due volte alle autorità messicane. La prima nel 2001, quando riuscì ad evadere dal carcere in cui era stato rinchiuso dopo essere stato arrestato in Guatemala otto anni prima. Poi nel 2015 quando i suoi scagnozzi lo liberarono scavando un tunnel di un chilometro e mezzo che finiva esattamente sotto la doccia della sua cella. La sua fuga stavolta è durata soltanto sei mesi. I marines messicani l’hanno braccato a Los Mochis, a 500 chilometri dal suo paese natale, La Tuna. Nel 2017 è stato estradato negli Stati Uniti dove oggi la giuria l’ha ritenuto colpevole di dieci capi d’imputazione su dodici, che vanno dall’associazione a delinquere, al riciclaggio di denaro sporco, all'uso e traffico di armi da fuoco, passando per il traffico di droga. Tonnellate di sostanze stupefacenti smerciate in tutto il globo e fatte entrare dal Messico agli Stati Uniti attraverso una rete di tunnel lungo il confine. “Ho venduto più eroina, metanfetamina, cocaina e marijuana di chiunque altro nel mondo”, si vantava nel 2016 con l'attore Sean Penn, in un'intervista pubblicata sul magazine Rolling Stones, compiacendosi per la sua flotta di "sottomarini, aerei, camion e barche” a disposizione per i sui traffici. Un business che secondo la procura federale di Brooklyn ha fruttato al signore della droga messicano almeno 12,6 miliardi di dollari, di cui 11,8 ricavati soltanto dalle montagne di polvere bianca venduta negli Stati Uniti e in Europa. Soldi che secondo i giudici americani El Chapo dovrà restituire a Washington. “Il governo americano non ha mai identificato un centesimo di questi 12,6 miliardi”, ribatte ai media americani l’avvocato del 62enne, Jeffrey Lichtman, parlando di mero "esercizio accademico". Nato nel 1957 in una famiglia poverissima dello Stato di Sinaloa, a 15 anni Guzman smette di vendere caramelle e bibite gassate in strada per entrare nel business della marijuana. Presto viene notato dal boss del cartello di Guadalajara, il “padrino” Miguel Angel Felix Gallardo, che lo recluta nelle sue file. Dopo l’arresto di Gallardo, nel 1989, inizia l’ascesa del Chapo che diventa signore incontrastato dei cartelli messicani fino alla sua cattura, tre anni fa. A tradirlo un’infatuazione per l’attrice Kate Del Castillo, che organizzò il meeting con Sean Penn. A mettere gli investigatori sulle sue tracce, infatti, furono proprio i messaggi inviati alla star di origini messicane. “Non c’è stata giustizia qui”, ha detto in spagnolo il boss della droga davanti alla giuria, rimasta anonima per il pericolo di ritorsioni. Nel suo discorso di dieci minuti, secondo quanto rivela la Cnn, ha anche denunciato le condizioni delle carceri newyorkesi. “È stata una tortura fisica, emotiva e mentale, la situazione più inumana che ho vissuto nella mia intera vita”, ha attaccato fasciato in un vestito grigio. L’avvocato Mariel Colon, che lo è andato a trovare più volte in prigione, si è detta ottimista sulle possibilità di ricorso in appello.

Il Chapo nella cella tomba due metri  per quattro: «Non sento nemmeno il mio nome». Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. Maggio 2016. Con una mossa inattesa le autorità federali messicane trasferiscono El Chapo dalla prigione dell’Altiplano a quella di Ciudad Juárez. Molti pensano che lo spostamento sia in vista della futura estradizione. Speculazione sbagliata. Il cambio di carcere è legato al timore di una nuova fuga del padrino, sempre attraverso un tunnel. Per giorni i guardiani sentono strani rumori mentre il detenuto eccellente tira spesso l’acqua del wc. Piccoli diversivi per nascondere lo scavo di un’altra galleria, non diverso da quella usata per farlo scappare nel luglio del 2015. I particolari sono emersi dopo il processo a New York contro il padrino. Giudizio conclusosi con la condanna all’ergastolo, reso più duro da altri 30 supplementari. Da scontare a Supermax, penitenziario nel Colorado, luogo da dove non è mai evaso nessuno. Perché è difficile sbucare fuori da quella che assomiglia ad una «segreta» medievale: infatti qui hanno rinchiuso il peggio del peggio. Unabomber, il terrorista ceceno responsabile della strage di Boston, la spia russa Hansenn e molti altri macchiatisi di reati gravi. Joaquín Guzmán, 62 anni, sapeva che questa sarebbe stata la sua destinazione finale, ma non sapeva quando. Dopo la lettura della sentenza il bandito messicano è stato portato in un luogo sconosciuto. Neppure il suo avvocato è stato informato. Alle 3.37 del giorno seguente è stata notata la partenza di un volo inusuale dall’aeroporto di La Guardia, un jet impiegato per i viaggi dei prigionieri. Alle 7.15 circa il velivolo è atterrato a Pueblo, in Colorado, a circa 40 miglia dalla prigione. Ed è qui che nella tarda mattinata, protetto da una scorta robusta, è arrivato l’ospite. Lo attendeva la cella regolamentare, 2 metri per 4, dotata di un piccolo water e lavandino, una branda in cemento. L’unico pertugio è una finestrella di 10 centimetri attraverso la quale si vede uno spicchio di cielo. Il re dei trafficanti passerà qui 23 ore al giorno, sempre qui dentro consumerà i suoi pasti. Isolamento totale. Per motivi di sicurezza e per sua tutela. Il contadino diventato gangster deve stare attento. Lo vogliono morto coloro che temono possa decidere di collaborare. Lo vogliono morto i suoi ex complici. Lo vogliono vivo, invece, i magistrati statunitensi convinti (ma non troppo) di riuscire a mettere le mani sulle sue risorse, 12,7 miliardi di dollari. Poco prima di incamminarsi verso il cubicolo Guzmán ha protestato:«Mi mandano in un luogo dove non sarà possibile neppure sentire il mio nome. Non c’è giustizia». Un appello condiviso persino dal presidente messicano López Obrador che ha parlato di atto disumano. Poi ricordandosi dei 17 mila omicidi nei soli primi sei mesi del 2019 ha dedicato un pensiero alle vittime delle gang che imperversano nel Paese. Dopo la caduta di Guzmán la lotta è diventata ancora più feroce. Il cartello de El Chapo si sarebbe spaccato con il co-fondatore El Mayo Zambada in guerra con i Los Chapitos, i figli del boss. Faida che ha favorito in parte le ambizioni di El Mencho, l’uomo alla testa del cartello di Jalisco, che ha esteso il suo potere a danno degli avversari. Sotto le cupole mafiose, ormai frantumate, dozzine di formazioni armate. In Baja California sono tornati a colpire i «tagliatori di orecchie», narcos che spargono il terrore tra gli spacciatori infliggendo mutilazioni. Sangue, contrabbando, morti anche senza El Chapo.

Altro che El Chapo, il vero capo dei narcos è ancora in libertà. E si chiamo El Mayo. Il più famoso dei criminali messicani è stato condannato a New York. Ma a regnare sui narcos oggi è qualcun altro. Un boss potentissimo e misterioso. Ecco chi è. Diego Enrique Osorno il 20 agosto 2019 su La Repubblica. Il processo a Joaquín Guzmán Loera a New York - a momenti rivelatore quanto una Commissione per la verità, a momenti improbabile come un talk show latinoamericano - ha reso noti alcuni aspetti sconosciuti del mondo del crimine. Uno dei principali interrogativi che vi si è posto è se sia stato realmente il noto criminale soprannominato El Chapo (il nanetto) a muovere le fila del narcotraffico in tutti questi anni, o se il vero potere dietro al suo trono sia sempre stato il suo socio, Ismael Zambada García, un capo dal basso profilo, noto come El Mayo (Il Maggio), che ha dedicato mezzo secolo al traffico illegale della droga senza mai avere messo piede in prigione. Perché quest’uomo di più di settant’anni nato nello stato del Sinaloa è stato indicato ripetutamente dalla difesa del Chapo come il vero “Capo de capi della mafia?” Per iniziare a rispondere alla domanda, è necessario tornare indietro, alla fine degli anni ’70, quando nel Messico del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) vigeva ancora il monopolio del potere presidenziale. Anche nel vecchio mondo del narcotraffico ha dominato una sola organizzazione: il cartello di Sinaloa. Fu Miguel Angel Félix Gallardo, El Jefe de jefes (Il capo di capi), il primo ad amministrare come un’azienda l’attività illegale originatasi negli anni ‘40 nel Nordovest del Messico.Tutto fu abbastanza facile per il primo capo del cartello di Sinaloa fino a quando l’omicidio di un agente della Dea (Drug Enforcement Administration, l’Agenzia Usa per la lotta alla droga, ndt), Enrique Camarena, detto Kiki, non si trasformò nello strumento di pressione del governo degli Stati Uniti per far ripartire con forza la crociata contro la droga e, già che c’era, contro il regime del partito unico che prevaleva in Messico. Sulla scia di quella pressione, nel 1989 fu arrestato anche Félix Gallardo. Con lui finì il modello di cartello con il quale era partita l’industria del traffico della droga in Messico. Anche se non è chiaro se sia stato Félix Gallardo o lo stesso governo a creare il sistema dei cartelli che ancora prevale e si è moltiplicato in Messico, l’idea dietro a quella decisione fu che tutte le cellule criminali restassero organizzate e coordinate con le autorità. Come mi disse Félix Gallardo: «Noi narcos non eravamo contro il governo, eravamo parte del governo». Così, verso la fine degli anni ‘80, il traffico di droga funzionava come una sorta d’impresa parastatale gestita da famiglie originarie quasi tutte dal Sinaloa. Negli anni ’90, però, mentre in Messico emergeva il neoliberismo e un’incipiente alternanza tra i partiti al governo, anche nel mondo del narcotraffico s’impose un nuovo spirito concorrenziale determinato dalle leggi del libero mercato e del massimo vantaggio, che rivelò la sua notevole attitudine ultra capitalistica. In quel contesto, la prima cellula di trafficanti che si separò per diventare un cartello a sé fu quella di Tijuana, sotto il controllo della famiglia Arellano Félix. Tra le persone colpite da questa decisione ci fu El Mayo, che era già allora un proprietario terriero con vaste coltivazioni di marijuana e di eroina nel Sinaloa, ed El Chapo, che operava nella vicina città di Tecate ed era già famoso per aver scoperto l’opportunità del business sotterraneo inventando i tunnel al confine per far arrivare la droga negli Stati Uniti. Entrambi finirono per allearsi con la famiglia Carrillo Fuentes, che aveva mantenuto il controllo di Ciudad Juárez, l’altro importante attraversamento del confine messicano verso gli Usa. Fu così che El Mayo ed El Chapo prima si allearono e poi costituirono con le rispettive famiglie una delle più famose organizzazioni criminali degli ultimi decenni anni nel mondo. Finirà dissezionata dal processo a New York degli ultimi anni, a conclusione del quale El Chapo sarà condannato all’ergastolo, mentre sorge il sospetto che egli sia stato tradito dal socio il quale, a quanto pare, ha sempre tirato le fila del potere da dietro il trono del cartello di Sinaloa. La locomotiva del treno diretto verso l’Arizona aveva lasciato Sufragio, Sinaloa, e aveva superato Empalme, Sonora. Da lì a sette chilometri, era successo qualcosa alle valvole del vapore e il mostro aveva dovuto fermarsi. Nulla accade a caso nella vita, specialmente quando si tratta di treni. I poliziotti aspettavano. I vagoni del convoglio erano pieni di migranti e di marijuana proprietà del Mayo. Empalme è un villaggio deserto a metà strada tra Sufragio ed Hermosillo. Lì la linea ferroviaria si biforca verso le città di confine Mexicali e Nogales. A volte chi spedisce comunica agli uomini dei cartelli le rotte e dove e quando i treni devono essere fermati per immagazzinare la marijuana che in seguito sarà portata di là del confine tra Messico e Stati Uniti. Non è l’unico modo per passare il confine alla droga. Con oltre cinquant’anni di attività, El Mayo è riuscito a mettere in piedi un’infrastruttura ben diversificata per il trasporto della sua merce per via aerea, terrestre e persino sotterranea. Il modo più comune per aggirare la sicurezza delle dogane degli Stati Uniti è utilizzando veicoli commerciali che trasportano la droga nascosta in scompartimenti segreti o all’interno di prodotti legali come burro, lattine di chili o chili marchio La Comadre. Un altro modo è quello con cui El Chapo ha sorpreso all’inizio i colleghi, diventato famoso poi con la sua seconda fuga da un carcere messicano di massima sicurezza: la costruzione di tunnel per attraversare sotto terra il muro che divide il Messico dal lato statunitense. L’opera comincia quasi sempre nel lato messicano, di solito in case o casupole dall’aspetto normale, anche se talvolta si utilizzano luoghi più stravaganti, come nel caso della cappella di un cimitero vicino al confine che nascondeva l’accesso a un tunnel per la droga che sbucava negli Usa. Marijuana, metanfetamine ed eroina, le droghe che l’organizzazione produce negli stati di Sinaloa, Durango e Chihuahua - la regione nota come Triángulo Dorado (Triangolo d’oro) - viaggiano di solito via terra. La cocaina importata dalla Colombia, invece, richiede una logistica speciale che le faccia attraversare l’America Centrale, raggiungere il confine meridionale del Messico e poi, via aria o via terra, percorrere tutto il Messico fino al Sinaloa o Sonora, dove è immagazzinata in attesa del momento opportuno per farla entrare negli Stati Uniti passando da Sonoyta, Agua Prieta, Nogales, San Luis Río Colorado o il deserto di Altar, dove i migranti sono usati come facchini (li chiamano “muli”) e costretti a portare ciascuno sacchi che arrivano a 20 kg di marijuana. Già in Arizona, la merce è immagazzinata in case speciali a Tucson o a Phoenix, proprietà di cittadini americani che all’apparenza conducono una vita normale. Poi la si trasferisce a Chicago o a New York, le principali destinazioni della merce dell’organizzazione, con qualche occasionale spedizione a Los Angeles, un mercato controllato dalla famiglia Arellano Félix, che conta storicamente con contatti in tutte le forze della polizia locale della California. Quando arriva alla destinazione finale negli Usa, la droga è tenuta in magazzini speciali, dove per nasconderla si utilizzano auto con scompartimenti segreti. Queste auto poi sono lasciate nei parcheggi dei centri commerciali con le chiavi nascoste, in modo che gli acquirenti piacevano e ritirino la droga. Qualche volta le auto sono restituite il giorno successivo con i dollari del pagamento nello stesso scompartimento dove stava la droga, facendo ripartire, ora alla volta del Messico e trasportando denaro contante invece che droga, la stessa logistica del trasporto di andata. Nel processo a New York, il figlio maggiore del Mayo, Vicente Zambada Niebla, El Vicentillo, ha spiegato che un investimento di 9 milioni di dollari per il trasporto di 15 tonnellate di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti può generare un utile netto di 39 milioni di dollari se consegnato a Los Angeles, 48 a Chicago e 78 a New York. Una logistica meno complessa è quella utilizzata dall’organizzazione per l’acquisto di armi e munizioni quasi sempre nell’Arizona o nel Texas, dove i controlli sono meno rigidi che altrove. Sebbene il cartello abbia nel tempo acquisito armi anche da reparti corrotti delle forze armate del Messico, El Salvador, Ecuador e Colombia, l’industria degli armamenti statunitense resta il principale fornitore del suo arsenale. Persino lo stesso governo Usa ha rifornito qualche volta di armi i narcotrafficanti messicani, com’è successo nel 2014 durante la fallita operazione sotto copertura Fast and Furious condotta dal Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives (Atf). Allo scopo di tracciarne i movimenti, gli agenti cedettero ai cartelli duemila unità tra pistole calibro 5.7 e 9 millimetri e fucili AK–47, AR–15 e Barret. 50. Le armi sono state poi utilizzate per commettere una serie di atrocità in Messico. Il 1994 fu per il Messico l’anno dell’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio Nafta, della rivolta dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) nel Chiapas, dell’omicidio di un candidato presidenziale e leader nazionale del Pri e della peggiore crisi economica della sua storia. Come se ciò non bastasse, il vulcano Popocatépetl, le cui pendici sfiorano la capitale, si era riattivato. Fu anche l’anno in cui El Mayo rischiò di morire. Molto vicino a dove si trovava, nell’hotel Camino Real Hotel a Guadalajara saltò in aria un’autobomba. L’ordigno era stato piazzato da emissari della famiglia Arellano Félix, che in precedenza avevano fatto esplodere altre due auto piene di esplosivo a Culiacán. La disputa tra la famiglia Arellano Félix e il cartello di Sinaloa fu la prima guerra tra narcos in Messico di scala nazionale. Due anni prima dell’autobomba di Guadalajara, El Chapo ed El Mayo avevano mandato un comando alla discoteca Christine a Puerto Vallarta con l’ordine di uccidere Benjamín Arellano Félix, il capo del cartello di Tijuana. L’attacco era fallito, non senza concludersi in un massacro. In risposta, l’anno successivo, El Chapo doveva essere ucciso all’aeroporto di Guadalajara, ma gli uomini della famiglia Arellano Félix scambiarono per El Chapo un importante gerarca cattolico, il Cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo, che fu ucciso mentre El Chapo, che si trovava in un’altra auto, risultò incolume. La morte del Cardinale scatenò una crisi politica e persino una diplomatica tra il governo messicano e il Vaticano, il che a sua volta dette il via a una caccia contro El Chapo, che era intanto fuggito in Guatemala, dove poi fu arrestato e consegnato alle autorità messicane, che finsero di averlo messo in prigione e continuarono a gestire la crisi politica con la Santa Sede. La guerra tra la famiglia Arellano Félix contro El Chapo ed El Mayo si era calmata un po’ quando, non molto tempo dopo, cominciò un’altra contro la famiglia Carrillo Fuentes, sua alleata negli anni ’90. Quasi contemporaneamente, El Mayo ed El Chapo stavano combattendo una terza guerra, questa volta contro la famiglia Beltrán Leyva che aveva lavorato con loro sin dagli anni ‘80. Verso la fine del 2008, mentre in una villa nei dintorni di Città del Messico si svolgeva una festa, decine di agenti della polizia federale fecero irruzione per arrestare Harold Poveda, El Conejo, il principale intermediario della famiglia Beltrán Leyva per l’acquisto di cocaina in Colombia. Gli agenti dell’operazione non riuscirono a catturare il trafficante di droga colombiano, ma decisero che comunque potevano godersi anche loro la piscina, il cinema, le vasche idromassaggio e il grande giardino della villa. Oltre a rubare denaro, gioielli e persino animali domestici, torturarono alcuni dei partecipanti e stuprarono varie delle donne presenti. L’informazione e la decisione di fare ufficialmente irruzione non erano partite da uffici governativi, ma dal quartier generale del Mayo e del Chapo che avevano aumentato i pagamenti ai corpi federali per vincere la guerra contro i Beltrán Leyva, che nel frattempo si erano spostati dal Sinaloa per operare da Città del Messico e dal vicino stato di Morelos. Jesús, fratello del Mayo, soprannominato El Rey, era l’incaricato del coordinamento delle azioni con un budget mensile di 200.000 mila dollari solo per bustarelle alle autorità. Sorprendentemente, tuttavia, una settimana dopo l’operazione nella villa del Conejo, El Rey sarebbe stato arrestato da agenti della Pgr che invece che nel loro libro paga, erano in quello dei Beltrán Leyva. Il processo a New York provò che il cartello di Sinaloa aveva un accordo con l’allora Segretario per la pubblica sicurezza, Genaro García Luna (un dato che aveva già reso noto in precedenza la giornalista Anabel Hernandez e che il funzionario nega tuttora), ma non sono stati istigati ancora gli accordi che la famiglia Beltrán Leyva aveva con certi personaggi degli alti comandi della Pgr - un altro corpo che combatte il narcotraffico in Messico. Ne risultava che ogni cartello aveva una parte del governo al proprio servizio. Nel processo di New York sono venute fuori altre rivelazioni della narco-politica o della fantapolitica, se si preferisce. Fino ad allora non si sapeva, per esempio, delle presunte riunioni tra il figlio del Mayo e alti comandi dell’Esercito, a cominciare dal generale Roberto Miranda, capo dello Stato maggiore presidenziale durante il governo di Ernesto Zedillo (Pri), e dal generale Marco Antonio de León Adams, un ex membro della guardia del presidente Vicente Fox (Pan, Partito d’azione nazionale), per arrivare a una presunta visita a Sinaloa da parte del generale Humberto Miranda Antimo per incontrare El Mayo, proprio all’inizio del governo di Felipe Calderón (Pan). Tra gli altri dati delicati emersi al processo ci sono le donazioni alla campagna elettorale presidenziale di Enrique Peña Nieto (Pri) da parte del cartello di Sinaloa tramite lo stratega elettorale venezuelano J. J. Rendón. In vari modi, tutti gli alti funzionari dei governi precedenti i cui nomi sono venuti fuori dell’uno o nell’altro contesto hanno respinto ogni accusa. Finora, il governo guidato da Andrés Manuel López Obrador (Morena, Movimento per la rigenerazione nazionale), non ha avviato alcuna indagine specifica sulle accuse di legami tra le alte sfere del potere criminale e quelle del potere politico, come emerso nel processo a New York. Le guerre tra i cartelli hanno fatto perdere i figli a migliaia di padri e madri negli ultimi anni. La nebulosa violenza chiamata ufficialmente dall’ex presidente Felipe Calderón Guerra del narco, ha portato in un decennio a più di 200.000 persone uccise, 35.000 dispersi e altri 35.000 sfollati forzatamente, col che in questo primo quarto del secolo XXI, la democrazia in Messico ha registrato più dolore e distruzione di qualsiasi tipica dittatura latinoamericana del secolo scorso. El Mayo non ne è uscito illeso. Almeno venti dei suoi familiari più stretti sono stati assassinati, arrestati, rapiti. L’elenco inizia con l’unico figlio maschio dei cinque figli che ha avuto con la prima moglie Rosario Niebla: Vicentillo, arrestato ed estradato negli Stati Uniti come anche Ismael Zambada Imperial, detto Mayito Gordo, il figlio avuto da Margarita Imperial. La stessa sorte toccata non tanto tempo fa a Serafín Zambada Ortiz, il figlio avuto da Leticia Ortiz, rilasciato alla fine del 2018. I suoi altri figli, tra cui Ismael Zambada Sicairos, soprannominato Mayito Flaco, sono stati colpiti anche da ordini di arresto, mentre le figlie María Teresa, Miriam, Mónica e Modesta Zambada Niebla, sono tutte nei radar di varie agenzie statunitensi. Oltre al rapimento di Agueda, e l’uccisione di un altro fratello del Mayo, Vicente, anche, Jesús, figlio del Rey, è in carcere negli Stati Uniti. I nipoti Vicente e Jesús, figli del Rey, sono anche loro morti, il primo assassinato e il secondo suicidatosi dopo essere stato arrestato ed essere diventato testimone protetto del governo. Anche un altro nipote, Édgar, figlio di María Teresa, è morto assassinato. Forse le disgrazie personali che più hanno colpito El Mayo sono l’arresto del figlio Vicentillo e quello del fratello El Rey. Furioso, durante una riunione con El Chapo nelle montagne di Durango, il capo avrebbe preso in considerazione la possibilità di ingaggiare un soldato statunitense per attaccare una qualche istituzione Usa, rinunciandoci alla fine. Quello che sì è stato pianificato a un certo punto, secondo la testimonianza dello stesso Vicentillo nel processo a New York, è l’assassinio dello zar antidroga José Luis Santiago Vasconcelos per mano di un gruppo di militari messicani, come rappresaglia per l’arresto a Guadalajara del figlio del Chapo, Iván Archibaldo, che il governo stava per estradare negli Stati Uniti. Dopo il rilascio di Iván su richiesta di un giudice, il piano per uccidere Vasconcelos è stato cancellato. Resta il fatto che qualche mese più tardi, Vasconcelos è morto in un incredibile incidente aereo: lo schianto dell’aereo governativo che lo trasportava assieme al Segretario degli Interni, Camilo Mouriño, sul trafficato anello periferico di Città del Messico. I giornalisti più impegnati a informare su questo conflitto, i miei amici Martin Duran, Cynthia Valdez e Javier Valdez, sono minacciati proprio per il loro lavoro. Quanto a Javier, alla fine il lavoro di giornalista gli è costato la vita: è stato ucciso un giorno a mezzogiorno, il mezzogiorno più triste della storia di Sinaloa. Nei tribunali di Chicago, prima del processo a New York al Chapo, era stato avviato il processo contro Vicentillo, che aveva promesso di rivelare altre informazioni sul così poco noto mondo del narcotraffico negli Stati Uniti. Uno dei motivi è che ci sono più giornalisti statunitensi che scrivono dell’argomento dal Messico che nel proprio paese. Dopo essere stato estradato negli Stati Uniti, attraverso gli avvocati, il figlio del Mayo ha accennato alla possibilità di rivelare con documenti ufficiali che il cartello di Sinaloa aveva agito in collaborazione con la Dea, l’Fbi e l’Ice (l’agenzia per il Controllo dell’immigrazione e delle dogane). In particolare, in una delle sue memorie aveva menzionato il direttore regionale della Dea per il Sud America, quello per il Messico e una serie di agenti assegnati all’Ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico e ai consolati di Hermosillo e Monterrey. Secondo i documenti del processo resi pubblici, l’intermediario di quegli accordi era un avvocato di nome Humberto Loya Castro, che avrebbe gestito il presunto accordo tra il cartello di Sinaloa e il governo degli Stati Uniti tra il 2004 e l’arresto del Vicentillo. L’accordo avrebbe previsto che in cambio di un non intervento da parte delle forze dell’ordine statunitensi nelle operazioni del cartello di Sinaloa e del fatto che El Mayo ed El Chapo non sarebbero stati arrestati, l’organizzazione criminale avrebbe fornito a Washington informazioni sulle altre organizzazioni coinvolte nel traffico di droga. Il processo al Vicentillo che avrebbe dovuto rivelare queste accuse ha continuato a essere rinviato per quattro anni, parallelamente al negoziato che si è concluso con un accordo di cooperazione tra accusa e il figlio del Mayo. Secondo l’accordo, quest’ultimo si sarebbe dichiarato colpevole di accuse di minor peso e avrebbe accettato di collaborare come testimone in altri processi come quello al Chapo in cambio di una riduzione della pena e di protezione alla moglie e ai figli da parte del governo americano. È così che, durante il processo a New York, quando il Vicentillo ha preso la parola per testimoniare contro il padre ed El Chapo (che tuttavia ha indicato come compare), l’avvocato, come ha fatto durante tutto il processo, ha ripetuto che gli sembrava sorprendente che El Mayo fosse ancora libero e che se lo spiegava con il fatto che il capo aveva corrotto tutto il governo messicano e che il figlio aveva un accordo speciale con gli Stati Uniti. «Che cosa fa tuo padre?», ha chiesto l’avvocato a Vicentillo a un certo punto. Il primogenito della famiglia Zambada non ci ha pensato molto prima di rispondere. «Mio padre è il capo del cartello di Sinaloa». Traduzione di Marina Parada

·         La Mafia Colombiana.

TANTA VOGLIA DI ESCOBAR. DAGONEWS l'11 novembre 2019. Al noto signore della droga Pablo Escobar piacevano i bagni molto puliti e aveva un armadio pieno di lingerie in pizzo e sex toys: è quanto rivelano nel libro “Manhunters: How We Took Down Pablo Escobar” Steve Murphy e Javier F. Peña, i due agenti della DEA inviati in Colombia per aiutare il governo a bloccare il cartello di Medellin. Il boss colombiano dei narcos gestiva un impero che fruttava milioni di dollari tra omicidi di agenti e civili. Il regno del terrore di Escobar, che è durato per anni, è finito quando venne ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati su un tetto nella sua città natale di Medellin nel dicembre 1993. Due degli agenti federali americani che hanno aiutato le autorità colombiane a rintracciare Escobar, che all'epoca era uno degli uomini più ricchi del mondo, hanno scritto un libro che rivela dettagli personali del fuorilegge. In particolare si tratta di un viaggio all’interno della "prigione" che il signore della droga aveva costruito per sé stesso dopo essersi arreso alle autorità colombiane nel 1991. Il governo colombiano non è riuscito a fermare Escobar, che ha corrotto ufficiali di polizia e alti funzionari delle forze dell'ordine. Maggiore era lo sforzo che le autorità colombiane esercitavano per frenare Escobar, maggiore era la violenza che scatenava nel Paese. Nel 1991, il governo ha cercato di salvare la faccia convincendo Escobar ad "arrendersi" in una struttura carceraria che lui stesso ha costruito in cambio di un impegno delle autorità a non estradarlo negli Stati Uniti. La prigione, conosciuta come La Catedral, veniva chiamata anche "Hotel Escobar" o "Club Medellin" per via dei servizi che includevano un campo da calcio, una casa delle bambole, un bar, una jacuzzi e una cascata. Da lì il signore della droga continuava a gestire i suoi affari. Nell'ufficio di Escobar gli agenti hanno trovato «indumenti da notte in pizzo e sex toys, compresi  vibratori, tutti disposti ordinatamente in un armadio. La prigione era praticamente ciò che sospettavamo: un country club pieno di oggetti di lusso, come televisori all'avanguardia, frigoriferi e apparecchiature stereo». Escobar non dormiva mai nello stesso posto per più di due notti consecutive: «Usava i cottage vicini per le feste tutti arredati magnificamente con rivestimenti lussuosi. In uno aveva fatto costruire un bagno bunker con pareti di 90 centimetri. Tutti i bagni erano puliti ed erano nuovi di zecca. Le stanze della prigione erano ordinate. Su un tavolo c’erano pile di banconote e lingotti d’oro. C’era anche una pistola fatta di oro massiccio». Escobar aveva anche una serie di “figurine” di agenti di polizia colombiani: un modo per ricordarsi che aveva le forze dell’ordine in pugno. Aveva anche raccolto tutti gli articoli di giornali che parlavano di lui. Pile di libri rilegati in pelle.  C’erano anche decine di lettere di madri che offrivano le loro figlie per fare sesso con il signore della droga. Nonostante le sue donne, Escobar era "devoto ai figli". Suo figlio, Juan Pablo, all'epoca aveva 14 anni e sua figlia Manuela aveva circa sette anni: per loro aveva costruito una sorta di spazio all’aperto dove giocare. Il governo ha annullato l'accordo con Escobar dopo che ha appreso che il signore della droga aveva  torturato e ucciso quattro dei suoi uomini all'interno della struttura. Un raid per imprigionarlo fallì e il signore della droga fuggì. Venne ucciso cinque mesi dopo dai soldati in un quartiere della classe media di Medellin.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Non è mafia...

Per i giudici non è un mafioso, ma è detenuto ancora al 41 bis. Nicola Simonetta attende dal 28 ottobre la revoca della misura. Damiano Aliprandi il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. Può accadere che al regime del 41 bis, la frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato, vi sia rinchiuso un detenuto che non appartiene alla criminalità organizzata e tantomeno al terrorismo? La risposta è sì. Si tratta di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41 bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. In sostanza il 41 bis gli viene considerato applicabile anche se due sentenze processuali hanno reso evidente l’assenza di coinvolgimenti in contesti mafiosi. La più importante, di secondo grado, c’è stata il 28 ottobre scorso che ha riformato la precedente, proprio quella che gli ha fatto scattare il 41 bis: da promotore di associazione semplice ( e non mafiosa) a mero reato di partecipante all’associazione per lo spaccio prevista dall’art. 74 dpr 309/ 90, escludendo anche l’aggravante mafiosa. Infatti da 27 anni di carcere, la pena è stata ridotta a 13. L’altra, relativa ad altro procedimento, è stata pronunciata in primo grado e lo ha assolto dal vincolo associativo. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha fatto quindi istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Del caso è stata informata anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. L’avvocata Lombardo spiega a Il Dubbio che il ministro non solo non ha disposto la revoca, ma non ha dato alcuna risposta in merito. «Dovrebbe essere un atto dovuto, così come ad esempio è accaduto con Massimo Carminati – spiega la legale -, quando essendo decaduta l’associazione mafiosa, giustamente gli è stato prontamente revocato il 41 bis. Non comprendo perché ciò ancora non sia avvenuto con il mio assistito». L’avvocata Lombardo sottolinea anche il fatto che non può fare nulla, nemmeno una istanza alla magistratura di sorveglianza di Roma competente per il 41 bis, visto che non ha ottenuto ancora nessuna risposta formale dal ministero della Giustizia. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41 bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italo- americano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. «Tant’è che nell’inerzia delle parti – sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014». In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe – pur non comparendo mai – occultamente coordinato il traffico che altri ( Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Rimane il dato oggettivo che Simonetta non ha nessuna condanna per mafia, non risulta appartenente a nessuna ‘ ndrina, ma è tuttora al 41 bis. L’avvocata Maria Elisa Lombardo chiede la revoca immediata, altrimenti non rimane che ricorrere alla Corte Europea di Strasburgo.

Mafia (di Lirio Abbate). Per la Cassazione non è "Mafia capitale". Ma nella pratica quotidiana le vittime temono questa organizzazione tanto quanto in Sicilia temono i boss di Cosa nostra o in Calabria quelli della ’ndrangheta. Ogni settimana sull'Espresso, un termine commentato da una grande firma o una personalità. L'Espresso il 24 ottobre 2019. I giudici della Cassazione hanno deciso che a Roma non c’è mafia Capitale, ma due organizzazioni criminali semplici che hanno avuto in pugno la città sia sul lato politico che su quello malavitoso del “mondo di sotto”. Attraverso la forza dell’intimidazione portata avanti dalla figura del fascista Massimo Carminati, forte del suo passato violento e sanguinario, a Roma politici e burocrati si sono piegati ai voleri milionari di Salvatore Buzzi, l’uomo della sinistra, il re delle coop, che ha fatto affari con l’uomo nero e con lui ha diviso i guadagni a sei zeri, incassati sempre in nero. E poco importa della paura delle vittime che i giudici di primo grado hanno potuto constatare direttamente in aula quando sono state chiamate a confermare le minacce di morte, le intimidazioni o la violenza subita. Per tutti loro è bastato uno sguardo da parte degli imputati per sostenere che non ricordavano più nulla. E quando gli veniva fatta ascoltare l’intercettazione delle minacce preferivano la falsa testimonianza pur di non accusare in aula nessuno. E allora, non si vorrebbe dare ragione al trafficante internazionale di droga divenuto collaboratore di giustizia che in fase preliminare ha accusato Carminati e i suoi uomini, salvo poi ritrattare quando i giudici lo hanno chiamato a deporre. Ai carabinieri ha detto che se avesse confermato le accuse a Carminati sarebbe stato ucciso, perché non occorre essere minacciati direttamente da lui, ma come ha sottolineato bastava il semplice fatto che le sue dichiarazioni potevano servire a inchiodarlo al processo. Questo rappresentava una sentenza di morte. Dunque non ha parlato, ha scelto piuttosto di andare sotto processo per falsa testimonianza e calunnia. È il frutto della convenienza, dell’assoggettamento e dell’omertà. Del metodo applicato dal clan di Carminati, che è sempre attivo, tutti hanno ancora terrore. Potrà dunque non essere definita mafia dagli Ermellini, ma nella pratica quotidiana le vittime temono questa organizzazione tanto quanto in Sicilia temono i boss di Cosa nostra o in Calabria quelli della ’ndrangheta.

Il caso. Mafia Capitale, il terrore del testimone: "Se accuso Carminati duro una settimana". Dopo le condanne in appello, il caso del "cecato" arriva in Cassazione. Con il suo bagaglio di minacce, collusioni e intimidazioni ai testimoni. Ecco un retroscena inquietante Lirio Abbate il 14 ottobre 2019 su L'Espresso. La forza mafiosa di Massimo Carminati fino al giorno del suo arresto era nota a Roma da imprenditori, politici, commercianti, professionisti e criminali di ogni specie e clan. E ognuno di loro conosceva il metodo e l’operato del “cecato” e dei suoi gregari di cui era risaputo anche il sistema illecito di arricchimento. Tutto ciò verrà discusso davanti alla Cassazione il 16 e 17 ottobre, quando i giudici saranno chiamati a decidere se questa di Carminati è associazione mafiosa come l’ha definita la Corte d’appello di Roma. Molti interessi economici e criminali dipendono da ciò che verrà deciso dagli “ermellini”. Nonostante ciò che è emerso dal processo - con filmati e intercettazioni audio che dimostrano la prevaricazione, le minacce, le intimidazioni, le collusioni con pubblici funzionari e politici, e la paura delle vittime, tanto da farle ritrattare davanti ai giudici perché hanno ancora oggi timore degli imputati - si fa ancora fatica a parlare pubblicamente a Roma dell’esistenza di questa mafia autoctona. Il senso di tutto ciò è dato da quello che ha spiegato ai carabinieri il trafficante internazionale di cocaina Roberto Grilli, che prima ha collaborato con la giustizia, accusando Carminati e i suoi complici, ma poi - quando è stato chiamato a deporre in aula davanti a tutti gli imputati - ha avuto paura. Lamentando il fatto di non essere stato protetto, Grilli ha affermato che non sarebbe andato a confermare le accuse perché altrimenti sarebbe stato ucciso. «Ha paura di Carminati?, chiedeva l’ufficiale dell’Arma; e il trafficante non sapendo di essere registrato rispondeva: «Di Carminati posso aver paura soprattutto se ho dichiarazioni che lo affossano». E all’investigatore ribadiva che, se fosse andato in tribunale ad accusare il “cecato”, «non sarebbe sopravvissuto una settimana». Infine, quando il carabiniere insisteva chiedendo se avesse ricevuto minacce dirette o indirette da Carminati, Grilli chiariva: «Ma non serve, so di cosa stiamo parlando. Il mio profilo basso tenuto fino adesso a Roma mi ha garantito di stare in vita, dopo la mia testimonianza non lo sarei più». Il trafficante internazionale di cocaina Roberto Grilli, che prima ha collaborato con la giustizia accusando il Cecato e i suoi complici, ma poi ha avuto paura. Leonardo Sciascia diceva che l’idea di scrivere “il giorno della civetta” gli venne dopo aver assistito ad un dibattito alla Camera su un fatto di cronaca legato alla mafia. E raccontava quel che della mafia poteva conoscere un siciliano: «I capi non solo non cercavano di nascondersi, ma persino si esibivano. Non pronunciavano e non accettavano la parola mafia, amavano sostituirla con la parola amicizia. E facevano sfoggio di una filosofia pessimistica e scettica nei riguardi dei loro simili, della società, delle istituzioni. Le istituzioni, da parte loro, negavano l’esistenza in Sicilia di una vasta ed efficiente associazione per delinquere denominata mafia: e con argomenti non dissimili di quelli di Luigi Capuana quando, contro l’inchiesta Franchetti-Sonnino (due deputati nazionali che presentarono in Parlamento una relazione destinata a passare alla storia. È la prima indagine documentata sulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola dopo l’Unità d’Italia, descrivendo la potenza della mafia e dei suoi collegamenti con la politica), scrisse “L’isola del sole”». Le ferite provocate da Carminati con la forza di intimidazione, le infiltrazioni nella politica e nella pubblica amministrazione, nell’inquinamento dell’economia legale, sono ancora aperte, e i romani, ma soprattutto le vittime, lo ricordano e ne hanno ancora paura.

Mafia Capitale da caso giudiziario già diventa materia per tesi di laurea. Il Dubbio l'1 Novembre 2019.  Studio dell’università di Milano sulla inapplicabilità del 416 bis. «Abbiamo indagato l’evoluzione del fenomeno corruttivo», spiega il correlatore Antonio Bana. Ma resta l’assenza dell’ «esplicitazione degli atti violenti» tipici delle mafie propriamente dette. Il “mondo di mezzo” è già passato da topos della cronaca giudiziaria a materia di ricerca scientifica. Nel luglio scorso, in particolare, il “sistema” emerso dall’indagine su Mafia capitale è stato argomento di una tesi di laurea discussa all’Università di Milano. Titolo: “La criminalità corruttiva: dalla percezione di un fenomeno alla prevenzione di crimine senza confini”. «La decisione di dedicare una tesi a quest’argomento è stata presa con l’obiettivo di focalizzarne tutti i principali aspetti», spiega l’avvocato Antonio Bana, correlatore della tesi, del dipartimento di Scienze giuridiche dell’ateneo milanese. «Con il lavoro di Ivan Cartocci abbiamo cercato di indagare sull’evoluzione del fenomeno corruttivo anche alla luce di quello che è stato definito il ‘ mondo di mezzo’, e che è passato al vaglio di vari gradi di giudizio fino alla sentenza della Cassazione», spiega Bana, cultore degli aspetti criminologici della materia e già autore di studi su tangentopoli e reati contro la Pa. Mafia Capitale, si legge nella tesi, «ha acquisito una fisionomia del tutto insolita di organizzazione criminale evoluta a un nuovo stadio, in cui il ricorso alla violenza esplicita è limitato alle situazioni di necessità impellente e in cui il core business non riguarda più i reati tipici dei sodalizi mafiosi, ma è costituito dagli affari e dagli appalti pubblici, attraverso un ulteriore collegamento, questa volta clandestino, con l’alta finanza e la politica». Ma rispetto alla «metamorfosi» da «criminalità violenta a criminalità affaristica», lo studio condotto a Milan non recupera in modo acritico la tesi dell’applicabilità del 416 bis. Tanto da dare ampio spazio alle valutazioni, riportate con un’intervista, dell’avvocato Valerio Spinarelli, che è stato presidente dell’Unione Camere penali e che nel processo sul “mondo di mezzo” ha difeso Luca Gramazio. Si è trattato «di un "esperimento di ingegneria giudiziaria" che forza la lettera della legge», sono alcune delle considerazioni di Spigarelli riportate nella tesi, «dimenticando sostanzialmente che l’avvalimento della forza dell’associazione di tipo mafioso deve essere esplicato, ovvero deve esistere una mafia riconosciuta e riconoscibile che si avvale realmente di questa forza di intimidazione in un determinato contesto non necessariamente spaziale». La tesi giuridica «dell’esistenza di una mafia che non esplichi mai nel territorio atti di violenza, ma richiami un sorta di accumulazione del patrimonio delinquenziale di una persona» sarebbe però «una costruzione che non tiene conto dell’articolo 416 bis nella parte in cui richiede un’esplicitazione diretta e non potenziale, cosa che non è riscontrabile in Mafia Capitale».

Fulvio Abbate per ilriformista.it il 13 dicembre 2019. Ventisette anni fa se ne andava Franco Franchi, l’altra parte, il doppio, di Ciccio Ingrassia, palermitani, pezzi unici di un mondo che aveva trovato nell’espediente comico la possibilità di sfuggire, trascendere la fame. Massimo Benenato, suo figlio, racconta adesso che Franco (Franchi è il nome d’arte) si sarebbe ammalato in seguito alle accuse di contiguità con i mafiosi, contestazioni dalle quali si vide infine completamente prosciolto. Gli si imputava d’essersi esibito in occasione di alcuni banchetti di nozze di gente di mafia. L’uomo ne aveva molto sofferto, la persona non se ne capacitava. Di lui ho ricordi affettuosi, netti, cominciando dalla mia memoria di bambino, con nonno, al cinema “Eden” di via Antonio Furitano, a Palermo, non c’era film della coppia che non vedessi, e ancora, molti anni dopo, ricordi diretti, io e lui insieme, nel “suo” bar di piazza Cantù, a Roma, dove l’Appia Nuova sembra indicare la direzione per i Castelli, e lì accanto, subito a sinistra, appare via delle Cave, dove Franco abitava insieme alla famiglia. Anche Ciccio Ingrassia risiedeva nei pressi, la stessa Roma che sfiora San Lorenzo e i Cessati Spiriti, in via dei Monti Tiburtini, luoghi che Renzo Vespignani ha messo in pittura. Quasi tutte le sere, lo raggiungevo lì, Franco seduto dietro la cassa, il trench blu e, come mitria cardinalizia, un feltro Borsalino color vinaccia avuto in dono dal principe de Curtis, Totò, lo stesso che gli aveva insegnato un modo perfetto per descrivere i limiti dei colleghi: «Ha tre note, e le altre quattro dove sono?». Era meraviglioso guardare Blob insieme, sovente trasmettevano la sua convinta interpretazione di “If” di Kipling – «Se sei capace di mantenere la testa quando tutti vicino a te la perdono, e se la prendono con te. Se sei capace di fidarti di te stesso quando tutti gli altri ne dubitano, ma tenendo conto anche del loro dubbio» – in quella circostanza lo mettevo ingenuamente in guardia, gli dicevo: «Franco, ti stanno prendendo per il culo, lo sai?». Non era vero, aveva ragione lui, era un omaggio proprio all’attore da parte di Raitre, anche Angelo Guglielmi lo apprezzava molto. Franco, pochi lo sanno, aveva passione per la astronomia, ho detto astronomia, non astrologia, dunque nessuno zodiaco, semmai il cosmo, i pianeti, le ipotesi del “Big Bang”, Franco diceva: «Non sarà che, a un certo punto, Dio ha tirato lo sciacquone e da quel gesto è nato tutto?», avrebbe voluto anche portare questo suo interesse scientifico in scena, farne un suo film, così gli regalai un libro fotografico che da anni, mai sfogliato, custodivo in casa, Catalogo dell’universo di Paul Murdin e David Allen; lo gradì molto. Si sentiva amareggiato per le accuse di mafia: raccontava di essere stato ricevuto da Giovanni Falcone e che questi lo rassicurò. Sembra anzi avergli detto testualmente: «Io non ho niente su di lei sulla mia scrivania, torni pure a casa tranquillamente e non ci pensi più». Con Franco Franchi, da palermitani a Roma, era altrettanto meraviglioso andare a spasso, sconfinare dall’Appio Tuscolano fino a via Veneto: e che ridere, che senso di felicità liberatoria, da palermitani nel cosmo, sentirgli rispondere a un acchiappino che provava a offrirci delle passeggiatrici in abito da sera verde matrimoniale con un meraviglioso “Suca!”.Anche quella sera Franco indossava il feltro avuto in dono da Totò. Era malinconico, come sempre accade ai maestri di comicità: Franco la indossava, sapeva vestirla, e intanto, parlando di smacchi professionali, raccontava l’offerta di un ruolo ne Il nome della rosa, peccato che l’avessero truccato rendendolo irriconoscibile, da qui il suo rifiuto. Ora che ci penso, ci eravamo però conosciuti a Palermo, nel 1979, nella sua casa affacciata sul porto, mi aveva accolto in accappatoio, di un arancione squillante, i capelli resi ricci dalla permanente per ragioni di copione, diceva «… li ho così perché voglio imitare Gheddafi, siamo identici, abbiamo la stessa faccia, se mi ci metto, peccato che non me lo facciano fare per ragioni politiche». Alle sue spalle, un ritratto in costume da nobile in parrucca del tempo della rivoluzione francese, cimelio scenografico dell’avventura cinematografica di I due sanculotti. Lo stesso giorno raccontava di quando, insieme a Ciccio Ingrassia, avevano recitato con Buster Keaton nel film Due marines e un generale, loro i marines, Keaton era invece ufficiale della Wehrmacht, così in attesa di ritrovare i panni del tempo perduto del muto addosso a uno spaventapasseri. Era una pellicola diretta da Luigi Scattini nel 1965, dove l’attore pronuncia perfino una parola, un “Grazie”, allontanandosi poi di schiena, proprio come al tempo della gloria. La signora Keaton raccontava loro che Buster viveva decorando una sorta di piatti del buon ricordo, vendendoli tirava avanti; con Ciccio, da palermitani nel cosmo del cinema, Franco diceva di avere provato timidezza davanti a un colosso di Hollywood trasmigrato, come un povero derelitto, fin dentro il sonoro in technicolor dell’Italia degli anni Sessanta. Raccontava poi l’incontro con Pier Paolo Pasolini durante la lavorazione di Che cosa sono le nuvole?, il volto serio, l’intelligenza, la cultura, la gentilezza, e di come si fossero sentiti risarciti grazie a quel film che parodiava la storia di Otello. Raccontava ancora di quanto il cinema italiano avesse sfruttato il loro successo ai botteghini, salvo poi, da un certo punto della storia nazionale non solo cinematografica, quasi abbandonarli, come scarti comici, strada facendo. L’ho detto che era malinconico? L’ho detto che mi mostrava le analisi cliniche appena ritirate aggiungendo che il medico lo aveva comunque rassicurato riguardo allo stato del suo fegato? Lo stesso fegato che infine lo ha tradito. Poi, se non l’ho ancora detto, va aggiunto che era uno straordinario pittore, con i pastelli a olio realizzava disegni mirabili, degni del più struggente realismo magico, gli servivano, quasi come ex-voto, a raccontare se stesso e la sua storia sul palcoscenico, la sua avventura di comico miracolato dal talento, in uno di questi Franco appare in primo piano, dietro c’è Ciccio che lo cinge con lunghe braccia e mani sottili da lucertola, in quel pastello che mostra l’entusiasmo degli esordi in strada, a Palermo, tra palchetti poveri e il marciapiede antistante il cinema “Finocchiaro”, Franco e Ciccio sembrano dirsi: dai, ce la faremo, riusciremo anche questa volta, a sopravvivere alla fame. Non ho detto però con esattezza che sia Franco sia Ciccio venivano da una Palermo profonda, e la fame raccontavano di aver la partita, facendo ogni genere di mestieri, anche il “panellaro”, e mentre diceva così, proprio lui, Franco, riproduceva il gesto di tirare fuori proprio le panelle dall’olio bollente… Straordinario era anche nel modo di approcciarsi alla clientela notturna, da una certa ora infatti il bar Cantù vedeva passare ogni genere di bestiario umano, con lui bravissimo a rintuzzare anche gli avventori di una Roma a perdita d’occhio. Poi, Ciccio, compagno di strada ma anche, per ragioni caratteriali, la sua croce. Se Franco Franchi infatti era il palermitano forte di una generosità comica che si riverberava anche negli autografi dove appariva la sua caricatura, l’altro, Ciccio Ingrassia, riassumeva il siciliano “inglese”, a suo modo ombroso, un rapporto, al di là della separazione che avrà infine luogo, riassumibile nella volta in cui Franco telefona all’amico, al sodale, al fratello di scena per dirgli esattamente così: «Ciccio, ci vuole Raffaella Carrà a Domenica in, che dici andiamo?». E Ingrassia, di risposta: «No, domenica non posso, semmai lunedì». Mentre raccontava questo dettaglio Franco, alla fine, vinto, arreso, aggiungeva scuotendo la testa: «… che vuoi che dirgli a uno che ti risponde in questo modo? Eppure aveva un ottimo mestiere prima di mettersi a fare l’attore, era bravissimo a tagliare le suole delle scarpe…». Anni fa, Franco Maresco e Daniele Cipri vollero fare loro un omaggio, un film-tributo intitolato Come inguaiammo il cinema italiano, per riassumere l’epica del tempo in cui la coppia riempiva le sale di quartiere, così come avveniva al “mio” cinema “Eden”, a Palermo, nei giorni dell’infanzia; mi sembra di rivederli in I due figli di Ringo o piuttosto nella parodia della serie di 007, con Franco che emerge dalla riva, una gallina sulla testa, mimetizzato come accade altrove a Sean Connery, l’originale. Che sensazione infine d’irriproducibilità di un tempo, dell’Italia al mattino, quando bastava sentir dire “soprassediamo” per esplodere in una risata, era un attimo appena e immediatamente Franco saltava in braccio all’amico, raccontava, proprio Franco, che nei tribunali, i cancellieri, dovettero cassare quest’espressione procedurale perché ogni qualvolta veniva pronunciato un “soprassediamo” perfino il reo, il povero imputato dai ceppi ai polsi, non riusciva a smettere di ridere.

Cavallotti: Una storia di Mafia dell'Antimafia. Scrive il 15 Aprile 2018 Germano Milite. Germano Milite. Giornalista professionista. Partendo dalla televisione, ha poi lavorato come consulente in digital managment per aziende italiane ed internazionali. E' il fondatore e direttore di YOUng. Ama l'innovazione, la psicologia e la geopolitica. Detesta i figli di papà che giocano a fare gli startupper e i confusi che dicono di occuparsi di "marketing". Immaginate di finire in carcere (per due anni) con la pesantissima accusa e relativa condanna penale per associazione mafiosa. È il 1998. Dopo “soli” 8 anni, nel 2010, quell’accusa tanto infamante e devastante cade completamente e venite dichiarati innocenti. La sentenza della Cassazione, che rinvia ad altra sezione della Corte D’Appello, ribalta infatti le pronunce di colpevolezza in primo e secondo grado e parla di assoluzione definitiva, non lasciando spazio a dubbi. Insomma: vi siete fatti due anni di galera da innocenti ed avete affrontato quasi 10 anni di processi, ovviamente a vostre spese. Già questo, converrete, potrebbe bastare per farvi impazzire di rabbia e dolore. Purtroppo, però, la mafia dell’antimafia con voi ha appena iniziato, anche perché avete la “sfortuna” di fare gli imprenditori in Sicilia, ergo di poter essere sottoposti con incredibile leggerezza e facilità anche alle consuete misure preventive che sequestrano le vostre case e ovviamente la vostra (in quel momento) florida azienda. Attenzione, da qui leggete perché iniziamo ad entrare in un mondo delirante quanto iniquo: queste misure viaggiano difatti su un binario parallelo rispetto a quello che riguarda il processo penale. Come vedremo quindi, in un autentico regime di giurisprudenza sclerotica, lo stesso organo potrà dirvi allo stesso tempo che non siete mafiosi, ma che comunque i vostri beni devono rimanere in confisca. Innocenti e colpevoli al tempo stesso, con la differenza però che non esistono prove ed indizi sulla vostra colpevolezza. Questo secondo binario legato ai vostri beni, comunque, iniziate a percorrerlo un anno dopo aver intrapreso il viaggio nel processo penale per mafia. È il 1999 e questa via crucis si protrae, in un crescendo di violenza giudiziaria indecente e disumana, fino ad oggi.

SEQUESTRATA ANCHE LA PRIMA CASA: CASSAZIONE CHE CONTRADDICE SE STESSA. Voi e la vostra famiglia perdete persino la cosiddetta “prima casa”. Però vi armate di coraggio e, visto che la sentenza prima citata vi assolve definitivamente e che voi sapete di essere innocenti, fate appello al Tribunale di Palermo e chiedete di fare due cose semplicissime: 1. Analizzare le nuove prove emerse, che dimostrano in maniera chiara la vostra innocenza. 2. Restituire i beni confiscati ingiustamente. Il PM però a quel punto cosa fa? Esclama pubblicamente e senza alcun timore che questa cosa non si può fare perché altrimenti “crollerebbe tutto il sistema di prevenzione”. Questo nuovo ricorso, vede la parte di magistratura “buona” darvi ragione, con il procuratore Generale (ovvero la pubblica accusa) che riconosce sia che non esistono neppure prove indiziarie della presunta collusione tra voi e la mafia, sia che siete addirittura voi stessi vittime della malavita organizzata. In altri termini, il PG vi pone ufficialmente dall’altro lato della barricata: vittime, non complici. Il Giudice, però, incredibilmente ignora del tutto il pronunciamento e conferma la confisca data in primo grado. A quel punto, stremati ed increduli, fate un altro ricorso alla Corte di Cassazione che, reggetevi forte: contraddice la sua precedente sentenza di assoluzione dal reato penale e ritiene inammissibile il ricorso per il dissequestro dei beni. Cioè: lo stesso organo vi dice che non siete mafiosi, ma non vi restituisce i beni ingiustamente confiscati.

DITTATURA GIUDIZIARIA. Ci sarebbe da ridere, se questa vicenda non fosse vera e non avesse fatto piangere lacrime amare a centinaia di famiglie (sì: centinaia, solo in questo caso e senza contare i fornitori non pagati dall’amministrazione giudiziaria). Insomma: numerosi innocenti sono stati ingiustamente colpiti in maniera diretta ed indiretta da misure antimafia, vedendo le proprie vite rovinate ed i propri patrimoni onestamente guadagnati andati in fumo, questa cosa è stata appurata ed ufficializzata da una sentenza della Cassazione, ma un Pubblico Ministero dice chiaramente che bisogna comunque tenere in piedi questa imperdonabile e criminale ingiustizia per preservare il “sistema”. In più, la Cassazione stessa si contraddice e vi proclama sia innocenti che colpevoli. Un capolavoro degno di un paese sotto dittatura giudiziaria. A proposito: notate differenza tra questo sistema (antimafia) ed il vero sistema mafioso che si dovrebbe combattere? A conti fatti non sembrano essercene poi tante.

COLPITE (INGIUSTAMENTE) ANCHE LE AZIENDE DEI FIGLI. Intanto, negli anni trascorsi tra la varie battaglie legali, i vostri figli e nipoti si sono rimboccati le maniche ed hanno cercato di portare avanti la tradizione di famiglia, aprendo anche loro un’azienda. Corre l’anno 2006: appena 20.000 euro di capitale sociale per iniziare, con solo 5000 effettivamente versati. Del resto, dopo i duri colpi subiti dalle operazioni antimafia che si sono poi rivelate anti-umane, da investire rimaneva ben poco. Eppure, nonostante tutto, succede quasi un miracolo: quella nuova impresa inizia ad avere le prime commesse, grazie ovviamente al buon nome che quella famiglia aveva presso fornitori e clienti. La situazione sembra quindi migliorare rapidamente ed almeno figli e nipoti iniziano a ricostruirsi una vita. Ma è a questo punto che la verità supera la più terribile fantasia e…scatta una nuova misura di prevenzione e sequestro, questa volta sull’azienda dei figli. A causarla è la segnalazione dello stesso amministratore giudiziario che aveva pessimamente gestito l’impresa precedentemente confiscata (passata come detto da florida a fallita). Lo stesso che aveva chiesto ai proprietari defraudati di “mettersi d’accordo” senza tirare in mezzo avvocati e ricorsi, per fare andare le cose “con serenità”. Incassato il rifiuto di quelle persone oneste ed innocenti e proprio per questo convinte di non dover cedere a ricatti ed accordi sottobanco, l’amministratore sembrerebbe aver deciso di utilizzare una vendetta trasversale, colpendo appunto figli e nipoti di chi aveva osato opporsi alle sue proposte indecenti (tutte confermate da registrazioni).

UN SEQUESTRO SCATTATO CON ARGOMENTAZIONI FALSE. Ma con quali argomentazioni viene richiesta questa nuova misura di “prevenzione”? Due, entrambe clamorosamente false: la prima parla di una presunta azione di “concorrenza” posta in essere dai figli nei confronti dell’azienda dei padri, ancora attiva anche se come detto in situazioni disastrose. La seconda parla addirittura di un capitale sociale di oltre 1 milione 200.000 euro interamente versati per la società neocostituita, sostenendo che una somma così importante non poteva provenire da ragazzi tanto giovani, essendo quindi per forza di origine malavitosa. Come detto, però, entrambe le affermazioni sono completamente false: lo stesso amministratore ritratterà infatti l’accusa di regime concorrenziale parlando di mera “potenzialità” che quest’ultimo si verificasse. Peccato che neppure questa potenzialità poteva sussistere, dato che il ramo d’azienda potenzialmente concorrente dei padri, era stato totalmente dismesso/ceduto nel 2001, quindi ben 5 anni prima. La visura camerale, visibile da chiunque, inoltre conferma poi ciò che abbiamo scritto inizialmente: il capitale sociale iniziale era di appena 20.000 euro, di cui solo 5.000 versati. L’aumento c’è stato, ma solo diversi anni dopo, a seguito dell’ottima amministrazione dei titolari e della loro grande esperienza familiare nel settore. Ancora: chi è colpevole, perché dovrebbe esporsi in maniera così eclatante operando un aumento di capitale con somme provenienti da fonti illecite? Tra l’altro dopo aver già subito dure misure giudiziarie in famiglia?

RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DICHIARATO AMMISSIBILE. La storia (surreale) che abbiamo raccontato fin qui è quella della famiglia Cavallotti, che di recente ha anche fatto ricorso alla Corte Europea per chiedere almeno il dissequestro dei beni ingiustamente confiscati. E, indovinate? A differenza di quanto avviene nel 90% dei casi, la Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso e lo prenderà quindi in esame. Peccato che, nel frattempo, una delle case sottoposte alle misure preventive sia già stata saccheggiata, con tutti gli immobili privati comunque già assegnati all’Agenzia del Demanio o alla Prefettura. Un dettaglio non da poco, visto che qualora tali immobili fossero indirizzati ad uso pubblico, nessuno potrebbe mai più restituirli ai legittimi proprietari, anche in presenza di un pronunciamento ufficiale della Corte Europea. Per lo Stato, in questo caso e purtroppo altri casi di mala-giustizia, non esiste dunque alcuna presunzione d’innocenza. Prima si sconta la pena e si subiscono misure da induzione al suicidio e poi, dopo una almeno decina d’anni, se va bene si viene assolti e si riceve (forse) indietro la propria impresa. Peccato che, gli amministratori giudiziari, nel frattempo abbiamo ridotto quell’azienda un tempo in crescita un ammasso di debiti e macerie.

QUANDO L’ANTIMAFIA SI MUOVE COME LA MAFIA. Di più: la longa mano di amministratori e tribunali che troppo spesso, per lottare contro la mafia, utilizzano metodi mafiosi che colpiscono gli innocenti, ghermisce e distrugge anche ciò che figli e nipoti hanno creato con sudore e sacrificio. Insomma: se tuo padre è anche solo sospettato di essere un mafioso, nonostante sia stato poi assolto, qualcuno potrà presentare prove ed argomentazioni false per sequestrare con incredibilità facilità e rapidità anche le nuove aziende che hai tirato su, con anni di duro lavoro. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che siamo al cospetto di una serie inconcepibile ed intollerabile, che sfiora il vero e proprio sadismo, di violazioni clamorose dei diritti umani. I Cavallotti sono forse il caso più eclatante, ma commetteremmo un errore se dimenticassimo di sottolineare le numerose altre aziende sane portate in liquidazione da amministratori che, come fossero superuomini, avevano in gestione decine di imprese diverse, in settori diversi e con situazioni di bilancio diverse.

UNA VICENDA CHE DOVREBBE INTERESSARE CHIUNQUE, PERCHÉ POTREBBE COLPIRE CHIUNQUE. Questa vicenda ha avuto comunque un’eco mediatica abbastanza forte, prima di tutto grazie alle IENE e poi anche grazie a realtà come “Il Dubbio” e a giornali come “Libero” che ne hanno parlato. Noi di YOUng non potevo mancare, sperando che finalmente qualcuno, in Parlamento, si decida a fare due cose che sono alla base di un paese che vuole definirsi civile: Punire severamente chi ha reiteratamente sbagliato a fare il proprio mestiere, mettendo parenti ed amici in ruoli chiave nelle aziende amministrate (sì: è successo anche questo) e portando dipendenti ed imprenditori al tentato suicidio, generando nuova disoccupazione in territori già difficili e di certo non ricchi. Cambiare le modalità di prevenzione, il “sistema” di cui parlava il PM citato in precedenza, in modo che nell’intento di combattere i mafiosi, non si possano mai più utilizzare metodi mafiosi ed in violazione di ogni principio giuridico moderno e diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Il nostro augurio è che, anche grazie al tam tam mediatico, il calvario infinito dei Cavallotti giunga presto al termine e rappresenti un punto di svolta per il futuro. Affinché questa enorme ingiustizia serva almeno ad evitare che se ne aggiungano altre. In ultimo, ci auguriamo che ogni imprenditore del sud (queste barbarie capitano proprio qui nel Meridione) si renda conto di dover prendere a cuore questa storia, perché potrebbe essere a sua volta colpito con le stesse modalità, senza potersi difendere, perdendo tutto ciò che ha costruito magari in decenni nel giro di pochi mesi e trovandosi anche a dover affrontare la galera insieme ad altre misure di grave limitazione della libertà individuali. Il tutto, da totale innocente: basta infatti una “segnalazione” e le misure scattano, esattamente come scattavano le ghigliottine che tagliavano teste, quando il concetto di presunzione d’innocenza era ancora o assente o molto poco considerato. E lo stesso dicasi per i dipendenti ed i collaboratori delle aziende del Sud: non siate indifferenti al cospetto di un simile scempio della giustizia e dell’umanità. Ieri e oggi è toccato ai Cavallotti. Se le leggi non cambiano, domani potrebbe toccare a voi o a qualcuno che amate.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno” l’8 maggio 20014. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse» anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan». Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

L'Emilia ostaggio dei clan che giudici e politici preferiscono non vedere. Dieci anni di mafia che diventano delinquenza comune. Un boss che non è più boss, nonostante da pentito abbia raccontato i segreti della 'ndrangheta. La sentenza d'Appello di Bologna riporta indietro di anni la lotta alle mafie. Giovanni Tizian il 30 ottobre 2019 su L'Espresso. «Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma». Leonardo Sciascia fa dire questo al suo capitano Bellodi nel “Il Giorno della Civetta”. La pressione del malaffare mafioso sale, risale la penisola, supera la Linea Gotica. E raggiunge l’Emilia Romagna, per esempio. Dove però la conoscenza giuridica delle Corti non è pronta né formata per leggere ciò che nel Sud ormai è ovvietà. C'è voglia di normalizzare lungo la via Emilia, che chiude una stagione di inchieste antimafia che hanno segnato la storia criminale della regione. Normalizzare per ripulirsi, per staccarsi l'etichette di terra di mafia come una qualunque Calabria o Sicilia. Normalizzare dopo gli scioglimenti per mafia. Non è un'impressione di chi osserva da lontano. È una riflessione di chi dal 2006 segue i fatti di mafia in Emilia Romagna. Di chi ne ha seguito l'evoluzione e il radicamento. Già, il radicamento, cosa ben diversa dall'infiltrazione di qualche sgherro dell'organizzazione. Con la sentenza di appello che condanna il gruppo Femia, autore anche delle minacce nei miei confronti, ma fa cadere il reato di associazione mafiosa, il 416 bis, si compie un salto indietro di dieci anni. Quando tutti, politici e magistrati, si affrettavano dopo ogni inchiesta giornalistica a dichiarare "tranquilli, abbiamo gli anticorpi". All'epoca ero un giovane cronista alla Gazzetta di Modena, alle prese con il racconto quotidiano delle mafie su quel territorio. Qualche anno prima del 2010 era prassi per i giudici sorvolare sul 416 bis. La loro tesi, in sintesi, era: noi ci occupiamo dei singoli criminali, non dell’organizzazione nel suo complesso, perché la mafia è una roba meridionale, che per il contesto in cui ci troviamo non potrà mai attecchire. Una tesi con dei tratti anche molto razzisti, verrebbe da dire: la 'ndrangheta è solo cosa di Calabria, la camorra è questione da napoletani. E così per molto tempo abbiamo raccontato di boss dei Casalesi o della ‘ndrangheta che nelle loro terre di origine erano accusati di associazione mafiosa, il 416 bis appunto, mentre in Emilia venivano processati per reati comuni il più delle volte senza neppure l’aggravante dell’articolo 7 (l’utilizzo del metodo mafioso). Eppure si trattava di personaggi di altissimo profilo, emissari dei padrini più influenti della camorra e della ‘ndrangheta. Il principio alla base di questa visione ristretta della magistratura emiliana era: in Emilia non c’è controllo del territorio, quindi non può esistere la mafia. Non bastavano né estorsioni né intimidazioni a fargli cambiare idea. L’Emilia doveva restare immune dal fenomeno, una questione di immagine. Arriviamo così al 2010. Alla procura di Bologna e alla distrettuale antimafia arriva Roberto Alfonso, esperto magistrato che ha lavorato in Sicilia e alla procura nazionale, gestendo collaborazioni delicatissime di pentiti di Cosa nostra. «Qui è più difficile indagare sui clan perché non è tutto bianco o nero, c’è una vasta zona grigia, dove tutto si mischia», le prime parole da capo dell’ufficio giudiziario segnano l'inizio di una nuova stagione. Che coincide con un salto di qualità delle indagini in Lombardia, Piemonte, Liguria. Fioccano le inchieste per mafia, la contestazione del 416 bis, i sequestri di beni, e in primo grado reggono le accuse. In questa nuova fase si inserisce il processo contro Nicola Femia, il capo dell’omonimo gruppo che ha fatto i milioni col business del gioco d’azzardo legale e illegale. Mi ero occupato di lui prima che partisse l’inchiesta giudiziaria denominata Black Monkey. Sulla Gazzetta di Modena avevamo pubblicato alcuni articoli sul personaggio, spiegando, sulla base di documenti giudiziari e societari, la sua parabola certamente anomala: dal narcotraffico a uomo d’affari delle slot e del poker online, al quale i Monopoli avevano concesso le omologazioni per le macchinette prodotto dalle sue società. Avevamo raccontato chi è Nicola Femia, detto “Rocco”: uomo legatissimo al clan Mazzaferro di Gioiosa Jonica, nella Locride, provincia di Reggio Calabria, e in stretto contatto con il clan dei Casalesi, a cui forniva le slot e le schede per i giochi d’azzardo online. A Femia il nostro lavoro di indagini giornalistiche dà fastidio. E si lamenta costantemente con il suo faccendiere, Guido Torello. In una telefonata registrata del dicembre 2011, i finanzieri del Gico della Guardia di Finanza di Bologna intercettano la frase, terribile, «Gli sparo in bocca e la finiamo qua». Da allora per me e la mia famiglia inizia un calvario, una vita sotto protezione, catapultati in una dimensione che ci ha fatto ripiombare negli anni in cui vivevamo in Calabria: l’omicidio di mio padre, ancora irrisolto, l’incendio del mobilificio di mio nonno, senza colpevoli. La ‘ndrangheta tornava nelle nostre vite, anche lontano dalla nostra terra, nella città, Modena, dove avevamo deciso di riparare per le troppe ingiustizie subite in Calabria. Otto anni sotto scorta, dicevamo. La protezione imposta d’urgenza, con il procuratore dell’epoca che si limita a dire ai cronisti: «La situazione è molto seria, Tizian va protetto». Poi arrivano gli arresti di Femia e dei suoi gregari, dei suoi figli, dei sodali, dei colletti bianchi. Viene diffuso l'audio del "Gli sparo in bocca". Emerge con forza la rete di “Rocco”, dai servizi segreti ai capi ‘ndrina della Lombardia. E poi il ruolo dei servitori infedeli dello Stato. La procura antimafia di Bologna nella richiesta di arresto del 2013 ipotizza il reato di associazione mafiosa più tutta una sfilza di delitti, dall’estorsione al riciclaggio. E le intimidazioni nei miei confronti. Che non si sono fermate neanche durante le udienze preliminari e del dibattimento. Femia continuava ad accusarmi di essere io l’artefice del suo arresto, della sua gloriosa fine imprenditoriale, da narcotrafficante a re delle slot d’Italia. In una delle memoria depositate al processo di primo grado chiedeva alle istituzioni di revocarmi la protezione per far risparmiare soldi agli italiani. In un’altra udienza ha pronunciato, invece, queste parole: «Se Femia ha sbagliato paga, ma se Tizian ha sbagliato paga anche Tizian». Senza contare le querele presentate nei miei confronti dopo l'arresto in seguito all’operazione antimafia di Bologna. Accuse di diffamazione, ovviamente, archiviate e che io non ho reso pubbliche perché volevo semplicemente riprendermi la mia vita e la mia libertà. In silenzio e senza clamori ho continuato a fare il mio mestiere, nulla di più. Il primo grado contro Femia si conclude con il riconoscimento dell’associazione mafiosa e del risarcimento alle parti civili (Tizian, Ordine dei giornalisti, Libera, e molti enti locali) per il danno prodotto dall’associazione mafiosa capeggiata da Nicola Femia, che viene condannato a 26 anni. Era il 22 febbraio 2017. Pochi giorni dopo il signore che si fa chiamare "Rocco", che per il tribunale di Bologna è a tutti gli effetti un boss mafioso, decide di collaborare con la giustizia. Riempie migliaia di pagine di verbali. Con le procure di Catanzaro, Bologna, Reggio Calabria, Roma, Napoli. Ripercorre 35 anni di ‘ndrangheta. Mette a verbale alcuni segreti del periodo dei sequestri di persona, accenna alle trattative con i servizi segreti per la liberazione degli ostaggi, circostanze apprese quando lavorava al servizio del padrino Vincenzo Mazzaferro, membro del gotha criminale calabrese. Racconta di quando la cosca Mazzaferro importava 3 mila chili di droga dal Sud America. Racconta del suo salto nell’economia legale, nel gioco d’azzardo di Stato: prima con i video poker, poi con le slot e infine con il poker online. Durante un’udienza si è sfogato così: «Voi state processando me, ma io ho pagato milioni di tasse allo Stato, quindi dovreste processare pure lo Stato». Nicola Femia ancora è in regime di protezione. Da pentito di mafia. Eppure per i giudici d’Appello di Bologna non è mafioso, riformula l’accusa in associazione criminale semplice lasciando per i singoli delitti l’articolo 7, il metodo mafioso. Solo un delinquente, insomma, che usa il metodo delle cosche. Basta questo superamento del sottile confine lessicale per interrompere il nuovo corso iniziato nel 2010. Non resta che prendere atto della contraddizione. Consapevoli, però, che non sarà un giudice a Bologna a farci dire che la ‘ndrangheta in Emilia non è radicata. Non intendiamo partecipare alla gara di salto all’indietro. La ‘ndrangheta non è soltanto una questione calabrese, oggi è soprattutto settentrionale. E se questa non diventarà verità giudiziaria, esiste un’altra verità, che ha che fare con la storia, con i fatti, con i curriculum personali dei protagonisti del crimine.

«Gli spariamo in bocca al giornalista»: ma per i giudici la mafia in Emilia Romagna non c'è. Bocciata in appello la sentenza di primo grado del processo "Black monkey" sugli affari dell'ndrangheta al nord. Per i magistrati Nicola "Rocco" Femia, che ha minacciato di morte e costretto a una vita sotto scorta il nostro cronista Giovanni Tizian, sarebbe "solo" il capo di una normale associazione a delinquere che usa però il metodo mafioso. L'Espresso il 30 ottobre 2019. Mafia sì. Anzi no. In Emilia Romagna i giudici d'appello bocciano la sentenza di primo grado contro Nicola Femia, ritenuto dalla procura al vertice di una cosca di 'ndrangheta residente tra Ravenna e Bologna. Che ha usato la violenza e le minacce per imporsi e fermare i nemici. Come i giornalisti. «Gli spariamo in bocca». Una frase pronunciata durante una telefonata nel lontano 2011 che è costata al giornalista dell'Espresso otto anni di vita sotto scorta. Protetto su ordine della procura antimafia di Bologna che d'urgenza, dopo aver sentito quelle parole, aveva chiesto alla prefettura di Modena, la città in cui lavorava all'epoca Tizian, di disporre la protezione e l'auto blindata. La procura antimafia stava indagando su una famiglia legata alla 'ndrangheta calabrese residente tra l'Emilia e la Romagna. La stessa famiglia di cui si occupava con le sue inchieste sulla Gazzetta di Modena il giornalista: dal 2010 aveva iniziato a scrivere degli affari di Femia in Emilia e in Lombardia, scoprendo quanto influente fosse diventato Nicola Femia, detto “Rocco”, nel settore del gioco d'azzardo legale. L'indagine giudiziaria denominata “Black Monkey”- dal nome di una slot machine distribuita dal gruppo Femia, condotta dal pm Francesco Caleca, dal procuratore Roberto Alfonso e dal Gico della guardia di Finanza- ipotizzava l'esistenza in Emilia Romagna di un'associazione mafiosa guidata da “Rocco” appunto, fedelissimo in passato di uno dei padrini più potenti della Calabria: don Vincenzo Mazzaferro, ucciso nel '93. Riciclaggio, estorsioni, minacce. Questi i reati che verranno contestati a Nicola “Rocco” Femia, che secondo l'antimafia bolognese era a capo di un vero e proprio clan di 'ndrangheta, fortemente connesso a pezzi grossi della mafia in Calabria. L'impianto ha retto in primo grado: il 22 febbraio 2017 il tribunale di Bologna condanna tutti gli imputati a pena pesantissime . Il capo, cioè Femia, a 26 anni. È mafia, insomma. Alle parti civili viene così riconosciuto il risarcimento del danno. Tra queste ci sono il giornalista Tizian e l'Ordine dei giornalisti. Insieme a “Rocco” vengono condannati i figli e i gregari. Dopo quella sentenza, Femia decide di collaborare con la giustizia. Diventa cioè un pentito, che vive ancora adesso sotto protezione. In questi due anni ha rivelato a cinque procure i segreti di altri 'ndranghetisti. Lui stesso dice nei verbali di essere stato «un uomo riservato di Mazzaferro». Un uomo, dunque, da tenere sotto traccia, al servizio di un mammasantissima della mafia calabrese del calibro di Mazzaferro. Nicola Femia ripercorre nei verbali la sua carriera criminale: dall'omicidio quando ancora non era maggiorenne al narcotraffico per conto del padrino di Gioiosa fino al salto nell'economia legale nella ricca Emilia, dove diventa il re delle slot e poi del poker online in rapporto pure con i Monopoli di Stato. Tuttavia nel processo d'Appello di Bologna non è stato ritenuto attendibile, il sospetto è che non volesse raccontare gli affari che riguardavano la stretta cerchia familiare. Arriviamo così al 29 ottobre 2019. Due anni dopo la sentenza di primo grado e l'inizio della collaborazione di Femia. La Corte d'Appello di Bologna si esprime diversamente: non è mafia. E Femia è soltanto il capo di un'associazione semplice, che ha commesso reati aggravati dall'articolo 7, ossia con il metodo mafioso. In altre parole, quella di Femia è una banda organizzata ma non mafiosa, che tuttavia ha usato il metodo mafioso nella commissione del lungo elenco di reati contestati dall'accusa. Una formula tranquillizzante per l'Emilia Romagna, che potrà essere usata dai più scettici per affermare che avevano ragione loro, che qui la mafia non c'è, non è radicata. Che in fondo è solo questione di delinquenza comune. Capriole giuridiche - poco comprensibili per i non addetti ai lavori - di una sentenza che riduce le pene e annulla i risarcimenti. E fa carta straccia di un principio stabilito dal tribunale in primo grado: «La minaccia a un giornalista è un fatto eversivo», un «attentato alla Costituzione», scriveva il giudice due anni fa nelle motivazioni della sentenza. Le parti civili così come la procura generale rappresentata da Nicola Proto faranno ricorso dopo aver letto le motivazione, che saranno note tra 90 giorni. 

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

·         Le Barzellette dell’Antimafia.

QUANDO SCIASCIA TIRO’ IN BALLO BORSELLINO SUI “PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA”. Matteo Collura per Il Messaggero Il 17 luglio 2019. Dopodomani, 19 luglio, sarà il ventisettesimo anniversario dell'assassinio del giudice Paolo Borsellino, eliminato con i suoi cinque agenti di scorta davanti alla casa di sua madre. Le rivelazioni che riguardano la sua audizione davanti alla Commissione antimafia, risalente al 1984, ci dicono di quanto fosse consapevole del rischio che i magistrati come lui correvano già da allora a Palermo, a causa della loro esposizione come magistrati, appunto, ma anche per via delle disfunzioni nell'apparato burocratico che riguardava le forze di polizia e coloro i quali dai poliziotti dovevano essere protetti. Quando Leonardo Sciascia fece il nome di quel giudice nello scrivere l'articolo intitolato I professionisti dell'antimafia, di Paolo Borsellino non si sapeva molto, e meno che meno negli ambienti lontani dal palazzo di giustizia. Dico questo perché fa impressione leggere oggi quel che Borsellino diceva di sé e dei suoi colleghi del pool antimafia tre anni prima che l'articolo dell'autore del Giorno della civetta lo tirasse in ballo come esempio di abuso del Consiglio superiore della Magistratura nell'avanzamento di carriera di un giudice in Sicilia. L'antimafia, sosteneva Sciascia nel suo scritto apparso sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, rischiava di diventare uno strumento di potere. Può benissimo accadere, argomentava lo scrittore, anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. Gli esempi che in quella nota giornalistica Sciascia proponeva erano due: il sindaco della città dove lui viveva e il criterio adottato dal Consiglio superiore della Magistratura nel promuovere un magistrato. Con quello scritto, da una parte Sciascia denunciava quella che gli appariva come una propagandistica, martellante campagna antimafia orchestrata da un sindaco di una città Palermo che languiva nei disservizi e nell'abbandono; dall'altra stigmatizzava la condotta del Csm che, contro le proprie regole, aveva promosso un magistrato per meriti antimafiosi. Niente di personale con quel sindaco (Leoluca Orlando: oggi, dopo trent'anni, ancora primo cittadino di Palermo!) e quel magistrato, Paolo Borsellino, coraggioso servitore dello Stato, questi, ucciso poi dalla mafia. E che Leonardo Sciascia in quell'articolo aveva in animo soltanto di affermare un principio di legalità e di giustizia, è provato dall'incontro che ebbe qualche tempo dopo con Paolo Borsellino; incontro amichevole, in cui risaltò la reciproca stima e ammirazione. È un fatto, comunque, che con quell'articolo Sciascia osò attaccare il fronte che in Sicilia coraggiosamente combatteva la barbarie dell'anti-Stato. Perché? Non trovandosi risposte a questa domanda, per una sorta di supposto regresso psicologico, dovuto anche al suo essere siciliano (siciliano troppo siciliano, parafrasando Nietzsche) lo scrittore diventò un po' mafioso anche lui. Non che non l'avesse previsto; e difatti così ne aveva scritto riferendosi a uno dei suoi maestri letterari: Come ogni siciliano che vede gli strumenti di giudizio, che egli stesso ha offerto, adoperati senza rispetto e cautela, in accusa irreversibile, Pirandello è portato a difendere la Sicilia, i siciliani, ogni volta che li sente offesi anche se allusivamente o vagamente dal pregiudizio. Era inutile che Sciascia ripetesse a quanti lo intervistavano: «Nel mio articolo di sabato 10 gennaio c'era soltanto un richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica». Lo scrittore aveva come bestemmiato una istituzione sacra. L'incomprensione definiamola pure così era stata messa nel conto. Da siciliano, Sciascia difendeva la Sicilia, i siciliani, dalle strumentalizzazioni politiche e propriamente di consorteria che la lotta alla mafia, in alcune sue espressioni, metteva in atto. Non vi poteva essere denuncia più lacerante, e perciò destabilizzante, in Italia, in quel 1978. Leonardo Sciascia, ancorché isolato e attaccato dal vasto fronte progressista, come il suo compaesano Fra Diego La Matina non cedette alla sua eresia, e i fatti oggi, propriamente oggi, gli danno ragione. Così come danno ragione a Paolo Borsellino.

Borsellino: "Io con la macchina blindata solo di mattina, libero di essere ucciso la sera". La commissione parlamentare antimafia toglie il segreto sulle audizioni del magistrato a Palazzo San Macuto, fra l'84 e il 1991. Il fratello del giudice polemico: "Tanti atti ancora segreti negli archivi di Stato". Salvo Palazzolo il 16 luglio 2019 su La Repubblica. "Desidero sottolineare la gravità dei problemi che dobbiamo continuare ad affrontare... Di pomeriggio, è disponibile solo una macchina blindata. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Con ciò riacquisto la mia libertà, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi libero di essere ucciso la sera". Così parlava Paolo Borsellino davanti alla commissione parlamentare antimafia, era il 1984, il pool stava preparando il primo maxi processo alle cosche. Oggi la commissione parlamentare antimafia ha recuperato tutte le parole di Borsellino a Palazzo San Macuto, pronunciate in varie audizioni, fra il 1984 e il 1991. Alcune audizioni era ancora segrete e sono state declassificate. Un archivio che è stato digitalizzato ed è confluito su una pagina web all'interno del portale del Parlamento. Le parole di Borsellino non raccontano solo gli anni in cui la lotta alla mafia era fatta da una pattuglia di magistrati e investigatori. Raccontano anche dei misteri attualissimi della provincia di Trapani, la terra di Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi originario di Castelvetrano che lo Stato non riesce ad arrestare dal giugno 1993. Diceva Borsellino nel corso della trasferta a Trapani della commissione antimafia, era il 4 dicembre 1989, e lui era ormai procuratore di Marsala: "Questa è terra di grandi latitanti: Provenzano, Riina e altri nomi storici", diceva l'allora procuratore di Marsala. Che citava espressamente Castelvetrano, oggi la roccaforte del superlatitante Matteo Messina Denaro: "Vi sono grandi proprietà di mafia, che ora stanno vendendo e sto facendo delle indagini per capire a chi. Proprietà di Saveria Benedetta Palazzolo, la moglie di Bernardo Provenzano, ma anche di Badalamenti e di Bontate, cioè delle famiglie cosiddette perdenti. Vi fu infatti un periodo in cui questa era zona di espansione di tutte le famiglie mafiose". "Tutto quello che avviamo oggi è un ulteriore segnale di democratizzazione del Paese", spiega il presidente della Commissione, Nicola Morra, presentando l'iniziativa in Senato, a cui ha lavorato un ex magistrato della procura di Palermo, Roberto Tartaglia, uno dei pm del processo Stato-mafia, oggi consulente della commissione antimafia. "Borsellino già ragionava sulle difficoltà di portare avanti un processo con numeri enormi - dice ancora Morra - E non sempre le sue richieste vennero pienamente soddisfatte. Il presidente dell'Antimafia ringrazia "Manfredi Borsellino e tutta la sua famiglia per aver potuto fare questa operazione". Polemico il fratello del magistrato ucciso in via D'Amelio, Salvatore Borsellino. "In quella strage mio fratello è stato ridotto ad un tronco carbonizzato senza più le gambe e le braccia, i pezzi di quei ragazzi sono stati raccolti uno ad uno e messi in delle scatole per poi essere identificati, separati e racchiusi in delle bare troppo grandi per quello che restava di loro. Ora, a 27 anni di distanza, non posso accettare che i pezzi di mio fratello, le parole che ha lasciato, i segreti di Stato che ancora pesano su quella strage, vengano restituiti a me, ai suoi figli, all'Italia intera, ad uno ad uno. E' necessario che ci venga restituito tutto, che vengano tolti i sigilli a tutti i vergognosi segreti di Stato ancora esistenti e non solo sulla strage di Via D'Amelio ma su tutte le stragi di Stato che hanno marchiato a sangue il nostro Paese". Salvatore Borsellino ha inviato una lettera al presidente Morra spiegando perché ha deciso di non partecipare alla conferenza stampa di presentazione degli audio. Salvatore ha voluto leggere la lettera durante la conferenza stampa di presentazione dei quattro giorni di eventi dedicati al 27esimo anniversario della strage di via d'Amelio. "Non mi sembra si tratti esattamente di una desecretazione - dice - ma piuttosto di rendere pubblici dei documenti che fino ad ora erano di difficile accessibilità perché conservati negli archivi della commissione antimafia. Una cosa importante ma un pò diversa da quella desecretazione che aspettiamo da anni, che anche il ministro Bonafede aveva promesso proprio in via d'Amelio e che ancora non è arrivata. E' assurdo - ha concluso - che in un Paese come il nostro, che si è macchiato di tante stragi di Stato, ancora oggi ci siano questi segreti. Vuol dire che non si vuole arrivare alla verità, non ho altra risposta".

Senza scorta. Borsellino e Falcone sono stati celebrati come eroi solo dopo la strage. In vita sono stati lasciati soli e privi di mezzi. Gian Carlo Caselli, Magistrato, il 16/07/2019 su huffingtonpost.it. Nicola Morra è all’origine della decisione di desecretare l’audizione di Paolo Borsellino dell’8 maggio 1984 avanti alla Commissione parlamentare antimafia dell’epoca. Una decisione assai meritoria e  preziosa, perché consegna all’attenzione e allo studio di tutti uno straordinario spaccato di quella che è stata per lunghissimo tempo la realtà del contrasto alla mafia. Emerge innanzitutto una verità oggi quasi dimenticata:  Borsellino (e Falcone ) vengono celebrati come eroi soltanto dopo la strage che li ha uccisi, mentre in vita sono stati spesso lasciati soli e privi di mezzi, quando non osteggiati, denigrati e attaccati. Ascoltando le dichiarazioni di Borsellino all’Antimafia è poi di tutta evidenza  che la forza di Cosa nostra (come delle altre mafie che da secoli impestano l’Italia)  non è soltanto “interna”: vale a dire che deriva sì dalla sua spietata organizzazione criminale, ma è anche  - se non soprattutto – “esterna”, vale a dire che un peso decisivo hanno le sottovalutazioni, le connivenze e le complicità che ne segnano la storia. Così “storicizzate”,  le terribili dichiarazioni di Borsellino, incontrovertibile causa di sdegno profondo per tutti coloro che hanno a cuore la convivenza civile, assumono anche le cadenze di un libro di storia che disvela e denunzia la  irresistibile tendenza di oscuri poteri antidemocratici  a tenere il funzionamento della giustizia  sotto i limiti della decenza. Così lo “sfogo” di Borsellino  aiuta a  comprendere meglio, in tutta la sua dirompente  portata,  la “banalità” quotidiana delle disfunzioni che hanno caratterizzato l’antimafia in una fase in cui era considerato financo sconveniente parlare di “lotta”. A fronte di una eccezionale mole di lavoro  -  il primo maxi-processo - ecco i computer che non ci sono o non funzionano; ecco un  personale ausiliario (senza del quale nessun ufficio giudiziario può funzionare, così come nessun ospedale può operare senza infermieri) insufficiente, mentre non ci sono soldi per lo straordinario; ecco soprattutto la sicurezza dei magistrati più esposti ridotta ad una farsa oscena e sconfortante. Nonostante vi fosse già stata una sequenza impressionante  di magistrati antimafia uccisi:  Terranova nel 1979, Costa  nel 1980, Chinnici  (capo di Falcone e Borsellino) nel 1983. Del resto, che la sicurezza dei magistrati antimafia non fosse in cima ai pensieri dei potenti dell’epoca emerge chiaramente da un episodio poco noto quanto emblematico: l’invito rivolto a Chinnici di desistere dalle indagini sui “Cavalieri del lavoro di Catania” . Invito rivolto da Salvo Lima, “proconsole” di Andreotti in Sicilia, e disatteso dall’onesto magistrato, per singolare coincidenza ucciso poco tempo dopo.  Infine, occorre accennare  - a gloria della magistratura tutta -  che la solitudine evidenziata da  Borsellino non era “esclusiva” dei giudici siciliani. Si pensi a Mario Amato, trucidato  dai Nar nel 1980. Anche per lui non si era trovata un’auto  blindata. Per cui venne consegnato inerme alla vendetta dei criminali fascisti, che lo lasciarono sul terreno con in evidenza la suola bucata di una scarpa: indimenticabile simbolo del coraggio di un altro  grande uomo.

L’audio (e le parole amare) di Borsellino: «Il computer non funziona e la macchina blindata c’è solo la mattina». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 di Giovanni Bianconi e Virginia Piccolillo su Corriere.it. «Desidero affrontare la gravità dei problemi, soprattutto di natura pratica, che noi dobbiamo continuare ad affrontare ogni giorno». Dagli archivi finora segreti della commissione parlamentare antimafia emerge la voce di Paolo Borsellino, che l’8 maggio 1984 racconta le difficoltà del pool antimafia che in quel periodo sta già lavorando al maxi-processo a Cosa nostra. Un’indagine riservatissima, che di lì a poche settimane potrà contare sulla collaborazione di Tommaso Buscetta, e consentirà di portare alla sbarra, per la prima volta, la Cupola con l’accusa di associazione mafiosa. Dopo il consigliere istruttore Antonino Caponnetto parlano i giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è proprio quest’ultimo a rivelare che quel manipolo di magistrati (insieme ai poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Ninni Cassarà, che sarà trucidato dai killer di Cosa nostra l’anno successivo, alla vigilia della richiesta di rinvio a giudizio) sta conducendo «processi di mole incredibile, ognuno dei quali è composto da centinaia di volumi che riempiono intere stanze».

Carte non più segrete. L’audizione del 1984 è la prima delle sei in cui prende la parola Borsellino che la commissione antimafia guidata dal senatore Nicola Morra ha deciso di desegretare insieme a gran parte degli atti ancora riservati, diffuse nella ricorrenza del 19 luglio, ventisettesimo anniversario dell’omicidio del magistrato saltato in aria insieme agli agenti di scorta Agostino Catalano, Water Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Ora sono pubbliche sia le trascrizioni che gli audio, e ancora oggi fa impressione ascoltare la voce del giudice assassinato qualche anno più tardi raccontare come lui e gli altri colleghi debbano arrangiarsi e escogitare soluzioni pionieristiche per poter svolgere un lavoro di cui dovrebbe essere già chiara l’importanza e la pericolosità: il precedente consigliere istruttore, Rocco Chinnici, era stato ucciso da un’autobomba nemmeno un anno prima, il 29 luglio 1983.

Il computer che non funziona. Per la piega che ha preso il lavoro del pool, avverte Borsellino, è diventato indispensabile l’uso di un computer finalmente arrivato a Palermo, ma che «purtroppo non sarà operativo se non tra qualche mese perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché». Le dimensioni dell’indagine, spiega il magistrato, non consentono di andare avanti «con le nostre semplici rubrichette artigianali», e oltre al computer appena arrivato ma non ancora funzionante, servirebbero segretari e dattilografi, che non possono fare straordinari. Risultato: «Il giudice che è costretto a lavorare, come nel processo attualmente in corso, per 16 o 18 ore al giorno rimane, per buona parte della giornata, solo con se stesso, con tutto l’aggravio di lavoro che ne deriva».

La scorta solo di giorno. Non solo. Borsellino lancia l’allarme sicurezza, lasciandosi andare a un amaro sarcasmo quando spiega che per i giudici antimafia la burocrazia prevede la scorta solo al mattino: «Buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi, libero di essere ucciso la sera». Due anni e mezzo più tardi Borsellino è di nuovo davanti all’Antimafia, stavolta in qualità di procuratore di Marsala dove è andato per proseguire il lavoro di contrasto alla mafia, ma ugualmente si trova con scarsi mezzi a disposizione. E’ lì che l’11 dicembre 1986 il giudice parla di una «Procura smobilitata» e se la prende con il Consiglio superiore della magistratura che tarda a mandare pubblici ministeri in una Procura di frontiera come quella, preferendo risolvere prima i problemi del tribunale di Mondovì. Ma il territorio dov’è andato a lavorare, denuncia Borsellino, è «un santuario» dove potrebbero trovare rifugio e appoggi latitanti ultradecennali come Totò Riina e Bernardo Provenzano. (File 02(2).mp3, dal minuto 0,48 a 2,38, e poi da 3,15 a 3,36).

Latitanti a passeggio. A proposito di latitanti e controllo del territorio, in quella stessa audizione Borsellino spiega che per consentire che a Marsala circoli una Volante della polizia anche di notte, lui s’è fatto dimezzare la scorta. E ricorda come il pentito Buscetta gli confidò che dalle due alle quattro del pomeriggio i boss latitanti passeggiavano tranquillamente nel centro di Palermo perché sapevano che in quell’orario c’era il cambio turno delle auto di servizio di polizia e carabinieri, e dunque non ne avrebbero incontrate in giro per la città. (per questa parte file 03(1).mp3, da minuto 0,00 a 1,31).

Denunce continue. Nell’incontro con la commissione parlamentare del 3 novembre 1988 Borsellino torna a parlare dello smantellamento del pool antimafia di Palermo dopo la mancata nomina a consigliere istruttore di Giovanni Falcone, che lui stesso aveva denunciato pubblicamente in estate. Tra il 1989 e il 1991 Borsellino tornerà in altre tre occasioni davanti all’Antimafia (l’ultima il 24 settembre ’91), sottolineando ogni volta i problemi e le difficoltà pratiche che i magistrati impegnati nel contrasto a Cosa nostra continuavano a incontrare. Un compito al quale il magistrato assassinato 27 anni fa non s’è mai sottratto, fino al momento il cui la mafia ha deciso di toglierlo di mezzo. Anche per questo, la desecretazione delle sue parole finora inedite decisa dalla nuova commissione rappresenta un omaggio alla figura di Borsellino, oltre che un monito per non tornare mai più ai tempi in cui inquirenti in prima linea debbano spiegare a deputati e senatori di non essere in condizione di lavorare come dovrebbero.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 17 luglio 2019. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici era saltato in aria da nemmeno un anno (luglio 1983), i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà sarebbero stati uccisi l' anno successivo (luglio-agosto 1985). Scorreva il sangue, intorno alle indagini che avrebbero portato al maxi-processo di Palermo, e in questo clima Paolo Borsellino - ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia l' 8 maggio 1984 insieme a Giovanni Falcone e Nino Caponnetto che aveva preso il posto di Chinnici - distillava la sua amara ironia sul destino di morte che si respirava tra i giudici del pool antimafia: «Buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina con strombazzamento di sirene, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, però non vedo che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera». La voce, ancora giovane ma già arrochita dal fumo, del magistrato trucidato il 19 luglio 1992, 56 giorni dopo Giovanni Falcone, riemerge dagli archivi segreti della commissione parlamentare antimafia che ha deciso di rendere pubblici gli atti riservati dal 1963 al 2001. Quasi quarant' anni di storia della mafia e dell' antimafia dai quali per adesso il presidente Nicola Morra, insieme al magistrato Roberto Tartaglia e altri collaboratori, hanno ripescato sei audizioni del magistrato palermitano ucciso nella strage di via D' Amelio, in occasione del ventisettesimo anniversario. «Parole che potranno risuonare nelle coscienze di tutti noi», commenta il premier Giuseppe Conte, mentre Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, protesta contro «tutti i vergognosi segreti di Stato ancora esistenti, non solo sulla strage di via D' Amelio ma su tutte le stragi di Stato». Il materiale messo dall' Antimafia a disposizione di tutti contiene 1.612 documenti ancora inesplorati, che potrebbero custodire verità, rivelazioni e piste investigative rimaste nascoste per tutti questi decenni. Le parole di Borsellino rese note ora non contengono rivelazioni sul piano giudiziario, ma sono la cartina di tornasole di uno Stato che, all' epoca, combatteva pressoché a mani nude un' organizzazione criminale in grado di sterminare i propri nemici come e quando vuole. I quattro giudici istruttori che stavano lavorando all' inchiesta più importante e più imponente che sia mai stata fatta sulle cosche (con Falcone e Borsellino c' erano Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, oltre a Nino Caponnetto che aveva sostituto Chinnici), avevano finalmente ottenuto un computer, un vecchio Honeywell prima maniera, senza essere in grado di farlo funzionare. «Purtroppo non sarà operativo se non tra qualche mese - denuncia Borsellino all' Antimafia - perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché. So soltanto che è arrivato al tribunale di Palermo ed è stato collocato in un camerino». Con i vecchi metodi, «le nostre rubrichette artigianali», il maxi-processo non si poteva gestire. Eppure ce la faranno a portarlo a termine. Al prezzo di «deportare» Falcone e Borsellino nel super-carcere abbandonato dell' Asinara durante l' estate del 1985, all' indomani dell' omicidio Cassarà, perché in nessun altro posto le autorità erano in grado di garantirne la protezione mentre dovevano completare l' ordinanza di rinvio a giudizio. Ma proprio il successo del «maxi» diventerà l' oggetto di un altro amaro commento di Borsellino all' antimafia, l' 11 dicembre 1986, quando le udienze erano in corso nell' aula bunker dell' Ucciardone e lui era da poco diventato procuratore della Repubblica a Marsala: «Oggi qui in Sicilia abbiamo l' esatta sensazione di un calo generale di tensione con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Si tende a confondere il fenomeno con il suo momento processuale. Sotto questo aspetto forse il maxi-processo è stato un danno, perché oggi si guarda al fenomeno mafioso come c' è dentro l' aula, come se tutti i problemi fossero accentrati lì». Invece di mafia ce n'era ancora tanta, fuori, libera di reagire e colpire. «Lo Stato ha fatto questo enorme sforzo - avverte Borsellino -, ma non deve ragionare in questo modo: "vi abbiamo dato il giocattolo, adesso cosa volete di più?". Certe volte abbiamo questa sensazione». Anche a Marsala il magistrato lamenta scarsità di uomini e mezzi, nonostante la provincia di Trapani sia diventata «una specie di "santuario" delle cosche mafiose», dove i boss Riina e Provenzano avevano deciso di investire denaro e reclutare affiliati. A differenza dello Stato. Per far circolare una volante in città anche di notte, accusava Borsellino, aveva dovuto dimezzare la propria scorta, in modo da liberare poliziotti. E la voce del procuratore, solitamente calma, si altera durante lo sfogo del 4 dicembre 1989: «È un po' paradossale che la commissione antimafia ci venga a chiedere qual è lo stato delle indagini sulla mafia, perché nei nostri tribunali non vi è memoria storica a livello di magistratura sul fenomeno, né ve ne potrà mai essere se continuerà questo frenetico ricambio di magistrati che, dopo al massimo due anni, vengono trasferiti». Senza sostituti procuratori, lui che era capo dell' ufficio doveva passare la maggior parte del proprio tempo a occuparsi di assegni a vuoto, «e poiché talvolta devo pur svolgere delle indagini di mafia, lo faccio di notte... Io comunque non mi arrendo, non alzerò le braccia. Certo bisognerà vedere la resistenza fisica mia e dei miei colleghi». Due anni più tardi, nel 1991, tornò a Palermo come procuratore aggiunto, e nel 1992 fu costretto ad arrendersi di fronte al tritolo che lo uccise.

La magistratura ha abbandonato Falcone. L'ultima accusa di Borsellino. Il discorso del magistrato un mese dopo la strage di Capaci. Annalisa Chirico il 20 Luglio 2017 su Il Foglio.  Grazie a Radio radicale la parola torna a Paolo Borsellino. Basta esegeti e scimmiottatori. E’ il 25 giugno 1992, sono trascorsi trentadue giorni dalla strage di Capaci. Ne mancano ventiquattro all’eccidio di via D’Amelio. “Sono venuto questa sera per ascoltare perché, mai come ora, è necessario che io ricordi a me stesso e a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato debbo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e conoscenze partecipando a convegni o dibattiti, ma esclusivamente per il mio lavoro”. La platea applaude, la commozione è palpabile. Borsellino fa professione di silenzio, in realtà è mosso da una irrefrenabile voglia di parlare. “Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e giustizia non perché aspirasse a trovarsi nella capitale in un posto privilegiato, non perché si fosse innamorato dei socialisti, non perché si fosse innamorato di Claudio Martelli. Ma perché, a un certo punto della vita, ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e, nelle sue convinzioni, decisivo nella lotta alla criminalità mafiosa”. Borsellino si sente un superstite, chissà fino a quando. Il procuratore di Marsala arriva in ritardo all’assemblea dal titolo “Ma è solo mafia?”, promossa da La Rete. Radio radicale ripropone i trenta minuti del suo intervento, un atto d’accusa contro il corporativismo togato che ha emarginato e vilipeso Giovanni Falcone. Così, in mezzo allo strepitio scomposto di mezzi figuri che oggigiorno scimmiottano il suo esempio e tentano, senza successo, di accreditarsi come suoi degni eredi, emerge l’imponente normalità di un uomo che di sé dice: “Non sono un eroe né un kamikaze ma una persona come tante altre”. “In questo momento – prosegue Borsellino – oltre che magistrato, io sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto tante sue confidenze, non voglio dire più di ogni altro perché non voglio imbarcarmi nella gara di questi giorni per stabilire chi fosse più amico di Giovanni Falcone, devo riferire anzitutto all’autorità giudiziaria gli elementi che porto dentro di me. L’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone segna pure la fine di una parte della mia vita”. Per l’ex capo del pool antimafia Antonino Caponnetto, Falcone comincia a morire nel gennaio 1988. Borsellino concorda con lui. “Con ciò non intendo dire che la strage del ’92 sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Ma quel che dice il giudice Caponnetto è vero perché oggi che noi tutti ci rendiamo conto della statura di quest’uomo ci accorgiamo di come il paese, lo stato, la magistratura – che forse ha più colpe di ogni altro – cominciò a farlo morire nel gennaio 1988”. Borsellino si riferisce alla bocciatura, decisa dal Consiglio superiore della magistratura, della candidatura di Falcone per l’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo. 10 voti per Falcone, 14 per il concorrente Antonino Meli. “Non appena Falcone presentò la sua candidatura per succedere a Caponnetto, qualche giuda s’impegnò da subito a prenderlo in giro. Nel giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferendogli l’altro candidato con motivazioni risibili. Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni e la volontà di continuare a svolgere il lavoro che aveva inventato, cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo subìto dal Csm, avrebbe potuto proseguire nella sua professione. E continuò a crederlo. Io ero invece più scettico, ormai osservavo i fatti da un osservatorio abbastanza privilegiato essendo stato trasferito a Marsala, sapevo che nel volgere di pochi mesi lo avrebbero distrutto. Ciò che più mi addolorava è che Giovanni Falcone sarebbe morto professionalmente nel silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse. Perciò denunciai pubblicamente ciò che stava accadendo a Palermo: se deve essere eliminato, pensai, l’opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non in silenzio”.

Fu così che nel settembre 1988, sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Csm rivide in parte la sua posizione e il pool antimafia, seppur zoppicante, fu rimesso in piedi. “La protervia del consigliere istruttore, – incalza Borsellino – l’intervento nefasto della Cassazione, iniziato allora e proseguito fino a ieri, continuarono a far morire Falcone. Nonostante quel che è accaduto in Sicilia, la Suprema corte continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste”. Febbraio 1991, il guardasigilli Martelli chiama Falcone a dirigere gli Affari penali al ministero di via Arenula. “Alla presenza dei colleghi Leonardo Guarnotta e Giuseppe Ayala, Falcone tirò fuori l’ordinamento interno del ministero e, scorrendo i singoli punti, mi illustrò quel che egli riteneva di poter fare dalla nuova postazione per la lotta alla criminalità mafiosa. Anche io talvolta ho assistito con un certo disagio alla vita o ad alcune manifestazioni della vita di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quella giudiziaria. Si tratta di una situazione nuova, di un lavoro nuovo, di vicinanze nuove. Tuttavia Giovanni Falcone si trasferì a Roma restando con la mente a Palermo. In fin dei conti, il bilancio, se vogliamo farlo, riguarda principalmente la creazione di strutture che, a torto o a ragione, egli riteneva funzionali nella lotta alla criminalità organizzata. Falcone cercò di riprodurre a livello nazionale e con la legge dello stato quelle esperienze del pool antimafia nate artigianalmente, senza che la legge le prevedesse e, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questa era la superprocura. Anche io espressi dapprima alcune perplessità, fui tra i firmatari di una lettera critica verso il progetto predisposto dal collega Marcello Maddalena di Torino. Eppure non ho mai dubitato, neanche per un istante, che l’obiettivo ultimo di Falcone fosse quello di tornare a fare il magistrato. Non a caso l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, ha scelto l’esatto momento in cui Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia. Si trattava di indiscrezioni che io conoscevo, che avevo comunicato a lui, che egli sapeva e che ritengo fossero note anche al di fuori del palazzo. Si può dire che egli si prestò alla creazione di uno strumento che metteva in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che si avvicinò troppo al potere politico, ma non si può negare che Giovanni Falcone, in questa sua breve, anzi brevissima, esperienza ministeriale, lavorò segnatamente per tornare a fare al più presto il magistrato. E’ questo che gli è stato impedito. Perché è questo che faceva paura”.

Caserme, scuole, tribunali: l’affitto di Stato alle mafie. Simona Musco il 16 luglio 2019 su Il Dubbio. Nelle mani dei privati. Non solo il commissariato di Vittoria: sono tanti gli immobili che le indagini riconducono a prestanome che lo stato utilizza per i propri uffici, sborsando centinaia di migliaia di euro. Il commissariato di Polizia. La Caserma. Le scuole, la sede del Tar o quella del Cnr. Ma anche i Tribunali. L’elenco degli edifici privati utilizzati dallo Stato per collocare uffici pubblici è lunghissimo. E a volte, stando alle cronache, capita che i soldi pubblici sborsati per pagare quegli affitti – centinaia di migliaia di euro l’anno – vadano a finire nelle tasche dei clan, nascosti dietro la faccia dei loro prestanome, con la fedina penale immacolata utile per lavare i soldi sporchi delle mafie. E così quegli uffici che rappresentano – o dovrebbero rappresentare – un avamposto nella lotta contro le mafie finiscono per diventare un’ulteriore fonte di reddito. Che si aggiunge a quella che viene dalle commesse pubbliche, strappati altri imprenditori infiltrandosi nel sistema.

Il commissariato di Vittoria. L’ultimo caso è forse il più eclatante: a Vittoria, città di 64mila abitanti in provincia di Ragusa, lo stabile che ospita il commissariato è risultato essere al 50 per cento di una famiglia legata ai clan. Un immobile per il quale il ministero dell’Interno, ogni anno, sborsa 105mila euro d’affitto, soldi finiti in tasca, in parte, a Rocco Luca, figlio di Salvatore, finito in carcere assieme allo zio e al padre perché indagati con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di proventi illeciti per circa un miliardo di lire, che sarebbero arrivati dalla famiglia dei Rinzivillo di Cosa nostra. E così le Fiamme Gialle, mettendo i sigilli ai beni della famiglia, si sono ritrovate a dover bussare dai colleghi del commissariato e sequestrare anche la loro casa. Ma non si tratta del primo caso. Perché di immobili pescati nella zona grigia e utilizzati dallo Stato ce ne sono diversi.

La caserma in Calabria. Come, ad esempio, la caserma dei Carabinieri di Santo Stefano d’Aspromonte, nel cuore della Calabria, di proprietà di Rocco Musolino, morto nel 2014 all’età di 88 anni senza incassare mai una condanna definitiva, ma le cui gesta sono state cantate nelle ballate di ‘ ndrangheta e raccontate da diversi pentiti. “Il re della montagna” ufficialmente era un imprenditore nel settore boschivo – si è visto confiscare da defunto, nel 2018, tutto il suo patrimonio, dal valore di 150 milioni di euro, un tesoro che non poteva derivare, secondo la Dda, dal suo lavoro. E tra gli immobili di sua proprietà vi era dunque anche quello che i militari del piccolo centro aspromontano hanno utilizzato come base dalla quale dare la caccia a delinquenti di ogni tipo. Ma non solo. A Reggio Calabria anche la sede del Tribunale di sorveglianza si trovava tra le proprietà di un uomo condannato per estorsione aggravata dalla modalità mafiosa, ovvero l’imprenditore Gioacchino Campolo, alias "il re dei videopoker". Gli uffici del Tribunale, oggi, si trovano ancora lì, mentre Campolo, dal 2009 in poi, si è visto sottrarre beni per circa 400milioni di euro, tra i quali quadri d’autore, accumulati alle aste giudiziarie, dove si presentava con valigie cariche di contanti.

Il caso siciliano. Storie che si ripetono e che ancora non sono state tutte raccontate. Basta tornare in Sicilia, ad esempio, per trovare edifici pubblici in strutture poco trasparenti. Come Palazzo Benso, costruito nel ‘700, sede del Tar, o l’edificio che ospita il Cnr di Palermo – con un canone di locazione che costa circa un milione e mezzo di euro sottratti dallo Stato agli eredi dell’imprenditore Vincenzo Rappa, morto nel 2009 all’età di 87 anni. E pur non essendo organico a Cosa nostra, secondo l’Antimafia «le avrebbe fornito un contributo concreto, specifico e volontario che permetteva di consolidare l’apparato strutturale dell’associazione criminale». Un’intesa con i clan mafiosi che si sarebbe concretizzata, secondo la Dia, «nel versamento consapevole ad esponenti di spicco di quella consorteria mafiosa di ingenti somme di denaro, ottenendo, in cambio, la possibilità di realizzare importanti operazioni immobiliari, traendo indubbi vantaggi, sia nel settore dell’edilizia privata, che in quello dei pubblici appalti».

Caserta. Ma c’è anche la vicenda del Tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere ( Caserta), situato in un immobile privato di proprietà della “6C S. r. l.”, società dell’ingegnere Palmiro Cosentino, fratello di Nicola, l’ex sottosegretario Pdl in carcere accusato di essere il referente politico della camorra. Palmiro Cosentino non risulta indagato, ma la vicenda, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2017, aveva fatto infuriare Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria. «Come si fa ancora a pagare milioni di euro all’anno per immobili in affitto alla famiglia Cosentino? aveva tuonato – Lo sanno tutti e ciò è inconcepibile». E a giugno scorso è iniziato il trasloco da via Sant’Agata alla nuova sede dell’ex caserma Mario Fiore.

Poi ci sono le scuole, una storia già raccontata nel lontano 1993 in Sicilia, quando nella Commissione antimafia dell’Ars il deputato del Pds Pietro Folena denunciò un mercato miliardario degli affitti «monopolio di alcune società immobiliari che rappresentano anche interessi mafiosi». Un giro da 16 miliardi di lire l’anno di cui si vociferava già nel 1972, quando la commissione parlamentare aveva denunciato che la maggior parte dei proprietari degli edifici scolastici pubblici era legata a uomini di Cosa Nostra.

Ma qualcosa di simile è accaduto anche a Locri. Una storia ancora tutta da scrivere, dal momento che le indagini della procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria sono state chiuse appena a giugno scorso. Ma il sospetto, anche in questo caso, è che l’istituto d’arte e l’istituto professionale della città, sottoposti a sequestro nel 2017, siano stati prima dati in affitto e poi venduti per milioni di euro alla Provincia pur essendo abusivi. E, soprattutto, costruiti da imprenditori dalla fedina penale immacolata, ma, secondo gli inquirenti, prestanome delle cosche Cordì e Cataldo. Un danno per le casse dello Stato che la Dda quantifica in circa 10 milioni di euro.

Lo Stato smemorato. Ci sono, però, anche i casi in cui lo Stato dimentica di incassare e lascia che siano coloro che ha spogliato dei beni a continuare a guadagnarci su. Come a Buccinasco, dove una coppia ha preso in affitto una villetta, pagando regolarmente il dovuto all’uomo a cui era stata confiscata nel 2013, ovvero il figlio di Vincenzo Ippolito, detto Enzino il siciliano, alla guida della più potente organizzazione di narcotrafficanti tra Milano e il Sudamerica negli anni ‘ 90. Dalla confisca di sei anni fa a marzo scorso, dunque, Ippolito jr avrebbe continuato ad incassare 900 euro al mese, lasciando debiti condominiali per 20mila euro. Mentre poco distante, a Sedriano, dal 2007 – data della confisca al 2015, un piccolo boss della ‘ ndrangheta ha continuato ad occupare l’alloggio, lasciando dietro di sé 30mila euro di tasse condominiali non pagate, tra gas, acqua e manutenzione ordinaria della palazzina. Un buco che è toccato allo Stato riempire.

·         L’Antimafia Clero-Comunista.

Don Ciotti: "Sciogliere subito CasaPound e tutte le organizzazioni fasciste". Il presidente di Libera e del Gruppo Abele sottolinea: "Bisogna applicare le leggi e rispettare a pieno la Costituzione. Il fascismo che risorge è sintomo di democrazia malata". La Repubblica il 22 giugno 2019. "Lo abbiamo detto in tante occasioni e lo ribadiamo con decisione: CasaPound va sciolta. Tutte le organizzazioni fasciste vanno vietate. Bisogna applicare le leggi e riempire i tanti vuoti della nostra Costituzione. Lì troviamo le istruzioni necessarie per costruire una società di diritti, lavoro e dignità". Lo afferma il presidente di Libra e del Gruppo Abele don Luigi Ciotti. "Nella Costituzione ci sono le istruzioni per archiviare una volta per sempre i fascismi, i nazismi, le violenze e le ingiustizie", aggiunge. "Ottant'anni fa sono state promulgate anche le leggi razziali. Una pagina vergognosa della nostra storia, ma la vergogna - per impudenza o ignoranza o memoria corta - tende oggi a scomparire. Ma attenzione: la rinascita dei fascismi e dei razzismi è un rischio reale, non un fatto di folklore o di nostalgia malata. Il fascismo che riemerge è anch'esso sintomo di una democrazia malata e di una politica che non serve più il bene comune. Sorge anche dalla paura, dall'inquietudine, dalla povertà materiale e culturale. Perché - dice ancora il presidente di Libera - quando dominano le disuguaglianze, e le logiche economiche incombono sulle teste e sulle vite delle persone, hanno gioco facile le demagogie, proliferano le semplificazioni, le etichette, le falsità". "Ecco che il no ai fascismi e ai razzismi - prosegue don Ciotti - deve allora associarsi all'impegno a costruire contesti sociali dove l'inclusione e la condivisione di diritti e doveri, non siano solo enunciate ma praticate ed effettivamente garantite. Perché oggi il processo di liberazione in Italia non è terminato. Perché - conclude - un Paese soggiogato dalle mafie, dalla corruzione e dai sentimenti fascisti non è un Paese libero". 

I preti di (da) Strada. Don Luigi Ciotti il prete di strada che si crede ministro non di Dio ma dello Stato. Schierato contro il dl sicurezza e contro Salvini, perchè insignito del premio Don Tonino Bello. Carlo Franza su Il Giornale il 5 agosto 2019. Si salvi chi può dai preti di strada, preti guerriglieri che hanno interpretato e interpretano il Vangelo di Cristo come fosse il Corano. Quel battaglione italiano di preti di strada (ne cito alcuni, Don Andrea Gallo, il fu Don Tonino Bello, Padre Alex Zanotelli, Don Luigi Ciotti, Don Gino Rigoldi, Mons. Giancarlo Bregantini, ecc. ecc.) hanno preso a modello  Padre Camilo Torres Restrepo (Bogotà 1929- Dipartimento  di Santander 1966) che è stato un presbitero, guerrigliero e rivoluzionario colombiano, precursore della Teologia della Liberazione,  cofondatore della prima Facoltà di Sociologia e membro dell’ Esercito di liberazione nazionale colombiano. Durante la sua vita promosse il dialogo tra il marxismo rivoluzionario e il cattolicesimo. Alla base di questa corrente ideologica che è la teologia della liberazione vanno comunque individuati due errori maggiori, che Loredo sottolinea con forza: l’uno di carattere teologico e l’altro di ordine socio-economico. Il primo era stato focalizzato da Papa Ratzinger quando aveva evidenziato come nella teologia della liberazione la centralità non sia più per Dio e nemmeno per la persona umana: al cuore ci sono i movimenti, le battaglie politiche (anche armate), le rivendicazioni economiche. Tesi queste che sono state appannaggio di pochi preti confusionari provenienti da Brasile o Colombia, ed oggi sono invece professate dalle più alte gerarchie cattoliche(Cardinale Parolin, il Cardinale Becciu, il Cardinale Bassetti, il Cardinale Montenegro, Mons. Galantino, ecc.)  e da Papa Bergoglio. Questo vuol dire che la situazione è davvero seria e le conseguenze potrebbero essere devastanti. Ed  è stato con l’arrivo di Bergoglio sul trono di Pietro che la Chiesa ha iniziato a deragliare declinandosi sulla via delle Chiese latinoamericane. Ecco le principali formazioni guerrigliere dell’America Latina. 

COLOMBIA. I due gruppi ancora in attività sono le Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) e l’Eln (Esercito di liberazione nazionale). Le Farc, guidate da Manuel Marulanda Velez, "Tirofijo", forti di circa seimila uomini, hanno incassato nel ‘91 duecento miliardi di lire con le estorsioni ai latifondisti, il denaro ricavato dalla connivenza con i narcos e i proventi di 370 sequestri di persona. L’ Eln, che ha per leader l’ex prete spagnolo Manuel Pérez e circa duemila aderenti, ha avuto entrate per 100 miliardi con i sequestri e con le tangenti estorte sugli appalti per la riparazione degli oleodotti danneggiati negli attentati. 

CILE. Il movimento "Lautaro", dietro generici proclami contro il “governo reazionario”, sembra in realtà essere infiltrato da agenti dei servizi segreti. Si limita ad azioni sporadiche. 

GUATEMALA. Alcuni anni fa, al termine di una difficile trattativa a Madrid, sembrava che la strada della pacificazione nazionale fosse stata imboccata, ma l’ Urng (Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca) guidata da Rodrigo Asturias ha bloccato il negoziato per la mancanza di assicurazioni sul rispetto dei diritti umani. Ha scritto  Tornielli su La Stampa del 7 settembre 2017: “Erano giovani di classe media ma capaci, come nessun altro, di parlare ai campesinos. Erano innamorati della Cuba castrista, eppure allergici al dogmatismo sovietico. Erano anche preti, frati e suore, arruolatisi a centinaia. L’Eln, l’Esercito di Liberazione Nazionale, fin dal 1964 è qualcosa di unico in Sudamerica. Non a caso è l’ultima guerriglia a resistere. E non a caso è così difficile negoziare coi suoi comandanti, come sta facendo da mesi lo Stato colombiano a Quito, in Ecuador… La storia dell’Eln e quella della Chiesa si incrociano così tanto che qualcuno l’ha definito un “convento armado”. La teologia della liberazione qui ha raccolto come da nessun’altra parte”.

Senza allontanarci troppo dal nostro discorso di base, tutti sparano a zero contro Salvini, il PD con i suoi Zingaretti & Company, la sinistra estrema, il M5stelle, il Vaticano, Papa Bergoglio e la chiesa con i suoi vescovi allergici al Vangelo, e in primis i preti guerriglieri, che utilizzano il pulpito come fosse un palco  da elezioni. Tutti questi si sono spaventati al massimo per la politica della Lega e di Salvini, visto che   la gente ha finalmente aperto occhi e orecchi, e sa da che parte andare senza lasciarsi abbindolare dalla scuola di “umanitudine” sventagliata da Papa Bergoglio. D’altronde i sondaggi di questi giorni davano la Lega di Salvini al 38%. C’è di più, perchè i sondaggi volano e portano la Lega in alto; ecco perchè sparano a zero i preti guerriglieri come Don Luigi Ciotti; perché   ora spunta anche un ultimo sondaggio, proprio nei giorni in cui il vicepremier è a Milano Marittima, per qualche giorno di vacanza. Cosa dice l’ultimo sondaggio? Dà Salvini al 55 per cento. Esatto, il 55 per cento. La domanda, però, non è: votereste la Lega? Bensì: “Vorreste Matteo Salvini come vicino d’ombrellone?“. Più della metà del campione ha risposto affermativamente. Significativo plebiscito. Il curioso sondaggio è di Spot and Web, che raccoglie anche alcune delle motivazioni espresse da chi ha votato sì: “Mi sembra una persona alla mano“; “Gli parlerei di sicurezza e immigrati“; “Vorrei chiedergli perché ha cambiato idea sul Sud”. Per inciso nel sondaggio – di cui dà conto anche il nostro  Il Giornale – al secondo posto si piazza Giuseppe Conte con il 46%, al terzo si  piazza  Luigi Di Maio con il  32 per cento. Per Salvini resta quel 55%, che in una certa misura spiega anche il consenso politico di cui godono oggi lui e la Lega. L’Associazione Libera e Don Ciotti  hanno coniato il motto “La disumanità non diventi legge”. Questo prete guerrigliero che ha nome Don Luigi Ciotti, invece di andare in Africa ad evangelizzare i militanti dell’Isis,  sta conducendo un battaglia contro il dl Sicurezza bis, che rappresenta proprio in queste ore, l’ultimo provvedimento all’ordine del giorno del governo gialloverde prima della pausa agostana. Se la politica si interroga,  il “prete di strada” non palesa incertezze e strombazza come non mai.

Il vertice di Libera, argomenta così la politica salviniana, asserendo  a suo dire   che tutto ciò che è nel Dl Sicurezza è  “Aberrazione giuridica”. Matteo Salvini non viene nominato, ma in relazione ai compiti cui è deputato il dicastero del Viminale e degli Interni, Don Luigi Ciotti, attraverso un video pubblicato su YouTube da L’ufficio stampa di Acmos e Libera Piemonte, avanza una tesi: il ministro dell’Interno si trova già nella condizione di poter incidere sulla gestione dei fenomeni migratori in maniera “enorme”, spropositata. Quello che il dl sicurezza prescrive, secondo il prete guerrigliero don Luigi Ciotti  costituisce una “estensione” che è una vera e propria “invasione di campo”. Non si accorge il prete soldato che è proprio lui ad aver invaso il campo della politica invece che quello del Vangelo. Il prete guerrigliero attivista ventila un’opinione altamente politicizzata, e si dimena come un cane rabbioso osservando che ciò che sarà approvabile domani è un “ennesimo segno di un’ambizione sfrenata, indifferente alla divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia”. Sproloqui, certo, di chi pensa come il nostro prete di strada di officiare in senso comunista,   e infine ancora prediche su prediche sull’accoglienza dei migranti. E come un novello Messia, visto che da qualche mese un generale milanese lo ha insignito del Premio Don Tonino Bello, Don Ciotti mette tutti in allerta avvertendo  sui rischi comportati dall’avvento del populismo: “Questo decreto sicurezza non è segno di governo ma di gestione cinica del potere, tramite mezzi di cui la storia del Novecento ci ha fatto conoscere gli esiti tragici: la propaganda ossessiva, la sistematica manipolazione della realtà, la rappresentazione della vittima e del debole come nemico invasore, capro espiatorio”. Solita predica, soliti schiamazzi, solita liturgia che hanno fatto allontanare tanti cristiani dalle chiese ormai deserte. Questa battaglia di Don Luigi Ciotti e con lui tutto il codazzo di preti, vescovi e cardinali che ossequiano Papa Bergoglio e le sue direttive ormai troppo lontane da Cristo,  sono il segno che la Chiesa di Roma ha perso troppi colpi e troppo potere. La causa è da trovarsi proprio nel comportamento di questi preti guerriglieri alla Don Luigi Ciotti che pensano di latinoamericanizzare l’Italia e l’Europa. Ma l’Italia della Lega, di Salvini e dei liberali non ci sta. Carlo Franza

·         Antimafia o Comitato di salute pubblica?

Antimafia o Comitato di salute pubblica? I processi sommari della commissione presieduta da Nicola Morra. Davide Varì il 25 Maggio 2019 su Il Dubbio. È una vecchia storia quelle delle black list dell’antimafia. Da qualche anno a questa parte è abitudine del presidente di Palazzo san Macuto inviare a ogni vigilia elettorale una sorta di “pizzino pubblico” con la lista dei cosiddetti impresentabili. Si tratta di candidati indagati o rinviati a giudizio che vengono processati sommariamente e senza alcun diritto di difesa o di replica. L’operazione dovrebbe servire a ridare eticità alla politica, ma il fatto che avvenga nel più totale spregio delle garanzie e dei diritti, rende tutto opaco e decisamente poco etico. Un effetto paradosso – così i medici chiamano l’effetto dei farmaci che invece di curare le malattie le peggiorano – che negli anni ha avvelenato ancora di più i pozzi della politica italiana. L’ultima volta la pubblicazione della black list diede il via alla resa dei conti tutta piddina tra l’allora presidente dell’antimafia Bindi e il candidato governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Il quale non prese benissimo l’iniziativa di Bindi: “Infame, da ucciderla”, disse poco pacatamente il governatore furioso. Salvo poi consolarsi col milione e passa di voti che gli aprirono le porte della Regione. Stavolta, a tre giorni dal voto, è toccata a Silvio Berlusconi. Il quale, sempre secondo il presidente Morra, sarebbe impresentabile a causa del processo Ruby- ter, quello delle “cene eleganti”. Nulla invece dice Morra sui quaranta e passa processi subiti dal Cav e dai quali è uscito sempre immacolato. Ma la cosa più singolare è l’ingenuità che si cela dietro l’iniziativa di Nicola Morra. Il presidente dell’antimafia sembra infatti ignorare che la vita pubblica, privata e giudiziaria e financo sessuale del Cavaliere è stata sezionata, scannerizzata e completamente messa a nudo dai giornali italiani ed europei, i quali ci hanno rendicontato fin nei minimi dettagli i “vizi” più intimi di Berlusconi. Dunque cosa aggiunge alla consapevolezza degli elettori l’informazione che la commissione fornisce? A occhio e croce nulla. Senza contare il mistero che spinge l’antimafia a occuparsi delle “cene eleganti” di un signore di oltre ottant’anni, invece di occuparsi di Cosa nostra, camorra e ‘ ndrangheta. Ps: nel 1969, quando l’antimafia era ancora una cosa seria e i suoi membri personalità del calibro di Gerardo Chiaromonte, Cesare Terranova e Pio La Torre ( questi ultimi due trucidati dalla mafia) la commissione fu attraversata dallo stesso dubbio: pubblicare o no i nomi dei politici sospettati di “collusione”? I tre, nemici giurati della mafia ma coscienti del fatto che i diritti debbano essere sempre tutelati, risposero quanto segue: “Siamo contrari all’equivoco che si è ingenerato, che cioè la commissione parlamentare fosse una specie di “giustiziere del Re”, una sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere testa su testa”. La lista dei sospetti, allora, rimase nel cassetto.

·         I complici di Stato.

"La generazione antimafia l'abbiamo creata sui banchi di scuola". Francesca Sironi L'Espresso, 28 aprile 2019. L'Osservatorio di Milano sulla criminalità organizzata diretto da Nando dalla Chiesa ricostruisce in una ricerca il "fiume pedagogico" che dai primi anni Ottanta ha visto protagonisti centinaia di insegnanti. Sull'esempio di Pippo Fava. "Ecco l'operazione che la scuola dovrebbe condurre, al di là di quelle che sono le idee dei partiti - perché sono teoricamente tutte buone le idee dei partiti, sono gli uomini che sono corruttibili o corrotti, che sono deboli, che sono ignoranti - eccola: stare dentro la politica facendo politica nel senso antico del termine. Nel senso di una cosa che interessa il bene comune. La Repubblica ci appartiene: siamo noi. E allora lottate perché dentro questa Repubblica ci sia giustizia. Perché se noi riusciremo veramente a fare giustizia, e non dentro le aule di tribunale ma prima, giustizia dentro la società, giustizia per i poveri, per gli emarginati, per noi stessi, allora potremo essere sicuri di poter cominciare a sconfiggere la mafia. Soprattutto potremo essere sicuri di essere veramente persone che abbiano la loro dignità e intatta la loro libertà". Era il 20 dicembre del 1983. Pochi giorni dopo Giuseppe "Pippo" Fava sarebbe stato ucciso da Cosa nostra. Quel 20 dicembre, in piedi, parlava agli studenti di Palazzolo Acreide, la sua città, in provincia di Siracusa. Da giornalista, da amico, parlava loro con l'urgenza ch'era la sua di portare un cambiamento, di smuovere la colla del potere mafioso e di quanti vi stanno attaccati. Centinaia di maestri e maestre, in Sicilia e nelle altre regioni d'Italia, ascoltarono quella voce. Lo fecero molto prima di tanti funzionari pubblici rimasti a nicchiare, a non voler compromettere scacchiere, equilibri, modi di fare, perché occuparsi seriamente di mafia porta guai. È a questo "fiume pedagogico, a questa vera antimafia, a quest'affresco dell'Italia civile" che l'Osservatorio sulla criminalità organizzata di Milano, diretto da Nando dalla Chiesa, ha appena dedicato una amplissima ricerca. Quasi mille pagine di testimonianze di insegnanti, di esempi di laboratori, viaggi, assemblee, conferenze, di una "grande storia di bene che viene normalmente ignorata e che va invece raccolta prima che venga persa", racconta ora il professore dalla Chiesa, ripercorrendo "l'adrenalina e l'entusiasmo con cui gruppi di docenti a partire dai primi anni Ottanta si sono inventati progetti e strumenti per aggredire il cuore della mafia", ovvero la sua tradizione silenziosa, quella melma che si appiccica da generazioni vestendosi da compromesso, denaro facile, elezione sicura, indiscussa potestà, favore da restituire. Queste insegnanti di frontiera, a Siracusa come a Cuneo o Scandicci, hanno cercato di intaccare il sistema mafioso provando a far comprendere ai ragazzi l'insita ingiustizia della promessa mafiosa. Partendo dagli studi. "Perché com'è possibile contrastare un nemico che non si conosce o non si sa vedere?", riflette dalla Chiesa, che a questo scopo ha fondato nel 2008 il primo corso universitario specifico sul tema: Sociologia della criminalità organizzata (l'unico in Italia). È pure titolare dei corsi di Sociologia e metodi dell'educazione alla legalità, Organizzazioni criminali globali, Gestione e comunicazione di impresa. Nonostante ciò registra "come l'Università si sia mossa con trent'anni di ritardo rispetto alle scuole dell'obbligo". Se li ricorda, Dalla Chiesa, "i prof che ci facevano dormire a casa con loro perché non avevano soldi per ospitare i relatori in albergo, le docenti che passavano le notti a organizzare iniziative che venivano considerate "una perdita di tempo" dai colleghi e che raramente erano registrate all'esterno, dalla stampa, dalle istituzioni". Certo, "alcuni dirigenti puntavano e tutt'ora puntano sui grandi eventi, molto remunerativi in termini d'immagine ma poveri di continuità", e quindi incapaci di attecchire a fondo nelle coscienze. "Ma altrettanti hanno avviato percorsi profondi. Riconoscendo che la criminalità organizzata e i suoi codici sono un fenomeno profondo che non si può combattere stando in superficie", conclude il sociologo. Sono loro i maestri e le maestre a cui è dedicata la ricerca, "pionieri che non hanno mai chiesto niente, che pochi conoscono, che sono rimasti lontani dai palcoscenici", anche quando l'antimafia diventava una bandiera strattonata da tutti. Pionieri di "una storia civile fondamentale, che non va perduta". Sono esempi di un'Italia che di fronte alla violenza mafiosa si è mossa presto. Nella Milano dove ancora nel 2010 il prefetto Gian Valerio Lombardi dichiarava che le cosche "non esistono" in città, già nel 1986 Nando Benigno fondava il Coordinamento insegnanti e presidi in lotta contro la mafia, attraverso il quale organizzava maxi-assemblee di studenti e professori per analizzare e affrontare insieme le sfide della criminalità alla democrazia. Benigno, cresciuto in Puglia, "è portatore di una sensibilità "originaria" spesso superiore rispetto ai propri colleghi nati o cresciuti in contesti differenti: sia per quanto riguarda i temi della legalità sia, in particolare, per la necessità di contrastare il prepotere mafioso", osservano gli autori dello studio sulla Lombardia (Mattia Maestri, Sarah Mazzenzana, Samuele Motta). Si creano così dei ponti imprevisti, e necessari, fra Sud e Nord. Non avviene solo a Milano. Ci sono persone come Gaspare D'Angelo, originario di Cianciana, in provincia di Agrigento che per più di vent'anni ha insegnato all'Itis "Pietro Paleocapa", nella bergamasca, diventando colonna delle attività per la legalità. Nuclei di maestri di frontiera che si passano il testimone, diventando il filo rosso di una nuova resistenza tutta umana. Il riferimento non è casuale: il parallelo con la Resistenza è costante nei laboratori con cui le prime scuole del Piemonte affrontano la necessità di contrastare le cosche. Sulle colline di Bra, Fossano, e Alba, tre istituti tecnici iniziano nel 1984 un percorso di approfondimento che parte dalla memoria partigiana e porta i ragazzi, ricorda Irene Ciravegna, la docente di lettere che aveva avviato la strada, "ad avere l'opportunità ad esempio di incontrare il giudice Laudi, rimanendo colpiti dal fatto che il magistrato fosse costretto a viaggiare con la scorta, sacrificando la sua libertà personale". La memoria diventa materia viva. Porta all'esigenza di innovare forme e modi dello scambio. Dai viaggi scolastici alla tecnologia. Mariano Turigliatto è un volto storico di Grugliasco, grosso comune alle porte di Torino. Nel 1993 funzionari e politici del Comune vennero arrestati per tangenti. Lui diventerà sindaco, per poi tornare al suo vero mestiere: insegnare all'Itis Majorana della città. Dove, nel 1998, organizza una delle prime chat con Rita Borsellino e una video-intervista realizzata dagli studenti. "Nell'arco dello stesso anno l'intervento venne proiettato in almeno dieci scuole", racconta la ricercatrice Eleonora Cusin. Una sua alunna, intervistata al Tg, spiegava: "Attraverso la nostra presenza vogliamo dare una chiara testimonianza ai nostri coetanei siciliani che non sono soli in questa lotta di civiltà contro la mafia e che possono contare su di noi per combatterla". La Sicilia aveva iniziato a gettare le fondamenta per una nuova sensibilità comune attraverso una legge del 1980. Nata dalla voragine dell'omicidio del presidente regionale Piersanti Mattarella, il 6 gennaio di quell'anno, per la prima volta in Italia finanzia una volontà di rinascita a lungo periodo, attraverso corsi antimafia nelle scuole. Se questa è una storia che cresce dal basso, infatti, dalle singole aule, gli esempi raccolti nella ricerca mostrano il peso che hanno e possono avere politica, stampa e istituzioni quando non si limitano a fare da soprammobili. Uno dei molti casi raccolti al Sud da Martina Mazzeo è quello di un duraturo e costante progetto voluto dall'allora assessora all'Istruzione di Palermo Alessandra Siragusa. Si intitolava "adotta un monumento" e puntava a promuovere la partecipazione delle comunità alla vita della città, riappropriandosene, non lasciandola al consumo e al degrado. Dal 1992, per dieci anni, il percorso istituzionale ha permesso a adolescenti e bambini di studiare il territorio con esperti d'arte e di mafia. E alla città di riaprire molti monumenti prima chiusi al pubblico. Per riconoscere e portare un tributo forse piccolo, ma significativo, alla lotta alla criminalità organizzata, in Campania ci sono i 30 complessi scolastici intitolati a don Peppe Diana, Rosario Livatino, Ilaria Alpi, Giancarlo Siani, o Annalisa Durante, uccisa a 14 anni nel rione di Forcella. Per far germogliare idee diverse è fondamentale però che i ragazzi siano protagonisti. Che non stiano solo seduti a ascoltare un relatore per un giorno. Come piuttosto? Un liceo scientifico di Siderno lo ha fatto avviando un laboratorio in cui gli studenti erano invitati a seguire il modello di Fava, e diventare giornalisti, fare domande, scrivendo poi articoli che confluivano in una rivista della cooperativa di Libera Macramè. Un'idea simile si ritrova in Emilia Romagna, dove Daniele Paci propose già all'inizio del 1980 ai suoi coetanei, studenti, di realizzare inchieste sul traffico di eroina nel riminese. Gli alunni di medie e superiori si fecero carico di estendere quelle indagini nei loro quartieri. Insieme diedero vita ai primi comitati antimafia di Rimini, nel 1984. Era il momento degli inizi. Dopo, con i primi anni Duemila, le istituzioni, anche quelle scolastiche, hanno iniziato a normalizzare. Ad acquietare questo fiume smorzandone i toni, rinominando i corsi, diventati spesso obbligatori, sotto diciture più blande, oppure inserendo i progetti all'interno dell'ombrello dell'educazione "alla cittadinanza". Come se l'energia e l'esigenza di mantenere viva una storia civile dell'antimafia non fosse già sufficientemente importante in un paese come l'Italia. Negli ultimi anni però sono rifiorite nuove esperienze. Che hanno fatto tesoro delle migliori lezioni del fiume pedagogico raccontato nella ricerca, portando partecipazione, continuità e protagonismo per i ragazzi. Attraverso il teatro, ad esempio, come nel caso di "Dieci storie proprio così", uno spettacolo itinerante che coinvolge associazioni, testimoni di giustizia, storici, e soprattutto studenti, portando sul palco e nelle aule testimonianze dirette contro la mafia e laboratori educativi. Oppure attraverso i fumetti, come fa "daSud" nelle classi del Lazio, insieme al Miur e Repubblica, che partendo dalle storie disegnate di "McMafia" ha portato gli alunni del quartiere Cinecittà a fondare una web radio, oltre al giornale scolastico.

"I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi", scriveva Danilo Dolci in "Inventare il futuro": "È evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettivamente ciascuno, mirare a costruire e ad interrelare nuovi gruppi democratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclerotici: ad ogni livello". Quell'esigenza non si è spenta. Può, e deve, restare viva soprattutto fra i ragazzi, che una volta insieme "ad uno ad uno / sgrumandosi comunicano: / ogni voce è uno stimolo e un invito / ogni prova di scavo tende a unirli / osservo gli occhi disintorbidarsi", vedeva sempre Dolci, in "Poema Umano", nel 1974. Disintorbidarsi. Passandosi di banco in banco l'invito di Pippo Fava.

«L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Olindo Canali, oggi in servizio a Milano, è accusato di «corruzione in atti giudiziari». I pm: «Deve andare a processo». Lui: «Niente prescrizione». Per i pm che lo accusano è un giudice (oggi in servizio a Milano) che da pm in Sicilia si fece corrompere per proteggere due triplici killer e il boss mafioso mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano. Per la difesa è invece un giudice che rinuncia alla prescrizione e chiede un processo-lampo sulle accuse false e tardive (oltre i 180 giorni) di un collaboratore di giustizia che riferisce parole di un morto su fatti di 19 e 11 anni fa. Il risultato attuale è che la Procura di Reggio Calabria chiede il rinvio a giudizio di un giudice civile molto stimato dai colleghi milanesi, Olindo Canali, per due ipotesi di «corruzioni in atti giudiziari» aggravate dall’aver agevolato il clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto del boss Giuseppe Gullotti quando là a fine anni ‘90 Canali era pm. Dop che Canali chiese la condanna a 30 anni di Carmelo D’Amico e Salvatore Micale per un triplice omicidio del 1993 ma gli imputati furono assolti in primo grado il 20 novembre 1999, l’assoluzione divenne definitiva perché il pm depositò l’appello non entro il termine del 3 aprile 2000 ma il 7 aprile (pur con data 3 aprile), e poi il 14 aprile vi rinunciò «per errore di calcolo». Ora la Procura di Reggio Calabria, sulla scorta di dichiarazioni nel 2015 proprio di D’Amico divenuto collaboratore nel 2014, collega l’errore a «100 milioni di lire promessi a Canali», che così si sarebbe «adoperato per condizionare l’esito del processo». Il giudice ribatte che l’appello in ritardo fu davvero un errore; che nemmeno pg e parti civili appellarono; che i capi, pur se non lo ricordano, erano informati; e che è contraddittorio che D’Amico racconti anche d’aver nel 2002 cercato un modo per ricattare il pm se già nel 2000 l’aveva comprato. Per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano l’8 gennaio del 1993, dopo un’iniziale assoluzione, su ricorso di Canali furono poi condannati in via definitiva i ritenuti esecutore Nino Merlino (21 anni) e mandante Giuseppe Gullotti (30 anni). Il 9 marzo 2009, nel processo d’appello «Mare Nostrum» per associazione, l’avvocato di Gullotti, Franco Bertolone, depositò un anonimo che disse trovato nella posta, e che additava la condanna di Gullotti ingiusta e meritevole di revisione. L’aveva redatto nel 2006 proprio Canali, il quale per i pm reggini lo «inviò il 9 gennaio 2006 all’avvocato Fabio Repici» (parte civile per la figlia di Alfano, Sonia) e «l’11 gennaio al giornalista Leonardo Orlando», dicendogli di renderlo pubblico in caso di arresto: timore del pm, all’epoca, per le polemiche sulla sua frequentazione del medico Salvatore Rugolo, consulente giudiziario ma figlio del boss barcellonese e cognato del capomafia Gullotti. Dopo 2 anni Repici nel 2008 depositò lo scritto ai pm di Messina, ai quali in dicembre Canali ne ammise la paternità. Poi in aula lo tirò fuori pure il legale di Gullotti, Canali fu chiamato teste il 15 aprile 2009, lo spiegò come momento di sconforto e isolamento, fu denunciato da Repici per falsa testimonianza, condannato in primo grado a 2 anni ma assolto in via definitiva a Messina nel 2013 «perché il fatto non sussiste». Adesso l’accusa stilata dal procuratore aggiunto reggino Gaetano Paci è che Canali abbia scritto il memoriale (pervenuto non si sa come anche al legale di Gullotti che l’utilizzò per cercare di ottenere la revisione della condanna definitiva del boss) in cambio del denaro («50.000 euro» su «300.000 promessi») che il collaboratore D’Amico asserisce d’aver consegnato nel 2008 a Rugolo intermediario di Gullotti. Rugolo non può confermare perché è morto il 26 ottobre 2008, ma l’accusa valorizza «le espresse indicazioni fornite da Gullotti mediante la corrispondenza epistolare con la sorella Fortunata dal carcere di Cuneo» (in regime di 41 bis) in 7 lettere tra giugno e dicembre 2008, specie nella frase «si devono portare i soldi» a un legale. I difensori Francesco Arata e Ugo Colonna obiettano che Canali già dal 2005 non aveva più con Rugolo i rapporti iniziati solo nel 2001; che nel 2006 Gullotti denunciò Canali incolpandolo della propria condanna; e che tutti i conti bancari forniti dal giudice provano la liceità dei soldi usati per una casa. Inoltre la difesa, in forza di relazioni del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala ai pm che l’avvocato di parte civile Repici, come assistente dell’allora parlamentare Sonia Alfano, nel 2012 sia entrato in carcere con lei e con il senatore Beppe Lumìa a colloquio con il boss Gullotti proprio anche sul processo.

La verità di Giovanardi contro la Procura di Bologna. La memoria di difesa dell’ex ministro contro la richiesta dei pm al Senato di poter utilizzare in aula cinque sue telefonate del 2013. Maurizio Tortorella il 7 novembre 2019 su Panorama. Davanti alla Giunta delle elezioni del Senato è in atto una importante partita, che è insieme politica, giudiziaria e di diritto costituzionale. La Procura di Bologna vorrebbe dal Senato l’autorizzazione a utilizzare cinque intercettazioni telefoniche del 2013 in un procedimento penale che vede coinvolto Carlo Giovanardi, parlamentare per sette legislature, tra la Dc e il centrodestra berlusconiano, e poi senatore dal 2013 al 2018. La Direzione antimafia di Bologna contesta all'ex senatore i reati di minaccia a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato, minaccia a pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio con l'aggravante mafiosa. I pubblici ministeri bolognesi sostengono che Giovanardi, che è stato anche vicepresidente della Commissione antimafia nonché ministro berlusconiano per i Rapporti con il Parlamento, avrebbe rivelato documenti segreti, avrebbe addirittura minacciato carabinieri e fatto pressioni sulla prefettura di Modena al solo fine di fare ammettere nella cosiddetta white-list una società colpita da interdittiva antimafia, la Bianchini costruzioni, in modo da farla partecipare agli appalti della ricostruzione del terremoto del 2012 in Emilia. Giovanardi sostiene di essersi limitato ad agire, da senatore della Repubblica, in una battaglia politica contro i pericolosi eccessi delle interdittive antimafia. Martedì 29 ottobre i senatori che compongono la Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato hanno posto molte domande a Giovanardi, che si è difeso a spada tratta: “Chiedo di sollevare un conflitto di attribuzioni presso la Corte costituzionale con riferimento allo straripamento dei poteri dell'autorità giudiziaria sull'attività parlamentare” ha detto “anche alla luce di un fumus persecuzionis che appare evidente nelle 243 pagine della domanda di autorizzazione”. Per quanto riguarda le conversazioni telefoniche, essendo stata la prima telefonata intercettata il 23 marzo 2013 e le successive nel giugno e poi il 10 luglio, secondo Giovanardi “è evidente che tutte quelle successive alla prima non possono essere definite casuali”. Da qui deriva il rigetto della domanda di potere utilizzare i tabulati. “Dire che ero a conoscenza dei rapporti con la ‘ndrangheta intrattenuti da Augusto Bianchini” afferma Giovanardi “è una macroscopica menzogna, che viene smentita proprio dallo stesso materiale fornito dal Giudice per le indagini preliminari. Non soltanto infatti i Bianchini mi hanno ripetutamente giurato di non avere mai avuto rapporti con la Ndrangheta, ma nel video illegittimamente mostrato al processo Aemilia (si tratta di un video girato da Alessandro Bianchini nel suo studio, ndr), io incalzo ripetutamente i Bianchini a dirmi tutta la verità, perché se ci fossero state ombre sul loro comportamento sarebbero certamente emerse». Panorama pubblica in esclusiva le 14 pagine della memoria difensiva presentata da Giovanardi ai senatori. La loro decisione è attesa a breve. La Consulta dà ragione a Giovanardi.

Pm di Bologna contro Giovanardi: l’ex senatore vince il primo tempo. La Procura vuole usare in un processo cinque telefonate dell’ex senatore. La Giunta per le autorizzazioni a procedere chiede “motivazioni congrue”. Maurizio Tortorella il 17 novembre 2019 su Panorama. Carlo Giovanardi vince la prima fase della partita a scacchi giudiziaria che, da ex parlamentare, sta giocando al Senato contro la Procura di Bologna. I magistrati, infatti, vorrebbero dal Senato l’autorizzazione a utilizzare cinque intercettazioni telefoniche del 2013 in un procedimento penale che vede coinvolto lo stesso Giovanardi, per sette legislature parlamentare prima per la Dc e poi per il centrodestra berlusconiano, quindi senatore dal 2013 al 2018. La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ha però deliberato all’unanimità, prima ancora di valutare la richiesta dei magistrati, che le 243pagine presentate della Procura di Bologna non sono sufficienti. Ai magistrati la Commissione ha obiettato che, perché la Commissione stessa possa deliberare sugli atti d’intercettazione relativi alle telefonate, serve preventivamente “una motivazione specifica e congrua”. Nella decisione si sottolinea anche che, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale, nella richiesta dei pubblici ministeri deve sussistere sia "il requisito negativo" dell'assenza di ogni intento persecutorio o strumentale della richiesta, sia “quello positivo dell’affermata necessità dell' atto, motivata in termini di non implausibilità". La Direzione antimafia bolognese contesta all'ex senatore i reati di minaccia a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato, minaccia a pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio con l'aggravante mafiosa. I pm bolognesi sostengono che Giovanardi, che è stato anche membro della Commissione antimafia nonché ministro berlusconiano per i Rapporti con il Parlamento, avrebbe rivelato documenti segreti, avrebbe addirittura minacciato carabinieri e fatto pressioni sulla prefettura di Modena al solo fine di fare ammettere nella cosiddetta white-list una società colpita da interdittiva antimafia, la Bianchini costruzioni, in modo da farla partecipare agli appalti della ricostruzione del terremoto del 2012 in Emilia. Le telefonate di cui i pm vorrebbero poter disporre sono intercorse proprio tra Giovanardi e l’imprenditore Augusto Bianchini. Interrogato lo scorso 29 ottobre dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, Giovanardi ha contestato tutte le accuse, e ha depositato una memoria in 14 pagine (che Panorama ha pubblicato integralmente): Giovanardi ha sostenuto di essersi limitato ad agire, in qualità di senatore della Repubblica, in una battaglia politica contro i pericolosi eccessi delle interdittive antimafia. Giovanardi ha chiesto anche di sollevare “un conflitto di attribuzioni presso la Corte costituzionale con riferimento allo straripamento dei poteri dell'autorità giudiziaria sull'attività parlamentare” sostenendo l’esistenza “di un fumus persecuzionis che appare evidente nelle 243 pagine della domanda di autorizzazione”. Per quanto riguarda le conversazioni telefoniche, essendo stata la prima telefonata intercettata il 23 marzo 2013 e le successive nel giugno e poi il 10 luglio, secondo Giovanardi “è evidente che tutte quelle successive alla prima non possono essere definite casuali”. Da qui deriva il rigetto della domanda di potere utilizzare i tabulati. “Dire che ero a conoscenza dei rapporti con la ‘ndrangheta intrattenuti da Augusto Bianchini” ha aggiunto Giovanardi “è una macroscopica menzogna, che viene smentita proprio dallo stesso materiale fornito dal Giudice per le indagini preliminari. Non soltanto infatti i Bianchini mi hanno ripetutamente giurato di non avere mai avuto rapporti con la Ndrangheta, ma nel video illegittimamente mostrato al processo Aemilia (si tratta di un video girato da Alessandro Bianchini nel suo studio, ndr), io incalzo ripetutamente i Bianchini a dirmi tutta la verità, perché se ci fossero state ombre sul loro comportamento sarebbero certamente emerse». In attesa della risposta del Tribunale di Bologna, la Giunta per le autorizzazioni a procedere ora dovrà pronunciarsi anche sulla richiesta di Giovanardi di trasmettere la sua memoria al Consiglio superiore della magistratura, al ministro della Giustizia e alla Corte costituzionale sollevando il conflitto di attribuzioni. 

I suoi tabulati non potranno essere usato nel processo di Bologna: la libertà e l’autonomia del parlamentare non possono essere violate. Maurizio Tortorella il 6 marzo 2019 su Panorama. Non viola la Costituzione la norma che impone al giudice di chiedere alla Camera di appartenenza del parlamentare l'autorizzazione a utilizzare in giudizio, come mezzi di prova, i tabulati telefonici di utenze intestate a terzi, venute in contatto con quella del parlamentare. È quanto ha appena stabilito la Corte costituzionale con una sentenza (di cui è stato relatore il giudice Nicolò Zanon, ex membro del Consiglio superiore della magistratura), spiegando che il riferimento contenuto nel terzo comma dell'articolo 68 della Costituzione a "conversazioni o comunicazioni" induce a ritenere che siano coperti dalla garanzia costituzionale anche elementi più ampi: in particolare, quindi, anche "fatti comunicativi" ricavabili da un tabulato contenente data e ora delle conversazioni o delle comunicazioni, la loro durata, e le utenze coinvolte. I giudici della Consulta spiegano che il termine "comunicazioni" ha, tra i suoi comuni significati, quello di "contatto", "rapporto", "collegamento", ed evoca proprio i dati e le notizie che un tabulato telefonico è in grado di rivelare. La questione era stata sollevata davanti alla Corte costituzionale dal giudice del Tribunale di Bologna, in un procedimento nel quale è indagato l’ex senatore del centrodestra ed ex ministro Carlo Giovanardi. Secondo i pubblici ministeri, il terzo comma dell'articolo 68 della Costituzione imporrebbe l'autorizzazione della Camera esclusivamente per sottoporre i membri del Parlamento a intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ma non menzionando i tabulati li ammetterebbe. Di diverso avviso si dice adesso la Corte costituzionale, che, nella sua sentenza, rileva anche che "la ragion d'essere della garanzia costituzionale non è affatto la tutela della privacy del parlamentare bensì la tutela della libertà della funzione che egli esercita, in conformità alla natura delle immunità parlamentari, dirette a proteggere l'autonomia e l'indipendenza delle Camere rispetto a indebite invadenze di altri poteri e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti in favore di chi è investito della funzione". Per queste ragioni, dunque, la garanzia si estende all'utilizzo in giudizio del tabulato telefonico, in quanto "atto idoneo a incidere sulla libertà di comunicazione del parlamentare". Il risultato è un monito severo alla magistratura penale. Non soltanto a quella bolognese.

L’ultimo giallo su Messina Denaro in un’intercettazione. “Iddu lo accompagnavano alla stazione di Trapani”. Il ritratto di Matteo Messina Denaro nel salone della sua casa di Trapani, dove abita l'anziana madre. Nuovo blitz della Dda di Palermo: un vecchio massone siciliano trasferitosi a Bologna gestiva affari di droga fra la Spagna e Milano. Tre arresti di Ros e Gico. Uno dei trafficanti percepiva il reddito di cittadinanza. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 13 novembre 2019. “Iddu veniva a Trapani”, sussurra il figlio di un storico mafioso palermitano. E’ una tranquilla mattina di due anni fa. “Iddu?”, chiede il vecchio massone trapanese. “Sì, iddu – conferma il rampollo – lo accompagnava Mimmo alla stazione”. Forse con una Mercedes. E’ un attimo, la conversazione è disturbata, ma gli occhi del giovane maresciallo del Ros che con i suoi compagni dà la caccia a Matteo Messina Denaro si illuminano. “Iddu”, lui, Trapani, stazione, Mimmo, come uno dei fedelissimi del superlatitante, Mimmo Scimonelli, che aveva proprio quel tipo di auto. Ecco cos’era la “carrozza” di cui parlavano i mafiosi quattro anni fa, quando distribuivano i pizzini: “Con la stessa carrozza arrivarono”, così dicevano. La carrozza del treno. Nell’epoca di auto veloci e aerei, nessuno mai – fino a due anni fa – aveva pensato alla vecchia carrozza ferroviaria per la fuga infinita del pupillo di Totò Riina, Matteo Messina Denaro, il capomafia trapanese condannato all’ergastolo per le stragi del 1993. Questa è un’indagine che continua a riservare un colpo di scena dietro l’altro. E stamattina il nuovo capitolo della storia è iniziato prima dell’alba: i carabinieri del Ros e i finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo hanno arrestato il vecchio massone trapanese dell’intercettazione su “Iddu” alla stazione, si chiama Antonio Messina, e altre due persone accusate di aver organizzato un traffico di hashish fra la Spagna, Milano e la Sicilia. Le Fiamme Gialle hanno scoperto che uno dei trafficanti (con precedenti specifici), si chiama Nicolò Mistretta, è di Campobello di Mazara, incassava dall'aprile scorso il reddito di cittadinanza: 500 euro al mese. Criminali che provano a fare gli insospettabili. Per il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e il suo vice Paolo Guido un’altra mossa in questa partita a scacchi che sta diventano estenuante. Matteo Messina Denaro è latitante dal giugno 1993, è ormai un fantasma, le tracce in Sicilia si sono diradate e adesso la partita si gioca oltre lo stretto. Questa mattina, l’indagine condotta dai sostituti procuratori Francesca Dessì, Gianluca De Leo e Pierangelo Padova ha fatto scattare perquisizioni a Milano, dove alcuni fedelissimi della primula rossa si erano trasferiti per affari e strani giri. Messina è stato invece arrestato a Bologna, dove abitava ormai da tempo: data l’età, 73 anni, resta ai domiciliari. Ma anche fuori dalla Sicilia, questa è una storia che è impregnata di passato, la vera forza del 57enne Messina Denaro: Antonio Messina, originario di Campobello di Mazara, è un ex avvocato radiato dopo una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa e droga, il pentito Rosario Spatola raccontava negli anni Novanta di sue relazioni romane e di contatti con i vertici di Cosa nostra palermitana. Un personaggio ancora oggi misterioso. Quella mattina di due anni fa, parlava di “Iddu” con Giuseppe Fidanzati, il figlio di Gaetano, storico trafficante di droga siciliano. Dove sarà mai Messina Denaro? Chi lo protegge? Che carta di credito sta utilizzando? Chissà se legge mai le notizie su Internet che riguardano i suoi fedelissimi, gli amici, i parenti, i familiari, sono tutti finiti in carcere per causa sua. Chissà se qualche volta si è nascosto dentro una viuzza di Castelvetrano per vedere sua figlia Lorenza, che oggi ha 24 anni, in un pizzino scriveva di non averla mai incontrata. Alla stazione di Trapani, una vecchia palazzina del 1880, non c’è ancora nessuno. Il primo treno, alle 5,45 è per Castelvetrano, la città della primula rossa. Alle 6,46 parte il treno per Ragusa, ci mette quasi quattordici ore per attraversare la Sicilia, un’eternità. Questa stazione è il posto perfetto per scomparire nel nulla.

La mafia in Parlamento. Forse per questo stanno tutti zitti (tranne Fdi). Francesco Storace lunedì 11 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Una settimana fa scoprivamo la mafia in Parlamento. C’era entrata grazie ad un contratto da 50 (cinquanta…) euro al mese sottoscritto dall’onorevole Giuseppina Occhionero con un assistente parlamentare di nome Antonello Nicosia (nella foto). Costui sta in carcere per associazione mafiosa, lei sta (ancora) alla Camera. Ma nessuno (tranne Fratelli d’Italia), le chiede di andarsene al più presto da Montecitorio. Peggio: nessuno, ad eccezione del partito di Giorgia Meloni, le chiede conto di quel che emerge dalle carte della magistratura. No, non è (ancora) indagata. Ma la assoluta inadeguatezza dell’onorevole – ricordate quel “ci faccia il piacere” di Toto’? – non sembra meritare censura dai suoi colleghi.

Sulla mafia Renzi e Fico stanno in silenzio. Tace il partito di elezione, Leu. Silenzio tombale dal partito di (recente) reclutamento, Italia Viva. Matteo Renzi – al pari della Boschi fuggita da una richiesta di intervista del Secolo – non pronuncia una sillaba su un caso che probabilmente lo imbarazza non poco. Cambia canale Nicola Zingaretti le rare volte che vede la Occhionero in televisione. È stupefacente e un po’ vigliacco l’atteggiamento  dei Cinquestelle. Di Maio fa finta di nulla ed è vergognoso. Si sono nascosti tutti.

La renziana fa caporalato col portaborse. Lo pagava appena cinquanta euro al mese. Occhionero svela ai pm lo stipendio del collaboratore indagato per mafia. Fabrizio Boschi, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale.  Lo scandalo di Antonello Nicosia, l'assistente parlamentare della deputata Giuseppina Occhionero, eletta con Liberi e Uguali e passata con l'Italia Viva di Matteo Renzi, che usava, secondo gli inquirenti, a suo piacimento il tesserino da collaboratore per fare da tramite tra i mafiosi in cella e quelli fuori, grazie alla possibilità di poter accedere alle carceri, ha riportato alla luce una vecchia vergogna: quella dei cosiddetti «portaborse». Il loro nome corretto sarebbe collaboratori o assistenti parlamentari, ma in Italia sono da sempre meglio conosciuti con il termine di portaborse, figura che ha anche ispirato un film di Daniele Luchetti. Una volta in più emergono i retroscena ripugnanti della nostra classe politica che non finisce mai di stupirci, in negativo. Occhionero ha raccontato ai magistrati che il contratto da lei stipulato con il suo ex collaboratore prevedeva una retribuzione di, udite, udite, 50 euro al mese. Sufficiente però per ottenere il tesserino da assistente parlamentare che, a parte consentirgli di circolare liberamente in Transatlantico e in tutti gli uffici del Parlamento, di usufruire delle mense con pasti a prezzi ridicoli, anche di entrare nelle carceri di massima sicurezza per tenere rapporti, dicono le intercettazioni, con i boss mafiosi detenuti al 41 bis. Sergio Rizzo su Repubblica (ri)spiega che in Italia i contratti vengono gestiti personalmente da deputati e senatori, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi dove sono le amministrazioni a fare i contratti e a pagare gli stipendi. Le amministrazioni di Montecitorio e Palazzo Madama, invece, sono sollevate da ogni responsabilità contrattuale, come pure da ogni controllo. Un'inchiesta de Le Iene del 2007 scoprì che su 683 collaboratori parlamentari appena 54 avevano un regolare contratto. Ma dopo 12 anni nulla è cambiato. Per farti dare il tesserino alla Camera è sufficiente che il deputato fornisca il tuo nome agli uffici, senza specificare contratti o somme. Al Senato, invece, è stato fissato recentemente un limite minimo di 375 euro al mese. Lordi ovviamente. I pochissimi portaborse fortunati, in mano a parlamentari onesti, che hanno un regolare contratto di lavoro, guadagnano circa 1.200 euro al mese, mentre per tutti gli altri la media va dai 500 agli 800 euro, la maggior parte in nero. Poi ci sono quelli a gratis, che gli onorevoli chiamano i «volontari». Un vero e proprio caporalato nel luogo dove si fanno le leggi. Scandaloso. Eppure ogni deputato riceve una somma che dovrebbe servire proprio per pagare i portaborse: 3.690 euro al mese. E ogni senatore 4.180. Ben 22mila e 25mila euro all'anno esentasse per un totale di 8 milioni al Senato e 14 alla Camera che finiscono, nella maggior parte dei casi, nelle tasche dei parlamentari (o dei loro partiti). Come quello che anni fa licenziò il proprio collaboratore perché disse che con quella somma doveva pagarci il mutuo di casa. Vabbè, siamo in Italia dai.

Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 18 novembre 2019. C'è un buco nero, da sempre, nel Parlamento italiano. Una falla che nessuno, finora, ha però voluto colmare. Ma dopo il caso clamoroso di Antonello Nicosia, l'assistente parlamentare che entrava in carcere con il tesserino della Camera per tenere rapporti, dicono le intercettazioni, con i boss mafiosi detenuti al 41 bis, questa storia rischia di deflagrare già nei prossimi giorni al Senato durante la discussione sul bilancio interno. Dove si prepara una battaglia a colpi di ordini del giorno. La deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero ha raccontato ai magistrati che le chiedevano chiarimenti, secondo quanto riferisce il giornale online agrigentino Grandangolo, che il regolare contratto da lei stipulato con l' ormai ex collaboratore Nicosia prevedeva una retribuzione di 50 euro al mese. Per quanto possa sembrare incredibile, cinquanta euro sono dunque sufficienti per avere un tesserino che consente che di circolare liberamente negli uffici del parlamento e magari fare una capatina nelle carceri di massima sicurezza. Senza alcun controllo. Possibile? Proprio così. Gli incarichi ai collaboratori sono strettamente fiduciari, com' è giusto che sia. Ma in Italia i contratti sono gestiti personalmente dai deputati e dai senatori, contrariamente a quanto avviene altrove. A Strasburgo, per esempio, gli europarlamentari nominano all' inizio del mandato i propri collaboratori ma è poi l' amministrazione che fa i contratti e paga gli stipendi. Con tutte le garanzie del caso, ovvio. Da noi, invece, deputati e senatori provvedono direttamente anche a retribuire gli assistenti, ma senza alcun obbligo particolare. E le amministrazioni di Montecitorio e Palazzo Madama sono sollevate da qualunque tipo di responsabilità contrattuale come pure da ogni controllo. Per avere il tesserino alla Camera è sufficiente depositare un contratto almeno annuale: di qualunque importo, come sta a dimostrare il caso Nicosia. Al Senato invece è stato fissato per regolamento un limite minimo di 375 euro al mese. Lordi, s' intende. Ed è chiaro che in condizioni del genere si possono produrre situazioni di ogni tipo. La storia è vecchia. Nel 2007 le Iene scoprirono che su 683 collaboratori parlamentari appena 54 avevano un regolare contratto. Ma da allora è cambiato poco o nulla. Basta dire che alla fine della legislatura spirata nel 2018 si contavano soltanto al Senato, oltre a 44 contratti co.co.co. (una formula abolita ormai da anni), 43 consulenze con partita Iva e 11 non meglio precisate "prestazioni occasionali". Mentre a una domanda di Report a proposito del numero dei collaboratori ufficialmente registrati alla Camera il presidente Roberto Fico ha risposto qualche mese fa: «Circa 400». Solo quattrocento per 630 deputati? Certo, c' è anche un partito, la Lega di Matteo Salvini, i cui parlamentari fanno addirittura a meno di collaboratori personali. Ma di tutto questo non ne può non risentire la stessa attività del Parlamento. Un deputato che non ha uno staff adeguato non farà bene il proprio lavoro. Per questa ragione il parlamento britannico stanzia per i collaboratori di ogni eletto l' equivalente di 14 mila euro e quello tedesco 15.798. L' Europarlamento addirittura 21.209: da cinque a sei volte le somme assegnate ai nostri deputati e senatori. Però la verità è che questo nostro sistema apparentemente meno dispendionso, libera un sacco di risorse soprattutto per i partiti sempre più poveri. E proprio a scapito della qualità del lavoro parlamentare, evidentemente sempre meno importante. Per pagare i collaboratori ogni deputato può contare su 3.690 euro al mese, che salgono a 4.180 per i senatori. Ma solo metà della somma va rendicontata. Ne consegue che ogni deputato e senatore dispone rispettivamente di 22 mila e 25 mila euro l' anno esentasse, di cui non deve giustificare l'utilizzo, magari pronti per essere girati al partito: beneficiando in più di una detrazione del 26 per cento. Non sono pochi soldi. Parliamo di 8 milioni al Senato e 14 alla Camera pronti a evaporare. Ecco spiegato perché nessuno ha mai voluto mettere mano a uno stato di cose semplicemente scandaloso per il parlamento, che dovrebbe essere il tempio della legalità. «Oggi esistiamo solo come tesserini da autorizzare, non abbiamo statuto professionale, né una voce di bilancio autonoma. Ma neppure un codice di condotta, ed è inaccettabile », denuncia José De Falco, il presidente dell' associazione dei collaboratori. Ma nessun effetto hanno avuto, finora, i propositi di Fico espressi in diversi incontri proprio con i rappresentanti di quell' associazione. Né le pressioni di alcuni parlamentari, come Riccardo Magi di +Europa, che si è visto bocciare ripetutamente, l' ultima volta pochi giorni fa, gli ordini del giorno presentati per approdare a una situazione più civile. I costi sono la scusa dietro a cui il palazzo si è sempre nascosto. Nel 2018 il collegio dei questori aveva calcolato che la Camera avrebbe dovuto sopportare un costo fra 6 e 8 milioni l' anno se avesse avuto l' incombenza di gestire direttamente, ma sempre con quei denari oggi assegnati ai parlamentari, contratti regolari con retribuzioni fino a 1.500 euro netti al mese. Troppo, era stata la conclusione. Troppo, per un bilancio di 943 milioni l' anno e 450 milioni spesi fra stipendi e pensioni del personale. Troppo. Eppure il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari avrebbe fatto risparmiare (Fico dixit) 44 milioni l' anno: se è così, meno del 20 per cento di quella somma basterebbe per mettere in regola qualche centinaio di ragazzi e tenere il parlamento al riparo da altri casi come quello di Nicosia. E non si può fare a meno di notare che mentre c' è chi annaspa nel precariato, la Camera dove si è appena deciso di ridurre da 630 a 400 i deputati ha deciso di bandire un concorso per assumere 30 nuovi consiglieri parlamentari.

Mafia e politica, il connubio: nel 1893 la prima vittima eccellente. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Mieli. Enzo Ciconte rievoca l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, custode dei conti al Banco di Sicilia. Il deputato Palizzolo, accusato del mandato, fu assolto in Cassazione. Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, rispettato esponente della Destra storica, nominato da Marco Minghetti direttore generale del Banco di Sicilia, fu assassinato la sera del 1° febbraio 1893 con più di venti colpi di pugnale. Il fatto avvenne in una carrozza di prima classe del treno che stava viaggiando da Termini Imerese a Trabia. Il cadavere fu gettato fuori dal vagone all’altezza del ponte di Curreri. Ma nessuno avvertì i familiari dell’accaduto. Alla stazione di Palermo Notarbartolo era atteso da tre donne: la moglie e le figlie. L’inchiesta per quel delitto fu avviata a Palermo, ma i processi si svolsero a Milano, Bologna, Roma e a Firenze dove, dieci anni dopo, il dibattimento si concluse senza una «verità giudiziaria» che indicasse specifici colpevoli (come, del resto, accadde per il contemporaneo scandalo della Banca Romana). Si ritenne però generalmente — e ancora si ritiene — che l’uccisione fosse riconducibile a ciò che Notarbartolo aveva fatto o fosse in procinto di fare al Banco di Sicilia. Si ipotizzò che i mandanti facessero riferimento alla mafia nelle persone di Giuseppe Fontana (esecutore materiale) e del parlamentare Raffaele Palizzolo. Qualcuno ipotizzò un qualche coinvolgimento del più importante uomo politico dell’epoca, il siciliano Francesco Crispi. Esce in libreria giovedì 14 novembre il saggio di Enzo Ciconte, «Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo?» (Salerno, pagine 232, euro 14)Enzo Ciconte in Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafiosoche la Salerno si accinge a mandare in libreria, prende le mosse dalla circostanza che, passato il momento dell’emozione, «a nessuno se non al figlio e a pochi altri», sia più importato conoscere cosa era davvero successo su quel treno. Quantomeno in apparenza. Perché gli storici, uno per tutti Salvatore Lupo in Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni (Donzelli), successivamente sarebbero ampiamente tornati su quell’episodio di sangue. Qualcuno, come Amelia Crisantino — in Della segreta e operosa associazione. Una setta alle origini della mafia (Sellerio) — per mettere in evidenza come un processo molto somigliante al caso Notarbartolo, quello per gli assassinii di Monreale nell’estate 1876, nonostante innumerevoli prove si concluse anch’esso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Qualcun altro, come Saverio Lodato e Roberto Scarpinato — in Il ritorno del principe (Chiarelettere) — per ipotizzare che l’imputato Palizzolo, condannato a trent’anni nel 1902 a Bologna, sia stato assolto due anni dopo in Cassazione «perché essenziale per gli equilibri del sistema». Nato a Soriano Calabro (Vibo Valentia) nel 1947, Enzo Ciconte è uno dei maggiori esperti di criminalità organizzata e insegna Storia delle mafie italiane all’Università di PaviaAl centro della ricostruzione di Ciconte sta quello che a suo tempo già notò Paolo Pezzino (in Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia postunitaria edito da Franco Angeli) e cioè che la repressione del fenomeno mafioso si accompagnò e addirittura fu «condizionata dalla liquidazione di avversari politici». Molti uomini delle classi dirigenti del Nord inviati dopo l’unità nel Mezzogiorno, scrive Ciconte, «combattevano la mafia solo quando l’accusa di essere mafiosi poteva essere scagliata come un sasso contro nemici politici», mentre «le attività concrete, le violenze, i morti ammazzati, l’insediamento sociale e territoriale della mafia non erano contrastati se non quando veniva superata la soglia della tollerabilità sociale». C’è nella Sicilia di quegli anni una caduta delle barriere tra Sinistra e Destra storica e lì si anticipa il fenomeno del trasformismo che avrebbe caratterizzato l’Italia tutta a fine Ottocento. Quello dell’imputato Palizzolo è un caso paradigmatico: nel 1885 fu affiancato a Notarbartolo alla guida del Banco di Sicilia su intercessione di esponenti della Sinistra, soprattutto Francesco Crispi. Qualche tempo dopo (nel 1890), Notarbartolo — integerrimo custode dei conti del Banco — venne estromesso dalla guida dell’istituto di credito. Crispi gli offrì, a compensazione e forse per comprarne il silenzio, l’incarico di prefetto di Palermo. Notarbartolo rifiutò. Avesse accettato, si sarebbe reso complice, così disse lui stesso, di un «abietto vassallaggio politico». E continuò, in virtù del suo indiscusso prestigio, a «sorvegliare» le attività del Banco. Banco che per ritorsione, con una serie di cavilli, non volle riconoscere il diritto di Notarbartolo a riscuotere la pensione. L’uomo fu costretto a fare causa. Vinse. Ma il Banco ricorse in appello. Notarbartolo ottenne soddisfazione una seconda volta. Solo nel 1893, dopo la sua uccisione, il consiglio deliberò la rinuncia a un nuovo ricorso in Cassazione contro il «già sapiente direttore di questo Banco». Un riconoscimento, quest’ultimo, alquanto tardivo. Palizzolo, il nemico di Notarbartolo, era, secondo Ciconte, «di tutt’altra pasta» rispetto all’ucciso. Un politico di lungo corso, «abituato a cambiare casacca e a fare politica aggrappandosi a chiunque potesse dargli un voto che fosse utile a farlo eleggere». Ci fu chi «lo elogiò e lo sostenne oltre ogni ragionevolezza» e ci fu chi «lo condannò aspramente per i suoi rapporti oscuri e i legami con briganti e con mafiosi conclamati». Tutti erano d’accordo nel riconoscergli «una grande capacità di rapporti personali con chiunque, senza guardare alla qualità delle persone, se fossero oneste o se fossero dei gaglioffi, o, peggio, dei criminali». Era, per Ciconte, un «accaparrapoltrone». All’inizio degli anni Ottanta presiedeva oltre cinquanta associazioni economiche e politico-culturali nella provincia di Palermo. Si vantava, Palizzolo, di non essere «uomo di parte». «La sua casa era perennemente aperta a chiunque volesse», riferì, al processo, il proprietario terriero Eugenio Oliveri. Un altro testimone, Girolamo Isabella, raccontò che «da Palizzolo si andava la mattina presto e riceveva tutti a letto»; i suoi interlocutori, disse ancora Isabella, «prima di esporre il problema dovevano sentire le sue poesie o i discorsi da lui fatti alla Camera». Un secondo possidente, Giuseppe Petro, confermò queste abitudini del parlamentare banchiere: Palizzolo «aveva la vanagloria di essere una persona influente, di ricevere le persone stando a letto e scrivere per loro lettere di raccomandazione». «Loro», specificò Petro, potevano avere le sue stesse, peraltro mutevoli, idee politiche o anche quelle opposte. Non era importante. E anche la mafia… Un magistrato raccontò che Palizzolo gli aveva raccomandato alcuni mafiosi, ma che lui aveva continuato a frequentarlo perché voleva che aiutasse suo figlio a «passare gli esami». Il questore Michele Lucchesi rivelò candidamente che lui stesso e altri funzionari di polizia erano stati «intimi» di Palizzolo dal momento che la sua «casina» era aperta a tutti. I suoi rapporti con la malavita organizzata vennero alla luce sin dalla prima volta che provò a presentarsi alle elezioni, allorché il prefetto di Palermo Antonio Malusardi e il ministro dell’Interno Giovanni Nicotera impedirono a lui e al suo rivale, Giuseppe Torina, di candidarsi a causa dei sospetti che gravavano sul loro conto. Si difese, Palizzolo, vantando che dal 1870 al 1899 era sempre stato consigliere comunale di Palermo e, tenne a specificare, «anche quando io ero già in arresto riportai mille e novecento voti». Ai giudici che gli chiedevano conto di alcune intercessioni a favore di malavitosi ammise dicendo: «Talvolta ho potuto espletare qualche pratica anche per persone di non assoluta onestà». Poi però si rivolse provocatoriamente ai magistrati: «Ma non fanno così tutti i deputati del regno?». Molti siciliani illustri, di destra e di sinistra, si schierarono dalla sua parte. Nella Storia della Sicilia medievale e moderna (Laterza), Denis Mack Smith notò come «un pericoloso e spesso isterico patriottismo locale era stato fomentato fra i siciliani tanto di destra quanto di sinistra» i quali — per quanto venuti in urto con Palizzolo per il fatto che «aveva messo in luce l’aspetto peggiore della barbara macchina politica palermitana» — erano «irritati anche di più per l’altera e talvolta sprezzante reazione dei settentrionali». Fu così che, appena Palizzolo venne condannato, si formò in sua difesa un comitato trasversale «Pro Sicilia», che impensierì non poco il governo di Roma. L’attività di questo comitato, scrive Ciconte, «esercitò un vero e proprio ricatto, minacciando agitazioni popolari che avrebbero avuto la copertura dell’aristocrazia e della borghesia ai massimi livelli». Sicché negli «ambienti governativi più avvertiti» emerse la convinzione — una sorta di «opportunismo pragmatico» — che, come ha scritto Sergio Turone in Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2 (Laterza), non avesse senso «rischiare che gli amici di Palizzolo scatenassero una regione intera contro il potere centrale». In questo clima di «condiscendente omertà», secondo Turone «la magistratura fiutò i voleri della classe politica» e, tramite la Cassazione, inaugurò il nuovo corso che avrebbe portato all’assoluzione di Palizzolo. Il quale comunque — notò Gaetano Mosca anch’egli colpito dal fatto che la casa di Palizzolo «fosse indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi» — ad di là dell’assoluzione finale, era apparso nella sua luce peggiore «se non delinquente, almeno protettore di delinquenti e sospetto perfino di relazioni coi briganti». Nel novembre 1899 fu il figlio di Notarbartolo, l’allora trentenne Leopoldo, ad accusare Palizzolo — nel corso delle udienze milanesi — di essere il mandante dell’uccisione di suo padre. L’allora giovane e sconosciuto prete di Caltagirone, Luigi Sturzo, prese spunto dalle parole del giovane Leopoldo per denunciare i «tentacoli» della mafia: su Palermo sì, ma anche su Roma e su Montecitorio. Palizzolo si difese confermando di essere stato «sempre in lotta con l’ucciso», ma ricordando che con lui c’era la maggioranza del consiglio del Banco di Sicilia e ponendo la domanda: «Da quando in qua la discrepanza di opinioni in un consesso può elevarsi a delitto?». Il clima però era cambiato. L’omertà si era incrinata: fu arrestato in aula il commissario di pubblica sicurezza Francesco Di Blasi, uomo di Palizzolo, di cui venne provato il depistaggio delle indagini. Il questore di Milano Eugenio Ballabio definì Di Blasi «il Mefistofele della questura di Palermo», colui che «ci ha tratto fuori di strada». Di Blasi si limitò a riconoscere che talvolta Palizzolo gli aveva raccomandato «qualche persona forse non troppo rispettabile». Però aggiunse: «Le raccomandazioni per persone non meritevoli non me le ha fatte il solo Palizzolo, ma tutti i deputati anche dell’Alta Italia». Un esponente politico d’alto rango, Antonio Starabba marchese di Rudinì, siciliano, già presidente del Consiglio, espresse a quel punto la preoccupazione che Milano fosse diventata un «palcoscenico» dove finivano sotto i riflettori «le centinaia di testimoni provenienti dalla Sicilia, vestiti in strane fogge, che si esprimono in un idioma reso comprensibile solo da interpreti nominati dai magistrati». Il Parlamento tremò e concesse l’autorizzazione all’arresto di Palizzolo. Nel 1901 il processo si trasferì a Bologna. Qui la celeberrima dichiarazione di Ignazio Florio, rappresentante della potente dinastia siciliana: «La maffia? Non l’ho mai sentita nominare… È incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni? Mai! Mai!». Palizzolo, contro il quale si erano addensate prove ancorché non definitive, venne condannato a trent’anni. Il prefetto bolognese Giacomelli telegrafò al ministero dell’Interno informandolo che alla lettura della sentenza «folla numerosa applaude accompagnando difensori parte civile». Ma la Sicilia si ribellò e la Cassazione si vide «costretta» ad annullare il processo per vizi di forma. Tutti assolti. L’esecutore del delitto, Fontana, andò a New York, aprì una pizzeria che divenne punto di ritrovo degli affiliati alla «Mano Nera» e dopo un po’ fu assassinato. Palizzolo riuscì persino a far dimenticare il suo nome. Nome che ebbe nuova fama, moltissimi anni dopo, nel 1993, come protagonista dello straordinario romanzo Il Cigno (Rizzoli) di Sebastiano Vassalli. Enzo Ciconte presenterà a Roma il suo libro Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? (Salerno) in occasione del festival Più Libri Più Liberi, che si terrà presso La Nuvola (viale Asia 40). L’incontro è in programma domenica 8 dicembre alle 15.30 in Sala Luna: si confrontano con l’autore il direttore dell’«Espresso» Marco Damilano e il ministro per il Sud e la Coesione territoriale Giuseppe Provenzano. Il caso Notarbartolo è stato trattato in diversi libri sulla mafia. Tra gli altri: Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni (Donzelli, 1993); Amelia Crisantino, Della segreta e operosa associazione (Sellerio, 2000); Saverio Lodato e Roberto Scarpinato, Il ritorno del principe (Chiarelettere, 2008).

Palermo, deputata di Italia Viva indagata per falso. Giusy Occhionero avrebbe fatto passare Antonello Nicosia, poi arrestato per mafia, per suo assistente. Il rapporto di collaborazione però sarebbe stato formalizzato solo successivamente. La Repubblica il 06 dicembre 2019. La deputata di Italia Viva Giusy Occhionero è indagata dai pm di Palermo per falso in concorso. Avrebbe fatto passare il Radicale Antonello Nicosia, poi arrestato per mafia, per suo assistente, consentendogli di entrare nelle carceri. Il rapporto di collaborazione tra i due, però, sarebbe stato formalizzato solo successivamente. Alla parlamentare è stato notificato un avviso di garanzia. La parlamentare, che all'epoca dei fatti era esponente di Leu, era stata sentita nelle scorse settimane dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara e Francesca Dessì nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di Nicosia, del boss di Sciacca Accursio Dimino e di due presunti favoreggiatori. Dall'indagine era emerso che, oltre a progettare estorsioni e omicidi, Nicosia entrava e usciva dalle carceri, incontrando anche capimafia detenuti al 41 bis, proprio grazie alla Occhionero. I due si erano conosciuti tramite i Radicali. Il 21 dicembre, dopo avuto con Nicosia solo contatti telefonici, Occhionero è arrivata a Palermo e ha incontrato l'esponente radicale con cui è andata immediatamente a fare una ispezione al carcere Pagliarelli. All'ingresso ha dichiarato che Nicosia era un suo collaboratore: circostanza, hanno accertato i pm anche attraverso indagini alla Camera, falsa. All'epoca, infatti nessun rapporto di lavoro era stato formalizzato. Il giorno successivo i due hanno fatto, con le stesse modalità, visite nelle carceri di Agrigento e Sciacca. Nicosia, che è stato arrestato per mafia, è ora indagato con la Occhionero per falso in concorso aggravato dall'avere favorito Cosa nostra. Alla parlamentare è stato anche notificato un invito a comparire per la prossima settimana.

F. Ame per la Verità il 7 dicembre 2019. Quando Antonello Nicosia, sedicente professore con in dote una condanna a 10 anni per droga, radicale incallito col pallino dei diritti dei detenuti nonché (sostengono i magistrati palermitani che hanno disposto il suo arresto) relazioni con uomini legati all' imprendibile mammasantissima della mafia Matteo Messina Denaro, è entrato nel carcere di Palermo, la deputata Pina Occhionero, ex compagna di banco alla Camera di Pier Luigi Bersani passata con Italia viva all' ultima Leopolda, ha dichiarato che il professore era un suo collaboratore. Falso. Quella dichiarazione le è costata l'iscrizione nel registro degli indagati. Ha fatto passare Nicosia per suo assistente, consentendogli di entrare in carcere. Ma, hanno scoperto i magistrati, il rapporto di collaborazione tra i due sarebbe stato formalizzato solo successivamente. Alla parlamentare è stato quindi notificato ieri un avviso di garanzia. La parlamentare era anche stata sentita nelle scorse settimane dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara e Francesca Dessì proprio nell' ambito dell' inchiesta che ha portato all' arresto di Nicosia, del boss di Sciacca Accursio Dimino e di due indagati indicati come favoreggiatori. Dall' indagine, passata molto sotto traccia (Matteo Renzi, Italia Viva e gran parte della stampa, come denunciato da Francesco Storace sul Secolo d' Italia, sono rimasti in silenzio) era emerso che Nicosia, grazie alla collaborazione con la Occhionero, entrava e usciva dalle carceri, incontrando anche capimafia detenuti al 41 bis, tra i quali perfino il boss Filippo Guttadauro, il cognato della Primula rossa di Cosa Nostra che è detenuto in 41 bis a Tolmezzo. Dopo quell' incontro dalla deputata fu presentata un' interrogazione parlamentare grazie alla quale, come ha denunciato il parlamentare di Fratelli d' Italia Giovanni Donzelli, Guttadauro si oppose a una richiesta di archiviazione in un procedimento in cui, per via di quella detenzione andata oltre la condanna che doveva scontare, aveva denunciato lo Stato per associazione a delinquere. Occhionero e Nicosia si erano conosciuti tramite i Radicali. Il 21 dicembre, dopo aver avuto con Nicosia solo contatti telefonici, Occhionero è arrivata a Palermo e ha incontrato il sedicente professore con cui è andata immediatamente a fare un'ispezione al carcere Pagliarelli. E all'ingresso ha dichiarato che Nicosia era un suo collaboratore: circostanza che, hanno accertato i pm anche attraverso indagini alla Camera, è risultata falsa. All' epoca, infatti, stando all' inchiesta, nessun rapporto di lavoro era stato formalizzato. Il giorno successivo i due hanno fatto, con le stesse modalità, visite nelle carceri di Agrigento e Sciacca. Nicosia, che è stato arrestato per mafia, ora è indagato con la Occhionero anche per falso in concorso, aggravato dall' aver favorito l' associazione di stampo mafioso denominata Cosa nostra. Alla parlamentare, che quando è stata sentita in Procura era caduta dal pero, sostenendo di essersi sbagliata a fidarsi del collaboratore, è stato notificato un invito a comparire per rendere interrogatorio la prossima settimana.

Caso Nicosia: la deputata Occhionero e il “postino” della mafia.  Le Iene il 13 Novembre 2019. Ismaele La Vardera, ci racconta il caso di Antonello Nicosia, arrestato con l’accusa di utilizzare il suo ruolo da assistente della deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero per entrare nelle carceri e favorire boss vicini al capo latitante della mafia Matteo Messina Denaro. Ismaele La Vardera ci racconta il caso di Antonello Nicosia, l’ex assistente parlamentare della deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero. Nicosia è stato arrestato qualche giorno fa con l’accusa gravissima di associazione mafiosa. Un uomo che al telefono, intercettato dagli inquirenti, diceva così di Falcone e Borsellino: “Sono vittime di un incidente sul lavoro”. Nicosia, che nel curriculum e sui social si vantava di essere esperto di “trattamento pedagogico penitenziario” e che era presidente di una onlus che si occupava di diritti umani, secondo i magistrati avrebbe utilizzato il suo ruolo da assistente parlamentare per entrare in carcere e fare da “postino” ai boss mafiosi condannati in via definitiva. E, dicono sempre gli inquirenti, favorendo il boss Santo Sacco, che lo stesso Nicosia (in un’altra intercettazione) dice di essere vicino al potentissimo latitante Matteo Messina Denaro. Per i giudici Nicosia, che si è scoperto essere stato condannato in via definitiva a 10 anni per traffico di stupefacenti, avrebbe utilizzato quel ruolo da assistente parlamentare “schermare la sua partecipazione a Cosa Nostra”. Ismaele La Vardera va a sentire alcune delle persone che conoscevano Nicosia, dal suo legale alla madre, che sulle frasi a Falcone e Borsellino dice: “Mio figlio ha il vizio di scherzare, noi lo sappiamo che fa lo scemo”. Stando all’ipotesi dei magistrati Nicosia, invece di aiutare il boss Accursio Dimino nel reinserimento nel mondo del lavoro, avrebbe progettato con lui estorsioni, danneggiamenti e l’omicidio di un imprenditore di Sciacca. Il figlio di quel’imprenditore, a Ismaele La Vardera, dice di Nicosia: “È malato di mafia, è un genio del male”. Le indagini raccontano anche questo: sempre con quel boss, Nicosia avrebbe progettato di incendiare l’auto di un ex dipendente della ditta di famiglia Sicil Legno, colpevole di aver chiesto dei pagamenti arretrati che gli spettavano. “Nicosia me lo ricordo, era il figlio dell’amministratore della ditta”, spiega quel dipendente alla Iena. “Io svolgevo un ruolo che lui non ha potuto fare, perché poi è stato buttato fuori da suo zio, non era affidabile. Possiamo dire che era una persona cattiva”, afferma l’uomo. Secondo gli inquirenti Antonello Nicosia avrebbe progettato anche una punizione violenta nei confronti di un altro imprenditore, che aveva ottenuto un appalto che faceva gola a Cosa Nostra. E sulla lezione da impartire a quell’imprenditore, per telefono, aveva detto “ci vuole la pistola”. Sempre riguardo il boss Santo Sacco, Nicosia lo avrebbe incontrato in carcere a Trapani  e gli avrebbe consegnato una lettera su carta intestata della Camera, che per legge non può essere sottoposta ad alcun controllo, perché proveniente da un parlamentare. E quando Nicosia racconta alla deputata Occhionero di quella carta intestata, lei gli avrebbe detto “bravo” e commentando la reazione di Santo Sacco alla lettera avrebbe esclamato “Amooore”. Pare che l’impegno di Nicosia fosse indirizzato a far trasferire Sacco, attraverso l’aiuto della deputata, dal carcere di Nuoro a quello di Roma. Un’idea di trasferimento al quale l’onorevole pare abbia risposto in questo modo: “Fosse per me sarebbe già nel mio ufficio”. E quel Santo Sacco, dice Nicosia in un’altra intercettazione, sarebbe un braccio destro del “primo ministro” (così veniva chiamato nelle intercettazioni), vale a dire, ritengono gli investigatori, Messina Denaro. Quando Ismaele La Vardera va dalla deputata Occhionero, per chiederle conto di quel suo collaboratore, l’anziano padre della donna si scaglia contro di lui e il suo operatore, brandendo una scopa. “Io sono dieci giorni che non esco e mia figlia non ha fatto niente”, urla a La Vardera con la scopa in mano. Lei non risponde a nessuna domanda ma, poco dopo l’aggressione, ci chiama una sua collaboratrice per chiedere di poter presentare una lettera di scuse a suo nome.

Falcone e Borsellino "vittime di un incidente sul lavoro". Agi 04 novembre 2019. Intercettato dalla Dda, il direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani e assistente parlamentare di una deputata si fa beffe dei magistrati uccisi dalla mafia e vorrebbe cambiare nome all'aeroporto di Palermo. "All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?". Così Antonello Nicosia, direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani, onlus che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti, nonché di assistente parlamentare, si esprime in una conversazione intercettata recentemente dalla Dda di Palermo che lo ha fermato stanotte con l'accusa di associazione mafiosa nell'operazione "Passepartout" di Gico e Ros. "Ma poi quello là (Falcone, ndr)" proseguiva "non era manco magistrato quando è stato ammazzato... aveva già un incarico politico, non esercitava...". Secondo i pubblici ministeri Nicosia avrebbe veicolato all'esterno messaggi provenienti da mafiosi detenuti nei penitenziari sparsi nella Penisola. Accessi quest'ultimi che avvenivano grazie al suo ruolo di direttore della onlus e di consulente giuridico psicopedagogico della deputata (ex Leu appena passata con Italia Viva) Giuseppina Occhionero. Nicosia, 48 anni, di Sciacca, nel novembre scorso è stato inoltre eletto nel Comitato Nazionale dal XVII Congresso di Radicali Italiani. Dalle indagini della Dda palermitana guidata da Francesco Lo Voi - iniziate cercando il boss latitante Matteo Messina Denaro - Nicosia, sarebbe stato in contatto con il boss mafioso, anche lui saccense, Accursio Dimino, scarcerato nel 2016 e detenuto anche al 41 bis, ritenuto molto vicino al defunto capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Nicosia, accusato di associazione mafiosa, riteneva di avere la chiave di accesso ai penitenziari della Penisola e di potere così, secondo l'accusa, veicolare i messaggi dei boss. Gli inquirenti parlano di "uso strumentale", da parte di Nicosia, "del rapporto di collaborazione instaurato con una parlamentare". La deputata - che non è indagata - dovrebbe essere sentita nei prossimi giorni dai pubblici ministeri del capoluogo siciliano. Cariche funzionali, quelle di Nicosia, in base alle indagini del Ros dei carabinieri e dal Gico della Guardia di Finanza, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesca Dessì e Calogero Ferrara, all'obiettivo di tessere relazioni con i capimafia, come Dimino. Soprattutto avrebbe assicurato favori e contatti con Messina Denaro. Un 'postino' prestigioso e insospettabile, seppure con una condanna a 10 anni per traffico di droga, ma anche questa, tutto sommato, utile alla narrazione del suo personaggio, conoscitore delle dinamiche carcerarie che asseriva di volere cambiare.

Chi è Antonello Nicosia, il difensore dei diritti umani con legami mafiosi. Agi 4 novembre 2019. Esultava per la sentenza sull'ergastolo ostativo, definiva Falcone e Borsellino "vittime di un incidente sul lavoro" e si presentava come paladino dei detenuti anche se secondo la Dda era un messaggero dei clan. Scorrendo il curriculum di Antonello Nicosia, in stato di fermo con l’accusato di associazione mafiosa, salta all’occhio il suo principale impiego: direttore dell'Osservatorio internazionale dei diritti umani, onlus che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti. Un ruolo che stride con le frasi pronunciate da Nicosia nelle intercettazioni che lo hanno incastrato nell’ambito nell'operazione "Passepartout" di Gico e Ros. “All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?".

Gli impieghi politici. Ma Nicosia, 48 anni, di Sciacca (provincia di Agrigento) non è solo direttore della onlus: nel novembre scorso è stato eletto nel Comitato Nazionale dal XVII Congresso di Radicali Italiani. Ed è anche assistente parlamentare giuridico-psicopedagogico alla Camera dei deputati, in particolare della ignara deputata eletta tra Leu e passata tra le fila di Italia Viva Giuseppina Occhionero. In virtù anche di questo ruolo sottolineava che riusciva ad accedere più agevolmente negli istituti penitenziari assieme ai parlamentari.

Inserito nella famiglia mafiosa. Per gli inquirenti Antonello Nicosia era a tutti gli effetti un “organico alla famiglia mafiosa saccense”, grazie alle sue relazioni personali, emerse alle intercettazioni. Nicosia, oltre che essere in contatto diretto con il boss Accursio Dimino, scarcerato nel 2016 e detenuto anche al 41 bis, era ritenuto molto vicino al defunto capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, sarebbe stato anche in contatto con il boss latitante, Matteo Messina Denaro, "il primo ministro", come lo chiamava. Con Dimino, Nicosia discuteva di organizzare l'omicidio di un imprenditore di Sciacca, per impossessarsi delle sue aziende. Di giorno, alla luce del sole, oltre a battersi per i diritti umani e condurre battaglie politiche, faceva anche il conduttore in tv della trasmissione "Mezz'ora d'aria". Sul suo profilo Facebook scrive di aver frequentato la facoltà di Scienze (non specifica se Naturali o altro) dell’università di Palermo e vanta un’esperienza da Teaching assistant presso la University of California, Santa Barbara.  "La collaborazione con me, durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum, in cui si spacciava per docente universitario oltre che di studioso dei diritti dei detenuti" ha detto la parlamentare di Italia Viva Giuseppina Occhionero, non coinvolta nella vicenda, "Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà ho interrotto la collaborazione. Le visite in carcere peraltro sono parte del lavoro parlamentare a garanzia dei diritti sia dei detenuti sia di chi vi lavora".

Di Maio contro Nicosia: “Fa ribrezzo. Insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro”. Silenzi e Falsità il 4 novembre 2019. “Da Shanghai, leggo dell’arresto di Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, accusato di fare da tramite tra i capimafia in carcere e i clan. Non voglio entrare nei dettagli, sarà la magistratura ad occuparsene, ma lasciatemi dire che uno che considera Messina Denaro il nostro premier e che insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 un incidente sul lavoro fa ribrezzo”. Così il capo politico del Movimento 5 Stelle e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un post pubblicato su Facebook. “Sono parole sconvolgenti, scioccanti, che indipendentemente dalle implicazioni di Nicosia devono farci riflettere,” aggiunge Di Maio. “La mafia c’è, esiste, fa schifo e va combattuta ogni giorno. Senza nessuna paura. Siamo più forti di loro, non dimentichiamocelo mai,” scrive ancora il leader 5Stelle. Di Maio conclude il post con una citazione di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”. Anche la sorella del giudice ucciso dalla mafia, Maria Falcone, ha commentato quanto emerso dalle intercettazioni di Nicosia: “Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto,” ha dichiarato. “Mi chiedo, alla luce di questa indagine, se non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro. Non dimentichiamoci che lo scopo del 41 bis è spezzare il legame tra il capomafia e il territorio, recidere le relazioni tra il boss e il clan: scopo che si raggiunge solo limitando rigorosamente i contatti tra i detenuti e l’esterno,” ha sottolineato Maria Falcone.

M.Bova e G.Pipitone per ilfattoquotidiano.it l'8 novembre 2019. Cercavano Matteo Messina Denaro. Legami, tracce, spiragli che dai clan di Agrigento potessero condurre alla latitanza del boss di Castelvestrano. E invece si sono imbattuti in Antonello Nicosia, attivista radicale, sedicente professore di “storia della mafia” all’Università di Santa Barbara in California, e soprattutto collaboratore della deputata Giuseppina Occhionero. È nella caccia all’ultimo superlatitante di Cosa nostra che gli investigatori della procura di Palermo sono arrivati a ordinare il fermo dell’uomo che definiva “primo ministro” il boss di Cosa nostra. E addirittura invocava la protezione di “san Matteo” (riferendosi sempre a Messina Denaro ndr) nei messaggi vocali inviati alla parlamentare di Liberi e Uguali, recentemente passata con i renziani di Italia Viva. Una collaborazione, quella con Occhionero, che garantiva a Nicosia di accedere ai penitenziari e incontrare autorevoli boss di Cosa nostra. Padrini reclusi ai quali portava i messaggi dei clan.

L’alta mafia – Secondo i pm, infatti, Nicosia, l’uomo che era stato eletto al congresso nazionale dei Radicali, l’attivista che conduceva su un’emittente locale una trasmissione sui diritti dei detenuti (si chiamava, non senza fantasia, “Mezz’ora d’aria“), aveva una doppia vita. Era “pienamente inserito nell’associazione mafiosa“, scrivono i pm Francesca Dessì e Geri Ferrara nel provvedimento di fermo. A certificarlo sono le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Guido, che documentano il rapporto strettissimo con il boss di Sciaccia Accursio Dimino, braccio destro del padrino Salvatore Di Gangi e in passato addirittura socio di Massimo Maria Berruti, ex finanziere, poi avvocato della Fininvest di Silvio Berlusconi e quindi deputato di Forza Italia.

Ma non solo. Perché l’inchiesta della procura di Palermo conduce direttamente ai fedelissimi di Messina Denaro. Gli investigatori del Ros dei carabinieri e della Guardia di Finanza hanno fotografato un summit con due uomini storicamente vicinissimi all’ultima primula rossa delle stragi. E pure un legame stretto con Cosa nostra americana, ancora attivissima e legatissima alla terra nati. Insomma, stando alle carte dell’inchiesta, quelli frequentati da Nicosia non erano balordi di strada, ma mafiosi di rango. D’altra parte l’attivista radicale diventato collaboratore della deputata Occhionero aveva alle spalle una condanna a dieci anni e mezzo per spaccio di stupefacenti. Ma andiamo con ordine.

Il summit con gli uomini di Matteo – È il 14 febbraio del 2019 e a Porto Empedocle Nicosia incontra Giuseppe Fontana, detto Rocky. Un personaggio molto importante nella storia del clan di Castelvetrano: scarcerato nel 2013 dopo vent’anni di carcere, è legato a Messina Denaro da un’amicizia stretta fin da quando erano bambini. Negli anni ’90 Rocky Fontana era considerato l’armiere del clan: in una delle sentenze che lo riguardano è accertato che importava dall’estero mitragliatori Kalashnikov e Uzi. Con Fontana e Nicosia c’era anche Fabrizio Messina, fratello di Gerlandino, capomafia dell’Agrigentino arrestato da latitante nel 2010. Piazzati a poca distanza c’erano gli uomini del Ros dei carabinieri, armati di fotocamera. “Il dato che deve assolutamente evidenziarsi è che lo spessore mafioso dei soggetti che si incontravano lasciava certamente intendere che detta riunione aveva ad oggetto argomenti mafiosi di natura interprovinciale posto che, a parteciparvi, erano un importante uomo d’onore di Castelvetrano e un altrettanto importante uomo d’onore di Porto Empedocle”, annotano i pm.

L’amico di Castelvetrano – Il lavoro degli investigatori è difficoltoso: più che docente o attivista per i diritti dei detenuti, infatti, Nicosia si comporta da ricercato. “Questi dove li lasciamo”, chiedeva prima di un altro incontro, riferendosi ai cellulari. Nicosia era preparatissimo anche sui tempi dei decreti per piazzare le microspie ambientali: “Io ogni mese cambio la macchina” perché “ci vogliono 45 giorni prima per l’autorizzazione e io gliela vado a lasciare prima”. Anche nel summit di Porto Empedocle gli inquirenti riescono a intercettare pochi dialoghi: a un certo punto fotografano Fontana mentre si prende la briga di lasciare il telefono a bordo della sua auto, prima di rimettersi a discutere con gli altri. “Ma l’amico vostro a Castelvetrano è? A lui non gli si deve dire? A lui si deve dare il giusto”, diceva Messina, in una delle poche frasi registrate. L’amico di Castelvetrano è chiaramente Messina Denaro. “Gli si deve dare quello che il giusto … quello che”, era la risposta dell’attivista radicale. “La possibilità per il Nicosia di interloquire con associati mafiosi su una questione di natura economica, che rivestiva evidentemente enorme importanza per il sodalizio, e i riferimenti fatti alla destinazione di somme all’amico di Castelvetrano, rivela ancora una volta il pieno inserimento dell’indagato nell’associazione Cosa nostra”.

Luigi Manconi al Dubbio: «Vi racconto come funzionano le visite al 41 bis». La Lettera del Professore, già Presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, su Il Dubbio l'8 Novembre 2019. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto. Caro Direttore, ricorro alla sua ospitalità per alcune puntualizzazioni in merito alla “vicenda Nicosia”. Antonello Nicosia è stato arrestato lunedì scorso con l’accusa di associazione mafiosa perché avrebbe recapitato fuori dal carcere i messaggi provenienti da alcuni boss della mafia, con cui aveva parlato durante le visite effettuate insieme a una parlamentare, della quale era assistente. Si tratta di precisazioni doverose, considerati gli attacchi – alcuni brutali, altri sinuosi- indirizzati contro l’attività svolta nelle carceri dai Radicali e dalla cosiddetta "lobby garantista" ( alla quale mi onoro di appartenere). Nella scorsa legislatura, come presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, ho visitato numerosi istituti penitenziari in tutta Italia: reparti con detenuti comuni, di alta sicurezza e oltre una decina di sezioni speciali con detenuti reclusi in regime di 41 bis. Nel corso di tutte queste visite ispettive, la nostra attività veniva costantemente accompagnata dal direttore dell’istituto e i nostri movimenti venivano seguiti passo passo, attentamente vigilati e tenuti sotto occhiuta sorveglianza da parte di agenti della polizia penitenziaria e, nel caso dei reparti a regime speciale, dagli agenti del Gom ( gruppo operativo mobile), il corpo ad altissima qualificazione della polizia penitenziaria che provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al massimo controllo. Aggiungo che oggetto dei colloqui avuti con i detenuti – e tra questi anche esponenti di vertice delle organizzazioni criminali mafiose e camorriste reclusi in 41 bis – sono sempre state, come la legge e l’ordinamento penitenziario prevedono, informazioni relative allo stato di salute dei detenuti, alla condizione di carcerazione e a eventuali diritti che si ritenevano violati all’interno di quelle celle. Niente di più. Per questi motivi non posso che provare stupore di fronte a quanto emerge dalla vicenda Nicosia: perché sarebbe stato consentito a qualcuno di potersi muovere con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Nel caso fosse confermato quanto emerso nei giorni scorsi, la responsabilità maggiore sarebbe da attribuirsi a chi non ha ottemperato agli obblighi che la legge e il regolamento penitenziario prevedono. Ma tutto ciò come può giustificare la tentazione, così sfacciatamente evidente, di limitare l’attività ispettiva nelle carceri e colpire una prerogativa che per legge appartiene ad alcuni soggetti istituzionali? E, cioè, ai parlamentari, ai consiglieri regionali, al Garante nazionale, a quelli regionali e – ci auguriamo- ai garanti comunali. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto e di quella norma che prevede la partecipazione della comunità esterna all’attività di rieducazione? Tutto ciò, com’è evidente, previa autorizzazione e sotto la sorveglianza del personale penitenziario. Grazie dell’attenzione e cordiali saluti.

L’uomo del clan Messina Denaro teneva seminari all’università. La prof: “Chiedo scusa agli studenti”. Nicosia al dipartimento di Scienze Psicologiche di Palermo, nonostante una condanna per traffico di droga. In facoltà: "Amareggiati e offesi, diceva di essere un esperto di diritti dei detenuti”. Lui si difende: "Non sono mafioso, millantavo". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 7 novembre 2019. Antonello Nicosia, l’insospettabile del clan Messina Denaro arrestato lunedì, non era soltanto il collaboratore della deputata Giusy Occhioniero, era riuscito a infiltrarsi anche all’università di Palermo, al dipartimento di Scienze Psicologiche. Teneva seminari sul tema dei diritti dei detenuti. E di questo si vantava, ce n’è traccia nelle intercettazioni di Guardia di finanza e Carabinieri: non certo perché fosse interessato per davvero alla situazione dei penitenziari italiani, ma perché puntava ad avere quanto più spazio nel corso delle ispezioni con la parlamentare. L’unico obiettivo di Nicosia era avvicinare i boss più vicini al superlatitante, per veicolare messaggi riservati. “Mi sento offesa - dice Maria Garro, attivissima ricercatrice del Dipartimento – un collega me l’aveva presentato come persona preparata e affidabile, in quanto presidente di un'associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Sapevo che aveva avuto dei guai giudiziari, ma non immaginavo fossero così gravi”. Nicosia ha una condanna a 10 anni e 6 mesi per traffico di droga, ma evidentemente nessuno all'università gli ha chiesto il curriculum. E con grande facilità era salito in cattedra a fare dei seminari. Uno l’aveva organizzato sul caso di Giuseppe Gulotta, rimasto per 22 anni in cella da innocente, accusato della strage della casermetta di Alcamo Marina. “Ma ormai da tempo quella collaborazione si è interrotta", spiega ancora la docente, che oggi dice di essere “parecchio amareggiata per quanto accaduto”: “Quella persona ha offeso non solo me, ma tutti gli studenti e le persone che invito nella mia aula per rendere testimonianza del loro impegno: esponenti delle forze dell’ordine e familiari delle vittime della mafia. Il mio compito, nell’ambito di ‘Psicologia giuridica’, è quello di preparare gli allievi ad operare nelle carceri. Sono arrabbiata, offesa – dice la ricercatrice – e chiedo scusa agli studenti che hanno partecipato a quei seminari, immagino che dopo aver letto la notizia dell’arresto di Nicosia si siano sentiti disorientati. Chiedo scusa anche ai genitori di quei giovani, che hanno affidato i loro figli all’università”. Ma dopo l’amarezza, ci deve essere anche il momento della riflessione. “Siamo di fronte sempre più a una mafia degli insospettabili – prosegue Maria Garro – è un tema che riguarda tutti, un tema su cui riflettere”. Mentre Nicosia, davanti al giudice, prova a sminuire: "Ero solo un provocatore, millantavo - sostiene - Non sono un mafioso". Ma resta in carcere.

Caso Nicosia, chi difende lo Stato di diritto non sta dalla parte della mafia. Damiano Aliprandi il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. La vicenda Nicosia riaccende la criminalizzazione di chi è contro il carcere duro. Vale la lezione dello storico Christopher Duggan, che ispirò Leonardo Sciascia: mise in guardia sui «pericoli dell’antimafia come strumento di potere durante il fascismo». Le investigazioni svolte, oltre a rivelare la partecipazione di Antonello Nicosia alla famiglia mafiosa di Sciacca in epoca datatissima, fin dalla fine degli anni 90, nonché l’attuale pianificazione da parte sua di danneggiamenti, estorsioni e altri gravi delitti, ha dimostrato che tale partecipazione si è aggiornata con nuove e pericolose condotte realizzate attraverso incarichi politici e pubblici da lui progressivamente acquisiti nel corso degli ultimi anni. Grazie all’impegno in più associazioni volontaristiche, all’elezione nel movimento dei Radicali italiani e, infine, ai rapporti stretti con l’onorevole Giuseppina Occhionero, Nicosia è infatti riuscito ad accreditarsi presso diverse strutture penitenziarie e a fare visita a mafiosi detenuti, a scopi – come si legge nell’ordinanza – “certamente estranei a quelli, dichiarati, della tutela dei loro diritti”. Anche il giudice ha voluto sottolineare che la condotta di Nicosia non ha nulla a che fare con la tutela dei diritti dei detenuti. Più avanti si legge che, sfruttando il baluardo della militanza politica, “ha portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis Ordinamento penitenziario, da sempre tema oggetto di accesi dibattiti sia all’interno dell’associazione mafiosa che nell’agenda politica nazionale”. Ed è qui che taluni partiti e giornali hanno cercato di eliminare la oggettiva differenza tra chi si batte legittimamente contro il 41 bis e la mafia, la quale ovviamente non può che avversare il regime del 41 bis. Ogni volta in cui si prova a riaffermare con forza lo Stato di Diritto, è ormai inevitabile che i movimenti politici e giornali più conservatori rispondano con anatemi in nome della sicurezza nazionale e, soprattutto, con la retorica del presunto favore ai terroristi ( il caso americano sulla chiusura del carcere di Guantanamo) o ai mafiosi, come nel caso nostrano. Soprattutto nostrano. È il paradosso secondo cui la sacrosanta lotta alla mafia diventa un pretesto per rinunciare, o per sottovalutare, concetti e diritti fondamentali: passa così l’idea che per i mafiosi il diritto non dovrebbe valere, che non dovrebbero essere difesi da un avvocato, che non hanno diritto alla salute e che devono rimanere in carcere anche se gravemente malati. Quindi un avvocato che difende i boss mafiosi viene visto con sospetto, così come vengono viste con sospetto le battaglie contro il regime duro o l’ergastolo ostativo. In Italia, storicamente, sono i movimenti libertari a condurre da sempre queste battaglie impopolari. C’è il Partito radicale, ma ci sono anche una minoranza della sinistra come Rifondazione o Potere al Popolo, così come il movimento anarchico. La battaglia si basa su un principio di fondo: il 41 bis è una condizione di spietato isolamento, insostenibile per l’essere umano, specie se protratta per anni; è un sistema che genera una sofferenza aggiuntiva ben al di là di quella fisiologicamente connessa alla condizione di recluso. Una simile denuncia viene sollecitata anche da organismi internazionali come il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura, che ha di recente sollevato critiche sull’eccessiva durata del regime derogatorio e sulla condizione di isolamento in cui versano tali categorie di detenuti. I mafiosi appoggiano volentieri questa battaglia? Ma è lapalissiano. E allora chi sostiene battaglie di civiltà, ispirate alla Costituzione, sarebbe mafioso per la proprietà transitiva? Un ragionamento del genere presuppone che lo Stato debba applicare le regole mafiose: vendetta, coercizione perpetua per estorcere informazioni, totale mancanza di pietas. Il pericolo, forte, che ogni battaglia per lo Stato di Diritto venga sospettato di favorire la mafia, si fa sempre più concreto. Ha però tutta l’aria del déjà vu. Leonardo Sciascia, per il suo criticatissimo articolo “I professionisti dell’antimafia”, si ispirò allo storico Christopher Duggan che analizzò, prima di tutti, molto bene il fenomeno mafioso italiano, ma anche quello antimafioso quale strumento di potere all’epoca del fascismo. Duggan infatti scrisse che «come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfatare, costoro dovevano liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti». La durissima repressione del famoso prefetto Mori, per Duggan non era dunque che «il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra, che approssimativamente si può dire progressista, e più debole». Sicché spiegò che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, interna al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. Incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico, che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come mafioso», concluse lo storico Duggan. Tale analisi rischia di ritornare di attualità. Dobbiamo stare molto attenti: perché da una battaglia giusta, senza il rispetto del Diritto, può nascere anche una dittatura.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 6 novembre 2019. Nella Chiesa in decadenza si rifugiano i più viziosi peccatori perché la crisi dei suoi valori li mimetizza e li rende invisibili. E infatti, tra i tanti delinquenti che in Italia hanno militato nella virtù, tra mafiosi antimafia come Montante, magistrati malandrini e tangentisti antitangente, non c' era mai stato un radicale sradicalizzato. Invece ora si scopre che questo Antonello Nicosia (ma chi lo conosceva?) è riuscito a infiltrarsi nel purissimo garantismo garantito da Pasolini, Tortora, Sciascia, Pannella ed Emma Bonino. Ha indossato il saio radicale non, come hanno scritto, per entrare in carcere e fare il portalettere della mafia di Matteo Messina Denaro, ma per lucrare, una volta in carcere, sulla parola "radicale". In prigione entrava infatti come assistente - nientemeno - di una deputata (non indagata) della sinistra di Pietro Grasso, ma era iscritto a Radicali italiani - nel Comitato nazionale! - perché questa medaglia, che abbaglia più dell' antimafia dello stesso Grasso, lo rendeva sacerdote della libertà, arbitro dei diritti e dei doveri del detenuto. E quando trafficava, anche in piccole tv libertarie, con i valori radicali, nessuno si accorgeva che c' era troppo inferno in quella maschera transgenica. Eppure era doppio come Pantalone e mentiva anche a stesso quando goffamente tra i tanti maestri di valori scomodava Habermas, Voltaire, Brecht, Dostoevskij, Bobbio, Hermann Hesse, i Papi e Manzoni. Era dunque invisibile non solo ai Radicali Italiani e dunque a Emma Bonino, Marco Cappato, Riccardo Magi, Silvio Viale, ma anche a quegli altri del Partito Radicale che nell' ingiusto e nel disumano delle prigioni, nel bugliolo, nella puzza e nelle violenze dell' universo concentrazionario ancora cercano e scoprono l' umanità dell' Italia, e sto parlando di Rita Bernardini, Maurizio Turco, Sergio D' Elia, dei militanti di Antigone e Nessuno tocchi Caino, di Maria Antonietta Farina Coscioni, Elisabetta Zamparutti, Irene Testa Forse nessuno di loro ha visto e capito Nicosia perché la grande cultura radicale è in crisi? Dolenti e divisi, i radicali si contendono - molto male - eredità morali e materiali, e si espongono sia agli infiltrati e sia agli sciacalli che arrivano quando si alza il tanfo del disfacimento. Sono gli stessi sciacalli che già volevano chiudere Radio Radicale, e si spingono sino all' orrore di dire che questo Nicosia è il degno erede del Pannella che digiunava per la giustizia e per l' amnistia, contro l' ergastolo e le leggi speciali, per la mancata riforma penitenziaria, e contro lo Stato italiano che, secondo la Corte Europea, non custodisce ma tortura. Si sa che la fiducia regge il mondo. E i radicali sono sempre stati affidabili. Lo spread, a cui siamo appesi, è un indicatore di fiducia. E sulla fiducia si basano i mutui bancari. Scegliamo salumieri, pescivendoli e panettieri di fiducia, appunto. Così per i giornali dove una testata non vale un' altra. Persino i libri si comprano per l' affidabilità del nome: di Gallimard, Suhrkamp Verlag, Penguin e Adelphi ci si può fidare. Ebbene i radicali che entrano in carcere sono ancora la giustizia giusta e la verità scomoda di un mondo volutamente dimenticato. I radicali sono Cesare Beccaria, i soldati del diritto che ci distingue dai califfati, dai turchi di Erdogan, dall' Egitto di al-Sisi. Dei radicali hanno fiducia sia i carcerati e sia i carcerieri. Quando dunque dalla fiducia emerge l' empietà, lo scandalo è più grave perché sporca il mondo dei valori, ne mostra la fragilità e la possibile corruzione. Ma al tempo stesso dovrebbe rafforzarli perché li mette in guardia. Da più di dieci anni il trafficante di valori è una nuova maschera italiana, un unico carattere che contiene mille identità. E però i magistrati malandrini come Silvana Saguto non hanno distrutto la magistratura. E gli antipizzo beccati con il pizzo in tasca come Roberto Helg hanno migliorato la battaglia contro il pizzo. Ci ha reso meno creduloni la vicenda del giornalista Pino Maniace che aveva la schiena dritta in pubblico ma, di nascosto, la piegava. E siamo diventati diffidenti vedendo che i corrotti venivano arrestati mentre aprivano convegni contro la corruzione, come l' ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani condannato a 5 anni e 6 mesi. Ricordate Totò Cuffaro? Fu lui a introdurre la novità epocale del mafioso che si sputava addosso, si sfregiava, si oltraggiava. Quand' era presidente della Regione siciliana inventò infatti lo slogan: "la mafia fa schifo". Poi fu condannato per mafia. Inaudito? Oggi questo Nicosia che trafficava in pizzini per conto della mafia è l' inaudito radicale. E gli eredi della grande tradizione garantista italiana male fanno ad accusarsi reciprocamente di non essere abbastanza radicali invece di addossarsi tutti insieme, non certo le colpe del farabutto Nicosia che non hanno, ma la responsabilità della decadenza di cui Nicosia è la spia, l' indicatore, il segnale, il cattivo odore. Lo sciacallaggio in Italia è ormai una banalità ma, se i radicali non fossero ridotti così male nessuno si permetterebbe di volare tanto basso, con l'idea che gratta gratta, dietro Nicosia c' era la banda Bassotti dei garantisti, e che in fondo anche Pannella era solo un complice di Al Capone.

Dal Fatto Quotidiano il 6 novembre 2019. Gentile direttore, in relazione a quanto pubblicato sul Fatto ieri (in particolare nei passaggi "ma spesso, dietro il garantismo all' italiana, si celano collusioni" e ancora "la natura di lobby garantista usata come bus dai criminali di ieri, oggi e domani, assunta dai radicali"), replichiamo che siamo noi Radicali, attaccati duramente in queste pagine, la vera parte lesa nella vicenda di Nicosia. Qualora fossero confermate le accuse, si tratterebbe di reati gravissimi con danno enorme nei confronti di quanti lottano da decenni per garantire lo stato di diritto e la giustizia per tutti, dentro e fuori gli istituti penitenziari. In questi decenni i parlamentari e i consiglieri regionali radicali hanno effettuato migliaia di visite ispettive al solo scopo di verificare le condizioni di vita negli istituti penitenziari del paese e di tutelare i diritti dei detenuti e dell' intera comunità penitenziaria: polizia, direttori, assistenti sociali, medici e volontari. In più, grazie a noi, centinaia di cittadini hanno potuto conoscere una realtà, come quella carceraria, del tutto inaccessibile per la maggior parte delle persone. In Radicali Italiani questi principi ispirano la vita associativa. L' iscrizione è annuale, chiunque può farlo. Non ci sono indagini preventive o postume. Il movimento è responsabile per la sua politica e per le scelte prese collettivamente, mentre per le scelte individuali esiste il limite esterno della legge e l' opera della magistratura, verso cui nutriamo rispetto. Se questo vuol dire essere una "lobby garantista", ben venga, soprattutto se dall' altra parte c' è la "lobby forcaiola" di chi non perde occasione per celebrare processi mediatici divulgando intercettazioni, e per sottrarre o negare diritti che la stessa Costituzione riconosce a tutti i cittadini. Questo episodio è per noi uno stimolo a proseguire le nostre battaglie con convinzione ancora maggiore. Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni - Radicali Italiani

LA REPLICA DI TRAVAGLIO. Se non avessimo "divulgato intercettazioni", peraltro depositate in un provvedimento cautelare e dunque non più coperte da segreto, i radicali non potrebbero proclamarsi parte lesa né - volendo - liberarsi subito delle mele marce in base ai fatti già emersi, senza aspettare comodamente la Cassazione. Quanto alla "lobby forcaiola", siamo fieri di stare sempre dalla parte dei magistrati, delle forze dell' ordine e dei cittadini antimafia e mai da quella dei mafiosi. M. Trav. 

Da liberoquotidiano.it il 5 novembre 2019.  Gaia Tortora, in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, attacca duramente il direttore del Fatto Quotidiano: "Caro Marco Travaglio, la prima pagina del tuo giornale mi fa orrore". La giornalista e conduttrice di Omnibus, su La7, figlia di Enzo Tortora, si riferisce al metodo giustizialista e "manettaro" di trattare il caso dell'arresto di Antonello Nicosia da parte di Travaglio. "E non perché non ritenga gravissima, ripeto gravissima, la vicenda Nicosia", ripete la Tortora. Ma perché deliberatamente Travaglio, "getti fango (ad essere garbati) su un partito che è ed è stato altro (il partito Radicale, ndr). E che casualmente dimentichi di citare". Gaia Tortora

Occhionero: «Collaborazione interrotta». Maria Falcone: «Solo disgusto». Valentina Stella il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. Prese di distanza. Rita Bernardini del Partito Radicale: «non piaceva il suo modo di fare e l’ho scaricato tanti anni fa». La prima a rilasciare un commento sull’arresto di Nicosia non poteva che essere l’onorevole di Italia Viva, l’avvocato Giuseppina Occhionero, di cui l’indagato è stato assistente parlamentare e con cui appunto ha visitato diverse carceri: «Quello che si legge nelle intercettazioni è comunque vergognoso e gravissimo. La collaborazione con me, durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum. Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà ho interrotto la collaborazione». A essere coinvolti molto da vicino da questa vicenda sono anche i radicali la cui credibilità e la loro eccezionale attività di monitoraggio delle carceri potrebbero essere minate da questo grave episodio. A Rita Bernardini del Partito Radicale «non piaceva il modo di fare di Nicosia e l’ho scaricato tanti anni fa quando mi chiedeva di entrare in carcere a nome del movimento. Detto questo, più che un messaggero della mafia, mi è sempre sembrato un esaltato, un cretino». Il segretario Maurizio Turco ha precisato che «il signor Antonello Nicosia non è stato mai iscritto al Partito Radicale». Invece la reazione di Radicali Italiani ( di cui Nicosia è stato membro del comitato nazionale) arriva con i neo eletti vertici – il segretario Massimiliano Iervolino, la tesoriera Giulia Crivellini e il presidente Igor Boni: «Di fronte a quanto apprendiamo dalle notizie di stampa sull’arresto di Antonello Nicosia – che non ricopre attualmente alcuna carica in Radicali Italiani – ribadiamo anzitutto che la presunzione di innocenza vale per tutti e i processi si celebrano nei tribunali, non sui media attraverso le intercettazioni, anche quando hanno un contenuto gravissimo come quelle che sono state diffuse». Per il ministro Di Maio «uno che considera Messina Denaro il nostro premier e che insulta la memoria di Falcone e Borsellino definendo le stragi del 1992 “un incidente sul lavoro” fa ribrezzo». Dello stesso tono le dichiarazioni di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso dalla mafia: «Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto» e conclude chiedendosi se «alla luce di questa indagine non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro». Anche per i parlamentari del Movimento 5 Stelle della Commissione Antimafia le espressioni di Nicosia sono “inaccettabili”; mentre per l’ex premier Paolo Gentiloni sono “squallide e raccapriccianti”.

Mafia, il portaborse rimproverava la deputata: "Non sbagliare a parlare". E citava il "primo ministro", ovvero Messina Denaro. Repubblica Tv il 6 novembre 2019. E' il 7 marzo 2019, Antonello Nicosia (lunedì arrestato per associazione mafiosa) manda un messaggio vocale alla parlamentare per cui lavora, Giusy Occhionero. Parla di Santo Sacco, uomo del latitante Matteo Messina Denaro (che chiama il “primo ministro”), in quel momento detenuto. “Onore' non parlare a matula (a vanvera, ndr) - le dice - Santo Sacco non sbaglia". Nicosia dice senza mezzi termini che Santo Sacco è il "braccio destro del primo ministro". Così, il collaboratore della deputata chiamava Messina Denaro: "Il primo ministro". Ecco l'audio dell'intercettazione finita agli atti dell'inchiesta della procura.

Mafia, il gip sulla deputata Occhionero: "Gravemente inconsapevole o connivente". Convalidato il fermo di Antonello Nicosia. "Infiltrazioni gravissime di Cosa nostra negli apparati dello Stato strumentalizzati per fini apparentemente nobili, in realtà volte ad alleggerire il rigore della detenzione dei mafiosi". Salvo Palazzolo il 07 novembre 2019. E' pesante il giudizio del gip di Sciacca Alberto Davico sulla deputata Giusy Occhionero, che aveva preso come collaboratore Antonello Nicosia, oggi in carcere per associazione mafiosa: ha avuto "un grave difetto di consapevolezza" oppure "una connivenza". Giudizio naturalmente sospeso perché la parlamentare non è indagata. Ma il giudice sottolinea la pericolosità di Nicosia, che durante le ispezioni in carcere con la deputata entrava in contatto con i fedelissimi del latitante Matteo Messina Denaro. "Tramite un messaggio proveniente dalle carceri può essere ben ordinato un omicidio e garantita l'operatività di Cosa nostra", ricorda il giudice, che ha convalidato il fermo per Nicosia e per altri quattro indagati. Il gip parla di "gravissimo contesto associativo di riferimento e la non occasionalità delle condotte degli indagati Dimino (il capomafia di Sciacca - ndr) e Nicosia a pieno titolo inseriti - scrive - nell'ambito della criminalità organizzata di stampo mafioso e comunque in gruppi operanti con metodo mafioso collegati fra loro da vincoli stringenti". Nelle 247 pagine di ordinanza vengono evidenziate anche le "infiltrazioni gravissime di Cosa nostra negli apparati dello Stato strumentalizzati per fini apparentemente nobili, in realtà volte ad alleggerire il rigore della detenzione dei mafiosi".

Il caso Nicosia, i radicali e una guerra dei pidocchi: un favore solo all’antipolitica. Francesco Damato il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. Mi chiedo, forse con troppa ingenuità se la concorrenza fra partiti, correnti, gruppi, aree possa far perdere così rovinosamente la testa a tutti. Sono cascati nella trappola di quella che definirei la guerra dei pidocchi, apertasi con l’arresto di un radicale – ahimè- per mafia, persino Rita Bernardini e Maurizio Turco, appena subentratole nella carica di segretario del partito che fu di Marco Pannella. L’uno e l’altra, anziché fare quadrato nella difesa delle tradizioni e del buon nome dei radicali dal fango rovesciato loro addosso miserabilmente da Antonello Nicosia, colto in flagranza, diciamo così, di reato associativo di mafia e simili conversando persino del suo “premier” Messina Denaro fra una visita e l’altra alle carceri, quando era assistente di una parlamentare, se la sono presa con i giornali che hanno fatto confusione nella diaspora della loro area politica. Si vergogni piuttosto Emma Bonino, hanno praticamente detto i radicali ortodossi accusando i giornali, o almeno quelli che hanno scritto di Nicosia tacendo che il “Comitato nazionale dei radicali” cui lui appartiene è appunto quello della senatrice e storica esponente del mondo che fu di Pannella, e non del partito tenutosi per sua scelta da qualche tempo fuori dal Parlamento, rinunciando a candidarvisi. Ma che differenza passa, scusatemi, cara Bernardini e caro Turco, di fronte all’ingiustizia che tutti i radicali hanno appena subìto da quello sciagurato che ha letteralmente, ignobilmente abusato di loro, e naturalmente della deputata ex Pd, ex Leu di Bersani, D’Alema e Grasso e da qualche giorno di Italia dei Valori di Matteo Renzi? Mi chiedo, forse con troppa ingenuità visti i tempi che corrono, se la concorrenza fra partiti, correnti, gruppi, aree e quant’altro possa e debba far perdere così rovinosamente la testa a tutti. E a vantaggio solo dell’antipolitica. A un pidocchio come considero il Nicosia appena arrestato, una volta tanto tradendo anch’io il garantismo, e con l’uso appropriato di una parola abusata 68 anni da Palmiro Togliatti contro due onesti dissidenti cacciati su due piedi dal Pci, uno dei quali cugino di Nilde Jotti, già allora compagna del segretario comunista, non si poteva e non si doveva francamente fare anche il regalo di questa oscena rappresentazione della lotta politica in Italia. Grazie alla quale, per esempio, c’è chi ha potuto e voluto usare anche questo fattaccio per rilanciare la campagna dei grillini contro Radio Radicale, scambiata per una gigantesca fogna della malavita e della sovversione che i radicali – tutti, senza distinzione di aree, correnti e partitiavrebbero sinora trovato il modo di finanziare con i soldi dello Stato, e non con i loro. Dio mio, che bassezza. Mi chiedo, infine, con uguale sgomento se non ci fossero già abbastanza argomenti da poter usare con qualche ragione contro Matteo Renzi, con un piede nella maggioranza da lui stesso promossa e l’altro all’opposizione, per evitare l’autorete di addebitargli anche la faccenda Nicosia per il tramite della sfortunata, sprovveduta e non so cos’altro Giusy Occhionero, la parlamentare turlupinata dall’ex assistente ben prima di approdare fra i renziani.

I «pizzini» sulla carta della Camera e i colloqui in carcere  con i mafiosi: il doppiogioco del radicale al servizio dei clan. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Una lettera spedita in carcere su carta intestata della Camera dei deputati, e perciò non sottoposta a controlli, utilizzata come fosse un pizzino. Così Antonino Nicosia «era addirittura riuscito a procurarsi uno strumento sottratto direttamente dalla legge a qualsiasi verifica, per comunicare con gli associati mafiosi detenuti». Il destinatario era Santo Sacco, «esponente della famiglia mafiosa di Castelvetrano e uomo di fiducia di Matteo Messina Denaro», che ne faceva vanto con i compagni di cella come racconta lo stesso Nicosia in un colloquio con l’onorevole Giuseppina Occhionero, divenuta la sua chiave d’accesso nei penitenziari italiani.

Nicosia: «La carta intestata della Camera, cioè io sono Santo Sacco, pure qua dentro, capito?».

Occhionero: «Gli è piaciuta?».

Nicosia: «Ma certo, la carta intestata della Camera, gli potevo mandare una cosa così? Mi sono fatto dare un blocchetto di carta intestata...».

Occhionero: «Bravo!».

Nicosia: «Con la firma sotto perché ho firmato tutte e due, gli ho messo Onorevole ... e lui questa cosa la porterà in giro come fidanzata …».

Occhionero: «Amoooreee (in senso compassionevole per Sacco, annotano i trascrittori, ndr).

Nicosia: «Come una fidanzata... Io sono Santo Sacco anche in galera! E il Primo ministro è sempre a Castelvetrano ... non si scherza (ride)».

Il «primo ministro» sarebbe il super-latitante Matteo Messina Denaro, che Nicosia cita in un paio di messaggi vocali diretti alla deputata. Nel primo gli ricorda di «non parlare a matula (a vanvera, ndr)... Santo Sacco non sbaglia, il braccio destro del primo ministro, non sbaglia. Non sbagliare a parlare tu, invece...»; nel secondo fa una sorta di invocazione: «Noi preghiamo San Matteo... tutti i Matteo... quelli buoni e quelli cattivi... San Matteo proteggici... Onorevole Occhionero... mai, mai si deve dire che siamo stati contro San Matteo, non si può sapere mai... Per ora c’è San Matteo che comanda e noi siamo, preghiamo San Matteo... grazie San Matteo per quello che ci dai tutti i giorni... grazie...». La funzione di assistente parlamentare — certificata dal tesserino rilasciato dalla Camera e trovato nella perquisizione di ieri, nonostante una condanna a 10 anni e mezzo di galera scontata per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga che gli è valsa la sospensione della potestà genitoriale ma non il libero accesso a Montecitorio — era diventato per Nicosia un lasciapassare per le carceri. Che gli consentiva di parlare con i detenuti, anche nelle sezioni speciali del 41 bis, lontano da orecchie indiscrete: «Perché col deputato non è come la visita radicale che siamo abituati a fare... la guardia vicino, quando... ti rompe i coglioni che sentono... ti devono raccontare delle cose delicate, ci dici, “scusi si può allontanare un attimo”, quello se ne deve... se ne va». Durante questi colloqui — secondo i risultati dell’indagine condotta dala Procura di Palermo, con i carabinieri del Ros e i fianzieri del Gico — Nicosia aveva incontrato il boss Filippo Guttadauro, cognato di Messina Denaro recluso a Tolmezzo, e intimato proprio a Sacco, detenuto a Trapani insieme al boss Mangiaracina, di non parlare troppo in carcere. Con toni decisi, come riferito da lui stesso all’onorevole Occhionero: «L’unica cosa che deve fare Santo Sacco è cucirsi la bocca ... Gliel’ho detto ieri, quando poi si è avvicinato gli ho detto “Sa’, continui a dire minchiate, a parlare assai, cioè capisci che tua madre quando hai detto le prime cose avrebbe dovuto tagliarti la lingua?”». I messaggi che Nicosia avrebbe portato dentro e fuori il carcere riguardano — nell’interpretazione degli inquirenti — possibili collaborazioni coi magistrati da scongiurare, ma anche progetti di estorsioni, di attentati e persino di un omicidio. Sempre protetto dalla qualifica di assistente parlamentare ricevuta da una deputata che però, in quanto esponente di Liberi e Uguali (ora passata con Renzi) non offriva garanzie di un rapporto duraturo e stabile. «Io sono e resto radicale — diceva al boss di Sciacca Accursio Dimino —, però siccome collaboro alla Camera come consulente di una deputata di Grasso (Pietro Grasso, l’ex procuratore antimafia ed ex presidente del Senato, fondatore di Leu, ndr)... Se s’informano bene... mi brucia». Cioè lo fa licenziare. Quindi meglio correre ai ripari: «Io vorrei fare con questi di Forza Italia, sarebbe meglio». Dimino concorda: «Sarebbe meglio, che sono più garantisti».

Alessandro Trocino per il Corriere della Sera il 4 novembre 2019.

Il 5 marzo scorso scriveva sui social, allegando un articolo sui bambini in carcere: «Un mio contributo sul tema con la preziosa collaborazione del dott. Nicosia». Talmente «preziosa» che però, a quanto emerge dall' indagine, lui le aveva proposto una truffa proprio in relazione a una cooperativa del carcere della Giudecca. Proposta rifiutata dalla deputata. All'epoca era quasi finita, a sentir lei, la collaborazione con Giuseppe Nicosia, il suo ex assistente fermato ieri con l' accusa di associazione mafiosa. Quattro mesi di collaborazione intensa, per Giuseppina Occhionero, con quattro visite in carcere, punteggiate da dialoghi registrati dagli inquirenti, dai quali esce non indagata anche perché «poco propensa a scendere a compromessi». Ma anche con diverse cose da chiarire e di cui dovrà parlare, come persona informata dei fatti, con il pm. Per ora si difende con un comunicato nel quale si dice innocente. E al cronista si limita ad aggiungere: «Sono estranea ai fatti, fate emergere quel che scrivono i pm nell' ordinanza d' arresto di quel farabutto». La sua parabola politica è breve e vorticosa. Dopo essere stata assessore alla Cultura e al Turismo a Campomarino (provincia di Campobasso), la Occhionero, che è molisana e avvocato, si candida con Leu, in quota Articolo 1. Per il cosiddetto «flipper» dei resti, tecnicismi da Rosatellum, l' ignota candidata «riempilista» ottiene a sorpresa un seggio da deputata. Arriva in Parlamento sfoggiando occhiali dalla montatura stravagante e abiti appariscenti che la fanno notare da Vittorio Sgarbi. Ma il suo nome emerge dalle cronache soprattutto pochi giorni fa, quando, ancora una volta a sorpresa, abbandona Leu e sbarca a Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, folgorata sulla via della Leopolda. La prima visita in carcere con Nicosia, a Trapani, è del 22 dicembre 2018. Ne seguono altre tre. Occhionero spiega così il rapporto con Nicosia: «La collaborazione, durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum, in cui si spacciava per docente universitario oltre che studioso dei diritti dei detenuti. Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà ho interrotto la collaborazione». Non risulta che abbia denunciato pubblicamente il falso curriculum. Quanto alle visite in carcere, dice, «sono parte del lavoro parlamentare a garanzia dei diritti sia dei detenuti sia di chi vi lavora». Non spiega, nel comunicato, il tono di Nicosia che le inviava messaggi in cui diceva «mai si deve dire che siamo contro San Matteo», dove Matteo, per gli inquirenti, è Matteo Messina Denaro. E neanche la frase pronunciata da Nicosia, che la rimprovera: «Trattalo bene lo zio Santo Sacco, non è permesso, altrimenti il cous cous a Selinunte non te lo puoi mangiare manco se porti Bersani che tu dici che può fare tutte cose». Quel Bersani che siede alla sua sinistra a Montecitorio. La Occhionero, però, viene scagionata nell' ordinanza e del resto lo stesso Nicosia si dichiara insoddisfatto di lei. Cerca altri «sponsor», spiega di non gradire la collaborazione «con una deputata del partito di Pietro Grasso» e dice che «con questi di Forza Italia sarebbe meglio». In realtà, secondo i magistrati, è proprio la Occhionero a chiudere il rapporto di collaborazione, lo scorso 17 maggio, cinque mesi dopo la prima visita in carcere. Ora la Occhionero si dice «amareggiata» e si mette a completa disposizione della magistratura.

Mafia, arrestato il collaboratore di una deputata. “E’ vicino ai fedelissimi di Messina Denaro”. Antonello Nicosia, esponente dei Radicali italiani, partecipava alle ispezioni in carcere di Pina Occhionero (ex Leu oggi Italia Viva, estranea all'indagine) e faceva uscire i messaggi dei boss. Intercettato mentre insultava il giudice Falcone: "E' stato un incidente sul lavoro". Scatta il blitz di Gdf e Ros, 5 arresti. Nicosia e il capomafia di Sciacca stavano per partire per gli Stati Uniti, progettavano l'omicidio di un imprenditore, per impossessarsi delle sue aziende. Salvo Palazzolo il 4 novembre 2019 su La Repubblica. I boss più vicini al superlatitante Matteo Messina Denaro potevano contare su un insospettabile collaboratore parlamentare, esponente dei Radicali Italiani: Antonello Nicosia, 48 anni, originario di Sciacca (Agrigento), è stato arrestato all’alba dai finanzieri del Gico di Palermo e dai carabinieri del Ros. “Associazione mafiosa” è l’accusa pesante contestata nel fermo disposto dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Geri Ferrara e Francesca Dessì. Nicosia ha accompagnato la deputata Pina Occhionero (ex “Liberi e Uguali” di recente passata a “Italia Viva”) in alcune ispezioni all’interno delle carceri siciliane: durante quelle visite i boss avrebbero affidato all’assistente della parlamentare dei messaggi da recapitare all’esterno. La deputata (avvocata, molisana) non risulta indagata, lo spregiudicato collaboratore avrebbe agito a sua insaputa, ma sono tante le cose ancora da chiarire in questa storia che ha contorni molto più ampi, questa mattina il nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e i colleghi di Sciacca hanno arrestato altre quattro persone.

Chi è Nicosia, esponente dei Radicali. Nicosia aveva una doppia vita: in Tv parlava di legalità e diritti dei detenuti, le microspie lo hanno invece sorpreso mentre insultava il giudice Falcone: “E’ stato un incidente sul lavoro”, sbottava mentre arrivava all'aeroporto di Palermo, dedicato ai magistrati uccisi nel 1992: "All'aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perchè dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda". Messina Denaro lo chiamava invece “il primo ministro”. Le indagini hanno sorpreso Nicosia mentre partecipava a un summit con un fidato del superlatitante, nel febbraio scorso, a Porto Empedocle: parlavano di una somma di denaro da far arrivare a Messina Denaro. Per la procura, "era pienamente inserito nell'associazione mafiosa". L’indagine racconta di un uomo che si era lasciato alle spalle una condanna per traffico di droga e aveva iniziato a dedicarsi ai problemi delle carceri in Italia: Nicosia conduce un programma in Tv, “Mezz’ora d’aria”, è il direttore dell’Osservatorio internazionale dei diritti umani onlus ed è componente del Comitato nazionale dei Radicali italiani, di recente è stato a Firenze fra il pubblico della Leopolda, la kermesse renziana. Ma, intanto, intratteneva rapporti con mafiosi di rango. Uno soprattutto, il capomafia di Sciacca, Accursio Dimino, 61 anni, imprenditore ittico ed ex professore di educazione fisica, da sempre legatissimo al superlatitante Messina Denaro: anche lui è stato arrestato nel blitz di questa notte. Con Dimino, Nicosia discuteva di organizzare l'omicidio di un imprenditore di Sciacca, per impossessarsi delle sue aziende.

L’indagine, caccia a Messina Denaro. Già nel 1996 Dimino era stato condannato per mafia, si scambiava pizzini con la primula rossa di Castelvetrano, un’altra condanna era arrivata nel 2008, tre anni fa poi la scarcerazione. Ma nulla era cambiato a Sciacca. Dimino continuava a comandare, forte dei suoi contatti con la provincia di Trapani e con i “cugini” di Cosa nostra americana. Con il vulcanico collaboratore della deputata si incontrava spesso, per pianificare sempre nuovi affari su cui adesso indaga la procura di Palermo. Affari anche americani: negli Usa, Nicosia andava di tanto in tanto. Nel suo curriculum scriveva di essere un docente della prestigiosa Università della California e di insegnare “lo sbarco anglo americano e la storia della mafia”. Ma sul sito dell’università il suo nome non figura affatto. A breve, aveva previsto una nuova partenza per gli States, questa volta con il boss Dimino, è il motivo per cui la procura ha fatto scattare il fermo d'urgenza. L'obiettivo principale di Nicosia era comunque tornare in carcere. Per veicolare altri messaggi riservati, accusano i magistrati di Palermo. “Quando entri con un deputato non è come quando entri con i Radicali – assicurava lui – chiudono la porta”. E così poteva agire indisturbato. Intanto, incontrava altri fedelissimi del superlatitante: discuteva pure di un progetto riguardante le carceri che sembra stava molto a cuore a Messina Denaro, Nicosia si aspettava un "ingente finanziamento" dal padrino, così scrivono gli inquirenti, "non ritenendo sufficienti i ringraziamenti che diceva di aver ricevuto".

Blitz antimafia, arrestato il messaggero dei boss vicini a Messina Denaro. Damiano Aliprandi il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. Arrestato per associazione mafiosa attivista dei diritti dei detenuti. È accusato dalla procura di Palermo di essersi costruito un’immagine pubblica con lo scopo di mascherare le sue attività che favorivano diversi boss. Una vicenda tutta ancora da chiarire, ma che ha creato numerose indignazioni a partire dagli esponenti di governo e le vittime della mafia come la sorella di Giovanni Falcone. Ma nel contempo aumenta la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani circa una ulteriore restrizione per chi visita il carcere per denunciare eventuali abusi o condizioni afflittive come il 41 bis. Ieri mattina è stato tratto in arresto, insieme con altre 4 persone, con l’accusa di “associazione mafiosa”, Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani ed è stato collaboratore per circa quattro mesi della deputata di Italia Viva Pina Occhionero. In virtù di tale rapporto, infatti, Nicosia ha partecipato ad alcune ispezioni carcerarie parlamentari, potendo accedere all’interno delle carceri di Sciacca ( AG), Agrigento, Trapani e Tolmezzo ( UD) senza la preventiva autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ciò sfruttando le prerogative riconosciute dalle norme sull’ordinamento carcerario ai membri del Parlamento e a coloro che li accompagnano. Una collaborazione volta alle visite in carcere. Tra le varie accuse mosse dalla procura di Palermo c’è quella di aver recapitato fuori dal carcere dei messaggi provenienti da alcuni boss mafiosi con cui aveva parlato durante le visite effettuate assieme a Occhionero. La deputata, ex esponente di Liberi e Uguali, non è indagata perché, secondo la procura, non sapeva niente delle presunte attività mafiose di Nicosia. Quest’ultimo ha 48 anni ed è originario di Sciacca, in provincia di Agrigento. Conduceva un programma intitolato Mezz’ora d’aria sulla tv locale AracneTV dove approfondiva temi inerenti soprattutto alle condizioni carcerarie. Ultimamente si era occupato della situazione degli internati al carcere di Tolmezzo, tema più volte approfondito da questo giornale, riportando le interrogazioni parlamentari effettuate proprio dalla deputata Occhionero e, ultimamente, la relazione del Garante nazionale delle persone private della libertà che ne evidenziava le numerose criticità. Non per ultimo, sempre su Il Dubbio è stata riportata la vicenda – denunciata dal suo avvocato Michele Capano – dell’internato Filippo Guttadauro, cognato del super latinante Mattea Messina Denaro, il quale ha denunciato alla magistratura di sorveglianza di aver ricevuto la proposta, da taluni soggetti istituzionali, dei soldi in cambio delle informazioni per la cattura del latitante. Ma ritorniamo ad Antonello Nicosia. Dall’ordinanza di custodia cautelare, emerge che Nicosia ha fatto battute infelici su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In una intercettazione si lamenta del nome dell’aeroporto di Palermo, intitolato ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e definisce le loro morti «incidenti sul lavoro». Avrebbe fatto un riferimento al latitante Matteo Messina Denaro, definendolo “primo ministro”. La procura, in pratica, accusa Nicosia di essersi costruito un’immagine pubblica di attivista per i diritti dei detenuti con lo scopo di mascherare le sue attività che favorivano diversi boss mafiosi. Oltre alla trasmissione dei messaggi, Nicosia è accusato di aver «portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis o di favorire la chiusura di determinati istituti penitenziari». Secondo la procura, dalla realizzazione di questo progetto Nicosia si aspettava un compenso economico addirittura da Matteo Messina Denaro. Questa specifica accusa, però, appare fumosa. La battaglia contro il 41 bis è legittima ed è portata avanti in maniera trasparente da alcuni movimenti politici e associazioni che si occupano dei diritti umani. Difficile credere che Nicosia, abbia così tanto potere, da dover condizionare le scelte governative sul 41 bis. Le accuse comunque sono gravissime. Secondo la Procura, Nicosia apparterrebbe a pieno titolo al clan mafioso e si sarebbe impegnato per la realizzazione di un non meglio delineato progetto che interessava direttamente da Messina Denaro, dal quale, per l’opera svolta, si aspettava di ricevere un ingente finanziamento non ritenendo sufficienti i ringraziamenti che asseriva di avere ricevuto dallo stesso latitante. Oltre a lui è finito in cella anche il boss Accursio Dimino. Secondo i magistrati, Nicosia non si sarebbe limitato a fare da tramite tra i detenuti e le cosche, ma avrebbe gestito business in società proprio con il boss Dimino, con cui si incontrava abitualmente, il quale ha fatto affari coi clan americani, in particolare i Gambino, e riciclato denaro sporco. Da alcune intercettazioni emergerebbero anche progetti di omicidi e Nicosia stesso era in procinto di raggiungere gli Usa. Resta però l’interrogativo sulle visite e colloqui riservati con i boss. È possibile? Tecnicamente, il fatto che Nicosia potesse svolgere visite e colloqui riservati con i boss negli Istituti penitenziari, appare però di difficile comprensione poiché le visite e le interlocuzioni con i detenuti, a qualunque regime o circuito penitenziario essi appartengano, non sono riservate ma debbono essere effettuate alla costante presenza del personale di Polizia penitenziaria delegato dall’Autorità dirigente. Possibile che abbia avuto la possibilità di svolgere i colloqui riservati? E se sì, chi gliel’avrebbe permesso?

Mafia, arrestato Nicosia. La deputata Occhionero: "Ingannata dal suo falso curriculum, ringrazio la magistratura". La radicale Bernardini: "Con lui rapporti interrotti, divergenze su visite in carcere". Le reazioni di fronte all'arresto del collaboratore parlamentare della parlamentare di Italia Viva, estranea all'inchiesta. La Repubblica il 04 novembre 2019. "La collaborazione con Nicosia è durata solo quattro mesi. Sono stata ingannata dal suo falso curriculum e dai suoi finti racconti. Ringrazio la magistratura". Con queste parole espresse in un comunicato la deputata ex Leu e ora in Italia Viva Pina Occhionero commenta l'arresto del suo collaboratore Antonello Nicosia, componente del comitato nazionale dei Radicali italiani e direttore della onlus "Osservatorio internazionale dei diritti dell'uomo", insieme ad altre quattro persone, con l'accusa di avere veicolato messaggi fuori dalle carceri. Questo allo scopo di favorire alcuni detenuti rientranti nel circuito del latitante Matteo Messina Denaro. La parlamentare renziana è completamente estranea all'inchiesta che ha coinvolto il suo ex collaboratore. Nella nota spiega: "Ringrazio la magistratura e le forze dell'ordine per lo straordinario lavoro di contrasto alla mafia. Da ciò che emerge dalle notizie riportate sui giornali quello che diceva e scriveva Nicosia era ben lontano dalla verità, arrivando a veicolare messaggi mafiosi per conto dei detenuti. Quello che si legge nelle intercettazioni è comunque vergognoso e gravissimo". "La collaborazione con me - prosegue - durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum, in cui si spacciava per docente universitario oltre che di studioso dei diritti dei detenuti. Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà -spiega - ho interrotto la collaborazione. Le visite in carcere peraltro sono parte del lavoro parlamentare a garanzia dei diritti sia dei detenuti sia di chi vi lavora. Ora sono profondamente amareggiata, ma la giustizia farà il suo corso. Mi auguro nel più breve tempo possibile. Pur essendo del tutto estranea alla vicenda sono comunque a disposizione della magistratura per poter fornire ogni elemento che possa essere utile". Una presa di distanza arriva anche da Rita Bernardini, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale: "A me non piaceva come operava quando io ero segretario dei Radicali Italiani e lui era iscritto al movimento. Poi i rapporti si sono interrotti quando lui è entrato nel comitato nazionale dei Radicali Italiani ed io nel Partito Radicale". "Mi sembrava più un esaltato - aggiunge Bernardini - non mi piaceva e avevamo avuto delle divergenza proprio su come devono essere effettuate le visite in carcere". "Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto", afferma Maria Falcone, sorella del giudice ucciso dalla mafia nel commentare l'intercettazione in cui Nicosia, si lamentava che l'aeroporto di Palermo fosse dedicato a Falcone e Borsellino. "Mi chiedo, alla luce di questa indagine - aggiunge Falcone - se non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro". "Le intercettazioni di questo Nicosia sono squallide e raccapriccianti. Il suo caso dice a tutti che la minaccia mafiosa e' attuale e va presa sul serio", scrive su Twitter Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici e monetari.

La compagna deputata col portaborse mafioso non si dimette. Se fosse stata di destra l’avrebbero scannata. Francesco Storace martedì 5 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. La deputata non poteva sapere di avere un portaborse mafioso. Già, l’onorevole Occhionero, eletta con Liberi e Uguali e appena approdata alla Corte di Renzi, è candida per natura. E’ di sinistra. Se invece fosse stata di destra, non poteva non sapere. Facile no? E’ curiosa la storia di Giusy Occhionero, compagna parlamentare di Termoli. Alle sue dipendenze ha intascato per un po’ di tempo i quattrini nostri Antonello Nicosia, che lei aveva preso come assistente. Costui è adesso in carcere, bollato come mafioso e uomo dei clan che fanno capo a Matteo Messina Denaro. Contattava chiunque, Nicosia, si vantava e magari fanfaronava. E ci si può cascare. Ma se lo assumi, le cose stanno diversamente. Se l’onorevole Occhionero fosse stata una parlamentare di destra, la pretesa minima sarebbero state le dimissioni. La deputata è avvocato. Quando ha chiamato a lavorare con lei Nicosia non si è informata dei suoi burrascosi precedenti penali, magari avrebbe avuto notizie su quella condanna pesante per droga finita chissà come. La Occhionero, dopo l’arresto, si è precipitata a dichiarare che “la collaborazione con me, durata solo quattro mesi, era nata in virtù del suo curriculum, in cui si spacciava per docente universitario oltre che di studioso dei diritti dei detenuti – sottolinea la parlamentare – . Non appena ho avuto modo di rendermi conto che il suo curriculum e i suoi racconti non corrispondevano alla realtà -spiega – ho interrotto la collaborazione. Le visite in carcere peraltro sono parte del lavoro parlamentare a garanzia dei diritti sia dei detenuti sia di chi vi lavora”.

Il padre della Occhionero tenta di bastonare l’inviato delle Iene. Il Secolo d'Italia venerdì 15 novembre 2019. Questo servizio delle Iene sul caso Occhionero va visto, diffuso, commentato. Perché è un altro squarcio di verità su una vicenda che il Secolo d’Italia sta seguendo con particolare attenzione. Ma la deputata di Italia Viva eletta alla Camera grazie a Liberi e Uguali non risponde dei suoi rapporti con Antonello Nicosia (nella foto), il suo ex assistente parlamentare in carcere in Sicilia per vicende di mafia.

L’aggressione del padre della Occhionero. L’inviato de Le Iene ha rischiato di essere preso a bastonate dal padre dell’onorevole. Per evitare  scene  del genere, sarebbe sufficiente rispondere con chiarezza a domande che si pongono in molti nella pubblica opinione. Ma sembra dominare l’omertà. La linea difensiva di Nicosia punta a farlo passare come un millantatore, un chiacchierone. Al punto che a domanda dell’intervistatore sui contatti del suo assistito con i mafiosi, il legale dice “ma se non lo ha denunciato l’onorevole…”. Ed è già una posizione abbastanza preoccupante per la stessa Occhionero… Inadeguata o collusa? Risponda! Ma è l’ambiguità che permea l’intera vicenda a destare mille perplessità su una deputata che nel migliore dei casi è inadeguata al suo ruolo in maniera stupefacente e nel peggiore potrebbe essere considerata collusa. Con i suoi colleghi di partito che tacciono, a partire dalla capogruppo Boschi e soprattutto dal leader Renzi, perché non è lei a prendere l’iniziativa?

Sia lei a convocare la stampa. Le immagini del lungo servizio delle Iene sono significative. Ma per quanto tempo pensa la Occhionero di poter sfuggire a domande che sono assolutamente legittime? Sia lei a convocare la stampa, a offrire la sua versione e ad accettare tutte le domande a cui dare risposta. È trasparenza, è democrazia, è diritto alla verità che nessun parlamentare può negare nel nome di un incomprensibile atteggiamento di casta. I suoi rapporti con Nicosia devono essere chiariti a prescindere se la Occhionero sarà indagata o meno. Sono gli italiani a voler sapere come ha fatto e perché un presunto mafioso a entrare in Parlamento.

Assistente arrestato per mafia, Occhionero: “Mi scuso per l'aggressione alla Iena”. Le Iene il 15 novembre 2019. Ismaele La Vardera, come avete visto nel servizio di martedì scorso, era stato aggredito con una scopa dal padre della deputata, appena passata a Italia Viva, per le sue domande sull’arresto per mafia di un suo collaboratore. Ci aveva promesso le scuse dopo che il papà aveva aggredito Ismaele La Vardera con una scopa in mano gridando “Io vi ammazzo!” per le sue domande sull’arresto del collaboratore della deputata per associazione mafiosa nel servizio, che potete vedere qui sopra, andato in onda due giorni fa nella puntata de Le Iene di martedì 12 novembre. Le scuse sono arrivate, come potete vedere nel testo integrale che riportiamo qui sotto: "Gentile, Ismaele, mi dispiace per l’accaduto”, scrive Giuseppina Occhionero, deputata da poco passata a Italia Viva di Matteo Renzi. “Non condivido l’atteggiamento di mio padre perché il linguaggio della violenza, in tutte le sue forme, non mi appartiene”. Al momento dell’aggressione, la Iena stava facendole alcune domande sul caso di Antonello Nicosia, suo ex assistente parlamentare, già condannato in via definitiva a 10 anni per traffico di stupefacenti e arrestato qualche giorno fa per associazione mafiosa. In un'intercettazione telefonica si sente tra l’altro Nicosia dire così di Falcone e Borsellino: “Sono vittime di un incidente sul lavoro”. Secondo gli inquirenti magistrati avrebbe utilizzato il ruolo da assistente parlamentare per entrare in carcere e fare da “postino” ai boss mafiosi favorendo in particolare Santo Sacco, che Nicosia in un’altra intercettazione dice di essere vicino al potentissimo latitante Matteo Messina Denaro. Secondo le ipotesi dei magistrati, Nicosia avrebbe anche progettato con un boss estorsioni, danneggiamenti, l’omicidio di un imprenditore di Sciacca. Per quanto riguarda il boss Santo Sacco, Nicosia lo avrebbe incontrato in carcere consegnandogli una lettera su carta intestata della Camera, che per legge non può essere sottoposta ad alcun controllo perché proveniente da un parlamentare. Quando Nicosia avrebbe raccontato l’episodio alla deputata Occhionero, lei gli avrebbe detto “bravo” e, a proposito della reazione di Santo Sacco alla missiva, avrebbe esclamato “Amooore”. Il progetto di Nicosia sarebbe stato quello di far trasferire Sacco, con l’aiuto della deputata, nel carcere di Roma. L’onorevole, in proposito avrebbe detto “fosse per me sarebbe già nel mio ufficio”. Santo Sacco, sostiene Nicosia in un’altra intercettazione, sarebbe un braccio destro del “primo ministro” ovvero, secondo gli investigatori, il superboss Matteo Messina Denaro. Ismaele La Vardera stava chiedendo a Occhionero dei chiarimenti su tutto questo quando è stato aggredito dal padre della deputata. “Citare la sofferenza di un padre di 71 anni che vede la figlia inseguita dalla stampa fino a casa propria e la sua famiglia associata dai media alla mafia, non è, né può essere, una giustificazione ma può aiutare a capire. Mi scuso io al posto suo!

Giuseppina Occhionero”.

Luigi Manconi al Dubbio: «Vi racconto come funzionano le visite al 41 bis». La Lettera del Professore, già Presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, su Il Dubbio l'8 Novembre 2019. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto. Caro Direttore, ricorro alla sua ospitalità per alcune puntualizzazioni in merito alla “vicenda Nicosia”. Antonello Nicosia è stato arrestato lunedì scorso con l’accusa di associazione mafiosa perché avrebbe recapitato fuori dal carcere i messaggi provenienti da alcuni boss della mafia, con cui aveva parlato durante le visite effettuate insieme a una parlamentare, della quale era assistente. Si tratta di precisazioni doverose, considerati gli attacchi – alcuni brutali, altri sinuosi- indirizzati contro l’attività svolta nelle carceri dai Radicali e dalla cosiddetta "lobby garantista" ( alla quale mi onoro di appartenere). Nella scorsa legislatura, come presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, ho visitato numerosi istituti penitenziari in tutta Italia: reparti con detenuti comuni, di alta sicurezza e oltre una decina di sezioni speciali con detenuti reclusi in regime di 41 bis. Nel corso di tutte queste visite ispettive, la nostra attività veniva costantemente accompagnata dal direttore dell’istituto e i nostri movimenti venivano seguiti passo passo, attentamente vigilati e tenuti sotto occhiuta sorveglianza da parte di agenti della polizia penitenziaria e, nel caso dei reparti a regime speciale, dagli agenti del Gom ( gruppo operativo mobile), il corpo ad altissima qualificazione della polizia penitenziaria che provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al massimo controllo. Aggiungo che oggetto dei colloqui avuti con i detenuti – e tra questi anche esponenti di vertice delle organizzazioni criminali mafiose e camorriste reclusi in 41 bis – sono sempre state, come la legge e l’ordinamento penitenziario prevedono, informazioni relative allo stato di salute dei detenuti, alla condizione di carcerazione e a eventuali diritti che si ritenevano violati all’interno di quelle celle. Niente di più. Per questi motivi non posso che provare stupore di fronte a quanto emerge dalla vicenda Nicosia: perché sarebbe stato consentito a qualcuno di potersi muovere con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Nel caso fosse confermato quanto emerso nei giorni scorsi, la responsabilità maggiore sarebbe da attribuirsi a chi non ha ottemperato agli obblighi che la legge e il regolamento penitenziario prevedono. Ma tutto ciò come può giustificare la tentazione, così sfacciatamente evidente, di limitare l’attività ispettiva nelle carceri e colpire una prerogativa che per legge appartiene ad alcuni soggetti istituzionali? E, cioè, ai parlamentari, ai consiglieri regionali, al Garante nazionale, a quelli regionali e – ci auguriamo- ai garanti comunali. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto e di quella norma che prevede la partecipazione della comunità esterna all’attività di rieducazione? Tutto ciò, com’è evidente, previa autorizzazione e sotto la sorveglianza del personale penitenziario. Grazie dell’attenzione e cordiali saluti.

Zingaretti fa lo spaccone antimafia in Sicilia, ma si è scordato i soldi di Buzzi. Scrive giovedì 25 aprile 2019 Francesco Storace su Il Secolo d'Italia. Che c’è andato a fare a Castelvetrano, ieri, Nicola Zingaretti? Non è Montalbano, verrebbe facile la battuta. E non ha nemmeno – diciamo – il curriculum vitae per intestarsi una battaglia antimafia. In Sicilia si vota domenica per le amministrative e Zingaretti (Nicola) ha calcato la mano sulla sua presenza di ieri nel paese che va ad elezioni comunali. “Vado nel paese di Matteo Messina Denaro”, ha annunciato con la solita prosopopea. Offendendo tutti gli abitanti, che non sono certo mafiosi. Oppure, “salvare” solo chi andava alla sua passeggiata elettorale. Perché i suoi sarebbero persone perbene e gli altri no? Il vecchio vizio non muore mai. Buoni e cattivi, amici e nemici.

I soldi di Buzzi. Castelvetrano ha semmai bisogno di libertà dal bisogno. E non la può garantire il segretario del Pd. Certo, Zingaretti non è mafioso. E nessuno si può permettere accuse ambigue nei suoi confronti. Ma è in condizione di fare lezioni? Troppa ipocrisia, nascosta sotto il tappeto. Che vai a fare “nel paese di Matteo Messina Denaro” se tutti sanno che tra i finanziatori elettorali hai avuto Salvatore Buzzi, che per mafia è stato condannato? Prudenza, Nicola, che poi ti ritorna tutto addosso. Anche perché arrivare, restare un paio d’ore e poi tornarsene a casa è abbastanza tranquillo. Se Castelvetrano è “il paese di Matteo Messina Denaro” non basta una comiziata, ma magari il rinnovamento generale. Il cambiamento reale. Lo propone la destra, orgogliosa del suo simbolo con Fratelli d’Italia. Davide Brillo, candidato sindaco, avvocato, poco più che trentenne, alla testa della sua lista. Solo lui, con i suoi candidati, a nome di un centrodestra che a Castelvetrano ha visto volatilizzarsi le liste di Forza Italia e persino della Lega. Capisce Zingaretti che cosa vuol dire non identificarsi con il passato? Anche Fratelli d’Italia avrebbe potuto mimetizzarsi in liste civiche e ciniche. No, proprio in quel paese la battaglia per la legalità nel centrodestra si fa con le bandiere di chi ha la forza, il coraggio e la responsabilità di essere presente. Con la propria faccia. In questa tornata elettorale, l’unica forza di centro destra è quella di Fdi che va da sola col suo candidato sindaco, senza aver ceduto alle tentazioni di altri movimenti politici e liste.

“E’ la città di Giovanni Gentile”…La strada intrapresa da Fdi è certamente la più difficile, ma la più trasparente e coerente, senza cedere ai tanti “canti delle sirene”. Anziché definire Castelvetrano “il paese di Matteo Messina Denaro”, il segretario di un partito importante avrebbe fatto meglio a studiare di più, a informarsi. Avrebbe scoperto magari che grazie alle candidature di rinnovamento Castelvetrano potrebbe tornare ad essere riconoscibile come la città di Giovanni Gentile, di Gennaro Pardo, di Giorgio Santangelo, di Virgilio Titone, di Pippo Basile. E’ in questo splendido affresco di cultura che si forma una classe dirigente, quella capitanata proprio da Davide Brillo, che vuole cambiare tutto quello che non va e puntare alto. Dopo due anni di commissariamento per mafia, Castelvetrano ha in casa sua – senza che ad indicargliela sia Nicola Zingaretti – la strada per riemergere. Selinunte non è Cosa nostra.

Marco Lillo e Valeria Pacelli per “il Fatto Quotidiano” il 25 aprile 2019. L' uomo che molti anni fa ha curato la raccolta fondi della campagna elettorale di Nicola Zingaretti è indagato in un fascicolo segreto della Procura di Roma perché ha incassato 296 mila euro nel 2015 dalle società del costruttore Luca Parnasi. Le fatture di Parnasi che giustificano quei pagamenti a Giuseppe Cionci non convincono i pm di Roma. Non è la prima volta che Cionci, imprenditore 60enne amico del segretario del PD Nicola Zingaretti, è indagato per fatture per operazioni inesistenti. Già nell' aprile del 2017 era stato perquisito perché per i pm romani aveva incassato 54 mila euro di fatture sospette - risalenti al 2015 - dalla società di un imprenditore poi arrestato nel 2018 per associazione a delinquere: Fabrizio Centofanti. La società Energie Nuove Srl che pagava era intestata per il 96 per cento alla moglie dell' imprenditore e per il 4 per cento a Stefano Lucchini, capo delle relazioni istituzionali all' Eni fino al 2014 e ora a Banca Intesa, amico di Centofanti e socio finanziario che nulla c' entra nella vicenda. In quell' indagine era stato perquisito nell' aprile del 2017 anche l' ex capo di gabinetto di Zingaretti in Regione, Maurizio Venafro, anche lui con l' accusa di fatture per operazioni inesistenti su pagamenti ricevuti da società amministrata di fatto da Centofanti. Cionci è un imprenditore del quale Salvatore Buzzi (condannato in Appello a 18 anni e 4 mesi di reclusione nel processo Mafia Capitale) disse "è l' uomo dei soldi di Zingaretti. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui, siamo andati da Cionci". A Repubblica, il 6 agosto 2015, Cionci replicò: "L' ho denunciato. Risponderà di calunnia per le sue accuse gravissime quanto false". Nell' articolo del quotidiano l' imprenditore veniva definito "architetto della sua (di Zingaretti, ndr) lista civica nel 2008, quando venne eletto presidente della Provincia e quindi tra i fund-raiser del suo comitato elettorale per l' elezione a governatore del Lazio (2013)". Proprio a questo articolo del quotidiano, fa riferimento la Sos, segnalazione per operazione sospetta, dell' Uif, Unità di Informazione Finanziaria della Banca d' Italia. La segnalazione è stata inviata alla Procura di Roma e contiene un grafico in cui sono indicati molti pagamenti a decine di soggetti. Tra questi anche quelli di Parnasi a Cionci e quelli delle società di Centofanti a Cionci e a Venafro. Quest' ultimo avrebbe incassato dalla Cosmec mediante fatture per operazioni inesistenti, secondo i pm, 49.920 euro più Iva pari a 10.982 euro. Per i pm Cosmec è amministrata di fatto sempre da Centofanti. In quella relazione Cionci viene definito un "imprenditore collegato al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti". La segnalazione dell' Uif è finita anche nel fascicolo 'madre' in cui sono indagate 18 persone: tra queste appunto ci sono Venafro e Fabrizio Centofanti, entrambi accusati di false fatture. Per questa indagine lo scorso 28 marzo la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio. Proprio partendo dai flussi finanziari della Energie Nuove Srl di Centofanti gli ispettori della Banca d' Italia agganciano Cionci. Sul conto di Cionci arrivano infatti tre bonifici di 54 mila e 100 euro "disposti a titolo di acconto/saldo fattura tra il 4 agosto e il 19 novembre 2015" dalla Energie Nuove. Non solo ma arrivano anche i soldi di Parnasi, flussi di denaro gli ispettori definiscono "meritevoli di attenzione". "Si fa riferimento - è scritto nella Sos - in particolare, a otto bonifici per un totale di 296 mila e 844 euro disposti da società del gruppo riconducibile all' imprenditore Luca Parnasi. Come sì apprende da fonti aperte, il sig. Parnasi - scrive l' Uif - è un noto imprenditore romano, vincitore dell' appalto per la sede della Provincia di Roma". Per l' acquisto della sede della Provincia, come è noto, nel 2013, la Corte dei Conti ha archiviato le accuse di danno erariale nei confronti di Zingaretti. I bonifici a Cionci, nel periodo che va da aprile 2014 a febbraio 2015, "sono stati disposti da Parsitalia Real Estate Srl". Da questa società partono cinque bonifici per un totale di 169.548 euro. Poi però "dal maggio 2015 si è sostituita alla Parsitalia la Immobiliare Pentapigna Srl, controllata totalitariamente da Parnasi a far data dal 4 agosto 2015". Dalla Immobiliare Pentapigna partono altri tre bonifici sui conti di Cionci per un totale di altri 127.296. Così si arriva ai 296 mila euro che hanno insospettito i pm. Su questo Parnasi è stato interrogato: l' imprenditore ha spiegato che era solo un modo per aiutare in quel momento un amico in difficoltà. La risposta di Parnasi non ha convinto del tutto i magistrati che si chiedono il senso di quelle fatture. Nicola Zingaretti non è indagato per questa storia dei bonifici di Parnasi. Mentre è indagato sulla base di una dichiarazione riguardante i presunti pagamenti di Centofanti. Un altro degli arrestati, l' avvocato Giuseppe Calafiore, ha detto ai pm a verbale che Centofanti "era sicuro di non essere arrestato perché riteneva di essere al sicuro in ragione di erogazioni che lui aveva fatto per favorire l' attività politica di Zingaretti". Secondo Calafiore le erogazioni sarebbero state illecite anche se ha aggiunto "non so con chi trattava tali erogazioni. Lui mi parlava solo di erogazioni verso Zingaretti". Erogazioni che non hanno trovato nessun riscontro. Anzi. Un altro indagato, l' avvocato Piero Amara, ha dichiarato ai pm: "Nulla so della circostanza che Centofanti erogava risorse finanziarie a Zingaretti". Il Fatto ha provato a contattare il segretario del Pd tramite il portavoce di Zingaretti, senza esito. Mentre l' avvocato di Giuseppe Cionci, Maurizio Frasacco, ci ha detto: "Non so nulla di questa storia. Cionci è amico di Zingaretti ed era stato, dieci anni fa se non ricordo male, responsabile legale della raccolta dei fondi per la sua campagna elettorale".

«Nessuna rivelazione di segreto d’ufficio»: archiviato il pg di Firenze. Marcello Viola era indagato per favoreggiamento, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. Dal fare indagini su Matteo Messina Denaro a ritrovarsi indagato per favoreggiamento a Cosa nostra, il passo è stato brevissimo per Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze e all’epoca dei fatti procuratore di Trapani. L’accusa risale all’ottobre del 2015. Viola sta svolgendo indagini sulle infiltrazioni mafiose nella Pubblica amministrazione nel trapanese. Per “ottimizzare” i tempi chiede ad un appuntato della Guardia di Finanza, persona di fiducia del procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato, alcuni atti relativi ad un pentito, contenuti nel pc del magistrato. Fra Viola e Principato c’è da anni uno stretto rapporto di collaborazione. L’appuntato, nel frattempo, viene però sottoposto ad indagine da parte dei suoi colleghi per fatti che nulla hanno a che vedere con la mafia. Durante una perquisizione, i finanziari gli trovano un sms in cui si fa riferimento alla consegna di «atti sulla latitanza di Matteo Messina Denaro» a Viola. I due vengono immediatamente indagati per rivelazione del segreto d’ufficio con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra. Secondo l’iniziale impianto accusatorio della Procura di Caltanissetta, lo scambio illecito di atti coperti da segreto investigativo fra Viola ed il finanziare poteva violare un protocollo di coordinamento fra gli uffici giudiziari e, di conseguenza, danneggiare le indagini della Dda di Palermo per la cattura del super latitante Matteo Messina Denaro. Ultimati gli accertamenti, i pm nisseni chiedono l’archiviazione per entrambi. Inizialmente non accolta dal gip che dispone l’imputazione coatta. La scorsa settimana, davanti ad un secondo gip, il definitivo proscioglimento «Non è necessario formalizzare lo scambio di atti fra le i vertici delle Procure di Palermo e Trapani», scrivono i magistrati di Caltanissetta nell’archiviazione. La collaborazione in questione aveva poi ad oggetto proprio gli atti richiesti da Viola. «Nell’ambito di questo coordinamento è assolutamente legittimo chiedere gli atti direttamente alla pg per prassi consolidata in tale senso». Un reato «evidentemente insussistente». Il coordinamento era basato su un continuo scambio di atti e che avveniva proprio tramite l’appuntato della finanza. La circostanza è stata confermata durante il processo dai pm di Trapani e Palermo che lavoravano con Viola e Principato. Un eccesso di “speditezza” ha dunque rischiato di essere gravemente frainteso.

L’ufficiale, l’ex sindaco e le indagini non autorizzate, scrive Damiano Aliprandi il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Arrestati un colonnello della Dia, un appuntato e il politico. Secondo la procura avrebbero svelato le attività investigative per catturare Matteo Messina Denaro. Arrestati un colonnello della Dia, Marco Zappalà, un appuntato dei Carabinieri in servizio a Castelvetrano, Giuseppe Barcellona, e l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino. Il motivo? Secondo la procura di Palermo avrebbero svolto delle indagini per catturare il latitante Matteo Messina Denaro. In sostanza, secondo il procuratore Lo Voi, l’aggiunto Guido, i pm Padova e Dessì, gli indagati avrebbero svelato indagini riservate sulla cattura di Messina Denaro. Eppure il colonnello Zappalà era ritenuto fino a ieri uno degli investigatori più fidati dell’antimafia e si era occupato, per conto della Procura di Caltanissetta, delle indagini riservate sulle stragi Falcone e Borsellino. Ma ieri mattina, sono stati i suoi colleghi della Dia di Palermo ad arrestarlo, in ufficio. Anche Barcellona aveva una lunga esperienza di indagini antimafia ed era incaricato di seguire alcune delicate intercettazioni disposte dalla procura di Palermo. E Vaccarino? Una passata storia interessante visto che era stato coinvolto in una operazione importante condotta dal Sisde per la cattura di Matteo Messina Denaro. All’epoca, e parliamo del 2006, il direttore dei servizi segreti civili era l’ex capo dei Ros Mario Mori e fu una operazione eclatante visto che ha permesso di raccogliere informazioni sul boss Matteo Messina Denaro proprio da lui stesso. Come? D’accordo col Sisde, Vaccarino ( grazie al fatto che era anche stato insegnante del fratello del boss e sindaco del suo paese natale) riesce a entrare in contatto con il latitante con il quale intavola una lunga corrispondenza epistolare. Tra gli obiettivi del Sisde diretto da Mario Mori non c’era solo il fatto di stanare il latitante, ma grazie alla collaborazione di Vaccarino c’era anche quello di mappare le famiglie mafiose siciliane e i loro interessi nell’ambito degli appalti. Da qui, il pensiero va proprio alla famosa indagine mafia appalti condotta all’epoca proprio da Mori. Quell’inchiesta seguita da Falcone che, prima di andarsene dalla Procura di Palermo, volle subito depositare, visto che considerava il dossier di vitale importanza per scardinare il sistema affaristico mafioso che coinvolgeva grossi appalti di livello nazionale. Lo stesso Borsellino, come dimostrano numerosi atti pubblici e testimonianze, si era interessato e non aspettava altro che avere la delega per le indagini: ma le ottenne dall’ex capo della Procura di Palermo Giammanco proprio il 19 Luglio 1992, giorno che poi morì stritolato dal tritolo messo dalla mafia corleonese. Ma ritornando a Vaccarino, i magistrati di Palermo all’epoca lo indagarono per concorso esterno in associazione mafiosa dopo averlo intercettato causalmente nel corso delle indagini sul latitante. Indagine poi archiviata visto che i servizi segreti confermarono che era un loro infiltrato. A quel punto, però, fallì l’operazione del Sisde per arrivare a Matteo Messina Denaro. Sembra una sorta di eterno ritorno: fu l’ennesimo caso di una contrapposizione tra quella procura e gli ex Ros.

 “Hanno svelato un’indagine su Messina Denaro”. In manette un ufficiale della Dia e un carabiniere. I pm di Palermo: “Un’intercettazione è stata passata ai boss”. Arrestato anche Vaccarino, fece da infiltrato dei servizi segreti. Il tenente colonnello lavora a Caltanissetta, il militare a Castelvetrano, scrive Salvo Palazzolo il 16 aprile 2019 su La Repubblica. L’indagine sul superlatitante Matteo Messina Denaro è a una svolta. La più drammatica. Questa mattina, la procura di Palermo ha fatto scattare le manette per due investigatori, sono accusati di aver passato notizie riservate a un mafioso trapanese dell’entourage del padrino ricercato. Accuse pesanti per il tenente colonnello Marco Zappalà, un ufficiale dei carabinieri in servizio alla Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta, e per Giuseppe Barcellona, un appuntato dell'Arma che lavora alla Compagnia di Castelvetrano, la città della primula rossa di Cosa nostra. Con loro è stato arrestato anche l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, già condannato per traffico di droga e poi diventato un confidente dei servizi segreti: è accusato di aver fatto da tramite e passato a un boss la trascrizione di un’intercettazione. Una catena delle talpe che è stata scoperta dai carabinieri del Ros: il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi e l’aggiunto Paolo Guido contestano adesso le accuse di rivelazione di notizie riservate, favoreggiamento e accesso abusivo a un sistema informatico. Ricostruzione accolta dal giudice delle indagini preliminari Piergiorgio Morosini, che ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare, accogliendo la ricostruzione dei sostituti procuratori Pierangelo Padova e Francesca Dessì. E ora si apre uno scenario inquietante: quante altre informazioni riservate sull’indagine Messina Denaro erano già filtrate? E cosa si nasconde dietro gli uomini delle istituzioni accusati oggi di essere le talpe dei boss?

L’inchiesta. Il tenente colonnello Marco Zappalà era ritenuto fino a ieri uno degli investigatori più fidati dell’antimafia, si era anche occupato delle indagini riservate sulle stragi Falcone e Borsellino. Questa mattina, sono stati i suoi colleghi della Dia di Palermo ad arrestarlo, in ufficio. Il sottufficiale dei carabinieri di Castelvetrano aveva anche lui un lunga esperienza di indagini antimafia, era incaricato di seguire alcune delicate intercettazioni disposte dalla procura di Palermo, proprio una di queste è stata svelata in tempo reale ai clan. E poi c’è il mistero Vaccarino: nel 2007, l’ex sindaco di Castelvetrano era stato ingaggiato dal Sisde allora diretto dal generale Mario Mori per la più riservata delle operazioni. Per qualche tempo, aveva intrattenuto una corrispondenza fatta di pizzini con Messina Denaro. “Per provare a giungere alla sua cattura”, disse lui ai magistrati di Palermo quando lo indagarono per concorso esterno in associazione mafiosa dopo averlo intercettato causalmente nel corso delle indagini sul latitante. E i servizi segreti confermarono. “E’ un nostro infiltrato”. Così l’inchiesta venne archiviata.

Il giallo. Ma davvero Antonio Vaccarino lavorava per lo Stato? Oppure faceva il doppiogioco, ancora una volta per alimentare i suoi contatti con Messina Denaro? Ripercorrendo nuovamente questi eventi, va ricordato un dato di cronaca intervenuto più di recente su quel direttore del Sisde che allora curò l’operazione Vaccarino-Messina Denaro: Mario Mori, oggi generale del Ros in pensione, è stato condannato in primo grado a 12 anni nel processo Trattativa Stato-mafia. La trattativa che dopo la strage Falcone, tre ufficiali del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, tutti condannati) avrebbero messo in campo con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino: “Per fermare le stragi”, hanno sempre sostenuto loro. “Invece – è la tesi dell’accusa – fecero da tramite fra le richieste di Riina e lo Stato”. Il processo d’appello inizierà il 29 aprile. Intanto, continuano ad essere tante le domande che avvolgono la latitanza del capomafia di Castelvetrano che conosce i segreti delle stragi e della trattativa, perché all’epoca era il “figlioccio” di Salvatore Riina, il capo dei capi: dal 1993 delle bombe di Roma, Firenze e Milano, Matteo Messina Denaro - condannato all'ergastolo - è diventato imprendibile. Probabilmente, per le protezioni di cui gode ancora all’interno di alcuni ambienti delle istituzioni. Due anni fa, un altro uomo con un distintivo in tasca – l’agente dei servizi segreti Marco Lazzari – venne arrestato per l’ennesima fuga di notizie: aveva soffiato al boss di Gela Salvatore Rinzivillo di essere finito nel mirino delle indagini su Messina Denaro, L’ennesimo spiffero pesante arrivato dal cuore della Sicilia.    

Via d’Amelio, così Messina Denaro fu libero di colpire. Damiano Aliprandi il 2 luglio 2019 su Il Dubbio. La procura generale di Catania ipotizza un altro depistaggio. Dopo Scarantino, focus su un altro “falso” pentito, Vincenzo Calcara, che avrebbe sviato le indagini verso un ex sindaco, poi assolto dal 416 bis, per lasciare mani libere al boss già allora latitante. Forse un giorno, molto lontano, si dovrà riscrivere da capo la storia delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ma anche di come agirono taluni pentiti, rispetto sia alla conduzione delle indagini sia alla possibilità di arrivare ai latitanti. Uno per tutti: Matteo Messina Denaro. Attualmente sotto processo a Caltanissetta quale possibile mandante (non l’unico) delle stragi. Dopo la vicenda del falso pentito Scarantino, per ipotesi della procura generale di Catania, sta emergendo un altro probabile depistaggio ad opera di un altro pentito, tale Vincenzo Calcara. Addirittura più grave, secondo Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale Familiari vittime innocenti di mafia dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”. Cosa sta emergendo? Il colpo di scena è arrivato giovedì scorso a Catania per la revisione del processo che portò l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, ad essere condannato per traffico di droga, a seguito delle accuse formulate a suo carico dall’ex pentito Calcara. Quest’ultimo, spiega Ciminnisi in un comunicato, «aveva accusato l’ex sindaco di essere a capo della famiglia mafiosa di Castelvetrano e di aver chiesto all’ex pentito di prepararsi a uccidere il giudice Paolo Borsellino utilizzando un fucile di precisione. Fatti per i quali Vaccarino venne arrestato nel 1992 a seguito della cosiddetta ‘ Operazione Palma’ e successivamente assolto». Per capire meglio i fatti, bisogna rispolverare le accuse fatte da Calcara. «Fu Francesco Messina Denaro, defunto padre di Matteo, a darmi l’incarico di uccidere, nel 1991, l’allora procuratore di Marsala Paolo Borsellino. Un incarico del quale io, inizialmente, ero orgoglioso. Ero una testa calda, allora, latitante da un anno e mezzo, ma quando Vaccarino mi disse che poi sarei dovuto fuggire in Australia e su un biglietto mi scrisse a chi dovevo rivolgermi laggiù, mi è scattato qualcosa dentro…», così ha raccontato il pentito, le cui dichiarazioni, nel maggio del ’ 92, condussero all’arresto dell’ex sindaco Vaccarino. Dopo essere stato arrestato nell’operazione “Palma”, Vaccarino fu condannato dal Tribunale di Marsala a 16 anni di carcere per associazione mafiosa e droga. Ma in appello, nel 1997, gli hanno riformato la prima sentenza, ristabilendo la pena in sei anni e sei mesi di reclusione e 21 milioni di lire, assolvendolo dal reato di mafia. Vaccarino, sempre proclamatosi innocente, ha scontato una parte della sua pena nel carcere di Pianosa dove ha dichiarato di subire torture e sevizie. Oggi chiede la revisione della condanna, assistito dagli avvocati Baldassare Lauria, Giovanna Angelo e Laura Ancona. La richiesta di revisione si fonda su una serie di prove che, per i legali, dimostrerebbero come l’unico pentito accusatore, Calcara, abbia reso dichiarazioni false, per accreditarsi quale collaboratore. Nel corso dell’udienza di giovedì, la Procura generale, oltre a chiedere l’annullamento di quella sentenza ritenendo Calcara assolutamente inattendibile – così come sostenuto da altri magistrati in diverse sedi – avrebbe fatto riferimento a un vero e proprio depistaggio messo in atto dal pentito. «Un’affermazione – denuncia Ciminnisi – che prospetta inquietanti scenari in merito alle ragioni che nell’autunno del 1991 portarono Calcara a collaborare con la giustizia. Infatti, mentre Calcara in quel periodo muoveva accuse nei confronti di soggetti rivelatisi poi estranei alla consorteria mafiosa, l’attuale boss latitante Matteo Messina Denaro, a Castelvetrano incontrava i vertici di “Cosa nostra” per organizzare le stragi del 1992, nel corso delle quali vennero uccisi Falcone e Borsellino». Se dovessero essere confermate le accuse della Procura generale di depistaggio, la storia sarebbe davvero da riscrivere e si prospetterebbero scenari inquietanti. «Ci troveremmo – spiega Ciminnisi – dinanzi a un fatto ben più grave di quello di Scarantino e delle sue dichiarazioni su Via D’Amelio». Perché? «Mentre le false dichiarazioni di Scarantino servirono a indirizzare le indagini in direzione diversa rispetto ai veri responsabili dell’attentato, quelle di Calcara – se dimostrato quanto sostenuto dalla Procura – distogliendo l’attenzione da Matteo Messina Denaro, permettendogli di agire indisturbato, sarebbero state funzionali al compimento della strage».

La verità di Fiammetta Borsellino sulla strage di via d’Amelio. La figlia del magistrato ucciso da Cosa Nostra sarà all’università di Rende. Tante le domande ancora rimaste senza risposta: chi ha voluto veramente le stragi dl ’ 92? Chi ha inquinato le prove? E chi e perché ha guidato i depistaggi? Damiano Aliprandi l'1 Maggio 2019 su Il Dubbio. Con la presenza eccezionale di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice antimafia dilaniato dal tritolo dalla mafia, si approfondirà anche il tema della ‘ nuova’ emergenza che permise l’introduzione del 41bis e la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e l’Asinara. Giovedì 2 e Venerdì 3 maggio la figlia del giudice Paolo Borsellino sarà infatti ospite a Catanzaro, presso l’aula magna della Facoltà di Sociologia e a Rende, presso la Sala Tokyo del Museo del Presente alle 10. Gli incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus e realizzati in collaborazione con il Comune di Rende, la Camera Penale di Cosenza “Fausto Gullo” e l’Università Magna Graecia, rivolti principalmente agli studenti medi e universitari, avranno lo scopo di non parlare della solita antimafia, molto spesso di facciata, ma saranno finalizzati a ricostruire i motivi della strage di Via d’Amelio che vanno oltre le narrazioni vigenti. Sì, perché tante sono le domande, finora rimaste inevase, su alcuni punti oscuri ancora del tutto da chiarire. «La testimonianza di Fiammetta – scrive in una nota l’associazione Yairaiha – è ricerca di verità. Chi ha voluto veramente le stragi? Perché l’inquinamento delle prove? Perché le omissioni, i depistaggi? Perché il dossier mafia- appalti viene archiviato dopo due giorni dalla strage? Per troppo tempo sono prevalse diverse “verità processuali” contrapposte l’una all’altra, che non cercavano la verità, ma saziavano l’opinione pubblica che chiedeva giustizia». Gli organizzatori sottolineano che «le stragi di Capaci e Via d’Amelio hanno segnato indelebilmente la storia d’Italia: per oltre un quarto di secolo le ‘ verità’ processuali, hanno offerto una ricostruzione perimetrata in una strategia della mafia. 26 anni di processi basati su indagini approssimative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia ora smentiti ora riaccreditati, salvo poi rivelarsi collaboratori pilotati o costretti alla collaborazione». A differenza del teorema sulla presunta Trattativa Stato Mafia che avrebbe offerto delle concessioni ai mafiosi come l’ammorbidimento del 41 bis, pare che gli organizzatori del convegno raccontino invece un’altra storia. «La ‘ nuova’ emergenza – scrivono sempre nella nota – permise l’introduzione del 41bis e la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e l’Asinara. I racconti dalla sezione Agrippa fanno emergere come ‘ normale’ trattamento penitenziario vessazioni e torture sistematiche. Migliaia di prigionieri in quegli anni, colpevoli o innocenti, vengono torturati e umiliati dagli agenti dello Scopp ( antesignano del Gom). Queste torture verranno denunciate da un coraggioso Magistrato di Sorveglianza, Rinaldo Merani, che invierà una dettagliata relazione- denuncia alle Procure di Livorno e Firenze». La storia della strage di Via D’Amelio offre molteplici piani di lettura e analisi che implicano la storia politica, giudiziaria, economica e sociale dell’intero Paese. «In questi due incontri – continua la nota – assieme a Charlie Barnao, Cleto Corposanto, Sandra Berardi, Marcello Manna, Marina Pasqua, Lisa Sorrentino, Ciro Tarantino e Maurizio Nucci, proveremo a ricostruire alcuni degli aspetti più salienti di quello che i giudici del Tribunale di Caltanissetta nel Borsellino- quater, con la sentenza del 2017- le cui motivazioni sono state depositate a luglio del 2018 -, hanno definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Assieme – conclude l’associazione Yairaiha – proveremo a ricomporre un pezzo di storia che ha avuto molti giudici e poche verità».

Bruno Contrada: «Nel 2007 denunciai un tentativo di depistaggio». Nella deposizione al processo per il depistaggio sulla strage di via D’Amelio Bruno Contrada ha dichiarato chd avrebbe voluto svolgere indagini nei confronti dei Madonia, scrive Damiano Aliprandi il 7 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Nel marzo 2007, poco prima di entrare nel carcere di Santa Maria a Capua a Vetere per espiare la pena per la condanna definitiva – ha detto Bruno Contrada – venni qui alla Procura di Caltanissetta, accompagnato dai miei legali, per presentare un esposto querela di circa 80 pagine, con un centinaio di allegati accusando criminali mafiosi pentiti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia, facendo nomi e cognomi. È tutto documentato dove si provava in maniera inconfutabile che c’era stato un tentativo di depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio utilizzando la mia persona per colpire il sisde». E ha aggiunto: «Ma tutto è stato archiviato dall’allora procura di Caltanissetta, tranne un filone di questa inchiesta che era seguito dal pm Luca Tescaroli, che fu poi inviata a Catania per competenza». Ma non solo. «Avremmo fatto una indagine sulle famiglie dello schieramento predominante, cioè i corleonesi – ha detto sempre Bruno Contrada -, al fine di agevolare il loro lavoro investigativo, in primo luogo la famiglia dei Madonia e poi i Galatolo». Per la strage di via D’Amelio, l’ex numero tre dei servizi segreti civili Contrada, se avesse avuto la possibilità, avrebbe quindi svolto indagini nei confronti dei Madonia, a differenza delle indagini che poi vennero indirizzate verso Scarantino, il falso pentito della Guadagna, con il quale nonostante tutti i dubbi emersi su di lui «avrebbero – come si legge nelle motivazioni del Borsellino Quater – logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero» . Ma le indagini di supporto non le ha potute portare a compimento, come inizialmente si era prefissato, anche perché non aveva acquisito ancora elementi certi. Da ricordare, anche, che a distanza di 5 mesi dall’attentato, ovvero alla vigilia di Natale del 1992, viene arrestato con l’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa” sulla base delle dichiarazioni di quattro pentiti di mafia. Uno dei quattro era Gaspare Mutolo, perseguitato e fatto condannare a nove anni per estorsione proprio dallo stesso Contrada quando era capo della squadra Mobile di Palermo. È un fiume in piena Bruno Contrada, ascoltato ieri come teste durante il processo di Caltanissetta nei confronti dei tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti del ‘ Gruppo Falcone- Borsellino’ che indagò sull’attentato. «Ho avuto una conversazione con il Procuratore di Caltanissetta Tinebra il 20 luglio 1992 – ha detto Contrada -, lui mi chiese di contribuire alle indagini, ma tra le varie cose che gli prospettai e le varie obiezioni che avevo fatto alla sua richiesta di collaborare alle indagini, la cosa principale era che non ero più nella polizia giudiziaria. Avevo anche obiettato che non avrei intrapreso nessuna attività sul piano informativo, perché quello era il mio compito, se non d’intesa con gli organi di polizia giudiziaria interessati, sia della Polizia che dei Carabinieri» . E pochi giorni dopo ci fu l’incontro, come risulta anche dall’agenda che Contrada ha portato in aula, con i vertici di Polizia e Carabinieri a Palermo. «Infatti ci fu l’incontro, per la Polizia, con l’allora dirigente della Squadra La Barbera e successivamente l’incontro con il maggiore Obinu dei Carabinieri», racconta ancora Contrada. «A La Barbera dissi che non avrei fatto nulla per accavallare le indagini – spiega Contrada al pm Stefano Luciani dissi che avrei svolto un’attività che non potesse disturbare le loro indagini, gli spiegai quello che noi come Servizi segreti potevamo fare per contribuire, nei limiti del possibile, alle indagini sulla strage». Contrada ha spiegato che era l’unico in quell’ambiente che aveva conoscenza di cose e uomini di mafia, visto la sua lunga permanenza di servizio a Palermo.

Strage di via D’Amelio, il grande depistaggio nella versione di Contrada. Damiano Aliprandi il 26 Aprile 2019 su Il Dubbio. L’ex 007 ripercorre la querela del 2007 in cui denunciava gli attacchi contro di lui. Nella denuncia emerge anche il giallo su chi per primo diffuse la falsa notizia della sua presenza sul luogo in cui morirono Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. «Un piano di depistaggio di indagini, di destabilizzazione, di attacco alla mia persona». È Bruno Contrada che scrive in un esposto – querela presentata nel 2007 prima di varcare il carcere e fa riferimento al depistaggio. Una querela con nomi e cognomi, fatti e circostanze ben precise che cristallizzano un quadro di menzogne, quelle di pentiti e poliziotti, che lo avrebbero segnato per sempre. Ricordiamo che l’Italia, per la condanna di Contrada, è stata sanzionata nel 2015 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché il reato è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana successiva all’epoca dei fatti. È su di lui, ex uomo del Sisde a cui nell’ordine il maggiore dei carabinieri Sinico Carmelo, il maresciallo Canale Carmelo e poi i pentiti Gaspare Mutolo e Francesco Elmo rivolsero le loro dichiarazioni accusatorie, in merito al suo ritenuto coinvolgimento nelle stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio. Ci vollero 3 anni perché le dichiarazioni mai riscontrare dei primi due venissero archiviate: era il 7 marzo del 1995 che il gip di Caltanissetta provvedeva all’archiviazione del procedimento, che nel frattempo era stato aperto con la contestazione dell’art 422 cp, cioè per il delitto di strage nell’attentato di Via D’Amelio, dove moriva Paolo Borsellino. Si legge sempre nell’esposto che Contrada seppe casualmente dell’apertura di questo procedimento, proprio attraverso le notizie che diffusero i giornali. Scrive il gip di Caltanissetta a proposito della traccia investigativa che fu offerta dal maresciallo Canale: «le congetture, cioè quelle scaturite dalle dichiarazioni del Canale, erano state alimentate da alcune dichiarazioni testimoniali che riferivano della presenza di Contrada nei pressi di Via D’Amelio poco dopo l’esplosione. In particolare il Cap Cc Sinico Umberto dichiarò di aver appreso da fonte assolutamente attendibile, di cui si riservava di fornire il nominativo, che la prima Volante della Polizia sopraggiunta in Via D’Amelio pochissimo tempo dopo l’esplosione avrebbe fermato e generalizzato una persona che si trovava sul posto rispondente al nome di Bruno Contrada…». E’ su queste tracce che il gip espresse giudizi di inconsistenza, di non conducibilità e non aderenza alla realtà, quando osservava senza dubbi che «nessun elemento è stato acquisito a conferma di quanto riferito dal M. llo Canale». Ugualmente, anche per l’asserita dichiarazione del Sinico, il gip non si lascia andare a tentennamenti, ma esprime chiaramente nel decreto di archiviazione che «quanto alla dichiarazione del Cap. Sinico circa la presenza di Contrada in Via D’Amelio nell’immediatezza dell’esplosione, nessun elemento è stato acquisito nel corso delle indagini tale da suffragare detto assunto». A ciò si aggiunge il fatto è che Contrada, parlando con gli inquirenti, provava, anche citando testimoni a sostegno delle sue affermazioni, che in quei giorni non era neppure a Palermo ma che si trovasse a bordo di una barca: il giudice definisce questa circostanza come un «alibi di forte persuasività, in quanto confermato da diversi testimoni che hanno riferito che l’indagato si trovava sulla barca in loro compagnia quando fu compiuta la strage». A smentire Sinico, in realtà, ci furono testimonianze dirette che in modo indiscutibile provavano come fosse falsa la notizia che aveva ricevuto, il quale a sua volta l’aveva appresa da una fonte da lui rivelata a fatica solo anni più tardi. La stessa fonte, a sua volta, disse di aver appreso la notizia dagli agenti della Volante presente per prima sul luogo della strage: quest’ultimi, poi ascoltati, confermarono di non aver mai visto Contrada dopo l’esplosione in Via D’Amelio. Del resto, sul posto, tutti negarono di aver visto Bruno Contrada in quel tragico 19 luglio in Via D’Amelio. Ma non finì qui. Anche dopo l’archiviazione, complice la stampa che non perdeva occasione di dare la notizia sul numero tre del Sisde, Bruno Contrada doveva rendersi conto che le sue vicissitudini giudiziarie non erano affatto terminate. Si trovò a dover far fronte agli attacchi di Gaspare Mutolo, il pentito che, a un anno esatto dall’archiviazione che era nata dalle “congetture” di Canale e dalle non riscontrate dichiarazioni di Sinico, nel corso dell’udienza del 22.2.1996 durante il processo per la “Strage Falcone” ( il procedimento n. 3/ 95 – 5/ 95 RG), dinnanzi la Corte d’Assise di Caltanissetta riferiva che durante uno degli interrogatori con Paolo Borsellino, quest’ultimo dopo averlo sospeso per andare a rispondere a una telefonata, tornò confessandogli che aveva parlato con il Capo della Polizia Parisi e con Bruno Contrada, definendo il Magistrato come “stizzito” ed “arrabbiato”; aggiungeva anche di aver ricevuto confidenze da Paolo Borsellino sul Magistrato Signorino e su Bruno Contrada in un altro interrogatorio e che una volta «telefonò anche il Ministro». Del resto parrebbe strano pensare che il Giudice Borsellino si potesse fidare del pentito Mutolo più che del collega Procuratore Aggiunto Aliquò, con cui conduceva gli interrogatori del pentito, ai quali peraltro non si recava mai solo: secondo l’esposto querela di Contrada, risulterebbe infatti agli atti che Borsellino all’interrogatorio del 1 luglio 1992 partecipò proprio con Vittorio Aliquò, e che al secondo e al terzo interrogatorio, quelli dei successivi 16 e 17 luglio, parteciparono con lui anche gli allora Sostituti Procuratori Lo Forte e Natoli. Ma non fu la prima volta che Mutolo fece dichiarazioni di questo tipo: a dire il vero, Contrada stesso conferma – dietro anche riscontro dei Magistrati De Luca e Sinesio reso nel corso delle testimonianze del maggio 1994 innanzi il Tribunale di Palermo per il processo in corso nei confronti dello stesso Contrada -, di aver avuto notizia che Mutolo stesse facendo propalazioni su di lui a proposito delle stragi già dal giorno 23 luglio 1992. Dopodiché, nel 1998 Contrada presentò un’ulteriore denuncia alla Procura di Caltanissetta: era l’occasione per ribadire che il 19 luglio 1992 si trovava in alto mare; che mai incontrò Paolo Borsellino durante alcuno degli interrogatori che lo stesso tenne con Mutolo alla presenza di altri Magistrati; che mai incontrò il Capo della Polizia Parisi con Paolo Borsellino: circostanza che poi anche Parisi aveva confermato, cioè di mai aver visto Paolo Borsellino con Contrada. La denuncia fu l’occasione per approfondire la ricerca sulla fonte da cui sarebbero scaturite le dichiarazioni di Sinico e Canale, quelle sulla presenza di Contrada sul luogo della strage di Via D’Amelio: la smentita venne proprio dall’equipaggio della prima Volante intervenuta sul posto che confermò di non aver visto Contrada lì e di aver redatto una relazione sul loro intervento: la sua assenza era il motivo della mancanza di qualsiasi verbale di identificazione. Nel frattempo – si legge sempre nella querela del 2007si aggiunsero anche le dichiarazioni di un altro pentito, tale Francesco Elmo, che furono dal Gip considerate tardive e inverosimili, anche se non fu provato che ne conoscesse la falsità al momento in cui le metteva in circolazione: «Carenza di dolo della calunnia», scrive il giudice. Anche questa denuncia che fece Contrada contro del pentito fu portata verso la via dell’archiviazione. Nella querela Contrada esprime di restare con l’amaro in bocca: quello di non sapere chi poteva essere stato il soggetto che per primo diffuse la notizia calunniosa della sua presenza sul luogo della strage in quel 19 luglio 1992; di certo appare che la notizia raggiunse gli inquirenti della Procura di Palermo e di Caltanissetta, che stavano indagando, e poi trapelò tra gli organi della stampa che ne diedero ampia diffusione, compreso la realizzazione di un film, nel 1993, dove lo ritraeva presente sul luogo della strage. Denunciò, ma le indagini finirono in archiviazione, ritenendo che quella presenza fosse frutto di congetture, di cui mai si saprà l’artefice. «Non è possibile che restino impuniti comportamenti che mi hanno ingiustamente procurato un enorme e irreversibile danno sotto ogni aspetto», conclude amaramente Contrada nella querela del 2007 che poi verrà archiviata.

Un altro punto per Contrada: la Cedu accetta il suo ricorso. La Corte europea dei diritti umani ha dichiarato ricevibile il ricorso presentato dai legali di Bruno Contrada che ritengono non solo le perquisizioni abusive, ma anche l’utilizzo sproporzionato delle intercettazioni, scrive Damiano Aliprandi il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. La Corte europea dei diritti umani ha dichiarato ricevibile il ricorso presentato dai legali di Bruno Contrada, in merito alle tre perquisizioni subite dall’ex numero due del Sisde, subito dopo la revoca della sua condanna a 10 anni inflitti illegittimamente secondo la Cedu. Non solo le perquisizioni considerate abusive dai legali, ma anche l’utilizzo sproporzionato delle intercettazioni nei confronti di persone non indagate consentite da una norma troppo vaga e che non pone limiti. «Oltre alla questione dell’illegittimità dal punto di vista convenzionale delle perquisizioni – spiega a Il Dubbio l’avvocato Stefano Giordano – abbiamo sollevato assieme al collega Marina Silvia Mori di Milano, il modo disinvolto con cui i magistrati, legge tacendo, utilizzano le intercettazioni ambientali e telefoniche». «Già in conferenza stampa avevo detto che la legge – sottolinea l’avvocato – non pone dei limiti alla cerchia dei destinatari delle intercettazioni. Cioè, laddove ci sia un reato qualsiasi, o meglio l’ipotesi di un reato, si può intercettare chiunque per quel reato senza dei limiti. Allora, o questi limiti li fornisce la giurisprudenza, che non li ha dati, oppure, consentire che arbitrariamente tutta la popolazione presente sul suolo italiano possa essere soggetta ad intercettazione per un reato, per noi è una violazione di tipo convenzionale, perché viola la vita privata e familiare delle persone senza una base legale». Tre sono state le perquisizioni effettuate nel giro di un anno. L’ultima, risolta con l’ennesimo nulla di fatto, risale al 29 giungo scorso. Documenti sequestrati? Un album fotografico con foto della Polizia di Stato, alcuni atti processuali pubblici, degli appunti per una bozza di lettera da inviare al magistrato Nino Di Matteo per alcuni chiarimenti. Questa volta la perquisizione era stata disposta dalla Procura generale di Palermo. Le altre due precedenti, avvenute nel giro di pochi giorni a luglio dell’altro anno, erano state disposte dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ’ ndrangheta risalenti agli anni Novanta. In particolare, su un presunto rapporto di Contrada con Giovanni Aiello, risalente a circa 40 anni fa, quando dirigeva la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. Un rapporto, di fatto, mai dimostrato. L’ex agente Giovanni Aiello, meglio conosciuto come “faccia da mostro” e morto di crepacuore due anni fa, era considerato una sorta di “anima nera” che, a parere dei magistrati – o meglio secondo un teorema però rimasto senza prove – sarebbe stato dietro a ogni strage di mafia degli ultimi decenni. Il decreto della Procura generale di Palermo – titolari il Pg Roberto Scarpinato e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio – aveva disposto la perquisizione non solo della attuale abitazione di Contrada, ma anche di altri due immobili, perché – scrive la Procura – «esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti». L’ordinanza è legata all’indagine – i pm palermitani avevano chiesto l’archiviazione, respinta dal gip, e subito dopo la procura generale di Palermo aveva avocato l’inchiesta – relativa al duplice omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio. I documenti, che secondo la Procura avrebbe ancora a disposizione Contrada, servirebbero per dimostrare i rapporti che avrebbe avuto con lo stesso Agostino, con Aiello e con l’ex agente di polizia Guido Paolillo, indagato, e archiviato, proprio per il duplice omicidio. Ma quali sono le argomentazioni che la Procura generale di Palermo ha ritenuto di utilizzare per giustificare la perquisizione degli appartamenti? Esclusivamente basata sulle intercettazioni. «Contrada – denuncia l’avvocato Giordano – continua, da un anno e mezzo, a essere periodicamente sottoposto ad atti invasivi della sua vita personale e del suo domicilio (perquisizioni, intercettazioni), senza che a suo carico risulti essere pendente alcun procedimento penale». Per questo motivo è stato introdotto un nuovo ricorso avanti la Cedu, per denunciare l’illegittimità sul piano convenzionale di una normativa ( come quella italiana) che consente alla Pubblica Autorità di sottoporre indiscriminatamente ad atti invasivi della vita personale e del domicilio ( quali perquisizioni, sequestri e intercettazioni) soggetti che non siano parte ( né in veste di indagato, né in quella di persona offesa) di un procedimento penale e che si trovano per di più privati, in tal modo, delle garanzie che le norme interne e convenzionali pongono a tutela di chi sia formalmente accusato di un reato. La Corte ha dichiarato ricevibile il ricorso e questa volta riguarda l’intero sistema.

Sentenza Contrada aperta a tutti: niente concorso esterno prima del 1994? Scrive Damiano Aliprandi il 26 Marzo 2019 su Il Dubbio. Ricorso dell’avvocato Stefano Giordano alle sezioni unite della Cassazione. La corte d’appello di Caltanissetta aveva ritenuto non estensibili a terzi gli effetti per i fatti commessi prima del 1994 per concorso esterno all’associazione mafiosa. Potrebbe aprirsi la possibilità che la sentenza della Corte europea su Bruno Contrada possa essere automaticamente applicata anche a soggetti diversi che – in mancanza di un proprio giudicato favorevole Cedu – abbiano riportato condanna penale per condotte qualificate in termini di concorso esterno in associazione mafiosa, commesse in periodi antecedenti al 1994. Parliamo dei cosiddetti “fratelli minori “di Contrada. Il caso è stato sollevato dall’avvocato Stefano Giordano del foro di Palermo che ha presentato un ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta, accolto dalla Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione. Il ricorso dell’avvocato Stefano Giordano avverso una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta ( che aveva ritenuto non estensibili a terzi gli effetti della sentenza emessa nell’aprile 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a favore di Bruno Contrada), è stato quindi accolta dalla Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione e, con ordinanza emessa il 22 marzo scorso, ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione circa la questione dell’estensibilità o meno degli effetti della sentenza Contrada a favore dei cosiddetti ‘ fratelli minori’. «Si tratta della rimessione alle Sezioni Unite – spiega a Il Dubbio l’avvocato Giordano -, che ho chiesto io stesso, circa la questione sul riconoscimento della sentenza Contrada, come pronuncia che ha una valenza sistemica nell’ordinamento. Ieri (venerdì ndr) ho discusso un caso di concorso esterno e ho chiesto la rimessione alle Sezioni Unite per contrasto giurisprudenziale. La relatrice ha colto perfettamente lo spirito del ricorso anche nella relazione ed è arrivata la notizia che hanno rimesso il ricorso alle Sezioni Unite». Precisamente il ricorso riguarda un “fratello minore” di Contrada: così si chiamano quei ricorsi di chi, come Dell’Utri, ha la stessa situazione giuridica di Contrada: ovvero chi è stato condannato per fatti commessi prima del 1994 per concorso esterno all’associazione. La Corte Europea, ribadiamo, aveva stabilito che la sentenza è legittima solo per fatti commessi dopo il 1994. Lo ha stabilito per Contrada, ma ha identificato un deficit sistemico nell’ordinamento: fino a quel momento il reato non era infatti, per la Corte, configurato in modo sufficientemente chiaro. Si è cercato di annullare le conseguenze che la pronuncia Contrada avrebbe avuto nel sistema, perché si sarebbero dovute revocare tutte le sentenze di quelli che, pur non avendo fatto ricorso a Strasburgo, erano comunque nelle stesse condizioni di Contrada. «Tanti sono i giuristi – sottolinea sempre l’avvocato Giordano – che si sono schierati a favore di questa pronuncia, da Viganò a Fiandaca, osservando che, per garantire l’uniformità di trattamento, gli effetti della pronuncia Contrada si dovevano riconoscere anche agli altri casi, essendo una sentenza che riguarda aspetti generali». Ma, di fatto, si è cercato di evitare che ciò accadesse. «La Cassazione, la Prima Penale, – spiega l’avvocato Giordano si è quasi divisa in due, prevedendo due orientamenti: da un lato quello per cui, se non si presenta il ricorso alla Cedu si può chiedere la revisione europea ma non l’incidente d’esecuzione in Italia; dall’altro un orientamento, che ha preso piede nell’ultimo anno, per cui la pronuncia Contrada sarebbe contraria all’ordinamento giuridico italiano» . Per questo motivo, l’avvocato ha discusso un caso di concorso esterno e ha chiesto la rimessione alle Sezioni Unite per contrasto giurisprudenziale. Le Sezioni Unite dovranno decidere se il principio della sentenza Contrada si estende a tutti gli altri “fratelli minori”, pena la disparità di trattamento. «In caso diverso – fa sapere sempre l’avvocato Giordano -, impugnerò la pronuncia alla Cedu. È assurdo che per vedere riconosciuto il principio generale, che ha sancito la pronuncia Contrada, si debba andare a Strasburgo». L’avvocato crede che emerga un fatto evidente: «Le Sezioni Unite, nel decidere, dovranno essere più caute nel valutare l’incidenza della pronuncia Contrada rispetto agli altri ricorsi su situazioni identiche». Perché? «La decisione delle sezioni unite della Cassazione – risponde Stefano Giordano- sarà fondamentale perché ci sono molte persone che si trovano in questa situazione». Per l’avvocato Giordano è necessario che, per evitare una disparità di trattamento, «alla sentenza Contrada venga riconosciuta dalle Sezioni unite una valenza sistemica». La decisione delle Sezioni Unite è attesa per i prossimi mesi.

Fiammetta Borsellino: «Se per quelle indagini su via D’Amelio si fosse usato il metodo di mio padre…». Fiammetta, figlia di Paolo «non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle istituzioni, non, darà il suo contributo alla verità e chi dovrà fare i conti con la propria coscienza», scrive Damiano Aliprandi il 26 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Tutto è stato disatteso dalla parte poco sana delle istituzioni: mio padre è stato tradito da vivo e da morto». Sono alcune delle parole, forti e appassionate, di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Parole seguite da scroscianti applausi da parte delle centinaia di studenti al Teatro Massimo di Cagliari, durante l’incontro della settimana scorsa “La verità è un diritto’, organizzato dall’Osservatorio per la giustizia. Prima dell’incontro, nella mattinata, Fiammetta Borsellino si è recata a Sestu per deporre una corona di fiori sulla tomba di Emanuela Loi, una dei componenti della scorta di Borsellino, uccisa nella strage di via D’Amelio. Ha incontrato Maria Claudia, la sorella dell’agente di scorta, e si sono abbracciate. La prima cittadina Paola Secci, nell’occasione, ha voluto ringraziare l’avvocato Patrizio Rovelli, Presidente dell’Osservatorio per la giustizia, che ha reso possibile l’incontro. Poi è arrivato il pomeriggio, ed è lì che al teatro Massimo di Cagliari ha preso il via il primo incontro. La sala era gremita e l’emozione ha coinvolto tutti i partecipanti. «Sono qui – ha esordito Fiammetta – per condividere con voi il ricordo di mio padre e con l’auspicio che assuma un ruolo diverso, perché diventi il patrimonio di un popolo: parliamo di un uomo che è morto nell’esercizio del dovere per senso di fedeltà allo Stato, come salvaguardia dei diritti e delle libertà». La figlia più piccola di Paolo Borsellino parla del coraggio di portare avanti la scelta da che parte stare «anche quando c’è il pericolo: la paura non è grave – sottolinea Fiammetta -, purché ci sia il coraggio. Mio padre – ha raccontato – prima di andare a letto si guardava sempre allo specchio per capire se lo stipendio se lo fosse meritato». Fiammetta era giovanissima quando il padre era ancora in vita e istitutiva il maxi processo, ricorda la scrupolosità che utilizzava per le indagini. «Metodo di indagine – ha raccontato – non avvenuto però per l’accertamento dei responsabili sulla strage di Via D’Amelio». Parliamo del più grande depistaggio della storia, come sentenziato dal Borsellino Quater. «Se oggi sappiamo qualche verità – ha spiegato Fiammetta – è perché nel 2008 Spatuzza ha detto la verità, e cioè che non era stato Scarantino che non aveva organizzato la strage». La figlia di Paolo Borsellino ha sottolineato: «Il problema è che Scarantino è stato indotto, da chi lo gestiva, e questo lo stabilisce la sentenza Borsellino Quater». Poi ha aggiunto: «Lui era di infimo spessore ma facilmente manovrabile, perché è stato gestito in primis dai poliziotti e poi dai magistrati che avevano governato le indagini». Il moderatore dell’incontro, l’avvocato Patrizio Rovelli, presidente dell’Osservatorio per la giustizia, ha approfittato per ricordare il ruolo fondamentale dell’avvocato e ha fatto proprio l’esempio della gestione dei pentiti, perché «con loro la prudenza e l’attenzione deve essere massima». Interessante l’intervento della giornalista della Rai Barbara Romano. La domanda posta è stata secca: «Noi abbiamo una sentenza che punta il dito accusando i magistrati e i poliziotti. Da giornalista colpisce l’attacco nei confronti dei magistrati, secondo lei è colpevole insabbiare la verità?». Fiammetta Borsellino ha risposto che un atteggiamento di omissione deve essere accertato. «Prima di tutto dalla magistratura – ha spiegato – e poi dalle autorità disciplinari. Alcuni di questi magistrati – ha sottolineato – erano anche amici della mia famiglia: noi all’inizio, frastornarti, siamo stati in silenzio e in attesa; poi, quando abbiamo iniziato ad alzare la cresta, siamo stati isolati». Barbara Romano ha citato una frase di Borsellino che molto spesso viene riportata a metà. «C’è questa frase, quando suo padre disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i magistrati a permettere che ciò potesse accadere. Cosa direbbe oggi suo padre?». Fiammetta ha risposto: «Non è facile rispondere a questa domanda. Immagino oggi mio padre come una persona che ha raggiunto la sua serenità. Mi piace vederlo non più tormentato come lo era nei 57 giorni dopo che era morto Falcone. Non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle Istituzioni e non, darà il suo contributo alla verità e chi dovrà fare i conti con la propria coscienza». L’avvocata del foro di Milano Simona Giannetti ha ricordato di quando era al primo anno di università di Giurisprudenza proprio dopo le stragi, con l’animo di chi aveva un senso di ricerca della giustizia che avevano lasciato le stragi dell’estate 1992. «Volevo fare l’avvocato non il magistrato, perché sentivo di essere una garantista come in fondo lo erano Falcone e Borsellino. Loro avevano un metodo, cioè usavano i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti e le consideravano solo il punto di partenza non di arrivo». L’avvocata Giannetti ricorda di come Falcone e Borsellino non erano amati in vita. «Loro davano un po’ fastidio – ha ricordato-, infatti Falcone nel 1991 a ottobre fu costretto a presentarsi davanti al Csm a dare spiegazioni per un esposto che gli fecero i politici di allora e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: gli contestavano di “tenere le carte nei cassetti” come a dire che non faceva i processi, peccato solo che non fossero come i due magistrati e quindi non potevano comprendere quello che Falcone disse al Csm in audizione. Disse che per processare qualcuno, servono i riscontri, perché poi un processo ha delle conseguenze». Quindi Simona Giannetti fa l’inevitabile paragone con il depistaggio. «La sentenza del Borsellino Quater, poco fa già citata, parla delle indagini e le addita per “irritualità” e “anomalie”, quelle che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Ma nel processo – sottolinea- noi sappiamo che forma è sostanza, che il rito è ciò che legittima un atto. Irritualità è un termine che attiene alla sfera processuale, che non è quella dei poliziotti. E allora viene in mente che oggi Fiammetta è suo padre, cerca la verità, con coraggio, come lui le ha insegnato. Se posso dirlo: buon sangue non mente! Fiammetta cerca la verità!». L’avvocata Giannetti poi ha proseguito: «Perché suo padre è morto? Cosa stava facendo prima di morire? Fiammetta, ricordo, è andata da Fabio Fazio e ha detto che non si può fare a meno di cercare nell’indagine mafia- appalti di cui Paolo Borsellino si stava occupando. Sì, il 19.7.1992 alle ore 7 di una domenica mattina Pietro Giammanco, morto a dicembre scorso e mai sentito dagli inquirenti, chiamò a casa Borsellino e diede al Procuratore aggiunto la delega per occuparsi dell’indagine, che fu iniziata da Falcone. Borsellino era solo. Lo ha detto anche oggi Fiammetta: dobbiamo cercare la verità perché è un diritto e solo la verità rende liberi». Poi Giannetti ha ricordato il ruolo essenziale dell’avvocatura nell’accertamento sulla verità. «L’Avvocatura è quella che difende le garanzie costituzionali della difesa e del giusto processo. L’avvocato – ha spiegato Simona Giannetti – è quello che si occupa di evitare che le dichiarazioni di un pentito vengano considerate oro colato dalla Procura per impedire che ci siano i depistaggi». Poi ha aggiunto: «È su Radio Radicale, e permettetemi di dire “ Salviamo Radio Radicale”, che ascoltiamo il processo che è in corso a Caltanissetta nei confronti dei poliziotti che avrebbero materialmente realizzato il depistaggio svolgendo le indagini su Via D’Amelio. In queste registrazioni che, diciamolo, ci sono le difese degli imputati, con i loro esami e controesami, sono quelle che fanno emergere le circostanze più interessanti per tracciare un solco in cerca della verità». Fiammetta Borsellino, sentendo queste ultime parole è intervenuta e ha confermato che le difese sono quelle che fanno le domande che lei stessa ritiene più utili dal punto di vista per la ricostruzione della verità. L’incontro si è chiuso con l’intervento dell’avvocato di Cagliari Fabrizio Rubiu sul ruolo del difensore e sul diritto alla difesa oggi sempre più bisognoso di essere preservato. Un evento unico e raro, dove è emerso per la prima volta che la lotta alla mafia è imprescindibile dalla lotta per lo stato di diritto.

Il pm Di Matteo: Messina Denaro latitante grazie ai segreti sulle stragi. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Alfio Sciacca su Corriere.it. La lunga latitanza di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei grandi boss di Cosa nostra, potrebbe essere frutto di un ricatto. Quello derivante dai segreti che si porta dietro e che farebbero paura a pezzi dello Stato. Uno scenario inquietante quello che lascia intravedere Nino Di Matteo, il pm che ha sostenuto l’accusa nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Qualcosa che per certi versi ricalca lo stesso schema di ricatti tra mafia e pezzi delle istituzioni già emerso ai tempi della caccia a Bernardo Provenzano. Di Matteo parla a pochi giorni dall’anniversario della strage di Capaci in una lunga intervista ad Andrea Purgatori che dedica una puntata del suo programma «Atlantide» alla strage in cui morirono Falcone, la moglie e gli uomini di scorta. «Messina Denaro — ragiona Di Matteo — è a conoscenza di segreti legati a quelle stragi. E quelle sono stragi assolutamente anomale in cui Cosa nostra sembra in qualche modo eterodiretta... Un boss di quella caratura, in possesso ancora delle sue piene facoltà mentali, che conosce quei segreti è potenzialmente in grado di ricattare parte dello Stato... Ed è per questo che la sua latitanza è veramente grave e vi si deve porre fine al più presto, perché non si ingeneri nemmeno il sospetto che questa latitanza sia frutto della potenzialità di ricatto che quest’uomo è in grado ancora di esercitare». Purgatori lo incalza: quindi qualcuno lo copre? «Non si può concepire una latitanza così lunga soltanto come il frutto dell’abilità del fuggiasco — dice il magistrato —, c’è una copertura di esterni alla mafia che ha assicurato e continua ad assicurare questa condizione di latitanza. Quel mafioso non va sottovalutato, lui è certamente conoscitore di segreti legati a una fase stragista di cui è stato fra i principali protagonisti». Dei presunti segreti di cui sarebbe tenutario Matteo Messina Denaro aveva già parlato il pentito Nino Giuffrè, secondo il quale il boss di Castelvetrano conserverebbe addirittura «l’archivio di Totò Riina». Rivelazioni ora in qualche modo avvalorate dalle parole del sostituto della Direzione nazionale antimafia che rendono ancora più imbarazzante la latitanza del capomafia al quale forze dell’ordine e servizi segreti danno la caccia ormai da 26 anni. Per il resto nell’intervista (in onda questa sera su LA7 a partire dalla 21.15) Di Matteo ripercorre i tanti misteri che ruotano attorno alla strage di Capaci. A partire dalle cosiddette «entità esterne» alla mafia. «Non lontano dal cratere di Capaci è stata trovata documentazione, sono stati trovati dei foglietti di carta riferibili, senza ombra di dubbio, a esponenti del servizio segreto civile dell’epoca... inoltre alcuni testimoni hanno messo a verbale che nell’immediatezza della strage finti operai in tuta lavoravano proprio in corrispondenza del luogo dove l’indomani Falcone sarebbe saltato in aria...». E poi l’impegno morale nei confronti delle vittime: «Abbiamo il dovere di non rassegnarci allo sterile esercizio retorico del ricordo. Dobbiamo completare il percorso di verità già avviato da anni».

«Mi hanno torturato per mesi, alla fine ho detto il falso». La deposizione di Vincenzo Scarantino al processo per depistaggio per la strage di via D’Amelio. Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2019 su Il Dubbio. Altro che ammorbidire il carcere duro come segnale di distensione con la mafia da parte dello Stato, ieri Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via D’Amelio, durante la deposizione al processo per il depistaggio, è stato un fiume in piena descrivendo le torture che ha subito nel carcere di Pianosa fino a quando, esausto, ha deciso di collaborare dichiarando il falso. «Nel 1994 ho chiesto di collaborare con i magistrati perché non ne potevo più, mi hanno umiliato per mesi, mi facevano spogliare nudo e mi davano dei colpi nelle parti intime. Poi mi dicevano di guardare a terra e mi davano schiaffi in bocca. Mi davano calci con gli anfibi, perché erano in mimetica. Sembrava di stare nel carcere di Fuga di mezzanotte. Mi hanno fatto tante zozzerie di ogni tipo. E io ero stanco». Vincenzo Scarantino ha aggiunto altri particolari: «Mi hanno fatto mangiare i vermi per la pesca, che ci hanno pisciato dentro la minestra, scusate la volgarità. Ci mettevano anche le mosche nella pasta. In pochi mesi sono passato da 103 kg di peso a 53 kg appena, dicevano tutti che avevo l’Aids», ha aggiunto. «Io non capivo ma, oggi posso dire che lo facevano per fare terrorismo psicologico – ha raccontato ancora -, sono stato sei mesi con la stessa tuta, non me la facevano cambiare. Tante umiliazioni, tantissime. Ho subito tante cose schifose che mi hanno fatto. Dovevo stare tutto il giorno in piedi perché appena mi mettevo a letto, c’era la perquisizione, e la notte facevano casino e non mi facevano dormire». A quel punto chiese di fare un colloquio con i magistrati. «Io chiedevo i magistrati – ha detto sempre Scarantino – ma venivano sempre quelli del gruppo “Falcone e Borsellino”, il dottor La Barbera e il dottor Bo». Quest’ultimo, Mario Bo, è uno dei tre poliziotti imputati nel processo per calunnia aggravata. In realtà il racconto di Scarantino non è nuovo, già nel passato aveva avuto modo di affermare che per andare via da Pianosa avrebbe fatto arrestare anche la madre. Ma il carcere di Pianosa, ripristinato appositamente per l’emergenza mafiosa, era salito agli onor della cronaca proprio per le numerose torture che avvenivano nei confronti dei detenuti, tanto da essere stigmatizzato perfino da Amnesty International. Pianosa, assieme a quello dell’Asinara, verrà chiuso solamente nel 1998 dall’allora ministro della giustizia Giovanni Maria Flick. Ma ritornando al processo in corso, in aula c’era pure Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, parte civile nel processo. «È offensivo avere addebitato a uno come Scarantino la strage in cui è morto mio padre, semplicemente offensivo. Da quello che emerge dalla sua deposizione non posso che dire che questo. Sono esterrefatta», ha commentato a caldo le prime ore di deposizione. L’ex pentito ha anche raccontato che «dal 2009 diceva sempre che era innocente ma non ero mai creduto, nemmeno quando era stato ascoltato dai pubblici ministeri». Alla domanda del pm Paci del perché non l’ha detto subito dopo che Gaspare Spatuzza lo scagionava dicendogli “Ma chi sei?”, Scarantino ha replicato: «Io sono stato tanti anni in carcere e dicevo sempre che ero innocente, per me era impossibile che si cercasse la verità. Non mi fidavo».

Scarantino: "Mio fratello vendeva droga a Berlusconi". Processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio. Scarantino: "Dicevo di essere disperato ma nessuno mi credeva. Volevo ritrattare". Affari Italiani Giovedì, 16 maggio 2019. "Sono rimasto in carcere per 16 anni e ho sempre proclamato la mia innocenza. Fino a che ho ritrattato ero una persona libera poi mi hanno chiuso in caserma a me e alla mia famiglia. Per me era impossibile che si cercasse la verità. Era impossibile". Lo ha detto questa mattina il falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino deponendo a Caltanissetta nell'ambito del processo sul depistaggio che vede imputati tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti del gruppo Falcone-Borsellino. Presente in aula anche Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, parte civile nel processo. Scarantino con le sue dichiarazioni provocò il depistaggio sulle indagini di via d'Amelio. "Dicevo di essere disperato - ha aggiunto - ma nessuno mi credeva. Volevo ritrattare ma venivo preso per pazzo". Scarantino ha anche detto che "Andreotta scriveva tutto quello che dicevo. Io mi sfogavo. L'unica colpa che ho avuto è stata che non ho messo la museruola. C'erano detenuti che stavano nella sezione di mio cognato Salvatore Profeta che mi dicevano che non parlava con nessuno. Era proprio il suo carattere". Il falso pentito ha parlato anche del suo arresto, risalente al 26 settembre 1992, "assieme a Salvatore Profeta, mio cognato, ma a Profeta lo hanno subito liberato e a me no. L'imputazione era per strage. Mi accusavano Salvatore Candura e Valenti, ma anche il dottor La Barbera, il dottor Bo e il dottor Ricciardi". “Mi hanno fatto mangiare tante porcherie. Mi orinavano nella minestra - ha aggiunto Scarantino - mettevano nella pasta le mosche e i vermi che si usano per pescare. Quando mi sono accorto di tutto questo ho smesso di mangiare. All'inizio pesavo più di 100 chili poi mi sono ridotti a circa 53 chili”. Scarantino trascorse i suoi anni più bui al carcere di Pianosa. “Andavo a colloquio – ha aggiunto – e mi facevano spogliare nudo e con una paletta mi davano dei colpi nelle parti intime. Dopo mi dicevano di guardare a terra e mi davano schiaffi in bocca perché guardassi a terra. Poi mi davano calci con gli anfibi. Sembrava il carcere di 'fuga da mezzanotte'. Avevo paura, stavo tutta la notte sveglio. Spesso entravano nella mia cella per fare perquisizioni. Ero disperato, soffrivo e non mi lamentavo“. E ancora: ”Arnaldo La Barbera mi chiamava Buscetta junior perché diceva che io ero come Buscetta. Mi davano lezioni di grammatica facendomi guardare i video di Buscetta, ma io non volevo un capello di Buscetta“, ha detto Scarantino rispondendo alle domande dei Pm. Poi l’ex picciotto della Guadagna, ha tenuto a precisare che si dedicava soprattutto ai furti e alla vendita di sigarette di contrabbando. “Mio fratello  - ha concluso - mi disse che aveva venduto la droga a Berlusconi. Parlai anche con Pipino, il ladro gentiluomo, della possibilità di accusare Berlusconi. Il capo della squadra Mobile, La Barbera non voleva che facessi tali dichiarazioni, ma io le feci lo stesso, non ricordo per quale motivo”.

Caltanissetta, Scarantino ritratta le accuse ai magistrati. Al processo per il depistaggio sulle indagini della strage di via D’Amelio. Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2019 su Il Dubbio. «Il dottor Petralia non mi ha mai suggerito niente, così come il dottor Di Matteo. I poliziotti mi hanno detto sempre detto di stare tranquillo e mi hanno fatto credere che i magistrati erano consapevoli di quello che loro stavano facendo». È Vincenzo Scarantino che parla, a metà udienza del processo sul depistaggio sulla strage Borsellino. Alla domanda posta dall’avvocato di parte civile Rosalba Di Gregorio su quale ruolo avrebbero avuto i magistrati della procura di Caltanissetta che credettero alle sue false rivelazioni, Scarantino si è dapprima trincerato dietro i non ricordo. Poi, incalzato dall’avvocato Vincenzo Greco, legale dei figli di Paolo Borsellino, ha ritrattato a sorpresa le accuse che aveva lanciato in passato ai magistrati che indagavano sulla strage di via D’Amelio: i magistrati non gli suggerirono nulla. Un colpo di scena che però mette a rischio nuovamente la sua credibilità. Prima mente sotto l’impulso di altri, poi ritratta, mente di nuovo e oggi ritratta ancora. Parliamo del processo contro gli ispettori Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e il funzionario di Polizia Mario Bo, tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone- Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Scarantino in passato aveva accusato i giudici, che all’epoca prestavano servizio a Caltanissetta, di aver accusato dei mafiosi imputati perché ” sollecitato” dai pm Antonino Di Matteo, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, ma anche dall’allora capo della Procura Giovanni Tinebra. Ieri arriva il dietrofront. «I poliziotti mi hanno fatto credere che i magistrati sapevano ogni cosa», dice. «Io mi trovavo nel deserto dei tartari – racconta – La Polizia mi aveva convinto che poliziotti del gruppo “Falcone e Borsellino” e i magistrati fossero la stessa cosa ecco perché sono arrivato ad accusare i magistrati». La marcia indietro arriva, come detto, durante il controesame dell’avvocato Vincenzo Greco. Quando il legale gli chiede se di recente è stato avvicinato da qualcuno “per cambiare idea”, Scarantino risponde: «Oggi sono sereno anche se sono un senzatetto, non lavoro, non ho niente ma sono sereno. Comunque, non mi ha contattato nessuno». Però da alcuni mesi c’è la Procura di Messina che ha aperto un fascicolo per accertare o meno l’esistenza di responsabilità da parte dei magistrati, dopo aver ricevuto dai colleghi nisseni la sentenza del processo Borsellino quater. Nelle motivazioni del verdetto, il giudice della Corte d’assise di Caltanissetta parlava di depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato. Depistaggio su cui i pm di Caltanissetta hanno indagato e poi incriminato tre poliziotti del pool che indagò sull’eccidio. Ma nella sentenza si denunciavano anche gravi omissioni nel coordinamento dell’indagine, costata la condanna all’ergastolo di otto innocenti, coordinamento che spettava ai pm dell’epoca. Il fascicolo aperto a Messina include le deposizioni dei pm dell’epoca, tutti sentiti al processo Borsellino quater. In questo caso, le dichiarazioni di Scarantino, ritrattazioni comprese, non risulterebbero influenti.

Alfio Sciacca per il “Corriere della sera” il 12 giugno 2019. Anche due magistrati a suo tempo in servizio a Caltanissetta sono finiti sotto inchiesta per la gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino che con le sue dichiarazioni contribuì a depistare le indagini sulla strage di Via d'Amelio in cui morì Paolo Borsellino. Si tratta di Annamaria Palma, oggi avvocato generale a Palermo, e Carmelo Petralia, attuale procuratore aggiunto a Catania, indagati con l' accusa di concorso in calunnia aggravato dall' aver favorito Cosa nostra. A loro la Procura di Messina ha notificato un avviso di «accertamenti tecnici irripetibili». Analoga notifica è stata inviata ai sette imputati che nel primo processo Borsellino vennero condannati ingiustamente proprio sulla base delle false dichiarazioni di Scarantino. Il tutto è finalizzato all' esecuzione di verifiche e riversaggi sulle registrazioni delle dichiarazioni di Scarantino. Ma trattandosi di audiocassette che risalgono a oltre 25 anni fa c' è il rischio che, quando verranno riprodotte, possano distruggersi. Quindi si tratta di un «atto irripetibile» al quale debbono prendere parte tutti i legali e consulenti dei potenziali indagati e delle parti offese. Il pool di investigatori che dopo l' attentato indagò sulla strage di via D' Amelio e che, secondo l' ipotesi di accusa, manovrò il pentito Scarantino, era guidato dall' ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002, e da altri poliziotti già sotto processo con la stessa accusa ora contestata ai due magistrati.

 L'ultimo mistero del falso pentito Scarantino. Alla vigilia del processo voleva svelare il depistaggio. Ecco i brogliacci delle conversazioni con pm e poliziotti, il giallo si infittisce: chi lo convinse a non tirarsi indietro? Salvo Palazzolo il 30 ottobre 2019 su La Repubblica. Il 22 maggio 1995, alla vigilia della sua prima deposizione al processo per la strage Borsellino, il falso pentito Vincenzo Scarantino era pronto a far saltare la grande impostura del depistaggio. Alle 20.27, chiamò la moglie per dirle: “Prepara le valigie, che ho intenzione di tornare in carcere”. Ma due giorni dopo, davanti ai giudici della corte d’assise di Caltanissetta, raccontò invece il castello di menzogne che gli avevano suggerito. Senza alcun tentennamento. E ora la domanda è una sola: chi convinse Scarantino a non tirarsi indietro? In quei giorni, il falso pentito era sotto protezione a San Bartolomeo a Mare, provincia di Imperia, scortato dai poliziotti del “Gruppo Falcone Borsellino” che adesso sono accusati di essere i principali responsabili del depistaggio: nel processo in corso a Caltanissetta sono imputati un ex funzionario della squadra mobile di Palermo, il dottore Mario Bò, e due sottufficiali, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Nell’indagine della procura di Messina, sono invece indagati due ex magistrati di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Scarantino aveva un telefono nella sua abitazione, che era intercettato. I nastri sono stati ritrovati di recente in un archivio del palazzo di giustizia di Caltanissetta e consegnati alla procura di Messina, per essere trascritti. E’ emerso che il falso pentito era in contatto con magistrati e investigatori. I brogliacci delle conversazioni sono stati depositati al processo che vede imputati i tre poliziotti. E il giallo si infittisce. Il 3 maggio, alle 19.41, Scarantino chiama l’utenza 091210704. “Telefona all’ufficio Falcone e Borsellino – annota solerte un agente che sta ascoltando il telefono intercettato, nei locali della procura di Imperia – chiede del dottor Bò, il quale non c’è. Enzo chiede spiegazioni delle domande che ha scritto in merito alla sua prossima presenza in aula”. Di quali domande si tratta? Stava forse imparando a memoria le false dichiarazioni? Il grande orchestratore sarebbe stato l’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Era il super poliziotto di Palermo, ma anche - e lo si è scoperto solo dopo la sua morte - un collaboratore dell'allora Sisde, il servizio segreto civile. Per quali missioni speciali, non è ancora chiaro. Alle 20.08 di quel 3 maggio, Scarantino “ritelefona al Gruppo Falcone e Borsellino”, si legge ancora nel brogliaccio. Evidentemente, quella sera era particolarmente nervoso. “Richiede del dottore Bò – annota il poliziotto – che non c’è. Chiede nuovamente spiegazioni sulle domande…” Il giorno dopo, alle 16.43, Scarantino chiama un’utenza di Caltanissetta: 0934599051. “L’utente non risponde”. Poi, alle 17.28, un numero di cellulare 0336886569: “Per motivi tecnici la telefonata non è stata registrata”. Una coincidenza o c’è qualcosa di sospetto? Alla scorsa udienza del processo ai poliziotti, l’ispettore Giampiero Valenti, addetto ad alcuni turni nella sala intercettazioni, ha svelato che una volta un suo superiore (Di Ganci) gli ordinò di interrompere l’intercettazione perché Scarantino doveva parlare con i magistrati. L’8 maggio, alle 16.01, fu invece registrato un dialogo fra Scarantino e i pm di Caltanissetta. Prima su quell'utenza di Caltanissetta a cui il 4 maggio non rispondeva nessuno (0934599051): “Enzo conversa con la dottoressa Palma – annota il poliziotto – in merito al suo trasferimento per mercoledì a Genova, per essere sentito dalla dottoressa Sabatini, chiede se può evitare questo interrogatorio prima di essere sentito al processo. Si risentiranno”. Alle 16.27, un’altra conversazione: “La dottoressa Palma spiega ad Enzo che la dottoressa Sabatini lo deve sentire per forza mercoledì perché ha delle scadenze da rispettare. Enzo dice che va bene però ha paura ad andare a Genova. La dottoressa lo assicura che tutto verrà fatto in modo di sicurezza assoluta per la sua incolumità. Enzo dovrà telefonare alle 18 per parlare col dottor Petralia”. Ma di cosa aveva paura per davvero Scarantino? Chi doveva uccidere un falso pentito che accusava degli innocenti e salvava i veri colpevoli della strage di via D'Amelio? Forse era la paura di essere interrogato, considerato che era solo un balordo di borgata e non certo un mafioso come diceva di essere. Scarantino è nervoso. Otto minuti prima dell’appuntamento chiama il dottore Petralia, su un’altra utenza della procura di Caltanissetta. Il poliziotto annota: “Enzo parla con il dottore Petralia, il quale gli dice di non avere problemi e che giovedì prossimo faranno una bella chiacchierata”.  

Depistaggio via d’Amelio, il falso pentito Scarantino voleva ritrattare la sua confessione alla vigilia della deposizione in aula. Lo svelano i brogliacci contenenti le intercettazioni dell’ex pentito di mafia - che con le sue dichiarazioni depistò le prime indagini sulla strage di via d'Amelio - nella primavera del 1995, nel periodo in cui si trovava a San Bartolomeo al Mare, in Liguria, guardato a vista dagli uomini del gruppo investigativo diretto da La Barbera. Si tratta di 19 bobine, depositate dalla Procura di Messina alla procura di Caltanissetta, che indaga sul depistaggio sulla strage di Paolo Borsellino. Il Fatto Quotidiano il 30 ottobre 2019. Vincenzo Scarantino voleva ritrattare la sua falsa confessione alla vigilia della deposizione in aula. Lo svelano i brogliacci contenenti le intercettazioni dell’ex pentito di mafia – che con le sue dichiarazioni depistò le prime indagini sulla strage di via d’Amelio – nella primavera del 1995, nel periodo in cui Scarantino si trovava a San Bartolomeo al Mare, in Liguria, guardato a vista dagli uomini del gruppo investigativo diretto da Arnaldo La Barbera che indagava sulle stragi mafiose. Si tratta di 19 bobine, depositate dalla Procura di Messina alla procura di Caltanissetta, che indaga sul depistaggio sulla strage di Paolo Borsellino. Lo scorso 19 giugno sono stati effettuati, al Racis dei Carabinieri di Roma, degli accertamenti tecnici non ripetibili nell’ambito dell’inchiesta di Messina sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio. E ora le microcassette, che riguardano Scarantino sono al vaglio della Dda di Caltanissetta. “Mi sento preso in giro” diceva Scarantino al suo legale, l’avvocato Lucia Falzone, al telefono, senza sapere di essere intercettato nella sua casa di San Bartolomeo al Mare, in Liguria. E’ il 22 gennaio del 1995 e Scarantino confida all’avvocato. Si sente “preso in giro” ma “non dagli avvocati”, chiarisce al legale. Per questo motivo vuole tornare in carcere e “rispedire la famiglia a Palermo”. “Afferma che non ce l’ha con i magistrati – come annotano i poliziotti nel brogliaccio che è stato depositato alla Procura di Caltanissetta e di cui è in possesso l’Adnkronos- ma con qualcuno di Palermo che lo vuole fare innervosire” e che vede “cose strane”. E ribadisce che lui “sa” di parlare con sincerità”. Il giorno successivo, invece di tornare in carcere e “rispedire la famiglia a Palermo”, depone al processo per la strage. “Non sono pentito di quello che ho fatto, anzi dovevo parlare subito dopo il io arresto“, diceva invece il 4 maggio del 1995 parlando con la cognata al telefono. I due non sanno di essere intercettati. La conversazione è finita nel brogliaccio depositato dalla Procura di Messina ai colleghi nisseni nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio sulle strage di via D’Amelio. Poco prima la moglie di Scarantino, Rosalia parla con la sorella e quest’ultima gli dice: “Se Enzo (Scarantino ndr) torna indietro con la sua scelta è meglio per tutti”. E Rosalia le dice che quando sente parlare al telefono del marito “pensa sempre a brutte cose”. Ma quando passa la cornetta al marito, Scarantino dice alla cognata di non essere affatto pentito della sua scelta. Si dice “preoccupato” per la suocera perché la madre “non la tocca nessuno”. Più volte Scarantino chiama un numero con il prefisso di Caltanissetta. Poi chiama a Palermo il numero della Squadra mobile per parlare con Mario Bo, che però non risponde al telefono. E nel brogliaccio si legge: “Enzo chiede spiegazioni sulle domande che ha scritto in merito alla prossima presenza in aula”. Domande di chi? E perché? Scarantino poi richiama ancora Bo per avere “spiegazioni sulle domande“. Dopo poche ore altra telefonata al prefisso 0934, che ancora una volta non risponde. Il 4 maggio, ancora una volta, la telefonata non viene registrata “per motivi tecnici”. Stavolta è un telefono cellulare. E più volte, facendo altri numeri di telefono per la Germania, si legge sul brogliaccio “Sbaglia numero”. Anche il 5 maggio 1995 la telefonata fatta da Scarantino non viene registrata “perché finiscono i nastri per la sua lunga durata, tre ore”, si legge sul brogliaccio.Tre ore di conversazione. E perché non viene registrata ancora una volta? Il 26 maggio 1995 Scarantino tiene la cornetta alzata ma finge soltanto di parlare, come annotano gli investigatori. Perché? Il 10 giugno 1995 Scarantino chiede di parlare con l’avvocato Lucia Falzone, che però gli spiega che servono 15 giorni per potere avere un colloquio. Poi, sempre a giugno, più volte formula il numero con lo 0934 ma non risponde nessuno, come scrivono i poliziotti. La Procura? Cerca anche più volte Mario Bo, che però “non è in ufficio”. In più occasioni, i poliziotti addetti alle intercettazioni scrivono ‘controllò. E altre volte “non prende la linea”.

Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm che indagarono sulla strage. A distanza di 27 anni, avvisi di garanzia per Annamaria Palma e Carmelo Petralia. La procura di Messina ha disposto degli accertamenti scientifici su alcune vecchie cassette con gli interrogatori del falso pentito Scarantino. Salvo Palazzolo l'11 giugno 2019 su La Repubblica. Nuovo colpo di scena nell'inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D'Amelio. A distanza di 27 anni la procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, con l'accusa di calunnia aggravata, due ex magistrati della procura di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che si occuparono della prima inchiesta sulla bomba del 19 luglio 1992 raccogliendo le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ai due magistrati - Avvocato generale a Palermo e procuratore aggiunto a Catania - è stato notificato dalla Dia di Catania un avviso per un accertamento tecnico irripetibile che si terrà il prossimo 19 giugno al Racis dei carabinieri, a Roma. Il procuratore Maurizio de Lucia vuole verificare se su alcune cassette con delle intercettazioni di Scarantino, ritrovate di recente dalla procura di Caltanissetta, ci siano impronte o altre tracce utili. Una pista per provare a ricostruire la complessa macchina del depistaggio attorno al balordo del quartiere palermitano della Guadagna trasformato in un provetto Buscetta. Intanto, a Caltanissetta, prosegue il processo che vede imputati tre poliziotti per il depistaggio: il dirigente Mario Bo’, i sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di aver contribuito a creare il falso pentito Scarantino, che per anni ha tenuto lontana la verità sulla strage Borsellino. Al centro del giallo, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), lui avrebbe guidato Scarantino. E per i giudici di Caltanissetta che hanno celebrato l’ultimo troncone del processo Borsellino – quello sui falsi pentiti dell’indagine – "c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende". La Barbera, dunque. Nei mesi scorsi, la procura di Caltanissetta ha inviato la sentenza Borsellino quater a Messina per accertare eventuali responsabilità dei magistrati che lavorarono con Scarantino. Il quale, sentito nei giorni scorsi nel processo depistaggio, ha però chiamato fuori dal caso il procuratore Petralia.

Mafia, depistaggio Borsellino: pm indagati per calunnia. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, con l'accusa di calunnia aggravata, alcuni magistrati che hanno indagato sulla strage di via D'Amelio a Palermo, dove hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Roberto Chifari, Martedì 11/06/2019, su Il Giornale. Sembra non esserci pace per la memoria del giudice Paolo Borsellino. A distanza di 27 anni, una verità ufficiale non è mai stata trovata. E adesso, la Procura di Messina, come apprende l'Adnkronos, ha iscritto nel registro degli indagati, con l'accusa di calunnia aggravata, alcuni magistrati, i cui nomi sono ancora top secret. SI tratta di un altro filone nell'inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D'Amelio. Certo è che si tratta di alcuni pubblici ministeri che hanno indagato sulla strage in cui il 19 luglio 1992 sono morti Paolo Borsellino ed i cinque uomini della scorta in via D'Amelio a Palermo. Si tratta di uno degli eventi più cruenti, e non ancora completamente chiariti, che hanno segnato la storia recente della lotta alla criminalità organizzata. Nello scorso novembre la Procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo per il depistaggio delle indagini sull'attentato, aveva trasmesso una tranche dell'inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Dopo accurate indagini durate 7 mesi, la Procura di Messina ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre-investigativa sfociata adesso in una inchiesta per calunnia aggravata. Nel documento inviato dai pm di Caltanissetta a Messina si fa riferimento alla sentenza del processo Borsellino quater. Nelle motivazioni del verdetto i giudici della corte d'assise parlavano di depistaggio delle indagini sull'attentato al magistrato. "Depistaggio su cui i pm di Caltanissetta hanno indagato e poi incriminato tre poliziotti del pool che indagò sull'eccidio, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei - scrive l'Adnkronos -. Ma nella sentenza si denunciavano anche gravi omissioni nel coordinamento dell'indagine, costata la condanna all'ergastolo di otto innocenti, coordinamento che spettava ai pm dell'epoca. Tra cui Carmelo Petralia, ora aggiunto a Catania. Da qui la competenza sulla nuova indagine in capo alla Procura messinese. Tra i magistrati che indagarono anche Nino Di Matteo, attualmente alla Dna, Annamaria Palma, avvocato generale di Palermo, Giovanni Tinebra, nel frattempo deceduto". Nella inchiesta coordinata dalla Procura di Messina agli atti sono comparse 19 microcassette su alcuni pm che hanno indagato sulla strage di via D'Amelio. Si tratta di 19 supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con vecchie strumentazioni dell'epoca di cui adesso i magistrati vogliono conoscere i contenuti. Il prossimo 19 giugno si farà un "accertamento tecnico non ripetibile" al Racis di Roma. L'atto è stato notificato oggi pomeriggio ai magistrati indagati, sui cui nome vige il silenzio.

Via D’Amelio, due ex Pm indagati per depistaggio. Dopo 27 anni, iscritti sul registri degli indagati Palma e Petralia per i falsi di Scarantino. Errico Novi il 12 giugno 2019 su Il Dubbio. Nuovo colpo di scena nell’inchiesta relativa al depistaggio sulla strage di via D’Amelio: a distanza di 27 anni la Procura di Messina iscrive nel registro degli indagati, con l’accusa di calunnia aggravata, due magistrati che in passato sono stati in servizio presso la Procura di Caltanissetta. Si tratta di Annamaria Palma, ora avvocato generale a Palermo, e Carmelo Petralia, che adesso ricopre l’incarico di procuratore aggiunto a Catania. Entrambi si occuparono della prima inchiesta sulla bomba del 19 luglio 1992 in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Palma e Petralia raccolsero le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ieri pomeriggio ai due ex pm dell’ufficio nisseno è stato notificato un avviso per un “accertamento tecnico irripetibile”, che si terrà mercoledì della prossima settimana, il 19 giugno, al Racis dei carabinieri a Roma. In particolare, si dovrà verificare se su alcune audiocassette con gli interrogatori di Scarantino, ritrovate di recente dalla Procura di Caltanissetta, ci siano impronte o altre tracce utili. I supporti magnetici, si tratterebbe di 19 nastri formato “mini”, contengono registrazioni prodotte con vecchie strumentazioni dell’epoca: il loro riascolto comporterà la distruzione degli originali, e per questo è necessario mettere gli indagati in condizione di partecipare alla verifica. La Procura di Messina conduce le indagini, coordinate direttamente dal capo dell’ufficio Maurizio de Lucia, in quanto competente su presunti reati attribuibili a magistrati in servizio a Caltanissetta. Oltre a Palma e Petralia, lavorarono sulla strage di via D’Amelio anche l’attuale sostituto procuratore Antimafia Nino Di Matteo e lo scomparso Giovanni Tinebra. L’avviso di accertamento notificato a Palma e Pertralia è stato trasmesso anche alle parti offese Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, ingiustamente accusati nei primi processi. Da oltre venti anni, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, che li difende insieme con colleghi come Giuseppe Scozzola, non ha mai smesso di denunciare i «buchi neri» delle indagini sulla strage, al Csm e al ministero della Giustizia.

Via d’Amelio: quei pm che dimenticarono di depositare i verbali. La decisione dei magistrati di Caltanissetta. La commissione antimafia siciliana ha evidenziato che quella scelta ha «determinato una grave deviazione processuale» soprattutto nella valutazione dell’attendibilità del pentito Scarantino. Damiano Aliprandi il 13 giugno 2019 su Il Dubbio. Per ora sarebbero due i magistrati finiti nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Parliamo del nuovo colpo di scena relativa alla vecchia indagine sulla strage di Via D’Amelio, definita dal Borsellino Quater il «il più grande depistaggio della Storia».

Ma è un depistaggio che ha visto anche come protagonista l’irritualità dello svolgimento del processo, tant’è vero che lo scorso novembre la Procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo del Borsellino Quater, aveva trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Così la Procura di Messina ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre- investigativa sfociata adesso in una inchiesta per calunnia aggravata. Ora dovranno conoscere i contenuti delle registrazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino quando era nel programma protezione, dove aveva a disposizione un telefono fisso e poteva solo ricevere le chiamate. Parliamo di un accertamento tecnico non ripetibile, avente ad oggetto il riversamento di 19 supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con strumentazione della Radio Trevisian, denominata RT2000, trasmessi alla procura di Messina, in originale, dalla procura di Caltanissetta. Ma rimane ancora inevaso un interrogativo, proprio sulla conduzione dell’iter processuale che è costata la condanna di otto innocenti, sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Lo spartiacque, o meglio quello che avrebbe dovuto essere, è da ritrovare nella data del 13 gennaio del 1995, quando c’è stato il confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. Ed è proprio in quel confronto che emerse la totale mancanza di attendibilità di Scarantino. Ma è accaduto che il verbale del confronto è rimasto nel cassetto per diverso tempo. Alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino 1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto quindi incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo. Il verbale uscì fuori grazie alla tenacia dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che all’epoca difese alcuni imputati poi condannati ingiustamente per la strage. Lo racconta in audizione dinnanzi la commissione antimafia della Sicilia presieduta da Claudio Fava. «Siamo all’udienza preliminare del bis, quindi siamo se non ricordo male nel 1996 – ha spiegato Di Gregorio – facciamo le copie degli atti, tra le copie degli atti spunta fuori una missiva strana, una lettera di trasmissione dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, al procuratore aggiunto Guido Lo Forte di Palermo dove gli dice: «Ti mando, per quanto di interesse, i confronti fra Scarantino- Cancemi, Scarantino- Santino Di Matteo, Scarantino – Gioacchino La Barbera». Cerchiamo questi confronti ma non ci sono, cioè non sono stati depositati, quindi noi chiediamo al giudice dell’udienza preliminare di fare depositare i confronti. La risposta a verbale è “Non esistono”. Gli abbiamo detto: “Non è possibile che non esistono, se li avete trasmessi a Palermo, evidentemente esistono quindi non ci dite non esistono, dite non ve li vogliamo depositare», «Non esistono e se esistono non riguardano gli imputati di questo processo, quindi voi non li potete avere». A quel punto l’avvocato ha fatto un’istanza al dott. Guido Lo Forte come indagine difensiva ed è andata a parlargli. «Mi ha detto – racconta sempre la Di Gregorio: «Lei è pazza – graziosamente, cordialmente – se pensa che io le do una cosa che Caltanissetta non le vuole dare». Io ho detto «No, no, ma io lo voglio messo per iscritto: non te la posso dare, fattela dare da Caltanissetta». E così abbiamo fatto. Il dott. Lo Forte scrive nella mia istanza «Non te la do, te la fai dare da Caltanissetta», quindi io prendo la risposta e la porto a Caltanissetta a Paolo Giordano dicendo: «Siccome esistono e me li devi dare tu, ti dispiace che me li dai?» «Non se ne parla assolutamente, non ti interessano, non ti riguardano, non riguardano gli imputati, non riguardano questo processo». Alla fine, nel febbraio del 97 (e cioè dopo più di un anno dalla richiesta rigettata in udienza preliminare), l’avvocato Di Gregorio chiese e ottenne il deposito del confronto tra i collaboratori di giustizia e Scarantino nel processo “Borsellino ter”. La commissione antimafia della Sicilia, nella sua relazione, ha evidenziato che il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha «sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dell’inesistente affidabilità di Scarantino». Un iter processuale, quindi, che già nel 1995 avrebbe avuto un esito diverso, se solo si fosse portato a conoscenza di quel verbale, il perno principale che avrebbe fatto decadere tutte le accuse senza arrivare fino al Borsellino Quater.

Il poliziotto conferma: Scarantino aveva il cellulare della pm. Scarantino avrebbe avuto il numero di Anna Maria Palma. A testimoniarlo durante il processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio è l’ispettore Luigi Catuogno. Damiano Aliprandi il 23 giugno 2019 su Il Dubbio. Vincenzo Scarantino avrebbe avuto il numero diretto del magistrato Anna Maria Palma. A testimoniarlo giovedì scorso durante il processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio è l’ispettore di Polizia Luigi Catuogno, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci. L’ispettore, tra il 1996 e il 1998 si occupò della tutela di Scarantino, che aveva iniziato a collaborare nel giugno 1994, in una località protetta. «Con me si trovava a suo agio perché io capivo il dialetto. Parlava molto poco. Quando parlavamo la moglie andava in un’altra stanza. Mi raccontava che in carcere lo avevano picchiato». Ed ecco che parla della pm che in quegli anni coordinava l’inchiesta sulla strage Borsellino e che oggi è indagata dalla procura di Messina per calunnia aggravata con l’altro pm, Carmelo Petralia. «Lui aveva un numero diretto di un magistrato. Lui parlava della dottoressa Anna Maria Palma – racconta Catuogno – Davanti a me una mattina, non ricordo per quale motivo, ha telefonato più volte ma non ha avuto risposta e quando ha chiuso mi disse in palermitano ‘ mi pusò’ ( mi ha abbandonato ndr)». Tale deposizione fa il paio con le scorse dichiarazioni di Rosalia Basile, l’ex moglie di Scarantino. «Ho trovato a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm – ha detto a marzo scorso deponendo al processo tuttora in corso -, all’epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Maria Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono». In realtà queste cose le disse fin dal 1995, ma nessuno le ha volute credere. Nessuno in quei processi ( uno e bis) ha detto che Scarantino telefonava ai Pm, tranne, appunto la inascoltata Basile. Ma la novità della scorsa deposizione è la consegna delle pagine dell’agendina dove si leggono i numeri diretti degli uffici degli allora pubblici ministeri e dei numeri di cellulare. Il magistrato Nino Di Matteo, alla notizia della deposizione della ex moglie di Scarantino, ha spiegato che non c’è nessuna novità. Sempre nella stessa giornata di giovedì, è stato ascoltato il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli. Ha riferito che fu fotografato con la borsa in mano che venne poi prelevata da un funzionario di polizia, ma all’interno non c’era alcuna agenda rossa. Ricordiamo che Arcangioli è stato prosciolto dall’accusa di furto dell’agenda rossa, aggravato dalla finalità mafiosa, confermata dalla Corte di Cassazione nel 2009.

Strage di via D’Amelio, le telefonate di Scarantino ai pm e ai familiari. Damiano Aliprandi il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le trascrizioni depositate al processo sul depistaggio per la strage di via D’Amelio. Il dottor Petralia al falso pentito: «potrà parlare con Tinebra, con La Barbera di tutti I suoi problemi, così li affrontiamo in modo completo». Decine di telefonate ai familiari, ai poliziotti che si occupavano della sua sicurezza e ai pm che gestivano la sua collaborazione con la giustizia. Parliamo delle trascrizioni sbobinate di recente a Roma dai carabinieri del Racis per conto della Procura di Messina e che sono state trasmesse alla procura di Caltanissetta che le ha depositate al processo sul depistaggio. Tutto come annunciato nella scorsa udienza del procedimento che vede sotto accusa tre dei poliziotti del pool che indagava sulla strage di via D’Amelio. Sono state quindi rese pubbliche – grazie ai lanci dell’agenzia Adnkronos – le intercettazioni del falso pentito registrate nella primavera del 1995 quando l’ex "picciotto" della Guadagna era in Liguria con la sua famiglia. Il quadro che emerge non è chiaro come ci si aspettava, ma crea sicuramente molti dubbi, anche relativamente all’approccio che ebbero i pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che coordinavano l’inchiesta, e che ora sono indagati a Messina con l’accusa di aver imbeccato il falso pentito. «Iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento… mi sono spiegato Vincenzo… se sente pronto lei…», dice il pm Carmelo Petralia rivolto a Scarantino. Siamo nel 1994 e Scarantino aveva iniziato da poco tempo a collaborare con la giustizia e aveva già accusato ingiustamente diverse persone per la strage.

«Sicuramente ci sarà anche il dottor Tinebra – dice ancora Petralia a Scarantino riferendosi all’allora procuratore di Caltanissetta – quindi tutto lo staff delle persone che lei conosce. E lei potrà parlare con Tinebra, con La Barbera di tutti i suoi problemi, così li affrontiamo in modo completo». Poco prima Petralia dice a Scarantino, come si legge nelle trascrizioni delle bobine depositate: «Ci dobbiamo tenere molto forti perché siamo alla vigilia della deposizione». Poi in una altra trascrizione appare la telefonata con la pm Annamaria Palma. «Mi hanno detto che io sono un collaboratore della polizia non della magistratura», le dice. Ma il magistrato, che ha coordinato le prime indagini sulla strage di via D’Amelio, rassicura Scarantino: «No, no. Lei è un collaboratore con tanto di programma di protezione, già disposto dal ministero. Quindi, dalla Commissione speciale, per cui questo suo discorso è sbagliato». Ma Scarantino ribatte: «non è che l’ho detto io, me lo hanno detto». In una’altra telefonata, ad esempio, Scarantino dice sempre alla pm Palma che ha «paura di andare a Genova» per un interrogatorio. Ma «la sua interlocutrice scrivono i poliziotti nella trascrizione – lo rassicura in merito alla sicurezza dei trasferimenti che dovrà effettuare, ma il pentito le spiega che ci sono delle persone che dovrà incontrare che a lui non piacciono, specificando, a domanda, che non si tratta della dottoressa ( Sabatino ndr) bensì di individui che sono in quell’ufficio». L’agenzia Adnkronos rivela anche altre telefonate, questa volta rivolte ai familiari. «Angelo Basile, fratello della moglie – scrivono i carabinieri nelle trascrizioni – come la madre, esterna dubbi in merito alla scelta di collaborare presa dal cognato il quale, a suo parere, avrebbe ricevuto pressioni in merito. Scarantino invece nega dicendo che la sua scelta non è stata dettata né dalla detenzione di Pianosa né da eventuali pressioni». Ma cade in contraddizione, invece, con quanto lo stesso Scarantino disse alla moglie Rosalia Basile, nel corso di un colloquio nel carcere di Pianosa: «Non ce la faccio più a Pianosa. O mi impicco, oppure inizio a collaborare con i magistrati». Ricordiamo che durante il processo, che si sta celebrando a Caltanissetta, ha deposto l’ex moglie, la quale ha parlato proprio del suo colloquio quando il falso pentito era recluso nel carcere speciale. «Prima dell’arresto pesava più di cento chili, ma già a Venezia trovai la metà della persona che lui era – ha raccontato-. A Pianosa lo trovai con la barba incolta, gli occhi strani, sembrava un animale, era proprio irriconoscibile. Lo minacciavano anche di morte, dicevano che se lui non collaborava gli facevano fare la stessa fine di un certo Gioè ( Antonino ndr), un ragazzo ucciso in carcere. Era Arnaldo La Barbera che gli faceva questi discorsi». Scarantino avrebbe raccontato all’ex moglie di aver subito maltrattamenti di ogni tipo, fisici tipo mettergli vermi nel cibo. Ascoltate queste confidenze del marito, la donna resta basita. Vorrebbe aiutarlo, fare qualcosa per tirarlo fuori da quella situazione. «Scrissi a tutti, al presidente della Repubblica di allora, andai anche a Roma per tentare di parlare col Papa – ha raccontato in udienza-. Sono andata anche a Cinecittà per fermare Funari ( Gianfranco, l’ex conduttore televisivo ndr) e parlare con lui ma non ci sono riuscita, sono andata persino sotto casa di Agnese Borsellino per dirle che mio marito lo stavano ammazzando e che non c’entrava niente… è sceso un signore in portineria, mi disse che non era il caso di parlare con loro, non se la sentivano, erano in lutto». Ci sono altre trascrizioni depositate dei colloqui con la moglie. «Vincenzo le dice – trascrivono gli investigatori che ha parlato con i giudici in merito a degli omicidi e fa dei nomi incomprensibili. Rosalia Basile riferisce che lui è veramente impazzito e che ha sentito le notizie della televisione. Lui le chiede se vuole parlare con i poliziotti e con i magistrati ricevendo una risposta negativa». A quel punto Scarantino si alza e abbraccia la moglie bisbigliandole all’orecchio e poi le dice a voce più alta: «I bambini cresceranno con tanta dignità, con tanta educazione». Da lì a poco, Scarantino decise di collaborare con la giustizia e si concretizzò il depistaggio. L’avvocato Giuseppe Seminara, che difende due dei tre poliziotti sotto processo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, a proposito di queste intercettazioni dice all’Adnkronos: «A un primo esame, sono prive di qualunque valenza accusatoria, essendo pressoché irrilevanti. Questo processo mediatico si fonda su elementi suggestivi che, stante il lunghissimo tempo trascorso, sono difficili da confutare. Le acquisite intercettazioni, come altri elementi sopravvenuti, sono state, grazie all’attività della procura di Messina, a nostro avviso favorevoli rispetto alla posizione degli imputati».

La moglie di Scarantino: “ Il mio ex marito chiamava i pm sui cellulari”. La deposizione di Rosalia Basile al processo di Caltanissetta, scrive Damiano Aliprandi il 22 Marzo 2019 su Il Dubbio.  «Ho trovato a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm, all’epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono». Per la prima volta lo ha rivelato, consegnando i biglietti, la ex moglie del falso pentito Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, deponendo al processo in corso a Caltanissetta a carico di tre funzionari di polizia ( Bo, Ribaudo e Mattei), accusati di aver creato a tavolino pentiti come Scarantino, costringendoli a mentire sulla ricostruzione della strage di via D’Amelio nella quale morirono Borsellino e la sua scorta. La teste ha anche confermato che l’ex marito venne imbeccato dai poliziotti guidati da Arnaldo La Barbera, perché mentisse sull’attentato e desse la versione di comodo che loro avevano imbastito. La donna ha indicato nei poliziotti Ribaudo e Mattei, imputati al dibattimento in corso, di aver preparato il marito perché rendesse la deposizione che a loro faceva comodo facendogli imparare a memoria una sorta di parte. E in Bo, l’altro funzionario sotto processo, l’autore di una aggressione subita dal marito dopo la sua prima ritrattazione. Ma non solo, ha anche sostenuto che su input dell’ex pm Anna Palma, il marito era stato convinto a rivolgersi al tribunale dei minori per farle togliere i bambini se avesse deciso di lasciarlo. Alla notizia della rivelazione della ex moglie del falso pentito, interviene il magistrato Nino Di Matteo spiegando che non c’è nessuna novità. «Spontaneamente, io per primo, spiega Di Matteo – all’udienza del processo Borsellino Quater, smentendo Scarantino, che aveva detto che non mi aveva mai telefonato, ho raccontato che qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare perché una volta mi aveva telefonato e un’altra mi aveva lasciato otto messaggi in segreteria telefonica». In effetti, rispolverando la sua deposizione del 2015 durante il processo Borsellino Quater, il magistrato disse: «Ricordo che era maggio giugno, io avevo finito un’udienza del processo Saetta e spensi il telefonino. Quando lo riaccesi c’erano otto messaggi vocali di Scarantino che si lamentava che diceva di voler tornare in carcere “nell’inferno di Pianosa” piuttosto che vedere tradite “le promesse di assistenza” alla sua famiglia. Mancate promesse che imputava al dottor Gabrielli, dirigente del servizio centrale di sicurezza, e poi Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi. Scarantino si lamentava sempre di queste persone, ma a me non ha mai detto di essersi inventato le cose o che gliele avevano fatte dire. Se lo avesse fatto – concluse Di Matteo avrei fatto delle relazioni di servizio. Di queste cose, in riferimento alla sua assistenza si lamentava spesso ma erano cose non rilevanti processualmente. Solo poi ho saputo che a dare il mio numero era stato il Procuratore capo Tinebra».

Via D'Amelio, ecco le telefonate shock di Scarantino. Il pm gli diceva: "Ci vediamo e prepariamo la sua deposizione". A Caltanissetta, depositate le intercettazioni che per l'accusa dimostrano la costruzione del falso pentito. Indagati i magistrati Petralia e Palma. Salvo Palazzolo il il 5 dicembre 2019 su La Repubblica. "Scarantino, ci dobbiamo tenere molto forti perché siamo alla vigilia della deposizione”, diceva il sostituto procuratore Carmelo Petralia al falso pentito della strage di via D’Amelio, annunciandogli una visita con il procuratore Giovanni Tinebra e il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera: "Ci sarà tutto quanto lo sfaff delle persone che lei conosce, potrà parlare di tutti i sui problemi così li affrontiamo in modo completo e vediamo di dargli una soluzione. Contemporaneamente iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento". Che vuol dire: "Preparazione alla deposizione al dibattimento?". Sono parole pesanti quelle che emergono dalle intercettazioni ritrovate dopo 24 anni in un vecchio archivio del palazzo di giustizia di Caltanissetta. Era l’8 maggio 1995, Vincenzo Scarantino telefonava ai magistrati di Caltanissetta. E oggi quelle voci raccontano di tante stranezze. Carmelo Petralia (attuale procuratore aggiunto a Catania) e la collega Annamaria Palma (avvocato generale a Palermo) hanno sempre detto di essere stati convinti della bontà del racconto del balordo del quartiere palermitano della Guadagna. Ma di recente i due magistrati sono finiti indagati dalla procura di Messina diretta da Maurizio de Lucia, per calunnia aggravata, mentre a Caltanissetta è in corso il processo per tre poliziotti. Magistrati e investigatori interrogarono Scarantino l’11 maggio, tre giorni dopo la telefonata con Petralia. Il 25, il falso pentito andò in aula per la sua prima deposizione in corte d’assise. L’inizio della grande impostura.

Interrogatorio al telefono. Le telefonate ritrovate sono state depositate nel processo di Caltanissetta in cui sono imputati tre poliziotti del “Gruppo Falcone Borsellino” (gli ex ispettori Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e il dirigente Mario Bò). La procura di Messina ha fatto trascrivere dal Ros le bobine delle conversazioni di quello scorcio di 1995 e sono emersi altri dialoghi parecchio interessanti per provare a fare luce sui troppi buchi neri di questa storia. Scarantino parlava anche con Annamaria Palma, che lo spingeva a collaborare con la procura di Palermo. “E’ importante che lei faccia questo interrogatorio”. Ma poi i magistrati di Palermo bocciarono senza alcuna riserva quel piccolo pregiudicato trasformato dai colleghi di Caltanissetta in un provetto Buscetta. In un'altra occasione, Annamaria Palma fece una sorta di mini interrogatorio al telefono con Scarantino. Anticipandogli una domanda che avrebbe poi fatto nel corso di un'audizione ufficiale. Stranezze, irregolarità, misteri. In quei giorni di maggio 1995, il falso pentito disse alla moglie di voler tornare in carcere. Ma poi cambiò idea. Qualcuno lo convinse?

Mafia, depistaggio su via D’Amelio: gli avvocati contro l’ex-pm Palma. E ora tocca a Di Matteo. Il Secolo d'Italia Sabato 14 dicembre 2019.  Al processo di mafia in corso sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio sale di tono lo scontro fra l’ex-pm Annamaria Palma Guarnier, oggi avvocato generale dello Stato, sotto inchiesta per calunnia aggravata dalla Procura di Messina con il collega Carmelo Petralia, e l’avvocato Giuseppe Scozzola. Che rappresenta due degli imputati condannati all’ergastolo da innocenti. Il battibecco fra la Palma e Scozzola in udienza arriva all’Ordine degli avvocati di Palermo. Che promette di intervenire: «ci occuperemo del caso», fanno sapere gli avvocati. Ieri la Palma ha parlato per quasi nove ore di seguito come teste indagata di reato connesso. Era stata lei a coordinare, con l’allora Procuratore Giovanni Tinebra e il pm Carmelo Petralia, dal 1994, le indagini sulla strage in cui Cosa Nostra  uccise Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, Annamaria Palma, ha ricordato i primi processi sulla strage. Processi che si sono celebrati proprio a Caltanissetta con lei a rappresentare l’accusa.

Lo sfogo dell’ex-pm Palma contro gli avvocati degli imputati risultati innocenti. «Noi – aveva sbottato – siamo già stati oggetto di pesanti accuse da parte degli avvocati degli imputati. Che oggi siedono qui, in rappresentanza delle parti civili». Parole che hanno fatto infuriare i legali degli innocenti condannati ingiustamente. Come hanno deciso i giudici dopo la revisione del processo. A prendere la parola, molto irritato, l’avvocato Giuseppe Scozzola. Che rappresenta due degli imputati condannati all’ergastolo da innocenti, Gaetano Scotto e Vincenzo Orofino. «Presidente – ha detto Scozzola rivolgendosi al Presidente del Tribunale di Caltanissetta, Francesco D’Arrigo – Non si può permettere alla teste di dire queste cose».

E il magistrato Palma ha replicato: «Perché, non è cosi?».

Ma Scozzola ha insistito: «Se siamo parte civile è perché siamo stati calunniati».

E Palma: «Lei sarà stato pure calunniato ma lei sedeva a difendere degli imputati, è un dato di fatto».

Scozzola allora ha replicato irritato: «Perché erano innocenti e sono stati assolti e revisionati». «Questo è tutto da vedere…», ha ribattuto ancora l’ex-pm Palma. Per poi aggiungere: «Nessuno voleva offendere»».

La decisione dell’Ordine di tutelare i legali attaccati dal magistrato. Ma le parole del magistrato hanno fatto infuriare tutti i legali degli imputati poi assolti. Che ora chiedono un intervento dell’Ordine degli avvocati di Palermo per essere “tutelati”. Immediata la replica del Presidente del Consiglio dell’Ordine, Giovanni Immordino. Che annuncia all’Adnkronos: «Questa vicenda sarà all’ordine del giorno della prossima seduta. Ce ne occuperemo con grande attenzione – dice – chiederemo l’acquisizione dei verbali prima di prendere una decisione». Anche Rosalba Di Gregorio, legale di tre imputati poi risultati innocenti, Gaetano Muarana, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, ha stigmatizzato le esternazioni di Annamaria Palma. «No, non ho gradito, certo, l’allusione della teste-indagata, agli avvocati “che ora fanno le parti civili e prima assistevano gli imputati” – dice il legale – che sono sempre le stesse persone imputate e condannate allora e oggi parti offese del reato di calunnia. Ma non ho ritenuto di dovervi dare peso. Perché non ne ha. Neppure gli attacchi, neanche tanto velati, a Fiammetta Borsellino sono sfuggiti. Ma non bisognava dare ad essi importanza. Perché non ne ha». «Non mi sono neppure piaciuti per nulla gli attacchi e i riferimenti negativi continui all’avvocato Paolo Petronio. E non solo perché non c’è più. Non solo perché in vita ha sofferto per le accuse calunniose (sempre e anche stavolta ripetute). Ma, anche perché, dopo la revisione dei processi, si potrebbe pure aver il buon garbo di non mostrarsi attaccati e affezionati ai vecchi argomenti. Demoliti nel crollo dei processi, delle indagini, dei falsi pentiti». E conclude: «Ma non ho reagito. Ho pensato che sarebbe ora, sarebbe tempo, sarebbe giusto che di ciò si occupi, duramente, il nostro Consiglio dell’Ordine!».

Il figlio dell’avvocato deceduto: fango sui galantuomini come mio padre. L’Istituzione degli avvocati ha già annunciato che se ne occuperà la prossima settimana. «Io auspico che stavolta il Consiglio si occupi anche di questo cattivo sentire comune per il quale l’avvocato si identifica con l’imputato da cui vengono fuori gli avvocati del diavolo…». E aggiunge: «Io capisco tutto. Pure il nervosismo di chi si trova a fare il teste, dopo essere stata nei processi ”revisionati” nel ruolo di accusa. Ma il punto è un altro: anche se lei alla revisione non crede (ha detto «vedremo»! ) e crede ancora che quelli oggi assolti siano “colpevoli”, non deve permettersi di criminalizzare la nostra professione. Nessuno deve farlo. Lei meno che mai. Non in quanto oggi indagata (indagato non è presunto colpevole) ma in quanto Avvocato generale o comunque Magistrato».

I verbali di udienza all’esame per eventuali azioni penali. «Io non mi aspetto le scuse da chi, per qualunque motivo ha fatto processi errati. Mi aspetto però rispetto. Non lo abbiamo avuto allora. E non lo abbiamo avuto ieri, né nei contenuti delle affermazioni né nei toni in tutta l’udienza! Il fatto tutto, quindi, va alla attenzione dell’Ordine. Non scendo a dialoghi con chi mi offende. E mi sono imposta la calma per tutto il tempo. E, specialmente, nel corso della mia ora di esame». E anche il figlio del defunto avvocato Petronio, Salvatore Petronio, anche lui legale nel processo, ha voluto replicare al magistrato. «Come al solito, quando si parla di Vincenzo Scarantino, si getta fango sulla difesa e pure su galantuomini. E non perché si parla di mio padre – dice il legale all’Adnkronos – Mi riservo di leggere i verbali per ogni eventuale azione penale, l’ennesima nei confronti di Annamaria Palma». Anche Petronio si rivolge all’Ordine degli avvocati per «chiedere un intervento a tutela» dell’avvocatura. Dal canto suo Scozzola spiega, all’indomani dello sfogo in aula: «Non sopporto assolutamente che qualcuno possa attaccare la toga. Certo potevo evitare. Ma non dovevo essere io ad intervenire in difesa nostra, ma altri. Comunque precisiamo che, spero che sia registrato. Dopo il mio sfogo qualcuno ha osato mettere in dubbio anche la revisione. È semplicemente triste».

Le lacrime dell’ex-pm Palma in aula: mi hanno accusata ingiustamente. E un altro avvocato, Ornella Butera, questa volta di Giuseppe Urso, altro imputato condannato da innocente aggiunge: «Senza dimenticare che se siamo qui oggi è soprattutto grazie agli “avvocati che ora fanno le parti civili”. Che hanno sempre cercato la verità nonostante, ancora oggi, siano bassamente attaccati da chi oggi dovrebbe avere quanto meno il buon gusto, auspicare l’intelligenza sarebbe troppo, di tacere». «E aggiungo ancora che di fronte all’assoluzione in sede di revisione di chi, innocente, è stato ingiustamente condannato all’ergastolo sentire ancora dire “questo è tutto da vedere.. questo è da vedere”, lascia basiti e sgomenti». L’udienza con la deposizione di Annamaria Palma, che ieri ha avuto un cedimento emotivo scoppiando in lacrime per dire a gran voce di essere stata «accusata ingiustamente» anche dai familiari di Paolo Borsellino «che io adoravo», è stata rinviata al prossimo 10 gennaio. Nelle udienze successive saranno ascoltati anche il pm Antonino Di Matteo, che si occupò delle indagini e Ilda Boccassini.

Depistaggio Borsellino, la Pm indagata scoppia in lacrime. Redazione de Il Riformista il 14 Dicembre 2019. È una cosa che succede di rado che un magistrato si metta a piangere in un’aula di tribunale. È successo ieri, a Caltanissetta. La magistrata che è scoppiata in lacrime si chiama Annamaria Palma Guarnier, e stava in quell’aula non come giudice o Pm, ma come testimone, e più precisamente come testimone indagata per reato connesso a quello che veniva discusso in aula. Annamaria Palma è sospettata di calunnia aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra, per la vicenda famosa del pentito Scarantino, il ragazzo che depistò le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, e aiutò a seppellire la verità sulla stagione delle stragi siciliane. Annamaria Palma è una delle magistrate che interrogò e trattò Scarantino. Insieme al suo collega Carmelo Petralia è sospettata di avere responsabilità, oggettive o soggettive, nel depistaggio. È una brutta storia, perché sta dentro la storia bruttissima della magistratura palermitana di quegli anni. Un covo di rancori, di dispetti, di corvi. Che travolse Giovanni Falcone, lasciandolo solo e rendendolo preda facile della mafia. E poi la faida è proseguita. Si è dipanata nel tempo, negli anni, fino ad oggi. Ieri la dottoressa Palma ha pianto. La stavano interrogando come testimone proprio al processo contro tre poliziotti che sono accusati del depistaggio. Si è sentita per la prima volta in vita sua vittima, e non padrona, in un’aula di giustizia. Si è sentita perseguitata, accusata ingiustamente, si è sentita debole, forse ha avuto paura. Noi, sul caso Scarantino, abbiamo avuto sempre un atteggiamento molto critico verso i magistrati che lo gestirono. Ora una di loro sente la rudezza e l’ingiustizia della giustizia dei sospetti. Probabilmente ha ragione. E magari anche a noi viene il dubbio di essere stati troppo severi e apodittici con lei. Difficile, di fronte a quelle lacrime, lacrime vere, non provare un sentimento, comunque, di simpatia. È la storia della giustizia che pretende di essere infallibile. Che ha portato i magistrati del caso Scarantino, nonostante le diffide di Ilda Boccassini, a procedere come carrarmati. Ora, alcuni di loro, stanno procedendo come carrarmati nel processo di Palermo contro Mario Mori, che sicuramente è un eroe vero dell’antimafia. Altri contro la dottoressa Palma. Chissà se un giorno si capirà che i pentiti non sono oro colato? E che se non sei Falcone è molto difficile gestirli?

Borsellino, in aula scontro tra l’ex pm Palma e i legali. Damiano Aliprandi il 17 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Polemica durante il processo agli ex funzionari accusati di calunnia aggravata, l’ex coordinatrice delle indagini sulle stragi di Palermo agli avvocati delle parti civili: «fino a ieri difendevate degli imputati. Innocenti? Tutto da vedere». «Qui è un rischiatutto», ha detto più volte Annamaria Palma, ora avvocata generale della Corte d’Appello di Palermo, ma all’epoca uno dei Pm che coordinò le indagini sulla strage di via D’Amelio. Si riferiva alle domande poste soprattutto dagli avvocati di parte civile, in particolare dal legale Rosalba Di Gregorio. Un timore forse giustificato dal fatto che, ora Palma è sentita nelle vesti di teste indagata per reato connesso nell’ambito del processo a carico di tre ex funzionari del gruppo Falcone- Borsellino, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata. Una palpabile tensione, la sua, sfociata in accuse nei confronti degli avvocati. «Noi – ha sbottato – siamo già stati oggetto di pesanti accuse da parte degli avvocati degli imputati che oggi siedono qui, in rappresentanza delle parti civili». Parole che hanno fatto infuriare i legali delle persone condannate ingiustamente. A prendere la parola l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di due degli imputati condannati all’ergastolo da innocenti, Gaetano Scotto e Vincenzo Orofino. «Non si può permettere alla teste di dire queste cose – ha detto -. Se siamo parte civile è perché siamo stati calunniati». E Palma: «Lei sarà stato pure calunniato ma lei sedeva a difendere degli imputati, è un dato di fatto». Scozzola allora ha replicato irritato: «Perché erano innocenti e sono stati assolti e revisionati». «Questo è tutto da vedere…», ha ribattuto ancora l’ex- pm Palma. Parole che hanno fatto infuriare i legali, che hanno chiesto un intervento dell’Ordine degli avvocati di Palermo per essere “tutelati”. L’esame si è concentrato soprattutto sulla collaborazione del falso pentito Vincenzo Scarantino. «In quella fase a me non diede affatto l’impressione di un collaboratore che non volesse collaborare, anzi. Faceva di tutto per accreditarsi, poneva delle precisazioni, faceva domande – ha spiegato Palma -. La prima dichiarazione fu anche fonoregistrata pur non essendo all’epoca obbligatorio». Palma era presente agli interrogatori dell’ 11 e del 12 agosto ‘ 94, e al terzo, quello fatidico del 6 settembre, in cui Scarantino tirò fuori per la prima volta il nome dei tre collaboratori, coinvolgendoli di fatto nella strage. «Fu un salto in avanti – ha detto -. In tutti e tre gli interrogatori io non ho mai appreso, se non nel momento in cui Scarantino faceva le sue dichiarazioni, che esistesse una preventiva concertazione con chi non lo so, rimanemmo tutti a bocca aperta quando fece quei nomi». Ma i suoi tentennamenti? Palma ha risposto che ritenevano che – essendo una persona molto labile – ci fosse il pericolo che potesse essere indotto dai familiari a ritrattare. Persino la famosa ritrattazione del 26 luglio ‘ 95 al giornalista Angelo Mangano non fu mai, a suo dire, una vera ritrattazione, perché «la ritrattazione si fa davanti a un giudice». E le famose telefonate intercorse tra lei e Scarantino? Secondo Palma non c’è stata nessuna preparazione, visto che non si parlavano di atti processuali. «Probabilmente il procuratore Tinebra diede i nostri numeri a Scarantino, io non lo accettai di buon grado, non era piacevole ricevere continue lamentele». Palma ha spiegato che non aveva suggerito nulla, limitandosi a spiegare a un collaboratore che entrava per la prima volta in un’aula di giustizia in quelle vesti cosa sarebbe accaduto. A domanda dell’avvocato Di Gregorio, Palma ha dichiarato di non ricordare a quali persone si riferisse durante alcune telefonate con Scarantino, che le disse di avere «paura di andare a Genova» per un interrogatorio e lei lo rassicurò sui trasferimenti che avrebbe dovuto effettuare. Scarantino spiegò che avrebbe dovuto incontrare persone che non gli piacevano ma l’ex pm non ricorda chi fossero. E sul fatto che all’epoca la procura di Palermo, dopo averlo interrogato per altre questioni, aveva messo in dubbio l’attendibilità di Scarantino, Palma ha spiegato che in quel periodo c’erano contrasti tra le due procure e che Palermo non lo aveva mai comunicato a Caltanissetta. Così come non le sarebbe stata recapitata la nota dei magistrati Roberto Sajeva e Boccassini che misero nero su bianco l’inattendibilità di Scarantino. Il punto focale è se la Palma sia entrata o meno in contatto con i funzionari del pool investigativo, ora sotto processo. Lei dice di no. «Scarantino oggi può dire quello che vuole. Noi lavoravamo sulla base di quello che lui ci diceva», ha spiegato.

I figli di Borsellino contro FdI. «Non usate l’immagine di nostro padre». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Un incontro sulla lotta alla mafia promosso da Fratelli d’Italia a Podenzano martedì 17 dicembre. Nella locandina una foto di Paolo Borsellino e la scritta «Borsellino Vive». Che però non sono piaciute alla famiglia del magistrato ucciso da Cosa Nostra nel 1992. «Con riferimento ai manifesti elettorali del movimento politico “Fratelli d’Italia” che indebitamente recano l’effige di nostro padre e la dicitura “Borsellino vive” — sostengono i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta Borsellino— oltre a dissociarci decisamente da questa improvvida iniziativa diffidiamo pubblicamente i responsabili del partito politico dall’utilizzare in qualsiasi forma e modo l’immagine e il nome di Paolo Borsellino». All’Adnkronos aggiungono: «Ci riserviamo per ogni altro aspetto di adire le vie legali per l’uso improprio e illegittimo che è stato fatto dell’immagine e del nome di nostro padre». Tra gli interventi previsti nella serata anche quelli di tre parlamentari del partito di Giorgia Meloni, Tommaso Foti, Wanda Ferro e Andrea Del Mastro.

Omicidio Borsellino: i pm dietro al depistaggio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Dicembre 2019. Il falso pentimento di Vincenzo Scarantino – che permise il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio nella quale fu ucciso Borsellino, e seppellì definitivamente la verità su quell’azione clamorosa della mafia – fu guidato probabilmente, passo passo, non dalla mafia ma da alcuni magistrati. Questi magistrati – la cui colpevolezza naturalmente è tutta da provare – sono ancora in carica, con funzioni dirigenti importanti. Indagano, giudicano, esercitano il loro potere. Fino ad oggi questi magistrati avevano giurato sempre sulla propria buona fede. Dicevano: “Abbiamo creduto alle false ricostruzioni del giovane Scarantino perché ci sembrava attendibile”. Ora, al processo Borsellino quater che si svolge a Caltanissetta contro alcuni poliziotti imputati per il depistaggio, sono state depositati i nastri di alcune intercettazioni che erano rimasti sepolti per 25 anni. Venticinque anni? Per venticinque anni la magistratura non sapeva di avere le intercettazioni di Scarantino? Già. Erano in un armadio…È una novità sconvolgente che getta un’ombra, non dico sull’onestà ma sicuramente sull’attendibilità di gran parte della magistratura palermitana di quegli anni. Ma getta un’ombra lunga lunga anche su altre due cose: la prima è l’attendibilità, in genere, dei pentiti di mafia (sui quali si basano decine di processi); la seconda è l’impianto del processo famoso sulla presunta trattativa stato-mafia. Questo impianto non solo traballa: crolla. Tra qualche riga proviamo a spiegare perché. Prima occupiamoci di queste intercettazioni. Sono telefonate tra Vincenzo Scarantino e alcuni magistrati. Che Scarantino telefonasse ai magistrati già si sapeva, sul suo taccuino c’erano i numeri telefonici di diversi Pm, tra i quali persino l’allora giovane Nino Di Matteo. Che è uno dei magistrati che lo interrogò e gli credette. In uno dei nastri depositati a Caltanissetta si sentono queste parole del sostituto procuratore Carmelo Petralia: “Scarantino, ci dobbiamo tenere molto forti perché siamo alla vigilia della deposizione”. In questa stessa telefonata Petralia annuncia a Scarantino una visita insieme al procuratore Giovanni Tinebra e al capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera (oggi, entrambi deceduti). “Ci sarà tutto quanto lo staff delle persone che lei conosce, potrà parlare di tutti i suoi problemi così li affrontiamo in modo completo e vediamo di trovare una soluzione. Contemporaneamente iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento”. Proprio così: “iniziamo la preparazione alla deposizione”. Queste telefonate sono dell’8 maggio del 1995. Dalle parole pronunciate da Petralia risulta chiarissimo che la testimonianza falsa di Scarantino, all’origine del depistaggio, non fu affatto spontanea ma fu preparata da magistrati e forze di polizia. Il falso pentito ricevette la visita degli investigatori l’11 maggio e il 25 maggio andò in aula e dette inizio all’operazione. Cosa comportò quell’operazione? Impedì che si indagasse davvero sulla strage. E che ci si avvicinasse alla verità. Ormai si può solo stabilire chi e perché depistò, ma è chiaro che la verità sui veri esecutori e mandanti è stata seppellita dal tempo. Diciamo pure che l’operazione depistaggio è perfettamente riuscita. Oggi Carmelo Petralia, autore di quella telefonata, è Procuratore aggiunto a Catania. Cioè è il numero due della magistratura catanese. Recentemente è stato indagato dalla procura di Messina, ma al momento resta in carica. Anche perché l’etica pubblica – quella costruita in questi anni da magistrati e giornali – stabilisce che se un assessore viene sospettato di traffico di influenze deve dimettersi immediatamente per evitare un conflitto tra il suo potere e le indagini; ma se un magistrato viene sospettato di calunnia (è questa l’ipotesi di reato) e del più clamoroso depistaggio della storia della Repubblica (così è stato definito da un Pm) può tranquillamente continuare a esercitare il suo potere e a indagare e a giudicare i cittadini. Cosa volete che vi dica: le caste – le vere caste – sono una cosa seria, mica un giochetto per deputati…Insieme a Petralia la procura di Messina ha indagato anche Anna Maria Palma, che oggi fa l’avvocato generale a Palermo. Anche lei indagata per l’ipotesi di reato di calunnia, e anche lei, a quanto si sa, resta in carica. Dicevamo che queste novità sono un colpo mortale al teorema della trattativa Stato-mafia e dunque al famoso processo di Palermo, del quale è in corso l’appello. Perché? Perché il depistaggio è servito a impedire che si indagasse davvero sulle cause dell’attentato a Borsellino. E oggi risulta abbastanza chiaro che Borsellino fu ucciso perché aveva deciso di lavorare sul dossier Mafia-Appalti preparato dal colonnello Mori e dai suoi uomini su incarico di Giovanni Falcone (quando era ancora magistrato a Palermo). Il depistaggio servì proprio a seppellire quel dossier, e poi venne fuori la tesi balorda della trattativa Stato-mafia, e lo stesso Mori (l’uomo che ha catturato Riina e che ha inferto colpi mortali a Cosa Nostra) è finito imputato, maciullato della macchina della malagiustizia. 

Scarantino: ecco la vera trattativa Stato-Mafia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Ottobre 2019. Sapete chi è il pentito Vincenzo Scarantino? Dopo Buscetta è uno dei pentiti più famosi d’Italia, quello che denunciò tutti gli autori della strage nella quale fu ucciso Paolo Borsellino e li fece arrestare. E così il caso Borsellino fu chiuso in fretta. Però, mentre Buscetta disse ai magistrati molte cose vere, Scarantino non fece la stessa cosa: parecchi anni dopo la chiusura dei processi si scoprì che le sue dichiarazioni erano false, che lui non era neanche un mafioso, che non sapeva niente della strage e che con quelle clamorose dichiarazioni, alle quali i magistrati credettero, aveva fatto condannare delle persone non colpevoli e aveva permesso ai colpevoli di farla franca. Nel frattempo erano passati tanti di quegli anni che ogni indagine ormai era diventata impossibile. E quindi non sapremo mai perché fu ucciso Borsellino. E invece dietro l’uccisione di Borsellino c’è un mondo di misteri e di grandi interessi economici minacciati, e di depistaggi e di collusioni tra Stato e mafia. Avete presente quella che viene definita la trattativa Stato-Mafia e che ha dato il via a molti processi, uno ancora in corso, in fase di appello? Beh, molto probabilmente quella trattativa non ci fu mai e anche la tesi della trattativa Stato mafia, alla fine, ha avuto la funzione di deviare l’attenzione della pubblica opinione e di nascondere le questioni vere: perché fu ucciso Borsellino? Da chi? A quale scopo? Cerchiamo di capire qualcosa. La novità è che ora si scopre che Scarantino alla vigilia della sua deposizione falsa aveva deciso di tirarsi fuori dalla manovra e di ammettere che non sapeva niente. Come lo si scopre? Parlano le intercettazioni che stanno venendo fuori al processo contro tre funzionari di polizia in corso a Palermo (mentre a Caltanissetta si svolge una indagine parallela nella quale sono indagati due magistrati). Scarantino telefonò spesso a diversi poliziotti e magistrati, in quei giorni. Si tratta di capire quali di questi funzionari dello stato si limitarono a dar credito senza riscontri a un pentito veramente improbabile (e quindi difettarono solo in capacità professionali) e quanti invece, e quali, parteciparono al depistaggio, o addirittura – come è probabile – lo organizzarono e guidarono. Il depistaggio a cosa serviva? Al depistaggio era interessata la mafia? Ci fu un accordo tra mafia e alcuni poliziotti e/o magistrati? Diciamo che alla seconda di queste domande (al depistaggio era interessata la mafia?) non si può che rispondere affermativamente. E questo rende molto inquietanti la prima e la terza domanda. L’intercettazione che rivela che Scarantino a un certo punto voleva chiamarsi fuori è del 22 maggio del 1995, vigilia del suo interrogatorio, e riguarda una telefonata con la moglie: «Prepara la valigia, ho deciso di tornare in galera», disse. Scarantino era fuori dal carcere – dove era finito per vai delitti minori in cambio della sua collaborazione. Poi però Scarantino ci ripensa di nuovo e depone. E conferma la versione fantasiosa sulla strage. Cosa lo convince a tornare falso pentito? E chi lo convince? Gli inquirenti? E perché lo fanno? E con quali minacce? L’ipotesi che ora viene avanti è la seguente (ed è del tutto alternativa alle tesi del processo Stato-Mafia). Borsellino, quando fu ucciso, stava per prendere in mano il dossier mafia-appalti, preparato dal colonnello Mario Mori sotto la guida di Giovanni Falcone. Falcone, quando lasciò Palermo, pregò Borsellino di seguire lui quel dossier, ma Borsellino per due anni non riuscì a farselo assegnare. Poi, dopo la morte di Falcone, tornò all’attacco e la mattina del 19 luglio 1992 il procuratore Giammanco gli telefonò per dirgli che il dossier era suo. Quattro ore dopo però Borsellino era morto. Giammanco forse non sapeva che i Pm che stavano nel frattempo lavorando sul dossier di Mori avevano pochissimi giorni prima della strage firmato la richiesta di archiviazione. Lo stesso Giammanco firmò la richiesta di archiviazione pochi giorni dopo la morte di Borsellino e l’archiviazione fu concessa in fretta e furia, meno di un mese dopo, il 14 agosto, giorno nel quale – fino al 1992 – nessuno mai aveva lavorato nella procura di Palermo. Quel dossier era una bomba. Indicava i rapporti tra mafia e moltissime imprese dell’Italia continentale. Anche grandi imprese. Con la morte di Falcone e di Borsellino sparì. Mori continuò a lavorare contro la mafia, catturò Riina, ma cadde in disgrazia e ora è imputato nel processo Stato-Mafia addirittura di associazione esterna in associazione mafiosa, dopo essere stato assolto da tre tribunali per le stesse accuse. Ci fu una trattativa tra mafia e una parte dello Stato, e della magistratura, alla base del depistaggio Scarantino? È una domanda fondamentale, perché quel depistaggio – che è stato recentemente definito da alcuni magistrati come il più grande depistaggio della storia della Repubblica – fu quello che impedì di scoprire la verità sulla mafia stragista. Ormai quella verità è sepolta. Alcuni magistrati che caddero nella trappola Scarantino sono gli stessi che poi allestirono il processo Stato-mafia. 

Stato-mafia nasconde la verità sulle stragi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Novembre 2019. Silvio Berlusconi ieri ha fatto scena muta davanti alla Corte d’appello che dovrà decidere le sorti del processo sulla famosa trattativa Stato-Mafia. Era stato convocato come testimone, e la sua testimonianza sarebbe probabilmente servita a Marcello Dell’Utri per tirarsi fuori dalla trappola dove l’hanno infilato i Pm. Lui però ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Perché aveva questa facoltà? Perché recentemente la Procura di Firenze gli ha spedito un avviso di garanzia per le stragi del 1993 e per l’attentato fallito a Maurizio Costanzo. Berlusconi a questo punto si trova a essere sotto accusa in un procedimento giudiziario che riguarda delitti connessi al processo di Palermo. Il fatto che entrambi i processi siano del tutto strampalati non cambia le cose. Essendo i due processi collegati, Berlusconi ha la facoltà di non presentarsi come testimone, e ieri ha dichiarato che i suoi avvocati lo hanno consigliato di fare così. Il suo avvocato è Franco Coppi, che conosce bene questa materia e conosce anche i magistrati che se ne occupano: evidentemente ha immaginato che in questo momento per Berlusconi sia più opportuno evitare deposizioni.  Naturalmente non esiste neppure una persona sola nell’intero mondo che creda che Berlusconi possa avere avuto qualcosa a che fare con quegli attentati, e in particolare con quello al suo amico Costanzo, che in quel periodo era oltretutto un pilastro delle sue televisioni. Però la giustizia, si sa, è così: burocratica, burocratica, burocratica. E di conseguenza ritiene che sia un indizio sufficiente una frase smozzicata pronunciata da un boss in carcere (Graviano) intercettata durante un colloquio con un altro detenuto e intercettata dai magistrati (poi si è saputo che Graviano sapeva di essere intercettato, e tutto quel che diceva lo diceva per qualche ragione). Graviano disse: «Berlusca mi ha chiesto un piacere». Dal punto di vista degli inquirenti l’inverosimiglianza assoluta dell’affermazione, e la totale assenza di riscontri non valgono niente. La mancata deposizione di Berlusconi, però, danneggia Dell’Utri. Il quale è accusato di avere fatto da tramite tra Cosa Nostra e Berlusconi in questa benedetta e molto improbabile trattativa Stato-Mafia. L’ipotesi dell’accusa è questa: la mafia aveva deciso di attaccare lo Stato per poi trattare. Uccise Lima (deputato andreottiano), poi Falcone, e Borsellino, nel 1992, e l’anno successivo realizzò gli attentati che provocarono stragi a Firenze, a Milano e anche a Roma, dove provò – sbagliando – a uccidere Maurizio Costanzo e Maria de Filippi. La mafia – sostiene l’accusa – chiese al governo, in cambio della pace e della fine dell’attacco militare, una serie di concessioni, tra le quali soprattutto la fine del 41 bis. Dell’Utri, secondo l’accusa, fece da intermediario tra la mafia e il premier Berlusconi. Però c’è un problema di date, e poi un problema di fatti. Le date: gli attentati finiscono il 23 gennaio del 1994, quando per un errore (o forse per un ripensamento) non salta la bomba che avrebbe ucciso decine di carabinieri allo Stadio Olimpico, pochi minuti prima della partita Roma-Udinese. Dicevamo: 23 gennaio. A quel punto evidentemente la trattativa si conclude perché gli attentati cessano. Però Berlusconi andò al governo solo quattro mesi più tardi, e nessuno, in gennaio – proprio nessuno – poteva nemmeno immaginare che avrebbe vinto le elezioni a primavera. Tutti erano certi della vittoria di Occhetto. È strano chiedere delle misure di tipo legislativo a un imprenditore che non ha mai messo piede in Parlamento.

La seconda contraddizione riguarda i fatti. Quando Berlusconi andò al governo non prese nessuna misura di allentamento della lotta alla mafia, non cancellò il 41 bis anzi inasprì tutte le misure. Se ciò non vi basta ancora, tenete conto di un altro elemento di questa storia che lascia davvero molto perplessi. Oltre a Dell’Utri sono accusati di avere guidato la trattativa Stato-Mafia tre ufficiali dei carabinieri. Il più famoso è Mario Mori. Che mentre la trattativa – secondo i giudici – era in corso con Totò Riina, cosa fece? Arrestò Riina. Negoziato più bislacco di questo non poteva essere immaginato. E allora come stanno le cose? Beh, è chiaro un po’ a tutti che il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e l’ipotesi che questa trattativa sia stata il motivo per il quale furono uccisi Falcone e Borsellino (i quali peraltro furono uccisi quando la prima Repubblica appariva ancora ben salda e Berlusconi in politica non era neppure un fantasma) sono un processo e un’ipotesi di quelli che a Roma si definiscono “una bufala”. Non stanno in piedi neanche coi cerotti, anche se fin qui hanno già prodotto una condanna in primo grado, alla quale è giunta una giuria popolare spinta da una gigantesca campagna di stampa, e hanno rovinato la vita a molte persone, alcune delle quali – come il generale Mori – sono tra i pochi ad avere dato gran parte della loro vita alla lotta strenua alla mafia. Quelli che non sono chiarissimi a tutti sono gli effetti di questo gigantesco depistaggio. Gli effetti sono che è stato calato un velo sulla vera indagine che Falcone e Borsellino stavano conducendo, servendosi del lavoro di Mori e della sua squadra; era un’indagine, che aveva un’ampiezza impressionante e stava per svelare i rapporti tra la mafia e un pezzo molto consistente del mondo imprenditoriale italiano (ma in quel pezzo di mondo non c’era Berlusconi). Si tratta del dossier mafia-appalti, che era stato promosso da Falcone, realizzato da Mori, e che sarebbe stato ereditato da Borsellino se Borsellino non fosse stato ucciso nel luglio del ’92.  Tre giorni prima della sua uccisione i Pm di Palermo chiesero l’archiviazione del dossier, e l’archiviazione venne ratificata il 14 agosto. Tutto questo è raccontato dettagliatamente nel fotoromanzo curato da Giovanna Corsetti, che pubblichiamo oggi in prima e seconda pagina e che pubblicheremo ancora nei prossimi giorni.  Ecco spiegato il processo Stato-Mafia. Che sicuramente è stato voluto dai Pm per altri motivi, ragionevolissimi, ma che alla fine (così come il depistaggio del pentito Scarantino, che aveva accusato delle persone non colpevoli dell’uccisione di Borsellino, guidato, a quanto pare, da uomini dello Stato) è servito solo a depistare, a impedire che si scoprisse perché e chi aveva ucciso Borsellino e a seppellire un’indagine su mafia e imprenditoria che avrebbe sconvolto l’Italia.

Quando un uomo della Dia avvisò Ciancimino: sei controllato da altri…Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, intercettato, racconta di un interrogatorio molto soft e di aver avuto questa informazione, scrive Damiano Aliprandi i l23 Marzo 2019 su Il Dubbio. Cambia lo scenario, ma la protagonista è sempre la Dia di Palermo e le sue indagini. Si tratta sempre di un funzionario, ma in questo caso non identificato. È nel corso di un’intercettazione ambientale che Massimo Ciancimino riferisce al suo interlocutore che un uomo della Dia lo avrebbe messo in allerta, perché intercettato da un’altra Procura. Non sappiamo se su tale circostanza qualche autorità giudiziaria abbia ritenuto di indagare per verificarne l’attendibilità. Questa volta infatti non si tratta di una intercettazione relativa al caso Montante, ma di un’indagine realizzata nei confronti di Massimo Ciancimino dal Nucleo Operativo Ecologico de L’Aquila per conto della Procura di Roma. Ciancimino è il testimone – chiave nel processo Stato- mafia. Il giurista Giovanni Fiandaca, nel suo recente saggio che decostruisce la sentenza sulla trattativa, scrive: «Mentre i pubblici ministeri hanno puntato come “teste chiave” della trattativa sul dichiarante Massimo Ciancimino ( figlio di don Vito, ex sindaco di Palermo vicino ai vertici mafiosi corleonesi), la Corte è invece arrivata a negarne la complessiva attendibilità». In pratica Ciancimino mentre è considerato un teste chiave, nel contempo è sotto osservazione per possibili operazioni di riciclaggio delle somme derivanti dal patrimonio accumulato dal padre, ereditato da lui e gestito per suo conto da professionisti. D’altronde nell’ultimo libro a firma dei magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, viene riportato: «È proprio l’avvocato Ghiron che, insieme ad altri professionisti, ha aiutato Ciancimino padre, prima, e il figlio Massimo, poi, a nascondere le loro ricchezze spostandole dalla Sicilia alla Svizzera, al Belgio, a Parigi, alle Bahamas fino alla Romania». Siamo nel 2012 e Massimo Ciancimino parla, via Skype, con Romano Tronci, finito sotto la lente di ingrandimento dagli inquirenti fin dal 1982: era stato direttore generale della De Bartolomeis, una società che realizza impianti per lo smaltimento dei rifiuti. Un’impresa che a suo tempo venne indagata assieme ai Costanzo, quest’ultimi imprenditori non organici alla mafia, ma di cui ne conoscevano i meccanismi e i segreti su tangenti e appalti. Tanto è vero che Falcone – davanti al Csm – si lamentò del fatto che Costanzo venne arrestato a sua insaputa dall’allora consigliere istruttore Antonino Meli. Perché? Falcone lo aveva convinto a collaborare sugli appalti illeciti. Con il suo arresto, si vanificò tutto. I Costanzo poi finiranno sotto il mirino dei Ros nel loro famoso dossier mafia- appalti, fortemente voluto da Falcone e che, in seguito, interessò molto Borsellino. Ma ritorniamo all’intercettazione del 12 settembre 2012. Ciancimino racconta a Tronci di essere stato sentito dagli uomini della Dia per conto dei Pm. Dice che lo hanno interrogato in merito all’ordinanza del Gip. Gli avrebbero detto: «Ci aiuti abbiamo questo incarico». Morosini, il Gip, aveva rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Palermo e chiesto ulteriori indagini. Dalle intercettazioni emerge che lo avrebbero trattato bene, così racconta Ciancimino: «perché là parlavamo alla fine di… delle polemiche Ingroia, insomma… non è stato un interrogatorio, diciamo… neanche registrato, molto soft». È tranquillo Ciancimino, dice di non aver fatto nulla di illecito. Tronci stesso, nella chiacchierata via skype, gli chiede: «Ma hanno capito o no che non c’entriamo niente?». Ciancimino gli risponde: «Non gliene fregava un cazzo! Hanno detto… tutto il tempo hanno parlato della mia sicurezza». Alla fine diventa tutto più chiaro quando Ciancimino dice al suo interlocutore che l’uomo della Dia gli avrebbe detto «ha capito che noi siamo schierati con… tutti quelli che hanno fatto le indagini sulla Trattativa siamo bruciati! … non faremo più carriera!… l’elemento forte è lei… lei ha fatto delle leggerezze! (…) non si esponga a cretinate». L’interrogatorio – stando alle parole di Ciancimino – era diventato una raccomandazione. Poi, sempre secondo il racconto di Ciancimino, l’uomo della Dia gli avrebbe detto anche: «non dia adito a niente (…) gli sto dicendo che adesso le telecamere non sono nostre!». Ciancimino continua spiegando che l’uomo della Dia gli avrebbe detto «insomma c’è qualche altra Procura che vi monitorizza». Un avvertimento a non dare adito a niente, che era indagato da un’altra Procura. Ed era vero. Tutto nasce da una maxi operazione avviata dalla direzione Distrettuale Antimafia in Abruzzo. Gli investigatori stavano scavando sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nella fase della ricostruzione post terremoto, quando pensarono di avere individuato alcuni imprenditori avvicinati per fare degli investimenti in Romania. Le indagini scoprirono l’inizio di una complicata compravendita della società rumena Ecorec, gestore della discarica di Glina, la più grande d’Europa, per 60 milioni di euro a una società del Lussemburgo. Un affare mai andato in porto, che per la pubblica accusa aveva l’obiettivo di evitare confische dell’autorità giudiziaria italiana sui capitali riferibili alla mafia. In pratica gli inquirenti ritennero di aver trovato tracce del riutilizzo di una parte consistente del famoso tesoro di Ciancimino proprio in Romania, nel redditizio settore dello smaltimento illecito dei rifiuti: fascicolo trasferito per competenza alla Procura di Roma. Si è svolto un processo su questo, poi conclusosi a fine gennaio scorso con una condanna nei confronti di 4 soggetti, tra cui lo stesso Romano Tronci e Victor Dombrovschi. Quest’ultimo, al tempo amministratore della Ecorec, è difeso da Antonio Ingroia, che ha denunciato come le intercettazioni, nate nel corso dell’indagine dei Noe de L’Aquila fossero «pretestuosamente puntate su Massimo Ciancimino, proprio nel momento in cui stava diventando un teste chiave del processo Trattativa». Parliamo di un processo definito in primo grado, per il quale i condannati hanno annunciato il ricorso in appello. Fatto sta che Ciancimino, stando alle sue parole, sarebbe stato avvisato da un uomo della Dia di essere monitorato da un’altra Procura. Un fatto, se vero, gravissimo. Soprattutto se avvenuto mentre veniva interrogato dalla Dia per gli stessi fatti relativi al riciclaggio. Qualche tempo prima, i magistrati della Procura di Palermo, Roberta Buzzolani e Lia Sava, avevano fatto richiesta di archiviazione del procedimento contro Ciancimino e Ghiron. La richiesta venne però respinta dal Gip Morosini ( poi diventato il titolare dell’udienza preliminare del procedimento sulla presunta trattativa Stato- mafia), il quale aveva obiettato la mancata produzione dell’informativa della Guardia di Finanza, che al contrario evidenziava alcuni elementi significativi in merito alle operazioni di riciclaggio. Lo stesso Gip Morosini scrive nell’ordinanza che Ciancimino e altre persone indagate sarebbero state a conoscenza di fatti rilevanti e coperti da segreto. «Nelle conversazioni intercettate – scrive il gip – i vari interlocutori fanno riferimento a vicende istituzionali non solo italiane, che dovrebbero essere coperte dallo stretto riserbo, dimostrando di conoscere anche nei dettagli ad esempio le dinamiche interne alla magistratura siciliana e l’andamento di inchieste (…)». Sempre il Gip Morosini chiede di non ignorare «una nota della Procura di Caltanissetta riguardante le indagini sulla strage di via D’Amelio», in particolar modo l’esito di una perquisizione effettuata a Milano, negli uffici di Santa Sidoti «definita collaboratrice di Massimo Ciancimino, (…) moglie di Romano Tronci, già coinvolto in altre inchieste per riciclaggio dove figura lo stesso Ciancimino e di cui è stato consulente delle società sequestrate». Durante la perquisizione era stata rinvenuta una scritta: «L’argomento è sempre la strage Falcone- Borsellino legata alla più grossa azienda ecologica in Romania». Una frase, di difficile interpretazione, che avrebbe fatto sussultare gli investigatori. Ciancimino viene di nuovo interrogato e, secondo quanto dice nelle intercettazioni, in maniera soft con l’avviso di essere sotto indagine da un’altra procura.

La moglie del colonnello D’Agata: «Attento, rischi di essere massacrato come Mori». Il colonnello Giuseppe D’Agata aveva seguito tutte le fasi dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia ed è indagato nella vicenda dell’ex presidente di Sicilindustria Antonello Montante, scrive Damiano Aliprandi il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio.  «Madonna un massacro! Picchi pi forza un magistrato si… si ficca una testa ca chiddru avia fatto a trattativa…». È in dialetto siciliano, dice che è un massacro, «perché per forza un magistrato si ficca in testa che quello aveva fatto la trattativa». Il riferimento è a Mario Mori, l’ex comandante dei Ros, condannato in primo grado per la trattativa Stato- mafia. Si tratta di un dialogo estrapolato da una intercettazione ambientale nei confronti di un indagato del famoso caso Montante, quest’ultimo agli arresti domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di esponenti delle forze dell’ordine. Le indagini della Squadra Mobile e della Procura di Caltanissetta gli contestano di aver creato una rete illegale per spiare l’inchiesta, che era scattata nei suoi confronti tre anni fa, dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia. Oltre a lui, a maggio scorso, altre cinque persone sono state raggiunte da un’ordinanza di arresto. In tutto, però, gli indagati sono 22: tutti accusati di aver avuto in qualche modo un ruolo nella catena delle fughe di notizie. In particolar modo, si fa riferimento al delitto previsto dall’articolo 416, commi 1, 2, 3 e 5 del codice penale, per essersi associati, in numero superiore a dieci, allo scopo di commettere più delitti contro la pubblica amministrazione e di accesso abusivo a sistema informatico. Antonello Montante, ex presidente di Sicindustria, secondo il Gip, avrebbe intrattenuto «rapporti con appartenenti alle forze di polizia al fine di indirizzare le attività di costoro in maniera tale da garantire i propri personali interessi e quelli di coloro a cui sono strettamente legati e di ottenere, ai medesimi fini, informazioni di natura riservata, nonché occupandosi di soddisfare le aspettative di carriera e di lavoro degli stessi o di loro familiari ed amici». Uno dei cinque arrestati – si legge nell’ordinanza del Gip – parla con la moglie, mentre erano in auto, discutendo sulla notizia della perquisizione a tappeto nella casa di Montante. È il 22 gennaio del 2016 e la moglie ha dato notizia di un articolo di giornale, in cui si parlava delle perquisizioni e della chiusura delle indagini con l’originaria accusa – poi decaduta – per concorso esterno in associazione mafiosa. Sono preoccupati i due coniugi, si teme di finire nell’incubo giudiziario. «Noi rischiamo un casino, per leccargli il culo», afferma testualmente alla moglie.

È la stessa donna che prosegue nel dialogo, lasciandosi andare alla descrizione della gogna che avrebbe potuto coinvolgere il marito: «Il processo penale è nelle mani di nessuno, cioè arriva un cretino che ti denuncia, magari non hai fatto niente, ma intanto ti mettono i telefoni, ti massacrano, t’ammazzano proprio la vita, te la riducono in uno scempio, te ne vai sui giornali, ti fanno un processo, ti fanno suicidare». Il marito conferma: «Certo, certo!». Il dialogo è incentrato sul sistema della giustizia, in cui un magistrato si affida ai pentiti e sulle loro dichiarazioni si fa l’idea che uno sia colpevole, da condannare. E proprio la moglie dell’indagato fa l’esempio del noto processo sulla trattativa. Parla in dialetto siciliano e letteralmente tradotto in italiano dice al marito: «Quattro soggetti fanno una cospirazione, uno dice: “Incolpiamo a quello, ci diciamo che quello è mafioso”. Ma chi è? Non esiste e poi ti massacrano la vita, spendono milioni di euro, il telefono sotto controllo ti mettono (…), cioè tipo quando hanno fatto la trattativa stato mafia e c’è gente, tipo quello là dei Ros, quel generale Mori. Madonna un massacro, perché per forza un magistrato si ficca in testa che quello aveva fatto la trattativa». Il timore della moglie è che il processo del marito faccia la fine di quello della Trattativa, «tipo quello là dei Ros, quel generale Mori». Una situazione paradossale. Perché? Il marito indagato è il colonnello Giuseppe D’Agata, ex capocentro della Dia di Palermo – poi passato ai Servizi Segreti -, lo stesso che con quell’incarico precedente aveva seguito tutte le fasi dell’indagine sulla trattativa Stato- mafia: l’accusa dei Pm palermitani si era fondata infatti sulle indagini della Dia, seguite appunto da D’Agata. Il paradosso è che abbiamo la moglie dell’investigatore del processo della Trattativa che, a proposito del “massacro” giudiziario, dice al marito che potrebbe fare stessa fine dell’ex generale Ros Mori, finito sotto le indagini seguite passo dopo passo proprio da lui.

Indagò sulla Trattativa, ora è inquisito per aver fabbricato dossier. Giuseppe D’Agata è coinvolto nell’inchiesta sul capo di Sicilindustria Antonello Montante. Secondo il gip di Caltanissetta avrebbe fornito «informazioni di natura riservata acquisite attraverso le attività di ufficio», scrive Damiano Aliprandi il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Nella prima parte di questa inchiesta abbiamo pubblicato l’intercettazione tra il colonnello Giuseppe D’Agata e la moglie dove – a proposito del massacro giudiziario che temevano dopo la perquisizione avvenuta negli uffici dell’ex capo di Sicilindustria Antonello Montante – si paventava di fare la stessa fine dell’ex generale dei Ros Mario Mori. D’Agata, ex capocentro della Dia di Palermo – poi passato ai Servizi Segreti -, è lo stesso che con quell’incarico precedente aveva seguito tutte le fasi dell’indagine sulla trattativa Stato- mafia: l’accusa dei Pm palermitani si era fondata infatti sulle indagini della Dia, seguite appunto dal colonnello. Il paradosso sta proprio nel fatto che la moglie dell’investigatore del processo della Trattativa, a proposito del “massacro” giudiziario, dice al marito che potrebbe fare stessa fine dell’ex generale Ros Mori, finito sotto le indagini seguite passo dopo passo proprio da lui. Altro riferimento all’indagine sulla presunta trattativa stato mafia e un sospetto che viene cristallizzato nell’ordinanza del Gip. D’Agata, come detto, è sospettato di fabbricare dossier, è accusato in pratica di avere “veicolato” informazioni segrete a favore di Montante. Nell’ordinanza il Gip scrive quale sarebbe stato il rapporto tra Giuseppe D’Agata – quale comandante provinciale dell’Arma dei carabinieri nonché capo centro della Dia di Palermo e, poi, appartenente all’Aisi ( i servizi segreti che si occupano di informazioni e sicurezza interna) – e Antonello Montante. D’Agata avrebbe fornito all’ex presidente di Sicilindustria, sin dal momento che rivestiva il ruolo di comandante dei carabinieri di Caltanissetta, «informazioni di natura riservata acquisite attraverso le attività di ufficio condotte – anche quelle riguardanti attività di indagine eseguite sul conto dello stesso Montante affinché potesse poi parteciparle ai soggetti a lui più strettamente collegati – nonché occupandosi, ai medesimi fini, di “bonificare” immobili abitualmente frequentati dal predetto Montante». Ma, come già pubblicato da Attilio Bolzoni nel suo ultimo libro, dall’ordinanza del Gip emerge anche un altro sospetto, che ci riporta ancora una volta alle indagini sul processo della “trattativa”: la duplicazione delle intercettazioni – di nessuna rilevanza penale – tra Mancino e Napolitano, che poi sono state distrutte grazie alla sentenza della Corte Costituzionale. Quattro in tutto le chiamate tra Mancino e Napolitano, intercettate dai magistrati siciliani, che da tempo tenevano sotto controllo l’ex Presidente del Senato, sospettato di essere uno degli attori della trattativa. Come sappiamo, Mancino è stato poi assolto dall’accusa. Dall’ordinanza emerge il sospetto che una riproduzione delle intercettazioni possa essere scivolata nelle mani di Montante. Forse custodita nelle pen- drive frantumate da lui stesso il giorno del suo arresto nell’appartamento di Milano il 14 maggio 2018. È solo un sospetto, una nebbia che però coinvolge il colonnello D’Agata. Nell’ordinanza, da pagina 2027, c’è un capitolo tutto dedicato a questa vicenda. Sono riportate le intercettazioni a proposito della preoccupazione che aveva ingenerato nel D’Agata una certa richiesta, giunta dalla Dda di Palermo da ambienti del ministero di Giustizia e tesa ad escludere che le intercettazioni captate nell’ambito del processo sulla cosiddetta trattativa tra l’allora presidente Napolitano ed il senatore Mancino potessero essere in qualche modo state duplicate. La richiesta in questione aveva interessato D’Agata, precedentemente Capo Centro della Dia di Palermo, nel momento in cui venivano svolte le attività d’indagine che avevano portato a captare quelle conversazioni. Diverse sono le conversazioni che confermano l’ansia del colonnello. C’è la conversazione del 31 gennaio del 2016 che intrattiene con la moglie, la quale gli dice che non deve agitarsi «per la vicenda» e lui le comunica che è riuscito a «trovare l’articolo». L’articolo è del 9 novembre 2015, comparso sul quotidiano Libero e intitolato “Ingroia e le telefonate di Napolitano… Vi svelerò il contenuto”, in cui l’ex Procuratore annuncia che avrebbe scritto un libro, dove sarebbe stato rivelato il testo delle conversazioni tra Mancino e Napolitano. L’impressione però è che D’Agata abbia paura di essere messo in mezzo ingiustamente. La moglie lo conforta, gli dice che sulla stampa non uscirà il suo nome: «Può uscire sul magistrato, ma non su di te». Per ora siamo solo alla fase degli indizi, anche se dalle intercettazioni una cosa è certa: all’interno della Dia che ha indagato sulla trattativa per la Procura Palermitana, c’era chi oggi è indagato a Caltanissetta per aver fabbricato i dossier per Montante.

Saul Caia per ilfattoquotidiano.it il 13 novembre 2019. Un progetto da quasi 15 milioni di euro alla raffineria di Gela, finanziato dall’Eni nel 2013, a un’azienda che in precedenza aveva ricevuto appalti “per somme non superiori ai 300 mila euro”. Nei numerosi atti d’inchiesta sul cosiddetto “sistema” di Antonello Montante, condannato in primo grado (in abbreviato) a 14 anni per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, la squadra mobile di Caltanissetta descrive i “personali e diretti interessi” dell’ex presidente di Confindustria Sicilai in “attività gestite dall’Eni”. In una comunicazione di notizie di reato del 2018 gli investigatori citano la “gara d’appalto per il trattamento dei rifiuti”, vinta dalla Petroltecnica Spa, dell’imprenditore romagnolo Mario Pompeo Pivi, specializzata nel settore bonifiche e trattamento rifiuti, che operava anche nei poli petrolchimici di Priolo e Milazzo. A “fiutare” l’affare per “veicolare i lavori”, sarebbe stato proprio “l’apostolo dell’antimafia”, come era chiamato Montante ai tempi in cui era considerato un paladino della legalità. “Avevo già un contratto alla raffineria di Gela per la gestione dei rifiuti, quindi ho proposto all’ingegnere Bernardo Casa, che conoscevo, di realizzare un impianto per trattarli in modo da non farli uscire dal territorio – spiega Pivi a Il Fatto -. Cercavo un partner locale, mi è stato suggerito di rivolgermi a Confindustria Caltanissetta e ad Antonello Montante”. Sono gli anni dell’ascesa di Montante, “indicato – si legge negli atti – come referente per l’area di Gela dal personale della raffineria”. “Una strettissima vicinanza ai vertici di Eni” documentata dai lui stesso in un file excel, trovato nel pc della sua casa a Serradifalco, in cui annotata incontri, pranzi e cene, tra il 2010 e il 2015, con la futura presidente Emma Marcegaglia, i manager Claudio Descalzi, Salvatore Sardo, Claudio Granata, Domenico Noviello, Bernardo Casa e molti altri. “Era l’estate 2013 quando alla raffineria di Gela ho incontrato Montante accompagnato da Ivan Lo Bello – spiega Pivi -, gli ho fatto vedere il progetto e siamo diventati soci”. Lo Bello è l’ex “gemello” di Montante nel mondo dell’antimafia: i due imprenditori percorrono insieme la scalata ai vertici degli industriali, iniziata dalla camera di commercio a Confindustria, fino alla vicepresidenza nazionale. A Ivan, banchiere con un’azienda nel settore dolciario, la delega all’education, mentre per Antonello, che produce biciclette e ammortizzatori, quella della legalità. In mezzo le inchieste giudiziarie. Lo Bello era finito indagato per associazione per delinquere a Potenza, poi archiviata a Roma, sugli sviluppi della vicenda Petrolgate e il giacimento Tempa Rossa in Basilicata: era accusato di aver influito nella gestione di alcuni affari al porto di Augusta. Montante, già condannato lo scorso maggio a Caltanissetta, è indagato anche per concorso esterno in associazione mafiosa e per i presunti fondi neri legati alle sue aziende. Pivi, Montante e Lo Bello si uniscono nella Terranova di Sicilia Srl, suddividendo le quote tra Petroltecnica Srl e Calta Srl. In realtà la società era stata costituita nel 2010 a Caltanissetta, ma diventa attiva solo tre anni dopo. Per gli inquirenti, la “Calta è riconducibile a Montante”, perché amministrata da Claudio Contarelli, suo uomo di fiducia, con un capitale di 10mila euro, sottoscritto da Massimo Meoni (2%) e dalla società “Compagnia Fiduciaria e di Trust Spa – Melior Trust Spa” (98%). Gli inquirenti non hanno dubbi, Montante e Lo Bello erano i “soci occulti”. “In buona sostanza – scrivono – fiutando la possibilità di veicolare i lavori per la realizzazione e la gestione della piattaforma, Montante e Lo Bello hanno utilizzato una società apparentemente a loro non riconducibile”. “All’inizio la cosa un po’ mi puzzava, avevo chiesto perché non volessero essere presenti e mi diedero una spiegazione plausibile, dicendomi che era per evitare problemi contro tutti quelli che avevano contro – racconta Pivi -. Mi fidavo, contavo molto sul loro supporto in zona, si presentavano come l’élite, l’antimafia che lottava contro il pizzo”. “Stiamo parlando di cose assurde, non ho mai fatto niente e non c’è nulla – precisa Lo Bello -. Certo che conosco Pivi, mi ricordo di aver partecipato all’incontro, mi hanno proposto questo progetto, ho visto che la cosa non era piacevole e ho fatto subito un passo indietro”. L’Eni conferma che i loro “dirigenti locali” sapevano che c’erano Montante e Lo Bello dietro la Terranova, “circostanza appresa dopo l’aggiudicazione della gara a Petroltecnica” e alla “presentazione del piano industriale della società”. Sarà Montante a farla associare a Confindustria nel febbraio 2014, presentandola all’assemblea del consiglio direttivo del Centro Sicilia. La “gara appalto – precisa Eni – per la gestione e lo smaltimento di rifiuti gestita dalla Raffineria di Gela (Ra.Ge. Spa)” è vinta “tra 12 partecipanti”, “nel gennaio 2013 dalla società Petroltecnica”. Appena un anno dopo, la società ha “chiesto ed ottenuto la voltura del contratto al Raggruppamento Temporaneo di Impresa Petroltecnica/Terranova di Sicila S.r.l”, e “il valore residuo dell’appalto era di circa 15 milioni di Euro”. “Parliamo di 5-6 milioni di euro, non di quelle cifre, Terranova non ha diviso utili – dice Pivi -, Montante e Lo Bello non ci hanno guadagnato un euro”. La Calta (oggi in liquidazione) nel 2016 cede la sua parte di quote alla Petroltecnica, che subito dopo decide di chiudere la Terranova. Dopo aver ricevuto tutte le autorizzazioni regionali, il prossimo marzo entrerà in funzione l’impianto a Gela per trattare i rifiuti, realizzato dalla società romagnola. “Sull’atto pratico, Montante e Lo Bello non hanno fatto assolutamente niente, con loro ho solo perso tempo – aggiunge Pivi -, è stata una brutta esperienza, quando nel 2015 ho letto sulla stampa di Montante, mi sono preoccupato e ho chiesto di essere ascoltato dalla Procura di Caltanissetta”.

«Condannate Montante: così il suo sistema smontava le indagini». La procura chiede 10 anni e 6 mesi per l’ex presidente di Sicindustria. Richieste pesanti anche per gli altri imputati accusati di associazione a delinquere. Scrive Damiano Aliprandi il 24 Aprile 2019 su Il Dubbio. Dieci anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici. Questa è la pesante richiesta del tribunale di Caltanissetta nei confronti di Antonello Montante, ex presidente di Sicindustria. Al termine della requisitoria fiume, durata cinque udienze, il procuratore capo Amedeo Bertone, assieme ai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso che rappresentano l’accusa, ha sollecitato – tranne l’assoluzione per il dirigente regionale Alessandro Ferrara – pene altrettanto pesanti anche nei confronti degli altri quattro imputati. Quattro anni e 6 mesi per l’ex comandante provinciale della Gdf di Caltanissetta Gianfranco Ardizzone, 6 anni e 11 mesi per il sostituto commissario Marco De Angelis, 2 anni e 8 mesi per il questore Andrea Grassi, 7 anni e 1 mese per il capo della security di Confindustria Diego Di Simone Perricone. Tutti accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, alla rivelazione di notizie coperte dal segreto d’ufficio, al favoreggiamento. Antonello Montante, ricordiamo, è accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione nell’ambito del processo sul cosiddetto “sistema Montante”, scaturito dall’operazione giudiziaria “Double Face”, condotta, nel maggio scorso, dalla squadra mobile di Caltanissetta e coordinata dalla procura nissena. Secondo l’accusa, Montante, che dopo avere trascorso quasi un anno in carcere si trova adesso agli arresti domiciliari, avrebbe cercato di ottenere notizie riservate sui profili di alcune persone di suo interesse. In media, come spiegato dai pm durante la requisitoria, sarebbero stati effettuati nove accessi abusivi ogni tre mesi per un arco di 7 anni per cercare informazioni anche su alcuni collaboratori di giustizia, sull’ex presidente dell’Irsap Alfonso Cicero, parte offesa e parte civile, e il magistrato ed ex assessore regionale Nicolò Marino. Per la procura di Caltanissetta la catena di fuga di notizie sarebbe stata alimentata da alcune talpe istituzionali che ora sono imputate. «Mentre noi lavoravamo di giorno, qualcuno di notte disfaceva le indagini», ha denunciato il pm Luciani durante la requisitoria fiume. Sotto la lente di ingrandimento dei pm la figura dell’ex presidente dell’Irsap Sicilia, Alfonso Cicero, parte civile nel processo, che avrebbe subito minacce e intimidazioni da Antonello Montante. In particolare Montante, secondo l’accusa, avrebbe voluto che Cicero firmasse una lettera con data retroattiva al 10 luglio 2014. «Nella stessa Cicero avrebbe dovuto dichiarare che l’azione di denuncia contro mafia e affari nelle aree industriali della Sicilia era frutto delle sue indicazioni», hanno detto i pm. La data della lettera doveva essere firmata prima del 10 luglio 2014, poiché quel giorno Cicero era stato audito dalla Commissione Antimafia nazionale. Tra le parti offese nel processo anche i giornalisti Attilio Bolzoni, Gianpiero Casagni, Enzo Basso e Graziella Lombardo di Centonove. Tutti cronisti che secondo l’accusa sarebbero stati spiati da Montante. Parliamo di un processo susseguito da cinque udienze essendo stato celebrato con il rito abbreviato, mentre gli altri imputati come l’ex capo dei servizi segreti Arturo Esposito, l’ex presidente del Senato Renato Schifani, il tributarista palermitano Angelo Cuva e l’ex capocentro della Dia di Palermo e il colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario.

Tommaso Rodano per “il Fatto Quotidiano" dell'8 marzo 2019. La reazione di una parte di Montecitorio è scomposta, imbarazzante. Come il messaggio che si legge in filigrana in alcuni interventi: "Con questa legge rischiamo di finire in galera tutti". Si parla delle nuove norme sul voto di scambio, approvate alla Camera dopo due giorni di dibattito furioso. Il testo (che deve tornare al Senato) prevede - in breve - l'inasprimento delle pene per i politici che accettano i voti dei mafiosi in cambio di denaro o altre utilità.

Fratelli d' Italia si è schierata con la maggioranza (M5S e Lega), LeU si è astenuta, Pd e Forza Italia hanno votato contro. Per i dem è una legge confusa, per i berlusconiani un affronto ideologico: con questa norma - sostengono - basta una stretta di mano sbagliata per essere condannati. Non è così, ovviamente, ma il risultato è un dibattito parlamentare bestiale. Ne pubblichiamo alcuni estratti.

Tutti in galera! "Mi trovavo sui marciapiedi di Milano a fare campagna elettorale per l'elezione del sindaco, 25 anni fa. Due giorni prima del voto mi avvicinò un tale sconosciuto e mi disse: signor Fatuzzo, io ho qui 200 mila voti, li vuole? Mi feci una grassa risata carnevalesca, anche se oggi è il giorno dopo Carnevale, dopodiché lo mandai delicatamente a quel paese, ma se fosse capitato adesso? Cioè, tutti quanti in campagna elettorale ricevono proposte, e mi promise anche un sacco di soldi, devo dire.  Domani rischiamo di trovarci tutti quanti a fare il Parlamento dentro la galera, in una sala apposita, perché il Parlamento possa funzionare ancora" (Carlo Fatuzzo, Forza Italia).

I kamikaze. "È un dibattito incardinato sui binari della miseria. Stiamo bestemmiando la verità. L' intermediario non ha la coppola e la lupara Le campagne elettorali così non si potranno più fare. Vi dimenticate i mercati. Chiunque farà il kamikaze dell'antimafia" (Giorgio Mulè, FI).

Il selfie. "Facciamo un esempio; io vengo eletto e successivamente viene imbastita una specie di congiura, in cui c' è qualcuno che dice che io avrei accettato questi voti. Ho diritto a sapere chi sia o posso con un selfie qualsiasi dare la prova di un contatto con un soggetto che non so neanche dove stia di casa? Si potrà disapplicare la legittima elezione di un parlamentare con un'accusa infamante" (Francesco Paolo Sisto, Fi). Selfie bis.

"Con questa norma non si avrebbe alcuno scampo rispetto a una cosa logica, cioè che se fai un selfie, se finisci in un ristorante di un mafioso, puoi non saperlo perché magari ti ci portano i tuoi militanti" (Roberto Giachetti, Pd).

Nulla saccio. "Chi come me, non ha mai fatto attività politica ed è al primo mandato da donna delle istituzioni, non sono tenuta a sapere se la persona che ho di fronte è o non è appartenente a un'associazione mafiosa" (Giusi Bartolozzi, FI).

A testa alta. "Si criminalizza un politico che va in campagna elettorale, che stringe mani, che parla con le persone. E che ne sa, se va in un paese, dentro un bar e una persona gli promette i voti, si prende i santini, e poi scopre che magari era un delinquente E se io dovrò essere chiamato in un'aula di tribunale con l'infamante accusa di associazione mafiosa, ci andrò a testa alta" (Salvatore Deidda, Forza Italia).

Lo strumento poderoso. "Noi stiamo consegnando nelle mani della criminalità organizzata uno strumento poderoso per selezionare scientificamente la classe politica" (Carlo Sarro, Forza Italia) Come scusi? "Voi (5Stelle) siete stati opera di moralisti senza avere la morale di poter dare la morale a noi" (Osvaldo Napoli, Forza Italia). Chi non salta. "Non si può non votare questo emendamento. Chi non lo vota, mafioso è, mafioso è!" (Vittorio Sgarbi, FI).

La politica bella. "Cari colleghi, la politica bella, la politica nobile è quella di stare in mezzo alla gente, è quella di servire la gente stiamo mandando al macello migliaia di nostri amministratori, che sono brave persone, non sapendo con chi evidentemente loro poi si possono relazionare. (Graziano Musella, FI).

Rolls Royce? "Io ricordo a voi tutti e ricordo anche ai colleghi del 5 Stelle che il voto di scambio fu istituito dalla Democrazia cristiana per combattere Achille Lauro, ma in galera poi ci andarono i democristiani" (Gianfranco Rotondi, FI).

E allora il reddito? "Mi viene in mente oggi il caso dei membri della famiglia Spada che hanno chiesto di poter accedere al reddito di cittadinanza si trovano in difficoltà ed è esigenza e interesse del clan sopravvivere anche avendo il reddito di cittadinanza. Allora, se hanno parlato con qualche esponente politico, se ottengono il reddito di cittadinanza è un interesse e un'esigenza con cui si aiuta la gestione mafiosa? Sì, sì! Avviene questo" (Felice D' Ettore, FI).

"Vi racconto mio padre Luigi Ilardo, boss e confidente tradito dallo Stato", scrive Salvo Palazzolo il 3 marzo 2019 su Repubblica Tv. Luigi Ilardo, autorevole capomafia della provincia di Caltanissetta, aveva deciso di cambiare vita: per un anno e mezzo passò informazioni importanti al colonnello Michele Riccio. Su mafia, politica e massoneria. Poi, il 10 maggio 1996, fu ucciso, a Catania. Una talpa nelle istituzioni, rimasta senza nome, aveva svelato il doppiogioco. “Qualcuno, all’interno dello Stato, aveva paura delle verità che mio padre poteva ancora rivelare", racconta Luana Ilardo, la figlia del boss confidente. "Voglio sapere chi l’ha tradito”.

Luigi Bisignani punta il dito: "Carriere straordinarie, che coincidenza". Nomi e cognomi: vergogna di Stato? Scrive il 20 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Le "strane coincidenze" sulle "carriere spettacolari". Sul Tempo, Luigi Bisignani affida al dialogo immaginario tra Giulio Andreotti e Francesco Cossiga un'amara riflessione sulla scalata nelle istituzioni di chi si è occupato di mafia e pentiti. "Non hai notato che al convegno organizzato da Angelo Chiorazzo nella Sala Zuccari, c'era il potentissimo ex capo della polizia, Gianni De Gennnaro, che ha gestito per anni i pentiti?", chiede "Cossiga". "Allora non passava per caso - aggiunge l'Andreotti di Bisignani -. Ora è nella vecchia Finmeccanica, oggi Leonardo, mi dicono che lì abbia un incarico anche Luciano Violante, per anni capo della Commissione Antimafia dove hanno sfilato tanti pentiti. Che coincidenza!". "Poliziotti e magistrati che si sono occupati di pentiti in Italia hanno tutti fatto carriere spettacolari - è la chiosa -. A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, come dicevi sempre tu". L'auspicio è che "questi giovanotti del governo del cambiamento e delle dirette Facebook aprano i cassetti" per scoprire come sono andate veramente le cose con i pentiti e come (e contro chi) sono state utilizzate le loro parole. "Potrebbe iniziare il ministro Salvini. Al Viminale era stato istituito uno speciale ufficio con gli elenchi di tutte le spese per i pentiti". "Un fiume di euro, senza rendiconti". "Parlano tanto di trasparenza, potrebbero cominciare da lì".

Caserta, arrestati gli imprenditori anti-camorra: «Collusi con i boss». I fratelli Diana sono figli di una vittima dei clan. Avevano fondato un’associazione, scrive Fulvio Bufi il 16 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Fino a ieri il nome dei fratelli Antonio e Nicola Diana — titolari con lo zio Armando di una delle più grandi aziende italiane per il riciclo della plastica, premiata anche da Legambiente — è sempre stato legato a un profondo impegno per la legalità. Figli di un imprenditore ucciso dalla camorra, ne hanno proseguito l’attività in un territorio della provincia di Caserta (Gricignano di Aversa) da sempre sotto il controllo dei clan casalesi, hanno offerto lavoro ai figli di altre vittime della criminalità organizzata, e si sono impegnati con una fondazione che ha sempre finanziato progetti legati ai temi dell’anticamorra, hanno stretto rapporti con importanti università e organizzato addirittura stage all’Onu per i giovani della loro terra.

Le iniziative. Imprenditori illuminati e coraggiosi e pure filantropi, insomma. Almeno all’apparenza. Perché da ieri i fratelli Diana e lo zio, che porta lo stesso cognome, sono in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, guidata dal procuratore Giovanni Melillo e dall’aggiunto Luigi Frunzio, i Diana facevano parte del cosiddetto «cerchio magico» di Michele Zagaria, l’ultimo grande boss dei casalesi a essere finito in carcere (nel 2011) dopo una lunghissima latitanza. Nel corso dell’indagine, affidata alla squadra mobile di Caserta, i pm napoletani hanno raccolto le dichiarazioni di nove collaboratori di giustizia (tra i quali anche l’ex superboss Antonio Iovine) che parlano dei Diana come di persone intoccabili, immuni da richieste di estorsioni da parte delle varie fazioni della camorra casalese, perché protetti direttamente da Zagaria, che li avrebbe avuti al proprio servizio per cambiare velocemente assegni e per ricevere somme di denaro cash ogni volta che il boss ne faceva richiesta.

Le ammissioni. Almeno tre dei pentiti hanno riferito non soltanto episodi di cui erano a conoscenza in virtù della loro appartenenza alla camorra, ma fatti e circostanze vissuti da diretti protagonisti. C’è un solo pentito che propone uno scenario opposto, ma è il cognato di Antonio Diana e le sue ricostruzioni non convincono i magistrati. Dalle carte dell’inchiesta emerge che nel 2016 Nicola Diana ammise con i pm che la sua famiglia fino al 2009 aveva versato denaro a Zagaria, ma solo sotto estorsione. Senza, però, spiegare perché, nonostante l’impegno anticamorra, non aveva mai denunciato.

Imprenditori antimafia collusi con clan Casalesi, 3 arresti. Le misure cautelari emesse dal gip sono state eseguite dalla Squadra Mobile della Questura di Caserta, scrive Martedì, 15 gennaio 2019 Affari Italiani. Da imprenditori antimafia a soggetti collusi con il clan dei Casalesi: è un vero e proprio fulmine a ciel sereno per le associazioni antimafia l'indagine della Dda di Napoli che oggi ha portato agli arresti domiciliari per concorso esterno in camorra, il 77enne Armando Diana e i nipoti Antonio e Nicola Diana, fratelli gemelli di 51 anni. Le misure cautelari emesse dal gip sono state eseguite dalla Squadra Mobile della Questura di Caserta. Antonio e Nicola sono figli di Mario, imprenditore edile ucciso nel 1986 dalla camorra e ritenuto vittima innocente, in quanto si sarebbe opposto - come accertato nella sentenza definitiva - alle richieste economiche delle cosche casalesi allora in ascesa; nel nome del papà, i gemelli Diana hanno creato una Fondazione che organizza eventi anti-camorra e ogni anno assegna delle borse di studio a giovani svantaggiati. Fino ad oggi, dunque, i Diana erano considerati imprenditori anti-clan; peraltro Antonio Diana è cognato del collaboratore di giustizia Michele Barone, ex fedelissimo del boss Michele Zagaria, ma neanche questa vicinanza aveva mai scalfito il ruolo di veri e propri testimonial della legalità; più volte i Diana, soprattutto Antonio, hanno denunciato l'illegalità diffusa nel Casertano e l'ingerenza della camorra nell'imprenditoria. Nel 2010 Legambiente nominò Antonio Diana ambientalista dell'anno. Nella loro azienda, i Diana hanno anche assunto Massimiliano Noviello, figlio di Domenico, imprenditore ucciso nel 2008 dai killer dell'ala stragista dei Casalesi guidata da Giuseppe Setola perchè aveva denunciato e fatto arrestare gli estorsori della camorra. Non solo, tra i dipendenti dei Diana figura anche il carabiniere che arrestò il sanguinario killer della fazione Bidognetti. Una posizione rilevante sul piano socio-economico e culturale che l'indagine della Dda di Napoli (coordinata dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio e dai sostituti Alessandro D'Alessio e Maurizio Giordano) ora mette in discussione. Per gli inquirenti i tre imprenditori avrebbero stretto già dagli anni '90 un patto criminale con i Casalesi, in particolare con il gruppo del boss Michele Zagaria, originario di Casapesenna come i Diana. Il patto avrebbe permesso ai Diana di godere di una protezione e di una tranquillità operativa tali da permettere loro di raggiungere una posizione imprenditoriale privilegiata; in cambio il clan avrebbe ottenuto dai Diana prestazioni di servizi e utilità, quali il cambio di assegni e la consegna sistematica di cospicue somme di denaro, necessarie ad alimentare le casse dell'organizzazione di Zagaria. Per gli inquirenti i Diana versavano somme al clan, non tangenti ma corrispettivo per i servigi resi. Come quando, proprio grazie all'intervento del clan, riuscirono ad evitare una richiesta di pizzo proveniente dalla famiglia camorristica Russo. Contestualmente alla notifica delle ordinanza, gli investigatori della Squadra Mobile hanno eseguito un decreto di sequestro preventivo di tutte le società, tuttora attive, riconducibili ai Diana, dislocate nell'agro aversano, nel capoluogo Caserta e nelle città di Napoli e Milano.

·         Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generalissimo lasciato solo da tutti.

«Risarcire i figli di Dalla Chiesa con i fondi per le vittime della mafia». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. È già suonato il tempo scaduto per la prescrizione decennale dell’azione civile, sosteneva il ministero dell’Interno tramite l’Avvocatura dello Stato: e argomentava che i tre figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso dalla mafia nel 1982) dovessero chiedere il risarcimento civile dei danni non patrimoniali solo al condannato boss Calogero Ganci (che però è nullatenente), e non avessero invece diritto di azionare anche la responsabilità solidaristica del «Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso», istituito dalla legge del 1999 appunto presso il Viminale ma con teorizzato accesso solo entro i limiti delle (scarse) disponibilità finanziarie annuali. E in primo grado nel 2018, davanti al Tribunale civile di Milano, il ministero si era visto dare ragione. Ma ora la II Corte d’Appello civile ribalta il diniego, e condanna il «Fondo», in solido con Ganci, a risarcire 400.000 euro a testa a Nando, Maria Simona e Rita Dalla Chiesa. Per l’omicidio del generale dei carabinieri assassinato da Cosa Nostra a Palermo in via Isidoro Carini la sera del 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, il 7 marzo 2003 era stato condannato, in concorso con Giuseppe Lucchese, il boss del quartiere «Noce» — e poi dal ‘96 collaboratore di giustizia — Raffaele Ganci, con sentenza che (divenuta definitiva l’11 maggio 2006) riconosceva nel contempo il risarcimento dei danni affidato a un separato giudizio civile, salvo una provvisionale subito di 60.000 euro. I giudici civili milanesi ora escludono che l’azione dei figli di Dalla Chiesa fosse già prescritta, obiettando al Ministero che essi non avrebbero potuto chiedere l’accesso al «Fondo» prima, in quanto prima non avrebbero ancora avuto i requisiti richiesti dalla legge. E accogliendo la lettura di taluni precedenti proposta dai legali Giuseppe Fornari e Maurizio Orlando, la Corte d’Appello osserva che, «in assenza di una norma che specificatamente impedisca al danneggiato di agire nel medesimo giudizio contro l’autore del reato, nulla osta che il “Fondo” sia condannato in solido con il reo», e «anzi ciò risponde a minimali esigenze di economia processuale» perché «per tutti agevola la difesa in unico contesto». Rimossi questi due principali ostacoli procedurali, è poi più semplice la valutazione della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale: «È indubitabile», scrivono infatti il presidente estensore Walter Saresella e i consiglieri Letizia Ferrari da Grado e Elena Grazioli, come i figli di Dalla Chiesa «in età ancora giovane abbiano subìto gravi sofferenze a seguito della tragica perdita del padre, eminente esponente delle istituzioni e ineludibile punto di riferimento e di impegno sociale per tutta la famiglia»; e abbiano patito «l’irreversibile distruzione del sistema di vita basato sull’affettività e sulla condivisione dei rapporti reciproci, sostituiti inconsultamente da vicende mediatiche non ricercate e potenzialmente devastanti». La quantificazione avviene in via equitativa sulla base dell’importo massimo (331.000 euro) previsto dalle tabelle dell’«Osservatorio 2018 sulla giustizia civile di Milano», maggiorato sino a 400.000 a testa (al netto dei 60.000 della vecchia provvisionale) per «l’efferatezza e gravità del crimine, la finalità, la risonanza mediatica, l’ampia fascia temporale richiesta per identificare i colpevoli, i prolungati stati di tensione e pressione emotiva subìti dai figli della vittima».

È salentino l'avvocato che ha ribaltato le sorti del processo Dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa, figli del generale ucciso dalla mafia. Fabiana Pacella il 29 Novembre 2019 su La Gazzetta del mezzogiorno. È salentino l’avvocato che ha sparigliato le carte del delicato processo culminato in appello, dopo 37 anni, col riconoscimento dello status di vittime innocenti di mafia ai i figli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa. “Mi lega a loro un’amicizia profonda e la condivisione di valori e battaglie per la legalità - spiega il professionista -, che ci hanno portato sempre a stare dalla stessa parte, quella della giustizia. In tutti questi anni ai figli del generale è toccato difenderne la memoria, in un Paese in cui talvolta ci si diverte a manipolare la realtà e crearne altre parallele e fantasiose, delegittimando e isolando. Ancora oggi combattono per raccontare il vero Dalla Chiesa, l’uomo dello Stato migliore, la figura rimasta nel cuore del popolo, cara all’Arma che lo ricorda in migliaia di foto appese ai muri di ogni caserma”. La II Corte d’Appello civile di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado con cui si sosteneva che l’azione per il risarcimento dei danni non patrimoniali spettante ai figli del generale assassinato da Cosa Nostra a Palermo nell’82, fosse esperibile solo nei confronti del boss condannato Calogero Ganci, nullatenente ça va sans dire, e non anche verso lo Stato con accesso al Fondo di Rotazione. Il Viminale ora dovrà ora risarcire per 400mila euro a testa, più gli interessi maturati dall’82 a oggi, i tre aventi diritto. Il primo intoppo si giocò sul terreno scivoloso dei tecnicismi e nacque sul nome, del fondo. Nel ’99 fu infatti istituito con apposita legge come “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso”. Tra i primi risarcimenti, accolto dal dissenso del movimento antimafia, quello alla figlia di Salvo Lima, accusato di essere referente politico di Cosa Nostra. “Si innescò una battaglia – spiega Fornari – per il cambio di denominazione in “Fondo di solidarietà per le vittime innocenti di mafia”, per sottolineare il ruolo e il sacrificio di chi la mafia l’aveva combattuta, come Dalla Chiesa. E così anche i suoi figli, costretti ad una prova più grande di loro, e alle conseguenze di una vicenda lacerante, dovevano essere riconosciuti vittime. Eppure, con una sentenza curiosa e un appiglio sbagliato l’istanza dei miei assistiti fu respinta, in primo grado”. Poi la vittoria di queste ore, che non è “economica ma morale”. Anche se un po’ d’amaro resta. Sullo sfondo come nell’anima. Da un lato per una pagina di storia fosca e dolorosa per l’Italia intera. Dall’altro “per il ruolo che lo Stato, attraverso certa politica di casa nostra, non ha mai riconosciuto a Nando dalla Chiesa, risorsa importante per lo studio e il contrasto alle mafie, voce importante nel mondo, ma non valorizzato in Italia. È come se la storia peggiore si ripetesse”. Oltre la toga il cuore. Anzi, prima quello, a far due conti. Quanto ci sia di salentino nelle arringhe di Giuseppe “Gippo” Fornari, 35 anni a Milano e centinaia di corse al fulmicotone per un saluto a Lecce a papà Giancarlo e mamma Marcella e un pasto caldo da dividere con loro, è presto detto: “ai miei ragazzi a studio dico sempre che alle capacità tecniche occorre aggiungere pathos, cuore, coinvolgimento. E questo è il bagaglio che mi sono portato da casa, da leccese, da salentino, da meridionale”.

Roma, Rita Dalla Chiesa: «Mio padre scomodo da vivo, e anche da morto». La figlia del generale Carlo Alberto, conduttrice televisiva, parla all’indomani della decisione di risarcire lei e i due fratelli con 400mila euro a testa per la strage del 1982. Virginia Piccolillo il 29 novembre 2019 su Il Corriere della Sera.

«Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato scomodo da vivo, scomodo quando è stato ucciso ed evidentemente è scomodo anche da morto».

Rita Dalla Chiesa, il Viminale — come anticipato dal «Corriere» — è stato condannato a risarcire lei e i suoi fratelli per la morte di suo padre, al pari delle altre vittime di mafia, ma lei sembra più amareggiata che soddisfatta. Perché?

Lo Stato si è dimenticato di noi».

Come è potuto accadere?

«Quando ti viene ucciso un padre, in quel modo, tenti solo di sopravvivere all’immane dolore e l’ultima cosa a cui pensi è il denaro. Quindi non abbiamo certamente chiesto se ci spettasse qualcosa. Ma in quell’elenco noi dovevamo esserci».

Invece?

«Scoprimmo che esisteva quel fondo perché ne fece richiesta la figlia di Lima. L’avvocato presentò la richiesta ma venne respinta perché, dissero, era passato troppo tempo. Ma l’omicidio del generale Dalla Chiesa non può essere prescritto!».

Chi bocciò la richiesta?

«Non lo so. Vorrei conoscerli. Un giovane carabiniere giorni fa mi ha detto: “Io indosso questa divisa per suo padre”. Nelle piazze, nelle scuole, ovunque vada sento ancora che lui è un simbolo. La gente non ha dimenticato. Noi allo Stato abbiamo chiesto solo giustizia è verità».

E l’avete avute?

«No. C’è una grossa ombra che incombe sulla sua morte. Non mi bastano i nomi di chi ha sparato. Voglio sapere chi, come, quando, perché ha deciso la sua morte. Mio fratello Nando non ha mai smesso di combattere per averla».

Dopo il suo omicidio molti dalle istituzioni vi hanno manifestato affetto.

«Molto apparentemente. I livelli alti no. Quando mio fratello Nando scrisse “Delitto imperfetto” dove faceva nomi e cognomi la Rai non gli aprì mai le porte. Per tutti era una responsabilità troppo grande. L’unico ad ospitarlo fu Maurizio Costanzo. Gli altri non volevano sapere, vedere, ascoltare».

Il capitano Ultimo su Twitter ha pubblicato una sua foto al funerale di suo padre. Cosa ricorda di quel giorno?

«Sì, una foto bellissima, in cui io stringo al petto il berretto di mio padre. Ricordo tutto. Bettino Craxi tornò da Hammamet e si sedette dalla parte della famiglia. Giulio Andreotti non c’era. Unico politico. A inviarlo a Palermo furono Giovanni Spadolini, Virginio Rognoni e lui che gli disse: ‘Mi raccomando non indagare sulle correnti politiche’ (che portavano a lui). Rognoni fu l’unico a chiederci scusa».

Lei ha lavorato a lungo per le tv di Silvio Berlusconi. Che effetto le fa vederlo sotto accusa in inchieste di mafia?

«A lui devo una gratitudine immensa. Un anno dopo la morte di mio padre mi disse: “Di qualunque cosa abbia bisogno, chieda”. Questa cosa mi colpì. Non gli chiesi mai nulla. A Mediaset per Forum mi chiamò Arrigo Levi. E gli ascolti sono sempre stati alti. Ma posso dire che non ho mai subìto pressioni o richieste. Poi, la vita di tutti è un punto interrogativo».

Perché Dalla Chiesa è stato dimenticato? Il Generale di Carabinieri venne ucciso a Palermo 37 anni fa, abbandonato dallo Stato. E oggi la sua figura vive un inspiegabile oblio. Lorenzo Del Boca il 3 settembre 2019 su Panorama. Tre settembre 1982, in via Carini, a Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa venne inchiodato da una scarica di pallettoni di kalashnikov. Per tutti era «il generale dei carabinieri» anche se, da qualche mese, si era congedato per assumere l’incarico di prefetto in quell’angolo di Sicilia dove lo Stato - sembrava - aveva ceduto il passo alle bande dei mafiosi. Già da allora, le cronache risultarono scrupolose fino al dettaglio. Gli orologi segnavano le 21,15; a sparare fu un fucile a pompa AK-47; l’auto della vittima era una A112 e lui viaggiava sul sedile di destra. Da subito, si sostenne che si trattava del «delitto più grave della storia della Repubblica». Ma trascorsa la prima ondata di emozione, accompagnata dalla consueta rissa (abbastanza indecorosa) per appropriarsi del morto e della sua fama, Carlo Alberto Dalla Chiesa è finito sepolto nella categoria dei dimenticati. Ingombrante memoria. Niente a che vedere con le celebrazioni plurime e ripetute - ancorché meritate - che, puntualmente vengono dedicate a Falcone, Borsellino, Chinnici e, genericamente, ai «mortammazzati» della mafia. Persino il ricordo pubblico dei familiari sembrerebbe ingombrante. Mentre i parenti di alcune vittime illustri rappresentano - giustamente - una testimonianza di legalità contro i poteri malavitosi, i Dalla Chiesa sono stati presto ricacciati nella privatezza dello loro rispettive professioni. Eppure, al generale-prefetto non mancava niente per essere celebrato. Si poteva persino sostenere che aveva militato con gli antifascisti della prima ora. Nei giorni dell’armistizio dell’otto settembre 1943, prestava servizio nelle Marche. Collaborò con le bande partigiane al punto da finire nella lista nera dei nazisti. Prima che le SS potessero catturarlo, riuscì a fuggire e a entrare nella brigata «patrioti piceni». Alla fine della guerra, gli conferirono il «distintivo dei volontari della guerra di liberazione». Le tradizioni di famiglia indossavano la divisa dei carabinieri. Generale il padre Romano e generale il fratello Romolo. Carlo Alberto Dalla Chiesa era un militare da capo a piedi ma, al rigore della divisa, aggiungeva l’intelligenza dell’intuito. I suoi metodi non piacevano a tutti (nemmeno all’interno dell’Arma). Non era un ufficiale di routine ma proprio quel suo badare al sodo gli consentì di ottenere risultati significativi. Quando c’era qualche grana da sbrogliare, in un modo o nell’altro, dovevano ricorrere a lui. Nella lotta contro il terrorismo rosso, per esempio. Per anni, larghe particelle dello Stato si sforzarono di minimizzare la portata del fenomeno. Gli uomini che sparavano e uccidevano sarebbero stati parte di «sedicenti brigate rosse» o - ancor più inquietante - «compagni che sbagliano». Sembrò che la rivoluzione violenta fosse non solo legittima ma, addirittura, auspicata con il risultato che le due formazioni eversive in attività nel 1969 diventarono 91 nel 1977 e 269 nel 1979 quando «firmarono» 659 attentati. Le Bierre che, nel progetto originario di Renato Curcio e Alberto Franceschini, si erano poste dei limiti nell’uso delle armi, alzarono il tiro con il dichiarare guerra allo Stato. L’evidenza di questo diverso atteggiamento determinò l’attentato nel corso del quale venne preso prigioniero Aldo Moro, destinato ad essere ucciso e abbandonato nella Renault rossa, a Roma, in via Caetani. Chi poteva fermarli? Per affrontarli venne scelto Carlo Alberto Dalla Chiesa, autoritario, coraggioso, eccellente organizzatore, determinato fino ad apparire testardo, che si circondò di una squadretta di uomini opportunamente selezionati ai quali, per raggiungere lo scopo prefisso, dettò la regola fondamentale: «Per batterli, occorre entrare nella testa dei terroristi nel senso che da adesso dobbiamo pensare come loro». Ci vollero anche migliaia ore di lavoro, intuizioni geniali e un briciolo di fortuna. Non sempre gli organi di stampa e l’opinione pubblica si resero conto immediatamente dell’importanza di certe catture tanto che metà dei dirigenti delle Brigate Rosse finì in carcere senza che le autorità ne avessero esatta consapevolezza. Dalla Chiesa inventò la figura del «pentito» e, promettendo sconti di pena al limite dell’impunità, convinse Patrizio Peci, uno dei colonnelli dell’esercito rivoluzionario, a saltare il fosso e a collaborare con gli inquirenti. Con quello, fu scacco matto. Ovvio che, immaginando un personaggio capace di limitare il potere mafioso che stava dilagando, pensassero a lui. Fu l’allora ministro degli interni Virginio Rognoni a proporgli l’incarico di prefetto con sede a Palermo. Dalla Chiesa accettò solo quando gli assicurarono che sarebbe stato dotato di speciali poteri. Inevitabile il rimando a un altro prefetto «di ferro», Cesare Mori, che una cinquantina d’anni prima, era stato inviato a Palermo con uguale proposito e identiche intenzioni. Carlo Alberto Dalla Chiesa era rimasto vedovo di Dora Fabbo, madre dei suoi tre figli e, quasi in concomitanza con il suo trasferimento a Palermo, si risposò con Emanuela Setti Carraro, una ragazza di 32 anni della buona borghesia milanese, infermiera, una trentina d’anni più giovane di lui. Una volta in Sicilia, Dalla Chiesa dovette prendere atto che i vertici dello Stato non stavano mantenendo alcuna promessa e, di fatto, dal momento della nomina (6 aprile 1982) lo lasciarono solo. Si lamentò: «mi hanno mandato a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». Eppure, con il niente che aveva a disposizione, riuscì a impensierire i mafiosi. Collaborando con polizia e carabinieri, riuscì a mettere insieme un documento (passato alle cronache come «il dossier dei 162») nel quale indicava le «famiglie» malavitose della città. Si mosse con la consueta disinvoltura, senza guardare in faccia nessuno e senza badare alle «sensibilità» che andava toccando. Quando, per esempio, dichiarò che «la mafia è forte a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo». Azzardò che «con l’evidente consenso della “cupola” palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi lavorano a Palermo». Domandò: «Potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?». Se ne risentirono i cavalieri del lavoro Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Geraci e Francesco Finocchiaro titolari, per l’appunto, di imprese di costruzione e l’allora presidente della regione Mario D’Acquisto si sentì in dovere di chiedere una «specificazione» per quelle dichiarazioni. Dalla Chiesa aveva agitato troppo le acque. A fine agosto, una telefonata anonima ai carabinieri (fatta probabilmente dal boss Filippo Marchese) avvertì che «l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa». Quando il 5 settembre, una seconda telefonata, al giornale La Sicilia, sentenziò «l’operazione Carlo Alberto è conclusa», il generale-prefetto era già stato sepolto. Al funerale una folla immensa digrignò i denti nei confronti dei politici e applaudì soltanto il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Un attentato di quella portata poteva essere decretato unicamente dal plenum dei vertici mafiosi. Per l’omicidio Dalla Chiesa, come mandanti, furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Ma per il resto, come rileva la motivazione della sentenza, «persistono ampie zona d’ombra». Dalle carte processuali, sembrerebbe che gli autori materiali del delitto siano stati Pino Greco e Antonino Madonia. Calogero Ganci sarebbe stato al volante della Bmw usata per l’agguato. Ma, periodicamente, spunta un pentito che mette in discussione le ricostruzioni dei magistrati. Un certo Simone Canale, per esempio, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli (prima), pentito (poi) e ritenuto inaffidabile (infine), rivelò che Nicola Alvaro «’u zoppu» era presente all’omicidio. I fascicoli processuali non possono che dare conto di come «le carte che riguardano il generale Dalla Chiesa rappresentano la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste e manipolate». Occorre altro per sostenere che il ricordo è faticoso? E che è meglio dimenticare?  

L'ultima estate calda del generalissimo lasciato solo da tutti. Luca Fazzo, Sabato 10/08/2019, su Il Giornale. Mancavano poche settimane alla sua morte. Nell'agosto 1982 i grilli e le cicale facevano da colonna sonora all'ultima estate di Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo. Nella grande casa colonica che il generale aveva voluto comprare e ristrutturare, superando le resistenze della moglie, a Prata di Principato Ultra, sulle colline irpine, si ritrovava la famiglia allargata dell'uomo che aveva sconfitto le Brigate Rosse: le figlie Rita e Simona, il figlio Nando, i nipotini. I ricordi di Nando offrono squarci di serenità: le partite di pallone, le magliette di Italia e Brasile comprate dal nonno. Ma se poi si chiede a Nando «te lo sei goduto, tuo padre, in quell'ultima estate?» la risposta gela il sangue. «No. Fu un estate terribile. Si capiva benissimo che sarebbe finita in quel modo. Lui era disperato e inferocito, un leone in gabbia. Chiamava, chiamava, e nessuno gli rispondeva. Nemmeno De Mita, che abitava a pochi chilometri. Chiedeva appoggi, mezzi, qualunque cosa che lo facesse sentire meno solo nella missione che gli avevano rifilato mandandolo a Palermo. Niente». Le vacanze del figlio di un carabiniere sono le vacanze di un apolide, di un bambino e poi di un ragazzo costretto a seguire gli spostamenti del padre. «Nei cinque anni del liceo cambiammo quattro volte città. Le vacanze le passavamo a prepararci al nuovo trasloco e alla nuova scuola. Papà faceva quel che poteva per ammorbidire l'atterraggio, organizzava gli amici che ci venivano a trovare per farci sentire meno soli. Era un padre molto attento». Invecchiando, come a volte accade, Nando inizia a somigliare a Carlo Alberto. Non ha più i baffi, che si era fatto crescere quando era stato arruolato come ufficiale di complemento nei carabinieri, «e quando andavo a fare ordine pubblico mi davano un po' di autorevolezza». L'ingresso del figlio, anche se solo per la naja, nell'Arma aveva tranquillizzato il colonnello, inquieto come tutti i padri dell'epoca sulle tentazioni cui il vento di ribellione di quegli anni esponeva il figlio. «Ma quando a diciott'anni volli andare a vivere da solo a Milano per iscrivermi alla Bocconi, lui, con stupore dei miei amici, aveva detto di sì. Unica condizione: non farti crescere la barba». L'inizio e la fine, nelle vacanze dei Dalla Chiesa, hanno luoghi precisi: Mondello, la spiaggia di Palermo; e, venticinque anni dopo, la casa di Prata, «con le sue incredibili notti stellate e i due carabinieri della scorta che dormivano al pian terreno». A Palermo, Nando e le sue sorelle scendevano da Milano appena finita la scuola, «accompagnati dall'attendente di mio padre, che era siciliano. A Palermo c'era il nonno materno, Ferdinando Fabbo, anche lui ufficiale dell'Arma, che dopo il congedo era rimasto a vivere in Sicilia dove una figlia si era sposata. Per mio padre e mia madre, la vacanza vera forse erano i giorni in cui restavano a Milano, senza doversi più occupare di noi. Poi, a Ferragosto, anche i miei genitori scendevano. Il primo ricordo di papà in vacanza è lì, sulla spiaggia di Mondello. Nuotare gli piaceva, ma non ricordo di averlo mai visto in costume. Un ufficiale dei carabinieri, all'epoca, non andava in giro in mutande da bagno». Fu in quelle estati palermitane che il figlio imparò dal padre cos'era la mafia. «Mi accompagnava a vedere i villini di viale della Libertà che venivano fatti saltare uno dopo l'altro con l'esplosivo per fare largo al sacco di Palermo. Mi indicava le auto posteggiate che venivano distrutte per convincere i proprietari a usare i garage di proprietà dei clan: non era solo per i soldi, serviva a controllare il territorio, sapere chi andava e veniva». Al nord, durante l'anno, era l'epoca in cui Dalla Chiesa scalava i gradi. Il terrorismo era ancora di là da venire, la famiglia abitava nella caserma milanese di via Moscova. Nando giocava a pallone nell'oratorio di Sant'Angelo, e il padre ogni tanto andava a guardarlo di soppiatto. «Il calcio era una sua grande passione, da ragazzo aveva anche giocato nelle giovanili dell'Atalanta, poi si era rotto una gamba e aveva dovuto smettere. Essendo l'unico figlio maschio, ero il suo complice predestinato per andare alla partita. Si andava all'Arena, dove si giocava in notturna, e mi ricordo il Santos di Pelè, questo gioco fantastico di palloni alti. Io ero milanista. Ma nel pieno di una epidemia di influenza si giocò un Milan-Atalanta. L'Atalanta era decimata, chiese di rinviare la partita, il Milan si oppose, giocò, e ovviamente vinse 5 a 1. Mio padre era scandalizzato. Mi costrinse a diventare interista». Il rito delle vacanze siciliane, in quegli anni si interrompe una volta sola. «Nel 1961 mio nonno Ferdinando, che aveva fatto entrambe le guerre mondiali, volle portare la famiglia sui luoghi della Grande Guerra nel centenario dell'Unità d'Italia. Andammo dove il nonno aveva combattuto, sul Piave, sull'Isonzo. Fu un viaggio lungo e carico di emozioni, per noi e soprattutto per papà, che nei confronti del nonno e del suo vissuto aveva una sorta di devozione». Il sogno della casa di Prata prende forma negli anni di fuoco del terrorismo, gli stessi in cui Dalla Chiesa fonda il reparto speciale che sgominerà il nucleo storico delle Br. Il generale è nel mirino, i suoi colleghi vengono ammazzati uno dopo l'altro. Proprio per quello nasce in Dalla Chiesa il bisogno di un luogo dell'anima, un ritiro dove tirare il fiato: e sceglie a Prata, che era il paese di suo suocero, il rudere che diventerà Villa Dora. «La vacanza vera per lui non era il mare, non era la montagna dove in quegli anni non mettemmo piede una volta. La sua vacanza era la campagna, perché suo nonno era di Fornovo, nel Parmense, e con i fratelli le estati le passavano lì, tra birichinate e giochi nei boschi. Questo clima lo aveva cercato di ricreare a Prata. La felicità per lui erano delle famiglie di amici che si trovano, mangiano, parlano tra di loro mentre i bambini scorrazzano in giro». Ma l'estate del 1982 non fu un'estate felice. «Addosso c'era quella sensazione di tragedia incombente. Per tenerci su pensavamo: non possono ammazzarlo davvero, sarebbe troppo scoperto, troppo firmato. Ci sbagliavamo. Il 20 agosto papà scese a Palermo a commemorare il colonnello Russo, che era stato ucciso cinque anni prima alla Ficuzza, e subito infangato in ogni modo. Papà ritornò dalla cerimonia e disse: mi sono impappinato. Il 26 agosto ci salutammo, il 3 settembre uccisero lui ed Emanuela. Lo stesso giorno era uscito il Mondo con una intervista al sottosegretario all'Interno che diceva: Dalla Chiesa? Un prefetto come gli altri». Luca Fazzo

·         Federica Angeli: i segreti di una star.

Cosa accomuna i cosiddetti scrittori antimafia, oltre che avere una scorta ed un successo editoriale artefatto dalla propaganda di regime? Essere di sinistra.

Federica Angeli e le fake news su CasaPound, clan e il voto di Ostia. Davide Romano il 7 Novembre 2017 su Il Primato Nazionale. A sinistra il 9% preso da Luca Marsella di CasaPound alle elezioni del X Municipio di Roma proprio non è andato giù. Le tendenze sono due: c’è chi sminuisce il risultato delle tartarughe, sostenendo che la scarsa affluenza abbia falsato le elezioni e accusando i media di “pompare” il risultato, e chi invece grida al pericolo per la democrazia provocato dall’avanzata dei “fascio-mafiosi”. Federica Angeli, la Roberto Saviano del litorale romano che alla fine di ogni ragionamento ci ricorda che vive sotto scorta, appartiene sicuramente alla seconda categoria. Per lei, come ribadito questa mattina ad Agorà su Rai Tre, la spiegazione del successo elettorale di CasaPound è giustificabile unicamente con “l’accordo con i clan che comandano a Ostia”, con riferimento particolare alla famiglia Spada. Alla base di questo “sodalizio” ci sarebbe una famosa foto di Roberto Spada, incensuratoe gestore di una palestra ma fratello di Carmine, il “boss” del clan, con Luca Marsella e un post di Facebook sempre di Roberto Spada in cui si sostiene che CasaPound sia l’unico movimento a farsi vedere a Nuova Ostia, il quartiere in cui vive, anche lontano dalle elezioni (tesi tra l’altro difficilmente smentibile). Viene da chiedersi: da quando gli accordi “segreti” tra politica e mafia si fanno attraverso i post di Facebook? Nel 2013 esponenti della famiglia Spada dichiararono di votare per i 5 Stelle, perché allora non si parlò di “sodalizio elettorale”? E soprattutto, a cosa dovrebbe portare un “sodalizio elettorale” con una forza politica come CasaPound, che oggettivamente aveva ben poche chance di vittoria e in ogni caso con una forte ipoteca ideologica, che lo rende “inaffidabile” dal punto di vista affaristico criminale? Quali “affari” si fanno con un singolo consigliere d’opposizione in un municipio di Roma? Ma se queste sono obiezioni concettuali, a smentire il teorema di Federica Angeli ci pensano i numeri. Per semplificazioni giornalistiche in campagna elettorale si è parlato di “elezioni di Ostia”, quando in realtà era il X Municipio di Roma ad andare al voto. Il X Municipio di Roma conta 230 mila abitanti, suddivisi in undici quartieri. Di questi solo un terzo vivono ad Ostia, che conta circa 80 mila abitanti. Gli esponenti della famiglia Spada vivono a Nuova Ostia, il quartiere della famosa “piazza Gasparri” resa “celebre” da pellicole come “Amore Tossico”, che conta tra i 2000 e i 3000 appartamenti, quindi, facendo un rapido calcolo, meno di 10 mila abitanti. L’operazione “Sub Urbe” sempre citata dalla Angeli, che ha portato ad alcune condanne in primo grado per esponenti degli Spada accusati di gestire il racket delle case popolari, fa riferimento proprio alle abitazioni di Nuova Ostia. Anche se il mondo fosse quello immaginato da Federica Angeli, dove i circa diecimila abitanti di Nuova Ostia sono in realtà dei robot controllati dagli Spada, può una zona che rappresenta meno di un ventesimo del totale degli abitanti di un municipio aver determinato un’elezione? Molto difficile. E i voti di CasaPound escono tutti da Nuova Ostia? I numeri dicono l’esatto contrario. E’ ad Acilia, e in particolare al villaggio San Giorgio, che Luca Marsella fa registrare il dato elettorale più alto, con punte del 21%. Per chi non conosce la geografia del X Municipio di Roma, basti pensare che la distanza con piazza Gasparri è di 12,3 Km. Si tratta praticamente di un altro “comune”. Ma Luca Marsella ha preso percentuali importanti in tutti i quartieri del X Municipio di Roma, anche quelli non popolari. E’ stato il direttore dell’Espresso Marco Damilano, in diretta da Mentana, a leggere il dato del 17% ottenuto da CasaPound in una sezione dell’Infernetto, in via Casale. In generale il dato in quello che non è un quartiere popolare, ma residenziale, è del 12%. Sopra la media del 9. C’è poi il 15% preso in via Visconti e corso Duca di Genova a Ostia centro, anche qui non case popolari, per non parlare del 10% preso in diverse zone del “quartiere bene” di Casal Palocco. Nella tanto vituperata Nuova Ostia CasaPound si avvicina al 20%, ma è un dato in linea e leggermente inferiore a quello di un altro quartiere popolare come il villaggio San Giorgio di Acilia e non troppo più alto di altre zone. Il risultato di CasaPound è dunque figlio esclusivamente del radicamento sul territorio, con buona pace delle Federica Angeli di turno, che senza il teorema vittimario alla Saviano non possono garantirsi le scorte e le ospitate nei talk, così determinanti per la propria carriera. Le elezioni sono fatte di numeri. E i numeri smentiscono chiaramente le fake news delle Federica Angeli di turno. Davide Romano

Bufera dopo l'intervista a Manuel Bortuzzo. I genitori: "Cronista in stanza senza autorizzazione". Scoppia la polemica dopo l'intervista di Federica Angeli, di Repubblica, a Manuel Bortuzzo. La cronista: "Sono stupefatta e allibita". Rachele Nenzi, Lunedì 11/02/2019 su Il Giornale. Scoppia la polemica dopo l'intervista di Federica Angeli, cronista di Repubblica, a Manuel, il giovane raggiunto da colpi di pistola a Roma. "Manuel non è uno scoop, non è trofeo da esibire, nè un selfie da pubblicare sulle pagine di un giornale. È un giovane che sta lottando con tutte le sue forze per riprendersi la sua vita", dicono i genitori di Manuel Bortuzzo. Il post critico è apparso sulla pagina Facebook 'Tutti con Manuel'. "Grazie a tutti per l'interesse dimostrato in questi giorni", scrivono Franco e Rossella Bortuzzo. "Le condizioni di Manuel sono in continuo miglioramento anche se la prognosi resta ancora riservata. Manuel è felicissimo e sorpreso dell'affetto che lo circonda e che fino a ieri è stato manifestato con correttezza e rispetto. Purtroppo - attaccano - in un momento di nostra assenza, senza alcuna autorizzazione da parte nostra o dell'ospedale, Manuel si è trovato in stanza una signora (accompagnata fino al suo ingresso da un uomo della scorta), con cui si è intrattenuto a parlare pensando che fosse una scrittrice in visita e non che avrebbe pubblicato su un quotidiano un articolo sulla sua vicenda, nè tanto meno il selfie poi scattato. L'autorizzazione all'ingresso in stanza da parte di un'infermiera sarebbe stata data alla signora Federica Angeli del quotidiano "la Repubblica" qualificatasi come amica di Manuel. Io, Rossella Corona Bortuzzo, sono entrata successivamente in stanza, quasi al termine della chiacchierata. Ho chiesto alla signora chi fosse e si è qualificata dell'antimafia. Manuel non è uno scoop, non è trofeo da esibire, nè un selfie da pubblicare sulle pagine di un giornale. È un giovane che sta lottando con tutte le sue forze per riprendersi la sua vita. Chiediamo il dovuto rispetto - concludono i genitori - come stanno tenendo tutti gli altri giornalisti cui abbiamo riferito successivamente delle condizioni di Manuel portando loro i suoi saluti e delle dichiarazioni rilasciate con trasparenza con finalità di pubblicazione". Non ci sta però la cronista di Repubblica. "Sono stupefatta e allibita - scrive Angeli su Facebook - dalle considerazioni dei familiari di Manuel contenute nel post pubblicato sulla pagina di Manuel e dalle altre contenute nel messaggio precedente su quella pagina. Hanno dato la stura ai peggiori insulti verso una giornalista che come tale ha in maniera del tutto trasparente dichiarato le proprie generalità e il proprio intento di raccogliere la storia di Manuel dalla sua voce". Diversa infatti la versione della giornalista: "È andata esattamente come ho scritto in questo articolo: ho pregato un'infermiera di consegnare il mio libro a Manuel dichiarando di essere Federica Angeli di Repubblica e lui ha chiesto di incontrarmi, conoscendo la mia storia per il tramite della sua ragazza. Punto. Il resto potete leggerlo nel resoconto che ho scritto per Repubblica. Le speculazioni non mi appartengono. Senza alcun risentimento nei confronti dei coniugi Bortuzzo, comprendendo l'emotività del momento sento però la necessità di tutelarmi pubblicamente da ingiurie, offese e ricostruzioni completamente lesive della mia dignità umana e professionale".

La fine della polemica tra Federica Angeli e la famiglia Bortuzzo. Nextquotidiano.it il  12 Febbraio 2019. Ieri abbiamo raccontato della polemica tra Federica Angeli di Repubblica e la famiglia di Manuel Bortuzzo scoppiata dopo la pubblicazione di un articolo di Repubblica in cui la giornalista antimafia raccontava di un suo incontro con il ragazzo vittima suo malgrado di una sparatoria all’AXA. Il primo a parlare è Paolo Barelli, onorevole di Forza Italia e presidente della Federnuoto:

La giornalista era autorizzata alla pubblicazione di quel racconto? Ha fatto bene Repubblica (fresca di nuovo direttore) a mettere la foto di un ragazzo ancora in prognosi riservata? Per i genitori di Manuel assolutamente no. Per Paolo Barelli, l’azzurro presidente della Federnuoto che sta aiutando la famiglia Bortuzzo in questo difficile momento cercando, perfino, di “smistare” il carico delle richieste di stampa e curiosi, no e poi no. «Io non sono il portavoce della famiglia, ma la giornalista ha sbagliato e del resto basta leggere cosa hanno scritto i genitori», dice.

Libero però parla anche con Federica Angeli, che dopo il post di ieri spiega altri dettagli della vicenda, rispondendo alle accuse contenute nel post: «Se mi sono qualificata? Certo, ho detto all’infermiera chi ero e ho spiegato: “Vorrei dare il mio libro a Manuel”. Lei mi ha portato nella stanza e Manuel mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Abbiamo parlato. Lui mi ha confidato che aveva sentito parlare di me dalla sua fidanzata, Martina. Volevo fargli capire che non è cambiato niente, nonostante le mie denunce, che sul litorale si continua a sparare». Per questo hai detto che sei dell’Antimafia?, le chiediamo. «Ma ti pare? Ho detto sono una giornalista che da anni combatte la mafia a Ostia. È ben diverso».

Eppure, il post della mamma parla chiaro. «Mi dispiace molto. Pensare che ci siamo abbracciate e siamo uscite insieme dalla camera di Manuel. Lei si è commossa leggendo la dedica sul libro. Poi uscendo dal reparto gli altri cronisti mi hanno visto e si sono lamentati con Barelli, lui se l’è presa con me, mi ha accusato di avere girato video con il telefonino, ma non è vero niente e domani (oggi,ndr) vado a querelare». Querelerai anche i Bortuzzo? «No, comprendo la loro emotività e faccio il tifo per Manuel».

Ieri avevamo fatto notare come due diverse interviste a Manuel Bortuzzo erano uscite su Corriere e Messaggero senza lamentele di sorta da parte della famiglia. Ecco, la chiave della storia è tutta qui.

"Rischio il processo per un post". Il vignettista denunciato dalla Angeli per un un commento su Twitter. Pier Francesco Borgia,  Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. Finire sulla graticola, non per una vignetta irriverente o per un articolo al vetriolo, ma «semplicemente per ingenuità». Questo è successo al vignettista Alfio Krancic chiamato in giudizio dalla giornalista di Repubblica Federica Angeli per un commento su Twitter in calce a un post di Alessandro Meluzzi.

Com'è andata?

«C'era questo collage di foto della Angeli che non le rendeva giustizia (primi piani non proprio benevoli) e lì per lì ho fatto un commento poco gentile. Sono pentito due volte!»

Perché due volte?

«Perché ho scritto di getto un commento che non dovevo scrivere. E poi perché non ho usato un emoticon per sigillare il commento».

Avrebbe reso chiaro il tono scherzoso?

«Ovviamente. Tanto è vero che la stessa Angeli lì per lì sembrava essere stata al gioco proprio con una risposta spiritosa corredata di emoticon».

Ed è per la sua risposta che non ha dato peso al battibecco su Twitter?

«Sì, quando ho ricevuto la citazione in giudizio è stata una vera doccia fredda. Se mi avesse subito risposto piccata e offesa, mi sarei adoperato per chiederle scusa, con mazzi di fiori e invitandola a cena e farle capire la mia buona fede».

E pensare che proprio lei di minacce e diffamazioni sui social ne ha già ricevute tante.

«I primi tempi reagivo. Mettevo in mezzo gli avvocati e denunciavo. Poi la fatica è diventata troppa e ho smesso. Solo quando si tratta di minacce di morte mi preoccupo ancora di difendermi».

La stessa Angeli è assediata da quelli che chiama «leoni da tastiera» che con le querele diventano «agnellini».

«Ha ragione, ma nello specifico non mi piace entrare nella categoria degli agnellini. Di una cosa sola sono colpevole».

Quale?

«Di ingenuità. Ho sottovalutato il mezzo (Twitter, ndr). Confido ancora che la cosa si possa risolvere in maniera extragiudiziale. E lo spero proprio».

Lei che vive di satira che lezione ha tratto da questa situazione?

«Che i tempi sono difficili e non solo per la satira ma anche perché bisogna usare i social con molta attenzione. D'altronde non viviamo soltanto nella dittatura del politicamente corretto ma anche in una sorta di dittatura dell'autocensura. Un clima che fa paura».

·         Paolo Borrometi: i segreti di una star.

Cosa accomuna i cosiddetti scrittori antimafia, oltre che avere una scorta ed un successo editoriale artefatto dalla propaganda di regime? Essere di sinistra.

“Dobbiamo colpirlo”: il giornalista Paolo Borrometi nel mirino della mafia. Le Iene il 14 dicembre 2019. Ismaele La Vardera, nel servizio in onda domenica a Le Iene, incontra il giornalista siciliano Paolo Borrometi, che vive blindato e sotto scorta perché la mafia lo vuole morto. E si deve anche difendere da un onorevole che cerca di infangarlo. “Gran pezzo di merda, ti dico una cosa così almeno la smetti: ti vengo a cercare fino al culo di tua madre o di tua moglie e ti spacco il culo con le mani, giuro che con due pugni in faccia ti mando all’ospedale.  Nomina nuovamente mio fratello e ti vengo a cercare fino a casa. E ti massacro”. A pronunciare queste minacce è il fratello di un noto capomafia di Siracusa e il destinatario è il 36enne scrittore e giornalista siciliano Paolo Borrometi. Un cronista in primissima linea contro la mafia, di cui ci racconta domenica sera a Le Iene Ismaele La Vardera. Paolo Borrometi, che oggi vive blindato e sotto scorta, cinque anni fa è già stato aggredito nella sua casa di campagna. “Avevano una sorta di sottocasco completamente nero. Mi presero questo braccio , me lo girarono dietro la schiena tirandolo violentemente, mi diedero dei calci… E poi dissero ‘se non ti fai i cazzi tuoi questa è solo la prima’”. Borrometi, per avere raccontato i traffici dei clan mafiosi della zona, ha “collezionato” oltre 150 denunce per minacce di morte e violenza privata, fino al ritrovamento di due molotov destinate a lui. Ma qualcuno è arrivato addirittura ad accusarlo di avere inventato quelle minacce, per ottenere “il privilegio” della scorta. “Vivere con cinque uomini ogni giorno e non potere andare al mare, al cinema, non potere avere una vita privata, non potere neanche abbassare il finestrino mentre stai in macchina, ma che privilegio è?”

Minacce della mafia e accuse dei politici: Borrometi, giornalista sotto scorta. Le Iene il 16 dicembre 2019. Ha dovuto lasciare la sua famiglia e la sua Sicilia, minacciato di morte dalla mafia per le sue inchieste scomode. Ismaele La Vardera ci racconta la storia di Paolo Borrometi, giornalista che deve difendersi anche dalle accusedi un deputato della regione Sicilia, di cui ha parlato nelle sue inchieste Ismaele La Vardera incontra il giornalista siciliano Paolo Borrometi, sotto scorta per le gravissime minacce di morte della mafia. Minacce che gli arrivano da quando si è occupato degli affari dei clan, soprattutto del Siracusano, e che fioccano in tutti i modi, anche via WhatsApp. Tipo: “Gran pezzo di merda, ti dico una cosa così almeno la smetti: ti vengo a cercare fino al culo di tua madre o di tua moglie e ti spacco il culo con le mani, giuro che con due pugni in faccia ti mando all’ospedale. Devo perdere il nome mio se non ti prendo la mandibola e te la metto dietro. Nomina nuovamente mio fratello e ti vengo a cercare fino a casa. E ti massacro”. A mandargli questo messaggio vocale è il fratello di un noto capomafia di Siracusa, che evidentemente non ha gradito le inchieste di Borrometi sul suo clan. Il giornalista, oggi anche vice direttore dell’agenzia Agi, cinque anni fa ha già subito una aggressione di stampo mafioso, nella sua casa di campagna a Modica. “Avevano una sorta di sottocasco completamente nero. Mi presero questo braccio , me lo girarono dietro la schiena tirandolo violentemente, mi diedero dei calci… E poi aggiunsero una frase inequivocabile: “Se non ti fai i cazzi tuoi questa è solo la prima’”. Paolo, che ha raccontato i traffici dei clan mafiosi della zona, ha “collezionato” oltre 150 denunce per minacce di morte e violenze private, fino anche a ritrovare alcune molotov destinate a lui. Una battaglia ardua, per questo cronista costretto a fuggire dalla sua famiglia e dalla sua isola, per rifugiarsi a Roma, sotto scorta. Sì perché qualcuno è arrivato addirittura ad accusarlo di avere inventato quelle stesse minacce mafiose, per ottenere “il privilegio” della scorta. Paolo Borrometi non la vede così: “Vivere con cinque uomini ogni giorno e non potere andare al mare, al cinema, non potere avere una vita privata, non potere neanche abbassare il finestrino mentre stai in macchina, ma che privilegio è?”. La scorta gli è stata assegnata dopo che i carabinieri hanno intercettato la telefonata tra due esponenti delle cosche, che parlavano in modo assolutamente chiaro: “Ogni tanto un morticello serve, per dare una calmata a  tutti gli sbarbatelli…” Dopo questa intercettazione, Paolo è costretto a spostarsi a Roma e a vivere sotto l’occhio attento di cinque uomini di scorta, lavorando in un ufficio dal quale non può neanche aprire le finestre, blindate. E, non bastassero le minacce concrete alla sua vita, Paolo Borrometi è anche costretto a fronteggiare anche una lettera di ben 8 deputati regionali siciliani che lo accusano di essersi inventato quelle minacce. La mente dietro questa la lettera sarebbe l’onorevole Giuseppe Gennuso, che viene spesso citato proprio nelle inchieste giornalistiche di Borrometi. Ismaele La Vardera va dal presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, per chiedergli di prendere posizione sulla lettera di alcuni  deputati della sua stessa maggioranza: “Io non sono la badante dei deputati della coalizione. Ognuno risponde ai propri partiti ma soprattutto alla propria coscienza, questa lettera non sta né in cielo né in terra”. Un parere sposato anche da Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia: “È certo che le aggressioni che ha subito Borrometi e le conversazioni che sono state intercettate escludono totalmente che Borrometi possa essersi prodotto da solo determinate lesioni”. Proviamo ad andare proprio da Gennuso, politico e imprenditore siracusano di successo, che come ci racconta un giornalista locale è stato bravissimo a schivare tutta una serie di accuse, anche pesantissime. L’elenco mette letteralmente i brividi: “Omicidio colposo a seguito di incidente stradale, violenza privata e reati contro l’amministrazione della giustizia, lesioni personali , furto, emissione di assegni a vuoto, peculato, detenzione abusiva di armi, appropriazione indebita, truffa aggravata, calunnia”. Tutte vicende di cui Paolo Borrometi si è più volte occupato, oltre a fare un’altra scoperta incredibile: “Nelle sue società ci sono gli stessi commercialisti delle società del super latitante Matteo Messina Denaro”. Non ci resta che andare proprio da Gennuso, per chiedergli di quelle accuse e soprattutto della lettera contro Paolo Borrometi. Ma Gennuso rilancia: “Io sono una persona corretta, integra, lui mi insulta dicendo sempre le stesse cose. Se è una persona attendibile perché non gli fanno la risonanza magnetica alla spalla per vedere se è davvero menomata? Io non sono né medico né inquirente, io sono la parte offesa. Borrometi quello che dice lo deve dire una sola volta, non ogni settimana , ogni giorno. È una linea persecutoria”. Dopo aver negato la storia dei commercialisti del capo di Cosa Nostra Messina Denaro, nega anche di avere scritto i passaggi contro Borrometi riportati nella lettera degli 8 deputati regionali, di cui lui è il primo firmatario.

Borrometi: nuove minacce dalla mafia di Pachino. Ilformat.info l'11 Aprile 2018. Il direttore del giornale on line “La Spia.it”, Paolo Borrometi, è nuovamente nel mirino dei mafiosi di Pachino. Borrometi, giornalista dalla schiena diritta, è da tempo impegnato in un giornalismo d’inchiesta relativo alla attività della mafia nel territorio di Pachino, attaccando frontalmente i mafiosi. Si trova già sotto scorta da 4 anni a causa delle ripetute minacce e una aggressione fisica. Grazie ad alcune microspie piazzate dalla squadra mobile, emergono delle minacce preoccupanti nei confronti del giornalista. Il 20 febbraio Giuseppe Vizzini, esponente di spicco della mafia di Pachino essendo legato al capomafia Salvatore Giuliano che ora è libero dopo aver scontato 22 anni di carcere, parlando con Il figlio Simone disse che: “Succederà l’inferno.” aggiungendo: “Picca n’avi”, ossia poco gli resta. Fa riferimento agli spietati killer del clan catanase Cappello, in contatto con Salvatore Giuliano e prosegue: “Lo sai che ti dico? Ogni tanto un murticeddu (un morto) vedi che serve …per dare una calmata a tutti. Un murticeddu c’è bisogno, così si darebbero una calmata tutti gli sbarbatelli”. Vizzini ed i figli Simone ed Andrea sono stati arrestati per aver fatto esplodere un ordigno, minacciando un curatore fallimentare che doveva assegnare un distributore appartenuto alla moglie di Vizzini. Le minacce nei confronti di Borrometi sono continue: già nel novembre 2017 la squadra mobile di Siracusa aveva arrestato Francesco de Carolis che aveva rivolto delle gravi minacci a Borrometi inviandogli un messaggio vocale via Facebook che diceva: “Ti vengo a cercare e ti massacro”. Borrometi aveva, da poco, pubblicato un’inchiesta sulle attività del clan Bottaro Attanasio, facendo riferimento a Luciano De Carolis già condannato per associazione mafiosa, omicidio e traffico di droga. A Francesco de Carolis, pugile e pluripregiudicato, non è andato giù quell’articolo nel quale veniva nominato il fratello ed è passato alle minacce a seguito delle quali è stato arrestato per tentata violenza privata aggravata dal metodo mafioso. Borrometi è il simbolo siciliano del giornalista che agisce a testa alta e continua ad agire a muso duro contro la mafia di Pachino. Paolo Borrometi, come Federica Angeli, è un giornalista coraggioso che racconta il paese e per questa ragione non va lasciato solo.

Paolo Borrometi e il mistero dell’autobomba. Giuseppe Gallinella e Pino Guastella il 19 Agosto 2019 su ilformat.info. La mafia è una merda! Questo vale in qualunque caso. È un dato di fatto visto tutte le vittime che si porta sulla coscienza, ammesso che ne abbia una, in 100 anni di storia criminale vissuti all’insegna del domino territoriale al cospetto del vile potere e del dio denaro. Quella che vi stiamo per raccontare non è la solita storia di cronaca mafiosa, anzi, paradossalmente lo diventa indirettamente quando ti ritrovi a raccontare un fatto che ha colpito uno dei giornalisti più attivi contro la mafia e che per questo si trova sotto scorta. L’attenzione è caduta su Paolo Borrometi, noto giornalista siciliano nonché direttore del giornale de La Spia e giornalista di TV2000, a tutt’oggi sotto scorta per essere stato violentemente minacciato dalla mafia. Nulla da recepire fino a quando il coautore di questa inchiesta, Pino Guastella direttore de ‘Diario1984’ – di cui mi onoro di collaborare in questa inchiesta – indica delle inesattezze nel presunto attentato fallito con un’auto bomba nei confronti di Borrometi. Andando per ordine, nel libro scritto dallo stesso Paolo Borrometi dal titolo ‘Un morto ogni tanto’ l’autore fa riferimento ad un presunto attentato nei suoi confronti il quale sarebbe stato ucciso con l’innesco di un’auto bomba. E che l’esecutore materiale dell’attentato sarebbe stato Giuseppe Vizzini, un affiliato alla cosca del capomafia Salvatore Giuliano di Pachino nel siracusano. Il libro prende il nome dalle intercettazioni del 10 aprile 2017 in cui la Polizia di Pachino aveva captato i dialoghi di Giuseppe Vizzini, il braccio destro del capomafia di Pachino Salvatore Giuliano, che anticipava ai figli: ci sarà “u iocufocu (ci saranno i fuochi d’artificio, lo scoppio della bomba), come c’era negli anni ’90. Ogni tanto un murticeddu (un morto), vedi che serve. Succederà l’inferno, una mattanza per tutti”. Secondo quanto riporta un passaggio nel libro scritto da Borrometi, durante una intercettazione telefonica il Vizzini, stanco dei continui articoli pubblicati sul giornale locale che lo riguardavano, si lamentava con il boss Giuliano. La nostra attenzione si è soffermata proprio su questi passaggi citati da Paolo Borrometi, appunto citati nel suo libro, il quale conferma che nei suoi confronti c’era stato un tentativo di farlo fuori utilizzando un’auto bomba. Modalità di esecuzione che però, come si evince dagli atti giudiziari e dalle intercettazioni telefoniche, non c’è traccia alcuna ma non solo… Qualche tempo fa in un convegno presenziato dal giornalista, lo stesso racconta il fallimento della triste tragedia in maniera maniacale mostrando tutto il suo rammarico di quello che sarebbe potuto capitare agli uomini della scorta e ai passanti. Il nostro intendo non è quello di mettere alla gogna mediatica un ottimo giornalista il quale, vogliamo ricordare, ha ricevuto pesanti minacce dalla mafia, ma bensì capire le ragioni del perché uno stimato professionista dovrebbe distorcere la verità. Nei prossimi giorni daremo seguito a questa vicenda, nel frattempo se qualcuno vuole fare delle precisazioni può benissimo esporle alla nostra redazione oppure mandare una email alla redazione di ilformat.info.

Paolo Borrometi e quell’autobomba che non c’è nemmeno agli atti. Giuseppe Gallinella e Pino Guastella il 22 Agosto 2019 su ilformat.info. Intanto partiamo nel dire che in tanti, tantissimi, tra colleghi e gente comune hanno scritto per complimentarsi riguardo all’articolo pubblicato lunedì scorso che vede una singolare vicenda sul presunto attentato fallito con un’autobomba nei confronti di Paolo Borrometi. Intendiamoci a noi non interessa accanirci nei confronti di Borrometi o di altri, quello che interessa e fare del puro e sano giornalismo. Lo facciamo con passione e dedizione, dedicando tempo senza, tra le altre cose, percepire nulla in cambio; solo ed esclusivamente puro giornalismo, e vi ringraziamo per averci mostrato tutto il vostro affetto e interesse. Ma ritornando alla nostra inchiesta, nell’articolo precedente vi abbiamo menzionato alcuni passaggi dal libro scritto da Borrometi il quale cita un fallito attentato con un’autobomba nei suoi confronti. Ebbene alla luce di queste dichiarazioni, più volte abbiamo letto e riletto tutta la documentazione degli atti processuali di cui alleghiamo alcuni stralci più incisivi,   non viene menzionata una sola parola che potesse alludere ad una bomba, o meglio ad un’autobomba per uccidere Paolo Borrometi. Anzi nell’allegato di richiesta di misura cautelare redatta dal PM della DDA di Catania Dott. Sorrentino nel mese di marzo 2018, poi sfociata nella ordinanza cautelare che viene riportata dal giornalista Borrometi come prova del fallito attentato nei suoi confronti, emerge chiaramente che il pm che ha condotto e coordinato le indagini inserisce le due conversazioni, telefonica e ambientale, rispettivamente progr. 197 a pag. 22 e progr. 345 a pag. 24, dove in nessuna  delle quali viene rivolta alcun proposito di attentato, tantomeno con autobomba ai danni di Borrometi. Inspiegabilmente la GIP che ha redatto l’ordinanza custodiale, legge che nella conversazione progr. 197, il boss Salvatore Giuliano consiglia al suo sodale Vizzini Giuseppe di ammazzare Borrometi, è evidente che si tratta di un errore vistosissimo, tanto è vero che il pm pur inserendo la conversazione nella richiesta di ordinanza, gli da un senso totalmente diverso. Stessa cosa per la progr. 345 che vede come destinatari di un ipotizzato agguato con soggetti armati e a bordo di un’auto rubata, avrebbero dovuto uccidere (bum a terra, bum a terra) colpendo con armi da sparo qualcuno o più di uno appellato come ‘sbarbatelli’. Tutti mafiosi. Malati di mafia, in quale delle tre categorie si rivede Borrometi non è dato saperlo! Nella conversazione 197 poi si legge chiaramente che il proposito di Vizzini è quello di denunciare il Borrometi, per gli articoli di stampa che ha scritto definendolo un pregiudicato, quando invece il Vizzini è ad oggi incensurato, riproponendo di rivolgersi all’Avv. Abbascià di Catania, per redigere la querela, cosa che poi effettivamente fa nei giorni seguenti la conversazione, i due interlocutori si prefiggono di conoscere, attraverso la denuncia e non certamente con metodi illeciti, chi sia il suggeritore del Borrometi, visto che questi scrive nei minimi particolari la vita del Vizzini e della sua famiglia; il tutto in contrasto con qualsiasi proposito di morte, di attentato nei suoi confronti. Tant’è che gli imputati citati non saranno mai condannati per il presunto reato nei confronti del Borrometi. Ma nonostante gli atti, la disponibilità dell’Avv. Giuseppe Gurreri noto penalista ed alcune associazioni antimafia, abbiamo chiesto, telefonicamente al diretto interessato, a Paolo Borrometi, del perché si fosse ‘inventato’ la storia del fallito attentato con un’autobomba. Ebbene dopo vari tentavi e ricevendo risposte evasive, praticamente non inerenti alla domanda specifica, Borrometi negava, per giunta, di non aver mai menzionato un attentato con un’autobomba nei suoi confronti. In una trasmissione Rai dal titolo: ‘Nemo nessuno escluso’ del 13 aprile 2018 Paolo Borrometi rilascia un’intervista dove cita esattamente il fallito attentato nei suoi confronti con un’autobomba, facile da verificare tramite il sito Raiplay e l’altra rilasciata a TV2000. Ma non è tutto: Maurizio Inturri, il quale è stato per diverso tempo a stretto contatto con Paolo Borrometi, fa importanti dichiarazioni su diverse inchieste giornalistiche condotte dallo stesso Inturri di cui Borrometi se ne sarebbe appropriato approfittando della sua collaborazione non essendo iscritto all’ordine dei giornalisti. Ma di questo ne parleremo più avanti. Nel frattempo restiamo a disposizione per qualsiasi chiarimento, oppure se avete ulteriori elementi sulla vicenda che francamente non capiamo i motivi che abbiano indotto Paolo Borrometi a costruirsi un attentato con un’autobomba…

Premio PMA 2019 conferito a Paolo Borrometi: emergono irregolarità sulla stesura del libro. Giuseppe Gallinella e Pino Guastella su ilformat.info il 26 Agosto 2019. Continua la nostra inchiesta sull’illustre giornalista sotto scorta, Paolo Borrometi, per essere stato più volte minacciato dalla mafia. La vicenda che lo rende protagonista in questa storia, riporta alcune dichiarazioni fatte dallo stesso Borrometi riguardo ad un fallito attentato nei suoi confronti con un’autobomba. Nel secondo articolo che riguarda l’inchiesta di cui vi stiamo parlando da qualche settimana, pubblicato il 22 agosto, vi abbiamo allegato una documentazione del Tribunale di Catania dove si evince chiaramente che non vengono menzionati attentati con autobombe. Ma nonostante questi atti redatti dal Tribunale di Catania che, ripetiamo sono atti riguardanti un processo di cui Paolo Borrometi non c’entra assolutamente nulla, contrastano il racconto dello stesso giornalista del fallito attentato a tutt’oggi non ancora smentito. Anzi, casualmente nello stesso giorno della nostra seconda pubblicazione, subito dopo tutti i media principali pubblicano la notizia che Paolo Borrometi il 25 settembre sarà premiato con il premio internazionale Peter Mackler Award 2019, per il giornalismo coraggioso ed etico. Un premio che per la prima volta viene assegnato ad un giornalista europeo. Il prestigioso premio verrà assegnato sulla base del libro intitolato: "Un morto ogni tanto". La notizia ha suscitato, da parte di giornalisti e della stampa, una serie di congratulazioni attraverso i social nei confronti del noto giornalista. Persino il New York Times ha dedicato un articolo a Borrometi per il coniato premio. Infatti leggendo l’articolo del New York Times si legge che Borrometi dichiara di essere stato vittima di un fallito attentato con un’autobomba: coincidenze? Nonostante gli atti che smentiscono categoricamente l’esistenza di un fallito attentato con un’autobomba, c’è un altro colpo di scena che ci lascia stupiti, e che francamente potrebbe avere dei risvolti imbarazzanti. A rendere questi risvolti imbarazzanti sulla vicenda di Paolo Borrometi è proprio Maurizio Inturri, di cui ve ne abbiamo parlato nell’articolo precedente. Quello che ha dichiarato Inturri alla nostra redazione, dopo aver appreso la notizia del premio che verrà consegnato a Borrometi in settembre, ha davvero dell’incredibile e che confermano l’imbarazzo che si sta creando intorno allo stesso giornalista sotto scorta. Inturri riporta riferimenti molto più precisi e ampie descrizioni che lo stesso giornalista antimafia non riporta nel suo libro “Un morto ogni tanto” e sul sito La Spia. A questo punto abbiamo visionato la “vera testimonianza scritta” e altri audio, messaggi, che Inturri ci ha fornito e abbiamo chiesto allo stesso se nel libro del giornalista Paolo Borrometi ci fossero riferimenti a suo nome o paragrafi che riguardassero le sue inchieste e non di esclusività del direttore de La Spia.

Ecco cosa dichiara Inturri a tal proposito: “Ho letto casualmente il libro del Borrometi, anzi, per essere sincero l’ho comprato in ebook solo ed esclusivamente perché una delle mie fonti, mi ha riferito che nel libro erano contenute le mie inchieste; quindi, come sempre, volevo accertarmene personalmente. Le stupidate contenute in quel libro sono tante, si pensi che definisce nel cap.2 “Il mito sfatato”, la “Stidda”, come un’organizzazione mafiosa nuova e diversa da “Cosa Nostra”, quando invece gli “Stiddari” erano appartenenti ripudiati dalla stessa mafia palermitana perché considerati confidenti e se il simbolo della “stidda” lo paragona ad una stella, allora abbiamo già detto tutto!”. “La cultura mafiosa di quel testo è pari a zero, infatti sempre nello stesso paragrafo, a pag.36 afferma che la provincia “babba” fosse Ragusa; forse non ha letto e studiato bene le affermazioni del “primo collaboratore di giustizia di Cosa Nostra” Tommaso Buscetta, che al contrario, proprio a Falcone, affermò che “i siracusani” appartenevano alla “provincia babba”. Ma questo lo racconterò prossimamente, anche se in verità è tutto scritto nero su bianco nei miei articoli e…”

Continuando Maurizio Inturri…: “Nel cap.5 intitolato “Passaggio a Siracusa” dello stesso libro, chiunque nel siracusano percepisce che “la farina”, nelle pagine che seguono sono dettate dal collaboratore di giustizia Rosario Piccione, perché se è vero che il giornalista è sotto scorta dal 2004 e risiede a Roma, come poteva girare inosservato a Siracusa e sapere quello che scrive? Mentre io ho frequentato Siracusa e le zone della droga di Piazza Adda, Santa Panagia, la “Fontana delle Papere”, già dal 1987 fino al 1996, perché il mio istituto scolastico (l’IPSIA) era a Siracusa, e tutti tra uomini e ragazzi ti raccontavano storie alla “Gomorra”…vogliamo confrontarle con quelle del Borrometi?” “E’ sconcertante in questo paragrafo leggere di Salafia e del passaggio di Falcone e Buscetta; Salafia fu accusato di aver partecipato all’uccisione del Generale Dalla Chiesa e Giovanni Falcone fu il magistrato palermitano che si occupò della vicenda. Solo dopo, grazie a Buscetta, Salafia fu scagionato non solo dall’accusa di avere ucciso il Prefetto di Palermo ma anche da quella di aver fatto parte del commando armato che effettuò la strage della Circonvallazione, nella quale fu assassinato il boss catanese Alfio Ferlito e con lui furono trucidati l’autista del taxi ed i Carabinieri della scorta, tra cui il carabiniere siracusano Salvatore Raiti, appena diciottenne. Ma è chiaramente evidente che Borrometi non ama i “collaboratori di giustizia”, persone che ritengo importanti nella lotta alla criminalità. Tant’è che non parla del “collaboratore di Giustizia” Currau M’arrabbiu”, Corrado Ferlisi, persona di cui tutti i clan del siracusano hanno paura, una gola profonda “se parlasse”…. Nel cap.6 riprende racconti di Rosario Piccione, mentre a pag.23 dello stesso capitolo inizia a raccontare parti della testimonianza esclusiva e delle mie inchieste, facendo anche confusione.” “Da qui continua ad arrampicarsi sugli specchi cercando di non riportare il mio nome e la testimonianza di persone che hanno subito attentati dinamitardi, estorsioni e minacce di ogni genere. Anche ad Avola le persone si sono piegate dalle risate, perché lo stesso non ha capito e non sa chi appartiene a una famiglia mafiosa e chi a un’altra, saltando gli anelli di giuntura. Addirittura a pag.38 dello stesso capitolo, riporta la falsità di un post pubblicato su Facebook mettendo in evidenza il mio nome: peccato che già a settembre del 2017 (dopo aver scritto diversi articoli) fui aggredito per la prima volta, poi la seconda volta a ottobre e prima ancora insultato e minacciato sempre tramite Facebook.” “Nel cap.7 ”Mafia, imprenditoria e politica” esattamente a pag.12, inizia con la tarantella del voto di scambio che coinvolge l’On. Gennuso. Peccato che già in precedenza e nelle varie mie testimonianze avevo descritto per bene l’organizzazione ciclistica, nascondendo solo alcuni particolari che usciranno a breve. Le altre notizie in merito all’On. Gennuso… non saprei proprio dove le avesse prese, ma di certo manca un pezzo di ricostruzione e dei passaggi delicati che solo Borrometi può spiegare perché li ha censurati, altri a breve me ne daranno conto nelle sedi opportune. Il cap.8 è la fake per antonomasia, s’intitola ‘Picca n’avi. Bum bum, un murticeddu ogni tanto’… Qui Paolo Borrometi dimentica che le stragi fanno parte di un sistema criminale ampio; molte commissioni antimafia si sono chiesti il perché delle stragi di Capaci e di via D’Amelio visto e considerato che di Falcone e Borsellino “Cosa Nostra” conosceva ogni spostamento?” “Dopo il cap.8 c’è l’epilogo finale e il libro di Borrometi termina con tanto di ringraziamenti e saluti a persone illustre e famose, per carità rispettabilissime, ma per le vicende menzionate nel libro su Avola, Borrometi non può fregiarsi del titolo di giornalista investigativo o d’inchiesta. Paolo Borrometi sarà pure un ottimo trascinatore e giornalista, non voglio giudicarlo come non avrei voluto essere giudicato. Rispetto le mie fonti e le persone che con coraggio denunciano “collaboratori e testimoni di giustizia” inclusi. Come io oggi, con coraggio, denuncio le inesattezze di Paolo Borrometi al quale sarà consegnato un premio che…” – ha concluso Maurizio Inturri.

Alla luce di queste nuove dichiarazioni alle quali, come riferisce lo stesso Inturri sono ampiamente documentate, susseguono una serie di domande che non trovano risposte dai diretti interessati e che potrebbero compromettere l’onorabilità professionale del giornalista fino ad ora mai messa in discussione. Resta da capire del perché Paolo Borrometi dice di essere stato vittima di un fallito attentato con un’autobomba nonostante non risulti in nessuno degli atti giudiziari e di polizia che vi abbiamo mostrato? E poi ci sono le dichiarazioni di Inturri, il quale ha contribuito materialmente alle inchieste menzionate nel libro; perché non viene nemmeno ringraziato nel libro?

Per ogni segnalazione, rettifiche o altro, potete scrivere alla redazione di ilformat.info.

·         Roberto Saviano: i segreti di una star.

Cosa accomuna i cosiddetti scrittori antimafia, oltre che avere una scorta ed un successo editoriale artefatto dalla propaganda di regime? Essere di sinistra.

 “I BAMBINI SI NUTRONO DI QUESTE PORCHERIE”. Da Libero Quotidiano il 5 agosto 2019. Roberto Saviano ha fatto infuriare pure chi la mafia la combatte sul campo. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro se la prende contro mister Gomorra e la serie che ha ispirato e a cui ha preso parte per la realizzazione: "Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie". Il saggista ci va giù ancora più pesante: "Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi". Il rimando a Saviano, anche se il suo nome non viene mai pronunciato, sembra chiaro.

Gratteri contro Saviano: sei un cattivo maestro. Simona Musco il 6 Agosto 2019 su Il Dubbio. L’anatema del magistrato antimafia. L’accusa del procuratore: «c’è chi dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato, perché i bambini si nutrono di queste porcherie» “Gomorra” e affini sono diseducativi e rischiano di provocare un effetto “emulazione”. E così, anziché censurare le mafie finiscono per esaltarle, trasformando in eroi coloro che, nella realtà, sono i cattivi. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro, ancora una volta non le manda a dire. E, così come più volte ha fatto negli ultimi tre anni, punta il dito contro la serie tv nata dalla penna di Roberto Saviano, definito, nemmeno troppo tra le righe, un professionista dell’antimafia, un ingordo. Un’occasione, quella fornita dal palco di “Estate a casa Berto” a Capo Vaticano, in Calabria, per rispedire al mittente le critiche di chi, come Marco D’Amore, protagonista della serie, aveva paventato il rischio di una censura. «Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura- ha dichiarato il magistrato dialogando con il giornalista Paolo Conti, del CorSera, nel corso della rassegna – Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie. Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello. Ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi». Una tesi che Gratteri sostiene ormai da tempo, in compagnia di diversi colleghi, tra i quali anche il procuratore capo della Dna Federico Cafiero de Raho, secondo cui il rischio è quello di distorcere la realtà, raffigurando la camorra come fosse un’associazione come tante altre anziché rappresentarne la violenza che la caratterizza. La polemica era nata in occasione della messa in onda della terza stagione di “Gomorra”, quando Gratteri aveva criticato il modello veicolato dalla serie tv, denunciando il rischio emulazione. «È dietro l’angolo – aveva messo in guardia Negli ultimi tempi, dagli eroi positivi destinati alla sconfitta si è passati ai boss protagonisti di storie più o meno ispirate a fatti veri. Sullo schermo vediamo un mondo abitato da “paranze” assetate di sangue, senza alcun margine di redenzione. Alla fine, i personaggi positivi sono uomini di potere, uomini di parola e uomini che sanno imporsi. Ma sono sempre criminali». Ma non era stato il solo a farlo. Ad elargire critiche era stato, infatti, anche Giuseppe Borrelli, all’epoca procuratore aggiunto della Dda a Napoli, secondo cui la pecca di “Gomorra” sarebbe quella di offrire una rappresentazione folkloristica dei clan. Parole che avevano allarmato il cast del film, che attraverso D’Amore, alias Ciro di Marzio, protagonista della fiction, aveva denunciato il rischio di censura nei confronti di quello che ha definito, invece, un fortissimo atto di denuncia partito proprio da Saviano. E lo stesso scrittore ha poi rispedito al mittente le accuse. «Il rischio emulazione — aveva replicato — credo sia un paradosso. Chi guarda il padrino diventerà Michael Corleone? Chi legge Shakespeare diventerà Riccardo III? Quando un libro, un film, una serie tv raccontano le ferite senza edulcorarle, mettono a soqquadro la percezione della realtà facendo nascere una domanda: ma davvero questo accade? Una serie che racconta il male, mostra la ferita, produce sofferenza e quindi cambiamento e crescita».

Il capo della polizia Gabrielli a Saviano: "Da lui accuse ingiuste e false". Il capo della polizia Franco Gabrielli: "Salvini ha sempre rispettato la legge". Gabriele Laganà, Sabato 11/05/2019 su Il Giornale.  “Noi siamo la polizia di Stato, non una polizia privata al servizio di questo o quel ministro”. Lo ha affermato il capo della polizia Franco Gabrielli in una intervista al Corriere della Sera rispondendo, così, in modo diretto a quanti, come Saviano, accusano le forze dell’ordine di essere divenuti una sorta di servizio d’ordine di un partito o di Salvini. Gabrielli è consapevole che l’Italia stia attraversando un periodo particolare, fatto di tensioni politiche e sociali accentuante dalle imminenti elezioni europee che potrebbero lasciare strascichi nel governo. Per questo “credo sia interesse di tutti non contribuire ad alimentarle, né coinvolgere nelle dispute quotidiane istituzioni di garanzia come la nostra, tirandole da una parte o dall’altra”. Il capo della polizia ha tenuto a precisare poi che quanto accaduto a Salerno (lo striscione contro la Lega rimosso da agenti, ndr) non è un caso unico. Già in passato, infatti, si sono verificati episodi in cui sono stati tolti striscioni o simboli che potevano provocare turbative durante le manifestazioni perché esiste una norma posta a garanzia del loro svolgimento senza provocazioni. Ciò non significa, però, zittire il dissenso. Infatti, fa notare Gabrielli, “in questi giorni non c’è comizio di Salvini senza contestazioni, e non mi risulta si sia impedito di manifestare”. Nel caso del cellulare sequestrato alla ragazza che s’è ripresa con il ministro mentre lo apostrofava sui terroni la situazione è diversa. Il capo della polizia, dopo aver visionato il video, ha dato disposizione al questore e all’ufficio ispettivo di avviare accertamenti, attivando una procedura disciplinare in quanto potrebbero esserci profili di illiceità nel comportamento degli agenti. Però, sottolinea, aspettiamo l’esito delle indagini prima di fare una valutazione. Gabrielli non ha timori di dire la sua sulle pesanti dichiarazioni di Saviano che, nei giorni, scorsi, ha attaccato la polizia perché ridotta ad una sorta di servizio d’ordine di un partito. “Si è trattato di accuse ingiuste e ingenerose, perché coinvolgono la polizia in una polemica politica che non ci appartiene- ha affermato Gabrielli – “Io come vertice di questa amministrazione posso provare fastidio e preoccupazione quando il ministro dell’Interno viene definito “ministro della Malavita”, ma non mi sono mai permesso di interloquire”. “Se però la mia amministrazione viene chiamata in causa con affermazioni false”, ha inoltre dichiarato il capo della polizia “ho il dovere, oltre che il diritto, di reagire e di chiedere rispetto”. Gabrielli, con orgoglio, precisa di essere un servitore dello Stato e che, per questo, lavora nell’interesse dei cittadini. “Ricevo le direttive del governo, sono sottoposto alla legge... In undici mesi di permanenza del ministro Salvini al Viminale, non ho mai avuto da lui indicazioni contrarie a questi principi. E le direttive ricevute sono tutte contenute in documenti pubblici, espliciti, ricorribili davanti alla giustizia amministrativa”. Il capo della polizia ha voluto sottolineare con forza che il ministro non ha mai chiesto nulla di contrario alla legge. In caso contrario, il dovere sarebbe quello di rassegnare immediatamente le dimissioni. Anche sulle continue polemiche in merito alle divise utilizzate da Salvini, Gabrielli è stato molto chiaro affermando che sono solo attacchi pretestuosi perché il ministro non ha bisogno di indossarle per dimostrare a tutti di essere l’autorità politica nazionale di pubblica sicurezza. Lo stesso capo della polizia, però si dice preoccupato per il clima di scontro che si respira in Italia. “Credo che anche nelle valutazioni di quello che accade dovremmo mantenere le giuste proporzioni, ma detto ciò io sono sempre preoccupato. Soprattutto in prospettiva, considerando le dinamiche economiche e lavorative a cui potremmo andare incontro”. “Sono perfettamente consapevole di segnali inquietanti di nuove forme di razzismo e xenofobia, l’antisemitismo di ritorno, rigurgiti di neofascismo che vanno monitorati con attenzione e repressi quando ci sono gli estremi”, ha dichiarato Gabrielli. Quest’ultimo ha ammesso che “oggi la criminalità organizzata sia la priorità che questo Paese si trova a dover affrontare sul piano della sicurezza”. Da nord a sud i problemi ci sono, magari anche lì dove non avvengono episodi eclatanti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica ma la polizia fa “il possibile nei limiti e nella limitatezza dei mezzi a disposizione”.

LA VERSIONE DI MUGHINI. Giampiero Mughini per Dagospia l'11 maggio 2019. Caro Dago, sono un cittadino repubblicano che quando passa innanzi a dei soldati o a dei poliziotti che stanno presidiando – ne stanno garantendo la sicurezza – un luogo pubblico, sempre li saluto e auguro buon lavoro perché vedo in loro la garanzia della democrazia e della convivenza civile. Ecco perché mi sono precipitato a leggere i due paginoni iniziali che il “Corriere della Sera” ha dedicato oggi all’intervista che (l’ottimo) Giovanni Bianconi ha fatto al cinquantanovenne Franco Gabrielli, quello che nell’aprile 2016 era stato nominato capo della polizia dal governo Renzi. Non le ho lette, le ho bevute come di un argomento che a connotare l’identità attuale della nostra democrazia è cento o duecento volte più importante dei libri che sì o no vengono messi in vendita al Salone del libro di Torino. C’erano stati difatti dei precedenti inquietanti. Il fatto che in un paio di occasioni la polizia italiana era intervenuta come se avesse a cura l’immagine “politica” dell’attuale e ingombrante ministro dell’Interno, Matteo Salvini. In un’occasione era stato rimosso uno striscione contro la Lega esibito da una casa privata. In un’altra occasione era stato sequestrato il telefonino di una ragazza che aveva scocciato pubblicamente il suddetto ministro. Tanto che in un suo tweet Roberto Saviano aveva denunciato che la polizia italiana era divenuta “la milizia privata” del capo della Lega. Accusa gravissima nel caso che adombrasse una seppur minima verità, altro che il libro/scandalo pubblicato da Altaforte. E difatti da un suo account ufficiale la polizia replicava all’istante che le accuse di Saviano erano “penose”. Ammetterete che ce n’è di materia da far rizzare le orecchie a un cittadino repubblicano quale il sottoscritto. E dunque giù a leggere riga per riga le risposte di Gabrielli alle domande accurate e intelligenti di Bianconi. Sì o no la polizia italiana ha curvato la sua identità alle esigenze politiche e propagandistiche del capo della Lega da cui dipende istituzionalmente? Ebbene, il capo della polizia – di cui mi pare siamo concordi nel dire che è un uomo d’onore – è nettissimo nel respingere questa accusa. Togliere uno striscione che rischia di “turbare” una manifestazione di partito in corso è un obbligo e un dovere della polizia, e ci sono decine di precedenti a tutela di esponenti politici di tutti i colori. Se c’è Salvini che – come si ascolta in un video – ordina di cancellare immagini dal telefonino della ragazza che lo stava contestando, non sta nei poteri di Gabrielli censurare le parole del ministro; di sicuro lui ha attivato accertamenti ad attivare un’eventuale procedura disciplinare nei confronti dei poliziotti che s’erano impadroniti del telefonino della ragazza. Quando in un quartiere periferico di Roma s’è trattato di difendere la famiglia rom cui era stata assegnata regolarmente una casa, la polizia lo ha fatto senza indugi a costo di beccarsi insulti e sputi. Se il ministro dell’Interno agisce  24 ore su 24 da capopartito in perenne campagna elettorale, non sta al capo della polizia giudicarlo. La questione sostanziale, risponde Gabrielli a Bianconi, è un’altra. Se sì o no lui ha mai ricevuto dal ministro dell’Interno indicazioni o direttive contrarie al suo ruolo di servitore dello Stato nell’interesse dei cittadini. “No, mai”, dice Gabrielli. Ove avvenisse, lui immediatamente presenterebbe le dimissioni. Confesso di avere letto con piacere questa intervista. Adesso me la ritaglio e la conservo. E naturalmente appena esco e incontro qualche poliziotto, immediatamente gli augurerò buon lavoro.

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera l'11 maggio 2019. «Stiamo attraversando un momento particolare nella vita del Paese, vigilia di un appuntamento elettorale importante e caratterizzato da qualche tensione politica. Proprio per questo credo sia interesse di tutti non contribuire ad alimentarle, né coinvolgere nelle dispute quotidiane istituzioni di garanzia come la nostra, tirandole da una parte o dall' altra». Il capo della polizia Franco Gabrielli è consapevole del rischio che la struttura da lui guidata, alle dirette dipendenze di un ministro dell' Interno come Matteo Salvini divenuto uno dei maggiori protagonisti delle tensioni quotidiane, venga trascinata nelle polemiche. E se ne vuole sottrarre: «Noi siamo la polizia di Stato, non una polizia privata al servizio di questo o quel ministro».

Però lo striscione contro la Lega rimosso a Salerno, con la polizia che entra in una casa privata, ha dato un segnale diverso.

«Si sbaglia. Ci sono decine di precedenti a tutela di esponenti politici di tutti i governi del passato, in cui sono stati tolti striscioni o simboli che potevano provocare turbative durante le manifestazioni di partito. Per i comizi elettorali c' è addirittura una norma posta a garanzia del loro svolgimento senza provocazioni di sorta».

Significa che non si può manifestare dissenso?

«Ma che dice? Mi pare che in questi giorni non ci sia comizio di Salvini senza contestazioni, e non mi risulta si sia impedito di manifestare. Ma quando si verificano situazioni di potenziale turbativa, spetta al funzionario in strada fare le valutazioni del caso ed evitare che possano provocare conseguenze».

Il questore di Prato voleva addirittura denunciare quelli dell' Associazione partigiani che protestavano contro il ministro...

«Siamo subito intervenuti per precisare che non c' erano elementi per denunciare alcunché».

E il telefonino sequestrato a Salerno alla ragazza che s' è ripresa con Salvini mentre lo apostrofava sui «terroni»?

«Dopo aver visto quel video ho valutato che potessero esserci profili di illiceità nel comportamento dei poliziotti, e ho dato disposizione al questore e all' ufficio ispettivo di avviare accertamenti, attivando una procedura disciplinare. Vedremo quale sarà l' esito, ma l' ho fatto prima che alla polizia venissero mosse accuse false e fuori luogo».

Però nel video si sente Salvini che ordina di cancellare il video dal telefonino della ragazza.

«Io non ho il potere di censurare l' azione del ministro. Se ravviso comportamenti scorretti dei miei uomini agisco di conseguenza. Senza attendere le reprimende di chicchessia».

Si riferisce al tweet di Roberto Saviano sulla polizia ridotta a servizio d' ordine di un partito?

«Si è trattato di accuse ingiuste e ingenerose, perché coinvolgono la polizia in una polemica politica che non ci appartiene. Io come vertice di questa amministrazione posso provare fastidio e preoccupazione quando il ministro dell' Interno viene definito "ministro della Malavita", ma non mi sono mai permesso di interloquire. Se però la mia amministrazione viene chiamata in causa con affermazioni false, ho il dovere, oltre che il diritto, di reagire e di chiedere rispetto».

Usando il profilo Twitter istituzionale della polizia, come avete fatto per la risposta?

«Quel tweet non appartiene a un funzionario anonimo sfuggito al controllo dell' amministrazione, ma è stato sollecitato e autorizzato. Se devo dire qualcosa lo faccio in maniera chiara e diretta, senza infingimenti o ipocrisie. Non a caso nella risposta abbiamo specificato che "chi sbaglia paga nelle forme prescritte dalla legge", riferendoci all' eventuale comportamento illegittimo del singolo poliziotto».

Non pensa che, prima di Saviano o altre voci critiche, sia il comportamento di Salvini, ministro dell' Interno ma soprattutto capopartito e vicepremier in perenne campagna elettorale, a mostrare scarso rispetto e mettere in difficoltà la sua istituzione?

«Il ministro dell' Interno ricopre il suo ruolo come meglio ritiene, e non spetta al capo della polizia giudicarlo. Io sono chiamato a servire lo Stato nell' interesse dei cittadini, ricevo le direttive del governo, sono sottoposto alla legge. Sono i tre capisaldi che ispirano la mia azione. In undici mesi di permanenza del ministro Salvini al Viminale, non ho mai avuto da lui indicazioni contrarie a questi principi. E le direttive ricevute sono tutte contenute in documenti pubblici, espliciti, ricorribili davanti alla giustizia amministrativa».

Che non l' hanno mai nemmeno imbarazzata?

«Le ripeto che io non ho il potere di censurare l' azione del ministro, e le confermo che non mi ha mai chiesto nulla di contrario alla legge. Per questo mi sento ferito e amareggiato quando si tira per la giacca la mia amministrazione chiedendomi di essere ciò che non posso essere: io sono un funzionario dello Stato, non un politico. E ritengo che sia un bene per la democrazia che la politica diriga e indirizzi gli apparati della sicurezza, anziché viceversa. Se poi un ministro mi chiedesse di superare il confine del lecito, e se venisse messo in discussione anche solo uno dei principi a cui devo ispirare la mia azione, il mio dovere non sarebbe di fare un proclama o un' intervista, ma di rassegnare le dimissioni».

Ma al di là degli ordini illegittimi, come può non essere un problema un politico che indossa la giacca della polizia mentre fa i suoi comizi di partito?

«Questa della divisa mi sembra davvero una polemica pretestuosa. Lei crede davvero che il ministro abbia bisogno di indossarla per dimostrare a tutti di essere l' autorità politica nazionale di pubblica sicurezza? Lo è per legge, non per come si veste».

Appunto. Allora perché lo fa?

«Preferisco leggerlo come un segno di attenzione nei nostri confronti. E se c' è un problema di opportunità che lui non ha ritenuto di porsi, non sono io a doverglielo porre. Del resto mi pare che da qualche tempo non se ne parla più, e lui non indossa le nostre giacche. Ma non posso accettare che pure questa questione venga utilizzata per sostenere che la polizia è asservita al ministro leghista, perché è falso».

È preoccupato per il clima di tensione che si respira nel Paese, a cominciare dalle piazze di certi comizi?

«Quando sento parlare di tensione penso che il nostro sia un Paese dalla memoria corta, se non si ricorda quello che ha attraversato negli anni Settanta e anche dopo. Credo che anche nelle valutazioni di quello che accade dovremmo mantenere le giuste proporzioni, ma detto ciò io sono sempre preoccupato. Soprattutto in prospettiva, considerando le dinamiche economiche e lavorative a cui potremmo andare incontro».

Le proteste contro i rom che devono entrare nelle loro legittime abitazioni scortati dalla polizia non sono un segnale d' allarme?

«Se mi permette, il fatto che siano stati protetti dalla polizia è un segnale dell' attenzione della nostra amministrazione verso i diritti di tutti. E che non siamo interessati alle fortune elettorali di chi siede al Viminale. Dopodiché sono perfettamente consapevole di segnali inquietanti di nuove forme di razzismo e xenofobia, l' antisemitismo di ritorno, rigurgiti di neofascismo che vanno monitorati con attenzione e repressi quando ci sono gli estremi. Noi facciamo e faremo il nostro compito, ma teniamo ben presente il fondamentale ruolo di magistratura e Parlamento. La polizia non si sottrae alle proprie responsabilità, ma non si può sostituire a quelle altrui». 

C' è un' emergenza sicurezza, per esempio in una realtà come Napoli tornata alla ribalta con il grave ferimento di una bambina nel mezzo di un agguato di stampo camorristico?

«Per fortuna oggi da Napoli sono arrivate due buone notizie: la bambina che sembra stare un po' meglio e l' arresto dei presunti responsabili. Tuttavia non è il caso di abbandonarsi a toni trionfalistici, perché quello è un territorio complicato, dove cerchiamo di fare il possibile nei limiti e nella limitatezza dei mezzi a disposizione. Ci sono problemi a Napoli, come nella provincia di Foggia, in Sicilia e in molte altre zone, dove magari non avvengono episodi eclatanti che attirano l' attenzione dell' opinione pubblica. Io credo che ancora oggi la criminalità organizzata sia la priorità che questo Paese si trova a dover affrontare sul piano della sicurezza».

RITRATTONE ACIDO DI SAVIANO BY FACCI. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 agosto 2019. Le opinioni su Matteo Salvini non c'entrano più, anche gli "amici" di Roberto Saviano sanno che Saviano sul tema è andato fuori di cotenna da tempo: ma fanno spallucce, lasciano che lo scrittore (va bene scrittore?) faccia i suoi sforzi per continuare a far parte del paesaggio pur senza un ruolo preciso, e tirano dritto. Fanno finta di niente. Ormai Saviano è un modo di dire: «Bastava Saviano», ha detto ieri Salvini riferito a Giuseppe Conte, «per raccogliere tutti questi insulti, non il presidente del Consiglio». Saviano. Un Saviano. Perché è vero, una persona sana di mente può anche stufarsi di passare a vita per quello di "Gomorra", e può anche tentare di reinventarsi socialmente e professionalmente come l' antagonista culturale (va bene culturale?) di Matteo Salvini: ma perdio, Saviano potrebbe sforzarsi di farlo un po' meglio. L' impressione che questo signore abbia sbroccato è ben precedente all' estate, e nei giorni scorsi è soltanto riuscito ad abbassare ancora di più l' asticella: «Il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui; basterà che si spengano le luci». Ha stortato la bocca, a sinistra, anche qualche garantista residuale. Perché l' augurio sa tanto di auspicio massimo, di logica conclusione contro il male da parte del bene. Poco importa che il tremillesimo pretesto siano stati i 134 migranti della "Open Arms" ostaggio dei banditi libici, ma parimenti - ecco - secondo Saviano ostaggi «del bandito politico Matteo Salvini, il ministro della Malavita». Anche quest'espressione reiterata, «ministro della Malavita»: termine inaccettabile comunque lo si guardi, scorrettezza oltre ogni diritto di critica, tentativo di "mascariare" mafiosamente un nemico ripetendo all' infinito una sconcezza: sinché qualcosa resterà. È come se Saviano, nel perpetuo tentativo di riscattarsi e accreditarsi con qualcosa o con qualcuno, volesse far dimenticare quando giudicava una cosa per volta e sembrava, addirittura, una personcina equilibrata: farsi perdonare, per esempio, quando riconobbe i successi del governo Berlusconi nella lotta alla camorra e quando elogiò più volte il ministro Roberto Maroni, un leghista giudicato «uno dei migliori ministri degli Interni di sempre». Ai tempi aveva 31 anni e viveva da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Oggi ha cinquant'anni e vive da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Ma augura la galera a un vicepremier solo come passaggio di un' escalation, o, volendo vederla con dietrologia malata, come una previsione politica nel giorno in cui Salvini non avesse più la ribalta del Viminale e tornasse un semplice senatore, libero di essere accerchiato da una giustizia sovralimentata da un governo manettaro grillino-piddino. Dunque le esagerazioni di Saviano sanno sempre meno di opposizione politica e sempre più di disvelamento, di inciampo rivelatore, di smascheramento forcaiolo per l' uomo che diceva di amare Salamov e Solzenicyn ma ora ha virato su Travaglio e Davigo. È più comodo. C' è più gente da prendere al lazo sui social. Saviano rimane quello di "Gomorra" (con enormi, spaventose responsabilità circa la rilegittimazione mediatica di certa malavita) ma nel tempo ha cercato di trasformarsi in un' autorità morale che distribuisca pagelline su candidati ed eletti, sentenzi sui giornali e in tv e decida la presentabilità di tizio e caio. il salto Poi il grande salto, ma non sappiamo se di qualità: l' ossessione Salvini. Quello che chiude i porti alle Ong e dirotta le barche. Quello «inumano», «buffone», «incapace», «ministro della crudeltà» oltreché della citata malavita. Saviano è giunto a invocare la censura (una «forma disperata di opposizione all' orrore», «non dando notizia e non commentando le affermazioni più gravi di Matteo Salvini») e a giudicare il viceministro «un baro», uno che indossa le divise delle forze dell' ordine come «gesto autoritario» e «pericolosissimo per la democrazia». Salvini che «minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate», uno che «tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione», uno «ha Facebook, un Potere globale». Facebook appartiene a Salvini. Il quale, poco tempo fa, ha parlato contro la mafia nella speranza che in futuro possa valere come argomento difensivo in un processo per mafia contro di lui: parola di Roberto Saviano. Uno che col suo argomentare, col suo facile accostare un ministro alla malavita, potrebbe più facilmente definirsi come scrittore della malavita: nessuno pare più avere dubbi, ormai, sul fatto che l'effetto Gomorra abbia riqualificato l' immagine della Camorra stessa, e che a portarne la responsabilità, paradossalmente, sia stato chi l' aveva dapprima combattuta con un libro formidabile. Il libro è appunto "Gomorra", che poi si è fatto marchio e prodotto d' esportazione. Ed è patetico che a pensarla diversamente, ora, sia rimasto giusto Roberto Saviano e forse il quotidiano su cui scrive, nonché gli autori e attori del serial televisivo. Altri - politici, avvocati, magistrati, scrittori e attori - dicono tutti la stessa cosa, e non è quella che sostiene Saviano. È più simile a quella che ha raccontato l' attore Carlo Verdone: «Un mio amico insegnante ha fatto scrivere un tema ai bambini: "Il sogno della nostra vita". Un bambino vorrebbe diventare Genny Savastano, un altro il boss della banda della Magliana, una donna si ispira a donna Imma. Hanno indicato modelli malavitosi». Diffusi da scrittori malavitosi, direbbe Saviano.

Saviano: i segreti di una star. I guadagni, le relazioni che contano, le donne. Inchiesta sullo scrittore che ha costruito un mito di se stesso. Giacomo Amadori e Simone Di Meo 19 novembre 2018 su Panorama. Via Sicilia, Roma, interno giorno. Minuto più minuto meno, un decennio fa. Sede della Mondadori. Dal portone entra Roberto Saviano, accigliato come gli si addice, seguito da sei sette uomini armati e più accigliati di lui. All’esterno, restano parcheggiate due auto con i lampeggianti accesi. Il fattorino Giovanni, originario di Mondragone, apostrofa così il conterraneo autore di Gomorra che gli è appena sfilato davanti: «Il Signore degli anelli», citando la fortunata epopea di John Ronald Reuel Tolkien....Chi c’era allora, sorrise. E pensò ai monili che Saviano porta alle dita. «Ma no, lo chiamo così perché è un grande autore di fantasy» ribattè il postino. Non sapeva che qualche anno dopo lo stesso accostamento con Tolkien sarebbe stato elaborato da un grande intellettuale, il sociologo Alessandro Dal Lago che proprio a Panorama nel 2015 disse: «Gomorra è un’insalata di camorristi che ormai Saviano vede dappertutto. La sua lotta tra il bene e il male, più che la tensione del Padrino, ricorda il genere fantasy. C’è qualcosa di tolkeniano, da Signore degli Anelli, in questa contrapposizione tra bene e male che Saviano continua ad agitare». Peccato che il nuovo Tolkien, «Filetto» per alcuni colleghi scrittori (l’origine del soprannome è controversa), si prenda molto più sul serio del suo maestro. Saviano, come ha sottolineato Dal Lago, si sente diffamato da chi legittimamente polemizza con lui e spesso risponde per via giudiziaria alle critiche. «Nessuno limita la parola di Saviano, anzi. È l’uomo che ha più libertà di parola in Italia» nota il sociologo. Eppure «Saviano si può solo adorare, Gomorra è un atto di fede, la Repubblica lo ha elevato a Padre Pio della nostra morale».

La via del MARTIROLOGIO. Nel suo saggio Eroi di carta Dal Lago ebbe l’ardire di scrivere che «l’inclusione di Saviano nel martirologio fa sì che chiunque non si allinei sia di fatto considerato un alleato dei camorristi». A Padova, durante un’omelia, un prete si è spinto a sostenere che sant’Antonio era un antesignano di Robertino. E una mamma, incrociandolo a un evento, gli chiese di lasciare una carezza al figlioletto neonato che nemmeno la buonanima di Papa Wojtyla. L’autore del La paranza dei bambini arrivò a dire, con tono evangelico: «Il mio compito è confortare gli afflitti e sconfiggere i confortati». Lui, per dirla con parole sue, non spiega la camorra al mondo, ma il mondo attraverso la camorra. Forte di questa missione, il martirologio è la strada originale che Saviano ha scelto per essere unico. In fondo Roberto non è un giornalista (non è iscritto a nessun albo), sebbene nel 2005 abbia partecipato a un seminario di giornalismo d’inchiesta, e non è nemmeno un inquirente prestato alla letteratura. È un giovanotto «ossessionato» (parole sue) dal crimine organizzato. Che conosce per sentito dire, visto che proviene da una famiglia borghese per metà originaria del Nord e senza boss tra i consanguinei. Il critico dello spagnolo El País, in occasione del secondo libro ZeroZeroZero, ha scritto che Saviano non si è infiltrato nel narcotraffico, ma nei reportage. Per qualcuno assomiglia alla statua del commendatore che gridava al Don Giovanni: «Pentiti, cangia vita/ è l’ultimo momento». La sua superiorità morale lo autorizza a intervenire su tutto. Ma forse il paragone più giusto è con il Girolamo Savonarola di Non ci resta che piangere, quello del «Ricordati che devi morire». Gomorra è il nostro «blockbuster morale, un libro che serve a supplire la nostra inadeguatezza» ha acutamente analizzato Dal Lago, aggiungendo: «A sinistra, ancora oggi, non si può dire che un prodotto editoriale venga scritto o girato per fare denaro. Sono tutti titani contro il Male». E di soldi il nostro Savonarola con la sua battaglia contro il Male ne ha fatti davvero molti. Moltissimi. Anche se sostiene che oggi non riscriverebbe Gomorra («Non vale la pena di far saltare la vita tua e delle persone che all’epoca mi vivevano intorno»), Saviano è diventato una vera azienda che della camorra e della criminalità organizzata ha fatto un lucroso business. Delle storie dei boss non butta via niente: le usa per scrivere libri, sceneggiare film, fare l’autore di programmi tv e presenziare a convegni. Tutto lautamente ricompensato. Si narra che anche le sue fascette di copertina o un complimento sui social valgano un bel po’ di quattrini. Ma Saviano lascia poche tracce della sua notevole disponibilità finanziaria. Non risultano in Italia case a lui intestate, né società. Per anni si è occupato dei suoi conti un commercialista di origini casertane trapiantato in Molise. Nel 2006, l’anticipo e le prime ingenti vendite di Gomorra, gli fruttarono meno di 50 mila euro. Da allora le sue entrate (che, essendo frutto di opere dell’ingegno, sono sottoposte a una tassazione agevolata) sono cresciute a dismisura. Nel 2009 il reddito imponibile era già salito a quasi 2 milioni, per stabilizzarsi intorno al milione negli anni successivi. Ma la stagione d’oro è stata il 2017, quando ha addirittura totalizzato un imponibile che si aggirava sui 2,3 milioni. In circa un decennio ha portato a casa intorno ai 13 milioni di euro di reddito «pulito». Questo grazie ai contratti con le case editrici, Mondadori e Feltrinelli su tutte, e con le case di produzione televisiva e cinematografica, come Cattleya (quasi mezzo milione per i vari contratti), Telecom-La7 (circa 400 mila euro), Fascino (intorno ai 350 mila), ma anche come Rai ed Endemol, seppur con importi più ridotti. Senza considerare l’accordo con il gruppo editoriale Gedi. Negli Stati Uniti ha un conto corrente ben fornito e detiene una partecipazione del 100 per cento nel capitale di una società americana che vale più o meno un milione di euro e che potrebbe essere un’immobiliare. Infatti risulta che Saviano in America, e precisamente a New York, sia proprietario di un bell’appartamento, dove si trasferisce con la compagna alcuni mesi all’anno. Nella Grande mela vive, racconta chi lo frequenta, nell’elegante quartiere di Williamsburg a Brooklyn. L’indirizzo dove riceve la posta è in un tipico palazzo di mattoni rossi. La giornalista americana E. Nina Rothe, dopo averlo intervistato, annotò qualche anno fa: «Fare la spesa in negozi italiani su Arthur avenue o fare una passeggiata per conto proprio per le vie di Williamsburg, per lui rappresenta un lusso estremo».

E la chiamano parsimonia. Mondadori è stata fin da subito particolarmente munifica con San Roberto. Tanto da pagargli cene e viaggi in giro per l’Italia. Nonostante avesse un conto in banca importante, Saviano ha spesso fatto ricorso al bancomat di Segrate per saldare le fatture di ristoranti e hotel. Uno chef ci ha svelato che, nel suo locale di lusso, la seconda portata alla scorta fu costretto a offrirla lui stesso, visto che «Filetto» traccheggiava. Anche il progetto del suo sito robertosaviano.it che doveva essere una specie di Wikipedia della camorra si è arenato dopo un inizio scoppiettante, pare per mancanza di finanziamenti. Qualcuno che ci ha lavorato, ricorda di essere stato pagato poco. Altri hanno prestato la loro opera senza ricevere nulla. Come Dario Salvelli che ha collaborato un anno con Saviano. Gratis et amore dei. «Sono stato fesso? Probabilmente sì, non lo so» scrisse all’epoca sul suo blog Salvelli. «Però non potevo rifiutare l’appello che mi scrisse via email Roberto tempo fa chiedendomi di collaborare. Quando non ce l’ho più fatta me ne sono andato». Il vero motore dell’azienda-Saviano è però la segretaria Manuela Magnano, la perpetua di Roberto, che segue un po’ dappertutto. Gli ha fatto anche da portavoce quando un fan ha offerto un suo appartamento a Pomarance, in provincia di Pisa, dopo che Robertino si era lamentato in tv di non avere un luogo in cui andare. Manuela scrisse al giornalista del Sole24Ore, Roberto Galullo, che aveva rilanciato l’offerta sul suo blog, e lo ringraziò a nome dell’Eroe con una prosa che, però, non sprizzava entusiasmo. Pomarance non è mica Boston o New York.

Le relazioni che contano. Benché il diretto interessato denunci l’insostenibilità di una vita blindata e dell’occhiuta vigilanza della scorta, in questi anni «Filetto» ha viaggiato moltissimo, allenandosi alle mollezze, tra lussuosi alberghi ed eventi mondani. In agenda pure le cene esclusive con Roberto Benigni, Ezio Mauro, OIiviero Toscani. Ma pur frequentando il bel mondo della gauche caviar Saviano ci tiene ad apparire indipendente. Per esempio, davanti agli occhi di chi scrive contattò Pietrangelo Buttafuoco per chiedergli di fare da ambasciatore con CasaPound così da convincere il leader Gianluca Iannone e ai suoi ragazzi di partecipare a una presentazione di Gomorra officiata da Walter Veltroni, da cui il Nostro non voleva essere adottato. Iannone si sfilò, obiettando: «Ma se c’annamo senza invito ufficiale penseranno a una provocazione e arriverà la Digos». Saviano ha incontrato in giro per il mondo Bono Vox, Philip Roth, Salman Rushdie, Lionel Messi, ha insegnato a Princeton e Boston, ha calcato l’austera sala del Premio Nobel, dialoga con Emmanuel Macron e altri capi di Stato. Ha svelato pure che in Spagna i dirigenti del Barcellona volevano usarlo come cavia per il dispositivo di sicurezza che di lì a qualche giorno avrebbe dovuto essere applicato a Barack Obama: un enorme cubo fatto di vetri antiproiettile. Nel salotto televisivo di Alessandro Cattelan ha confessato il suo amore per i gorilla di montagna che va a cercare nei bioparchi delle città che visita e che sono la sua fissazione su Instagram: «Mi sento un primate, per vicinanza, somiglianza, per il loro essere in gabbia. Negli zoo porto solidarietà ai compagni gorilla». Con Cattelan si è pure lamentato dei suoi viaggi negli Stati Uniti: «Alla dogana appena leggono “personalità sotto protezione” i poliziotti iniziano a spaventarsi» ha spiegato «pensano a un pentito, in genere mi mettono le manette, dei laccetti. Più ti agiti peggio è». Quindi ha confidato il suo incubo in quei casi: «Ho il terrore che mi facciano la foto, che esca in Italia che mi hanno arrestato».

Tra clausura e amicizie affettuose. Nonostante la presunta cattività in cui vive, non gli sono mancate le avventure galanti o presunte tali. «Non sono tipo da ragazze» sospirò un giorno con la faccia afflitta Robertino. Rushdie gli consigliò di andare ai party e di rinunciare alla scorta, come aveva fatto lui. Eppure, le voci - soprattutto nell’ambiente dei centri sociali prima, e dei salotti buoni poi - si sono rincorse. La fidanzata degli inizi - Serena B. - oggi lavora alla Feltrinelli di Trieste. «Era la donna giusta, l’unica insieme alla madre in grado di sopportarlo», si è rammaricato il padre di Saviano, Luigi. Si è parlato di una «affettuosa amicizia» tra lo scrittore e l’eurodeputata del Pd, Pina Picierno che, però, ha minacciato querele al riguardo, come se frequentare Saviano fosse potenzialmente diffamatorio. C’è chi gli ha attribuito la scrittrice Silvia Avallone, finalista del premio Strega. C’è poi chi ha favoleggiato su una liaison con Sofia Passera, figlia dell’ex ministro Corrado. Guai però a chiedergli della sua vita privata. Gli eroi sono asessuati, come gli angeli. D’altronde, poco prima che uscisse Gomorra, si premurò di chiedere la cancellazione della notizia del suo fidanzamento con Serena dalla biografia ufficiale contenuta in un articolo di presentazione.

Una ragazza di nome "Meg". Ma la verità è che Saviano, oggi, è un uomo accasato. La sua compagna ormai ufficiale per tutti nel suo entourage è Maria Di Donna, in arte Meg, ex cantante della band underground 99 Posse, da una quindicina d’anni voce solista. Originaria di Torre del Greco, studi porticesi e residenza napoletana durante gli anni dell’università, non viene mai associata a Saviano. Su internet si trova solo una notizia del 2008, confezionata da Novella 2000, in cui si sottolineava che Saviano era sì sotto scorta, ma non per questo senza amore. Il Corriere della sera riprese la notizia in questi termini: «Le luci dei riflettori si sono accese per la presenza di due (…) giovani che sembrano contendersi l’amore di Saviano. Le duellanti sarebbero Meg (…) e una misteriosa giovane poetessa, per ora ignota. Un triangolo che potrebbe diventare un quadrato. Meg, infatti, è da tempo legata a Emiliano Audisio. Il musicista della band Linea 77 non sembra essere disposto a farsi sostituire da Saviano». Alla fine Roberto l’ha avuta vinta. Lui e la sua bella Meg risultano entrambi residenti in una caserma dei carabinieri dietro al Parlamento. In realtà convivono tra l’appartamento di lui a New York e quello di lei a Roma. Meg ha comprato casa nella Capitale nel 2009 poco dopo l’inizio della storia con Saviano. L’appartamento di 6,5 vani, con telecamera sulla porta d’ingresso, compare in qualche foto su Facebook e su una parete si intravede un quadretto con il corallo di Torre del Greco, città d’origine della cantante. Nella casa di 120 metri quadri Meg abita con la sua bimba di circa dieci anni. Un negoziante della via ci dice: «Lo scrittore vive qui da sette anni circa. Ma l’avrò visto due o tre volte. Si allontana per mesi». I gestori del garage sotto il palazzo lo hanno avvistato più volte, anche perché la scorta dello scrittore non passa inosservata. Lui entra e esce dallo stabile indisturbato, sebbene nel condominio ci siano decine di appartamenti. Ma nonostante viva tra la gente, Saviano in tv e nelle interviste si lancia sempre in dichiarazioni melodrammatiche. Per esempio, mentre dava del buffone al ministro dell’Interno proclamò, a proposito della sua esistenza sotto scorta: «E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da 11 anni? Da più di 11 anni. (…) Ho più paura a vivere così che a morire così». Meg non parla mai nelle sue interviste, né di Saviano, né della bambina, ma si dilunga sulla sua vita vagabonda: «Sono stata parecchio in viaggio, ho visitato molte città sia in Europa che negli Stati Uniti e quella che meglio di tutte mi ha adottato è stata New York» ha raccontato in un’intervista. Napoli, ormai, le sta stretta: «Mi rendo conto che viverci può essere impegnativo e pesante». Recentemente è stata la voce narrante, oltre che interprete, della colonna sonora, guarda un po’, di Camorra, il documentario di Francesco Patierno presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia e andato in onda su Rai 3. Non è difficile immaginare Saviano e Meg la sera a tavola mentre discutono dei Casalesi per la gioia della ragazzina.

IL METODO «più che vero, verosimile». L’attitudine di «Filetto» non è quella del giornalista investigativo (non è neppure iscritto all’albo, anche se ha frequentato un breve seminario nel 2005), ma quella dello scrittore. Dopo la palestra al Manifesto, all’inserto campano dell’Unità e, ancora, nel cenacolo de sinistra del blog Nazione indiana, arrivò il grande salto al Corriere del Mezzogiorno, dorso campano del Corriere della sera. Tra il 2004 e il 2006, scrive una decina di pezzi di cronaca, veri reportage. Per esempio si occupa dell’omicidio della piccola Annalisa Durante a Forcella seguendone i funerali. «Mi colpì perché era un entusiasta, non certo per la qualità della scrittura. Andava sul posto. Tornava a rivedere», ricorda l’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. A quel punto, il direttore decide di inaugurare sul quotidiano un Osservatorio anticamorra, per non far dimenticare alle istituzioni locali finite in mano alla sinistra la criminalità organizzata. «Bisognava che il discorso uscisse dai confini regionali e Saviano si è dimostrato la persona giusta» spiega De Marco. «Solo che un giorno arrivò da me con la storia del vestito di Angelina Jolie realizzato in un atelier della camorra. Mi parve una storia bellissima e la pubblicai. Finì anche in Gomorra e fece il giro del mondo». Però un giorno Demarco chiese a Saviano di dirgli come avesse trovato una storia tanto affascinante e lui rispose: «Me l’ha raccontata il sarto». Demarco rimase interdetto: «E non hai altre prove?» domandò. La risposta fu negativa. «Capii allora che aveva più una logica da scrittore che da giornalista. E infatti ci arrivarono molte smentite per i suoi articoli. Roberto non faceva mai le verifiche di quanto gli avevano raccontato» conclude Demarco. Il quale, con il senno del poi, ha riflettuto su quanto sia rischioso questo modo di lavorare, dove il verosimile diventa reale e le parole di un pentito possono diventare Vangelo. È il suo metodo, quello che gli consente di superare di slancio le faticose verifiche del giornalismo d’inchiesta. Ma guai a dirlo: «Se mettete in dubbio la mia credibilità, mi consegnate ai killer» è il suo ricatto morale.

Un capolavoro a sei mani. Un po’ per fortuna, un po’ per l’interessamento di Helena Janeczek, premio Strega 2018, Roberto arriva alla Mondadori nel dicembre 2004. Il suo primo contatto è con Edoardo Brugnatelli, direttore della collana Strade blu. Il suo biglietto da visita sono gli scritti su Nazione indiana (a cui collabora anche la Janeczek) e le buone referenze di Goffredo Fofi. Mondadori - spiega un interno - vuole puntare su qualcosa di nuovo e pop, neorealista o iper-realista, e la rilettura di Saviano di carte giudiziarie sembra perfetto per lanciare una straordinaria operazione di marketing editoriale. Gomorra nasce due anni dopo dalle cure di Antonio Franchini, direttore della sezione narrativa di Segrate, e della stessa Janeczek («Dalla collaborazione tra Antonio, Helena e Roberto non solo nacque il testo come lo conosciamo adesso, ma nacque anche il titolo Gomorra», ha svelato su Medium Brugnatelli). Il libro è quindi il frutto di un robusto editing che ha impegnato Saviano in una profonda opera di riscrittura sotto l’attenta vigilanza di Franchini. «Le uniche parole sue sono quelle che ha preso dai giornali» si diceva ai piani alti della Mondadori. Dove forse oggi considerano il bestseller un esperimento ben riuscito, ma meno nobile, rimanendo nel campo della letteratura underground campana, del Libro napoletano dei morti di Francesco Palmieri, il cui capolavoro, a Segrate, viene considerato la vera Gomorra. Nel 2006 l’opera prima del «Signore degli anelli» è già ampiamente pubblicizzata dai network editoriali locali e nazionali prima ancora di uscire. Franchini presenta uno sconosciuto Saviano agli amici descrivendolo come «uno scrittore potente che sta lavorando a un libro sulla camorra, una cosa mai vista» (Corriere della sera Magazine, ottobre 2006). Ma diventa un caso dopo che sull’Espresso e Repubblica spunta la notizia delle minacce e dell’assegnazione della scorta. È l’ottobre 2006 e Gomorra è in libreria da appena un paio di mesi. Ma chi ha davvero minacciato Roberto Saviano? Qual è stata la scintilla che ha reso necessaria una protezione, per uomini e mezzi impiegati, inferiore a poche altre personalità? La risposta è: non si sa. A parte telefonate mute e lettere anonime denunciate da Roberto, tutto il resto si ignora. In un’occasione, a piazza dei Martiri, Saviano si vede additato da due giovani, e pensa che forse vogliano sparargli. In un’altra, un ristoratore gli chiede di non farsi più vedere nel suo locale. È un ordine dei clan, forse? No, solo la reazione (sopra le righe) di un commerciante che si sente offeso da un libro che, secondo lui, parla male della sua città. La vulgata dell’antimafia di carta racconta che i Casalesi vogliono farlo fuori per vendicarsi dell’affronto subito durante la presentazione del libro, insieme all’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti, a Casal di Principe. Ma i documenti che dovrebbero dimostrare il pericolo, e la sua attualità dopo 12 anni di protezione ininterrotta, non ci sono. Nessuno li ha mai visti. Anzi, esistono documenti che provano esattamente il contrario. E cioè che i grandi boss della camorra casertana non solo non hanno minacciato Saviano, ma sono stati addirittura assolti dall’accusa di aver intimidito, con la connivenza dall’avvocato Michele Santonastaso, lo scrittore, e la giornalista Rosaria Capacchione. I padrini Antonio Iovine e Francesco Bidognetti erano finiti sotto processo perché, secondo l’accusa, d’intesa o comunque appoggiando la linea d’attacco del loro legale nei confronti di Saviano, avrebbero attentato alla sua vita. Il processo, che si è chiuso quattro anni fa a Napoli, con la doppia assoluzione per i boss casalesi e con una condanna (poi cancellata per il trasferimento degli atti a Roma, dove il fascicolo ancora dorme) per Santonastaso, ha, invece, dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che i Casalesi non hanno mai minacciato Roberto. L’ex super latitante Iovine, oggi pentito, nel giugno del 2016 aveva spiegato ai pm che lo interrogavano di non aver mai pensato di minacciare Saviano e addirittura di aver rimproverato il suo legale per la notorietà che gli aveva regalato: «Tu sei scemo, ma chi è, ma che ce ne importa a noi di questo Saviano?» raccontò Iovine ai pm antimafia riportando il discorso che lui stesso avrebbe fatto all’avvocato: «Santonasta’, ma perché non ti stai zitto con questo Saviano? Ma lascialo perdere...» gli avrebbe consigliato.

ANCHE le icone a volte chiedono SCUSA. Chi, invece, tiene bene a mente quel che Saviano ha scritto di lui è il presidente forzista della Provincia di Caserta ed ex sindaco di centrodestra di Pignataro Maggiore, Giorgio Magliocca. Fu accusato da Saviano, in un articolo del settembre 2003 su Diario, di aver avuto rapporti coi boss del suo paesino per vicende legate ai beni confiscati. Un’invenzione bella e buona a cui Magliocca (nel frattempo assolto e scarcerato da gravi accuse che lo avevano tenuto in custodia cautelare per quasi un anno) risponde con una querela per diffamazione. E Roberto che fa? Affronta il processo sicuro delle sue fonti? Difende fino alla fine la Sacra Parola contro la camorra? Macché. Resosi conto della bufala rifilata al settimanale, cerca sponde per farsi perdonare (per esempio si rivolge al politico casertano Mario Landolfi), quindi prende carta e penna e scrive a Magliocca per scusarsi. Tratto in errore dai tempi stretti della pubblicazione, Robertino non aveva  controllato la «veridicità di quanto mi era stato riferito». Solo incalzato dalla querela, l’autore di Gomorra si era reso conto che «lo stesso boss non ha mai proferito la frase riportata nell’articolo»; frase a cui Magliocca era stato crocifisso a mezzo stampa. Qualche giorno dopo l’ex sindaco ritirerà la querela. Cosa che non farà invece Vincenzo Boccolato, imprenditore residente all’estero e incensurato per la giustizia italiana, ma non per Saviano, che l’aveva falsamente accusato in Gomorra di far parte di un clan camorristico coinvolto nel traffico di cocaina. L’11 agosto 2018 Saviano e Mondadori libri sono stati condannati per diffamazione. Dovranno pagare 15 mila euro a testa di risarcimento a favore di Boccolato.

Una BRUTTA FIGURA tira l’altra. La star antimafia ha messo nel curriculum altri clamorosi scivoloni. In occasione dell’attentato davanti alla scuola a Brindisi, in cui perse la vita la giovane Melissa Bassi (2012), Robertino orientò subito le indagini sulla criminalità organizzata pugliese. L’autore dell’attentato era, invece, uno psicolabile. Due anni prima, in Trentino, aveva scatenato un putiferio parlando di una indagine dei carabinieri sulle mire della ‘ndrangheta calabrese sulla raccolta delle mele della Val di Non. Quando un militare del Ros, lo contattò al telefono - su delega della Procura - per chiedergli conto di quelle informazioni, lui rispose che non ne sapeva assolutamente nulla e che aveva lanciato quell’allarme come «monito». E il fuoristrada Mehari del povero Giancarlo Siani? Nel 2013, lo scrittore di Gomorra inaugura il tour della memoria al volante dell’auto del cronista del Mattino ucciso dai clan nel 1985. E tutto orgoglioso afferma di essere stato il primo, 28 anni dopo quell’infame agguato, a rimetterla in moto. Gli risponde piccato Marco Risi che gli ricorda che la vettura era già presente nel suo film Fortapàsc. «Qualche volta dovrebbe anche tenere a mente il lavoro degli altri», lo mise in riga il regista. Nonostante le magre figure, Saviano non ha mai abbassato le piume. Anzi la sua prosopopea è cresciuta nel tempo. Rendendolo permaloso e rancoroso. «Filetto» è un tipo decisamente fumantino. Insulta e denuncia a raffica. Tra le sue vittime anche il neodirettore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. La cui nomina ha accolto con questo post di felicitazione: «Gennaro Sangiuliano direttore del Tg2, peggio non si poteva» e poi l’ha bollato come galoppino di politici chiacchierati. Qualche ora dopo Saviano si compiace: «Il neo direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, dopo il mio post di ieri, minaccia querela. Si metta in fila, davanti a lui c’è il ministro della Mala Vita, suo protettore. I tg delle reti pubbliche trasformati in uffici stampa non sono cosa nuova, continueremo a resistere. Come continueremo a resistere alle intimidazioni». Eroico Saviano. Insulta la gente e poi fa la vittima. Ma in pochi sanno che Sangiuliano è stato citato per danni (un milione di euro) proprio da Saviano e che la Rai, in disaccordo con il giornalista, ha deciso di transare per evitare problemi. Che cosa aveva detto di tanto grave il direttore? Aveva curato un servizio su una delle balle raccontate dallo stesso scrittore. La vicenda è ben ricostruita nel libro di Giancristiano Desiderio Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce. Sul finire dell’inverno del 2011 ci fu una polemica tra Saviano e la nipote del filosofo Marta Herling. Lo scrittore, in una puntata di Vieni via con me, aveva asserito che il grande pensatore, dopo essere rimasto sepolto sino al collo dalle macerie della propria casa durante il terremoto di Casamicciola del 1883, avrebbe offerto 100 lire ai soccorritori per essere salvato prima di altri concittadini. La Herling scrive al direttore del Corriere del Mezzogiorno, Demarco, testata con cui Saviano collaborava, per dire che Roberto aveva scritto cose «orecchiate e non vere». Saviano indispettito si fece ospitare nel tg di Enrico Mentana e nel salotto di Otto e mezzo di Lilli Gruber per difendere le proprie fonti, che però, scrive Desiderio nel libro, «si rivelavano indirette e secondarie». Demarco scrisse anche un paio di articoli per smontare la sicumera di Saviano, di cui uno intitolato: «Ecco dove Saviano ha scovato la falsa notizia su Benedetto Croce». Alla fine si scoprì che la leggenda, smentita dallo stesso filosofo in un paio di suoi tomi, venne innescata da un articolo anonimo del Corriere del Mattino che riportava una fonte altrettanto anonima del 31 luglio 1883, una voce che girava per Casamicciola. Ma per Saviano la notizia era troppo gustosa per non offrirla ai suoi sorcini come oro colato...

Quando Saviano dava lezioni sull'etica. La seconda parte dell'inchiesta di Panorama sullo scrittore dedicata ai "plagi creativi" ed alle sbandate ideologiche. Giacomo Amadori e Simone Di Meo 26 novembre 2018 su Panorama. Nel processo di beatificazione permanente di Roberto Saviano qualche voce dissonante si è alzata anche da sinistra. Per esempio Giorgio Bocca, scrittore, giornalista ed ex partigiano (di cui Saviano ha ereditato la rubrica su L’Espresso, l’Antitaliano) sette mesi prima di morire, nel maggio 2011, lo straccia così: «Mi sta sui coglioni, però è bravo. È un esibizionista, un attore, si mette lì, con la barba lunga. È uno che recita il suo personaggio, gli piace fare il carbonaro, il perseguitato» eppure, «non fa altro che andare in giro a fare conferenze». Per Bocca, Saviano ha il difetto tipico degli intellettuali: «Quello di credersi i salvatori del mondo». Lo boccia pure come scrittore: «A me i suoi libri danno noia perché sono barocchi (...) io sono piemontese e lui è napoletano. Questa è la differenza». Altrettanto duro con Roberto è don Aniello Manganiello, l’ex parroco di Scampia che ha sfidato la camorra e che per questo motivo è finito nella lista dei «morituri» del clan Lo Russo. Dice a Panorama: «Io la scorta l’ho rifiutata, sarebbe stata una presa per i fondelli dei miei parrocchiani. Da un lato li esortavo a contrastare la camorra, a superare la paura e ad avere coraggio, e dall’altro mi facevo proteggere?». Il «don», al quale volevano sparare alle gambe e tagliare la gola, archivia così Saviano e la sua epica: «Una parte dell’editoria e della politica ne ha fatto un mito, ma per me è un burattino che stanno utilizzando per fare ricavi e ottenere consenso. A mio parere, non ha niente da insegnare a nessuno». La scorta, al contrario di don Manganiello, Saviano non l’ha rifiutata. Col tempo, anzi, si è accresciuta. Su una delle due auto blindate che da anni lo accompagnano c’è sempre uno Spas12, un fucile mitragliatore d’assalto, come riportato dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2008. Il fatto che Saviano sia in pericolo di vita è messo in discussione dalle parole dello stesso scrittore. In particolare, dal suo racconto a Salman Rushdie, durante un incontro pubblico a New York dedicato alle reazioni dei clan all’uscita di Gomorra: «I camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta». E, secondo Saviano, avevano persino iniziato a farne «copie taroccate da vendere in strada». Una domanda viene spontanea: ma i malavitosi non avevano paura di quel libro? Sia come sia, a chiedere la scorta per lui dopo che ebbe presentato Gomorra a Casal di Principe, nel settembre 2006, fu il prefetto di Caserta in persona, Maria Elena Stasi. La signora è stata deputata del Popolo delle libertà, molto vicina a Nicola Cosentino, potente ex sottosegretario all’Economia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e coinvolta in un paio di procedimenti penali legati alla camorra casertana. La Stasi è stata assolta in uno, ma condannata a due anni e prescritta nell’altro (e oggi è in attesa del giudizio d’Appello). Nei racconti ufficiali, Roberto viene descritto in perenne fuga da killer implacabili della camorra e ai giornalisti che lo incontrano è vietato rivelare il nome della località in cui si trova. Eppure, appena c’è un libro in uscita, lo scrittore sulla sua pagina Facebook annuncia il programma delle presentazioni e degli spostamenti. Con tanto di date e orari. Non è un controsenso? Se c’è il pericolo che la camorra voglia ucciderlo, se gli alberghi dove alloggia sono top secret, perché mettere a rischio anche i suoi lettori per un motivo squisitamente commerciale? Non tutti, però, sono dello stesso avviso. Nel 2011, la Metropolitan police di Londra si è rifiutata di assegnare la scorta a Saviano in occasione di un premio internazionale ritenendola non necessaria. Lui, offeso, non è andato a ritirare l’onorificenza.

Circondato dai carabinieri. Una scorta come quella di Saviano impegna dieci carabinieri(cinque per due turni di sei ore e 40 minuti al giorno) che diventano almeno 15 a rotazione in un mese, se si considerano i riposi settimanali, i permessi e le licenze. Ogni unità costa allo Stato poco meno di 40 mila euro lordi l’anno (esclusi straordinari e indennità di missione che sono liquidati a parte). Significa 400 mila euro ogni 12 mesi. Ovvero quasi 4 milioni nell’ultimo decennio. E questo senza considerare le spese accessorie per benzina, pedaggi, trasferimenti in aereo e manutenzione delle auto blindate, che fanno, ovviamente, crescere moltissimo il conto. Chi lo accompagna, spesso, non conserva una buona opinione dello scrittore. Panorama ha parlato con alcuni dei suoi angeli custodi e questi lo giudicano un po’ arrogante e scontroso. In auto strepita e usa toni e linguaggio sopra le righe. Ma quando scende dall’auto indossa la maschera dell’agnello. È anche capitato che chi lo scortava gli facesse da cameriere, riempiendogli il piatto al ristorante mentre lo scrittore discuteva con l’ospite di turno, secondo quanto ha scritto il Corriere della sera del dicembre 2008. Nonostante le forze dell’ordine siano diventate un po’ la sua famiglia, il giovane Saviano aveva svelato al mondo di subire il fascino della lotta armata. Lo scrittore aveva infatti espresso posizioni eversive durante un importante convegno rimasto agli atti di Radio Radicale. L’incontro si tiene nel 2000, all’Università Federico II di Napoli, dove Saviano studia filosofia. Da pochi mesi è stato assassinato il giuslavorista Massimo D’Antona. Davanti a giornalisti, storici, politici e magistrati l’allora studente Saviano chiede la parola e si lancia in un’imbarazzante apologia dell’eversione (sentire per credere sul sito): per lui i terroristi «erano la parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci», partito che con la sua scelta socialdemocratica aveva disatteso «le aspettative rivoluzionarie». Quindi i terroristi avrebbero preso le armi per «portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci». Roberto, dopo aver ricordato al suo uditorio che «la rivoluzione si fa con il fucile» e che il capitalismo e le sue crisi sono l’origine di tutti i mali («generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato»), fa un ragionamento spericolato: «La polizia sparava per le strade, la polizia uccise Francesco Russo, Giorgiana Masi, quindi la polizia era armata. Chi faceva resistenza doveva armarsi (…). In fondo non è che un magistrato, un poliziotto, un politico, fanno qualcosa di più lecito, se parliamo di etica, di quello che fa un rivoluzionario sparando». È un parallelismo che gela la sala o per lo meno i relatori. Ma Saviano ci tiene a rimarcare di non stare «dalla parte della magistratura, dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo», colpevole solo di aver cercato «di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo». Quattro anni dopo, nel febbraio 2004, Saviano sottoscrive un appello di Valerio Evangelisti, direttore del sito Carmilla, in favore del terrorista rosso Cesare Battisti, latitante dal 1981. Una firma che Saviano ha poi ritirato nel 2009, giustificandosi da par suo: «La mia firma è finita lì per chissà quali strade del web». Di recente, infiammato dalla vicenda di Domenico Lucano, il sindaco di Riace, Saviano ha rispolverato l’antica posa da molto discutibile maestro: «Quando l’ingiustizia diventa un crimine, la resistenza diventa un dovere» ha declamato. «Dobbiamo mettere il nostro corpo a difesa di Mimmo Lucano (...) A chi tra i più giovani mi ascolta chiedo di potersi attivare non soltanto sui social, importante, ma per strada, in qualsiasi luogo (...) ricordatevi: mai inchinati, mai piegati, mai spezzati». Saviano è un giovane come tanti. In una puntata delle Iene ha confessato di aver fumato canne e, sorridendo, di non disdegnare affatto le emozioni forti dei film porno («L’ultimo l’altro ieri»). Non solo: ha ammesso di essere, col tempo, «peggiorato come persona». E a scuola non andava neppure tanto bene. Eppure i suoi agiografi tramandano che fin da piccolo abbia esibito doti intellettuali non comuni. A otto anni avrebbe letto l’Odissea, a 17 nientemeno che il Capitale di Karl Marx. Compagni e professori di scuola hanno ricordi un po’ diversi: «Non era troppo brillante» rammenta il segretario amministrativo del liceo Diaz di Caserta, Pierino Bosco. Alla maturità ottenne un punteggio poco superiore alla sufficienza, 42. Ottimi voti in italiano, ma pessimi nelle materie scientifiche e in tedesco. «Gli ho messo anche un 3 e qualche 4, non era particolarmente ferrato» ricorda il docente di matematica, Luciano Antonetti. Sul suo banco c’erano scritte e slogan contro la Chiesa e gli Stati Uniti, però Roberto era orgoglioso del suo giubbotto verde della squadra di basket dei Boston Celtics e qualcuno lo trovava incoerente. All’epoca aveva i capelli ricci e lunghi. Girava col Manifesto sottobraccio: con il quotidiano comunista riuscì addirittura a collaborare grazie all’intercessione dell’allora assessore regionale di Rifondazione comunista Corrado Gabriele e del suo addetto stampa. All’Unità, il suo nome venne, invece, suggerito da Isaia Sales, esperto di camorra, politico del Pds, ed ex sottosegretario nel primo governo Prodi. «Anche se gioca a fare il self-made man» spiega Marco, un amico di infanzia «Roberto viene da una famiglia della buona borghesia. A Caserta viveva in un parco residenziale tra i più belli della città, di fronte alla Reggia». Grazie ai parenti ha ricevuto anche qualche spintarella. Per esempio, nel 2006, il suo primo lavoro da impiegato alla Mec San srl di Maddaloni è arrivato grazie alla raccomandazione dello zio Michele. Il titolare dell’azienda, Vincenzo Santangelo, non lo ha dimenticato: «Roberto? Lavorava da noi nell’ufficio pianificazione. Quando l’ingegner Michele Saviano andò in pensione, gli facemmo un contratto di collaborazione e lui ci presentò Roberto».

Fra «Torah» e cabala. La famiglia di Saviano si compone dello scrittore, dal fratello Riccardo, un po’ più piccolo, e dai due genitori, divorziati da qualche tempo. Riccardo, oggi, fa il fotografo al seguito del celebre congiunto. La madre è citata dal figlio col nome ebraico di «Miriam Haftar», ma in realtà si chiama Maria Rosaria Ghiara, ed è docente di scienze all’Università Federico II di Napoli oltre che direttore del polo museale dell’ateneo. Nei racconti pubblici e privati, Roberto fa quasi esclusivamente riferimento a lei, chiamandola «severa professoressa», come se il padre non esistesse. E, in effetti, fin dal liceo, il rapporto con lui è stato conflittuale. Ne parla male persino agli insegnanti. Come conferma a Panorama il professor Antonetti: «Diceva che non lo poteva vedere perché aveva lasciato la madre». La famiglia Ghiara è di origine ligure, ma si trasferì nel Dopoguerra a Trento dove nacque la signora. Dalla professoressa, Roberto dice di aver ereditato il sangue ebraico oltre che l’orientamento di ultrasinistra. Tuttavia, né i Saviano né i Ghiara risultano iscritti alla comunità ebraica di Napoli. A iniziarlo all’ebraismo è stato nonno Carlo, ufficiale dell’Aeronautica: «mi ha insegnato la Torah», ha precisato Saviano. Il 24 settembre 2007, a un giornalista del quotidiano Haaretz, Saviano ha rivelato di avere radici sefardite e di essere stato «molto colpito da Sabbatai Zevi», cabalista del Settecento, ma di non aver «voluto pubblicizzare la cosa» perché «in Italia passerebbe per qualcosa di esoterico». Uno degli anelli che porta al dito (venduto a 114 euro da un gioielliere di Tel Aviv come «Anello di Saviano - Ring of courage») riporterebbe un’iscrizione ispirata alla Cabala; questo sebbene uno studioso, Dario Borso, abbia detto a Panorama che più prosaicamente è una citazione del romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert. All’università di Roma il 17 dicembre 2008, Saviano ha sfoggiato altri tre anelli, «uno a sinistra, due a destra», secondo la moda delle paranze di fuoco dei clan. «Sono tre anelli come il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Così facevano dalle mie parti, così faccio io» ha dichiarato a un cronista. Le sue radici partenopee sono quelle del padre Luigi, medico di famiglia in pensione, originario del comune di Frattamaggiore, Napoli. Nei primi anni del Duemila, finisce in un’inchiesta della procura di Napoli insieme a un’altra ventina di colleghi accusati di aver falsificato ricette mediche per truffare il Servizio sanitario nazionale. Si difende sostenendo che è tutto un equivoco, frutto di uno scambio di persona, ed esce dal processo accettando la prescrizione. Fino a 28 anni, ha giurato il papà in un’intervista alla Stampa, Roberto non gli ha mai fatto neanche gli auguri per il compleanno e in Gomorra lo cita in un’unica occasione, presentandolo mentre gli regala una pistola per insegnargli a sparare. Tutta scena, si difende il genitore, il quale, al contrario della moglie, per tutta la vita avrebbe votato Dc. Ma intorno a Saviano e alla sua abilità con le armi fioriscono aneddoti e fole. Molti credono di averlo riconosciuto in un passo del recente saggio Armatevi e morite di Carmelo Abbate e Pietrangelo Buttafuoco, là dove scrivono di «un tutelato h24 che la passione per le armi ebbe a pagarla». Secondo gli autori, un giorno questo «amante delle sparatine», per darsi un tono, si calò la pistola nella cintola dei pantaloni, facendo partire un colpo: «E fu pum! Per fortuna solo sul popò». 

Saviano non sa scrivere, ma il suo racconto prima di Gomorra non è male. L'Inkiesta 20 ottobre 2017. Si fa fatica ad arrivare in fondo a “Bacio feroce” e la ferocia di Saviano è superficiale, un mazzo di biscottini Plasmon per lettori alle prime poppate. Anche il racconto del 2005 “La città di notte” dimostra che Saviano era (ed è) un pessimo scrittore, ma c'era un elettrico senso di giustizia.

Il bastone. Né zuppa né panbagnato, ma una pappina atta a épater le bourgeois, dove stagnano i rospi della noia. Si fa fatica ad arrivare al fondo di Bacio feroce, Saviano 11 anni dopo Gomorra. Troppa ferocia? Magari. 25 anni dopo Le Iene e 90 anni dopo la nascita di Lucio Fulci, la ferocia di Saviano è superficiale, un mazzo di biscottini Plasmon per lettori alle prime poppate. Alla fine, in fondo – dopo tutta la fatica per arrivare in fondo – ci si affeziona pure a Nicolas detto ’o Maraja, lo stallone della paranza, a Tucano e a Lollipop che si chiavano, un po’ perplessi, Esterina, la trans, “era bellissima”, “è una fata”, e a tutti quei bimbi disadattati che guadagnano un sacco con lo spaccio, che sono assetati di potere o semplicemente annientati dal niente. Quella ferocia dispensata a larghi tratti, del tutto superficiale – teste mozzate, una manciata di omicidi, spergiuri, soprusi e bastonate – fa l’effetto di piume di struzzo per rimbambire il lettore ‘televisivo’, quello che garba a Saviano. Per il resto, la faccenda è semplice. Saviano non è un giornalista. Saviano non è uno scrittore. Se fosse un giornalista, senza scomodare i santi – chessò, A sangue freddo di Truman Capote o I racconti della Kolyma di Varlam Salamov – Saviano racconterebbe i fatti così come sono. Usando le strategie del giornalismo. Scrittura violenta, caustica, che va subito al cuore, che mescola abisso e mezzogiorno, sterco e rose. Ma Saviano non è un giornalista. Come mai? Ora vi dico come vive un giornalista. Un giornalista non ha padrini né padroni, non ha la scorta (e smettetela, nella bio savianesca, di scrivere ciò che tutti sanno, “dal 2006 vive sotto scorta in seguito alle minacce dei clan che ha denunciato”, che c’importa ai fini dell’attività da romanziere, artistica, di Saviano? Mica di Dostoevskij scrivono, per dire, è stato condannato a morte dallo zar ed è stato in prigione per un tot di anni), spesso non è neppure iscritto all’ordine, non ha i soldi per pagarsi i corsi e diventare professionista, e per fare il suo sporco mestiere – giornalismo = rimestare nella merda che è l’uomo – gli danno dai 3 ai 10 euro ad articolo. Se è una ‘firma’ si arriva anche a 20 euro, una fortuna. Il giornalista senza padroni né padrini esercita la professione nei bassifondi, tra la rissa dei giornali locali, mette in luce le piccole e grandi corruzioni – e collusioni – della politica del paese suo. In cambio, privo di tutela giudiziaria, si becca querele preventive di diffamazione, minacce a sé e alla famiglia. Ho visto Sindaci pretendere un colloquio con direttori di giornali ed editori allo scopo di minimizzare la carriera di un giornalista di quartiere. Il poveraccio prima subisce l’improvvido ‘aggiustamento’ dei suoi pezzi, poi gli alleggeriscono il titolo, poi gli dicono che è bene si occupi di altro. I ‘colleghi’ sono troppo impegnati a scrivere il loro, i politici girano il muso: d’altronde, il buon giornalista mena dove c’è da menare, non guarda la patente politica, uno scocciatore in meno fa comodo a tutti. Eppure, ecco, al giornalista che quotidianamente scava la rogna dei politici locali non affidano una trasmissione televisiva. In effetti, la camorra è un brand, il povero giornalista vessato per misere ruberie locali è uno scemo, un poveraccio. Saviano, però, non è neppure un romanziere. Cosa fa un romanziere? Parte da un dato di fatto – nel caso suo, la paranza – traendo l’universale. Esempio: a pagina 217 Saviano si concede un pensierino profondo. “Il bambino non è bambino, a Napoli. Il bambino è criaturo. […] Tutto i bambini del mondo si credono immortali. Qualunque neonato appare ai genitori come un libro dalle pagine bianche su cui il futuro vergherà una storia che sperano migliore della loro. Le creature di Napoli, però, quel tempo non ce l’hanno”. Sociologia spiccia. Roba che potremmo dire dei bambini delle favelas di São Paulo, dei bambini cresciuto a Baggio o a Quarto Oggiaro, a Milano, dei bambini di Abuja o di Lagos, Nigeria, dei bimbi come me, cresciuti nella periferia omerica e omertosa di Torino. Cerco di farmi capire. Nei Fratelli Karamazov c’è una scena in cui Dostoevskij parla proprio della “creatura”, forse Saviano l’ha ricalcata, chissà. Nella scena Dmitrij Karamazov precipita in un sogno. Vede gente che soffre ingiustamente, ingiustificatamente. Madri che piangono reggendo i figli, le creature. Dmitrij, nel sogno, in mezzo all’orrore, ha uno scatto: “Dimmi, perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? Perché la steppa è desolata? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché sono anneriti dalla miseria? Perché non danno da mangiare a quel bambino? Perché la creatura piange?”. Dostoevskij sa che la domanda perché esiste il male, perché l’uomo soffre? è “irragionevole e priva di senso”, eppure si ostina a proporla, continua a lottare nonostante l’impossibile. Saviano eccelle nel creare macchiette da fiction (tipo: “A Copacabana piacevano due cose nella vita: il culo delle brasiliane e farsi radere”), non ha la furia del romanziere (laNota dell’autore è perfino imbarazzante, “una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto”: magari, saremmo di fronte a una specie di Pasticciaccio alla napoletana, invece c’è qualche spruzzata gergale ad uso dei lettori americani, che per queste cose vanno in latte di bufala), è arreso alla nuda fatalità della soap. Si è arreso. Certo, ha creato un nuovo ‘genere’. Il ‘pummarola western’. Felice lui, il suo agente, il suo conto in banca.

La carota. Si firmava underthevolcano. Come il grande, infinito, misterico romanzo di Malcolm Lowry. Under the Volcano, anno di nascita 1947. Sotto il vulcano. In Italia pubblica Feltrinelli. Che gran bel romanzo. Federico Francucci, ricercatore all’Università di Pavia, gran lettore, si firmava underthevolcano. Già questo me lo rendeva ultrasimpatico. Era il 2005. Numero 38. Era il numero 38 della rivista Atelier. Giugno 2005. Francucci cura un numero monografico dedicato ai Racconti italiani. In mezzo, tra Flavio Santi, Laura Pugno e Gabriele Dadati, c’è Roberto Saviano. Saviano prima di essere Saviano. Un anno prima di Gomorra e di tutta un’altra vita. Saviano che nella biografia non aveva ancora la scorta, era semplicemente uno che “scrive inchieste, reportage e racconti”. Saviano, in quel reperto archeologico, pubblica un racconto dal titolo La città di notte. La storia è sempre quella. Bassa malavita, omicidi a go-go, camorra. Gli agnelli sacrificali, allora, si chiamavano Vincenzo e Giuseppe. “Ammazzati. Ventiquattro e Venticinque anni. Morti che nessun giornale nazionale il giorno dopo ha ricordato. Nessun telegiornale, nessun radiogiornale ha accennato. Niente di niente”. Il racconto è vigorosamente patetico, accorato, e ammette la morale fin dall’incipit. “Esiste un posto dove nascere comporta avere una colpa”. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole – ogni posto porta con sé un marchio, una colpa; ogni famiglia ha la sua colpa da scontare sulla cattedra della vita ‘sociale’, non ci sono eccezioni, eccellenze, eccedenze. Eppure, Saviano, con quella scrittura rotta, a scatti, senza dialoghi, ci prova. Almeno. Almeno, c’è un elettrico senso di giustizia – “sono nati nel paese della colpa. Non potevano dirsi innocenti” – che rende ribollente il racconto, che lo agita. Per il resto, a dirla tutta, Saviano era un pessimo scrittore allora come oggi. Niente di nuovo sotto la sottana della Musa.

·         Agguato a un giornalista. Spari contro il direttore di “Campania notizie”.

Agguato a un giornalista. Spari contro il direttore di “Campania notizie”. Il Secolo d'Italia venerdì 15 novembre 2019. Due uomini hanno sparato ad altezza d’uomo almeno sei colpi di pistola contro il direttore di Campania Notizie, Mario De Michele, mentre era a bordo della sua auto. Ne dà notizia lo stesso giornale on line. «Due colpi – si legge sul sito del giornale online – all’indirizzo del parabrezza hanno attraversato l’abitacolo della macchina a pochi centimetri dal giornalista. Nel tentativo di fuga di De Michele, gli aggressori hanno esploso altri 3-4 colpi che hanno distrutto anche il lunotto posteriore della vettura. «Solo il caso ha fatto sì che ne uscisse illeso», sottolinea Campania Notizie. Indagano i carabinieri. Secondo quanto rivelato, nessuna pista è esclusa ma gli inquirenti si concentrerebbero, in particolare, sull’agguato di camorra.

Il secondo attentato a Mario De Michele in tre giorni. Questo è il secondo attentato subito in pochi giorni dal giornalista. Tre giorni fa Mario De Michele aveva denunciato un altro episodio verificatosi tra Sant’Arpino e Succivo. Due persone a bordo di un motociclo e coperte da casco integrale, hanno costretto il giornalista a fermarsi. Uno dei due aggressori colpiva con una mazza la carrozzeria dell’auto, mentre l’altro lo schiaffeggiava e gli gridava: “Per colpa tua il consiglio comunale di Orta è stato sciolto. Ci hai inguaiato. Ora smettila di scrivere sul campo sportivo di Succivo”.

Chi è il direttore di Campania notizie. Secondo quanto rivelato, nessuna pista è esclusa ma gli inquirenti si concentrerebbero, in particolare, sull’agguato di camorra. ″È vivo per miracolo” scrivono in una nota i vertici di Fnsi, Sugc e il presidente dell’Unci Campania,

Il giornalista, originario di Cesa (Caserta) da anni riceve minacce e intimidazioni. Nel 2 luglio 2018, De Michele si è visto recapitare a casa una busta con 4 proiettili calibro 9×21. Il giornalista ha denunciato un’aggressione anche il 31 maggio 2018. In Campania ci sono quattro giornalisti sotto scorta armata (Sandro Ruotolo, Rosaria Capacchione, Roberto Saviano e Marilena Natale).

Aversa, spari contro l’auto del giornalista De Michele. Il Dubbio il 16 Novembre 2019. Illeso il direttore di “Campania Notizie”. Solo tre giorni prima era stato fermato da due individui e schiaffeggiato per le sue inchieste. Spari contro l’auto di Mario De Michele, direttore del quotidiano online “Campania Notizie”, nel pomeriggio di giovedì, in una zona periferica di Gricignano di Aversa. De Michele sarebbe «stato raggiunto da alcune persone che hanno esploso 6- 7 colpi di pistola. Due di questi all’indirizzo del parabrezza che hanno attraversato l’abitacolo della vettura a pochi centimetri dal giornalista». Mentre De Michele si allontanava velocemente, «i criminali hanno esploso altri 3- 4 colpi che hanno mandato in frantumi anche il lunotto posteriore della vettura. Solo il caso ha fatto sì che ne uscisse illeso». De Michele tre giorni fa aveva denunciato un altro episodio avvenuto tra Sant’Arpino e Succivo. Due persone a bordo di un motociclo e coperte da casco integrale, lo avrebbero costretto a fermarsi e mentre uno di loro con una mazza colpiva ripetutamente la carrozzeria dell’auto, l’altro lo costringeva a scendere e lo schiaffeggiava e mentre lo faceva gli gridava: «Per colpa tua il consiglio comunale di Orta è stato sciolto. Ci hai inguaiato. Ora smettila di scrivere sul campo sportivo di Succivo». «Sono preoccupato per me e per la mia famiglia ha commentato il cronista -. Prefettura, magistratura e forze dell’ordine non mi hanno abbandonato un solo istante. Chiudo con un’ammissione: ho paura. Chiamatemi pure codardo», ha aggiunto, ma in ogni caso «continuerò a fare il cronista». Sull’episodio è intervenuto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Andrea Martella. «Siamo di fronte ad una vicenda preoccupante» e ad una «escalation di violenza da parte di chi vede nella libertà di informazione un nemico da abbattere».

RAFFAELE SARDO per repubblica.it il 15 Novembre 2019. Spari contro l'auto del direttore di Campania Notizie, Mario De Michele. L'episodio è avvenuto nel pomeriggio di ieri nella zona periferica di Gricignano di Aversa. Secondo quanto afferma il sito Campania Notizie, il giornalista sarebbe "stato raggiunto da alcune persone che hanno esploso 6-7 colpi di pistola. Due di questi all'indirizzo del parabrezza che hanno attraversato l'abitacolo della vettura a pochi centimetri dal giornalista. Nel tentativo di fuga di De Michele i criminali hanno esploso altri 3-4 colpi che hanno mandato in frantumi anche il lunotto posteriore della vettura. Solo il caso ha fatto sì che ne uscisse illeso." De Michele tre giorni fa aveva denunciato un altro episodio avvenuto tra Sant'Arpino e Succivo. Due persone a bordo di un motociclo e coperte da casco integrale, lo avrebbero costretto a fermarsi e mente uno di loro con una mazza colpiva ripetutamente la carrozzeria dell'auto, l'altro lo costringeva a scendere e lo schiaffeggiava e mentre lo faceva gli gridava: "Per colpa tua il consiglio comunale di Orta è stato sciolto. Ci hai inguaiato. Ora smettila di scrivere sul campo sportivo di Succivo". Su entrambi gli episodi indagano i carabinieri del Gruppo di Aversa che stanno cercando di ricostruire la dinamica dei fatti e accertare il movente alla base dei due episodi.

Spari contro l’auto del giornalista Mario De Michele. Giornalista rimasto illeso. Da tempo denuncia minacce che subisce per il suo lavoro. Pochi giorni fa aveva raccontato di un'aggressione. Agata Marianna Giannino, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Ci è mancato poco che delle ogive potessero ferire il giornalista Mario De Michele, direttore di Campania Notizie, ieri scampato a un agguato. Si trovava nella periferia di Gricignano di Aversa (Caserta) quando dei colpi di pistola hanno finito per trafiggere la sua auto. Secondo quanto ha denunciato la vittima, i sicari prima hanno esploso dei colpi di pistola contro il parabrezza, poi, nella sua fuga, hanno continuato a sparare, colpendo il lunotto posteriore della macchina. De Michele da tempo denuncia minacce per il suo lavoro. Solo pochi giorni fa sul suo giornale aveva raccontato di una aggressione. “Due malviventi su una moto e col volto travisato mi hanno sbarrato la strada mentre viaggiavo sulla mia auto. Uno mi ha costretto a scendere e mi ha preso a schiaffi, l’altro ha colpito con una raffica di calci e sprangate la portiera destra della vettura”, aveva riportato martedì scorso il giornalista su Campania Notizie. Secondo quanto ha pubblicato sul sito, l’uomo che lo ha picchiato gli avrebbe poi detto: “Per colpa tua il consiglio comunale di Orta di Atella è stato sciolto per camorra. Ci hai inguaiato” e “Ora smettila di scrivere sul campo sportivo di Succivo’”, questioni di cui De Michele si è occupato nelle ultime settimane. “Più mi minacciate, più mi sento motivato ad andare avanti. Quindi: o mi ammazzate o perdete tempo”, è l’appello che aveva rivolto ai “mandanti del raid intimidatorio”, che sarebbe avvenuto tra Sant’Arpino e Succivo. A distanza di pochi giorni, De Michele è finito nel mirino di sicari. Sui due casi ora indagano i carabinieri del gruppo di Aversa, che dovranno accertare i fatti e capire se si tratta di episodi collegati e riconducibili agli stessi autori. “Ho paura”, ha scritto De Michele dopo l’agguato di ieri da cui, solo per caso, è uscito illeso. “Ma continuerò a fare il cronista”, precisa. “Mi rattrista e mi indigna che nel 2019 un cronista corra il rischio di essere ucciso soltanto perché fa il proprio mestiere. Non è accettabile. È da Alto Medioevo”, tuona. Poi esprime il suo senso di colpa verso i familiari. Tanti i messaggi di solidarietà che stanno arrivando a De Michele. Chiedono di attivare un'immediata protezione per il giornalista Carlo Verna e Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei giornalisti e dell'Ordine dei giornalisti della Campania. "Hanno sparato per uccidere - affermano Verna e Lucarelli in una nota - e fortunatamente non ci sono riusciti. Mario De Michele, direttore di Campania Notizie è scampato ad un agguato in piena regola. Ieri sera, nel casertano, due persone si sono affiancate alla sua auto quando lui era a bordo ed hanno esploso svariati colpi di pistola molti dei quali hanno centrato la vettura. Nei giorni scorsi - osservano Verna e Lucarelli - aveva denunciato aggressioni ed intimidazioni. Si tratta di un pericoloso salto di qualità - concludono - nelle aggressioni contro i giornalisti. De Michele da tempo si occupa delle infiltrazioni camorristiche nell'area del Casertano. Chiediamo alle autorità competenti l'immediata protezione per il collega". "Chi fa giornalismo vero rischia questo ora in Italia. Di questo tutti dobbiamo prendere coscienza. Massima solidarietà a chi scrive in certi contesti assumendosi questi rischi", scrive su Twitter il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra.

·         Lettera di Tina Palomba, una giornalista ignorata dall’antimafia di maniera.

Da "Il Corriere di Caserta. Riceviamo e pubblichiamo: "Egregio direttore, mi rivolgo a lei, sicura di poter ottenere quella parola che avrei voluto contrapporre durante la trasmissione "Che tempo che fa", con lo scrittore Roberto Saviano. Si parla tanto della mia terra martoriata, ma non è un paese civile quello che impedisce la replica a chi viene attaccato in quel modo. Sono Tina Palomba, cronista di nera e giudiziaria del Corriere di Caserta. Ho firmato parte degli articoli incriminati, di cui ha parlato in tv il signor Saviano. L'altra sera, guardando il programma di Fabio Fazio, sono rimasta di sasso, incredula, indignata per la piega che ha preso la trasmissione. Alla fine ho pensato di restituire all'Ordine, la tessera di giornalista. Tutta la trasmissione, o meglio, il monologo, lasciava intendere chiaramente una cosa: il Corriere di Caserta e i suoi giornalisti, sono collusi con la camorra. Un\'operazione mediatica senza precedenti, un attacco indecente ai danni di un quotidiano libero, condotta senza un minimo di onestà intellettuale, da parte del conduttore e del suo ospite. Mi rifiuto di credere che il motivo di tanto livore sia da ricercarsi nella vertenza intentata dal cronista Simone Di Meo, nei confronti di Saviano, dove si ipotizza un plagio realizzato nel libro Gomorra. Un caso di cui Il Giornale ha svelato i retroscena e ha messo a raffronto gli articoli “locali”, con i passi salienti di Gomorra, dove risultano ricopiate anche le virgole. Ma di questo, Saviano non ha parlato. Forse perché proprio in questi quotidiani locali “megafono di criminali”, ha attinto a piene mani senza mai citare la fonte. Sarebbe bene che tali vicende processuali si consumassero nelle sedi deputate, senza battere la grancassa delle televisioni, nel tentativo di influenzare il giudizio. Senza attaccare e delegittimare chi, ogni giorno, compie solo il suo dovere di informare l\'opinione pubblica. Di esempi di faziosità della trasmissione, ne potrei citare a decine. Ne prendo uno a caso: la lettera di un capo della camorra casertana, pubblicata sul giornale e mostrata durante il monologo. La lettura di quelle poche righe sarebbe stata sufficiente a smontare tutto il progetto di delegittimazione, poiché il boss, nero su bianco, intimava esplicitamente di non comprare il Corriere di Caserta, giudicandolo nemico dei clan. Ma così non è stato. Io, giornalista di un giornale di camorra? Sono stata individuata dal pentito Augusto La Torre, come la portavoce del pm della Dda, Raffaele Cantone. Questo concetto è stato ripreso pari pari dal boss Bidognetti e dal latitante Iovine, in una lettera al processo Spartacus. Delle due l'una: sono la portavoce della camorra, o dei magistrati antimafia? Per questa missiva e per altre minacce, sono stata sottoposta a vigilanza quotidiana. E con me, altri colleghi. Non vivo sotto scorta solo perché sarebbe impossibile continuare a lavorare con i carabinieri che ti seguono ovunque. Gentile direttore, dopo una notte in bianco, ho deciso di non restituire la tessera all'ordine. Mi hanno convinto le tantissime telefonate di solidarietà di lettori, carabinieri, magistrati, avvocati. Questo mi ha ridato fiducia, nonostante Saviano. Continuerò a raccontare anche ciò che qualcuno sembra aver dimenticato: che la vera lotta alla camorra, la fa chi indossa una divisa o chi coordina le indagini in procura. Continuerò a scrivere le brutture, i misfatti, i crimini, gli orrori che i camorristi perpetrano ai danni degli uomini e delle donne di questa terra martoriata. Nonostante Saviano". Tina Palomba, giornalista professionista de Il Corriere di Caserta".

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine). Roberto Saviano accusato di plagio, richiamato da Rossi con una lettera-denuncia. Stavolta Saviano, non nuovo ad accuse di plagio, per la realizzazione del monologo sul caso Eternit mandato in onda nell’ultima puntata di “Quello che non ho“, avrebbe preso spunto dai lavori di Giampiero Rossi senza citare l’autore. Dalle pagine del loro quotidiano, Antonio Padellaro e Peter Gomez, fanno notare che, se si confrontano le parole scritte da Rossi nel suo libro “La lana della salamandra” pubblicato nel 2008 e il monologo sull’amianto di Saviano si scopre che alcune parti sono addirittura coincidenti. Nella sua lettera denuncia Giampiero Rossi scrive: “Ho trovato assai meno piacevole una certa mancanza di riconoscimento per chi quel lavoro lo ha realizzato. Tu lo sai bene, fare un’inchiesta, una ricostruzione storica, un racconto completo di vicende complicate ed enormi, come questa, comporta davvero tanta pazienza, volontà, tempo, passione. Perché, dunque, non riconoscere a chi ha investito tanto, almeno la paternità di quel suo lavoro? Eppure non sono pochi i particolari che hai scelto di utilizzare nel tuo racconto e che, guarda caso, sono tutti presenti in quei due libri (nel primo soprattutto) e non altrove, perché si tratta di racconti, confidenze, piccole sfumature emerse dalla mia lunga frequentazione della gente di Casale“. Roberto Saviano non ha ancora risposto e per ora non si è pronunciato sulle accuse. Saviano fu accusato di plagio anche dal giornalista Alket Aliu, direttore del settimanale Investigim, che  lanciò  pesanti accuse allo scrittore italiano, proprio all’interno del suo editoriale, asserendo: “Saviano riconosce il diritto d’autore solo quando si tratta di firmare contratti milionari con aziende di Berlusconi. Mentre il diritto d’autore non si applica ai giornalisti albanesi”. Aggiunge ancora: “Le imprecisioni sono molte e sono conseguenza della tipica arroganza di chi pensa di saper tutto e parla di tutto ed è stato raccomandato per prendere in giro spudoratamente gli albanesi. E’ un insulto al giornalismo e agli albanesi. Se c’è un modo per fare soldi è parlando della mafia, Saviano lo ha trovato. Conviene non solo a lui, ma anche a chi paga questo spettacolo, chi vuole spostare l’attenzione sulla criminalità di strada, sulla mafia di basso profilo, mentre la vera mafia passa attraverso le banche”. (Imola Oggi)

"ZeroZeroZero" originalità. Saviano accusato di plagio. Il Daily Beast elenca passi da articoli mai citati e interviste inventate. Conclusione: "Un libro disonesto". La replica: "Sono solo coincidenze", scrive Matteo Sacchi Venerdì 25/09/2015 su  ”Il Giornale”. Non c'è pace per Roberto Saviano. A giugno i giudici italiani, corte di Cassazione, hanno messo nero su bianco che nel suo libro più famoso, Gomorra (Mondadori), 10 milioni di copie vendute solo in Italia, c'erano dei passi plagiati da articoli di giornali locali del gruppo editoriale Libra. Pochi ma c'erano. La corte ha in quel caso ridotto ai minimi termini la responsabilità economica di Saviano, e del suo editore, per il plagio ma lo ha determinato in maniera definitiva. Come spiega la sentenza, già nei precedenti gradi di giudizio c'era stato «un analitico ed approfondito esame dei brani riportati nel romanzo Gomorra arrivando alla conclusione che riguardo a tre dei sette brani riportati vi è stata una illecita appropriazione plagiaria degli stessi in quanto in questi casi il romanzo riportava quasi integralmente gli articoli in questione». Sui media italiani non è che ci sia stata grande eco per la notizia, anzi. Invece negli Usa, dove la recensione dei libri è spesso molto analitica e pignola, è un giornale on line, e non un tribunale, a «bacchettare» Saviano. Ieri il Daily Beast , uno dei siti web più visitati al Mondo, in un articolo a firma Michael Moynihan titolava così: «Il problema col plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano». L'articolo, dopo aver citato la sentenza italiana e l'indifferenza con cui Saviano se l'è lasciata alle spalle, è invece dedicato al secondo libro dell'autore, ZeroZeroZero (Feltrinelli), dedicato al narcotraffico sudamericano (negli Usa il volume è uscito a inizio estate). La recensione non è per niente buona. La stroncatura letteraria prende poche righe: « ZeroZeroZero è un pasticcio di libro, una serie di storie in cerca di una narrativa coerente, dove a eventi globalmente insignificanti è assegnato un grande significato storico, e tutti gli altri fatti sono sempre gonfiati e sovraccaricati nella scrittura». Più interessante che il libro venga considerato «incredibilmente disonesto». Nell'articolo viene elencata una serie piuttosto lunga di «copia e incolla» che non farebbero proprio onore a quella che dovrebbe essere letteratura d'inchiesta. A essere onesti qualche dubbio sul livello dell'«inchiesta» era venuto anche in Italia. Ne avevamo scritto in queste pagine parlando di echi da Wikipedia e il professor Federico Varese sulla Stampa (nell'inserto Tuttolibri ) aveva segnalato un passo che sembrava ripreso pari pari dall'enciclopedia on line. Questi riscontri, sommersi dal coro sperticato di elogi che di solito accompagna ogni atto di Saviano, sono passati in cavalleria. Ma il Daily Beast, sfruttando le fonti in loco, ha localizzato molte altre «anomalie». Passi relativi alla banda di narcotrafficanti Los Zetas attribuiti «alle fonti privilegiate di Saviano» verrebbero dritti dritti da Wikipedia. Poi ci sarebbero, e questo farebbe il paio con il precedente di Gomorra , le appropriazioni senza segnalazione di articoli scritti da giornalisti meno famosi, soprattutto di testate Usa. Ora che ZeroZeroZero è stato tradotto in inglese, le somiglianze balzano all'occhio. Giusto per fare un esempio, la storia tragica di Christian Poveda, un regista franco-spagnolo ucciso in Salvador, sarebbe ripresa in blocco ma senza citazione alcuna da un reportage del 2009 del Los Angeles Times della corrispondente Deborah Bonello. Il paragone lascia basiti. Decine di righe in cui al massimo cambia l'ordine delle parole o c'è qualche guizzo di colore a cercare di fare la differenza. Michael Moynihan ha provato a chiederne conto a Saviano che ha parlato di coincidenze e del fatto che lui e la Bonello hanno lavorato sulle stesse fonti. La Bonello ha spiegato che la fonte del suo articolo era un'intervista al regista morto (difficile avere accesso alla stessa fonte senza una seduta spiritica). Moynihan, insospettito, ha trovato decine di altre similitudini. Un passo che secondo lui verrebbe pari pari dal giornale salvadoregno Il Faro (senza citazione alcuna dell'autore). Altri passi da reportage di Robert I. Friedman (che non viene citato ma solo ringraziato per la sua «visione»). In tutti i casi Saviano ha negato le somiglianze, a quanto scrive Moynihan. O al massimo ha abbozzato spiegando di nuovo che le fonti erano le stesse. Seguono altri passi che hanno delle somiglianze con articoli del St. Petersburg Times . Poi ci sarebbe la «clonazione» più significativa. ZeroZeroZero finisce con il racconto dell'omicidio del giornalista messicano Bladimir Antuna García per mano di una gang legata al narcotrafficante El Chapo. Un racconto che pare cannibalizzato da un rapporto del 2009 del Committee to Protect Journalists (il giornale americano lo allega in pdf come prova). Citazioni della fonte? Zero. Per carità c'è differenza tra le somiglianze scovate da un giornalista e l'accertamento fatto da un tribunale. Ma i pezzi messi a confronto sono davvero tanti. E, per di più, a scatenare l'irritazione negli Usa è il fatto che Saviano è famoso per i suoi pistolotti, in cui spiega che il vero giornalista deve andare sul posto e non può fare le inchieste seduto al computer e usando Google... Quello che ha fatto saltare definitivamente la mosca al naso di Moynihan sono le interviste a personaggi che Saviano garantisce come «assolutamente reali». Come il paramilitare Ángel Miguel, membro dei cattivissimi Kaibiles del Guatemala, che Saviano avrebbe contattato in Italia. Moynihan confronta il racconto di Miguel con un reportage del 2005 pubblicato su Notimex dal giornalista messicano José Luis Castillejos. Altre strane somiglianze. Come mai si chiede? Ce lo chiediamo anche noi. Nelle risposte che Saviano gli manda via mail e Moynihan pubblica è difficile raccapezzarsi. Sembra di capire che Saviano si conceda un po' di “fiction” e che, secondo lui, sia ovvio che il lettore lo sappia. Ma lo sa davvero? E tutti i saccheggiati del loro pericoloso lavoro di inchiesta? Dovrebbero dire grazie di essere stati nobilitati, ma anonimamente, da un bel romanzo civile? Negli Usa è una cosa incomprensibile. Non sanno che qui in Italia si può essere riconosciuti maestri del copia e incolla come Umberto Galimberti e cavarsela con solo un richiamo formale della propria università. Oppure farsi pizzicare come Corrado Augias a copiare dal web e veder finire tutto in gloria. E c'è da scommettere che anche questa volta al di qua dell'Oceano, non se ne parlerà tanto. Anzi forse se ne parlerà zero, zero, zero. Perché in italia agli iscritti al club dei «ripubblica» si scusa tutto. PS. I riscontri diretti sul testo si possono fare solo tra gli articoli originali in inglese e la versione del libro in inglese. Per questi rimandiamo alla corposa documentazione reperibile sul sito del The Daily Beast .

·         Lettera di Francesco Amodeo, un giornalista ignorato dall’antimafia di maniera.

“I BAMBINI SI NUTRONO DI QUESTE PORCHERIE”. Da Libero Quotidiano il 5 agosto 2019. Roberto Saviano ha fatto infuriare pure chi la mafia la combatte sul campo. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro se la prende contro mister Gomorra e la serie che ha ispirato e a cui ha preso parte per la realizzazione: "Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie". Il saggista ci va giù ancora più pesante: "Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi". Il rimando a Saviano, anche se il suo nome non viene mai pronunciato, sembra chiaro.

Lettera di un ex giornalista di cronache di camorra a Saviano: perché non racconti la verità? di Francesco Amodeo. Gentile Saviano, vogliamo raccontare perché ci sono giornalisti che si occupano di inchieste rischiando sulla propria pelle per pochi spiccioli e nel totale anonimato e poi ci sono quelli celebrati dai media, dalla politica, dal mainstream, per capire una volta per tutte cos’è che fa realmente la differenza. Mi presento: sono Francesco Amodeo e sono un giornalista pubblicista; blogger e autore di 3 libri di inchiesta. Campano come te. Da qualche anno non più praticante (mio malgrado). Dopo una laurea in scienze della comunicazione e stage negli uffici stampa di Londra e Madrid per imparare entrambe le lingue. Torno nella mia Campania e dal 2002 comincio ad occuparmi di cronache di camorra prima per Dossier Magazine, poi per il famoso quotidiano campano il ROMA e il Giornale di Napoli. Dal 2004 al 2005 con lo scoppio delle più cruente faide di camorra vengono pubblicati a mia firma oltre 200 articoli in meno di un anno. Alcuni finiti in prima pagina sia sul Roma che sul Giornale Di Napoli. Te ne elenco solo alcuni tra questi, guardando le date capirai gli intervalli di tempo tra un agguato ed un altro e quindi tra un articolo ed un altro e i ritmi e i rischi a cui eravamo esposti noi che facevamo questo lavoro:

18 Ottobre 2004 Omicidio Albino

29 Ottobre 2004 Omicidio Secondigliano: Scoppia la faida

5 Novembre 2004 Carabinieri feriti a Secondigliano

13 Novembre 2004 Omicidio Peluso in pizzeria

21 Novembre 2004 Ragazza accoltellata a Santa Lucia

22 Novembre 2004 Omicidio di Piazza Ottocalli

26 Novembre 2004 Omicidio a Secondigliano di Gelsomina Verde (in assoluto il più efferato di tutta la faida)

19 Dicembre 2004 Intervista esclusiva alla vittima dell’agguato.

L’ultimo mio articolo apparso sulla prima pagina del Roma riguardava l’Omicidio di Nunzio Giuliano dell’omonimo storico clan. Sono articoli pubblicati negli stessi anni e riguardanti le stesse faide di quelli che tu hai scopiazzato dai colleghi e ricopiato per intero nel tuo Gomorra e per i quali hai subito la sentenza di condanna per plagio.

A me nel 2005 sono stati corrisposti per tutti gli articoli 2117,70 euro di cui netti 1,800,00 euro. (allego prova documentale). Posso immaginare che più o meno siano queste le cifre che guadagnavano anche i giornalisti campani a cui hai copiato pezzi di articoli per pubblicarli nel tuo libro multimilionario.

Ma andiamo avanti: Nel raccogliere materiale per gli articoli di cronaca puoi immaginare quante botte io abbia preso, quanti cellulari mi abbiano strappato da mano, quanti registratori distrutto e quante intimidazioni subite. Così decisi che era diventato troppo rischioso e passai alla cronaca politica. Un altro settore che ti interessa.

Ho aperto un blog di inchiesta giornalistica e pubblicato video inchieste sulle organizzazioni della finanza speculativa che nel 2011 aveva rovesciato il Governo in diversi paesi europei tra cui l’Italia analizzando i legami tra queste organizzazioni ed i politici e tecnici arrivati al Governo dimostrando in maniera documentata che avevano fatto Cartello contro i popoli e contro le democrazie con la complicità dei nostri media mainstream. Probabilmente sono proprio le organizzazioni a cui stai facendo appello tu in questi mesi esortandoli a rovesciare nuovamente un Governo democraticamente eletto. Sono rimasto sorpreso della tua visita a Macron. La prima volta che io lo vidi ero nascosto fuori al Marriott Hotel di Copenaghen con un cecchino che seguiva dall’alto ogni mio passo (come dimostra il video postato in rete) e lui stava per fare il suo ingresso alla riunione del Bilderberg 2014. Ossia l’incontro a porte chiuse dei più importanti membri della finanza speculativa. Quelli che scrivono che “la democrazia non è sempre applicabile”; che dovremmo “stracciare le nostre Costituzioni”; che bisogna favorire le tecnocrazie non elette per superare gli “eccessi di democrazia”. In pratica quelli che disprezzano i popoli.

Tutte le mie ricerche sui legami tra politici, media e Cartello finanziario speculativo sono state pubblicate in due libri, l’ultimo dei quali La Matrix Europea è stato definito dal compianto Ferdinando Imposimato, Presidente Onorario della Suprema Corte di Cassazione (Giudice istruttore caso Moro) il miglior libro sull’argomento e citando le sue parole: “ Il tuo libro è importante come strumento di verità e libertà ma è assediato da silenzio e omertà. Mi congratulo con te per la tua ricerca che è preziosa per tutti noi cittadini di una società in cui le ingiustizie e diseguaglianze sono enormi. Il tuo libro mi ha fatto capire molte cose, chiaro, preciso, documentato coraggioso, incisivo. Ma non è facile far capire agli altri la verità.” Il Presidente mi chiese poi pubblicamente di collaborare con lui per una ricerca sul tema ma dovetti rifiutare perché non mi sentivo tutelato.

Stai tranquillo Saviano, non sto facendo uno spot al mio lavoro, immagino che per deformazione professionale penseresti questo. A differenza dei tuoi libri, che ce li ritroviamo davanti anche in Autogrill mentre prendiamo un caffè, il mio dopo una breve apparizione è sparito dai radar. Nonostante abbia un proprio codice ISBN se lo richiedi nelle librerie sembra che non sia mai esistito. Spero sia stato solo un errore dell’editore. Eppure i temi trattati nel libro sono stati oggetto di alcuni video su you tube. Uno dei quali ormai punta ai 6 milioni di visualizzazioni ( si hai capito bene 5 milioni di visualizzazioni già superate con un video di 18 minuti ossia un tempo assolutamente proibitivo per YouTube). E non è stato un caso. Ho superato ben 4 volte un milione di visualizzazioni anche quando ho dimostrato come vengono manipolate le interviste da parte di alcune note trasmissioni televisive del mainstream per punire chi prova a toccare argomenti che non dovrebbe toccare. Numeri enormi mai raggiunti da nessuno in Italia e forse neanche in Europa per video che trattavano questo tipo di argomenti. Pensa che il video più visualizzato sul tuo Gomorra Channel ha raggiunto 477.000 visualizzazioni contro i miei 5 milioni. Per intenderci sommando tutti i video caricati sul canale Gomorra Channel si raggiungono meno della metà delle visualizzazioni di un mio solo video. Nonostante Gomorra sia una serie televisiva, un film a cinema e tu, Saviano, sei inseguito da tutti gli editori, gli autori televisivi e sei presente in numerosi programmi in Tv. E allora cos’è che spinge tanta gente a guardare i video di uno sconosciuto ? Sei d’accordo con me che i conti non tornano? Te lo spiego subito: tu sei stato molto bravo ad attaccare i criminali comuni, molti dei quali già in carcere con l’ergastolo ma facendo sempre la massima attenzione a non attaccare il sistema dominante in politica (quello che la manovra) né il ruolo dei media, spesso usati come braccio armato da questi poteri forti. Sei diventato il cavallo di Troia che fa comodo ad un certo tipo di sistema per entrare nelle case degli italiani con una voce che possa fingersi amica, credibile, spostando l’attenzione sui criminali comuni senza mai toccare gli interessi del potere dominante né dei media che lo coprono.

Ecco di chi sei diventato voce. Ecco perché ti celebrano. Ecco perché sei in tutte le Tv. Una volta ci sono andato anche io in Tv alla trasmissione in Onda di Luca Telese su la 7 ma è stata la prima e l’ultima volta perché tirai in ballo giornalisti, media e politici che partecipavano alle riunioni di organizzazioni del Cartello finanziario speculativo che hanno interessi diametralmente opposti a quelli dei popoli. Sai come intitolarono la trasmissione? “La web guerra dei blogger antisistema”. Quando dici certe verità non sei un eroe sei un ANTI. Eppure ti assicuro che la crisi economica – che io dimostravo essere stata indotta dai membri del Cartello finanziario speculativo di cui facevo nomi e cognomi – ha fatto, indirettamente, molti più morti tra imprenditori e lavoratori che si sono suicidati di quanti ne abbia fatti, tra i criminali, la più sanguinosa delle faide di camorra. Ha fatto chiudere molte più aziende lo Stato per eseguire i diktat del capitale che i camorristi con il racket. Ma questo il pensiero unico dominante tra i media non ce lo fa sapere. E tu sei diventato l’icona di questo pensiero unico. Tu che parli di solidarietà verso i migranti, di accoglienza tout court pur sapendo bene che la maggior parte di quelli che arrivano dall’Africa sono in realtà i nuovi schiavi deportati dal capitalismo per abbassare il costo del lavoro e annichilire i diritti sociali nei paesi dove vengono accolti. Gente disposta a tutto come li definisce un noto filosofo: “merce umana nell’economia globale per le nuove pratiche dello sfruttamento neofeudale” pronta ad essere sostituita ai lavoratori europei che invece richiederebbero diritti sociali e rivendicazioni salariali.

Tu conosci questa pratica infame. Ma la copri, la appoggi. Per questo meriti programmi in Tv. Poi ti vedo attaccare Salvini indossando la maschera del paladino dei più poveri, e mentre con una mano reggi quella maschera con l’altra tiri acqua al mulino di quella sinistra che ha svenduto i lavoratori e i loro diritti al Cartello finanziario europeo e che è passata “dalla lotta per i lavoratori contro il capitale alla lotta per il capitale contro i lavoratori” che ha sacrificato volontariamente sull’altare dei globalizzatori i lavoratori italiani per gli interessi di una Europa che si è dimostrata il baluardo del capitalismo speculativo contro le classi lavoratrici ed i popoli europei.

Perché queste cose non le racconti ? anzi perché le neghi ? Taci perché preferisci essere esaltato dai media per interessi commerciali e contribuire al loro asfissiante, martellante, fuorviante lavoro di propaganda a favore del pensiero unico di chi intende dirigere le sorti dei nostri governi. Oltre Gomorra che ha soltanto fini commerciali, tu sei considerato un “intellettuale” amico dei popoli. E come può un intellettuale del genere, con il tuo seguito, preoccuparsi dei rimborsi trattenuti dalla Lega, senza mai menzionare i miliardi e miliardi di euro che ogni anno finiscono nelle mani di azionisti privati che si sono autonominati creatori e gestori della moneta del popolo.

Tu questi argomenti non li toccherai mai.

Io, invece, ho dovuto subire intimidazioni, ritorsioni, agguati mediatici, censure. Ed è per questo, che in seguito ad altri episodi che hanno coinvolto me ed i miei colleghi, ho deciso 3 anni fa di chiudere il blog, smettere di scrivere .

Ma il mio è solo un esempio di quello che accade a centinaia di ragazzi che hanno provato a fare questo mestiere senza volersi allineare al pensiero unico dominante. Per concludere: io non sono un politico, non sono un Ministro, non sono un capopartito; non puoi trovare altri interessi nella mie parole se non la voglia di ristabilire la verità. Te lo dico da ex giornalista. Da ex scrittore. Per farti capire che parliamo la stessa lingua. E te lo dico nel mio dialetto perché anche quello ci accomuna. Robè vir e fa l’ommmm. Francesco Amodeo

·         L'Antimafia è stata usata come mezzo per la gestione del potere.

COSA CI INSEGNA IL CASO MONTANTE? LA MAFIA E’ TORNATA TRASPARENTE. Attilio Bolzoni per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. L'hanno chiamata "Cosa grigia", in passato però c'è chi l'ha definita anche "bianca" per via dei colletti inamidati degli uomini politici o dei manager e per distinguerla da quella nera dei sicari o da quella rosso sangue delle stragi. La Cassazione sentenzia che al Nord è "silente", un decennio fa la davano per "sommersa". Noi abbiamo provato a qualificarla - e non senza qualche forzatura - "incensurata", per contrapporla all' altra, censuratissima e stracciona che si è sbriciolata sotto i colpi di una repressione poliziesca e giudiziaria senza precedenti. Ma oggi in Italia c' è un giudice che forse ha trovato per descriverla la parola più giusta ed efficace: "Mafia trasparente". Quella che si vede e non si vede, che non ha ancora addosso il marchio del 416 bis ma è mafia che più mafia non si può. Magari adesso ci sarà qualcuno che dirà che è quella nuova, moderna, futuristica, Mafia.3 o Mafia.4. Niente di più falso: è solo è sempre mafia, la mafia che si è riappropriata del suo Dna, che è tornata se stessa dopo i massacri dei Corleonesi. Le motivazioni della sentenza contro l' ex vicepresidente di Confindustria Calogero Antonio Montante detto Antonello (condannato nel giugno scorso con il rito abbreviato a 14 anni per associazione a delinquere semplice più una sfilza di altri reati legati allo spionaggio) contengono quell' aggettivo, "trasparente", che a prima vista potrebbe sembrare un testacoda semantico, in quanto la criminalità per sua natura non è mai trasparente. Eppure l' attribuzione - proprio perché inserita in un documento giudiziario - è destinata a manifestarsi nella narrazione prossima ventura delle mafie nel nostro Paese. Una sintesi estremamente felice per raccontare un sistema delinquenziale che non era "parallelo" al potere ufficiale «ma ad esso perpendicolare in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle». La mafia "trasparente" ovviamente non spara, non imbraccia kalashnikov, non fa rumore, non ha la faccia sconcia di Totò Riina o di Luchino Bagarella. Ma fa tanta paura, semina terrore. Perché può contare sull' appoggio o sulla protezione di pezzi dello Stato. Alti papaveri del Viminale, generali dei carabinieri e della finanza, prefetti e questori, anche magistrati. E pure ministri. Come l' ex dell' Interno Angelino Alfano, protagonista di un'incredibile "genuflessione istituzionale" (testuale nelle motivazioni della sentenza) avendo portato inutilmente, e per non contraddire il Montante, il comitato nazionale di ordine pubblico e sicurezza in una città della Sicilia - Caltanissetta - ribattezzata per l'occasione capitale dell'antiracket. Una grande bufala per alimentare il mito di un' impostura. La giudice Graziella Luparello scrive di una mafia "apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e perciò in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle misure comuni", un organismo criminale che di fatto si è servito dei poteri dello Stato, che ha consumato affari sotto le insegne di un' antimafia iconografica. È una mafia che non si limita e gestire il potere ma il potere lo crea. E con tutti i mezzi. Anche con il depistaggio, anche con il dossieraggio. Ma al di là della vicenda Montante, è la suggestione di quella parola che secondo noi ci fa fare un grande passo in avanti nella comprensione delle mafie dopo le stragi, un' elaborazione intelligente che scavalca tutte le pigrizie (solo pigrizie?) investigative che hanno segnato negli ultimi anni la cosiddetta "lotta alle mafie". Mafia trasparente, così trasparente che in molti hanno fatto finta di non riconoscerla.

La mafia “trasparente”. A. Bolzoni e F. Trotta su La Repubblica il 24 ottobre 2019. In Italia ci sono organismi criminali che ufficialmente non si possono chiamare mafie ma che mafie sono. Forme di crimine che non hanno addosso ancora il marchio del 416 bis ma che si muovono in tempo di pace proprio come quelle organizzazioni, hanno una loro forza intimidatrice, come obiettivo hanno - proprio come le mafie tradizionali che conosciamo - la conquista del potere, politico ed economico. Con un po' di fantasia noi le avevamo chiamate  mafie “incensurate”, c'è però un giudice siciliano che ha trovato parole più efficaci per descrivere esattamente cosa sono e come si presentano. Il tema lo abbiamo già affrontato qualche settimana fa sulle pagine di Repubblica ma oggi iniziamo una serie del Blog su quella che la giudice Graziella Luparello definisce la “mafia trasparente”. E pubblichiamo ampi stralci delle motivaziazioni della sentenza che ha condannato in primo grado a 14 anni di reclusione - con rito abbreviato - l'ex vicepresidente nazionale di Confindustria Calogero Antonio Montante detto Antonello per associazione a delinquere semplice e un'altra sfilza di altri reati. E' una mafia che si vede e non si vede, che è appunto “trasparente”, sintesi estramamente felice per raccontare un sistema delinquenziale che non era “parallelo” al potere ufficiale «ma ad esso perpedincolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle». Nel documento giudiziario si analizza l'irresistibile scalata di Montante, un uomo che era “nel cuore” di un boss di Cosa Nostra e che comunque è diventato il faro dell'Antimafia in Italia. Grazie a protezioni eccellenti -  alti papaveri del Viminale, presidenti di Corte di Appello e procuratori generali, prefetti, questori, direttori centrali della Direzione Investigativa Antimafia, capi dei servizi segreti, presidenti di Confindustria - e alla compiacenza molto interessata di un bel po' di giornalisti. Cosa è esattamente la “mafia trasparente”? E' una mafia “apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e perciò in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle misure comuni”. Una mafia che non non si limita a gestire il potere ma che a volta il potere lo crea. (Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo e Valentina Nicole Savino)

Calogero Montante e i suoi segreti. La Repubblica il 24 ottobre 2019. I fatti oggetto del presente procedimento appaiono imperniati intorno ad una figura nucleare, identificabile in Antonio Calogero MONTANTE, il quale, ad avviso del P.M., avrebbe realizzato la propria scalata imprenditoriale sfruttando, abilmente, l'immagine, che si era artificiosamente costruito, di paladino dell'antimafia al fine di oppugnare la concorrenza in nome di presunte battaglie legalitarie. MONTANTE, in particolare, avrebbe creato un'associazione a delinquere, nella quale esponenti delle diverse forze dell'ordine (Giuseppe D'AGATA, ufficiale dell'Arma dei Carabinieri; Gianfranco ARDIZZONE ed Ettore ORFANELLO, ufficiali della Guardia di Finanza; Andrea GRASSI, Salvatore GRACEFFA e Marco DE ANGELIS, appartenenti alla Polizia di Stato) e dell'Agenzia informazioni e sicurezza interna (Arturo ESPOSITO e Andrea CAVACECE, il primo proveniente dall'Arma dei Carabinieri, il secondo dalla Polizia di Stato), nonché un ex appartenente alla Polizia di Stato, divenuto responsabile della sicurezza di Confindustria nazionale (Diego DI SIMONE PERRICONE), avrebbero messo a disposizione la funzione pubblica, o comunque istituzionale o professionale, esercitata, allo scopo di assecondare l'ascesa al potere del predetto MONTANTE e ricavarne, a loro volta, vantaggi personali. La strumentalizzazione della funzione pubblica si sarebbe tradotta in accessi abusivi ai sistemi informatici e rivelazioni dei relativi dati, coperti dal segreto d'ufficio, finalizzati ad alimentare i dossier predisposti da MONTANTE nei confronti degli avversari da osteggiare; nelle rivelazioni di segreti d'ufficio relativi alle indagini condotte sul conto del medesimo MONTANTE o dei suoi concorrenti nel reato; nel pilotaggio di verifiche fiscali ed indagini penali allo scopo di danneggiare i nemici di MONTANTE e agevolare il successo di quest'ultimo. Diversa, e più defilata, appare sin da subito la posizione processuale di Alessandro FERRARA, che, senza entrare nell'associazione, avrebbe reso delle false dichiarazioni nell'ambito del presente procedimento, al fine di screditare uno dei principali accusatori di MONTANTE e del suo "sistema", ossia Marco VENTURI. Al fine di verificare la tenuta processuale dell'indagine svolta, appare opportuno procedere, ove possibile, secondo le medesime sequenze articolate nella richiesta cautelare che la compendia (riprodotta nella prima parte dell'ordinanza cautelare del 2 maggio 2018), a partire dall'originaria ipotesi di reato, quella del concorso esterno in associazione mafiosa da parte di MONTANTE, sulla quale si sono innestati gli sviluppi investigativi confluiti nel presente giudizio. Invero, l'avulsione delle evidenze emerse in quel primo segmento dell'indagine pregiudicherebbe la comprensione delle più recenti performance delittuose di MONTANTE, ma, soprattutto, infirmerebbe l'adeguata valutazione della tesi difensiva, secondo cui tale indagine, giunta al vaglio di questo giudice, costituirebbe l'epilogo di una lettura acritica di input investigativi abilmente e strumentalmente forniti agli inquirenti dai detrattori di MONTANTE, asseritamente appartenenti ad ambienti mafiosi e mossi da spirito di revanscismo per il vulnus subito in conseguenza dell'impegno speso dallo stesso MONTANTE, quale delegato alla legalità all'interno di Confindustria, nel contrasto al fenomeno mafioso.

I documenti informatici di Montante: il file excel. Appare preliminare all'analisi delle prove, fornite dall'organo dell'accusa, puntualizzare che molti degli elementi emersi in fase di indagine – dichiarazioni di collaboratori di giustizia, sommarie informazioni testimoniali, captazioni di conversazioni - sono stati coniugati dagli inquirenti con una enorme messe di documenti rinvenuti nell'abitazione di Serradifalco di MONTANTE, in una c.d. stanza segreta", ricavata alle spalle di una libreria, che in realtà costituiva il mero rivestimento di una porta blindata. In tale stanza, in particolare, venivano trovati, oltre ad un cospicuo materiale cartaceo, contenente per lo più informazioni raccolte sul conto di personaggi ritenuti scomodi da MONTANTE, anche dei documenti informatici, a partire da un file excel che ambiva a riassumere tutti i dati contenuti in altre cartelle informatiche. […] Giova sin da subito sottolineare la notevole valenza euristica dei documenti informatici ivi rinvenuti, in quanto essi raccolgono la scrupolosa annotazione di appuntamenti, impegni, colloqui, attività compiute da MONTANTE o che comunque, per le più diverse ragioni, erano di suo interesse. L'architettura tassonomica del file excel può essere descritta mediante un agile richiamo all'ordinanza cautelare sopra menzionata, il cui testo sarà immediatamente riconoscibile grazie all'utilizzo di un diverso carattere grafico. Atteso che quello che segue non costituirà l'unico richiamo testuale agli atti del procedimento, appare opportuno fare una precisazione preliminare di ordine stilistico-espositivo, che riguarda l'uso delle note in calce: esse non verranno mai inserite da questo giudice, fatto salvo il caso della pedissequa riproduzione, adeguatamente segnalata, di altre fonti scritte contenenti delle note esplicative, che, in tal caso, a garanzia dell'integrità del testo che si richiama, non saranno oggetto di espunzione. Ciò premesso, può farsi luogo alla lettura del citato passo dell'ordinanza (da p. 21), da considerarsi assolutamente affidabile in ordine alla sua capacità rappresentativa dei dati presenti nel file excel, posto che la relativa descrizione è conforme a quella elaborata nella relazione di consulenza tecnica Deloitte del 17 marzo 2017 (da p. 4), a sua volta assolutamente coerente con l'oggettivo contenuto del file in questione, acquisito agli atti: Si dirà diffusamente delle importanti acquisizioni procedimentali raccolte a1l°esito delle attività disposte dall'Ufficio, ma in questa sede occorre dar conto di una di esse, in quanto rivelatasi, per certi aspetti, di fondamentale importanza al fine di ricostruire la ramificata rete di rapporti costruita dal MONTANTE a seguito della sua ascesa in seno alla locale associazione degli imprenditori. Si tratta, in particolare, di un file in formato excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, rinvenuto all'interno di un pc portatile marca HP – Pavillion.

Occorre a tal proposito puntualizzare due circostanze: il personal computer in questione veniva rinvenuto dalla polizia giudiziaria all'interno di un vano ubicato nel piano seminterrato dell'abitazione del MONTANTE di Contrada Altarello di Serradifalco, sebbene Carmela GIARDINA - soggetto che, come si dirà, collabora strettamente il MONTANTE - pur presente alle operazioni di perquisizioni, nulla avesse riferito agli appartenenti alla Squadra Mobile circa la presenza di tale stanza (e pur essendone del tutto consapevole, come emergerà dalle acquisizioni di cui si darà conto nella presente richiesta). In particolare l°accesso alla stanza in questione (come sarà rilevabile dalle fotografie di seguito riportate) era occultato da una finta parete a libreria – dietro alla quale vi era una porta blindata - ed al cui interno era custodita anche ingente documentazione cartacea. Tale è il motivo per il quale - onde facilitare la comprensione di ciò che si verrà dicendo - la stanza in questione verrà definita nel prosieguo della trattazione, anche se in maniera un po” semplicistica, la “stanza segreta”. il file in questione veniva individuato dai consulenti informatici sol perché a causa di un improvviso “stallo” del programma excel nel momento in cui l”utente lo stava utilizzando ne veniva generata automaticamente una copia al riavvio, che poi veniva eliminata, così venendo collocata nel “cestino” del sistema windows, ove, appunto, veniva poi recuperato dai tecnici grazie ai programmi a loro disposizione (cfr., a tal proposito, relazione di consulenza tecnica del 17 marzo 2017 ove tali circostanze vengono spiegate nel dettaglio); il file era anche protetto da una password di accesso (“GATTO”) al fine di consentirne la visione solo dopo il suo inserimento, password che, comunque, veniva del pari decriptata dai consulenti nominati dall'Ufficio. Se ne ricava come il documento informatico in questione, nelle intenzioni del MONTANTE, non dovesse finire nelle mani degli inquirenti, evidentemente perché ritenuto potenzialmente dannoso per la sua persona alla luce delle indagini che egli ben sapeva si stessero conducendo nei suoi confronti. Sempre in relazione al file informatico di cui si sta parlando (e che, nel prosieguo della trattazione verrà denominato, per comodità espositiva, semplicemente “file excel”) bisogna spendere alcune considerazioni al fine di illustrarne la struttura, ciò allo scopo di agevolare la successiva esposizione durante la quale si farà in molte occasioni richiamo al suo contenuto.

A tal proposito occorre osservare che tale documento informatico si compone di diverse cartelle ed in specie, per ciò che qui interessa, di: una cartella denominata “TUTTI” nella quale sono annotati, con cadenza quasi giornaliera, una serie di avvenimenti (pranzi, incontri etc.) con i più svariati soggetti e che pare essere riepilogativa anche delle annotazioni contenute nelle altre cartelle di cui si compone il file (anche se in alcuni casi, non molti per la verità, le annotazioni contenute in tale cartella non trovano corrispondenza nelle altre).

A tal proposito è doveroso effettuare alcune puntualizzazioni.

La mera lettura degli appunti contenuti in tale cartella del file consentirà di avere ben chiaro come il MONTANTE abbia fissato, in maniera estremamente puntigliosa, le circostanze che documentano, tra le altre cose, le relazioni dallo stesso intrattenute, nel corso del tempo, con soggetti appartenenti ai più svariati contesti, in specie a quello istituzionale (magistrati, appartenenti alle forze dell'ordine locali e di vertice in ambito nazionale, Prefetti, politici e Ministri della Repubblica etc.). Orbene, onde evitare di dare la stura a soverchie considerazioni, va sin d'ora precisato che si tratta, nella pressoché totalità dei casi, di circostanze del tutto ininfluenti ai fini della presente indagine e, anzi, di avvenimenti da ritenersi del tutto legittimi e coerenti rispetto al ruolo di delegato alla legalità che il MONTANTE era arrivato a ricoprire in seno a Confindustria nazionale e che, giocoforza, imponeva il suo relazionarsi con quegli ulteriori ambiti che operano o si sono trovati ad operare, lato sensu, nel medesimo settore. […]

Alcune cartelle denominate “CURRIC. PER SEN”, “TEL SEN”, “SMS SEN” nelle quali sono riportate annotazioni che dall'esame complessivo di quelle contenute nel file (oltre che dal raffronto con la documentazione sequestrata) sembrano potersi ricondurre, almeno in parte, a documentazione, telefonate e messaggi di testo (consegnati ed indirizzati al MONTANTE) riferibili a “segnalazioni” di nominativi cui trovare un°occupazione lavorativa o per i quali attivarsi in funzione di promozioni e/o trasferimenti in sedi maggiormente gradite. A tal proposito va anche in tal caso doverosamente puntualizzato che, come accennato, non tutte le annotazioni contenute nelle cartelle in questione possono dirsi univocamente funzionali a documentare raccomandazioni che il MONTANTE ha ricevuto nel corso del tempo, posto che - come sarà agevolmente rilevabile dal loro esame - in alcuni casi le stesse contengono nominativi di persone per le quali non sono contestualmente annotate date ed orari di telefonate fatte o ricevute (è il caso della cartella “TEL SEN”). O, ancora, sono riportati nomi di soggetti cui è soltanto abbinata Fenigmatica annotazione “S” (si fa riferimento alla cartella “SMS SEN”), sicché, nell'ambito dell'odierno procedimento, le annotazioni in questione sono state ritenute significative di favori chiesti e/o ottenuti dal MONTANTE solo allorché le stesse sono risultate assistite da una congerie di elementi di natura oggettiva aliunde acquisiti (che si sono aggiunti ad indicazioni complessivamente contenute nel file in questione) che non lasciano spazi a possibili interpretazioni alternative del loro significato. una cartella denominata “TOTO” nella quale vengono riprese parte delle annotazioni contenute nella cartella “TUTTI” riguardanti tale Salvatore ALAIMO di cui diffusamente si parlerà nel prosieguo della trattazione;

una cartella denominata “DF” contenente informazioni riservate sul collaboratore di giustizia Dario Salvatore DI FRANCESCO e della quale, anche in tal caso, meglio si dirà oltre;

alcune cartelle nominative, tra le quali ve ne sono alcune riportanti i nominativi di “CICERO”, “VENTURI” “BOLZONT” e “LO BELLO”. Pure in tale circostanza le annotazioni riportate in tali cartelle sembrano essere una specifica indicazione - suddivisa, appunto, per quelle esclusivamente riguardanti i nominativi poc'anzi indicati - di quelle contenute nella cartella “TUTTI”;

infine una cartella denominata “CALOGERA TEL.A.” nella quale vi è trascritta una telefonata intercorsa tra Linda VANCHERI ed Attilio BOLZONI (sulla quale si tornerà nel prosieguo della trattazione). Va anche sottolineato che la versione del file excel di cui si dispone è stata redatta in epoca prossima al 14 novembre 2015, poiché l'ultima annotazione contenuta nella cartella denominata “TUTTI” è riferibile, appunto, a quella data.

In ordine al valore probatorio da riconoscere agli elementi estrapolati dai vari file o dalle diverse cartelle, deve concordarsi con l'organo dell'accusa circa la necessità di una loro lettura integrata con altri elementi di prova, appresi aliunde. Infatti, non può escludersi che, in alcuni casi, la rappresentazione documentale, da parte di MONTANTE, di determinati fatti o di determinate circostanze potrebbe essere stata ispirata non già ad una loro oggettiva ed asettica annotazione storico-cronachistica, bensì ad una loro trasfigurazione per sottese finalità “precostitutive” della prova. Costituisce elemento suggestivo di un pericolo di contaminazione della fedeltà storica di tale attività di documentazione, l'accelerazione impressa da MONTANTE alla redazione del file excel, dopo la prima e grave fuga di notizie sull'indagine che lo riguardava (9 febbraio 2015: articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica dal titolo "L'industria/e paladino de/l'antimafia sotto inchiesta in Sicilia per mafia", a firma di VIVIANO e BOLZONI). Tale accelerazione, in particolare, è riconoscibile nella conversazione de visu, debitamente intercettata, intercorsa il 9 settembre 2015 (progr. n. 1698) tra due fidi collaboratori di MONTANTE, Vincenzo MISTRETFA e Carmela GIARDINA, mentre quest'ultima si stava appunto dedicando alla descritta attività compilativa. Infatti, il chiaro riferimento dei loquenti alla suddivisione temporale dei fatti da annotare e alle celle in cui collocare i dati, ricalca esattamente lo schema e i criteri di classificazione riscontrabili nella cartella "TUTTI" del predetto file: Conversazione ambientale nr. 1698 OMISSIS

Segue una pausa. In seguito parlano brevemente di calcio e poi della presenza di un Autovelox sulla strada che stanno percorrendo. Al minuto 09.48 della registrazione la GIARDINA riceve una telefonata da MONTANTE Antonio Calogero (Progr. 4383 RIT 339/2015) al quale dice che stanno rientrando in azienda. Terminata la telefonata si trascrive integralmente:

MISTRETTA: Che è pi ddra cosa c'arrivà da Asti?

GIARDINA : Ah?

MISTRETTA : P'u pacco c'arrivò da Asti?

GIARDINA: No...mi dissi "dove sei?" Ci dissi... "Lo so. lo so” prima m 'addumanna e poi mi dici "Lo so, lo so"...(ride)...voliva sapiri a che punto erano tutti i biglietti da visita...rubrichi chini chini chini...nu scatola c'è...(pausa)...dumani ristà di darici na bella botta, mi ristà...oji deci mi lifici, n'atri trenta pagini...sciò! Enzo quaranta pagine erano! Avìa finutu e mi dittiru u ristu! Avìa ƒìnutu! Airi mi detteru u ristu...finisciu e cuminciu! Finisciu e cuminciu! Gioisco ca dicu 'finìul ” e mi porta u ristu!

MISTRETTA :Si ma unn'iriƒacinnu inserimenti, scrivi sempre...(inc)

GIARDINA: Si però Enzo quel giorno che tu non c'eri m'hai dittu "Un lu tuccari" e i u truvavu fattu e c'u stampavu...si tu era a Palermo cumufaciva...ca tu mi dicisti un lu tuccà...e mi scantu Enzo! Bello chiaro! Io addirittura faccio...

MISTRETTA: Tantoēno a sabato (inc)

GIARDINA: Io addirittura faccio...no! vabbè e allura...

MISTRETTA: Non scrivere un cazzo...

GIARDINA: A picchi chi ti apporta...ca si po'...nentifa...

MISTRETTA: A perdiri u stissu timpu agghirli a inserire... cosi...

GIARDINA: No facili mi veni Enzo! Anzi me li truvu già tutti cu la data...vedo se c'è qualche doppione...

MISTRETTA: Pu c'è a cosa...a cella ca non è predisposta per... (inc)

GIARDINA: No invece fino a ora tutto bene...riguardo...scrivo cinque righi...cinque, quattro, tre...e no eh!...Però airi mi lu truvavu ì fattu ca sta misata ci lavuravu! Ca mi dissi "Mi l'a stampari" c'armenu si li vittí! No, tanto tempo non lo perdo sinceramente...picchi unn'è ca su... per esempio duemilaquinnici....! Millenovecento e qualcosa! Mille e...sunnu tutti sfasati! Unni piglia appunti...magari su ci n'è tre quattro sempre do' dumila e sette li vado a inserire subito...e chissa è...Non sono tutti in ordine...come ci vene! (inc) tanto...speramu ca poi se la classifica quella legenda picchì...picchì ora come ora tutti cosí di famiglia sto scrivendo...sto inserendo...mogli...cresimi.._ (ride)...porcu re.... ..ma intanto auannu quantu ci n'annu mannatu a Serradifalco Enzo! Ma assà assà...assà...ma che mi...Ma...ma che ti pozzu diri...almenu almenu na cínquantina...L'hanno detto anche i preti... come quest 'anno mai di matrimoni. Proprio la segnalata necessità di incrociare i dati emersi dai documenti informatici, rinvenuti nella "stanza segreta" di MONTANTE, con elementi di prova aliunde desunti, importa che la correttezza della legenda didascalica, proposta dall'accusa e supra riportata (es. le sigle “CURRIC. PER SEN", "TEL SEN", "SMS SEN" sono state riferite, in sede di decodificazione, a presunte segnalazioni o raccomandazioni chieste a MONTANTE), sarà comprensibile nel prosieguo dell'esposizione, quando si procederà alla intersecazione di tali dati con altre evidenze investigative.

Don Piddu, don Paolino e don Vincenzo La Repubblica il 25 Ottobre 2019. Si è detto come le indagini sul conto di MONTANTE fossero state inizialmente articolate intorno all'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa. Nei paragrafi che seguono verranno, dunque, ripercorsi i principali passaggi dell'incipit dell'indagine, evidenziando gli elementi illo tempore emersi. La matrice genetica dell'attività di indagine può individuarsi nelle dichiarazioni di plurimi collaboratori di giustizia, i quali, in periodi temporali diversi, riferivano di un particolare rapporto di prossimità tra MONTANTE e la famiglia mafiosa di Serradifalco (CL), rappresentata dagli ARNONE. Detto rapporto, inizialmente di carattere personale (come si vedrà, gli ARNONE furono testimoni di nozze di MONTANTE), avrebbe, ad un certo punto, inciso sulla scalata dell'imprenditore, oggi imputato, all'interno delle associazioni degli industriali, nonché sulla longevità delle sue attività commerciali, poste al riparo da pretese estorsive. E' stato, altresì, ipotizzato, in sede di indagine, che MONTANTE avesse remunerato gli appartenenti alla mafia, che lo avevano appoggiato, mediante dazioni di denaro derivanti da fondi neri ricavati dalle sue attività imprenditoriali. Tale ipotesi, tuttavia, nonostante le "nitide opacità" - sia concessa la licenza ossimorica - riscontrate nella contabilità delle società esaminate riconducibili a MONTANTE, non è mai assurta alla dignità di certezza (con giudizio ovviamente limitato allo stato degli atti confluiti nell'odierno procedimento), a causa del sistematico boicottaggio, da parte dello stesso MONTANTE e dei suoi accoliti, dell'attività di indagine in corso di espletamento, che ha ostacolato l'approfondimento della pista investigativa. In ogni caso, a prescindere dall'aspetto eventualmente sinallagmatico della vicenda, non può tacersi come le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sui rapporti tra MONTANTE e soggetti appartenenti all'associazione mafiosa siano state integrate da quelle rese da Marco VENTURI, mentre rivestiva la carica di presidente di Confindustria Centro Sicilia (e già assessore regionale sotto il Governo LOMBARDO), e da Alfonso CICERO, presidente dell'I.R.S.A.P. (istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), entrambi fuoriusciti dal "sistema MONTANTE", nel quale, con diverso grado di (in-)consapevolezza, avevano militato, assumendo variamente cariche politiche, associativo-imprenditoriali o amministrative. Il momento di formale cesura di VENTURI e CICERO con il sistema MONTANTE, con le loro prime propalazioni innanzi alla D.D.A. nissena, si colloca nella data del 17 settembre 2015, subito dopo che, all'esito di articoli giornalistici che avevano raccolto fughe di notizie sull'indagine in questione (vd. supra), veniva pubblicato, sul quotidiano La Repubblica, un articolo intitolato “Trame e affari torbidi la svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno”, riguardante il contenuto di una intervista, fortemente critica nei confronti di MONTANTE, rilasciata proprio da VENTURI (cfr. articolo in atti).

§ 3.2. Le dichiarazioni di Salvatore Ferraro. Le dichiarazioni che, con maggiore raggio retrogrado, interessano la biografia di MONTANTE venivano rese in data 18 maggio 2016 da Salvatore FERRARO, già appartenente a Cosa Nostra e soggetto particolarmente vicino a Paolino ARNONE, boss di Serradifalco (vd. verbale in atti). Invero, secondo FERRARO, negli anni 1984-1985, MONTANTE, descritto attraverso una serie di riferimenti biografici (attività economica illo tempore svolta, stato coniugale, paternità, autovettura posseduta), gli sarebbe stato presentato da Paolino ARNONE, indicato come il rappresentante della famiglia mafiosa di Serradifalco, nonché esponente di rilievo di Cosa Nostra a livello provinciale. ARNONE, infatti, ad avviso di FERRARO, aveva frequenti incontri con Giuseppe MADONIA, detto Piddu, capo storico di Cosa Nostra della provincia di Caltanissetta. Aggiungeva il collaboratore che sarebbe stato proprio Paolino ARNONE a confidargli di essere avvinto da un forte legame affettivo ("lo aveva nel cuore") a MONTANTE, tanto che:

~ il figlio di Paolino ARNONE, Vincenzo, anche lui uomo d'onore, sarebbe stato il testimone di nozze di MONTANTE (circostanza riferita a FERRARO anche dallo stesso Vincenzo ARNONE);

~ il predetto Paolino ARNONE avrebbe finanziato l'espansione economica di MONTANTE, quando questi era ancora agli arbori della carriera imprenditoriale.

[…] Al fine di verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese da FERRARO, gli inquirenti ricercavano una serie di riscontri. Da tale punto di vista, a parte la verifica dell'effettivo possesso, da parte di MONTANTE, della vettura che gli veniva attribuita da FERRARO (vd. file excel, in cui risultano annotati un acquisto per leasing e un ulteriore acquisto, nel 1988, da parte di Luigi MONTANTE, padre di Antonio, di due vetture di quel marchio; cfr. annotazione della squadra mobile di Caltanissetta del 27 gennaio 2016, in atti, sull'effettiva disponibilità della vettura da parte del predetto Luigi MONTANTE), veniva puntualmente accertato che non solo Vincenzo ARNONE, come ricordato da FERRARO, ma anche lo stesso Paolino era stato testimone di nozze di MONTANTE (cfr. annotazione della squadra mobile di Caltanissetta n. 862/15 del 26 marzo 2015). E' appena il caso di osservare, a tal proposito, come MONTANTE, escusso quale persona informata dei fatti in altro procedimento (n. 636/11 R.G.N.R. mod. 21-bis) il 12 dicembre 2011 (cfr. verbale in atti), avesse provato ad accreditare la tesi della propria ignoranza della caratura mafiosa di Paolino ARNONE e del figlio Vincenzo, di cui egli era stato soltanto compagno di scuola, cercando di spostare in avanti - nel 2000-2001 - le lancette della sua conoscenza delle vicissitudini giudiziarie di Paolino ARNONE. MONTANTE, inoltre, aveva escluso di avere mai avuto rapporti lavorativi con gli ARNONE, sminuendo anche il significato della loro partecipazione “qualificata” alle sue nozze e sostenendo cli non ricordare neppure chi, nella concitazione dei preparativi, ebbe poi a firmare, quale testimone, l'atto di matrimonio.

[...] Pretermettendo ogni considerazione sulla professione di amnesia di MONTANTE circa l'identità dei testimoni di nozze, professione che supera abbondantemente la soglia della verosimiglianza, l'assunto della sopravvenuta conoscenza dello status di indagato per mafia dell'amico Vincenzo ARNONE è certamente smentito dalle cronache dell'epoca, che avevano dato ampio risalto alle vicissitudini giudiziarie del predetto ARNONE e, in particolare, al suo coinvolgimento nella c.d. operazione Leopardo. ARNONE, infatti, era stato indicato dal collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA quale appartenente a Cosa Nostra di Serradifalco con dichiarazioni che, rese nel corso delle indagini preliminari (cfr. verbale di interrogatorio del 7 luglio 1992; verbale di interrogatorio del 1 dicembre 1992) e confermate dalla individuazione fotografica dell'accusato (cfr. verbale di interrogatorio del 14 ottobre 1992), erano state ribadite nel corso dell'udienza dibattimentale, celebratasi nell'ambito del processo scaturito dall'operazione Leopardo, l'11 gennaio 1995 (cfr. verbale di udienza dell'11 gennaio 1995, con la deposizione dibattimentale di Leonardo MESSINA in seno al procedimento penale n. 59/94 R.G.N.R. a carico di Vassallo Calogero + altri). Ebbene, quelle dichiarazioni accusatorie, già durante la fase delle indagini preliminari e, dunque, ancor prima della pubblicità dibattimentale, erano state ampiamente divulgate dai quotidiani dell'epoca (cfr. atti allegati all'annotazione n. 3677/16 del 17 dicembre 2016 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta), con articoli che, tra l'altro, in qualche caso, riportando le interviste degli abitanti di Serradifalco, avevano ricordato la carcerazione patita anche dal padre dell'odierno imputato, Luigi MONTANTE, sia pure nel contesto di un diverso procedimento penale. […] Del resto, l'annotazione, presente nel file excel di MONTANTE, della morte per “suicidio”, nel 1992, di Paolino ARNONE, dopo il suo arresto nell'operazione Leopardo, dimostra in maniera scarsamente controvertibile che il predetto MONTANTE avesse seguito le disavventure giudiziarie dei suoi testimoni di nozze. Tra l'altro, anche l'ulteriore asserzione negatoria di MONTANTE circa l'esistenza di pregressi rapporti di lavoro con gli ARNONE non risulta corrispondente al vero. Infatti, le dichiarazioni di FERRARO, secondo cui egli aveva appreso da Paolino ARNONE dell'iniziale finanziamento economico, da parte di quest'ultimo, in favore dell'attività d'impresa di MONTANTE, appaiono congruenti con le dichiarazioni rese da altri collaboratori, ed in primis da Aldo RIGGI e Pietro RIGGIO. Essi, infatti, pur non parlando di finanziamenti economici da parte di Paolino ARNONE a beneficio di MONTANTE, riferivano dell'esistenza di rapporti di lavoro tra quest'ultimo e la famiglia degli ARNONE.

§. 3.3. Le dichiarazioni di Aldo Riggi. Aldo RIGGI, sentito nell'interrogatorio del 13 marzo 2009 e, amplius, in un successivo atto istruttorio del 19 marzo 2009, affermava che, nei primi anni '90, in epoca antecedente all'operazione Leopardo, MONTANTE, impegnato – in società con altro soggetto di Serradifalco - nella costruzione di un palazzo a Caltanissetta, in via Amico Valenti, aveva commissionato allo stesso RIGGI il compimento delle opere di sbancamento e il trasporto del materiale. Tuttavia, successivamente, in spregio degli accordi iniziali, MONTANTE lo aveva esonerato dall'attività di trasporto per affidarla a Paolino e Vincenzo ARNONE, i quali avevano nel frattempo perso buona parte delle commesse legate alla miniera di Pasquasia. Nell'occasione MONTANTE aveva replicato alle rimostranze di RIGGI spiegando che gli ARNONE, oltre ad essere suoi amici e compaesani, erano anche soggetti mafiosi, ai quali non poteva “dire di no” ("a tanti punti di vista, io non gli posso dire di no, no, sia da un punto di vista che siamo paesani e amici e poi, dici, non gli posso dire di no, quindi, nel frattempo, entra in qualità di..., di mafioso"). RIGGI, inoltre, forniva un dettaglio afferente alla gestione della società di MONTANTE, ossia il coinvolgimento in essa del fratello di quest'ultimo, Gioacchino, del quale tuttavia il collaboratore non ricordava la presenza in cantiere.

[...] I risultati delle indagini eseguite dalla squadra mobile di Caltanissetta (cfr. annotazione n. 862/15/Cat. II-MOB/SCO 3° Gr. del 26.3.2015) offrivano, inoltre, importanti riscontri all'aspetto nucleare delle dichiarazioni di RIGGI, ossia quello relativo all'esistenza di rapporti lavorativi prima tra Antonio C. MONTANTE e lo stesso RIGGI, titolare della ditta Edil.Fin, e poi tra il citato MONTANTE ed ARNQNE, nonché all'ulteriore dato, non certo secondario sul piano ricostruttiva, della flessione, a partire dall'agosto del 1990, delle commesse ordinate dall'ITALKALI - società che gestiva la miniera di Pasquasia - agli ARNONE per il trasporto del materiale estratto dalla predetta miniera (con ciò spiegandosi l'imprevisto subentro della ditta di ARNONE a quella di Aldo RIGGI nella esecuzione dei trasporti necessari al cantiere nisseno di via Amico Valenti, condotto dalla Italia Costruzione s.r.l. dei MONTANTE). In particolare, venivano rinvenuti:

un preventivo redatto, in data 18 gennaio 1990, dalla ditta Edi/.Fin s.r.l. In favore della Italia Costruzioni s.r.l., avente ad oggetto il "nolo mezzi, sbancamenti di terra, fornitura e trasporto di inerti nei Vs. cantieri di Caltanissetta";

una dichiarazione, datata 18 giugno 1990, con la quale Gioacchino MONTANTE, nella qualità di amministratore unico della Italia Costruzioni, comunicava alla Edil.Fin che il "materiale edile o prestazione fornita da codesta ditta serve per la costruzione di fabbricati di civile abitazione non di lusso” e di conseguenza chiedeva che "il materiale o prestazione" venisse “assoggettato all'aliquota agevolata del 4%";

una dichiarazione, datata 15 marzo 1991, con la quale Gioacchino MONTANTE, nella medesima qualità, comunicava alla Edil.Fin. s.r.l. L'avvenuta variazione della sede legale e amministrativa della Italia Costruzioni s.r.l.;

un appunto manoscritto relativo ai "clienti" della Edil.Fin., tra i quali figura, al n. 14, anche la Italia Costruzioni s.r.l., quale società che fruiva dell'Iva agevolata al 4%;

una copia del libro giornale dell'AUTOTRASPORTI ARNONE VINCENZO & C. s.r.l. (società confiscata) per il periodo dall'1 agosto 1990 al 31 dicembre del 1993, dalla cui consultazione si ricava che la società in questione aveva emesso in favore della Italia Costruzioni s.r.l. la fattura n. 390 del 30 novembre 1990 (con relativo versamento del 28 dicembre 1990) e la fattura n. 158 del 31 maggio 1991;

rubrica telefonica, rinvenuta nei locali della società di ARNONE e, perciò, da ritenersi funzionale a finalità lavorative, recante i numeri di "MONTANTE ANTONELLO AMMORTIZZATORI GIMON S/DIFALCO” e "MONTANTE ANTONELLO CL”. Inoltre, l'esame delle fatture emesse da AUTOTRASPORTI ARNONE VINCENZO & C. s.r.l. verso l'ITALKALI, nonché di un altro documento rinvenuto nella ditta di ARNONE, conduce a ritenere che dall'agosto 1990 la parabola dei rapporti commerciali tra vettore e mittente avesse iniziato la fase discendente.

Per un'analisi dettagliata delle evidenze investigative, può essere utile il richiamo ad un passo dell'ordinanza cautelare (da p. 47), che, in quanto meramente ricognitivo di dati documentali oggettivi, non merita particolari considerazioni argomentative: Infine si riusciva anche ad accertare - attraverso attività esperite presso l'ITALKALI di Palermo (società che aveva in gestione la miniera di Pasquasia) e, in particolare, mediante l'acquisizione in copia dei tracciati informatici e dei movimenti contabili - che la “AUTOTRASPORTI ARNONE VINCENZO & C. s.r.l.” aveva intrattenuto con tale società un rapporto lavorativo, iniziato in data 10.02.1990 (giorno in cui veniva emessa la prima fattura in favore della ditta “Autotrasporti ARNONE Vincenzo & C. s.r.l.”, avente nr. 34, per un importo di £ 300.000 per costi accessori - in genere trasporti - di acquisto di materiali per esercizio di pronto impiego) e terminato in data 27.12.1993 (giorno in cui veniva emessa l”ultima fattura n. 195 per trasporti vari per un importo di £ 1.300.000).

[…] In ogni caso, dal libro giornale della ditta di autotrasporti di ARNONE si evincono, senza tema di smentite, pregressi rapporti contrattuali tra la stessa e altra società riconducibile a MONTANTE, ossia la GIMON Italia s.r.l., poi divenuta M.S.A. s.r.l. (MEDITERR SHOCK ABSORBERS), società diversa dalla GIMON s.r.l., costituita solo nel 1994. Altri documenti (fatture e liste clienti), segnalano, poi, il dato della prosecuzione delle relazioni commerciali tra gli ARNONE e MONTANTE, tramite la citata società M.S.A. s.r.l. Ecco quanto ricostruito in sede di indagine (e confluito nell'ordinanza cautelare, da p. 48), sulla base delle evidenze del libro giornale in questione e delle annotazioni contenute nel più volte citato file excel. Ed invero: la consultazione del libro giornale della società dell'ARNONE – riportante le relative scritture per il periodo riferibile dall'1.8.l990 al 31.12.1993 – consente di rilevare che la società GIMON Italia s.r.l. figurava, nell'arco di tempo di che trattasi, tra le ditte interessate da apertura e chiusura di conti patrimoniali (cfr. annotazione nr. 862/ 15 del 26.3.2015 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta in atti). A tal proposito va evidenziato, onde evitare di operare una indebita commistione, che GIMON ITALIA s.r.l. era la precedente denominazione dell'attuale M.S.A. e che, quindi, si tratta di soggetto giuridico ben diverso dalla quasi omonima GIMON s.r.l., altra società sempre nella disponibilità del MONTANTE, ma che veniva però costituita nel 1994.

[…] Si spiega, perciò, adeguatamente poiché tali rapporti con GIMON ITALIA s. r. l. si datino in un arco di tempo in cui l'altra (e distinta) società (sia pure avente denominazione simile e cioè la GIMON s. r. l.) non era ancora costituita. Veniva, altresì, rinvenuta traccia di una fattura emessa dalla AUTOTRASPORTI ARNONE in favore della MSA. in data 31.7.1999, che sta, quindi, ad attestare rapporti lavorativi instaurati anche in epoca successiva e più recente rispetto a quelli poc'anzi descritti (cfr. allegato nr. 31 all'annotazione nr. 1709/15 del 26.6.2015 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta); inoltre, all'interno dei locali ove era custodita la documentazione riferibile alla ditta delllARNONE (che è, ormai, in amministrazione giudiziaria), veniva rinvenuta una lista clienti (con su apposta la data del 10.11.2007) nella quale è indicata, tra le altre, le società MEDITERR SHOCK ABSORBERS (cfr. allegato nr. 41 all'annotazione nr. 1709/15 del 26.6.2015 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta). L'insieme di tali elementi consente di affermare che, diversamente da quanto sostenuto da MONTANTE e coerentemente con quanto dichiarato da FERRARO e RIGGI, il predetto MONTANTE aveva intrattenuto rapporti di lavoro con gli ARNONE.

§ 3.4. Le dichiarazioni di Pietro Riggio e Dario Di Francesco. Anche Pietro RIGGIO, organico alla famiglia di Cosa Nostra di Caltanissetta dalla fine del 2000-inizi del 2001, rendeva dichiarazioni (interrogatori del 19 dicembre 2008 e del 17 maggio 2016) sul conto di MONTANTE, riferendo fatti appresi tramite Dario DI FRANCESCO, divenuto, dal marzo del 2001, il reggente della famiglia di Serradifalco a seguito dell'arresto di Vincenzo ARNONE. Lo spunto colloquiale tra RIGGIO e DI FRANCESCO nasceva dalle intenzioni del primo di sottoporre ad estorsione i fratelli MONTANTE per le attività economiche svolte nella città capoluogo. Nell'occasione DI FRANCESCO avrebbe riferito a RIGGIO di avere intercesso, intorno alla metà degli anni '90, presso Totino RIGGI, esponente di vertice della famiglia mafiosa di San Cataldo, per garantire ad Antonio Calogero MONTANTE, ivi impegnato nella realizzazione di un fabbricato, di potere eseguire le opere in maniera indisturbata rispetto agli appetiti di Cosa Nostra. In quel caso, la famiglia mafiosa di San Cataldo, pur "autorizzando" i lavori nel suo territorio, avrebbe richiesto di potere effettuare le forniture necessarie per il cantiere (interrogatorio del 19 dicembre 2008). DI FRANCESCO aveva anche precisato, parlando con RIGGIO, che il cantiere di MONTANTE, per cause sopravvenute, non era riuscito, di fatto, a concludere le opere intraprese.

[...] Orbene, le indagini compiute sull'attendibilità delle dichiarazioni di RIGGIO consentivano di raccogliere numerosi riscontri oggettivi ed esterni. Infatti, proprio nel territorio di San Cataldo e nel luogo indicato dal predetto collaboratore, si accertava la realizzazione, tra il 7 marzo 1994 (data inizio lavori) e il 17 aprile 1997 (data fine lavori), di un edificio, destinato ad abitazione di tipo civile, ad opera della società AN.CO EUROPA s.r.l. (voltura della concessione edilizia in suo favore nell'ottobre del 1993), della cui compagine MONTANTE aveva fatto parte fino al 1996 (cfr. annotazione n.2855 del 26 settembre 2014 della squadra mobile di Caltanissetta, e relativi allegati, tra i quali visura camerale della società). Anche il dettaglio circa la incompiutezza delle opere eseguite trovava uno specifico riscontro, posto che un'annotazione della Guardia di Finanza del 23 maggio 2002, confluita del procedimento n. 774/2000 R.G.N.R. Mod. 21 (di cui meglio si dirà nel prosieguo), evidenziava che, alla data di redazione dell'atto di polizia giudiziaria, "l'immobile non risulta ultimato" poiché, tra le altre cose, “gli appartamenti ....si trovano privi di ogni rifinitura ad eccezione dei pavimenti". Un ulteriore riscontro veniva ricercato nella fonte primaria della conoscenza di RIGGIO, ossia Salvatore Dario DI FRANCESCO, già reggente, come detto, della famiglia di Serradifalco, determinatosi alla collaborazione dopo l'operazione di polizia c.d. Colpo di grazia (11 marzo 2014), che aveva portato all'arresto di numerosi appartenenti a Cosa Nostra. DI FRANCESCO, se inizialmente aveva escluso di essere a conoscenza di notizie su lavori edili eseguiti da MONTANTE nel territorio di San Cataldo (interrogatorio del 17 maggio 2016), in sede di confronto, eseguito con RIGGIO in data 18 maggio 2016, ricordava la vicenda, pur affermando, diversamente da quest'ultimo, che l'intercessione presso Totino RIGGI, nell'interesse di MONTANTE, fosse da attribuire non a sé stesso, ma a Vincenzo ARNONE. Versione, quest'ultima, la cui correttezza, sempre in sede di confronto, non veniva smentita da RIGGIO, il quale, dopo avere confermato di avere appreso della vicenda, di cui si tratta, da DI FRANCESCO, dichiarava di non potere ricordare con certezza se l'intervento di mediazione anticipata fosse stato esperito da Vincenzo ARNONE ovvero dallo stesso DI FRANCESCO (cfr. registrazione audio del confronto del 18 maggio 2016 tra Pietro RIGGIO e Dario DI FRANCESCO, in atti). E' dunque evidente come l'aspetto centrale dei fatti - intercessione di un esponente mafioso di spicco della famiglia di Serradifalco, presso la famiglia di San Cataldo, nell'interesse di MONTANTE - veniva riferito in maniera sovrapponibile dai due collaboratori, mentre è la questione della individuazione dell'autore della intercessione ad essere controversa, essendo tuttavia comprensibile che, nel fluire dei ricordi sollecitati a distanza di tempo, RIGGIO potesse avere eliso i dettagli della vicenda. In ogni caso, la segnalata discrepanza appare scarsamente significativa sul piano confutatorio, posto che:

1) la rievocazione tardiva dei fatti può comportare un involontario sfrondamento dei ricordi, a fortiori su particolari che, sul piano ricostruttivo, appaiono di esigua rilevanza (l'opera di intercessione è comunque riferita alla medesima famiglia mafiosa di Serradifalco, della quale Di FRANCESCO aveva assunto la reggenza dopo l'arresto di Vincenzo ARNONE);

2) non può ipotizzarsi alcun pactum fraudis, in pregiudizio di MONTANTE, tra i collaboratori RIGGIO e DI FRANCESCO, altrimenti non si spiegherebbero né l'iniziale amnesia del secondo sulla vicenda riesumata dal primo né la persistenza, all'esito del confronto tra i due, di (sia pure) marginali divergenze rievocative, che appaiono distoniche rispetto ad una ipotesi di congiura calunniatoria. Inoltre, a suffragio dell'attendibilità delle dichiarazioni rese dagli stessi giova ricordare come, nel periodo in cui dovrebbe collocarsi la descritta intercessione, ossia tra la fine del 1993 (nell'ottobre di quell'anno fu volturata la concessione edilizia in favore della società edile) e il 7 marzo 1994, data di inizio dei lavori, Vincenzo ARNONE, Dario DI FRANCESCO e Totino RIGGI godevano tutti dello stato di libertà (quest'ultimo fu tratto in arresto il 21 dicembre 1994).

Peraltro, la individuazione in Totino RIGGI del referente sancataldese di Cosa Nostra appare validata dal ruolo effettivamente assolto da quest'ultimo all'interno del sodalizio, come tratteggiato dal collaboratore Ciro VARA già nel 2002 (interrogatorio del 18 dicembre 2002: "durante il blitz Leopardo la persona di fiducia a San Cataldo il primo periodo era un certo Petitto che era collettore non era un uomo d'onore collettore dell'estorsione di fiducia di Terminio e poi lì si sono interessati anche i vari Vaccaro quelli di Serradifalco con il Riggio”) e scolpito dalle risultanze dei procedimenti penali a suo carico (vd. sentenze in atti). Nonostante le numerose conferme alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli investigatori non sono riusciti, però, ad accertare, verosimilmente a causa del decorso di un significativo lasso di tempo dai fatti, l'inserimento di ditte mafiose, quale contropartita per l'esonero dal pizzo, in segmenti esecutivi dell'attività di cantiere di San Cataldo, condotta dalla società (almeno in parte) riconducibile a MONTANTE.

§ 3.5. Le ulteriori dichiarazioni di Dario Di Francesco.  Le dichiarazioni di Carmela Barbieri e Ciro Vara. Alle dichiarazioni già esaminate di FERRARO, RIGGI, RIGGIO e DI FRANCESCO si aggiungono quelle ulteriori rese da quest'ultimo, nonché quelle rese dai collaboratori Carmelo BARBIERI (cfr. verbale del 15 aprile 2009, in atti) e Ciro VARA (cfr. verbale di interrogatorio del 18 maggio 2016, in atti). Per ragioni di agilità espositiva, giova richiamare l'ordinanza cautelare (da p. 59), nella parte in cui contiene una sintesi fedele delle dichiarazioni rese dai predetti collaboratori, oltre che la loro riproduzione testuale: Ulteriore elemento che serve a delineare i rapporti tra il MONTANTE ed esponenti dell'organizzazione criminale denominata “cosa nostra” proviene dalle dichiarazioni rese a questa D.D.A. da Carmelo BARBIERI, il quale, nel corso di un interrogatorio (cfr. verbale del 15 aprile 2009, in atti), ha evidenziato che:

attorno alla fine del 1996, unitamente a Carmelo ALLEGRO ed a Luigi ILARDO, si era trovato, nel corso di una riunione, a discutere di possidenti della provincia di Caltanissetta;

in tale contesto Carmelo ALLEGRO, nel fare riferimento alla famiglia MONTANTE - in specie al padre ed all”odierno indagato - li aveva indicati come “.. un amico nostro e... con suo padre e anche con lui", facendo, poi un eloquente riferimento al fatto che stessero crescendo economicamente e si volevano espandere “si stavano spostando, dovevano andare fuori a lavorare o stavano investendo fuori”.

A margine di tali dichiarazioni, ha ritenuto la Procura della Repubblica (vd. richiesta di misura cautelare), in passaggi argomentativi che non sono confutati nell'ordinanza cautelare, che “le dichiarazioni del BARBIERI hanno il pregio di restituire la natura dei rapporti esistenti tra il MONTANTE e gli esponenti mafiosi della provincia di Caltanissetta, in specie quelli radicati in territorio di Serradifalco, essendo oltremodo chiaro, in termini mafiosi, il senso della "vicinanza ed amicizia” di cui aveva parlato Carmelo ALLEGRO nell'occasione descritta dal collaboratore. Del resto, si trattava di un incontro - quello cui aveva assistito il BARBIERI - che si era tenuto tra esponenti mafiosi di rilievo della provincia di Caltanissetta (Carmelo ALLEGRO, in quel momento, era capomandamento del territorio in cui insiste, appunto, la famiglia di Serradifalco, Gino ILARDO era soggetto di vertice, assieme ai VACCARO, della provincia mafiosa nissena e Carmelo BARBIERI esponente mafioso di rilievo del clan Emmanuello di Gela e trait d'union tra costoro e la famiglia di sangue di Piddu MADONIA) e ciò rende ben chiaro che i discorsi che si erano affrontati in quell'occasione non potessero che riguardare dinamiche involgenti proprio l'organizzazione mafiosa". Tali conclusioni meritano uno spazio di riflessione. Ad avviso di questo giudice, alcune dichiarazioni di BARBIERI, isolatamente considerate e lette esclusivamente in chiave testuale, non paiono segnalare in maniera univoca una prossimità qualificata di MONTANTE all'organizzazione mafiosa, per esempio nella parte in cui il collaboratore dichiara espressamente che Carmelo ALLEGRO, nell'alludere al rapporto con MONTANTE, "sicuramente si riferiva a un contesto amichevole abbastanza stretto, non... poi se era riferito al contesto mafioso questo non mi sento di confermarlo”. Tuttavia, tale affermazione deve essere correlata a quella precedente, in cui BARBIERI parla di una vicinanza di MONTANTE “a loro”, espressione, quest'ultima, che parrebbe riferirsi ad un contesto associativo anziché ad una amicizia di carattere individuale. L'aspetto che, tuttavia, colpisce maggiormente è che la dichiarazione di "vicinanza", riferita da BARBIERI, è attribuita a Carmelo ALLEGRO, che, come detto, era al vertice del mandamento che comprende Serradifalco, ossia del mandamento nel quale ricade la famiglia ARNONE. Lo scenario che si dischiude, dunque, è quello non già di un'amicizia personale di MONTANTE con gli ARNONE (amicizia che, in realtà, aveva importato anche forme di collaborazione economica), bensì quella di un'amicizia del medesimo MONTANTE anche con altri esponenti mafiosi, appartenenti ai diversi livelli della gerarchia nissena. In effetti, le dichiarazioni di BARBIERI appaiono congruenti rispetto a quelle rese da Ciro VARA, il quale, a sua volta, riferiva degli attestati di stima che gli ALLEGRO riservavano a MONTANTE: […] Gli accertamenti compiuti dalla squadra mobile (cfr. all. n. 5 all'annotazione di P.G. n. 2062 Cat. E1/12 Mob. SCO 3° Gr. dell' 8 agosto 2015) hanno condotto alla emersione di elementi di riscontro alle dichiarazioni di VARA, con speciale riferimento all'attività economica svolta da MONTANTE, atteso che quest'ultimo, benché avesse iniziato a produrre biciclette soltanto in data 1 aprile 2011 attraverso la società ITALIAN DESIGN EVENT MONTANTE S.R.L. (costituita con atto del 18 ottobre 2010), aveva veicolato coram populo l'idea secondo cui la Cicli Montante sarebbe stata la più antica fabbrica di biciclette siciliana, sorta già negli anni '20 dello scorso secolo grazie alla capacità imprenditoriale del nonno Calogero, il quale, in breve tempo, aveva iniziato a distribuire le biciclette prodotte “in tutto il meridione dotando i reparti dellallora Reale Arma dei carabinieri, della P. S. ” e “divenendo fornitore anche delle nobili case reali" (cfr. annotazione ult. cit.). Del falso storico creato ad arte da MONTANTE - gli accertamenti compiuti dalla squadra mobile hanno condotto ad acclarare che il nonno dell'odierno imputato aveva soltanto un'attività artigiana di riparazione cicli e moto - vi è riscontro nel menzionato file excel, in cui è accuratamente annotato che il nonno avrebbe creato la prima bicicletta Montante nel 1927 e avrebbe commerciato in biciclette con una ditta individuale sorta nel 1930: […] Orbene, ciò posto deve evidenziarsi come, nonostante il collaboratore non ricordi esattamente le ragioni dell'apprezzamento riservato dagli ALLEGRO a MONTANTE, il cardine delle dichiarazioni si identifica nell'esistenza di un rapporto di stima nutrito dai primi verso il secondo, che appare fondato su motivi di riconoscenza ("[...] perché si era prestato ad aiutare economicamente la famiglia di Serradifalco o perché si fosse “comportato bene” per altre situazioni”) . Tali dichiarazioni, che corroborano quelle di BARBIERI sulla coltivazione dei rapporti di "amicizia" o "vicinanza" tra MONTANTE e gli ALLEGRO, risultano a loro volta armoniche rispetto a quelle provenienti da Dario DI FRANCESCO (interrogatorio del 28 marzo 2015), secondo cui "i rapporti tra Vincenzo ARNONE e Antonello MONTANTE di cui ho parlato erano noti anche ad altri esponenti della famiglia di Serradifalco quali il MISTRETTA e l fratelli ALLEGRO, per come mi fece intendere lo stesso Vincenzo ARNONE anche se non in maniera esplicita” (aggiungendo: "preciso, infatti, di non aver mai assistito ad alcun discorso inerente i rapporti tra l'ARNONE e il MONTANTE con altri affiliati alla famiglia di Serradifalco, come era normale che fosse non essendo io, al tempo, formalmente organico a cosa nostra ”). Peraltro, le dichiarazioni di BARBIERI circa gli investimenti che la famiglia MONTANTE si apprestava a fare "fuori" (cfr. verbale del 15 aprile 2009, in atti: "Gliene sentii parlare... stiamo... discutiamo di... sempre intorno al '96, fine '96... così... infatti alla... alla presenza di ILARDO pure questo discorso avvenne, perché si parlava di gente... della zona, di possidenti, che avevano attività artigianali, imprenditoriali e lui citò questo MONTANTE che... non ricordo se disse che il padre si stavano spostando, dovevano andare fuori a lavorare o stavano investendo fuori, non... non ricordo male, [...]”), lette in connessione con quelle di FERRARO sull'aiuto ad espandersi dato dagli ARNONE a MONTANTE, spiegano un sinistro effetto sonoro se rilette alla luce dell'importanza degli investimenti effettuati da quest'ultimo proprio nell'ultimo scorcio degli anni '90. Infatti, secondo il menzionato file excel, la società M.S.A. s.p.a., in data 30 aprile 1998, operava un aumento di capitale sociale da 40 milioni a 199 milioni delle vecchie lire e, meno di due mesi dopo, realizzava un investimento economico trasferendo l'unità locale (stabilimento di produzione) da San Damiano d'Asti a Castell'Alfero, mentre, decorsi altri due anni, deliberava un nuovo aumento del capitale sociale, trasformandosi, dopo un ulteriore anno, in società per azioni […]. Preso atto di quanto ricostruito in sede di indagini, è doveroso osservare che il dato secco della "crescita" economica di MONTANTE non assume, isolatamente considerato, valenza determinante, in quanto, allo stato, non si dispone di ulteriori elementi, quali l'ammontare annuo dei redditi prodotti/dichiarati dallo stesso, per verificare una eventuale ipertrofia ingiustificata dei suoi investimenti. Non è noto, infatti, quali risorse fossero confluite nell'aumento dei capitale sociale, risorse che, in ipotesi, potevano anche derivare da parallele e propedeutiche azioni di disinvestimento. Per converso, come vedremo nel paragrafo che segue, esistono agli atti importanti dichiarazioni rese da Dario DI FRANCESCO, che valgono a munire di palpabilità materica le asserzioni fin qui esaminate circa la vicinanza di MONTANTE agli ambienti mafiosi, avendo il collaboratore indicato uno specifico percorso attraverso il quale Vincenzo ARNONE, boss di Serradifalco, concorse a gettare le basi del successo industriale ed associativo (il riferimento è all'associazione degli industriali) di MONTANTE.

I giovani “amici” industriali. La Repubblica il 26 ottobre 2019. Il pentito Dario Di Francesco. Secondo DI FRANCESCO, il quale riferiva notizie apprese da Vincenzo ARNONE, amico e testimone di nozze di MONTANTE e soggetto con il quale quest'ultimo aveva intrattenuto anche rapporti di lavoro, era stato proprio ARNONE a perorare l'elezione del predetto MONTANTE a presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta. Inoltre, dopo l'elezione, quest'ultimo avrebbe agito al fine di agevolare l'ingresso di ARNONE nell'associazione degli industriali, quale componente del comitato dei "saggi", che, come verrà spiegato infra, è l'organo dell'associazione che assolve un ruolo importante nella elezione del presidente.

Si riporta uno stralcio dell'ordinanza cautelare (da p. 68), nella quale vengono trascritte testualmente le dichiarazioni di DI FRANCESCO e vengono adeguatamente e convincentemente chiarite le lievi défaillance rievocative sul piano della collocazione temporale degli eventi: “Ricordo, anche, che nel periodo in cui avvennero i fatti che sto descrivendo, erano in corso le competizioni per le nuove elezioni del Presidente degli Industriali di Caltanissetta alla cui carica ambiva Antonello MONTANTE in contrapposizione al gruppo che faceva capo a Pietro DI VINCENZO. In sede di rilettura del verbale, su domanda postami dalle SS.LL., preciso che si trattava per quel che ora ricordo della nomina alla carica di Presidente dei giovani industriali. So che l'ARNONE era interessato a tale competizione e sponsorizzava l elezione di MONTANTE e proprio per tal motivo aveva anche avuto modo di conoscere Massimo ROMANO. L'ARNONE supportava l'elezione del MONTANTE in virtù del rapporto di amicizia che intercorreva tra i due e ricordo che ebbe a dirmi anche che si stava interessando proprio per fare eleggere il MONTANTE. Mi consta anche che l'ARNONE, per come egli stesso mi disse, aveva anche un interesse personale all'elezione del MONTANTE poiché puntava a far avere una rappresentanza dell'associazione autotrasportatori - di cui faceva parte - nell'associazione industriali. Dopo l'elezione del MONTANTE, l'ARNONE mi disse anche che era stato inserito all'interno dell'associazione industriali come uno dei quattro “saggi così almeno ricordo”. Va detto, per correttezza, come il DI FRANCESCO avesse inizialmente riferito la vicenda ad epoca successiva all'apertura di un supermercato da parte di Massimo ROMANO in territorio di Serradifalco - in specie agganciandola temporalmente ad un atto intimidatorio che egli aveva compiuto nei confronti del responsabile per motivi che esulano dalla presente trattazione (cfr. sempre verbale del 24.7.2014, in atti) - e, dunque, all'elezione del MONTANTE a Presidente di CONFINDUSTRIA Caltanissetta, per poi precisare che intendesse riferirsi, appunto, agli avvenimenti che avevano condotto all'elezione dell'odierno indagato alla presidenza dei componenti c.d. “junior” della locale associazione. Del resto che si fosse trattato di una mera iniziale imprecisione del collaboratore può dirsi ampiamente dimostrato dal fatto che:

quando il MONTANTE venne eletto presidente di CONFINDUSTRIA Caltanissetta (nei primi mesi del 2005), il DI FRANCESCO si trovava in stato di detenzione (sicché alcuna confidenza quest'ultimo poteva aver ricevuto dall'ARNONE su tale vicenda);

inoltre il DI FRANCESCO nel corso dell'interrogatorio aveva anche precisato che, in epoca successiva alla elezione del MONTANTE (cui si riferiva l'interessamento del capomafia di Serradifalco), l'ARNONE gli ebbe a dire che era stato chiamato a rivestire il ruolo di “saggio”, circostanza che induce a ritenere che l”elezione cui si riferiva il collaboratore non potesse che essere avvenuta con certezza in epoca antecedente al marzo del 2001 (momento in cui PARNONE venne ristretto in carcere per l'operazione c.d. “Urano”) considerando anche che, successivamente al suo arresto del 2003, il DI FRANCESCO è poi rimasto ininterrottamente detenuto sino alla fine del 2013.

Del resto, nel corso del verbale di interrogatorio del l7 maggio 2016 il DI FRANCESCO ha ribadito quanto già riferito in precedenza, dichiarandosi certo che l'ARNONE avesse fatto riferimento all'elezione del MONTANTE a Presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta.

Verbale sintetico dell'interrogatorio reso da Dario DI FRANCESCO in data 7.5.2016

A.D.R. La S.V. mi dà lettura di stralcio dell'interrogatorio reso in data 24.7.2015 ed a tal proposito ulteriormente preciso e confermo che facevo riferimento all'elezione di Antonello MONTANTE a Presidente dei Giovani Industriali, dicendomi anche certo della círcostanza.Posso anche dire che dopo l'elezione del MONTANTE l'ARNONE mi disse che era stato nominato, per volere del MONTANTE stesso, come “saggio” o comunque facendo riferimento ad un organismo composto di quattro persone – circostanza quest'ultima di cui sono assolutamente certo - deputato alla risoluzione dei problemi interni a Confindustria Caltanissetta. Ricordo anche che la sede dei Giovani Industriali ove si tenevano le riunioni era al tempo ubicata a Poggio S. Elia. Orbene, le dichiarazioni di DI FRANCESCO non sono rimaste isolate nel panorama investigativo, essendo risultate convergenti con quelle rese nel novembre del 2015 dal già citato Marco VENTURI, cresciuto all'interno delle associazioni degli industriali all'ombra di MONTANTE e, successivamente, investito dell'assessorato regionale alle attività produttive e della presidenza di Confindustria Centro Sicilia.

VENTURI, in particolare, membro di Assindustria Caltanissetta (pregressa denominazione dell'associazione nissena degli industriali) dal 1993, rievocava le modalità di elezione di MONTANTE alla presidenza dei Giovani Industriali, segnalandone l'aticipità. Si richiama, anche qui, il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 70), nella quale l'esposizione testuale delle dichiarazioni della persona informata dei fatti è preceduta da un loro sunto fedele: Il VENTURI, infatti, ha dichiarato che:

aveva fatto ingresso in ASSINDUSTRIA Caltanissetta nel 1993 grazie a Pasquale TORNATORE, titolare di una ditta di marketing che curava la pubblicità anche per la sua azienda, la SIDERCEM;

sino al 1996 non aveva praticamente fatto vita associativa ed in quell'anno, verosimilmente tra il febbraio e l°aprile, il MONTANTE venne eletto Presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta.

La nomina del MONTANTE era avvenuta per acclamazione ed egli, così come il TORNATORE, non aveva condiviso quella modalità che aveva, anzi, giudicato alquanto singolare. Il VENTURI ha anche aggiunto di aver avuto l'impressione che l'elezione del MONTANTE fosse stata “imposta” da qualcuno e ciò perché, innanzitutto, non “vi fu alcun dibattito interno sul nominativo da scegliere come Presidente dei Giovani Industriali Inoltre, da subito, aveva potuto constatare “il timore reverenziale che circondava il MONTANTE allorché, in occasione di divergenze di opinioni che nascevano all'interno del direttivo dei c.d. senior _ ove il MONTANTE partecipava di diritto in qualità di Presidente dei c.d. junior - era sufficiente che lo stesso MONTANTE minacciasse le sue dimissioni affinché ogni questione rientrasse e i dissenzienti rispetto alle sue opinioni facessero un passo indietro, sposando quindi la sua linea che risultava sempre prevalente”. Il VENTURI concludeva dicendo di aver percepito, in buona sostanza, che vi fosse “qualcuno” dietro al MONTANTE che non si volesse scontentare.

Verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da Marco VENTURI il 12 novembre 2015.

A.D.R.: Nel 1993 ho fatto ingresso in ASSINDUTRIA ove venni introdotto da Pasquale TORNA TORE, che all'epoca gestiva una ditta di marketing aziendale che si occupava anche di curare la pubblicità per la mia società, la DELFI successivamente trasformatasi in THAOS

Decidemmo di entrare in ASSINDUSTRIA per avere il sostegno dell'associazione di categoria anche in relazione a problemi dal punto di vista amministrativo che avemmo a seguito di una denuncia anonima e che stentavano a risolversi nonostante i fatti rappresentati fossero del tutto infondati, come poi successivamente riuscimmo a dimostrare. Il TORNATORE mi presentò Tullio GIARRA TANO e quindi entrammo in ASSINDUSTRIA anche se non riesco ora a rammentare chi firmò la scheda di adesione.

A.D.R.: La SIDERCEM s. r. l. venne in origine, nel 1982, impiantata da mio padre a Misterbianco, in Via Giacomo Matteotti ove vi era un'unità locale ed anche la sede legale. Nel 1984 mio padre decise di aprire un'unità operativa anche a Caltanissetta, in origine allocata in c.da Xirbi e successivamente, nel 1988, spostata in c. da Niscima.

Nel 1993 spostammo la sede e l'unità operativa di Misterbianco in via Zenia successivamente divenuta via Giovanni Agnelli e, propria a seguito della denuncia anonima di cui ho detto, sempre nel 1993 facemmo domanda per l'assegnazione di un lotto all'A.S.I. di Caltanissetta che effettivamente ottenemmo nel 1995 ove quindi venne spostata l'unità operativa. Nel 1996, infine, spostammo anche la sede legale della società a Caltanisetta.

A.D.R. Sino al 1996 non ho partecipato praticamente mai alla vita associativa. In quell'anno avvenne I 'elezione di Antonello MONTANTE a Presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta; ricordo che avvenne per acclamazione, ma io e Pasquale TORNATORE non battemmo le mani, sembrandoci una prassi un po' singolare. In quel momento Presidente di ASSINDUSTRIA Caltanissetta era Francesco AVERNA, poi sostituito, alla fine del 1996 se ben ricordo, da Pietro DI VINCENZO. Ricordo che I 'elezione del MONTANTE avvenne ad inverno inoltrato e la posso quindi collocare nell'arco di tempo compreso tra il febbraio e I aprile del 1996.

A.D.R.: Posso anche dire che l 'elezione del MONTANTE mi sembrò “imposta da qualcuno" e da subito ebbi la sensazione che il MONTANTE fosse molto influente all'interno dell'associazione Ciò posso dire poiché, da un lato, non vi fu alcun dibattito interno sul nominativo da scegliere come Presidente dei Giovani Industriali. Inoltre ho personalmente potuto constatare il timore reverenziale che circondava il MONTANTE allorché, in occasione di divergenze di opinioni che nascevano all'interno del direttivo dei c.d. Senior - ove il MONTANTE partecipava di diritto in qualità di Presidente dei c.d. Junior - era sufficiente che lo stesso MONTA NTE minacciasse le sue dimissioni affinché ogni questione rientrasse e i dissenzienti rispetto alle sue opinioni facessero un passo indietro, sposando quindi la sua linea che risultava sempre prevalente. In altre parole ho avuto la sensazione che non si volesse scontentare qualcuno che “c'era alle sue spalle”. Ricordo che ai direttivi di cui ho parlato certamente ha presenziato anche Pasquale TORNA TORE.

Di tenore analogo le dichiarazioni di Pasquale TORNATORE, riprodotte nell'ordinanza cautelare (da p. 72) sia nella forma sintetica che nella loro estensione testuale, cui seguono le considerazioni critiche di questo giudice: Vi è da rilevare che le dichiarazioni del VENTURI hanno trovato conferma in quelle rese dal già menzionato Pasquale TORNATORE, il quale ha evidenziato che:

aveva conosciuto Marco VENTURI sin dal 1989, avendo rapporti lavorativi con la SIDERCEM già dal 1988, e con lo stesso aveva via via stretto i rapporti sino a divenirne amico. Era stato lui stesso a fare opera di persuasione col VENTURI - così come con Massimo ROMANO e Antonio Calogero MONTANTE - affinché si associasse alla locale ASSINDUSTRIA;

la nomina del MONTANTE a Presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta non fu preceduta da particolari discussioni sul candidato da eleggere e, anzi, alla stessa si addivenne in maniera pressoché unanime;

pur non ricordando, in occasione dei direttivi dell'associazione (tanto dei giovani industriali che dei c.d. “senior”), di minacce del MONTANTE di dare le dimissioni qualora non passasse la linea che egli proponeva, rammentava come questi riuscisse quasi sempre a far prevalere le sue posizioni in maniera piuttosto autoritaria ed a tal proposito specificava che la candidatura del VENTURI alla presidenza dei Giovani Industriali (quale successore dello stesso MONTANTE) venne accettata, nonostante le perplessità sollevate da alcuno degli associati, a fronte della decisa presa di posizione dell'odierno indagato “che espressamente soleva ripetere “o con me o contro di me”.

[…] Orbene, le dichiarazioni di VENTURI e TORNATORE non hanno la capacità di verificare, tecnicamente, quelle DI FRANCESCO sulla sponsorizzazione di MONTANTE, da parte di Vincenzo ARNONE, nella elezione a presidente dei Giovani Industriali. Esse, infatti, dimostrano soltanto che MONTANTE era munito di una particolare determinazione o autorevolezza nell'esercizio del proprio ruolo associativo, senza che ciò valga ulteriormente a provare che tale determinazione o autorevolezza gli derivasse dall'appoggio riservatogli da ARNONE. L'analisi dei documenti dell'associazione avrebbe potuto senz'altro rimuovere ogni dubbio sul sostegno offerto da ARNONE a MONTANTE nella sua corsa alla carica presidenziale nell'associazione dei Giovani Industriali e sulla nomina del medesimo ARNONE a componente del comitato dei “saggi” all'interno di Confindustria Caltanissetta. Tuttavia, come si ricava dagli accertamenti esperiti dalla P.G. (cfr. annotazione di P.G. della squadra mobile di Caltanissetta n. 397/15 del 10 febbraio 2015 e relativi allegati), a seguito dell'accesso presso la sede di Confindustria Centro Sicilia non veniva rinveniva alcun documento, cartaceo o informatico, relativo all'elezione di MONTANTE alla presidenza dei Giovani Industriali di Caltanissetta e alla designazione di Vincenzo ARNONE a componente del comitato dei “saggi” della locale associazione.

Tutto ciò che, infatti, veniva reperito era la documentazione relativa all'iscrizione delle ditte AUTOTRASPORTI ARNONE Vincenzo & C. s.r.l. e DI. EFFE Servizi di DI FRANCESCO Felicia & C. s.n.c. e la documentazione relativa alla domanda di ammissione presentata in data 1 ottobre 1990 da Gioacchino MONTANTE nella qualità di rappresentante legale della società ITALIA Costruzioni s. r. l. Per il resto, nessun'altra società di MONTANTE risultava documentalmente ammessa nell'associazione. Tuttavia, le modalità della misteriosa evaporazione fisica di tali documenti, certamente imputabile a MONTANTE (vd. infra), finisce per spiegare un incredibile effetto paradosso, costituendo la conferma più vistosa, ex adverso, della precisa volontà dello stesso di detergere l'archivio di Confindustria da ogni traccia che potesse dimostrare, per tabulas, la veridicità delle dichiarazioni di DI FRANCESCO. A conferma della correttezza di tale deduzione, giova anticipare, con riserva di approfondimento nel paragrafo che segue, come, in effetti, in un secondo momento saltava fuori, grazie all'opera del giornalista Gianpiero CASAGNI, uno dei documenti cercati dagli inquirenti, che validava l'assunto di DI FRANCESCO secondo cui ARNONE era stato nominato quale “saggio”, all'interno di Confindustria, all'esito di una procedura nella quale, come vedremo, determinante era stata la volontà di MONTANTE.

La misteriosa scomparsa dei documenti. La Repubblica il 27 ottobre 2019. La vicenda della scomparsa dei documenti di Confindustria è stata oggetto di approfondimento investigativo, a partire dall'escussione di Rosario AMARU', liquidatore di CONFINDUSTRIA Caltanissetta in vista della creazione, il 12 giugno 2012, di CONFINDUSTRIA Centro Sicilia (che riunisce le province di Caltanissetta, Enna ed Agrigento). AMARU', in particolare, non dava precisi ragguagli sulla collocazione della documentazione non rinvenuta, raccontando di cinque traslochi che essa aveva subito e della perpetrazione, nel 2007, di "molta documentazione" dell'associazione (cfr. sommarie informazioni testimoniali del 12 febbraio 2015). Lo stesso, inoltre, con nota del 25 giugno 2015 (cfr. allegato n. 14 alla nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 2089 del 10 agosto 2015), affermava che già al momento suo insediamento come liquidatore, nel giugno del 2012, aveva potuto constatare la "lacunosità della documentazione disponibile”. Aggiungeva, infine, che i furti subiti dall'associazione erano stati, in realtà, diversi, i più importanti dei quali erano stati denunciati, allegando, a dimostrazione di ciò, copia di una delle denunce sporte (si tratta di una denuncia di furto presentata in data 1 aprile 1996 dall'allora direttore Tullio Giarratano, su cui vd. infra). Ciò posto, deve rilevarsi come nel 2007 risultava effettivamente denunciato, il 27 novembre di quell'anno, un furto nella sede dell'associazione (cfr. allegato n. 5 alla nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 869/15 del 27 marzo 2015), e tuttavia né dal tenore della denuncia, presentata dall'allora direttore Giovanni CRESCENTE, né dalle sommarie informazioni dallo stesso rese il 13 febbraio 2008, emerge che oggetto di asportazione fossero stati i documenti relativi all'elezione di MONTANTE alla presidenza dei Giovani Industriali di Caltanissetta o alla composizione del comitato dei saggi, nel periodo in cui vi avrebbe fatto parte V. ARNONE, o, ancora, relativi all'ammissione delle società di MONTANTE. Inoltre, prima del 2007, si annovera un solo furto, del quale riferiva Lucia DI BUONO, responsabile di amministrazione presso l'Associazione Assindustria Caltanissetta per oltre quarant'anni, dal 1963 al 2015 (sommarie informazioni testimoniali del 24 novembre 2015). Tale furto, tuttavia, pacificamente identificabile con quello denunciato in data 1 aprile 1996 dall'allora direttore

Tullio GIARRATANO (e citato da AMARU' quale mero esempio dei presunti molteplici furti subiti dall'associazione), non aveva avuto ad oggetto materiale cartaceo.

Di seguito le dichiarazioni di DI BUONO: Verbale di sommarie informazioni testimoniali del 24.11.2015

Domanda: Vuole indicare preliminarmente che attività lavorativa svolge?.

Risposta: In atto sono pensionato dopo avere espletato per ben 42 anni I 'attività di responsabile di amministrazione presso l'Associazione Assindustria di Caltanissetta. Per precisione sono stata assunta l'1 Luglio 1963 e sono andata in pensione nell'anno 2004. Materialmente non sono andata via da Assindustria in quanto in quel periodo, anche se ero già in pensione, mi venne proposto un contratto di consulenza, occupandomi sempre dell'amministrazione e quindi di fatto ha lasciato materialmente l'Assindustria il 17 Febbraio 2005.

Domanda: Vuole indicare di cosa si occupava all'interno di Assindustria.

Risposta: Mi occupava di amministrazione, in particolare della contabilità dell'Associazione dei rapporti esterni tipo con la banca e con altri enti; inoltre mi occupava di fornire assistenza alle ditte che la richiedevano; mi occupava anche della gestione della segreteria. Tengo a precisare che tra il 2003 ed il 2005 e comunque per circa una anno, ho svolto anche la funzione di vice direttore di Assindustria. Ricordo che sin dalla mia assunzione che come già detto è avvenuta nel 1963, vi era come direttore l'Avvocato Giuseppe VIOLA e successivamente è subentrato l'Avvocato Tullio GIARRATANO.

Domanda: Agli atti di questo Uffìcio risulta che l'Avvocato Tullio GIARRATANO all'atto delle dimissioni volontarie dall'Associazione Assindustria, ha redatto un verbale di consegna di tutto il materiale cartaceo di cui ne era in possesso in ragione della sua qualifica di direttore, ricorda simile particolare?.

Risposta: Si, ricordo con assoluta precisione che l 'Avvocato Tullio GIARRA TANO all'atto delle sue dimissioni, fece un verbale di consegna di tutto il materiale cartaceo da egli custodito per ragioni d'Ufficio.

Il verbalizzante da atto che pone in visione alla Sig.ra DI BUONO Maria Lucia un verbale di consegna di materiale cartaceo datato 9 e 11 Febbraio 2005, a tal proposito, la predetta, dopo avere consultato il verbale dell'11 Febbraio 2005, dichiara che la firma apposta in calce per ricevuta del materiale, risulta essere la sua, oltre a quelle del Dr. MISTRETTA - CASTORINA Francesco e della sua collega SPAGNOLO Veruska.

Analogo verbale di consegna ho redatto io personalmente tra il 12 e il 17 Febbraio 2005 allorquando ho lasciato definitivamente l'Assindustria di cui pero` non ho conservato copia. Ricordo che il verbale di consegna così come tutto il materiale cartaceo io l'ho personalmente consegnato al consulente esterno del Consiglio Direttivo CASTORINA Francesco, nominato non ricordo bene o dall'allora presidente MONTANTE Antonello o dal Consiglio Direttivo dallo stesso presieduto. Ribadisco con assoluta certezza che sino alla data del 17 Febbraio 2005 tutti i documenti relativi all'amministrazione che comprendevano (verbali del consiglio direttivo - verbali dei sindaci revisori - bilanci - pezze giustificative della contabilità - verbali delle assemblee dei soci) risultavano essere presenti all'interno dell'Associazione e tenuti perfettamente in ordine.

Domanda. Durante la sua permanenza all'interno di Assindustria, si sono verificati dei furti?.

Risposta: Si, ricordo che in tutti questi anni si è verificato solamente un furto e, precisamente, mentre 1'Associazione aveva la sede legale in Vicolo Cortile Conti. Ricordo con assoluta precisione che durante l'evento delittuoso vennero asportati, se mal non ricordo, uno o due pc e una stampante e altro di poca importanza; escludo che venne asportato del materiale cartaceo riconducibile all'attività dell'Associazione Posso senza ombra di dubbio dichiarare che dal 1963 data del mio ingresso ad Assindustria e sino al 2005 data della mia uscita ho assistito ad un solo furto che è quello di cui sopra e di cui è stata sporta relativa denuncia.

La dichiarazione più significativa fatta da Lucia DI BUONO è quella, resa “con assoluta certezza", per cui, fino al 17 febbraio 2005, “tutti i documenti relativi' all'amministrazione che comprendevano (verbali del consiglio direttivo – verbali dei sindaci revisori - bilanci - pezze giustificative della contabilità – verbali delle assemblee dei soci) risultavano essere presenti all'interno dell'Associazione e tenuti perfettamente in ordine”. Essa si salda con quella, analoga, fatta da Tullio GIARRATANO (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 15 febbraio 2015, allegato n. 3 alla nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 869/15 del 27 marzo 2015), il quale aveva rivestito la carica di direttore di ASSINDUSTRIA prima e di Confindustria Caltanissetta dopo, per un complessivo periodo di tempo lungo dal 1972 al 2005. GIARRATANO, invero, dichiarava espressamente che tutta la documentazione amministrativa e i verbali dell'associazione (relativi ad elezioni dei presidenti e del consiglio direttivo, nonché alle nomine dei "saggi") erano sempre stati regolarmente conservati presso la sede associativa, ubicata prima in viale della Regione, in Piazza Giovanni XXIII, e poi in via Cavour - cortile Conti. GIARRATANO, in particolare, manifestava certezza sulla integrità del corpus documentale almeno fino alla fine del suo mandato (2005), avendone personalmente constatato la presenza al momento del passaggio delle consegne in favore del Dott. Vincenzo MISTRETTA (in quel periodo consigliere tesoriere) e di Francesco CASTORINA (all'epoca consulente del consiglio direttivo):

[...] Le dichiarazioni di Tullio GIARRATANO risultano perfettamente complementari a quelle rese dal suo successore, sopra citato, Giovanni CRESCENTE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 dicembre 2015), in quanto, se il primo poteva affermare l'integrità della conservazione dei documenti fino alla fine del proprio mandato, il secondo, oltre a poterne constatare un parziale ammanco al momento del proprio insediamento, aveva personalmente assistito al loro prelievo da parte di MONTANTE, che aveva addotto il pretesto di "metterli in sicurezza" contro un possibile uso improprio ad opera delle passate gestioni confindustriali. Secondo CRESCENTE, infatti, MONTANTE, che aveva lasciato intendere che aveva già iniziato, prima del suo insediamento, le operazioni di asporto, aveva anche dato disposizioni alla propria fedele collaboratrice, Linda VANCHERI, di trasferire la documentazione dell'associazione in un locale proprio, sito a Caltanissetta in via Amico Valenti:

omissis

A.D.R. Allorché io sono divenuto direttore di CONFINDUSTRIA Caltanissetta ho potuto constatare che mancava la documentazione dalla vita associativa pregressa; ricordo anche che in più di qualche occasione il MONTANTE, nel primissimo periodo in cui io divenni direttore, veniva nei locali dell'associazione in via Cavour-Cortile Conti per controllare documentazione che poi portava via, dicendomi che era opportuno “metterla in sicurezza "perché la classe dirigente precedente avrebbe potuto farne uso contro di lui. In quelle occasioni mi fece anche comprendere che, prima del mio ingresso come direttore di CONFINDUSTRIA Caltanissetta, aveva già portato via altra documentazione relativa alla pregressa vita associativa. Successivamente ho anche potuto constatare personalmente il MONTANTE dare disposizioni alla VANCHERI di portare documentazione in un locale di sua proprietà sito in via Gabriele Amico Valenti. Allorché, perciò, ho dichiarato nel verbale del 1 7febbraio 2015 che “sino a quando sono rimasto in servizio come direttore di Assindustria poi divenuta Confindustria Caltanissetta, tutta la documentazione cartacea (verbali direttivi - verbali assemblea - designazione dei saggi - verbali dei saggi - comitati di presidenza ed altro) era presente e perfettamente catalogato ed inoltre tenuta sotto chiave all'interno di un armadio in legno posto all'interno del mio ufficio” intendevo riferirmi alla documentazione che era stata formata sotto la mia gestione e non certamente a quella antecedente, che non ho mai visto, ne' ne ho mai potuto constatare la presenza all'interno dei locali dell'associazione.

omissis

Dunque, ad avviso di CRESCENTE, parte della documentazione era già stata asportata prima del proprio insediamento, ma non certo durante la carica di GIARRATANO, che riteneva di poterne attestare la sua integrità fino al termine del suo mandato. Pertanto, atteso che GIARRATANO, al momento delle proprie dimissioni, ebbe a consegnare i documenti al consigliere tesoriere, Dott. Vincenzo MISTRETTA, e al consulente del consiglio direttivo, Francesco CASTORINA, MONTANTE doveva avere prelevato parte dei documenti interloquendo con questi ultimi. In effetti, Maurizio SAPIENZA, dipendente di Confindustria Caltanissetta dal 13 febbraio 1992 al 28 febbraio 2013, dichiarava che MONTANTE, dopo la propria elezione a presidente della locale associazione degli industriali, aveva ordinato a MISTRETTA e a CASTORINA di sgomberare i locali da quei documenti, sicché lo stesso SAPIENZA e altri due dipendenti avevano ricevuto l'incarico di metterli all'interno di trentacinque scatoloni, destinati ad essere conservati in un magazzino nella disponibilità dell'imprenditore Massimo ROMANO. Verbale di sommarie informazioni testimoniali rese il 5 dicembre 2015 da Maurizio Sapienza:

A.S.R. La S. V. mi chiede chi fossero i componenti della segreteria dell 'associazione in epoca successiva all 'elezione del MONTANTE a Presidente nel gennaio del 2005. Al tempo la segreteria era retta dalla dott.ssa DI BUONO, ma subito dopo l 'elezione del MONTANTE la stessa fu affiancata da Francesco CASTORINA e Vincenzo MISTRETTA, entrambi legati al MONTANTE. Il MONTANTE da subito diede ordine al MISTRETTA ed al CASTORINA di 'fare pulizia" della documentazione presente in associazione e costoro, avvalendosi della collaborazione mia, di Clementina GIORGIO e di Veruscka SPAGNOLO, si occuparono di collocare la documentazione inerente la pregressa vita associativa all'interno di trentacinque scatoloni, che furono portati, per quel che ho appreso, in un magazzino nella disponibilità del ROMANO, anche se non sono in condizioni di dire dove fosse esattamente ubicato. La rimozione ex situ della documentazione di Confindustria, per volontà di MONTANTE, deve considerarsi pacifica, risultando altresì confermata dalle conoscenze apprese de relato da Pasquale Carlo TORNATORE e riversate nel verbale di sommarie informazioni testimoniali del 4 dicembre 2015: ADR. Posso anche dire che Carmelo RAIMONDI, circa un anno fa, mi disse di aver saputo che vi era della documentazione sottratta nella sede dell 'associazione degli industriali custodita in un magazzino nella disponibilità del MONTANTE. Il RAIMONDI aveva confidato la stessa circostanza anche a Salvatore MISTRETTA, il quale la raccontò ad Enzo RUSSO e questi aveva sollecitato il MISTRETTA a convincere il RAIMONDI a riferirla all'autorità giudiziaria. Il RAIMONDI rimase molto tempo indeciso sul da farsi, ma poi si determinò a tacere avendo paura di possibili negative conseguenze sulla sua attività imprenditoriale già in crisi di liquidità. Il quadro fin qui delineato non può essere vanificato dai meri “non ricordo" degli altri due dipendenti (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da Francesco CASTORINA in data 27 novembre 2015 e da Veruscka SPAGNOLO in data 26 novembre 2015), escussi per avere collaborato all'inscatolamento di quei documenti, in quanto non sarebbe così eccezionale la fragilità del ricordo, eroso dal volgere degli anni, su circostanze alle quali, peraltro, gli stessi potrebbero non avere attribuito particolare significato. Per converso, certamente credibili, in ragione dei livelli rivestiti, devono considerarsi le persone informate dei fatti che avevano svolto compiti direttivi (GIARRATANO, CRESCENTE) o di segreteria (DI BUONO), mentre, sul piano dell'attendibilità delle loro rispettive deposizioni, non può non apprezzarsene l'intrinseca logicità, la reciproca coerenza e l'idoneità a ricostruire, senza residui dubitativi, la filiera dei passaggi subiti dai documenti in questione. D'altro canto, è evidente l'imbarazzo di MONTANTE quando, in momenti e sedi diverse, si era pronunciato sulla sorte di tale materiale, modulando la spiegazione in relazione all'obiettivo di volta in volta perseguito. E' appena il caso di accennare come, in una delle risposte dallo stesso fornite alla commissione parlamentare antimafia in un'audizione dell'anno 2005, egli aveva fatto riferimento ad un ammanco documentale da attribuirsi, asseritamente, alle precedenti gestioni dell'associazione degli industriali (cfr. p. 42 del resoconto stenografico di tale audizione prodotta dalla difesa del MONTANTE in sede di tribunale per il Riesame), mentre, dopo la pubblicazione, da parte di Gianpiero CASAGNI, sulla rivista Centonove, di dati estrapolati proprio da quei documenti, scomodi per MONTANTE, quest'ultimo aveva preparato una bozza di querela, mai presentata ma rinvenuta nella "stanza segreta” della sua villa di c.da Altarello, a Serradifalco, nella quale si suggeriva il coinvolgimento del citato giornalista in una ipotesi di furto dei documenti medesimi commesso nel 2007. In buona sostanza, MONTANTE conduceva il gioco delle tre carte, una delle quali era l'occultamento, da parte sua, dei documenti, la seconda era l'attribuzione dell'occultamento alla passata gestione (Ing. Di Vincenzo e presunti sodali) e la terza l'imputazione della scomparsa ad un'azione furtiva (con possibile coinvolgimento di CASAGNI). Un gioco illusionistico, condotto con spregiudicatezza e con la cieca fiducia positivistica che il destino, che fino ad allora gli aveva assicurato l'edificazione di un sistema di potere (sul quale, vd. infra), non gli voltasse, inaspettatamente, le spalle, portando a ribaltare tutte e tre le carte. E in effetti MONTANTE subiva un triplice ribaltamento: le persone informate dei fatti, come visto, conservavano il ricordo della sua azione distrattiva; il suo file excel, come vedremo, dimostra che egli aveva sempre mantenuto la disponibilità di tali documenti, consultandoli all'occorrenza; uno di tali documenti, in copia, saltava fuori, per mano di CASAGNI. Quanto alla specifica capacità rivelatrice del file excel, è utile ripercorre le annotazioni che si riferiscono ad avvenimenti associativi relativi a periodi per i quali nessun documento è stato possibile rinvenire, ciò che avvalora il convincimento che tali documenti siano nella disponibilità di MONTANTE. Si prenda in considerazione, in primo luogo, il contenuto della cartella denominata “DA SCANSIONATI". [….] Giova, peraltro, osservare come l'ultima annotazione riportata nel file, con l'indicazione della data (corretta) cui si riferisce l'evento rappresentato, ossia la pubblicazione su La Repubblica de|l'articolo giornalistico di VIVIANO e BOLZONI che determinava la discovery giornalistica dell'indagine su MONTANTE, sia particolarmente illuminante, in quanto elenca l'insieme dei documenti associativi che, evidentemente, in quella occasione, il predetto MONTANTE ebbe a richiedere a quello stesso Rosario AMARU' (indicato come “Rosario AM") che, sentito dagli inquirenti, si era avventurato in perigliose discettazioni sulla loro presunta depredazione. A mettere la pietra tombale sul contenuto di una parte dei documenti "scomparsi", id est delocalizzati - per iniziativa di MONTANTE - in posto tuttora ignoto (essi, come vedremo, avevano subito infatti diverse migrazioni), interveniva, come accennato, il giornalista Gianpiero CASAGNI. CASAGNI, infatti, dapprima, in data 12 febbraio 2015, pubblicava un articolo sul settimanale Centonove, con il quale mostrava di avere la disponibilità quanto meno di una parte dei documenti cercati dagli inquirenti a riscontro delle dichiarazioni di DI FRANCESCO; poi, su richiesta della Procura, metteva a disposizione della stessa, copia del verbale di Assindustria Caltanissetta del 20 gennaio 2001, da cui si evinceva che Vincenzo ARNONE, assieme a Carmen PILATO e a Massimo ROMANO, aveva fatto parte del Comitato dei "saggi" per l'elezione di Marco VENTURI quale nuovo presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta, in successione rispetto a MONTANTE (cfr. annotazione n. 483/2015 della squadra mobile del 18 febbraio 2015). Il dettaglio, consacrato in maniera incontrovertibile, non è di secondaria importanza, in quanto, tenuto conto dei meccanismi di nomina dei "saggi", è possibile affermare che MONTANTE, quale presidente uscente de|l'Associazione Giovani Industriali, fu il principale ispiratore della cooptazione di ARNONE all'interno del comitato. Infatti, come concordemente spiegato da GIARRATANO (sommarie informazioni testimoniali del 13 febbraio 2015) e CRESCENTE (sommarie informazioni testimoniali del 17 febbraio 2015), nell'associazione junior degli industriali valevano le stesse regole dell'associazione senior, sicché i c.d. "saggi", che altro non erano se non i componenti della commissione di designazione, venivano nominati dal consiglio direttivo su proposta del presidente, che nell'occasione era proprio MONTANTE. La selezione di "saggi" di ispirazione presidenziale agevolava, in qualche modo, la perpetuazione del potere della corrente di cui il presidente uscente era espressione, in quanto essi avevano un compito rilevante al momento del rinnovo della carica presidenziale: esprimere il parere, vincolante per il consiglio direttivo, sul nominativo del candidato alla presidenza, da sottoporre, successivamente , al filtro elettivo dell'assemblea dei soci. Pertanto, alla luce di quanto fin qui ricostruito, occorre dedurre che:

1) non è stato possibile riscontrare per tabulas le dichiarazioni di DI FRANCESCO sul sostegno dato da Vincenzo ARNONE a MONTANTE per la sua elezione a presidente dell'associazione junior degli industriali;

2) la difficoltà validatoria è discesa dalla manovra distrattiva certamente posta in essere da MONTANTE sui documenti associativi;

3) risulta dimostrato che Vincenzo ARNONE compose il comitato dei "saggi" che, nel 2001, portò alla elezione di Marco VENTURI alla presidenza dell'associazione de qua dopo la fine del mandato di MONTANTE.

Inoltre, tenuto conto delle regole di funzionamento dei meccanismi elettivi, deve ritenersi ragionevole che MONTANTE ispirò la cooptazione di V. ARNONE nel comitato dei "saggi" (come visto, infatti, essi erano nominati dal consiglio direttivo su proposta del presidente), il quale ARNONE, a sua volta, propose la nomina di VENTURI, amico di MONTANTE, in sostituzione di quest'ultimo, giunto al termine del suo mandato. Si sarebbe trattato di ordinarie logiche correntizie se ARNONE, all'epoca dei fatti, non fosse stato coinvolto in un importante processo di mafia.

Un poco saggio ma tanto mafioso. La Repubblica il 28 ottobre 2019. La catena associativa mutualistica testé descritta non si esauriva nell'ambito di quanto fin qui rappresentato. Infatti, come si evince dalle dichiarazioni rese da TORNATORE (cfr. verbale del 16 maggio 2015) e da VENTURI (cfr. verbale del 21 maggio 2015), gli stessi, già associati ad Assindustria Caltanissetta, nel 2001 avevano fatto da "soci presentatori" (una sorta di accreditamento), nell'anno 2001, per l'ingresso nell'associazione di una società riconducibile ad ARNONE, la DI.EFFE Servizi di DI FRANCESCO Felicia & C. s.n.c. già menzionata, formalmente intestata alla moglie, e ciò a seguito di esplicita richiesta di MONTANTE. Tale vicenda si compone di due segmenti fattuali: l'accreditamento della nuova società da parte di TORNATORE e VENTURI; la sollecitazione a tale accreditamento da parte di MONTANTE. Il primo segmento risulta da evidenze documentali, essendo stata rinvenuta la domanda di adesione, ad Assindustria, da parte della DI.EFFE Servizi di DI FRANCESCO Felicia & C. s.n.c., recante la sottoscrizione, quali soci presentatori, di VENTURI e TORNATORE, i quali, peraltro, riconoscevano detta sottoscrizione come propria (cfr. verbali di sommarie informazioni testimoniali appena menzionati).

Il secondo segmento - la richiesta di MONTANTE affinché TORNATORE e VENTURI facessero da "soci presentatori" della predetta società – emerge pacificamente dalle dichiarazioni di questi ultimi. Come può evincersi, peraltro, da una loro analisi comparata, è soltanto uno il punto di divergenza delle rispettive dichiarazioni: mentre TORNATORE sosteneva che VENTURI, nell'occasione, gli avesse spiegato che V. ARNONE era stato il testimone di nozze di MONTANTE, VENTURI negava questa specifica circostanza.

Si consideri, a tal proposito, quanto dichiarato da Pasquale TORNATORE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 16 maggio 2015). [...]

Si prendano, altresì, in considerazione le dichiarazioni rese da Marco VENTURI in data 21 maggio 2015:

A.D.R.: In merito all'adesione della ditta di cui si tratta, la cui amministratrice è la moglie di ARNONE Vincenzo, come mi dice la S. V., posso dire che riconosco come mia la firma apposta al n. 2 dei soci presentatori. Posso dire che fu Antonello MONTANTE a chiedermi di fare da socio presentatore della ditta in questione, ma passo, altresì, dire che non sapevo assolutamente, in quel momento, dei rapporti che insistevano tra il MONTANTE e l'ARNONE, né sapevo che quest'ultimo fosse stato testimone di nozze del primo. Riconosco in quella dell'arch. TORNATORE l'altra firma apposta in calce alla scheda di cui si tratta.

A.D.R.: Non ricordo se il modulo di presentazione fu sottoscritto dal TORNA TORE nella sede della mia azienda. Non ho avuto modo di parlare col TORNA TORE dei motivi per i quali fosse stato chiesto a lui, così come a me, di sottoscrivere la scheda. omissis

L'Uffìcio da lettura al dott. Venturi di stralcio delle dichiarazioni rese da Pasquale Tornatore secondo le quali quest'ultimo sarebbe stato convocato negli uffici della Sidercem affinché firmasse il modulo di adesione della ditta DI. EFFE.

A.D.R. : Escludo categoricamente la circostanza dichiarata dal TORNATORE.

L'Uflìcio da lettura al dott. Venturi di stralcio delle dichiarazioni rese da Pasquale Tornatore secondo le quali quest'ultimo, in occasione della firma del modulo di adesione della ditta DI. EFFE, sarebbe stato rassicurato dal dott. Venturi sul fatto che stavano presentando per far entrare in Confidustria il testimone di nozze di Antonello Montante.

A.D.R.: Escludo anche in tal caso quanto dichiarato dal TORNATORE.

A.D.R.: La S. V. mi evidenzia che, dopo la mia elezione a Presidente dei Giovani Industriali nel 2001, a marzo dello stesso anno, il sig. ARNONE venne tratto in arresto nell'ambito dell'operazione Urano del ROS dei Carabinieri di Caltanissetta per il delitto di cui all'art 416 bis cod. pen...Successivamente a tale evento non ho mai chiesto al MONTANTE lumi sulla figura dell'ARNONE, per il quale il primo, come ho già dichiarato, mi aveva chiesto di apporre la firma sulla domanda di associazione del predetto. Neanche il MONTANTE affrontò mai la questione con me. In verità, come correttamente evidenziato dalla Procura nella richiesta cautelare, la discovery di VENTURI è stata progressiva. Le sommarie informazioni testé riprodotte, infatti, venivano rese, come detto, il 21 maggio 2015, ossia in epoca anteriore a quel 17 settembre dello stesso anno, in cui VENTURI si presentava in Procura animato dalla ferma intenzione di riversare agli inquirenti tutto ciò di cui era a conoscenza sul "sistema Montante". Tanto vero che, a tacer d'altro, egli, se nelle sommarie informazioni testimoniali del 21 maggio 2015 aveva negato di essersi mai avvalso delle ditte di V. ARNONE nell'esercizio delle sue attività imprenditoriali, nel successivo atto istruttorio del 28 settembre 2015 ammetteva tale circostanza:

Verbale di sommarie informazioni testimoniali del 28 settembre 2015.

A.D.R.: Vorrei poi riferire alcune circostanze relative ai rapporti che ho avuto con Vincenzo ARNONE, poiché in precedente atto istruttorio avevo dichiarato di non aver mai avuto rapporti lavorativi con questi. In quell'occasione, infatti, non rammentava la circostanza che mi accingo ad evidenziare, trattandosi di rapporti datati nel tempo, per ricostruire i quali, tra l'altro, mi sono confrontato anche con un mio dipendente, Gaetano FARRUGGIA, il quale mi ha detto, però, di non ricordare alcunché, ed anche con mia moglie. Sono così riuscito a ricostruire, alla fine, che mi sono avvalso della ditta di trasporti di ARNONE Vincenzo, non ricordo se la AUTOTRASPORTI ARNONE o la DLEFFE, per il trasporto in azienda di una struttura di contrasto per effettuare le prove di carico sui pali di 1.000 tonnellate. Si tratta di prove particolari, che si effettuano per l 'esecuzione di grandi opere ed al tempo ci occupavamo noi del trasporto in azienda di tale materiale, fatturandolo poi come costo alla ditta impegnata nell 'esecuzione del lavoro. Oggi, invece, è la stessa azienda che esegue il lavoro che provvede al trasporto del materiale presso di noi ed al successivo prelievo. Posso collocare tra il 1997 ed 1999 l'arco temporale in cui ho avuto tale rapporto lavorativo con l'ARNONE, perché ho ricordo, sia pur senza certezza alcuna, che abbia riguardato i lavori per la costruzione della strada Caltanissetta-Licata torrente Braemi, al tempo eseguiti, se non erro, dalla HERA Costruzioni s.r.l... Preciso, tuttavia, che pur avendola cercata, non sono riuscito a reperire alcun tipo di documentazione contabile che riguarda i trasporti affidati all'ARNONE di cui sto parlando. Si è trattato, comunque, di un rapporto commerciale, sostanziatosi in due o tre trasporti complessivamente eseguiti e per importi modesti, che si sono aggirati attorno al milione e mezzo delle vecchie lire in totale. Non ricordo in che maniera si scelse la ditta dell'ARNONE per eseguire il trasporto di che trattasi; posso dire che, al tempo, si occupava di tali questioni Salvatore VANCHERI, mio dipendente dal 1993 al 1999. Devo anche dire che, avendo fatto ulteriormente mente locale, nello stesso periodo in cui ho affidato i trasporti all'ARNONE di cui ho appena detto, lo stesso si presentò in azienda da me, chiedendomi se potessi assumere un ragazzo che aveva bisogno di lavorare, tale Salvatore LO NOBILE. Essendo in quel periodo impegnati in alcuni lavori a NOTO legati alla ricostruzione post terremoto, capitò che effettivamente avemmo necessità di assumere personale ed effettivamente, quindi, procedemmo all'assunzione del LO NOBILE. La S. V. mi rappresenta che, in occasione delle sommarie informazioni testimoniali del 21.5.2015 avevo dichiarato quanto segue in merito ai miei rapporti con l'ARNONE:

A.D.R.: Sin dal mio ingresso nell'associazione e sino al 2000 non ho mai conosciuto ARNONE Vincenzo, nè ricordo di averlo mai fisicamente visto in occasioni di vita associativa. Non ho mai avuto alcun rapporto lavorativo con ARNONE Vincenzo, anche perché, per quel che so, le aziende operano in settori completamente diversi. Preciso, oggi, che le mie dichiarazioni vanno corrette nel senso che vi ho appena rappresentato. La S. V. mi chiede se fosse usuale che, al tempo, la mia azienda assumesse persone dietro segnalazioni di terzi. Posso dire che, fino ad un certo periodo, le modalità di assunzione del personale avveniva, quando ne avevamo necessità, senza una previa selezione ed anche su segnalazione di soggetti già alle nostre dipendenze. Successivamente, abbiamo cercato di recuperare professionalità anche sotto tale aspetto, assumendo personale solo dopo valutazione del curriculum e dopo una selezione effettuata in azienda volta a testare le capacità professionali del soggetto. Posso anche dire che il LO NOBILE rimase alle nostre dipendenze solo per un mese, poiché non si rivelò adeguato alle nostre necessità. Ricordo anche che ARNONE tornò in azienda per chiedermi spiegazioni ed allo stesso rappresentai, appunto, che il LO NOBILE si era mostrato inadatto alle mansioni cui era stato destinato. Ciò posto, deve considerarsi pacifico che TORNATORE e VENTURI "presentarono" la DI.EFFE Servizi di DI FRANCESCO Felicia & C. s.n.c. all'interno di Assindustria su richiesta di MONTANTE, perché le dichiarazioni di entrambi convergono sul punto, e gli aspetti, in verità marginali, di divergenza sono stati spiegati, in maniera certamente plausibile, in ragione della iniziale, parziale reticenza di VENTURI. Tale conclusione trova innegabile riscontro nel file excel redatto a cura o su disposizione di MONTANTE, nel quale l'evento dell'adesione della DI.EFFE Servizi di DI FRANCESCO Felicia & C. s.n.c. è debitamente annotato con la prudenziale precisazione marginale che "oggi" la ditta ARNONE è "mafiosa". Ossia volendo suggerire, per finalità precostitutive, che alla data dell'adesione della predetta società ad Assindustria - 24 marzo 2000 - non era noto lo status mafioso di V. ARNONE, ciò che in realtà, come ripetutamente spiegato, è smentito dalla divulgazione mediatica, nel 1992, delle accuse rivolte a quest'ultimo dal pentito Leonardo MESSINA e, comunque, dalla successiva pubblicità processuale delle medesime accuse nell'anno 1995. E' chiaro, dunque, che il senso dell'annotazione nel file excel dell'adesione della società di ARNONE si spiega nella prospettiva futura di dovere giustificare la propria “scomoda” prossimità al boss di Serradifalco. Per contro, rispetto all'adesione nell'associazione di un'altra società di V. ARNONE, AUTOTRASPORTI ARNONE Vincenzo & C. s.r.l., non è stato possibile scandagliare eventuali retroscena significativi riguardanti la fase della sua "presentazione", atteso che i "soci presentatori", Francesco GIAMBARRESI e Nicola RICOTTONE, dichiaravano di non essere in grado, in ragione del tempo trascorso, di ricordare l'eventuale ruolo sollecitatorio ipoteticamente assolto da MONTANTE per perorarne l'accreditamento (cfr. a tal proposito verbali di sommarie informazioni testimoniali rese da Francesco GIAMBARRESI in data 27 maggio 2015 ed in data 10 giugno 2015, nonché da Nicola RICOTTONE in data 24 giugno 2015). In ordine, invece, all'accreditamento delle società riferibili a MONTANTE per entrare nell'associazione degli industriali, la descritta volatilizzazione dei relativi documenti, in verità scrupolosamente occultati dall'odierno imputato, all'ombra della copertura del fedele servitore AMARU', non ne ha consentito una ricostruzione per tabulas. Tuttavia, possono soccorrere in aiuto le deposizioni di persone informate dei fatti, da cui si evincono dati importanti, per interpretare i quali occorre fare delle premesse sulla verosimile cronologia degli atti di adesione delle società di MONTANTE nell'associazione degli imprenditori. Sul punto, si riproduce quanto riepilogato nell'ordinanza cautelare (da p. 102), trattandosi di dati oggettivi di immediato riscontro documentale: In riferimento alle società riconducibili al MONTANTE, va rilevato che la lacunosa documentazione prodotta in copia da Rosario AMARU' (addirittura omissata in alcune parti e non è dato, in verità, comprenderne le ragioni) ha consentito solo di risalire all'epoca in cui le stesse sono state verosimilmente associate in Assindustria, non essendo state fornite - come ampiamente accennato in precedenza - le relative schede di adesione (eccezion fatta per la ITALIA Costruzioni). [...] Piuttosto, confrontando le dichiarazioni rese complessivamente sulla vicenda da CRESCENTE (escusso anche in data 22 dicembre 2015, cfr. verbale di sommarie informazioni in atti) e da SAPIENZA (escusso anche in data 5 dicembre 2015), gli aspetti di reale discrasia riguardano la datazione dei fatti, collocati nel 2012 da CRESCENTE e nel 2007 da SAPIENZA, nonché le modalità della scoperta della mancanza delle schede di adesione di una delle società di MONTANTE in Assindustria. A tal proposito, l'ordinanza cautelare (da p. 106) contiene una sintesi, oltre che l'integrale contenuto testuale, delle dichiarazioni da valutare in chiave comparativa: Successivamente, escusso da questo Pubblico Ministero (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 5 dicembre 2015), il SAPIENZA è riuscito a rammentare con certezza che fu Linda VANCHERI ad accorgersi della mancanza delle schede associative di M.S.A. e SIDERCEM ed ha ribadito che l'allora direttore Giovanni CRESCENTE venne subito informato della situazione ed aveva dato disposizioni di effettuare delle ricerche (eseguite da lui stesso, dalla ZACCARIA, dalla MARCHESE e dalla VANCHERI) che però non sortirono alcun esito in relazione alle società del MONTANTE, essendosi, peraltro, riscontrato che quelle relative alla M.S.A. ed alla GIMON erano, in quel momento, le uniche non rintracciabili nei locali dell'associazione. Il SAPIENZA ha poi confermato di aver parlato col CRESCENTE del fatto che aveva avuto modo di visionare la scheda della GIMON e che dalla stessa risultava che i soci presentatori erano stati Vincenzo ARNONE e Pietro DI VINCENZO ed ha anche ribadito che, per ciò che gli risultava, non era stata sporta alcuna denuncia alle forze di polizia.

A.D.R. come ho già dichiarato, nei primi mesi del 2007 e, comunque, prima dell'avvenuto furto nella sede di Poggio S.Elia, Linda VANCHERI si accorse, avendo dovuto effettuare una verifica per questioni amministrative, della mancanza delle schede associative di GIMON, MSA. e SIDERCEM Posso dire oggi di ricordare con certezza che fu la VANCHERI ad accorgersi di tale mancanza ed in tal senso, pertanto, preciso le dichiarazioni da me rese in precedenza sul punto. Ricordo anche che la VANCHERI mi chiese se sapessi dove fosse finita tale documentazione, ma io non le seppi dire alcunché. Il direttore CRESCENTE venne immediatamente informato della situazione e lo stesso diede disposizioni di operare una ricerca, cosa che effettivamente facemmo io, la ZA CCARIA, la VANCHERI e la MARCHESE, la quale, ovviamente, fu informata da subito della situazione e ne era dunque perfettamente a conoscenza. Dopo qualche settimana, riuscimmo a rinvenire la scheda della SIDERCEM, mentre non vennero rinvenute quelle di MS.A. e GIMON. So che anche MONTANTE venne informato, ma non so quale fu la sua reazione. Una volta constatata la sparizione di quelle schede associative venne fatto un inventario di quelle presenti e custodite nei locali dell'associazione, all'esito del quale risultò che solo quelle della M.S.A e GIMON non erano rintracciabili. omissis

A.D.R. escludo che il CRESCENTE si sia potuto rendere conto della mancanza delle schede associative di GIMON e MSA. solo a partire del 2012; ribadisco che il CRESCENTE venne subito informato allorché la VANCHERI si rese conto della circostanza. A.D.R. Ho avuto modo negli ultimi anni di mia permanenza all 'interno dell 'associazione di riferire al CRESCENTE che avevo avuto modo di visionare la scheda di adesione della GIMON e di aver quindi constatato che i soci presentatori della stessa furono Vincenzo ARNONE e Pietro DI VINCENZO. Sussistendo alcune discrasie tra le dichiarazioni del SAPIENZA e quelle del CRESCENTE si provvedeva ad escutere nuovamente il CRESCENTE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 dicembre 2015), il quale nella sostanza ribadiva quanto in precedenza dichiarato ed in specie che:

era stato proprio il SAPIENZA a riferirgli chi erano stati i soci presentatori di una delle società del MONTANTE e si era poi avveduto della mancanza all'interno dei locali dell'associazione delle schede di adesione allorché provò a verificare personalmente quanto gli era stato confidato;

poteva collocare quella vicenda attorno al 2012 e, comunque, quando la sede dell'associazione era già ubicata nei locali di via Scovazzo, nonché dopo il furto patito a Poggio S.Elia;

non aveva parlato della questione con la VANCHERI o con la MARCHESE, essendo ben consapevole del fatto che costoro fossero persone di fiducia del MONTANTE cui avrebbero, pertanto, certamente riferito qualunque discorso che egli avesse con loro affrontato riguardante l”odierno indagato. Conseguentemente, non aveva dato mandato di effettuare le ricerche delle schede associative, anche perché già il SAPIENZA gli aveva esternato il dubbio che fosse stato proprio il MONTANTE a far sparire quella documentazione ed egli, del resto, era ben consapevole che numerosa documentazione dell'associazione era stata portata via dalla sede proprio su disposizione dello stesso MONTANTE;

non aveva sporto alcuna denuncia perché, al tempo, non aveva attribuito particolare significato alla vicenda. [...] Orbene, ad avviso di questo giudice tali discrasie dichiarative tra CRESCENTE e SAPIENZA non possono essere sovrastimate. E ciò, per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto, l'esistenza di chiare interrelazioni tra la sfera personale, imprenditoriale ed associativa di MONTANTE e quella di V. ARNONE non può essere messa in discussione, essendo stati provati il legame testimoniale tra i due in occasione delle nozze di MONTANTE, l'affidamento alla ditta di V. ARNONE di taluni segmenti esecutivi del cantiere condotto da una società di MONTANTE in via Amico Valenti a Caltanissetta, il ruolo di MONTANTE nell'ingresso di V. ARNONE nel comitato dei "saggi" dell'associazione dei Giovani Industriali, il ruolo di quest'ultimo nella designazione di VENTURI quale successore di MONTANTE nella presidenza della citata associazione e, infine, la sostanziale spinta propulsiva di MONTANTE, per il tramite di TORNATORE e VENTURI, per l'adesione di una delle società di V. ARNONE in Assindustria. Se proprio si volesse indugiare sulla speculare vicenda della presentazione, per il tramite di V. ARNONE, di una delle società di MONTANTE per la sua adesione in Assindustria, è fin troppo agevole osservare che CRESCENTE e SAPIENZA parlano, in fondo, degli stessi fatti, ma con evidenti divergenze ricostruttive che sono soltanto il portato di dismnesie legate alla naturale obsolescenza dei ricordi. Infatti, è da escludere che CRESCENTE e SAPIENZA possano avere stretto un pactum sceleris in danno di MONTANTE, senza neanche concordare, benché ripetutamente escussi sui medesimi fatti, l'epoca in cui tali fatti si sarebbero verificati. Anche l'Ing. Pietro DI VINCENZO, odierna parte civile, rendeva dichiarazioni in ordine ai rapporti tra MONTANTE e V. ARNONE, affermando che:

a) inizialmente i propri rapporti con MONTANTE erano ottimi, tanto che lo stesso DI VINCENZO aveva designato l'imprenditore di Serradifalco quale componente dell'associazione degli industriali presso il consiglio direttivo del consorzio A.S.I. di Caltanissetta;

b) in virtù di tali rapporti, a seguito dei danneggiamenti subiti dalle imprese dell'ingegnere, per possibili finalità intimidatorie, MONTANTE gli aveva offerto protezione potendo spendere i suoi buoni uffici presso Vincenzo ARNONE, del quale lo stesso MONTANTE aveva accreditato l'ingresso nell'associazione degli industriali;

c) nel 2005, MONTANTE, in occasione della propria corsa alla presidenza dell'associazione (stavolta senior) degli industriali, in sostituzione proprio di DI VINCENZO, si era rivoltato inaspettatamente e ingiustificatamente contro quest'ultimo, attaccandolo. Nella medesima occasione, inoltre, MONTANTE aveva fatto avvicinare, da V. ARNONE, alcuni imprenditori facenti parte dell'associazione degli industriali, tra cui Piero CAPIZZI, per indurli a votare per lui.

Si può subito anticipare che la prima circostanza (lettera a) risulta processualmente vera, la seconda (lettera b) soltanto verosimile, la terza (lettera c) non ha ricevuto i riscontri richiesti, anche perché il riscontro poteva derivare soltanto dalla vittima della presunta intimidazione, che ha negato la circostanza. [...] A tali dichiarazioni si aggiungono quelle rese dallo stesso [DI VINCENZO] nel verbale di interrogatorio del 4 febbraio 2016: Devo altresì dire che, nel periodo in cui il MONTANTE ambiva alla carica di Presidente di CONFINDUSTRIA Caltanissetta, ricordo che alcuni imprenditori “mugugnavano” in quanto erano stati contattati da personaggi poco raccomandabili. Nello specifico ricordo perfettamente che Piero CAPIZZI, imprenditore del polo tessile di Riesi, nel corso di una riunione in Confindustria, "sbatto" dicendo pubblicamente “chi è chistu MONTANTE ca mi fa contattare da “malandrini” del mio paese per essere sostenuto in relazione alla sua elezione. Ricordo che a tale riunione fu certamente presente il direttore del tempo Tullio GIARRA TANO. Così riprodotte le dichiarazioni di DI VINCENZO, deve osservarsi che, in ordine alla natura dei pregressi rapporti tra lo stesso e MONTANTE e, in particolare, al fatto che le loro reciproche relazioni, almeno per tutti gli anni '90, fossero improntate ad assoluta armonia, riferivano diverse persone informate dei fatti (Maria Lucia DI BUONO, verbale di sommarie informazioni testimoniali del 24 novembre 2015, secondo cui MONTANTE, all'epoca presidente dei Giovani industriali, si era speso per l'elezione di DI VINCENZO alla presidenza dell'associazione, senior, degli industriali; Marco VENTURI, verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015, che confermava le affermazioni di DI BUONO), le quali, in effetti, avvaloravano tale circostanza, benché MONTANTE, una volta eletto alla presidenza dell'associazione degli industriali, avesse inteso accreditare l'idea opposta, di un atavico, radicale ed irriducibile contrasto con DI VINCENZO, additato di essere un mafioso. Risulta, altresì, riscontrato anche l'altro tassello aggiunto da DI VINCENZO, secondo il quale egli aveva designato MONTANTE perché rappresentasse l'associazione degli industriali all'interno del consiglio direttivo dell'A.S.I. di Caltanissetta. Infatti, convergenti appaiono in tal senso le dichiarazioni di Marco VENTURI (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015) e di Maurizio SAPIENZA (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 5 dicembre 2015). Del resto, vi è un elemento che sgombera definitivamente il campo da ogni possibile ombra dubitativa sulla questione, costituito dal rinvenimento, presso la villa di MONTANTE di contrada Altarello, nel corso della perquisizione del 22 gennaio 2016, di un DVD contenente la registrazione di un'autoripresa, nella quale lo stesso MONTANTE provava il discorso di insediamento quale presidente dell'associazione degli industriali, con una overture dedicata ai ringraziamenti personali all'Ing. DI VINCENZO (vd. verbale di sequestro; cfr. C.N.R. della squadra mobile di Caltanissetta n. 1092 del 28 aprile 2017, p. 76). L'altra vicenda da esaminare, anticipata nella sinossi sulle dichiarazioni di DI VINCENZO, riguarda, come visto, l'attribuzione a MONTANTE della proposta, rivolta allo stesso DI VINCENZO, di fare intervenire V. ARNONE per spegnere i focolai intimidatori, di presunta matrice mafiosa, che sembravano essersi alzati contro l'ingegnere, posto che, peraltro, era stato proprio MONTANTE a perorare l'ingresso di ARNONE nell'associazione degli industriali. Sull'attivismo di MONTANTE per la cooptazione di ARNONE in Assindustria si è già detto, e concordi, sugli aspetti sostanziali della vicenda, sono apparse, come spiegato, le dichiarazioni, sopra esaminate, di TORNATORE e VENTURI. Del resto, il rapporto di amicizia e fedeltà che legava MONTANTE ad ARNONE era noto tra gli industriali associati nisseni, come confermato anche da Francesco AVERNA e Tullio GIARRATANO. AVERNA, tra l'altro, ricordava che la partecipazione di ARNONE all'associazione nissena degli industriali era stata "caldeggiata" proprio da MONTANTE, e che DI VINCENZO, però, lo aveva esortato vivamente a starne alla larga: [...] Anche GIARRATANO aveva nutrito delle perplessità sull'ingresso di V. ARNONE nell'associazione, per il rapporto filiale che lo legava al più noto Paolino, e tuttavia non era stato possibile espellerlo perché, sul piano formale, V. ARNONE risultava incensurato […]. Entrando, però, negli specifici meandri della vicenda della protezione mafiosa che MONTANTE, attraverso V. ARNONE, avrebbe offerto a DI VINCENZO, protezione da quest'ultimo rifiutata, non sussistono riscontri in senso stretto, perché coloro (GIARRATANO e AVERNA) che mostravano di conoscere la vicenda, dichiaravano di averla appresa o tramite lo stesso DI VINCENZO (GIARRATANO; cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 3 agosto 2015) o tramite terzi informati da DI VINCENZO (AVERNA, che lo avrebbe appreso dal predetto GIARRATANO; cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 24 novembre 2015). […] Ora, sebbene questo giudice condivida l'assunto della Procura della Repubblica (cfr. richiesta cautelare) circa la mancanza di riscontri univoci alle dichiarazioni di DI VINCENZO (GIARRATANO e AVERNA costituiscono fonte de relato in cui la fonte primitiva è sempre DI VINCENZO; GIARRATANO colloca il fatto in un periodo di tempo diverso rispetto a DI VINCENZO), è anche vero che il migliore riscontro di DI VINCENZO è, paradossalmente, lo stesso MONTANTE. Infatti, non soltanto può considerarsi pacifico che MONTANTE abbia avuto cointeressenze personali, di lavoro ed associative con V. ARNONE, ma si è altresì avuto modo di ripercorrere le dichiarazioni dei collaboratori sul trattamento di favore riservato da Cosa Nostra a MONTANTE in virtù del suo rapporto con V. ARNONE. Pertanto, è possibile affermare che DI VINCENZO non racconta un episodio connotato da eccentricità rispetto all'ordinario modus procedendi di MONTANTE. Inoltre, tale dato va raccordato con l'impegno speso dallo stesso DI VINCENZO a promozione della carriera associativa di MONTANTE, e con la connessa riconoscenza che quest'ultimo nutriva nei suoi confronti e che intendeva esprimergli nell'incipit del discorso di insediamento alla presidenza dell'associazione degli imprenditori nisseni (vd. il DVD di cui supra). In ogni caso, che il fatto, così come raccontato da DI VINCENZO, sia realmente accaduto non sposta i cardini di questo impianto motivazionale: MONTANTE resta un personaggio che per anni ha coltivato rapporti con il capomafia di Serradifalco e che era stimato ed apprezzato in ambienti mafiosi. Identiche considerazioni valgono per la c.d. vicenda CAPIZZI. DI VINCENZO ha riferito delle pressioni mafiose esercitate da V. ARNONE sugli imprenditori associati per orientarne l'espressione del voto in favore di MONTANTE in occasione delle elezioni del 2005 del presidente di Confindustria Caltanissetta. Orbene, benché CAPIZZI, espressamente menzionato da DI VINCENZO come uno degli imprenditori che si era lamentato di ciò, negasse tale circostanza (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 6 giugno 2016, allegato all'annotazione n. 1508 del 9 giugno 2016, redatta dalla squadra mobile di Caltanissetta), il dato offerto da DI VINCENZO non è comunque privo di una sua significanza. Innanzitutto, se CAPIZZI motívava la sua risposta negatoria con l'assunto per cui, nel periodo delle presunte pressioni riferite DA VINCENZO, egli era sottoposto a dispositivo di protezione per via di minacce ricevute dalle Brigate Rosse, occorre considerare che tale motivazione non risulti affatto tranciante in senso confutatorio. Infatti, V. ARNONE faceva comunque parte di Confindustria Caltanissetta, per cui era “legittimato” ad avvicinarsi a CAPIZZI, né il dispositivo di protezione, approntato per la tutela della persona di quest'ultimo, poteva impedire una conversazione riservata tra lo stesso e V. ARNONE, agevolata, appunto, dalla loro comune appartenenza all'associazione degli industriali e, dunque, dalle possibilità di incontro che essa certamente implicava. In ogni caso, va certamente evidenziato come la dimostrazione processuale di tale vicenda non inverte la rotta delle conclusioni sulla figura di MONTANTE, essendo ampiamente provato che egli costruì e mantenne rapporti saldi, sul piano personale e professionale, con il boss V. ARNONE.

Quell'antimafia tanto folk (e bugiarda). La Repubblica il 29 ottobre 2019. MONTANTE, all'esito di quanto fin qui ricostruito, non appare ergersi quale paladino dell'antimafia, come i suoi difensori lo hanno definito, a meno che della parola “antimafia” non voglia ammettersi, con licenza di deragliamento semantico, un uso un po' “folk”, nel quale sia sufficiente accusare taluno - magari un avversario o un competitore - di appartenenza alla mafia per autocelebrarsi quale esponente dell'antimafia. In senso contrario, è sterile la menzione difensiva dei diversi atti intimidatori denuncianti da MONTANTE a far data dal 2004 (per una rassegna completa delle denunce, cfr. annotazione n. 1709 del 26 giugno 2015 della squadra mobile di Caltanissetta), e ciò sia perché i collaboratori Pietro RIGGIO e Dario DI FRANCESCO ne disconoscono la matrice mafiosa, sia perché è la stessa condotta serbata da MONTANTE, dopo la denuncia delle presunte minacce, ad apparire logicamente inconciliabile con la loro veridicità storica. MONTANTE, infatti, benché in data 5 marzo 2015 avesse ottenuto l'innalzamento sino al terzo livello rafforzato del dispositivo di protezione, violava in maniera sistematica i protocolli di sicurezza, tanto da suscitare il richiamo del prefetto (cfr. nota del 20 luglio 2015 in atti; cfr. annotazione relazione di servizio redatta da appartenenti alla squadra mobile di Caltanissetta in data 4 marzo 2016, da cui si evince la commissione di trentuno violazioni nel periodo compreso tra il 7 giugno 2015 e il 2 febbraio 2016). Volendo pure prescindere dalla significatività di tale dato formale, che potrebbe spiegarsi anche in chiave di umana rivendicazione di spazi di riservatezza o di libertà con uscite non programmate e non suscettibili, proprio perché imprevedibili, di degenerazioni attentatorie, impressionano davvero le considerazioni dei collaboratori di giustizia circa la estraneità delle presunte intimidazioni a contesti mafiosi. Di seguito le dichiarazioni rese da Pietro RIGGIO in data 23 settembre 2008, che si contraddistinguono per un'analisi ragionata delle dinamiche mafiose e per la ritenuta inverosimiglianza della scelta della mafia nissena di colpire personaggi dell'importanza di MONTANTE:

Verbale di interrogatorio di Pietro RIGGIO del 23 settembre 2008

P.M. dott. BERTONE- Lei lo sa, è venuto a conoscenza del fatto che Montante ha subito delle intimidazioni, una testa di cane, poi gli hanno fatto danneggiamenti?

RIGGIO PIETRO - Ho saputo qualche cosa, ma... onestamente io non... non darei adito più di tanto, perché, ripeto...

P.M. dott. BERTONE- Al di là, diciamo, di quella che è la sua impressione, lei...

RIGGIO PIETRO - Sì, sì.

P.M. dott. BERTONE - ...atti di danneggiamenti...

RIGGIO PIETRO - So...

P.M. dott. BERTONE-  ...di intimidazione ne è a conoscenza, ne sa? Ha da darci qualche informazione su questo?

RIGGIO PIETRO - lo ho saputo dal giornale, io quello che do l'interpretazione per conto mio, le teste di cani, 'sti avvertimenti non sono cosa che dà Cosa Nostra, perché Cosa Nostra o la fa la cosa o non la fa, e quindi cerca il dialogo. Secondo me se l'è messa lui personalmente o comunque...

P.M dott. BERTONE - Va beh...

P.M dott. LUCIANI -Va beh, queste sono...

RIGGIO PIETRO -Sì, questo è il mio... il mio pensiero. Andare a mettere un avviso lì a che pro? Per fare...

P.M dott. BERTONE -Va beh, lei poco fa racconta della cartuccia messa al Di Vincenzo.

RIGGIO PIETRO - C 'è un fatto ben specifica, ben... accompagnato da una lettera, accompagnato da una cosa, messa li, consegnata agli inquirenti, quindi c 'è un discorso ben preciso. Ora, che una persona vada a mettere... oppure se trova una testa di cane messa lì davanti il portone o davanti... la cosa è un attimino... e poi non si è visto niente, non c'è un seguito. Oppure c 'è stato il seguito e...

P.M. dott. LUCIANI -Chi è stato, chi non è stato, motivazione, proprio questo, ha parlato con qualcuno?

RIGGIO PIETRO -Io intanto quando vengo a sapere dal telegiornale che fanno l 'intimidazione al presidente della camera di commercio, lo dicono al TG1: “Questo”, dissi...

P.M. dott. LUCIANI -  Camera di commercio?

RIGGIO PIETRO -Sì, di Caltanissetta, Ventura, Venturi... Venturi. Dico: “Ma cu è che va a fare queste cose? " Anche perché camera di commercio, prima c'era stato Pernaci, poi c'era stata una diatriba che ci voleva andare anche Romano, poi Romano non è stato scelto, alla fine c'è andata una persona sempre della loro cerchia; quindi siamo sempre sulle solite cose, non è che cambia niente a Caltanissetta, sempre fra di loro rimangono le cose, duttù. Non è matta, ma è potere in un altro senso, è 'u gruppo di potere. Rimango meravigliato perchè a Caltanissetta andare a cercare a Ventura, forse Iacona non lo capisce, ma io lo capisco, e non è possibile, perché cercare a Ventura e minacciare a Ventura significa essere già a livello di Ventura, significa che il mafioso già parla con il presidente della camera di commercio. Se io vado a parlare con il presidente della camera di commercio, significa che già ho degli interessi abbastanza quotati, significa società, significa situazioni particolari. Cosa che a Caltanissetta non c'erano, nun ci su', non c'è quella forza da parte degli appartenenti alla famiglia. Forse da parte di qualche privato, che usa strumentalmente qualcuno dell'associazione.

P.M dott. BERTONE - Quindi...

RIGGIO PIETRO - Questa era la disamina che faccio io.

P.M dott. BERTONE- Sì, però lei aveva detto...

RIGGIO PIETRO - Andare... andare... ad esempio, il presidente dell'industriale andare a disturbare 'u presidente dell'industriale da parte dell'associazione.

P.M dott. BERTONE - Associazione intendiamo...

RIGGIO PIETRO -Mafiosa. Secondo me, è più l'interesse di qualcuno che potrebbe, perché magari mette il bastone tra le ruote, e allora dobbiamo andare a vedere perché mette il bastone tra le ruote; e allora sono gli interessi che sono fra di loro. Perchè se prima si è estrinsecato in Cortese, Pernaci, Dolce, i tre, e ora si estrinseca in Montante, Ventura e l'altro non... non lo so, significa che nel nuovo è stato usato il vecchio. Quindi la garanzia di cui si faceva il vecchio non c'è più; quindi ora ci sono i rampanti, ci sono i nuovi. L'altro era Romano. E' normale che è successo questo, è normale che l'ASI è commissariato, perchè non riescono ad addivenire all'accordo non raggiungeranno l'accordo. Quindi lo sanno, dal momento in cui si nomina quell'accordo, propenderà o per A o per B.

P.M dott. BERTONE - Quindi, diciamo, dovendo poi verbalizzare, rispetto alla nomina che le ho fatto io, possiamo dire senza pena di sbagliare che lei non è a conoscenza che questi atti intimidatori siano provenienti da Cosa Nostra.

RIGGIO PIETRO -Da Cosa Nostra, sì.

P.M. dott. BERTONE -Però non sa lei, diciamo, da chi provengano, ma ha fatto soltanto delle sue valutazioni, diciamo, personali. Difatti diretti lei non ne è a conoscenza.

RIGGIO PIETRO- No, io valuto in base all'esperienza che ho avuto, in base alle cose che... Certo, infatti, se ho rapporti, se io rimanevo, allora qualcosa...

P.M dott. BERTONE - Certo.

Di analogo tenore le dichiarazioni rese in merito da DI FRANCESCO il 7 maggio 2014, il quale evidenziava come alcune di tali minacce sarebbero state perpetrate in danno di MONTANTE mentre il vertice della famiglia mafiosa di Serradifalco era tutta ristretta in carcere, sicché una iniziativa adespota della base associativa, nei riguardi di chi, come l'esponente di Confindustria, aveva sempre goduto del rispetto dei “capi”, appariva del tutto eccentrica:

Verbale di interrogatorio del 7 maggio 2014.

Posso dire di essere rimasto meravigliato nel leggere sui giornali che Antonello MONTANTE era stato destinatario di minacce. Ricordo di aver commentato tali vicende con Angelo CA VALERI nel carcere di Ariano Irpino e con Crocifisso SMORTA nel carcere di Secondigliano. Ricordo che, a mo' di battuta, io stesso dissi che si trattava di minacce che si era fatto da solo, perché ritengo impossibile che potessero provenire da Serradifalco, anche perché gli ALLEGRO, io e ARNONE eravamo tutti in Carcere e poi perché lo stesso, come ho già detto prima, a Serradifalco è stato sempre rispettato. Le ulteriori dichiarazioni di DI FRANCESCO, valutate congiuntamente a quelle, sopra esaminate, di DI VINCENZO, forniscono la lente attraverso la quale leggere l'evoluzione impressa da MONTANTE alla propria carriera. Una carriera che, inizialmente, poteva sintetizzarsi nelle ambizioni di un giovane e rampante imprenditore di scalare il successo, mediante strategiche alleanze associative e godendo del rispetto, ricambiato, degli esponenti della mafia nissena, con i quali talvolta coltivava varie forme di cointeressenza economica. Un astro nascente, insomma, dell'imprenditoria siciliana, proiettato al successo economico ed associativo-industriale. Gli anni 2004-2005 sono, però, gli anni della metamorfosi, gli anni in cui MONTANTE si travestiva da uomo della Provvidenza, unto dal Signore per redimere i peccatori, fossero essi imprenditori, giornalisti o liberi professionisti, flagellarli per i loro misfatti e purificarli. Come ampiamente illustrato, infatti, è nel 2004 che MONTANTE cominciava a denunciare alcuni atti intimidatori, commessi da vacue sagome talmente impalpabili e diafane da sfuggire persino all'attenta percezione degli stessi appartenenti alla mafia. Le denunce di quelle presunte minacce costituivano il primo sintomo di quella degenerazione superoministica che conduceva, lentamente, MONTANTE alla deriva. Nel 2005, ormai eletto alla presidenza di Confindustria Caltanissetta, l'imprenditore di Serradifalco ripudiava DI VINCENZO, che pure lo aveva sostenuto e del quale aveva sempre sposato la linea associativa, e ciò senza una ragione apparente, non potendo considerarsi tale il bisogno di discontinuità rispetto al vecchio corso confindustriale, invocato da chi, da parte sua, fino a quel momento aveva mantenuto un rapporto solido, sul piano personale, associativo e degli affari, con V. ARNONE, di professione capomafia di Serradifalco. E, tra il 2004 e il 2005, MONTANTE entrava in rotta di collisione con l'Avv. Salvatore IACUZZO, allora direttore del consorzio A.S.I. di Caltanissetta, nel quale MONTANTE rivestiva il ruolo di vicepresidente e di cui, successivamente alle vicissitudini giudiziarie del presidente, Umberto CORTESE, assumeva la presidenza. Il rapporto, turbolento, tra MONTANTE e IACUZZO merita di essere specificamente approfondito, in quanto finirà per costituire il fermento motivo di molte vicende che saranno oggetto di esame nel presente provvedimento.[...] E' Dario DI FRANCESCO a fare importanti dichiarazioni sulla involuzione del rapporto tra MONTANTE e IACUZZO, individuando la fase della rottura nel periodo nel quale MONTANTE, vice presidente del consorzio A.S.I. di Caltanissetta, aveva assunto le funzioni di vertice a seguito di particolari vicissitudini che avevano travolto l'allora presidente, Umberto CORTESE. DI FRANCESCO raccontava, altresì, della divulgazione, per iniziativa di IACUZZO, della notizia circa una laurea conseguita a pagamento da MONTANTE, ma soprattutto riferiva del progetto di quest'ultimo, ai tempi della presidenza di IACUZZO del consorzio A.S.I., di versare una consistente somma di denaro ai familiari dello stesso DI FRANCESCO affinché questi collaborasse con la giustizia e lanciasse delle accuse aventi ad oggetto presunte malefatte nella gestione del consorzio. Da tale proposito di mecenatismo giudiziario MONTANTE avrebbe receduto di fronte al rischio, paventato da ARNONE, che DI FRANCESCO, costretto, in caso di collaborazione, ad una rivelazione integrale delle proprie conoscenze sull'ambiente e sulle dinamiche di Cosa Nostra, potesse fare delle rivelazioni anche sul conto dello stesso MONTANTE.

Verbale di interrogatorio di Di Francesco del 28 marzo 2015:

A.D.R.: in ordine a quanto a mia conoscenza su Antonello MONTANTE, oltre a ciò di cui ho già riferito, intendo altresì riferire che, durante il mio ultimo periodo di libertà, mio malgrado ho avuto qualche occasione di incontro con Vincenzo ARNONE. Preciso che fu l'ARNONE a cercarmi, poiché io non avevo alcuna intenzione di avere rapporti con lui essendosi egli, differentemente da quanto avevo fatto io in precedenza, completamente disinteressato di me e della mia famiglia durante la mia detenzione. In una di tali occasioni di incontro, presi con l'ARNONE il discorso di MONTANTE, evidenziandogli, per stuzzicarlo, come “il suo compare" fosse ormai “lanciato nel mondo della legalità". L'ARNONE mi rispose con un sorriso sarcastico, contestualmente dicendomi che, dopo che egli venne scarcerato in conseguenza della condanna subita per il procedimento c.d. “Urano” - siamo quindi nel 2004-2005 se non erro - ebbe ad incontrare il MONTANTE, il quale gli domandò un suo interessamento per convincermi, dietro il versamento di una consistente somma di danaro da destinare ai miei familiari, a divenire collaboratore di giustizia e, in tale veste, a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti del dott. IACUZZO in quel momento Direttore dell'A.S. I.. Non so esattamente i motivi per i quali il MONTANTE avesse questi progetti, ma posso dire, al riguardo, che vi fu un periodo in cui l'avv. CORTESE fu sospeso dalle funzioni di Presidente dell'A.S.I. e le stesse vennero svolte dal MONTANTE, che aveva la carica di vicepresidente. Durante tale lasso di tempo il MONTANTE entrò in forte contrasto con IACUZZO anche se non ne so esattamente le ragioni; posso solo evidenziare che, in tale periodo, apparvero sui giornali alcune notizie che riguardavano la laurea che il MONTANTE aveva preso a pagamento non so da quale istituto, notizie che vennero veicolate proprio attraverso l'interessamento dello IACUZZO. L 'ARNONE, nell'incontro di cui sto parlando, mi disse anche che aveva evidenziato al MONTANTE che non gli conveniva portare a compimento i suoi propositi, posto che, laddove avessi intrapreso la strada della collaborazione, certamente non mi sarebbero state chieste notizie riguardanti solo IACUZZO, ma avrei dovuto fare completa chiarezza su quanto a mia conoscenza e, dunque, sarei stato costretto alla fine a riferire anche quanto sapevo sulla sua persona. Orbene, avuto riguardo alla inscrizione, da parte di DI FRANCESCO, dell'incontro e di tale colloquio con V. ARNONE durante il proprio ultimo periodo di libertà, la notizia del progetto di MONTANTE di indurlo ad una collaborazione “orientata” dovrebbe essergli pervenuta tra il luglio del 2013 (epoca in cui venne scarcerato dopo avere espiato le pene inflittegli nei processi che si erano celebrati nei suoi confronti) e l'11 marzo 2014 (allorché venne tratto in arresto nell'ambito del procedimento n. 3365/10 R.G.N.R. mod. 21 c.d. Co/po di Grazia). Inoltre, circa la collocazione temporale dell'incontro ARNONE-MONTANTE, nel quale il secondo avrebbe esposto l'idea della collaborazione di DI FRANCESCO al primo, dovrebbe potersi individuare l'arco cronologico che va dal 14 maggio 2004 (quando ARNONE venne scarcerato al termine della esecuzione della pena inflittagli nell'ambito del processo c.d. "Urano") al 30 settembre 2007, quando IACUZZO cessò il suo mandato presidenziale all'interno del consorzio (cfr., a tal proposito, le dichiarazioni dallo stesso rese il 6 giugno 2016).

Diversi gli elementi di riscontro segnalati dall'accusa:

1) l'effettiva esistenza di una accesa conflittualità tra MONTANTE (vicepresidente del consorzio A.S.I. di Caltanissetta e poi presidente facente funzioni) e IACUZZO (direttore del medesimo consorzio);

2) l'effettivo espletamento di attività investigativa, sul conto di IACUZZO, da parte della Guardia di Finanza nissena, al tempo completamente asservita ai desiderata di MONTANTE (come si spiegherà meglio infra);

3) l'effettiva disponibilità, in capo a MONTANTE, di risorse economiche derivanti da verosimili fondi neri delle sue imprese, suscettibili di essere destinati anche ad un eventuale finanziamento della collaborazione, auspicata, di DI FRANCESCO.

In particolare, in ordine alla circostanza di cui al superiore punto n. 1), essa può considerarsi pacifica alla luce non soltanto delle dichiarazioni rese dallo stesso IACUZZO (cfr. verbale del 6 giugno 2016) e da DI VINCENZO (cfr. interrogatorio del 4 febbraio 2016), ma anche delle ulteriori dichiarazioni provenienti da Marco VENTURI (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015), Giovanni CRESCENTE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 dicembre 2015) e Pasquale TORNATORE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali rese il 4 dicembre 2015). Peraltro, le dichiarazioni di CRESCENTE e di TORNATORE appaiono munite di una loro specificità, posto che il primo riferiva dell'allerta creata da MONTANTE per la pericolosa prossimità di IACUZZO a DI VINCENZO, mentre il secondo ricordava che i rapporti tra MONTANTE e IACUZZO si erano deteriorati nel periodo in cui il primo era divenuto presidente pro tempore del consorzio A.S.I. in sostituzione di Umberto CORTESE. TORNATORE, inoltre, evidenziava che, in occasione della divulgazione mediatica della notizia del presunto conferimento a MONTANTE, da parte dell'Università La Sapienza di Roma, di una laurea honoris causa (in realtà, conferita da una università privata), era stato proprio IACUZZO ad attivarsi per verificare la veridicità dell'informazione veicolata, ciò che aveva comportato una smentita da parte del prestigioso ateneo. E' evidente come, nelle parole di TORNATORE, riecheggino quelle di DI FRANCESCO, sia in ordine all'intervento di IACUZZO sulle notizie mediatiche afferenti ad una presunta laurea conseguita da MONTANTE sia in merito alla individuazione del momento incoativo della degenerazione dei suoi rapporti con IACUZZO. Quanto all'attenzione investigativa rivolta nei riguardi di quest'ultimo, si tratta di argomentazioni che verranno sviluppate nel prosieguo, essendo sufficiente accennare in questa fase che, dopo l'insorgenza del conflitto tra lo stesso IACUZZO e MONTANTE, il primo, unitamente a CORTESE, nelle rispettive vesti di direttore e presidente del consorzio A.S.I. di Caltanissetta, veniva denunciato dalla Guardia di Finanza nissena, al soldo di MONTANTE, per concorso esterno in associazione mafiosa in relazione ad un episodio di concessione in comodato d'uso di un terreno in favore della ditta di autotrasporti riconducibile a Salvatore RIZZA, soggetto ritenuto organico alla famiglia mafiosa di Caltanissetta. Orbene, può qui anticiparsi, in chiave prologica rispetto alla più puntuale ricostruzione della vicenda che verrà fatta infra, come una lettura in termini casualistici dell'indagine della Guardia di Finanza su IACUZZO e CORTESE non è logicamente sostenibile. Essa, infatti, apparirebbe in stridente contrasto con una circostanza: nell'ambito dell'attività di dossieraggio compiuta da MONTANTE, oggetto di analisi nell'apposito capitolo, Salvatore IACUZZO risulta tra le persone sulle quali si era appuntato il focus delle interrogazioni illecite nella banca dati delle forze di polizia, rese possibili dalla complicità, con l'imprenditore di Serradifalco, di appartenenti alla Polizia di Stato. Tali elementi avallano, con funzione tecnica di riscontro, le dichiarazioni di DI FRANCESCO circa la volontà di MONTANTE di colpire a tutti i costi IACUZZO. Rinviando, comunque, ad altro comparto motivazionale l'approfondimento della vicenda, laddove verrà presentata la galleria degli interventi anomali posti in essere dalla Guardia di Finanza, giova ricordare, con rapidità parentetica, la riflessione operata dall'organo requirente in merito alla posizione criminologica di DI VINCENZO e IACUZZO. A tal proposito evidenzia l'accusa, al fine di prevenire indebite strumentalizzazioni del presente procedimento, che le evidenze ex actis non consentono di accreditare un'immagine agiografica di IACUZZO o dello stesso DI VINCENZO, eletti da MONTANTE a propri acerrimi nemici. In particolare, il P.M., mostrando perfetta equidistanza tra le opposte fazioni emerse dentro gli ambienti confindustriali nisseni, sottolinea, accanto alle contestate attività illecite di MONTANTE, una certa opacità di comportamenti da parte di DI VINCENZO e IACUZZO, i quali, per esempio, avrebbero provato a giustificare talune movimentazioni di denaro, di entità consistente, dall'uno all'altro, in termini di mero prestito. Giustificazione, questa, che, alla luce delle modalità con cui tali movimentazioni sono risultate annotate in un documento rinvenuto dagli investigatori, appariva agli occhi degli inquirenti assolutamente poco convincente. Si riporta, per i dettagli della vicenda, uno stralcio dell'ordinanza cautelare (da p. 196), che ripercorre, a sua volta, un passo della relativa richiesta: Ciò non significa, occorre tornare a ripeterlo, che la (a dir poco) disdicevole condotta del MONTANTE quale descritta dal DI FRANCESCO possa servire per affermare, di converso, l'eventuale linearità dei comportamenti dello IACUZZO, sul conto del quale, a ben vedere, certamente rileva l'irrazionalità delle spiegazioni fornite (tanto dello stesso IACUZZO, quanto del DI VINCENZO) delle accertate dazioni di danaro (annotate sulle “schede di mastro” rinvenute nell'ambito delle indagini condotte nel procedimento che ha poi condotto all'arresto del DI VINCENZO da parte di questa D.D.A., cfr. atti allegati all'interrogatorio del DI VINCENZO del 4.2.2016) da parte di quest'ultimo in favore proprio dello stesso IACUZZO. Pare, infatti, francamente difficile credere che alla base della erogazione di consistenti somme di danaro (oltre 180 milioni di lire in un arco di tempo compreso tra il 1988 ed il 1995) vi fosse un spirito di liberalità per venire incontro, evidentemente, a difficoltà economiche di “un amico”; oltre ad essere del tutto irrazionale, si tratta di una motivazione che non riesce a spiegare come mai, in alcuni casi, l'annotazione di quelle somme sia affiancata da altre (ad es. “IACUZZO X ANAS”, oppure “siamo a 60”, “siamo a 80” e cosi via) che inducono a ritenere altre e ben diverse causali sottese a quell'elargizione di danaro. Orbene, è intendimento di questo giudice non esprimere alcuna valutazione in relazione a tale vicenda, che è del tutto avulsa dal perimetro dell'odierno giudizio e rispetto alla quale potrebbero formularsi semplici impressioni, che indegnamente occuperebbero uno spazio all'interno della presente motivazione. Di essa, pertanto, si è dato atto soltanto al fine di evidenziare l'assenza di qualsiasi profilo di acritica adesione, da parte degli investigatori, a tesi accusatorie preconfezionate, frutto, come pure è stato affermato dalla difesa di MONTANTE, di un grave depistaggio dell'attività giudiziaria. Nell'ambito del presente processo, dunque, l'unico aspetto realmente rilevante delle dinamiche dialettiche confindustriali è quello della opportuna valutazione, in termini particolarmente rigorosi, dell'attendibilità delle dichiarazioni che provengono da soggetti legati a MONTANTE da un rapporto di speciale conflittualità, al fine di scongiurare il rischio che l'acrimonia interpersonale possa generare una rappresentazione (anche inconsciamente) adulterata delle vicende narrate. [...] Nella vicenda descritta nel paragrafo che precede, un dato va senz'altro sottolineato: la creazione di fondi neri si inscrive negli anni 2003-2005, ossia nello stesso periodo in cui, secondo DI FRANCESCO, MONTANTE aveva deciso di finanziare la sua futura ed auspicata collaborazione con la giustizia, al fine di accusare IACUZZO. Nella stessa direzione, che segnala l'enorme disponibilità, da parte di MONTANTE, di denaro contante, militano le dichiarazioni rese da Massimo ROMANO (coimputato, giudicato con il rito ordinario), a proposito della richiesta, rivoltagli dal primo tra il novembre e il dicembre 2014, di cambiargli in banconote di piccolo taglio la somma complessiva di € 100.000 o € 300.000, che lo stesso possedeva in biglietti da € 500,00 (dichiarazioni rese il 26 settembre 2015, in sede di sommarie informazioni testimoniali, prima che lo stesso venisse indagato, e confermate il 18 luglio 2016, in sede di interrogatorio). [...] E' pertanto evidente come, già a partire dall'epoca indicata da DI FRANCESCO, ossia il 2004-2005, MONTANTE disponesse effettivamente di significative riserve occulte da destinare ai fini più diversi e che, pertanto, ben avrebbero potuto finanziare un'insolita attività di "mecenatismo giudiziario” come quella che intendeva praticare ai danni di IACUZZO. Un mecenatismo che, ovviamente, appare del tutto eccentrico, intanto perché l'iniziativa proveniva evidentemente dal "pulpito" meno appropriato, dovendo, piuttosto, MONTANTE giustificare le operazioni di manipolazione contabile nelle proprie società, che, come ampiamente dimostrato, conducevano alla sistematica formazione di riserve occulte; in secondo luogo in quanto, mediante il foraggiamento personale della collaborazione di DI FRANCESCO, MONTANTE avrebbe introdotto una forma singolare di inedito il progetto di finanza applicato alla giustizia, che non è previsto da alcuna norma di legge: il privato che finanzia l'attività di collaborazione di un mafioso con la giustizia, nella prospettiva di un ritorno nel lungo periodo (grazie alla auspicate propalazioni di DI FRANCESCO sul conto di IACUZZO); in terzo luogo, perché l'agognata collaborazione appariva ex ante indirizzata verso un obiettivo ben selezionato, che era la vulnerazione di IACUZZO; infine, poiché le modalità di attuazione di tale eccezionale project fínancing prevedevano la mediazione di V. ARNONE, boss di Serradifalco, il quale avrebbe dovuto esporre a DI FRANCESCO tale progetto. D'altra parte, sul piano della grammatica probatoria si potrebbe osservare che il dato in sé della disponibilità, in capo a MONTANTE, di riserve occulte, appare neutro in sede di verificazione delle dichiarazioni di DI FRANCESCO, in quanto non risulta specificamente provato che tali riserve sarebbero state impiegate (anche) per finanziare il progetto di "conversione" del mafioso DI FRANCESCO in un collaboratore di giustizia. Tale osservazione, com'è evidente, coglierebbe nel segno soltanto se tale dato venisse isolato e segregato da tutti gli altri elementi di riscontro, quali l'accertata idiosincrasia intercorrente tra MONTANTE e IACUZZO, nonché l'assunzione dell'iniziativa, da parte del primo ai danni del secondo, di ordinare l'accesso abusivo al sistema informatico della polizia e di aizzare la Guardia di Finanza.

§ 8.4. Il finanziamento della campagna elettorale di Totò Cuffaro. Gli argomenti testé affrontati immettono nella trattazione di un nuovo capitolo della vicenda MONTANTE, che, sebbene non costituisca oggetto di imputazione, dà la misura dei metodi e dei mezzi utilizzati dallo stesso per la edificazione del proprio potere: il finanziamento della compagna elettorale di Salvatore, inteso Totò, CUFFARO per la presidenza della regione siciliana, nell'anno 2001. In particolare, se VENTURI dichiarava, per averlo appreso da MONTANTE, che quest'ultimo aveva finanziato in “nero” la campagna elettorale de qua (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015: “Ricordo anche che il MONTANTE era solito ripetere che "pagava la campagna elettorale a tutti” e che “spendeva un sacco di soldi"; ciò mi ebbe a dire anche con specifico riferimento a CUFFARO in re/azione all'elezione nel 2001 a Presidente della Regione, specificandomi che aveva erogato contributi economici “in nero”, anche se non mi disse l'importo”), analoghe affermazioni, opportunamente captate dagli investigatori, venivano ripetutamente fatte da Michele TROBIA, colui che, per sua stessa ammissione, aveva avuto il merito, grazie alla gestione del circolo del tennis, di avere introdotto MONTANTE nel livello più alto della società cittadina, dandogli la possibilità di entrare in contatto con diverse autorità locali. Ebbene, proprio il predetto TROBIA, come si evince dalle intercettazioni in atti, mostrava di essere a conoscenza del finanziamento, non tracciato, della campagna elettorale di Totò CUFFARO, per un ammontare pari a 800.000,00 di lire, da parte di MONTANTE, del quale egli era stato il portaborse, così avendo goduto di una visione privilegiata e diretta di tale vicenda. Si ricava, inoltre, dalle esternazioni di TROBIA come MONTANTE, grazie ai suoi metodi mercantili, fosse riuscito a costruire un rapporto particolarmente confidenziale con CUFFARO, tanto che il predetto MONTANTE, avendo portato con sé TROBIA presso l'allora presidente della Regione siciliana per raccomandare la figlia in un concorso pubblico, non aveva fatto alcuna anticamera nel palazzo della Regione e, anzi, aveva immediatamente parlato con il presidente benché fosse in corso una riunione della Giunta regionale. Il contesto colloquiale nel quale tali affermazioni venivano fatte imprime loro un'impronta di spontaneità, connotazione che, insieme alla loro coerenza intrinseca e alla loro costanza contenutistica nel tempo, vale a fondare un giudizio di ragionevole veridicità. In una di tali circostanze conversative, l'interlocutore di TROBIA era addirittura la moglie, sicché non è possibile adombrare il sospetto che le sue asserzioni potessero perseguire sottese finalità strumentali nel gioco delle aggregazioni e disgregazioni dei gruppi di potere tra sostenitori e detrattori di MONTANTE. L'ordinanza cautelare (da p. 234) contiene la rassegna delle diverse occasioni nelle quali TROBIA ebbe a parlare sia dell'episodio della consegna, da parte di MONTANTE a CUFFARO, della borsa contenente 800.000,00 di lire, sia l'ulteriore episodio della visita del primo al secondo, nel palazzo della Regione, per la segnalazione in favore della figlia del medesimo TROBIA: Ulteriore e ben più pregnante conferma alle dichiarazioni del VENTURI proviene, però, dal contenuto di una conversazione tra presenti captata all'interno degli uffici della SIDERCEM dello stesso VENTURI ed intercorsa tra quest'ultimo, ROMANO Massimo e TROBIA Michele, soggetto che (come si dirà di qui a poco) è emerso nel corso dell'odierno procedimento in strettissimi rapporti con lo stesso MONTANTE. La conversazione in questione intercorreva il giorno successivo alla pubblicazione dell'articolo sul quotidiano “La Repubblica” avente ad oggetto l'intervista rilasciata dallo stesso VENTURI (su cui si tornerà diffusamente nel prosieguo). In tale occasione, per ciò che qui rileva, i presenti facevano esplicito riferimento alla figura del MONTANTE ed in particolare il TROBIA inizialmente raccontava il contenuto della telefonata avuta, quella stessa mattina, proprio col MONTANTE, che, nel mostrarsi molto agitato, gli aveva parlato delle dichiarazioni che aveva letto sul giornale del VENTURI. Successivamente, sempre il TROBIA rammentava l'epoca in cui ebbe a conoscere il MONTANTE, facendo riferimento al momento in cui era sorto il torneo di tennis della città di Caltanissetta, ad agosto di 17 anni orsono, occasione nella quale lo stesso MONTANTE si adoperava per “conoscere gente che poi effettivamente ha conosciuto”. Il TROBIA, inoltre, rammentava al ROMANO - che aveva cercato di postergare la sua amicizia col MONTANTE al momento in cui Rosario CROCETTA era stato Sindaco di Gela - come questi già lo conoscesse nel momento in cui egli entrò i rapporti col MONTANTE, tanto che in quell'occasione gli aveva mostrato borse piene di cambiali che diceva essere del ROMANO e anche soldi in contanti. Il ROMANO, in maniera assai eloquente, cercava di prendere le distanze da quegli accadimenti, ma il TROBIA proseguiva nel racconto riferendo ulteriori circostanze che, come si diceva poc'anzi, offrono una straordinaria conferma all'assunto che qui si sta sostenendo. Ed invero, si aveva modo di udire il TROBIA testualmente riferire ai presenti: ''Poi le altre borse con Totò CUFFARO! Le altre borse che depositò a casa mia...cà ci su 800 milioni...cà ci su 600 milioni....". Il ROMANO chiedeva, quindi, se avesse materialmente visto questi soldi ed il TROBIA rispondeva, ancora una volta, testualmente “come no! li abbiamo portati assieme a Totò CUFFARO! a muglieri ca...scusami...a muglieri ca mi dissi...dici...allora Antonella...(R1STAGNO n.a'.r.) una volta lei me lo disse quello ca c'era ddra intra.... "perchè non mi restituisce i soldi - dici - ca....i sordi ca gli avete dato tu e mio marito!” […] Ed invero, in primo luogo, viene in rilievo un'ulteriore conversazione avuta dal TROBIA in data 6.3.2016 con l'avvocato Pietro RABIOLO, conversazione che verrà anche ripresa più oltre poiché rilevante per altri aspetti che dalla stessa sono pure emersi. Per ciò che qui rileva, in quella circostanza il TROBIA, oltre a confermare quanto già era emerso dalla confidenza fatta al VENTURI ed al ROMANO, narrava altre vicende che consentono di ipotizzare come le elargizioni di danaro effettuate dal MONTANTE in favore del CUFFARO avessero come finalità ultima quella di orientare Fazione di governo di quest'ultimo per il perseguimento dei propri interessi. Il TROBIA, infatti, dopo aver premesso al suo interlocutore, tra le altre cose, come il MONTANTE dovesse ritenersi una “persona pericolosissima”, evidenziava di essere stato coinvolto, per iniziativa dello stesso in situazioni “gravi” ed “assurde”, che velatamente esplicitava riferendo di “essere stato un portaborse...di essere stato un distributore di mazzette magari...ma mazzette parliamo di centinaia di milioni ah... ”. Il collegamento con la sopra riportata conversazione tra presenti avvenuta all'interno della SIDERCEM consente di ritenere, in maniera inequivocabile, che proprio alle vicende già riferite al ROMANO ed al VENTURI stesse facendo riferimento il TROBIA nella conversazione avuta col RABIOLO e ciò vieppiù laddove si consideri l'ulteriore prosieguo del dialogo avvenuto con questi. Il TROBIA, infatti, precisava al RABIOLO che, sebbene si fosse prestato al compimento di condotte gravi per il MONTANTE, non aveva mai chiesto allo stesso alcun favore se non in una occasione affinché la figlia Alessia potesse vincere un concorso pubblico all'ASP. Sempre a dire del TROBIA il MONTANTE si era rivolto allo scopo proprio a Totò CUFFARO, il quale si era messo subito a disposizione con le modalità che sarà possibile ricavare dalla lettura delle parole pronunciate dallo stesso TROBIA, non essendo altrettanto efficace qualsivoglia possibile sintesi del suo pensiero: “non ho chiesto niente...se non quando è stato necessario una mano d 'aiuto con Alessia che on...per Alessia che onestamente mi stava dando...e mi ha dato...se

non fossimo incappati...in un problema di sfortuna su questo piano lo rimpiango...Alessia è stata sfortunata perché per le possibilità che ha avute...rare proprio uniche anche è stata sfortunata perché gli eventi i fatti ci hanno purtroppo punito...ma a volte sai fatti di di un mese...bastava un mese per dire e riuscivamo ad ottenere quello che desideravamo...era quello di vincere il concorso pubblico della sua qualifica delle ASP...purtroppo...un fatto di mera sfortuna...però si era reso disponibile...anche perché non gli costava niente và...raccomandava a tutti...io entravo con lui in piena Giunta regionale con Totò Cuflaro...arrivavamo con la macchina...quella con la scorta...con la macchina della scorta e noi dentro fino davanti l'ascensore...con i custodi a Palazzo Orléans drà...Presidente... con la macchina fino davanti l 'ascensore...scendevamo usavamo l 'ascensore non si chiedeva dov 'era Cuflaro lui entrava direttamente io dietro la porta...lui entrava nel salone della Giunta...nessuno lo bloccava...iva drà...a porta arristava aperta lui si chinava a Totò Cujj'aro...(inc.) chiddru si alzava usciva fuori trasiva nà so stanza e parlavano...dici c 'era da...ama parlari cu u diretturi generali... tu pezzu di merda vidi di arricampariti entro mezz'ora...chiddru Presidè com 'è...a viva voce questo...mezz 'ora come faccio mancu cu l'elicotteru arrivu....chi minchia m'interessa tra n'ura a d 'essiri cà ciao...e ci chiuiva u telefunu...arrivava u diretturi generali...u diretturi sanitario...e tutti pronti...che dovevano quindi figurati ...ha fatto approvare il piano sanitario di questa merda di ASP in tre mesi che ci vogliono tre anni...quattro anni...però sono stato sfortunato...perche' poi dà manciata di cannoli di merda e l'arristaru dopu quinnici iorna...dico si sti cannola si verqicavanu dopu tri misi...sta cazzu di sentenza veniva fuori dopu tri misi avevamo risolto già il problema...quindi per me dico si è prestato...”. […] Le circostanze relative all'interessamento chiesto dal TROBIA al MONTANTE affinché intercedesse con l'allora Presidente della Regione Salvatore CUFFARO per trovare una occupazione lavorativa alla figlia Alessia sono state confermate anche da Marco VENTURI (cfr. il già citato verbale del 4.8.2016) il quale ha evidenziato di averle apprese proprio dal TROBIA […] . Laddove non bastasse, il TROBIA tornava in argomento anche con la moglie Rosanna lungo il tragitto di ritorno alla loro abitazione dopo aver presenziato al funerale della suocera del MONTANTE celebratosi il 3.11.2016. Ed invero, in quella occasione il TROBIA ribadiva quanto aveva già fatto presente al ROMANO ed al VENTURI nella conversazione poc'anzi riportata e cioè che era stato lui stesso ad introdurre il MONTANTE presso soggetti aventi un ruolo istituzionale nella città di Caltanissetta, ambiente nel quale, in precedenza, non aveva alcuna presa tanto che gli era stato addirittura negato il rilascio del porto d'armi. Il TROBIA in particolare sottolineava che l'allora prefetto LALLI, così come il Questore GIUFFRE” gli avevano fatto presente, inizialmente, di non avere molta fiducia nel MONTANTE e per tale ragione avevano anche rifiutato dei regali che l'imprenditore di Serradifalco aveva loro destinato per suo tramite e che erano alla fine rimasti nella sua disponibilità. Solo dopo le sue insistenze, l'allora Questore GIUFFRE' aveva acconsentito a presenziare ad una cena ove vi era anche il MONTANTE. Il TROBIA precisava anche che que1l°iniziale atteggiamento di chiusura era motivato dal fatto che fosse notorio, al tempo, che il MONTANTE distribuisse regali “a destra e a manca...per corrompere”, circostanza che egli sapeva essere rispondente al vero e ricordava che era una dipendente di sua fiducia – descritta fisicamente come una donna con i capelli ricci - ad occuparsene, tanto che una volta quest'ultima, nel consegnargli un regalo proprio del MONTANTE, gli aveva fatto presente di avere “na machina china di...di distribuiri regali...”. […] Successivamente - dopo aver parlato del Prof. Alessandro PILATO (che a dire del TROBIA rischiava di subire pesanti conseguenze giudiziarie essendosi prestato a fare da “prestanome” del MONTANTE ed avendo anche curato in maniera non ortodossa la contabilità delle società allo stesso riferibili, così permettendogli di evadere le tasse) - il TROBIA, sia pure in maniera un po” bizzarra, offriva altra conferma a ciò che era chiaramente emerso dalle intercettazioni poc'anzi riportate. Ed invero, nel raccontare alla moglie di un sogno che aveva fatto quella notte, le evidenziava che si era rappresentato di aver avuto una lite con il MONTANTE in conseguenza della quale lo aveva minacciato di riferire al magistrato ciò che sapeva sul suo conto ed allo scopo si era messo in contatto col VENTURI poiché l'imprenditore di Serradifalco aveva mostrato di non credere alle sue parole. Il VENTURI gli aveva chiesto perché volesse rendere dichiarazioni all'autorità giudiziaria ed egli gli aveva risposto “ppù discursu di cosa...di Totò Cuffaro, ca ci dettiru ottocento milioni, lo posso testimoniare io...”. Il MONTANTE aveva quindi appreso della serietà delle sue intenzioni ed aveva chiesto di incontrarlo, domandandogli, poi, se avesse le prove di ciò che andava affermando ed egli aveva risposto io posso testimoniare, io personalmente ho dato la borsa, io ho tenuto la borsa, io ho visto, quindi testimonia”, sicché il MONTANTE aveva seccamente replicato “e allura mista rovinannu...”. Orbene, prescindendo dalle modalità - a dire il vero un po' surreali - con le quali il TROBIA rammentava alla moglie quanto aveva già riferito al RABIOLO e, ancor prima, al ROMANO ed al VENTURI, ciò che rileva, a parere di questo Ufficio, è il successivo passaggio della conversazione, in cui né il TROBIA né la di lui moglie accennavano all'inverosimiglianza del “sogno” che il primo aveva raccontato ed anzi la BAIO sottolineava al marito che il MONTANTE con molta probabilità gli desse confidenza perché lo temeva proprio in virtù delle conoscenze di cui egli disponeva sul suo conto e lo invitava pure a rammentargli, ogni tanto, ciò che le aveva appena raccontato “ogni tanto ci l'avissitu a ricurdari_..t'arricurdi dici...”. […] Occorre, peraltro, sottolineare che l'attribuzione a MONTANTE, da parte di TROBIA, di una condotta scopertamente mercantile, con la distribuzione a largo raggio di doni per fini di captatio benevolentiae, non costituisce oggetto di una circostanza inserita nel suoi discorsi quale orpello argomentativo, rinvenendo essa un preciso aggancio probatorio in una nota, redatta in data 22 novembre 1992, dal Reparto Operativo dei Carabinieri di Caltanissetta su richiesta della Procura della Repubblica di Genova. La nota citata, che si inserisce nell'ambito di un procedimento nel quale Antonio Calogero MONTANTE e il padre Luigi erano stati arrestati, recitava in particolare che: "...Omissis... " le due imprese sopra citate fanno capo alla famiglia di MONTANTE Luigi, nato a Serradifalco il 01.03.1935; il vero artefice delle “fortune” delle imprese, può però senz'altro considerarsi il figlio del suddetto, MONTANTE Antonio Calogero, nato a San Cataldo il 05.06.1963, il quale soprattutto opera per la ditta GIMON, cioè quella che produce e distribuisce ricambi, ammortizzatori e pezzi speciali per mezzi di autotrasporto. E' lui infatti a muoversi per la “ricerca” di clienti e, stando ad informazioni assunte, pure per “contattare” quelle persone che possono favorire la GIMON nell'acquisizione di forniture per le Pubbliche Amministrazioni. In effetti, fonte informativa di certa affidabilità ha riferito, a titolo di esempio, che il MONTANTE, in occasione delle festività natalizie, ogni anno è solito portarsi in Palermo con un furgone carico di “doni” che distribuisce negli uffici della Regione Siciliana. In ogni caso è proprio per tale attività che MONTANTE Antonio ha chiesto ed ottenuto alcuni anni fa il rilascio della licenza per porto di pistola della quale è tuttora titolare”. Come correttamente osservato in sede cautelare, non vi è ragione di ravvisare, nelle parole di TROBIA, elementi suggestivi di millanteria o di mendacio, in quanto la particolare prossimità tra quest'ultimo e MONTANTE era un fatto certamente noto a Caltanissetta, come confermato, oltre che da Marco VENTURI, anche da Giovanni CRESCENTE e, indirettamente, da Pasquale TORNATORE. CRESCENTE, infatti, dichiarava di essere stato incaricato da MONTANTE, nel 2006-2007, di occuparsi della erogazione dl un contributo per l'organizzazione del torneo presso il tennis club gestito dal TROBIA. L'anno successivo, invece, lo stesso MONTANTE lo aveva reso edotto che il contributo al circolo tennis in questione lo avrebbe erogato il CONFIDI (consorzio FIDI) di Caltanissetta, allora presieduto dal ROMANO Massimo. […] TORNATORE, a sua volta, rammentava di avere collaborato con il circolo del tennis, in particolare curando l'attività di comunicazione relativa all'organizzazione dei tornei, e di essere stato sollevato dall'incarico dopo l'ingresso nel circolo di VENTURI e ROMANO, per volontà di quest'ultimo, come riferitogli dallo stesso TROBIA. Non può certo considerarsi un caso che la matrice “espulsiva” nei riguardi di TORNATORE provenisse da un soggetto, Massimo ROMANO, particolarmente vicino a MONTANTE, che nel frattempo aveva reciso i rapporti con il predetto TORNATORE. Quest'ultimo, inoltre, confermava che il circolo del tennis era il luogo della scalata sociale, in quanto abituale convegno dei vertici delle istituzioni locali delle quali era possibile intraprendere la conoscenza, così confortando l'assunto di TROBIA per cui era stato merito suo se MONTANTE era riuscito ad inerpicarsi ai livelli più alti della società. […] Al fine di lumeggiare compiutamente il profilo etico di TRUBIA e sperimentarne l'abilità al compimento consapevole delle attività criminose, come quella relativa al concorso materiale al finanziamento illecito di CUFFARO, si consideri quanto emerso nel corso di altra intercettazione (progr. n. 398 del 15 gennaio 2016), in cui lo stesso TROBIA, dialogando con l'avvocato romano Enrico TOTI, dopo avere affermato di essersi rivolto ad un boss mafioso di Favara (AG) per la risoluzione di un conflitto privato, ammetteva di avergli ricambiato il favore dando ospitalità, su sua richiesta, ad un latitante. […] In conclusione, possiamo ritenere assolutamente provato il finanziamento occulto della campagna elettorale di Totò CUFFARO da parte di MONTANTE, ciò che non costituisce oggetto di odierne imputazioni, ma avvalora senz'altro, sul piano storico, le affermazioni di Dario DI FRANCESCO sul progetto di MONTANTE di finanziare la sua collaborazione con la giustizia, al fine di accusare IACUZZO, essendo infatti incontrovertibile - ciò che emerge anche dalla descritta faccenda del finanziamento - che MONTANTE, già nel 2001, disponeva di ingenti somme di denaro liquido.

La paura per la “cantata” del pentito. La Repubblica il 30 ottobre 2019.   Le vicende fino ad ora ricostruite rappresentano, in qualche modo, il prodromo logico-fattuale di due condotte ascritte a MONTANTE: la tentata violenza privata nei riguardi di CICERO e l'accesso abusivo al sistema informatico per attingere informazioni sul conto di DI FRANCESCO, dopo la divulgazione della notizia della sua collaborazione. Premesso che tali ultimi fatti - gli accessi abusivi al sistema informatico - non hanno riguardato il solo DI FRANCESCO, ma, come vedremo diffusamente infra, anche altri soggetti, più o meno invisi a MONTANTE, occorre sin da subito precisare, per una più immediata comprensione della vicenda, che la tentata violenza privata nei riguardi di CICERO e l'accesso abusivo al sistema informatico su DI FRANCESCO sono episodi strettamente connessi. Tutto origina, infatti, dalla pubblicazione della notizia di stampa, nel luglio del 2014 (cfr., articoli dei quotidiani La Sicilia e Giornale di Sicilia del 18 luglio 2014), circa la collaborazione con la giustizia del predetto DI FRANCESCO, collaborazione emersa nel giudizio di appello del processo Redde rationem, in cui per la prima volta furono utilizzate le dichiarazioni dell'ex reggente della famiglia mafiosa di Serradifalco. A seguito della diffusione di tale notizia, in data 16 settembre 2014, CICERO, all'epoca presidente dell'I.R.S.A.P. di ispirazione montantiana, inviava una email a MONTANTE, informandolo della novità. MONTANTE rispondeva immediatamente all'email (l'epistola elettronica di risposta risulta inviata dopo pochi minuti rispetto a quella dello stesso CICERO; cfr. allegato n. 49 alla memoria depositata da CICERO in data 2 novembre 2015), precisando, ancor prima di avere contezza delle dichiarazioni del collaboratore che lo avrebbero riguardato, che certamente DI FRANCESCO doveva ritenersi al soldo dell'Ing. DI VINCENZO, suo acerrimo nemico, il quale, a suo avviso, potendo contare sui proventi mafiosi (CICERO, dal memoriale riportato sub: "Montante, ricordo, tentava di convincermi che fosse Di Vincenzo il regista del pentimento Di Francesco, in quanto il citato imprenditore, disponendo per conto della mafia di illimitate quantità di denaro, poteva “comprare” chiunque."), avrebbe potuto pilotarne le esternazioni (email di MONTANTE a CICERO: “Caro Alfonso, come stai? Grazie per gli articoli che mi invii, questo a mio avviso fa bene a raccontare le schifezze che noi dal 2004 diciamo a nostro rischio e pericolo, ma sono convinto che su questo pentimento Di Vincenzo ed i suoi pseudo legali hanno un ruolo di finanziatori”). Appare utile, a questo punto, ripercorre funditus le dichiarazioni di CICERO, le quali rievocano la diversa reazione emotiva dello stesso CICERO e di MONTANTE rispetto al pentimento di DI FRANCESCO. Mentre, infatti, il primo accoglieva la notizia con soddisfazione, nell'auspicio che il collaboratore potesse disvelare i retroscena di alleanze tra mafia e impresa da lui denunciate anche in commissione antimafia, il secondo, anche nel corso di un incontro avuto de visu con CICERO dopo lo scambio epistolare, mostrava una certa preoccupazione.

Dal memoriale, confermato nell'atto istruttorio del 2 novembre 2015: 16 SETTEMBRE 2014. Nel periodo in cui venivano pubblicati gli articoli di stampa che diffondevano la notizia dell'arresto di Di Francesco, dal 12/03/2014 in poi e successivamente alla notizia del suo pentimento appreso il l8/07/2014, secondo un'abituale prassi seguita con lo stesso Montante e i diversi dirigenti di Confindustria, Catanzaro, Lo Bello e Venturi, attuata costantemente anche con i miei collaboratori e legali di fiducia, di scambiarci reciprocamente via email le notizie di stampa di comune interesse – avevo inviato all'indirizzo di posta elettronica di Montante circa quindici articoli di stampa riguardanti l'operazione “Colpo di Girazia", l'arresto di Di Francesco e il suo successivo pentimento. Notizie queste che ritenevo più che importanti considerata la nota azione di contrasto ai poteri affaristico-mafíosi che avevo posto in essere nel contesto dell'area industriale di Caltanissetta. […] Montante mi rispondeva via email asserendo che, sul pentimento di Di Francesco, Di Vincenzo ed i suoi pseudo legali avevano un ruolo di finanziatori. […] Montante cercava di convincermi che fosse Di Vincenzo il regista del pentimento di Di Francesco in quanto il citato imprenditore, disponendo per conto della mafia di illimitate quantità di denaro, poteva "comprare" chiunque […]. L'incontro di CICERO con MONTANTE, successivo all'email in questione, rinviene una conferma nell'analisi dei rispettivi tabulati telefonici, atteso che, nella data del 29 settembre 2014, l'utenza di CICERO veniva censita in territorio di Serradifalco, nei pressi dell'abitazione del MONTANTE, il quale, quella stessa mattina, risultava avere chiamato proprio CICERO, verosimilmente per comunicargli l'orario dell'incontro (cfr. C.N.R. n. 1062/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26 aprile 2017, all. 4 della C.N.R.). Orbene, ciò posto deve rilevarsi come, a seguito dell'acclarata divulgazione delle notizie sulla collaborazione di DI FRANCESCO, e ancor prima della diffusione dell'ulteriore notizia che le sue propalazioni riguardassero MONTANTE, quest'ultimo intraprendeva tre tipi di attività:

cominciava ad interrogare, mediante la complicità di terzi, oggi coimputati (DI SIMONE PERRICONE e DE ANGELIS, nonché GRACEFFA, per il quale si procede separatamente), le banche dati della polizia, per attingere notizie sul conto di DI FRANCESCO;

si attivava per accreditare l'idea del complotto nei suoi confronti, sotto la presunta regia di DI VINCENZO e con l'altrettanto presunta esecuzione, protagonistica, di DI FRANCESCO;

esercitava vigorose pressioni, di tipo ricattatorio, su CICERO, affinché quest'ultimo potesse veicolare l'idea, nei consessi istituzionali, che MONTANTE si fosse attivato per contrastare la mafia di DI FRANCESCO ancor prima di essere da quest'ultimo attaccato, così da suggerire una lettura delle dichiarazioni del neocollaboratore in un'ottica ritorsiva nei suoi riguardi.

§ 2. Gli accessi abusivi al sistema informatico della polizia sul conto di Di Francesco (cenni). Quanto alle circostanze di cui al punto 1), come verrà puntualmente ricostruito infra, MONTANTE poteva giovarsi di una filiera di soggetti attraverso i quali acquisire notizie riservate sul conto dei propri avversari. Il diretto referente di MONTANTE era Diego DI SIMONE PERRICONE, già appartenente alla Polizia di Stato e, grazie alla segnalazione dello stesso MONTANTE, migrato, con maggiore gratificazione economica, in una società privata, AEDIFICATIO s.p.a., che erogava, in favore di Confindustria nazionale, il servizio di sicurezza. Al fine di soddisfare le richieste "investigative" di MONTANTE, DI SIMONE, non più in possesso, dopo il congedo dalla Polizia di Stato, delle credenziali per la consultazione della banca dati del ministero dell'Interno, si rivolgeva, in maniera sistematica, ad un suo ex collega, Marco DE ANGELIS, in servizio presso la squadra mobile di Palermo, il quale gli garantiva l'accesso al sistema informatico da consultare. Infatti, DE ANGELIS, a sua volta, nei periodi in cui non era in possesso delle credenziali proprie, per la loro temporanea scadenza o per il suo trasferimento fuori sede, si rivolgeva a GRACEFFA, il quale, anche lui in servizio presso la squadra mobile di Palermo, forniva puntualmente tutti i dati, riservati, che gli venivano richiesti. Non appare dunque casuale che, come si avrà modo di approfondire postea, nella famosa "stanza segreta” della villa di MONTANTE veniva rinvenuta una enorme mole di atti e dati relativi a terzi, provenienti da tali interrogazioni abusive del sistema informatico. Alcuni di tali dati, per quanto qui rileva, riguardavano proprio DI FRANCESCO e comprendevano i suoi movimenti carcerari e i permessi premio di cui lo stesso aveva fruito durante lo stato detentivo e dopo l'inizio della sua collaborazione con la giustizia. A DI FRANCESCO, infatti, risulta dedicata un'apposita cartella del file excel, contraddistinta dalla iniziali del suo cognome - "DF" - e contenenti dati provenienti da un accesso abusivo alla banca dati SIDET eseguito l'11 giugno 2015, ossia dopo l'apprensione manifestata da MONTANTE per le dichiarazioni del collaboratore. I fatti testé descritti possono essere pienamente compresi, nella loro prospettiva finalistica, soltanto nell'ambito di un'ermeneutica sistematica delle altre vicende che ruotano intorno al binomio MONTANTE-DI FRANCESCO.

§ 3. La presunta congiura ai danni di Montante ordita da Di Vincenzo. Il dossier di Giarratana e Cortese. L'odierno imputato, in sede di riesame avverso il provvedimento di sequestro del 22 gennaio 2016, riteneva di dovere produrre un esposto anonimo, che formalmente era stato indirizzato alla Direzione Nazionale Antimafia e a Confindustria nazionale, in questo caso alla specifica attenzione dell'Avvocato Marcella PANUCCI, nel quale si suggeriva la tesi del complotto, in danno di MONTANTE, da parte di DI VINCENZO e dell'Avv. GENCHI, organizzato nel corso di tre incontri che i due presunti complici avrebbero avuto nel mese di settembre (l'ultimo tra il 17 e il 18 di settembre 2014; vd. produzione difensiva in sede di riesame). La tesi del complotto in pregiudizio di MONTANTE è pregiudicata da una forte friabilità logica. Infatti, se lo scritto indirizzato all'Avv. PANUCCI reca la data del 2 ottobre 2014 e l'ultimo degli incontri, nel quale si sarebbe perfezionato il pactum sceleris in danno dell'odierno imputato, si sarebbe svolto tra il 17 e il 18 settembre 2014, non si comprende come di tale congiura MONTANTE potesse avere parlato nell'email inviata a CICERO già alla data del 16 settembre 2014. Salvo a volere ritenere che non si tratti di una congiura di DI VINCENZO e di GENCHI in danno di MONTANTE, ma di una impostura di MONTANTE che, per coprire i propri rapporti con esponenti mafiosi, di cui da lì a poco DI FRANCESCO avrebbe parlato, era disposto a gettare materiale fangoso sul conto degli asseriti congiurati. Non può certo leggersi sotto la lente della casualità che tutti i soggetti – Tullio GIARRATANO, Umberto CORTESE, Pietro DI VINCENZO, Salvatore IACUZZO, Gioacchino GENCHI, Vladimiro CRISAFULLI, l'Avv. GRIPPALDI, Davide DURANTE - menzionati nell'esposto quali oppositori di MONTANTE, siano stati oggetto, su richiesta di quest'ultimo, dell'attività illecita di raccolta di dati riservati. Ha sostenuto a tal proposito la difesa che MONTANTE, ormai da tempo, aveva ragione di temere iniziative calunniose da parte di soggetti riconducibili alla passata gestione confindustriale, riferibile a DI VINCENZO, tanto vero che Salvatore ALAIMO, già assessore al Territorio e Ambiente della provincia di Caltanissetta, nel 2011 e nel 2012 era stato sentito dalla D.I.A. nissena in merito ad un dossier, che egli avrebbe ricevuto da Tullio GIARRATANO e Umberto CORTESE, diretto contro MONTANTE (cfr. verbale di assunzioni di informazioni da parte del difensore, rese da ALAIMO, il 19 marzo 2016). Tale dossier, in particolare, presenterebbe delle assonanze contenutistiche rispetto all'oggetto delle dichiarazioni di DI FRANCESCO, sicché potrebbe considerarsi normale che MONTANTE, di fronte alla novità delle rivelazioni del collaboratore, potesse temere di esserne il bersaglio. Tale argomentazione difensiva, tuttavia, è fallace, per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo, non è dato comprendere perché MONTANTE avesse immediatamente correlato l'asse DI VINCENZO-GIARRATANO-CORTESE con il pentimento di DI FRANCESCO e, soprattutto, perché avesse ritenuto sine ullo medio che la collaborazione di quest'ultimo con la giustizia fosse pilotata. Infatti, laddove fosse esistita una stabile alleanza tra DI FRANCESCO da un lato e DI VINCENZO, GIARRATANO e CORTESE dall'altro, che avesse partorito, in ipotesi, il dossier di cui si parla, lo scenario che si sarebbe potuto subito prefigurare, diffusa la notizia del pentimento del primo, è che i secondi sarebbero potuti cadere sotto i colpi della collaborazione con la giustizia, per il principio simul stabunt simul cadent. Invece, l'immediato timore di MONTANTE era stato che la collaborazione potesse essere stata finanziata da DI VINCENZO per colpire lui, secondo quel modello di "mecenatismo giudiziario" che egli, secondo DI FRANCESCO, aveva già provato a sperimentare per attaccare IACUZZO. In secondo luogo, la difesa non riesce a spiegare le ragioni della convergenza delle dichiarazioni rese, nei riguardi di MONTANTE, da molteplici collaboratori di giustizia, all'interno di una parabola temporale che inizia nel 2008, ossia ben prima del presunto dossier e della collaborazione di DI FRANCESCO (successiva all'operazione Co/po di grazia dell'11 marzo 2014), e si completa nel 2016. Basti pensare, ad esempio, alle dichiarazioni di Pietro RIGGIO del dicembre 2008 sulla costruzione degli appartamenti, da parte di una società di MONTANTE, a San Cataldo, con la connessa parentesi "autorizzatoria" negoziata con la famiglia mafiosa locale grazie alla mediazione della famiglia mafiosa di Serradifalco. Tali dichiarazioni, infatti, sia pure con delle divergenze (scarsamente significative), venivano confermate da DI FRANCESCO, ma diversi anni dopo (maggio 2016), conseguendone l'impossibilità di un accordo preventivo animo nocendi. Inoltre, come visto, il primo a parlare della vicinanza di MONTANTE alla famiglia mafiosa degli ALLEGRO è BARBIERI, nel corso di un interrogatorio dell'aprile 2009, con dichiarazioni rivelatesi convergenti, sette anni dopo, con quelle di Ciro VARA (2016), sicché il tentativo difensivo di liquidare l'indagine come il portato di una raffinata strategia calunniatoria, che vede al vertice l'Ing. DI VINCENZO, non regge all'urto delle complessive acquisizioni probatorie.

La tentata violenza ad Alfonso Cicero. La Repubblica il 31 ottobre 2019. Volendo tracciare un bilancio provvisorio delle acquisizioni fin qui esaminate, il quadro che si profila è quello di una spiccata attitudine di MONTANTE alla manipolazione della realtà, mediante manovre di varia natura, unificate, sul piano teleologico, dall'obiettivo di precostituire delle prove a sé favorevoli. Rilevante in tal senso appare anche la vicenda delle pressioni da lui rivolte nei confronti di CICERO, dirette ad indurlo a dichiarare falsamente che le denunce di quest'ultimo, in commissione antimafia, circa la "mafiosità" di DI FRANCESCO fossero state ispirate e volute dallo stesso MONTANTE (cfr. memoriale di CICERO del 2 novembre 2015, fatto proprio dallo stesso in occasione dell'atto istruttorio compiuto nel medesimo giorno). In questo modo, come spiegato supra, si sarebbe potuto incrinare il giudizio di credibilità del collaboratore di giustizia, in ipotesi mosso ad accusare l'imprenditore di Serradifalco da mero spirito revanscistico. Tanto sarebbe dovuto emergere, segnatamente, da una lettera retrodatata rispetto all'audizione di CICERO in commissione antimafia, avvenuta il 10 luglio 2014, che lo stesso CICERO avrebbe dovuto predisporre e consegnare a MONTANTE. Il senso della retrodatazione della lettera di coglie nell'analisi comparativa degli interventi di CICERO (10 luglio 2014) e MONTANTE (5 giugno 2014) nelle rispettive audizioni in commissione parlamentare antimafia, posto che soltanto nelle parole di CICERO, e non anche in quelle di MONTANTE, risultano dichiarazioni relative agli illeciti commessi da DI FRANCESCO in seno all'ASI di Caltanissetta (resoconti stenografici acquisiti agli atti). […] Nessun cenno a DI FRANCESCO risulta invece dall'audizione di MONTANTE, il quale, sebbene avesse illustrato le proprie iniziative nell'attività di presunto contrasto al crimine organizzato di tipo mafioso, tra codici etici e rating di legalità, e i risultati asseritamente conseguiti (un elevatissimo numero di denunce per estorsione), ma non documentati, nulla aveva riferito sullo specifico conto di DI FRANCESCO, essendosi limitato ad elogiare lo sforzo di detersione svolto da CICERO all'interno dei consorzi A.S.I. Peraltro, come si evince dal memoriale dell'ex presidente dell'I.R.S.A.P., il mezzo di esercizio della coazione psicologica in suo danno, consumata nel periodo aprile-giugno 2015, sarebbe stata costituita dalla ostensione allo stesso, da parte di MONTANTE, di una corposa raccolta di messaggi di testo che quest'ultimo aveva ricevuto da personalità istituzionali di spicco, nonché dallo stesso CICERO e da Marco VENTURI […]. Le affermazioni di CICERO trovano un immediato riscontro nell'immenso materiale documentale rinvenuto nella disponibilità di MONTANTE. In particolare, all'interno del file excel di cui si è già parlato, erano annotate svariate informazioni sul conto sia dello stesso CICERO che di VENTURI (ma anche di tantissimi altri personaggi), dei quali MONTANTE aveva l'abitudine di appuntare anche lo scambio di messaggi o di chiamate telefoniche. La raccolta di tali dati si era ovviamente intensificata dopo che, nel settembre del 2015, CICERO e VENTURI avevano preso pubblicamente le distanze da MONTANTE, consentendo l'innesto di nuove ipotesi di reato su quella originaria di concorso esterno in associazione mafiosa. Si richiama, per una ricognizione dei dati raccolti da MONTANTE sul conto di CICERO, ma anche di VENTURI, un passo dell'ordinanza cautelare (da p. 669), che possiede un prevalente carattere compilativo dei dati oggettivi partoriti dalle indagini: Si considerino, a tal proposito, ancora una volta le circostanze oggettivamente desumibili dalla documentazione sequestrata: all”interno del file excel è dato rintracciare due cartelle intitolato proprio al “CICERO” ed al “VENTURI” che, come di consueto, sono riepilogative di parte delle annotazioni già contenute nella cartella denominata “TUTTI”. […] Si tratta di una mole di informazioni davvero impressionante, frutto della paziente, certosina e pressoché quotidiana registrazione di incontri di natura istituzionale e privata, appuntamenti, eventi desumibili da documentazione di cui il MONTANTE dispone e che dura, ormai, da numerosi anni. Quanto al VENTURI colpisce, poi, il contenuto di diversi appunti in cui sono riportate informazioni tratte da atti (verbali della camera di Commercio, di Confindustria e così via) che il MONTANTE ha evidentemente conservato proprio al fine di poterli catalogare con le modalità di cui si sta dando conto in questa sede. La circostanza trova riscontro anche sulla scorta della documentazione sequestrata nella casa di contrada Altarello, ove erano custodite: una cartellina di colore celeste con su apposto un post-it recante vergata a mano la seguente dicitura “copia caso VENTURI”, al cui interno, tra le altre cose, vi era un pen drive sul quale è riportata la dicitura (del pari scritta a mano) “verbali conf sicilia dove c'è VENTURI;

una carpetta di colore azzurro sul quale vi è, pure in tal caso, un post-it con la scritta a mano “Fascicolo Venturi” contenente numerosi articoli di stampa, per un arco di tempo compreso tra il 2012 ed il 2015, alcuni dei quali con parti evidenziate;

due e-mail indirizzate dal VENTURI ad un soggetto il cui nominativo è stato significativamente cancellato e che, per l'epoca in cui sono state inviate (il 28.11.2015 ed il 2.12.2015, dunque dopo l'intervista dallo stesso rilasciata a “Repubblica”) ed il loro contenuto (teso ad evidenziare circostanze fortemente critiche nei confronti di soggetti strettamente legati al MONTANTE), si può escludere che siano state direttamente inoltrate dal VENTURI medesimo proprio all'imprenditore di Serradifalco. In altre parole, un soggetto di cui non si conoscono allo stato le generalità, aveva ricevuto quelle e-mail ed aveva poi provveduto celermente a farle avere al MONTANTE;

stralcio della relazione redatta dall'amministrazione giudiziario (Avv. CAPPELLANO SEMINARA) a seguito della immissione in possesso dei beni sequestrati nell'ambito del procedimento n. 1062/06 R.G.N.R. Mod. 21 e nr. 1028/06 R. G.I.P., ove, sul primo foglio, è annotato a mano, per ragioni in verità enigmatiche, proprio il nominativo di “VENTURI”.

Si potrà poi, di certo, rilevare un tratto comune nelle annotazioni appena riportate riguardanti il CICERO ed il VENTURI e cioè quelle inerenti la puntuale trascrizione da parte del MONTANTE di telefonate ed sms (riportati anche nel contenuto) da costoro inviatigli da epoca successiva alla pubblicazione dell'articolo di “Repubblica” in cui si dava notizia della indagine nei suoi confronti e sino al momento in cui anche costoro prendevano posizione pubblica nei suoi confronti.

E' innegabile, peraltro, che la prospettiva di tale insolita collezione fosse di tipo ricattatorio, come correttamente intuito da CICERO, tanto vero che il 19 luglio 2015, in una occasione in cui egli si era trovato nell'abitazione di Serradifalco di MONTANTE, quest'ultimo aveva ad un tratto esordito dicendo che era sua intenzione “far fallire gli amici di Caltanissetta”, nel contesto nel quale alludeva ad un pranzo o a cena tra Marco VENTURI ed un suo “nemico” (cfr. memoriale di CICERO del 2 novembre 2015). La correttezza della interpretazione di CICERO del gesto della ostensione di quei messaggi si evince anche da un fatto successivo, avvenuto dopo la formale rottura dei suoi rapporti con MONTANTE, quando lo stesso CICERO e VENTURI avevano già reso agli inquirenti ampie dichiarazioni accusatorie nei confronti dell'imprenditore di Serradifalco, precedute da una loro anticipazione mediatica. In particolare occorre accennare ad un pranzo, sul quale si ritornerà diffusamente postea, organizzato il 7 gennaio 2016 nella villa di MONTANTE, sita a Serradifalco, con la partecipazione dei Col. D'AGATA (coimputato per il quale si procede separatamente) e di Michele TROBIA, con le rispettive consorti. Ebbene, ai termine del pranzo, TROBIA, nel viaggio di ritorno a casa, commentava, in auto con la moglie, alcune questioni che erano state oggetto di conversazione nel corso del convivio, tra cui la presentazione di una denuncia a carico di CICERO per una questione afferente un brokeraggio assicurativo, attribuendo a MONTANTE la regia occulta della denuncia: "...abbiamo parlato e io ho detto...u sanu iddri che cosa è successo...lo sanno...dici hai ragione, iddru mi dissi...che cosa è successo tra di loro se lo sanno loro...meno male...perché iddru con GIUFFRE' in questo momento sono cazzo e culo...in quanto il cugino di GIUFFRE', questo si chiama MONTALBANO, che era diretturi di una camera di...di di...di una confindustria drucu...di Assindustria...drucu...di nà cosa dill'industriali... [...]...di un consorzio degli industriali...si trasferì ad Agri...eh...a Trapani e ha fatto un brocheraggio di un 'assicurazione di duecento ottanta milioni di euro...CICERO...hanno fatto una denunzia tramite GIUFFRE' per...il cugino di GIUFFRE'... [...] ...si è servito del cugino... [...] ...per fare una denunzia..." (conv. progr. n. 326 del 7 gennaio 2016, trascritta nella C.N.R. n.1092/2017 cit., p. 636 e s.). Di analogo tenore la conversazione intrattenuta il giorno seguente da un'altra commensale, Sara BATTIATO, moglie del Coi. D'AGATA, la quale, dialogando al telefono con una terza persona, affermava expressis verbis che la denuncia contro CICERO costituiva una risposta al tradimento che quest'ultimo aveva inferto a MONTANTE, rendendo dichiarazioni sul suo conto: "...e quindi, comunque vabbè niente e pol, vabbè al solito così... iddru non ne ha parlato delle sue cose perché lui sai ha avuto quell'indagine... mmh... ha parlato di quello di, di Alfonso Cicero, dice certo noi l'abbiamo denunciato... te... te... te... l'avete denunciato? No dice sai ha dato eh... una.... ad una agenzia di brokeraggio duecentottanta mila euro di incarichi dice, quindi l'abbiamo denunciato subito capito la botta e risposta [...] tu denunci a me io denuncio a te [...] anche quello, dice che è tornato a fare l'impiegato all'ASI di Caltanissetta, dici non era manco un funzionario dici è un tintu impiegato... dice d'altronde con quelle competenze comandava pure te! E dice... è un Geometra lo sai? Ho detto: e vabbè Geometra però ho detto sai, un pocu di carattere ci l'aveva.. ah... ah... ah..." (conv. progr. n. 1426 dell'8 gennaio 2016, trascritta nella C.N.R. n. 1092/2017 cit., p. 657). Evidentemente non è questa la sede nella quale discettare della fondatezza della denuncia presentata contro CICERO per iniziativa (non troppo) occulta di MONTANTE. Tuttavia, da tale vicenda non possono non trarsi elementi di convincimento circa l'atteggiamento ritorsivo del potente industriale nei confronti di coloro che egli considerava i suoi traditori, nonché, evidentemente, sulla sua capacità di utilizzare le conoscenze, che possedeva sul conto di terzi, per colpirli mediante azioni mirate. E di ciò CICERO era perfettamente consapevole, tanto che, in data 3 agosto 2015 (conv. progr. 3068; cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit., p. 343 e ss., p. 385), mentre erano in corso i fermenti preliminari alla collaborazione sua e di VENTURI con gli investigatori, egli diceva, tra l'altro, di temere azioni di falso dossieraggio: “Sai cosa significa domani? Succede una cosa?...Succede una cosa! Perché poi la corsa non è per delegittimare da un punto di vista civile e morale... perché sai...io su questo ho poca paura perché pago i miei atti...quindi su questo non so...sù capaci di fari dossier falsi...ascuta! Un mi interessa nà minchia!...da questo punto di vista perchè...cose false possono essere rispetto a tutto quello che è una verità! Io ho paura poi di altro...mi segui o no? Io, mia moglie e i miei figli... per non dire che poi dovrebbe cominciare ad avere di nuovo paura lui perché...da un po' di anni... onestamente...non è sotto rischio e non c'è...ma da quel momento in poi ci diventerebbe...ma nò accussì! Con il rischio concreto pirchì dici...cà sù Marco e Alfonso ca mi stannu innu a cunsumari!"

Pertanto, se sul piano dell'attendibilità, le dichiarazioni di CICERO appaiono avvalorate dall'effettivo rinvenimento, nella disponibilità di MONTANTE, della raccolta di messaggi telefonici ricevuti, sul piano della credibilità dello stesso CICERO giova segnalare che egli non poteva errare sulla interpretazione da attribuire alla ostensione di quei messaggi, in quanto conosceva perfettamente il modus operandi di MONTANTE, avendolo affiancato per un numero significativo di anni in diverse iniziative. E del resto, che fosse quello il senso del gesto di MONTANTE, emerge, come detto, dalla manifestazione dei proposito, da parte sua e davanti a CICERO, di “far fallire gli amici dl Caltanissetta". La difesa di MONTANTE provava a smontare la tesi accusatoria, sostenendo che l'odierno imputato non avesse alcuna necessità di dimostrare il proprio impegno di contrasto della mafia mediante lettere retrodatate da estorcere a CICERO, in quanto già il Coi. Gaetano SCILLIA, capo centro D.I.A. di Caltanissetta, in occasione del comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica tenutosi nella medesima sede il 21 ottobre 2013, aveva elogiato i meriti dell'imprenditore nella lotta ai crimine organizzato. Orbene, a parte ogni considerazione sulla speciale vicinanza di SCILLIA a MONTANTE, il quale, a tacer d'altro, ricevette dal primo una lista di favori da soddisfare e ne appoggiò anche il trasferimento a Reggio Calabria (vd. Infra), deve rilevarsi come, in ogni caso, la difesa non sia riuscita a dimostrare l'esistenza di un solo j'accuse di MONTANTE contro DI FRANCESCO, sicché la logica retrostante la pretesa di elaborazione della lettera retrodatata rimane assolutamente inalterata. Un conto, infatti, sono le denunce, con un diverso grado di genericità (o di specificità), rivolte ad un sistema malato e/o mafioso, che possono anche risolversi in meri proclami, un altro conto sono le denunce rivolte contro singoli individui, con conseguente reale esposizione a rischio personale: dalle seconde possono originare indagini; dalle prime, tra commosse espressioni di solidarietà e appello all'unità delle istituzioni, abilmente esaltati dalla saggia penna di qualche giornalista, possono derivare le premesse per una pericolosa convergenza tra diversi apparati pubblici e tra questi e potenti associazioni private, in cui gli attestati di reciproca mutualità si risolvono nell'attribuzione generale di una patente di legalità per percorrere i corridoi dell'immunità ("Alcune volte mi ricordo di comitati provinciali che si sono tenuti alle 18:00 di domenica su input del senatore Lumia, il quale era allora presidente della Commissione Antimafia se non ricordo male, e dava disposizioni di riunirci alle 18:00 della domenica, ed erano presenti Montante, Venturi... in occasione delle minacce ricevute, e tutti lì, poverini, che piangevano e si abbracciavano perché volevano rimanere uniti, tutti insieme "dobbiamo dargli forza”, e quindi... Mi ricordo almeno due volte di aver partecipato a... una volta sicuramente, ma un'altra volta... Una volta erano presenti Montante, Venturi ed erano presenti anche altre persone, se non sbaglio anche Tano Grasso, a queste riunioni, nelle quali si dava atto delle minacce che ricevevano e che quindi dovevamo essere più all'erta...”, ARDIZZONE, esame del 7 dicembre 2018). Pertanto, cosi confutata l'argomentazione difensiva, in quanto del tutto priva di fondamento, deve concludersi che l'accusa rivolta da CICERO a MONTANTE di tentata violenza privata sia ampiamente provata sul piano storico-fattuaie, a fortiori in quanto, come si vedrà postea, nel corso del processo sono emersi elementi che confermano in modo inconfutabile la generale credibilità della persona offesa e l'assoluta lealtà con cui la stessa ha riversato le proprie conoscenze agli inquirenti.

La “contro inchiesta” del Cavaliere Montante. La Repubblica l'1 novembre 2019.

PRIMI ATTI DI INQUINAMENTO DEL PANORAMA INVESTIGATIVO. Mentre i collaboratori di giustizia rendevano dichiarazioni sul conto di MONTANTE, questi avviava una raccolta di informazioni nei loro confronti, in una sorta di controspionaggio rispetto all'attività investigativa. Infatti, già il 5 marzo 2010, MONTANTE ordinava ed otteneva l'accesso abusivo al sistema SDI della Polizia di Stato nei riguardi di coloro che - Aldo RIGGI, Pietro RIGGIO e Carmelo BARBIERI - soltanto nel 2015 si scoprirà, per effetto della discovery giornalistica, essere stati i primi dichiaranti ad averlo accusato di sinistre relazioni con appartenenti alla mafia (cfr. nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 161 del 19 gennaio 2017, attestante l'esecuzione materiale di tali accessi ad opera di GRACEFFA; sulla riconducibilità di tali accessi alla committenza di MONTANTE, vd. infra). Ciò può essere spiegato soltanto ammettendo che MONTANTE, in quel periodo, avesse beneficiato di una gravissima fuga di notizie, coperte dal segreto investigativo, da parte di una fonte estremamente qualificata, come emerge dalla precisione chirurgica della notizia pervenutagli. Infatti, mentre la divulgazione giornalistica del 2015 inseriva erroneamente anche Crocifisso SMORTA tra i collaboratori che avevano reso dichiarazioni nei riguardi dell'imprenditore di Serradifalco, quest'ultimo, nel 2010, aveva ricevuto la notizia in maniera esatta, tanto da escludere il citato SMORTA dal novero dei soggetti "spiati”. Si tratta, com'è evidente, di circostanze particolarmente inquietanti, che dimostrano l'elevata pervasività del potere esercitato da MONTANTE, capace di infiltrarsi persino all'interno del palazzo di giustizia.

§ 2. L'ingerenza di Montante nelle sommarie informazioni rese dal fratello. Nell'ambito di questi spasmodici tentativi di blindare il proprio sistema di potere, captando le notizie di indagine che lo interessavano e sviluppando i dati che gli pervenivano dagli accessi illegali alle banche dati in uso alle forze di polizia, MONTANTE cercava, altresì, di inquinare l'attività investigativa ingerendosi nelle dichiarazioni che persone informate dei fatti, allo stesso legate da rapporti di prossimità di varia natura (parentale, professionale, associativa, etc), avrebbero reso agli inquirenti. Tanto si evince dai dialoghi intercettati e riprodotti nella C.N.R. n. 1092/2017 (da p. 49), che mette in luce, in primo luogo, lo stretto monitoraggio e il condizionamento posto in essere da Antonio Calogero MONTANTE nei riguardi del fratello, Gioacchino, convocato dagli inquirenti per essere sentito sulle alcune vicende estranee all'oggetto dell'odierna trattazione. Al termine dell'espletamento del previsto atto di P.G. (ibidem), infatti, venivano captate una serie di conversazioni che assumono speciale pregnanza ai fini del thema probandum e che sono riportate, tramite mutuazione dalla citata informativa, nell'ordinanza cautelare (da p. 271), di seguito riprodotta nelle parti meramente ricognitive del contenuto delle menzionate conversazioni ed intervallate da osservazioni critiche di questo giudice: Ed invero, in data 15.6.2015, (progr. 2064 delle ore 11.44), il MISTRETTA chiedeva a MONTANTE Gioacchino di richiamarlo su un”utenza fissa - intestata alla Provincia Regionale di Caltanissetta, ove il MISTRETTA ha un incarico - senza aggiungere altro. […] Il tardo pomeriggio dello stesso giorno in cui MONTANTE Gioacchino veniva escusso in Procura, Antonio Calogero MONTANTE chiamava il MISTRETTA (progressivo nr. 3160 delle ore 18.47) e subito gli rappresentava di “averlo cercato”, chiedendogli, poi, dove si trovasse e se ci fossero “novità”. Il MISTRETTA rispondeva in maniera evasiva (“solito tram tram della vita quotidiana”, da intendersi, verosimilmente, come “tran tran”), sicché il MONTANTE tornava a ripetergli, per ben due volte, che lo aveva “cercato” ed a quel punto i due chiudevano la comunicazione, ripromettendosi di “sentirsi”. […] Orbene, onde correttamente comprendere il senso della sopra richiamata conversazione telefonica, occorre sinteticamente rappresentare che, sempre dal complesso delle intercettazioni eseguite, si è potuto rilevare come il MONTANTE ed i soggetti allo stesso strettamente collegati abbiano costantemente attivato utenze di telefonia mobile intestate a terze persone - e dunque agli stessi non direttamente ed immediatamente riconducibili- o, comunque, ne abbiano utilizzate alcune (anche se a loro formalmente intestate) solo per intrattenere conversazioni di natura riservata, pur continuando a mantenere ed utilizzare le utenze, per cosi dire, “ufficiali”. Inutile sottolineare che, anche in tal caso, si è trattato di una condotta posta in essere al fine di sfuggire le indagini che si stavano conducendo nell'ambito del procedimento e si dirà poi diffusamente come la stessa sia stata posta in essere a seguito di una grave fuga di notizie circa le attività condotte da questo Ufficio. Laddove si tenga, pertanto, presente tale evenienza, si potrà ben comprendere che la telefonata di cui è appena dato conto aveva rappresentato nient”altro che la sollecitazione rivolta dal MONTANTE al MISTRETTA (ripetendogli più volte che lo aveva cercato) per indurlo a ricontattarlo utilizzando proprio l'utenza in quel momento dedicata alle conversazioni di natura “riservata”. Pochi minuti dopo, infatti, il MISTRETTA (utilizzando l'ulteriore utenza nella sua disponibilità avente nr. ++++++) nuovamente contattava il MONTANTE, questa volta sull'utenza avente nr. ++++++++ intestata a GHERARDI Maria Grazia (progressivo nr. 29 delle ore 18.-50 del 17.6.2015). Il MISTRETTA subito riferiva al MONTANTE di essere stato da “Gioacchino” e di avere anche portato con sé un apparecchio per poter registrare la conversazione con questi intrattenuta. Alla sollecitazione del MONTANTE, che intendeva avere notizie sull'andamento dell'atto istruttorio (“ma su di me tranquillo diciamo, com'è”), il MISTRETTA operava un breve excursus di quanto appena appreso ed in particolare riferiva che:

Gioacchino si era anche adirato nel corso dell'atto istruttorio, sottolineando che non reputasse giusto ciò che stesse passando il fratello; a quel punto era stato bloccato, poiché si trattava di un discorso non pertinente rispetto all'oggetto della sua escussione, dal che il MISTRETTA aveva desunto che l°audizione non fosse finalizzata ad acquisire notizie sul suo interlocutore;

Gioacchino aveva negato di avere mai pagato somme di danaro a titolo estorsivo e tale versione aveva mantenuto ferma anche allorché gli era stato fatto presente che avrebbe rischiato di commettere un reato qualora avesse riferito circostanze non corrispondenti a verità, ammettendo solo di conoscere il DI FRANCESCO, in quanto compaesano, ma col quale aveva però interrotto ogni tipo di rapporto dal momento in cui aveva saputo che era stato tratto in arresto;

a dire del MISTRETTA, Gioacchino si sarebbe anche alterato poiché gli erano state poste diverse domande sull”argomento, volte anche a verificare se avesse mai assunto persone alle sue dipendenze, in specie tale PETIX, in relazione alla quale aveva risposto di averla effettivamente assunta, ma solo per un breve periodo durante le festività natalizie e perché amica di famiglia;

infine, il MISTRETTA evidenziava al MONTANTE che il fratello era rimasto molto tranquillo, aveva risposto in maniera sicura e che all'atto aveva partecipato anche una “donna della Questura”.

[…] Subito dopo aver chiuso la telefonata, il MONTANTE contattava ancora una volta il MISTRETTA (progressivo nr. 310 delle ore 18:55 del 17.06.2015) - anche in tal caso utilizzando l'utenza riservata - e gli chiedeva ulteriori precisazioni, che si rivelavano, però, estremamente importanti ai fini del procedimento perché consentivano di dimostrare come Gioacchino MONTANTE (a conferma del fatto che il contatto telefonico del 15 .6.20l 5 col MISTRETTA di cui si è detto poc'anzi avesse a suo fondamento proprio la convocazione dello stesso Gioacchino MONTANTE presso questi Uffici) fosse stato, prima della sua escussione, ampiamente imbeccato su ciò che dovesse (o non dovesse) riferire al Pubblico Ministero. Il che, a ben vedere, contrasta irrimediabilmente con quanto i due si erano detti solo pochi istanti prima e cioè che non avevano “niente da nascondere. Il MONTANTE, infatti, chiedeva conferma al MISTRETTA:

se il fratello fosse riuscito a riferire “quella cosa che io manco parlo con nessuno, che non saluto nessuno” ed il MISTRETTA evidenziava che ne aveva fatto cenno e che aveva anche precisato di non avere più rapporti col fratello Antonio, ma tornava, però, a ribadire che l'atto istruttorio non aveva avuto alcuna attinenza con la sua posizione;

se fossero state poste domande che riguardavano la “ITALIA Costruzioni” (di cui si è detto in precedenza) ed il MISTRETTA rispondeva che era stato chiesto solo ciò che poteva esclusivamente riguardare il fratello (“si si solo gli hanno chiesto dove lei lavorava, dove ha lavorato, dove lavora e ci chiese si prima era ad Asti ”), ma nulla però che potesse attenere a vicende che lo riguardassero. […] L'attenzione del MONTANTE nei confronti dell'atto istruttorio espletato dal fratello continuava a manifestarsi anche a diversi giorni di distanza, avendo interlocuzioni sul punto sempre con Vincenzo MISTRETTA e sempre utilizzando l'utenza di natura “riservata” . Ed invero, in data 24.6.2015, (progressivo nr. 3474 delle ore 08.50) il MONTANTE telefonava al MISTRETTA ed ancora una volta utilizzava il linguaggio allusivo di cui si è detto poc'anzi, dicendogli che lo aveva cercato. […] Puntualmente, dopo pochi minuti, i due si sentivano sulle rispettive utenze “riservate” (conversazione nr. 7 delle ore 08.53 del 24.6.2015) ed il MONTANTE chiedeva al MISTRETTA se il fratello fosse stato avvertito della facoltà di non rispondere. MISTRETTA rispondeva di non saperlo al ché il MONTANTE gli impartiva precise disposizioni di andarglielo a chiedere poiché si trattava di un fatto tecnico importante. […] Sia detto per inciso - e la circostanza emerge anche in maniera chiara dal contenuto delle intercettazioni di cui si sta dando conto in questa sede - l°atto istruttorio cui è stato sottoposto Gioacchino MONTANTE ha riguardato esclusivamente vicende che lo interessavano direttamente ed alcuna domanda gli è stata posta su fatti che potessero avere una qualche refluenza sulla posizione del fratello. Orbene, il contenuto delle telefonate sin qui evidenziate dimostra, inequivocabilmente, due circostanze: Gioacchino MONTANTE è stato, prima dell'atto istruttorio espletato presso questo Ufficio, avvicinato da Vincenzo MISTRETTA al fine di essere istruito sul contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere, nella convinzione che la sua convocazione fosse stata disposta per approfondire fatti che potessero riguardare la posizione del fratello Antonio Calogero. A tal proposito è estremamente chiaro il contenuto della seconda telefonata intercorsa tra Antonio MONTANTE ed il MISTRETTA il giorno in cui è avvenuta Pescussione di Gioacchino MONTANTE. Il MONTANTE, all'evidenza, aveva ragione di temere dall'esito di quell'atto ed appare significativo, a tal proposito, innanzitutto che si sia premurato di sapere se fossero state chieste al fratello circostanze relative alla ITALIA COSTRUZIONI, che, si ricorderà, è stata oggetto delle dichiarazioni rese dal collaboratore Aldo RIGGI. In secondo luogo, può dirsi altrettanto significativo che, tra le cose sulle quali Gioacchino MONTANTE era stato sollecitato a riferire a questo Ufficio, vi fosse anche quella secondo cui egli non aveva più da tempo rapporti col fratello. Si tratta di circostanza chiaramente non rispondente al vero, come dimostrato non solo dagli approcci avuti col MISTRETTA dopo l'escussione in questi Uffici proprio per conto di Antonio Calogero MONTANTE, ma anche da ulteriori acquisizioni procedimentali. Si consideri, infatti, il contenuto di due telefonate registrate in epoca di molto successiva all'atto istruttorio espletato nei confronti di Gioacchino MONTANTE, allorché questi, in data 24.3.2016, contattava GIARDINA Carmela (progr. nr. 10522 delle ore 9. 5813) chiedendo dove si trovasse il fratello, avendo necessità di parlargli. […] Appena due minuti dopo, Antonio Calogero MONTANTE richiamava il fratello utilizzando sempre l”utenza della GIARDINA (conversazione nr. 10523 del 24.3.2016) e, dopo aver appreso da questi che avesse bisogno di incontrarlo subito per parlargli di “cose personali di travagliu, gli dava appuntamento, di lì a poco, all'ingresso della città di Caltanissetta. […] Sia detto per inciso, le modalità con le quali è avvenuto il contatto tra i due fratelli (su un'utenza intestata alla GIARDINA) e la decisa contrarietà mostrata da Antonio Calogero MONTANTE a chiamare il fratello (come questi lo aveva sollecitato a fare una volta che fosse arrivato a metà strada tra Serradifalco e Caltanissetta), vieppiù dimostrano come l'imprenditore di Serradifalco volesse evitare forme di comunicazione che consentissero agli inquirenti di disvelare l'esistenza di attuali rapporti con il fratello Gioacchino. L'oggettivo contenuto delle intercettazioni testé riportate, oltre che l'utilizzazione di schede telefoniche, da parte degli interessati, intestate a terze persone, non consente di interpretare gli accadimenti in un senso diverso da quello riconosciuto in fase cautelare e, ancor prima, dagli investigatori, in quanto emerge pacificamente che MISTRETTA era la persona che fungeva da "ponte dl comunicazione" tra due soggetti - i fratelli MONTANTE - che avevano concordato la strategia di simulare l'intervenuta interruzione dei loro rapporti (del resto, se l'interruzione fosse stata reale, non si spiegherebbe, per esempio, la loro comunicazione telefonica del 24 marzo 2016, progr. n. 10523). Ed è altrettanto evidente che le comunicazioni tra i fratelli, mediate strumentalmente da MISTRETTA, avessero ad oggetto il contenuto della deposizione resa da uno dei due, Gioacchino MONTANTE, agli inquirenti, al fine di verificare se quest'ultimo avesse reso le dichiarazioni volute dal fratello Antonio Calogero e, più in generale, al fine di conoscere il contenuto dell'atto istruttorio. Emerge, peraltro, come una delle principali preoccupazioni di Antonio Calogero MONTANTE fosse legata al pericolo che, escutendo il fratello, affiorassero dei riscontri alle dichiarazioni di Aldo RIGGI (riportate antea) - come quelle relative alle commesse affidate, dalla società ITALIA Costruzioni, riconducibile ai fratelli MONTANTE, all'impresa di trasporti di Vincenzo ARNONE - o a quelle di Pietro RIGGIO sull'intenzione di sottoporre Gioacchino MONTANTE ad estorsione. Peraltro, con riferimento a tale ultima vicenda, si arguisce agevolmente la ragione per cui si intendeva accreditare l'idea di una frattura nei rapporti tra i due fratelli, essendo essa diretta ad escludere che le circostanze che avessero interessato l'uno, potessero spiegare rilevanza pregiudicante nei riguardi dell'altro. Infine, non può essere messo in dubbio il comune intento dei fratelli MONTANTE di monitorare gli sviluppi delle indagini, atteso che Gioacchino MONTANTE riferiva a MISTRETTA ciò che effettivamente aveva dichiarato agli inquirenti. Inoltre, nella medesima data in cui MISTRETTA informava l'odierno imputato delle dichiarazioni rese dal fratello agli investigatori, risulta un'annotazione nell'ormai famoso file excel, che, pur nella sua laconicità espressiva (“fratello"), appare significativa se letta in connessione con il contenuto delle intercettazioni testé riportato. Si riproduce il passo dell'ordinanza (da p. 283) che evidenzia tali ultimi aspetti della vicenda: Orbene, non rimanere che evidenziare, a questo punto, come le telefonate intercorse tra il MISTRETTA ed il MONTANTE in data 17.6.2015 (in cui il primo aveva ragguagliato il secondo sull'andamento dell'atto istruttorio) fossero il frutto di ciò che effettivamente il MISTRETTA aveva potuto apprendere da Gioacchino MONTANTE. Si consideri a tal proposito che:

Vincenzo MISTRETTA il pomeriggio di quel giorno si era recato, a bordo della sua autovettura, presso l'officina del MONTANTE Gioacchino (cfr. Conversazioni ambientali progr nr. 86, 87 e 8815 registrate sulla macchina del MISTRETTA, solo per l'estrapolazione del dato GPS ivi installato);

le informazioni riversate dal MISTRETTA ad Antonio Calogero MONTANTE corrispondono effettivamente a quanto dichiarato da Gioacchino MONTANTE a questo Ufficio, […].

A fronte della limpidezza del quadro probatorio, non è possibile ritenere sussistenti apprezzabili margini dubitativi circa l'effettiva attuazione, da parte dell'odierno imputato MONTANTE, di pratiche rivolte ad indottrinare il fratello sulle risposte da rendere agli inquirenti, che dovevano sentirlo, e a verificare, a posteriori, l'effettiva coerenza delle dichiarazioni rese da quello rispetto alle istruzioni ricevute.

Linda Vancheri e l'inquinamento delle prove. La Repubblica il 2 novembre 2019. Per tratteggiare, con pennellate più nette, la personalità di MONTANTE e la sua capacità di inquinamento delle indagini, esercitata all'ostinato fine di detergere la propria immagine dalle imbarazzanti macchie della contaminazione mafiosa, non può non accennarsi alle ulteriori manovre che precedevano la deposizione di Linda VANCHERI, collaboratrice di MONTANTE all'interno dell'associazione degli industriali e da lui voluta prima al vertice dell'assessorato regionale alle attività produttive, poi in Confindustria nazionale, grazie all'avallo dell'allora presidente, Giorgio SQUINZI.

In ordine all'ascendente esercitato da MONTANTE su Linda VANCHERI, basta ricordare il contenuto di una conversazione tra presenti captata, all'interno della vettura di Carmela GIARDINA, in data 27 giugno 2015 (progr. n. 563 delle ore 20.21; cfr. all. n. 30 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.) ed intercorsa tra lo stesso MONTANTE e VANCHERI, da cui si evince come fosse stato proprio il primo l'artefice delle dimissioni della seconda dalla carica di assessore regionale, previe opportune garanzie, da parte di Giorgio SQUINZI e di Marcella PANUCCI, direttore generale di Confindustria, circa la sua cooptazione nel massimo livello confindustriale, con conseguente elevata gratificazione economica. […] Peraltro, la conferma che MONTANTE fosse stato il regista della “volata” (per richiamare il titolo della biografia-romanzo - La volata di Calò - dedicato da Gaetano SAVATTERI al nonno di MONTANTE, Calogero) di VANCHERI si rintraccia nell'eloquentissimo file excel reiteratamente menzionato, nel quale, alla data del 10 giugno 2015, ossia diciassette giorni prima della conversazione sopra riportata, è annotato che "Squinzi comunica a Panucci per Linda”, mentre, alla data del 22 luglio 2015, dunque poco meno di un mese dopo quella conversazione, risulta annotato che “si dimette Linda da assessore (lettera del 21/07/2015)". […] Ciò posto, non ci si può esimere da una riflessione, anche al fine di prevenire indebite strumentalizzazioni sul punto. Evidenziare la progressione economica di VANCHERI sotto la spinta propulsiva di MONTANTE non vale ad introdurre un giudizio dispregiativo di carattere “politico” sulla prima, la quale, in nome del proprio interesse egoistico, non esitava ad abbandonare l'assessorato regionale alle attività produttive. Non è questa la sede, infatti, per l'espressione di giudizi di etica politica, o il luogo nel quale contrastare, con animosità fondamentalista, l'eventuale movente individualistico o lucrativo nelle carriere politiche o amministrative. Né, d'altro canto, può essere censurato il fatto in sé dell'aggregazione politica o associativa tra più soggetti, magari legati semplicemente dalla convergenza di interessi egoistici, tra i quali si innescano meccanismi solidaristici. E' però questo il luogo nel quale sottolineare che la dipendenza, dal centro di potere di MONTANTE, della sorte di molte carriere, compresa quella di Linda VANCHERI, finiva per modellare tanti soldati (nel senso etimologico del termine, di soggetti che operano per denaro o, più in generale, per uno scopo remunerativo, non necessariamente patrimoniale) al servizio del comandante, disposti a conformare la propria condotta alle sue direttive. Ciò spiega ampiamente la capacità, dimostrata da MONTANTE, di controllare anche la deposizione di Linda VANCHERI nel corso dell'indagine qui confluita. Come infatti raccontato dettagliatamente da CICERO, VANCHERI, convocata nel giugno 2015 dalla polizia giudiziaria per essere escussa sulla sparizione dei documenti di Confindustria nissena, ad eventuale riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si attivava per contattare MONTANTE prima di confermare l'appuntamento con gli investigatori e, successivamente alla propria deposizione, trascorreva intere giornate, compreso l'orario notturno, in compagnia di quest'ultimo, avendo così la possibilità di riferirgli quanto dichiarato. A proposito di tale ultima circostanza, desunta dall'analisi dei tabulati telefonici di MONTANTE e VANCHERI e che dimostrerebbe, in teoria, soltanto la mera possibilità che VANCHERI avesse riversato a MONTANTE il contenuto dell'atto di P.G. cui aveva partecipato, un dato appare estremamente significativo: VANCHERI, dopo essersi attivata fattivamente per parlare con MONTANTE prima della propria deposizione, rendeva delle dichiarazioni menzognere, afferenti alla propria presunta ignoranza circa la sparizione dei documenti detenuti da Confindustria Caltanissetta, ignoranza assolutamente smentita, come visto, da Giovanni CRESCENTE (che, come si ricorderà, fu direttore dell'associazione nissena degli industriali dal 2005 al 2012) e Maurizio SAPIENZA (dipendente della medesima associazione dal 13 febbraio 1992 al 28 febbraio 2013).

Ora, tale ricostruzione è analiticamente condotta in fase di indagini e cautelare, mediante la disamina incrociata di una serie di elementi:

1) le dichiarazioni di CICERO, sull'indottrinamento preventivo di Linda VANCHERI da parte di MONTANTE;

2) gli aspetti temporali della convocazione di VANCHERI;

3) l'analisi dei tabulati telefonici dei protagonisti di tale vicenda, che spiegano un innegabile effetto validatorio della narrazione di CICERO.

Sul punto appare ancora una volta utile richiamare integralmente il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 288), che, in quanto articolata sulle evidenze storiche ed oggettive offerte dalle annotazioni di polizia giudiziaria, non vale la pena rielaborare artificiosamente per ostentare un'autonomia argomentativa sintetica e simulata, in quando si tratterebbe di mera fictio calami senza alcuna reale innovazione del contenuto ricostruttivo, comunque preclusa dallo sbarramento delle incontrovertibili acquisizioni storiche e tecniche (data di incontri, contenuto di telefonate, celle agganciate dagli apparecchi telefonici usati dai protagonisti, etc.): In particolare, in data 22.6.2015 veniva escussa Linda Calogera VANCHERI, già dipendente di Confindustria Caltanissetta e, come si ricorderà, indicata da Maurizio SAPIENZA come a conoscenza, quanto meno, dell'avvenuta sparizione delle schede di adesione alla locale associazione degli industriali delle società del MONTANTE e, seguendo quanto riferito da Giovanni CRESCENTE, anche della sistematica sottrazione della documentazione relativa alla vita associativa a partire da epoca successiva all'elezione del MONTANTE a Presidente.

Occorre muovere, in merito a tale specifica vicenda, dalle dichiarazioni rese da Alfonso CICERO, il quale, nel corso delle sommarie informazioni testimoniali rese in data 17.9.2015, ha riferito che: lunedì 15 giugno 2015 si era recato, assieme alla VANCHERI, ad un incontro istituzionale tenutosi al comune di Catania alla presenza del Sindaco Enzo BIANCO. Prima che si desse inizio a tale incontro, la VANCHERI, visibilmente preoccupata, gli aveva fatto presente che doveva parlargli e gli aveva accennato che era stata contattata da un appartenente alla Squadra Mobile di Caltanissetta che le aveva comunicato la necessità di notificarle una convocazione disposta dall'autorità giudiziaria;

alla richiesta di spiegazioni sui motivi per i quali fosse cosi angosciata, la VANCHERI gli aveva evidenziato che ipotizzava si potesse trattare di questioni che riguardavano “Antonello” e che, comunque, aveva preso tempo con l'appartenente alla Polizia di Stato - rappresentando di non essere certa che il giorno della convocazione fosse in Sicilia, o, piuttosto a Roma - poiché riteneva opportuno, prima di rendere dichiarazioni, discutere della questione col MONTANTE;

al termine della riunione, sebbene gli avesse preannunciato che si sarebbe poi dovuta allontanare avendo già altri impegni, la VANCHERI si era invece trattenuta a Catania - recandosi assieme a lui ed ai suoi collaboratori a prendere una granita - ed in quella occasione era tornata in argomento, confermando di essere preoccupata per la convocazione dell'A.G. e dicendogli che aveva già provato a mettersi in contatto, senza successo, col MONTANTE, chiedendogli, perciò, di provare a rintracciarlo per suo conto;

avendo già in animo di parlare col MONTANTE, sia pure per altre ragioni, lo aveva in effetti contattato telefonicamente, ma questi (come peraltro egli già sapeva) gli aveva fatto presente di non essere ancora rientrato a Caltanissetta, sicché aveva poi chiamato Carmela GIARDINA con la quale si era incontrata per consegnarle della documentazione da destinare allo stesso MONTANTE;

quella stessa sera la VANCHERI si era recata a trovarlo a casa e, mostrandosi sempre preoccupata, gli aveva domandato se fosse riuscito a parlare col MONTANTE, intendendo avere delucidazioni dallo stesso se dovesse o meno presentarsi per il giorno in cui era stata convocata; egli aveva però fatto presente alla VANCHERI di aver avuto altre questioni da sbrigare e di essersi solo riuscito ad incontrare con la GIARDINA;

il giorno seguente, a mattino inoltrato, la VANCHERI l°aveva ancora una volta raggiunto telefonicamente e gli aveva dato appuntamento per un caffè al bar Cono d'Oro sito nel quartiere San Luca di Caltanissetta. In quella occasione gli aveva detto che era riuscita ad incontrarsi col MONTANTE e con lo stesso aveva concordato sia di presenziare all'atto istruttorio per il giorno che era stato fissato dall'A.G., sia il contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere. Gli aveva, inoltre, fatto presente che si era già recata in Questura affinché le venisse notificata la citazione a comparire presso questi Uffici;

mercoledì 17 giugno si era recato a Palermo ed aveva fatto rientro a Caltanissetta solo il giorno ancora seguente, allorché la moglie gli aveva riferito che, nel tardo pomeriggio del giorno prima, si era presentata a casa loro, ancora una volta, la VANCHERI, che aveva chiesto di lui e, avendo appreso che non vi fosse, era rimasta a parlare per un po' e se n'era, poi, andata.

Orbene, le dichiarazioni rese dal CICERO hanno trovato un puntuale riscontro sulla base degli elementi acquisiti agli atti (cfr., a tal proposito, oltre agli esiti delle attività tecniche anche l'annotazione nr. 1062/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26. 04.2017, all. 4, della CNR redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta) ed in specie:

sebbene consegnatole alle ore 10.40 del 16.6.2015, la VANCHERI era stata preavvertita telefonicamente, alle ore 8.26 del 15.6.2015 (cfr. tabulati telefonici dell'utenza avente nr. +++++++++), da personale della Squadra Mobile di Caltanissetta della necessità di notificarle la convocazione presso questi Uffici;

nell'occasione la VANCHERI aveva fatto presente di essere fuori sede e che l'indomani si sarebbe presentata in Questura per ricevere la notifica, preannunciando già all'ufficiale di P.G. che per il giorno in cui era stata convocata innanzi all'A.G. avrebbe dovuto presenziare ad una cerimonia a Milano (cfr. relazione di servizio del 16.6.2015);

effettivamente il 15.6.2015, nella mattina, come rilevato ancora una volta dall'analisi dei tabulati telefonici, la VANCHERI ed il CICERO si recavano a Catania ove permanevano almeno sino alle ore 14 circa. ll CICERO tornava, poi, a Caltanissetta ~ ove giungeva alle ore 16 circa - mentre la VANCHERI si recava a Palermo (ove giungeva attorno alle ore 16.44) e di li partiva alla volta di San Cataldo ove arrivava nella prima serata (ore 20.55 circa);

alle ore 19.53 la VANCHERI (utilizzando l”utenza “riservata”, di cui meglio si dirà nel prosieguo, intestata a TROVATO Carmelo) inviava un sms all'altra utenza “riservata” in quel periodo nella disponibilità del MONTANTE. Non avendo evidentemente ricevuto risposta dal MONTANTE, la VANCHERI contattava Alfonso CICERO (alle ore 20) e questi, subito dopo (alle ore 20.01), telefonava poi al MONTANTE. Alle ore 20.39 il CICERO si metteva nuovamente in contatto con la VANCHERI e poi, come desumibile dalle attività d'intercettazione (cfr. progr. nr. 1463 delle ore 21.05, progr. nr. 1464 delle ore 21.14, progr. nr. 1466 delle ore 21.30, progr. nr. 1467 delle ore 21.47), si sentiva telefonicamente con Carmela GIARDINA, con la quale si incontrava attorno alle ore 21.50 presso il ristorante una volta denominato “124” ubicato alla zona industriale di San Cataldo (cfr. progr. nr. 231 relativo all'ambientale installata all'interno dell'autovettura di Carmela GIARDINA). Dopo essere tornato a Caltanissetta, il CICERO riceveva effettivamente la visita della VANCHERI, come desumibile dalla cella agganciata dall'apparecchio radiomobile in uso alla stessa VANCHERI, che, alle ore 23.34, veniva localizzato in viale Trieste a pochi metri dall°abitazione del CICERO stesso;

il l6.6.20l5 il MONTANTE si trovava a Serradifalco ove era già sicuramente presente sin dal giorno 15 (come rilevato sempre dall'analisi dei tabulati telefonici). Nella prima parte della mattinata di quel giorno (l6.6.20l5), alle ore 8.49, l'utenza della VANCHERI veniva localizzata in prossimità della sua abitazione di San Cataldo e, alle successive ore 9.16, agganciava la cella di Contrada Giorgibello, che è quella che serve l”abitazione di campagna della VANCHERI medesima. Sulla scorta delle attività d'intercettazione, si è potuto altresì rilevare che Carmela GIARDINA, alle ore 8.37, si muoveva dalla sua abitazione di San Cataldo per recarsi presso la casa di Contrada Altarello del MONTANTE, ove giungeva alle ore 8.44. Alle ore 8.49 la GIARDINA contattava telefonicamente la VANCHERI per dirle di recarsi presso la sua casa di campagna ove l°avrebbe prelevata (cfr. progr. nr. 1469 dell'utenza in uso a Carmela GIARDINA). Alle 9.23 la VANCHERI nuovamente telefonava alla GIARDINA per comunicarle di essere arrivata presso la sua casa di campagna. Successivamente la GIARDINA e la VANCHERI si recavano presso l'abitazione del MONTANTE dove restavano per circa venti minuti, trascorsi i quali la GIARDINA, con la sua autovettura, riaccompagnava la VANCHERI presso la sua abitazione di campagna. La circostanza è comprovata, ancora una volta, dalle attività d'intercettazione in quel momento in corso sull'autovettura della GIARDINA, sulla scorta delle quali era possibile ricavare, attraverso i dati GPS, che alle ore 9.3417 (progr. nr. 239, R.1nt. 536/15) la GIARDINA prelevava la VANCHERI dal1”abitazione di campagna di quest'ultima e, alle ore 9.44 (progr. nr. 242, R. Int. 526/15), il mezzo si trovava in prossimità dell'abitazione del MONTANTE da cui poi le due donne si allontanavano alle ore 10.1118. Successivamente la GIARDINA riaccompagnava la VANCHERI presso la casa di campagna della stessa ove giungevano alle ore 10.20. In altre parole, il complesso degli elementi acquisiti al procedimento consente di dimostrare senza alcuna ombra di dubbio che il MONTANTE e la VANCHERI si siano effettivamente incontrati nella prima mattina del 16.6.2015, e cioè prima che la stessa ricevesse la notifica dell'invito a comparire presso questi Uffici. Pur non essendo possibile affermare con certezza ove sia avvenuto tale incontro, va però altresì rilevato che la VANCHERI - esattamente come dichiarato dal CICERO - quella mattina effettivamente si era recata presso la sua abitazione di campagna, ove quindi è ben possibile che il MONTANTE la possa aver raggiunta in sella alla sua bicicletta. Cosi come è del pari possibile che i due si siano incontrati presso l'abitazione di contrada Altarello, ove, come detto, la VANCHERI si era recata in compagnia della GIARDINA;

sempre il 16.6.2015, alle ore 10.40, la VANCHERI riceveva l'invito a comparire presso questi Uffici (cfr. notifica dell'invito a comparire in atti) e poi faceva ritorno alla sua abitazione di San Cataldo. Poco dopo, inviava due sms ad Alfonso CICERO (ore 11.31), il quale, subito dopo (ore 11.32), la contattava telefonicamente e, ancora una volta dall'analisi dei tabulati telefonici, si rilevava che i due si incontravano in zona San Luca di Caltanissetta, ove è effettivamente ubicato il Bar Cono d°Oro di cui ha parlato il CICERO;

infine, dopo l'escussione in Procura del 17.6.2015, la VANCHERI si recava presso l'abitazione di Alfonso CICERO come desunto dalle celle agganciate dal suo apparecchio radiomobile che, dalle ore 20.11 alle ore 21.11, veniva localizzato in viale Trieste di Caltanissetta. Effettivamente il CICERO, come dallo stesso dichiarato, a quel1'ora non si trovava a Caltanissetta, poiché il uso apparecchio radiomobile censiva celle telefoniche ubicate nella città di Palermo.

Differentemente da quanto avvenuto per Gioacchino MONTANTE, le attività tecniche non consentivano di acquisire alcun elemento da cui poter inferire che la VANCHERI avesse poi dettagliatamente riferito al MONTANTE il contenuto dell'atto istruttorio cui era stata sottoposta. Ciò semplicemente perché è stato possibile accertare - pur sempre dall'attività tecnica e dagli accertamenti esperiti presso la banca dati “alloggiati” che censisce i soggetti ospitati nelle strutture ricettive - come la VANCHERI già il giorno seguente rispetto all'espletamento dell'atto istruttorio si fosse incontrata col MONTANTE, in compagnia del quale era poi rimasta quasi ininterrottamente sino al successivo giorno 23 giugno. Ed invero, in data 18.06.2014, veniva intercettata una conversazione in cui la VANCHERI diceva alla GIARDINA che stava andando a prendere l'aereo perché il giorno prima lo aveva perso (a seguito della tarda ora in cui si concludeva l°atto istruttorio in data 17.06.2015). […] Muovendo da tale dato si accertava ulteriormente che: il MONTANTE il 17.06.2015 si recava a Roma ed ivi permaneva fino al 21.6.2015”. Attraverso la consultazione delle banche dati in uso alle forze di polizia” si appurava anche che, in data 17.06.2015, il MONTANTE alloggiava presso l'hotel Marriot Gran Hotel Flora, mentre la VANCHERI, in data 18.06.2015, non risultava censita in alcun albergo romano. Pur tuttavia, l'analisi delle celle dei tabulati telefonici delle utenze in uso proprio alla VANCHERI, permetteva di accertare che la stessa, in data 18.06.2015, alle ore 12.00, si trovava a Roma, ove rimaneva fino al giorno successivo. Si appurava, altresì, che le utenze certamente in uso alla VANCHERI ed una di quelle senz'altro in uso al MONTANTE (entrambe del gestore Vodafone) in quella data agganciavano, in più occasioni, le stesse celle telefoniche o, comunque, celle tra loro vicine, a conferma del fatto che i due si trovassero insieme. Inoltre, si verificava che il MONTANTE e la VANCHERI rimanevano insieme fino alla mattina del 19.06.2015, poiché, anche in questo caso, i rispettivi telefoni agganciavano la stessa cella fino alle ore 08.00. In particolare la cella censita era quella di C.so Italia 1 che risulta essere perfettamente compatibile con l'ubicazione dell'albergo ove alloggiava il MONTANTE, ovvero il Marriot Grand Hotel Flora, che insiste appunto in Via Vittorio Veneto, 191.

Nella giornata del 19.06.2015, le utenze in argomento, sia quella in uso alla VANCHERI che quella in uso al MONTANTE, davano contezza del fatto che entrambi avessero lasciato la capitale per raggiungere Milano (come desumibile, anche in tal caso, dalla circostanza che agganciavano le medesime celle nello stesso momento 0 anche celle molto vicine tra loro). Da Milano, nel pomeriggio del 19.06.2015, il MONTANTE raggiungeva Asti, mentre la VANCHERI si recava a Torino. Per nessuno dei due rimaneva traccia di un loro eventuale pernottamento presso strutture alberghiere. Il giorno seguente, nella mattina del 20.06.2015, la VANCHERI da Torino si recava ad Asti, ove rimaneva fino al pomeriggio, così come ivi risultava essere il MONTANTE. Entrambi poi si spostavano insieme per raggiungere Milano in serata. Anche in questa occasione, le utenze poste sotto analisi ed in uso ai due soggetti venivano censite, nella mattinata ad Asti e nel pomeriggio a Milano, quasi sempre sulla stessa cella telefonica. In data 21.06.2015, sia il MONTANTE che la VANCHERI facevano rientro in Sicilia. Si segnala che, dalle celle di aggancio delle utenze in uso al MONTANTE emergeva che, come già evinto dal foglio di viaggio compilato dagli operatori della scorta, lo stesso si recava a Tusa. Il MONTANTE e la VANCHERI, poi, pernottavano, nello stesso albergo palermitano, il Grand Hotel Wagner, in data 23.06.2015. Orbene, le sopra indicate circostanze, inequivocabilmente accertate nell'ambito del procedimento, consentono di concludere che la VANCHERI aveva avuto certamente modo di poter parlare de visu col MONTANTE di ciò che le era stato domandato nel corso dell'atto istruttorio compiuto da questo Ufficio. Ciò che in ogni caso preme sottolineare è che, così come acclarato in relazione al fratello Gioacchino, anche in tal caso il MONTANTE si è adoperato per interferire sulle indagini in corso ed evitare, con tutta evidenza, che si potessero acquisire elementi in astratto pregiudizievoli per la sua posizione. Del resto, cosi come accaduto per Gioacchino MONTANTE, la VANCHERI ha negato di sapere fatti dei quali, per ciò che è emerso invece dalle dichiarazioni di altri soggetti, era certamente a conoscenza. Si consideri, infatti, come l'ex Assessore alle Attività Produttive della Regione Sicilia abbia escluso di aver mai saputo che, ad oggi, non è dato rinvenire nei locali della ormai disciolta CONFINDUSTRIA Caltanissetta documentazione relativa ad epoca antecedente al 2008 ed ha addirittura dichiarato a questo Ufficio che si trattava di circostanza che apprendeva proprio nel corso dell'atto istruttorio. […] In realtà, l'agnosticismo della VANCHERI sulla sorte del documenti di Confindustria appare, piuttosto, professione surrettizia di mendacio dichiarativo. Infatti, in primo luogo non possono non cogliersi le evidenti assonanze assertive tra la VANCHERI e Rosario AMARU', atteso che anche la prima, analogamente al secondo, oggettivamente smentito dalle risultanze probatorie (vd. sez. seconda, cap. I, § 5), invocava la pluralità di traslochi, subiti dall'associazione degli industriali, per ostacolare la ricerca del materiale documentale. In secondo luogo, le sue dichiarazioni sono contraddette da quelle di Giovanni CRESCENTE (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 dicembre 2015), il quale, come visto (sez. seconda, cap. I, § 5), aveva affermato di avere personalmente assistito non soltanto al prelievo dei documenti de quibus da parte di MONTANTE, ma anche al conferimento dell'incarico a Linda VANCHERI di trasferire la documentazione dell'associazione in un locale nella disponibilità propria. Tra l'altro - anche ciò è stato esaminato - le dichiarazioni di CRESCENTE, unitamente a quelle di Tullio GIARRATANO e Lucia DI BUONO, compongono un quadro unitario che, a fortiori in seguito alla riesumazione, grazie a CASAGNI, di qualcuno dei documenti scomparsi, consentono di ricostruire con certezza l'effettivo corso degli eventi sulla asportazione del carteggio associativo ad opera di MONTANTE, sicché, nel contrasto assertivo tra il predetto CRESCENTE e la VANCHERI, è senz'altro la deposizione di quest'ultima ad esporsi ad un giudizio di radicale inattendibilità.

Alida Marchese, una teste “guidata”. La Repubblica il 3 novembre 2019. L'ingerenza di Montante nelle sommarie informazioni rese da Alida Marchese. Fedele servitrice di MONTANTE pare essere anche Alida MARCHESE, al pari della VANCHERI legata al primo da rapporti di gratitudine; al pari della VANCHERI, contattata da MONTANTE, per interposta persona, in vista della sua escussione innanzi alla P.G.; al pari della VANCHERI, chiusa in dichiarazioni agnostiche sulla sparizione dei documenti confindustriali. In ordine alla intensità dei rapporti intercorrenti tra MQNTANTE e MARCHESE e al loro radicamento nel tempo (dal 1996), può essere utile scorrere le risultanze del file excel, da cui emerge anche la compartecipazione di MARCHESE nelle società di MONTANTE: […]. Significative, sul punto, si rivelano anche le dichiarazioni rese da Giovanni CRESCENTE, secondo il quale MONTANTE si era adoperato per assicurare il reintegro della MARCHESE all'interno di Confindustria, dopo un periodo di interruzione del rapporto di lavoro. […] Ciò posto, occorre passare alla ricostruzione delle indebite interlocuzioni avute da MONTANTE con la MARCHESE in vista dell'escussione di quest'ultima da parte della P.G. Anche in tal caso è CICERO la persona che, mediante la narrazione degli avvenimenti del 21 giugno 2015, consentiva di apprendere dei contatti febbrili che precedettero la deposizione della dipendente di Confindustria: dal momento in cui, un po' casualmente, lo stesso era venuto a conoscenza, tramite il Dott. Alessandro PILATO, della convocazione di Alida MARCHESE innanzi alla P.G., alla richiesta, rivolta allo stesso CICERO da MONTANTE, di contattare Alida MARCHESE prima della sua partecipazione all'atto istruttorio. E ciò, in quanto l'odierno imputato non sapeva ancora che un altro suo cortigiano, Vincenzo MISTRETTA, aveva già provveduto ad istruire la persona informata dei fatti sulle risposte da rendere agli investigatori. Ancora una volta la rievocazione degli avvenimenti proposta da CICERO è ampiamente avvalorata dalle risultanze dei tabulati telefonici e dal contenuto delle conversazioni intercettate. Per esigenze di sintesi, si procederà alla estrapolazione dei passi rilevanti dell'ordinanza cautelare (da p. 305), nelle quali si dà atto delle dichiarazioni, assolutamente centrali, di CICERO e dell'attività di riscontro (peraltro non necessaria) posta in essere dalla polizia giudiziaria (cfr. annotazione n. 1062/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26 aprile 2017): Il copione sin qui descritto in relazione a Gioacchino MONTANTE e Linda VANCHERI è destinato a ripetersi in relazione ad Alida MARCHESE, posto che, anche in tal caso, è stato possibile accertare che il MONTANTE abbia incaricato Vincenzo MISTRETTA di incontrare la MARCHESE prima dell'espletamento dell'atto istruttorio innanzi alla polizia giudiziaria al fine di istruirla sulle dichiarazioni da rendere. Pure in tale circostanza occorre muovere dalle dichiarazioni rese da Alfonso CICERO, il quale, in occasione delle sommarie informazioni testimoniali rese in data 17.9.2015, ha riferito che:

il 21.6.2015 - almeno così rammentava ~ aveva avuto un incontro presso la sua abitazione con il dott. Alessandro PILATO per affrontare questioni relative alla contabilità dell'IRSAP. Nell'occasione il professionista gli aveva fatto presente di aver casualmente incontrato alla pasticceria “Stella” di Caltanissetta Alida MARCHESE, la quale si era mostrata “preoccupatissima” e gli aveva riferito di essere stata convocata dagli inquirenti per rendere dichiarazioni. Il PILATO aveva quindi commentato la vicenda sottolineando che, a suo parere ed in considerazione proprio del fatto che si voleva escutere la MARCHESE, le indagini nei confronti del MONTANTE dovessero ritenersi connotate da una loro serietà e non potessero essere quindi relegate a questioni di poco conto come sino a quel momento aveva reputato;

successivamente si era recato a casa del MONTANTE di contrada Altarello per discutere con lo stesso del memoriale che questi, in quel periodo, stava predisponendo. In quella circostanza il MONTANTE aveva iniziato a lamentarsi per i problemi che gli stavano causando le indagini in corso nei suoi confronti ed egli aveva replicato sottolineando la vita estremamente faticosa che conduceva, cui si erano aggiunte, in quel periodo, le ulteriori complicazioni per una multa che gli era stata comminata dalla Guardia di Finanza per la irregolare posizione lavorativa della sua domestica, questione che stava risolvendo grazie al contributo datogli anche dal Prof. PILATO. Nell'udire il nome di quest'ultimo, il MONTANTE gliene aveva domandato notizie ed egli, tra le altre cose, gli aveva raccontato ciò che questi gli aveva in precedenza riferito in ordine alla convocazione della MARCHESE da parte degli organi inquirenti. Nell'apprendere tale circostanza, il MONTANTE si era subito mostrato preoccupato e gli aveva quindi chiesto di rintracciarla telefonicamente per suo conto. Avendo intuito che lo scopo di quella telefonata fosse quello di avere ragguagli dalla stessa MARCHESE in ordine alla citazione di cui avevano poco prima parlato, si era rifiutato di assecondare il MONTANTE, sicché questi aveva raggiunto telefonicamente Vincenzo MISTRETTA, il quale, di lì a poco, era sopraggiunto nell'abitazione di Serradifalco. Aveva udito i due iniziare a discutere della MARCHESE, sicché, trovandosi in imbarazzo per la piega che stavano prendendo gli eventi, era uscito in giardino a fumare una sigaretta, sebbene il MONTANTE lo avesse invitato ad assistere alla discussione. Quando aveva fatto rientro in casa, il MONTANTE ed il MISTRETTA erano ancora intenti a discutere della MARCHESE ed egli aveva potuto comprendere, dal tenore complessivo dei dialoghi cui aveva assistito, che il MONTANTE avesse incaricato lo stesso MISTRETTA di recarsi dalla MARCHESE per riferirle alcune ambasciate aventi ad oggetto proprio la convocazione della stessa da parte della polizia.

Ebbene, anche in tal caso le dichiarazioni del CICERO hanno trovato puntuale riscontro sulla scorta degli elementi complessivamente acquisiti al procedimento (cfr., oltre agli esiti delle attività tecniche, l'annotazione nr. 1062/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26.04.2017) e in specie:

il 21.6.2015 Alessandro PILATO contattava telefonicamente (alle ore 12.23) Alfonso CICERO. Le utenze dei due venivano localizzate nella città di Caltanissetta e se ne trae, quindi, conferma del fatto che effettivamente, quel giorno, i due si fossero incontrati;

Antonio Calogero MONTANTE, sempre il 21.6.2015, giungeva a Serradifalco attorno alle ore 21, provenendo da Tusa (ME) ove era rimasto dalle ore 16 circa sino alle successive ore 19 circa. Nel pomeriggio di quel giorno il CICERO ed il MONTANTE si scambiavano alcuni sms (alle ore 19.33.20, alle ore 19.33.43, alle ore 20.15 ed alle ore 20.18) e, nella serata, il CICERO - già alle ore 22.33 – si trovava a Serradifalco, come comprovato dalla cella telefonica agganciata in quel momento dal suo apparecchio radiomobile.  […] Occorre, altresì, rilevare che, dalle attività di intercettazione, è emerso che alle ore 19.36 il MONTANTE e Vincenzo MISTRETTA si erano sentiti telefonicamente per darsi appuntamento alla mattina del giorno seguente (cfr. R.1nt. 177/15, progr. nr. 3304). Pur tuttavia, alle successive ore 21.35 - allorché, cioè, il CICERO già era nell'abitazione di contrada Altarello - il MONTANTE chiamava il MISTRETTA e lo convocava presso la sua abitazione (cfi. R. Int. 177/15, progr. nr. 3317); si presti attenzione al fatto che in quella occasione l'imprenditore di Serradifalco, avendo percepito le perplessità del MISTRETTA, dapprima (almeno da ciò che pare comprendersi) gli evidenziava di avere la “febbre” - e di non essere quindi sicuro che si sarebbero potuti incontrare l”indomani - e poi gli rappresentava la necessità di raggiungerlo subito perché occorreva discutere del “made in Italy”. Il MISTRETTA, in effetti, si metteva in macchina e si recava presso Pabitazione di Contrada Altarello, ove giungeva alle ore 22.02 (cfr. R. Int 535/15, progr. nr. 172) e da dove si allontanava alle successive ore 22.35 (cfi. R. Int., progr. nr. 174). Nel pomeriggio del giorno 21.06.2015, il MISTRETTA contattava telefonicamente Alida MARCHESE (cfi. progr. nr. 3298 delle ore 17.33) ed i due si accordavano per prendere, di lì a poco, un caffè presso l°abitazione dello stesso MISTRETTA. Dal tenore della conversazione era possibile comprendere come la stessa fosse intercorsa dopo uno scambio di messaggi tra i due (avvenuto con ragionevole certezza tramite l'applicazione “whatsapp” poiché gli stessi non venivano intercettati) e con i quali la MARCHESE aveva certamente rappresentato al MISTRETTA la necessità di parlargli, così spiegandosi l'iniziativa presa dalla stessa MARCHESE nel corso della telefonata di che trattasi di richiedere un incontro. Inoltre, si trae precisa conferma alle dichiarazioni del CICERO, posto che è la stessa MARCHESE ad evidenziare al MISTRETTA di avere incontrato, quella stessa mattina, il dott. PILATO presso la pasticceria “Stella” di Caltanissetta. […] Successivamente, a conferma dell'avvenuto incontro tra i due, si registravano altre due telefonate (ai progressivi nr. 330025 e nr. 3301), dalle quali si evinceva che la MARCHESE si trovava davanti a1l'abitazione del MISTRETTA e gli chiedeva di aprirle il cancello. […] Si può dunque affermare, perché in tal senso depongono univocamente tutti gli elementi di prova acquisiti al procedimento, che anche la MARCHESE sia stata debitamente indottrinata sul contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere alla Squadra Mobile di Caltanissetta, nei cui uffici veniva escussa il giorno seguente rispetto all'incontro avuto con Vincenzo MISTRETTA di cui si è detto poc'anzi. Va però rilevato che la discussione cui aveva assistito il CICERO all'interno dell'abitazione del MONTANTE nella tarda serata del 21.6.2015 non era quella con la quale il MONTANTE dava istruzioni al MISTRETTA per “pilotare” l'atto istruttorio della MARCHESE, ma quella in cui lo stesso MISTRETTA ragguagliava il MONTANTE di ciò di cui aveva già discusso con la MARCHESE medesima nel pomeriggio. Ed invero, l'analisi ragionata degli elementi complessivamente acquisiti al procedimento consente di affermare che:

la MARCHESE, dopo aver ricevuto la convocazione presso gli uffici della Squadra Mobile di Caltanissetta, di sua iniziativa contattava il MISTRETTA e con lo stesso poi si incontrava nel pomeriggio del 21 .6.2015 per avere lumi su ciò che bisognava dichiarare (o non dichiarare) agli inquirenti;

il MONTANTE, dopo aver appreso dal CICERO, nella serata del 21.6.2015, della convocazione della MARCHESE e non sapendo ancora dell'avvenuto contatto tra quest'ultima ed il MISTRETTA, chiedeva allo stesso MISTRETTA di raggiungerlo presso la sua abitazione, di certo non per discutere del “made in Italy” quanto per fare il punto sulla situazione. In quella occasione il MISTRETTA aveva però rassicurato il MONTANTE, ragguagliandolo di quanto aveva già discusso nel pomeriggio con la MARCHESE.

Può senz'altro affermarsi che l'appunto contenuto nel file excel di cui si è detto poc'anzi, nelle intenzioni del MONTANTE, dovesse servire a giustificare la presenza del MISTRETTA, quella sera, presso la sua abitazione; gli elementi acquisiti al procedimento consentono, infatti, di affermare che il MISTRETTA non avesse affatto cenato a casa del MONTANTE (come riportato nell'annotazione) ed inoltre il contenuto della telefonata con la quale veniva convocato a casa dell'imprenditore di Serradifalco consente di escludere che lo stesso MISTRETTA si dovesse ivi recare per “memoriale libro” (come pure riportato nell'appunto), posto che il MONTANTE, come detto, accennava alla necessità di parlare del “made in Italy” ed inoltre, nella telefonata precedente, i due si erano dati appuntamento per incontrarsi il giorno seguente (il che sta a testimoniare che non vi fosse alcun appuntamento programmato, per quella sera, al fine di confezionare “il memoriale libro”). Va, altresì, rilevata la pretestuosità del motivo (un attacco febbrile che non gli dava certezza sul fatto che l'indomani si sarebbero potuti incontrare) con il quale il MONTANTE - contrariamente a quanto avevano in precedenza programmato - convocava il MISTRETTA presso la sua abitazione nella serata del 21.6.2015. Ed invero, sempre dalle attività tecniche in corso, è stato possibile accertare che il MISTRETTA (cfr. R. Int. 177/15, progr. nr. 3341 delle ore 9.58, progr. nr. 3342 delle ore 10.15, progr. nr. 3351 delle ore 11.25) anche il giorno seguente (sia pure ad orario diverso da quello originariamente stabilito) si recava presso l'abitazione del MONTANTE (in compagnia di altri soggetti), mantenendo, cioè, fede a quanto avevano programmato di fare nel corso della telefonata delle ore 19.36 del 21.6.2015. Se ne ricava, quindi, che il MONTANTE avesse utilizzato un linguaggio allusivo (“febbre”, “made in Italy”) per far comprendere al MISTRETTA che era insorta l'improvvisa necessità di parlargli e che si spiega adeguatamente solo alla luce delle dichiarazioni del CICERO e cioè per discutere della convocazione da parte degli inquirenti di Alida MARCHESE. Inutile dire come la MARCHESE non abbia offerto alcun contributo per fare chiarezza in merito alle circostanze che gli sono state domandate, limitandosi a negare di aver mai saputo che non si riuscissero a rintracciare, all'interno di CONFINDUSTRIA Caltanissetta, le schede associative delle aziende riferibili al MONTANTE. […] Ora, sebbene manchi la prova diretta dell'indottrinamento di Alida MARCHESE da parte di Vincenzo MISTRETTA per volontà di MONTANTE, è evidente che tale indottrinamento vi fu, come evinto:

1) dalla viva preoccupazione manifestata da Alida MARCHESE all'arrivo della convocazione da parte della P.G.;

2) dal suo incontro, subito dopo, con MISTRETTA;

3) dalla richiesta, rivolta da MONTANTE a CICERO, una volta appreso della convocazione di Alida MARCHESE, di contattare quest'ultima telefonicamente;

4) dalla successiva richiesta, rivolta da MONTANTE a MISTRETTA, di un loro incontro immediato, al fine di avvalersi dell'apporto di quest'ultimo per indottrinare la MARCHESE sul contenuto delle dichiarazioni da rendere agli investigatori, e ciò sulla base dell'erroneo presupposto che MISTRETTA non avesse già provveduto motu proprio;

5) dalla negazione, da parte di MARCHESE, innanzi alla P.G., di circostanze da considerarsi pacificamente accertate.

In tale contesto di elevato nitore ricostruttivo, è appena il caso di accennare alle dichiarazioni di VENTURI (verbale di sommarie informazioni testimoniali del 17 settembre 2015), che, per averlo appreso da CICERO, riferiva che “il MONTANTE si è recato a casa di Linda VANCHERI per istruirla su cosa avrebbe dovuto riferire in occasione dell'atto istruttorio per cui era stata convocata. Sempre il CICERO mi ha detto che il MONTANTE lo aveva contattato affinché facesse da suo tramite per un'analoga opera di indottrinamento nei confronti di Alida MARCHESE, ma egli si era ancora una volta rifiutato. Presumo che siano state la VANCHERI e la MARCHESE a riferire al MONTANTE di essere state convocate in Procura e ciò dico perché so degli ottimi rapporti che intercorrono tra gli stessi...omissis...”.

Cicero e Venturi, il terremoto nel “sistema”. La Repubblica il 4 novembre 2019. Le indagini eseguite sul conto di MONTANTE traevano nuova linfa a seguito delle dichiarazioni rese agli inquirenti da due soggetti, che fino a quel momento erano stati particolarmente prossimi all'imprenditore di Serradifalco, Marco VENTURI e Alfonso CICERO, all'epoca, rispettivamente, presidente di Confindustria Centro Sicilia e presidente dell'I.R.S.A.P. (istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive). Il primo, come si ricorderà, era anche l'imprenditore di cui si era avvalso MONTANTE per promuovere l'ingresso, all'interno di Confindustria, di Vincenzo ARNONE, tacendone la qualità di boss di Cosa Nostra della famiglia di Serradifalco, ma è anche colui che, grazie all'inserimento dello stesso ARNONE nella commissione dei "saggi" che avrebbero designato il nuovo presidente dell'associazione nissena dei Giovani Industriali, era stato proposto ed eletto successore di MONTANTE. Inoltre, era stato assessore regionale alle Attività Produttive sotto il Governo LOMBARDO. CICERO, per converso, dopo essere stato commissario straordinario in alcuni consorzi ASI siciliani, era stato nominato prima commissario straordinario e poi presidente dell'I.R.S.A.P., funzione nell'esercizio della quale lo stesso aveva attivato una serie di misure di contrasto alla criminalità organizzata e alle sue infiltrazioni nel mondo dell'imprenditoria. Come emergerà dalla diretta lettura delle intercettazioni delle conversazioni intrattenute da Marco VENTURI ed Alfonso CICERO, la spinta iniettiva alla rivelazione di inquietanti aspetti della carriera Imprenditoriale-associativo di MONTANTE era originata dall'articolo, pubblicato su La Repubblica da Attilio BOLZONI e Francesco VIVIANO in data 9 febbraio 2015, dal titolo “L'industriale paladino dell'antimafia sotto inchiesta in Sicilia per mafia", con il quale si informava dell'indagine che la D.D.A. nissena stava conducendo nei confronti di MONTANTE, indagato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. La discovery dell'indagine, aggravata da ulteriori pubblicazioni sul medesimo quotidiano (l'11 febbraio 2015 venivano riportate persino le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia - tranne quelle di DI FRANCESCO - sul conto di MONTANTE), se da un lato induceva MONTANTE ad infiltrarsi nell'indagine cercando di confondere le acque, dall'altro spingeva Marco VENTURI ad espellere la sua sofferenza interiore, cominciata ad affiorare, carsicamente, nel 2012, dopo l'assunzione della consapevolezza di essere stato raggirato da MONTANTE in nome di presunte battaglia sulla legalità. Infatti, secondo VENTURI, come sarà possibile verificare ripercorrendo le intercettazioni delle sue conversazioni e le dichiarazioni dallo stesso rese agli inquirenti, si trattava di battaglie del tutto fittizie, che avevano determinato una sovraesposizione di coloro che, inconsapevolmente, vi avevano creduto, mentre, dietro le quinte, lo stesso MONTANTE aveva continuato a coltivare rapporti di cointeressenza con il boss citato, Vincenzo ARNONE, dopo averne procurato anche l'ingresso nell'associazione nissena degli industriali proprio per il tramite dell'ignaro VENTURI. Scorrendo il materiale dichiarativo di CICERO, si ricava come questi condividesse il convincimento di VENTURI, ritenendo che MONTANTE, dopo avere ispirato la nomina dello stesso CICERO a presidente dell'I.R.S.A.P. investendolo del compito di fare le crociate antimafia, non si fosse mai direttamente esposto e non avesse mai personalmente conseguito alcun risultato documentalmente tracciabile. Appare certamente interessante ripercorrere il processo genetico della decisione di VENTURI e CICERO di collaborare con gli investigatori, prima preferendo prendere coram populo le distanze da MONTANTE, mediante il rilascio, da parte del primo, di un'intervista a BOLZONI; poi, in immediata consecuzione temporale, riversando le loro conoscenze alla Procura della Repubblica nissena.

La lettura diretta delle intercettazioni appare di particolare rilevanza, in quanto il contenuto delle conversazioni di VENTURI e CICERO, talvolta intrattenute tra i due, talvolta da parte di uno di loro con soggetti terzi, risulta determinante nella formazione del convincimento giudiziale circa la spontaneità e la veridicità delle loro dichiarazioni accusatorie e, dunque, circa la complessiva credibilità da riconoscere ad entrambi. CICERO, in particolare, si è distinto, nella collaborazione prestata a VENTURI per la redazione di un memoriale da destinare all'attività giudiziaria, per uno specifico sforzo di cesellatura ("Però deve essere rappresentata nel modo aderente” e "Marco, tu devi dire quello che sai...non ti devi creare il problema di quello che lui pensa...mi hai capito?” dirà ad un certo punto, come vedremo, CICERO a VENTURI), invitando quest'ultimo a servirsi sempre di un lessico assolutamente oggettivo ed aderente alla realtà da descrivere, da riprodurre nella sua fedeltà storica e regolarmente depurata dalla mere considerazioni personali, di stampo deduttivo. In particolare, in data 9 aprile 2015, circa due mesi dopo la pubblicazione del primo articolo di La Repubblica sull'inchiesta nei riguardi di MONTANTE, e alcuni mesi prima rispetto all'esordio di CICERO e VENTURI nella loro esperienza "testimoniale" (in realtà, tecnicamente, di persone informate dei fatti), veniva intercettata una conversazione (progr. n. 301; cfr. all. n. 67 della C.N.R. n. 1092/2017 cit.) nella quale VENTURI, discutendo con Massimo ROMANO, l'imprenditore amico di MONTANTE, esprimeva alcune considerazioni critiche sul conto di quest'ultimo, considerazioni che, in verità, anche ROMANO mostrava di condividere. Dal punto di vista di VENTURI, una delle circostanze nelle quali MONTANTE aveva cercato di raggiungere obiettivi opachi servendosi, in maniera obliqua, del medesimo VENTURI, del tutto ignaro dei reali moventi retroscenici, era stata quella relativa all'affare inerente all'acquisto di un immobile da destinare a Confindustria nissena. Argomento del quale, appena il giorno prima, aveva trattato un articolo, a firma del giornalista Gianpiero CASAGNI, dal titolo “La Camera di Commercio cerca casa” pubblicato sulla rivista Centonove. Discutendo di tale vicenda, VENTURI raccontava dell'iniziativa, assunta da MONTANTE durante la presidenza dello stesso VENTURI alla locale camera di commercio, di promuovere un investimento immobiliare inutilmente dispendioso, verosimilmente al fine di avvantaggiare i danti causa. In particolare, VENTURI rimaneva impressionato dal fatto che MONTANTE, che non era riuscito a realizzare quel progetto sotto la sua presidenza, non aveva perseverato nella sua attuazione una volta divenuto, a sua volta, presidente della camera di commercio. Ciò che, a suo avviso, denotava la precisa volontà dell'odierno imputato di perseguire finalità nebulose esponendo terzi, nella specie proprio VENTURI, alla responsabilità per l'assunzione di decisioni antieconomiche. Tale vicenda, in sé e per sé considerata, è evidentemente estranea al perimetro dei capi di imputazione, ma è opportuno rievocarla per evidenziarne il tratto con il quale essa è narrata da VENTURI pochi mesi prima della sua decisione di interloquire con l'autorità giudiziaria. VENTURI, infatti, nella riesumazione di tali fatti, mostrava l'assunzione di una graduale consapevolezza della strumentalizzazione che aveva subito per mano di MONTANTE, ciò che giustifica ampiamente la maturazione della sua scelta propalatoria, al di fuori di qualsiasi spirito di mera rivalsa. Tanto vero che, all'esito di quella conversazione, sia VENTURI sia lo stesso ROMANO manifestavano l'intenzione di adottare iniziative di progressiva diastasi dal potere di MONTANTE (ROMANO, per esempio, prefigurava le proprie dimissioni dal consorzio FIDI o CONFIDI), onde evitare di essere travolti, ingiustificatamente, da un giudizio sociale sommario e sincretico. Nel prosieguo della conversazione (recante, tecnicamente, il diverso numero progr. 302; cfr. all. 68 della C.N.R. n. 1092/2017 cit.), peraltro, VENTURI, ignaro di essere ascoltato dagli investigatori e, pertanto, in assenza di qualsivoglia profilo di intenzionale veicolazione alla P.G. di notizie compromettenti sul conto di MONTANTE, parlava della riconducibilità a quest'ultimo, per interposta persona, di un torronificio, evidenziando una gestione degli affari, da parte dell'imprenditore di Serradifalco, in stridente contrasto con i suoi noti proclami contro le intestazioni fittizie di imprese. Non fosse altro perché, in difetto di un formale inserimento di MONTANTE nella compagine societaria, lo stesso non poteva cheriscuoterne gli utili mediante flussi di denaro non tracciabili ("in nero"). Una sorta di doppia etica nell'economia.

Infine, VENTURI affrontava con ROMANO un altro tema, particolarmente interessante, ossia quello relativo alle possibili ripercussioni, di stampo ritorsivo, che sarebbero derivate a chi, opportunamente, avesse invitato MONTANTE a defilarsi dalla scena, sollevando dall'imbarazzo coloro che, a vario titolo, avevano gravitato intorno a lui. […] Nel segno della continuità con il contenuto e il senso della conversazione testé esaminata, intercorsa tra VENTURI e ROMANO, gli stessi, nel corso di una successiva conversazione intrattenuta il 12 giugno 2015 (R. Int. n. 182/15, progr. n. 1074; cfr. all. n. 70 della C.N.R. n. 1092/2017 cit.), esternavano importanti considerazioni sulla tendenza di MONTANTE alla raccolta di informazioni sul conto delle persone che lo circondavano e alla compilazione di dossier. Tra l'altro, secondo VENTURI, proprio in quel periodo MONTANTE si stava dedicando ad un'attività di dossieraggio in pregiudizio dell'Ing. Pietro DI VINCENZO, avvalendosi della collaborazione di un tale ALAIMO. La conversazione si rivela di enorme interesse sul piano della valutazione delle prove di questo procedimento, in quanto, a fronte delle strenue asserzioni difensive circa l'effettività dell'azione di contrasto alla mafia svolta da MONTANTE, VENTURI, ancora una volta inconsapevole di essere intercettato, rivelava la metodologia, sistematicam1074ente adottata dall'odierno imputato a fini ricattatori, di attribuire l'etichetta del “mafioso” a soggetti nei riguardi dei quali non esistevano specifiche prove al riguardo. Una specie di santa inquisizione, basata sulla logica del sospetto, costruito ad arte per la eliminazione degli eretici, tali dovendosi considerare i personaggi che non riscuotevano il gradimento di MONTANTE. Un altro aspetto da sottolineare è la notorietà, nella cerchia di soggetti che gravitano intorno a MONTANTE, della pratica del dossieraggio e del ricatto, confermata dal rinvenimento di un imponente mole documentale, presso la villa di MONTANTE, frutto della certosina raccolta, per lo più con modalità illecite, di dati ed informazioni sul conto di terzi. Ciò avvalora, dunque, il giudizio di credibilità di VENTURI, il quale, anche in contesti colloquiali, non lanciava gratuite invettive all'indirizzo di MONTANTE, ma esponeva fatti di cui era personalmente a conoscenza. […] Orbene, all'esito della lettura di tali conversazioni non può non rafforzarsi la tesi per cui VENTURI, nella maturazione della decisione di riversare le sue conoscenze agli inquirenti, non fosse mosso da alcuna intenzione diversa da quella di una formale recisione di ogni imbarazzante contiguità o prossimità rispetto a MONTANTE, del quale soltanto progressivamente sembrava avere scoperto le dinamiche operative sottese. Ciò, peraltro, non deve stupire, in quanto, come si è avuto già modo di constatare nell'esposizione che precede e come si vedrà amplius nei prossimi sviluppi argomentativi, la figura di MONTANTE è quella di un abile manipolatore delle altrui vite e delle altrui carriere, solito "spostare" i soggetti che gravitavano nella sua sfera d'azione come pedine inserite all'interno di una strategia scacchistica con finalità di costruzione del proprio potere. Così esposta, in chiave prologica, la progressiva gestazione, in VENTURI, dell'idea di demarcare il confine tra la propria sfera personale e professionale e quella di MONTANTE, l'actio finium regundorum cominciava ad essere attuata, come detto, con il rilascio di un'intervista, da parte del citato VENTURI, a quello stesso Attilio BOLZONI che già nel febbraio 2015 aveva redatto, congiuntamente a Francesco VIVIANO, l'articolo sull'indagine a carico dell'imprenditore di Serradifalco per concorso esterno in associazione mafiosa. Circa le fasi che precedettero l'incontro tra VENTURI e Attilio BOLZONI e, in particolare, l'interposizione del fratello del giornalista, Pietro, per la fissazione di un loro appuntamento, ci si limita a riportare una intercettazione ambientale del 3 agosto 2015 (R.Int. n. 347/15 progr. n. 3068; cfr. all. n. 73 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.) in cui VENTURI, parlando con Pietro BOLZONI in attesa dell'arrivo di CICERO, esprimeva i suoi timori per le possibili ripercussioni che gli sarebbero potute derivare da una scelta apertamente dissociativa dal modus operandi di MONTANTE e, pertanto, esternava l'esigenza di conferire con Attilio BOLZONI anche per ricevere indicazioni per individuare un magistrato serio che potesse trattare il caso con la dovuta imparzialità e solerzia. Identica esigenza di protezione avvertiva VENTURI nei riguardi di CICERO, che, al pari suo, era stato trascinato nella presunta missione antimafia per realizzare la quale, quest'ultimo, nella qualità di presidente dell'I.R.S.A.P., aveva assunto decisioni scomode, che adesso lo potevano esporre ad un serio pericolo. In tale contesto, emergono, altresì, la desolazione e lo smarrimento di VENTURI per l'azione decipiente architettata da MONTANTE e da altri personaggi a lui vicini, portata avanti mediante un sapiente ed ingegneristico abuso della credulità generale circa l'autenticità della svolta legalitaria proclamata nella sede confindustriale e in quella politica. Tra l'altro non può destare stupore la diffidenza, manifestata da VENTURI (oltre che da Pietro BOLZONI: "...io non mi fido dei magistrati..'') verso la categoria dei magistrati ("...e neanch'io!...[...]), in quanto è comprensibile che, in ragione dei rapporti che svariati appartenenti alla magistratura avevano inopportunamente intrecciato con MONTANTE, all'esterno potesse trapelare un'immagine complessivamente falsata dell'intero ordine giudiziario. Ovviamente a nulla vale rilevare che, fino all'esplosione del caso mediatico-giudiziario, nessuno poteva conoscere il doppio volto dell'antimafia montantiana, in quanto, se ciò poteva giustificare per il quisque de populo alleanze associative o professionali, o anche politiche, con MONTANTE, gli appartenenti alla categoria dei magistrati avrebbero potuto e dovuto evitare, al di là della legittima e giustificata partecipazione ad incontri di studio o comunque di carattere scientifico, pericolose ed ambigue promiscuità con gli uomini di potere, quanto meno a salvaguardia e gelosa custodia del valore dell'imparzialità, anche soltanto percepita, della magistratura, che costituisce lo scudo più robusto del prestigio dell'intero ordine giudiziario. In tale quadro, dunque, pare iscriversi la scelta di VENTURI di anticipare la propria posizione per le vie giornalistiche, in quanto, sebbene ogni discovery nuoccia alla speditezza e alla fluidità delle indagini, nell'ottica di VENTURI essa era un espediente per "costringere" una Procura della Repubblica, eventualmente esitante, ad affrontare il caso nel modo più corretto ed imparziale possibile, senza gratuite pronazioni alla corte di MONTANTE. All'epoca, infatti, VENTURI non poteva conoscere gli enormi sforzi investigativi che venivano quotidianamente compiuti per superare le falle che via via si presentavano nelle indagini, a causa dei numerosi addentellati nelle istituzioni sui quali l'imprenditore di Serradifalco poteva contare. Di seguito la conversazione cui si è testé fatto riferimento: Conversazione ambientale n. 3068: Dall'inizio della registrazione e fino al minuto 02,35 OMISSIS in quanto VENTURI Marco e BOLZONI Pietro dialogano con tono amichevole senza affrontare alcun dialogo rilevante. Dal minuto 02,36, per il particolare contenuto, si trascrive integralmente:

[…] VENTURI:...sono molto spaventato per me e soprattutto per Alfonso ...

BOLZONI:...Alfonso l'ho incontrato io oggi...gli ho detto io, umanamente, ti sono vicinissimo, però tu devi parlare con Attilio perché io non so cosa dirti...cosa è meglio, cosa non è meglio capito? Non ho gli strumenti io per...

VENTURI:...(più parole incomprensibili)...

BOLZONI:...si...assolutamente...perché mio fratello non ha interesse...

VENTURI:...non ha interesse...(più parole incomprensibili)...quindi oggi io volevo iniziare a... (inc)...prendere un appuntamento con lui...vedere dove incontrarci...(inc)...

BOLZONI:...esatto... (inc)...

VENTURI:...ci vuole un consiglio...(inc)...

BOLZONI: io ho detto che in questa operazione ci vuò...occorre...scusa Marco...discernimento tra...

VENTURI:...si...non c'è dubbio...(Più parole incomprensibili a causa del tono della voce troppo basso). . . e poi che mi succede...e io sono solo...

BOLZONI:...e io non so cosa dirti di questo...

VENTURI:...no no... (più parole incomprensibili)...

BOLZONI:...certo...

VENTURI:...io oggi devo tutelare Alfo...(inc)...devo tutelarlo Alfonso perché è da tre anni che...(più parole incomprensibili). ..ha fatto una guerra partendo da... (inc)...

BOLZONI:...spietata...spietata...

VENTUR1:...spietata...(inc)...senza guardare in faccia nessuno...

BOLZONI: infatti ho detto ad Alfonso...è diventata un 'operazione di discernimento tra...(inc)

VENTURI: ...(inc)...

BOLZONI: ...MONTANTE...tra BOLZON1...tra VENTUR1...tra CICERO...tra LUMIA...tra ALFANO...

VENTURI: ...(inc)...le istituzioni...

[…] A questo punto, ed esattamente al minuto 05,46 e fino al minuto 07,01 OMISSIS in quanto il tono della voce di VENTURI Marco è troppo basso ed il contenuto del dialogo diventa del tutto incomprensibile. Dal minuto 07,02 si trascrive integralmente:

VENTURI: Il senatore LUMIA e CROCETTA... (inc)...ci ho creduto... (inc)...

BOLZONI:...tutti ci abbiamo creduto...

VENTUR1:...tutti ci abbiamo creduto... (inc)...

BOLZONI:...e a nessuno è venuto in mente...

VENTURI:...per questo ti dico...cosa è successo...sono cambiati loro o cosa è successo?

BOLZONI:Marco...la sai qual è la differenza...che tu avevi la tua azienda...Alfò...Alfonso è una persona onesta... io un 'altra persona onesta...

VENTURI:...Ci hanno utilizzato...

BOLZONI:...Ci hanno strumentalizzato e utilizzato...tu per essere per bene...il mio essere per bene... l'essere per bene di Alfonso...ci hanno utilizzato... questo è... allora bisogna usci...discernere e uscire, cioè studiare un exit strategy capito?...Che non so qual è ..perchè...io non mi fido dei magistrati...

VENTURI:..e neanch'io!... (inc) . ..

BOLZONI: eh... capisci!.. . capito...quindi non lo so chi sono...ci saranno sicuramente il onesti.. .ci sono...

VENTURI: ...(Più parole incomprensibili)...

BOLZONI: esatto, esatto!

VENTURI: avendo la certezza... (inc)...di stabilire tempi e modi... (inc)

BOLZONI: esatto! Perfetto!

VENTURI: (Più parole incomprensibili)...

BOLZONI: mio fratello rientra il quindici e... […]

Di indubbio rilievo, nel quadro del vaglio della credibilità di CICERO, risulta l'ulteriore sviluppo della conversazione testé esaminata, la quale proseguiva dopo l'arrivo dello stesso. Nelle parole di CICERO, in particolare, non è possibile riconoscere alcun gratuito anímus nocendi nei confronti di MONTANTE, ma soltanto la ferma determinazione di ristabilire la verità sull'impegno antimafia, predicato ma non praticato dal medesimo MONTANTE, un'antimafia in ossequio alla quale CICERO, quale presidente dell'I.R.S.A.P., si era sovente sovraesposto, illudendosi che eguale sovraesposizione avrebbe accettato il suo apparente mentore, l'imprenditore di Serradifalco. La determinazione di emancipare la propria immagine da quella prototipica di MONTANTE appare tuttavia convivere, nelle esternazioni di CICERO, con la paura di cadere sotto i colpi di possibili dossier falsi, costruiti ad arte al fine di ledere la sua immagine e reprimerne l'atto di ribellione. Si tratta di un dettaglio di importanza non certo recessiva nello scrutinio delle reali intenzioni perseguite da CICERO mediante le dichiarazioni poi rese dallo stesso all'autorità giudiziaria, intenzioni che solo in astratto potrebbero essere declinate secondo desinenze dubitative per effetto del lungo lasso di tempo durante il quale egli aveva mostrato di aderire agli strepiti dell'antimafia montantiana.

Di seguito il contenuto della parte della conversazione cui si è fatto riferimento: […]

BOLZONI: Io non so cosa ti...

CICERO: Cioè_..ma non dobbiamo avere difficoltà noi a parlare come...siamo...mi segui o no?

BOLZONI:...si...ho capito...

CICERO: Chi minchia avimu difficoltà a parlare... un n'avimu... se tu sai che poi Attilio magari la guarda solo da questo punto di vista e socchi succede succede... (inc)...no da un punto di vista negativo...ma non lo so...quello che tu mi stai dicendo mi sta facendo riflettere...

BOLZONI: ..e non lo so come...non è che sono mio fratello... capito?

CICERO: Eh...questa...Pietro è così...Pietro è vero...non è che sta dicendo...ognuno fa un proprio lavoro...

BOLZONI: ...ho capito._.io non so quello__.è vero_..è giusto... (inc)...

CICERO: ...io ti conosco Piè!

BOLZONI: ...ho capito.._non sono io...

CICERO: ...e...(inc)...che ti conosce...

BOLZONI: ...e...ho capito... io non so...quindi io non so...capito? Non sono la... (inc)...di mio fratello...

CICERO: Certo... qua ognuno ha il proprio lavoro... la propria vita...

BOLZONI: ...(inc)...esatto

CICERO: ...ma questo è così per tutti...

BOLZONI: esatto..figurati

CICERO: lui può garantire..

BOLZONI: umanamente posso...

CICERO:...mancu pì un figliu unu po (inc)... u figliu avi a propria personalità...

VENTURI: avanti! (si sente bussare)...

[…] Il dialogo che segue (progr. n. 3069 del 3 agosto 2015; cfr. all. n. 74 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.) è di fondamentale importanza, in quanto CICERO e VENTURI esprimevano innanzi a Pietro BOLZONI le reali ragioni per le quali essi intendevano incontrare il fratello Attilio, che non erano quelle di assicurare a quest'ultimo uno scoop giornalistico, ma quello di sollevare, tramite il caso mediatico, il caso giudiziario, con le accortezze necessarie, tuttavia, per proteggersi contro gli atti vendicativi che certamente MONTANTE avrebbe posto in essere. CICERO, inoltre, mostrava la consapevolezza di essere stato strumentalizzato da MONTANTE per fittizie battaglie legalitarie, atteso che quest'ultimo non aveva mai denunciato alcuno per reati di mafia, continuando, al contempo, a mantenere forti legami con soggetti della vecchia guardia politica. Pietro BOLZONI, inoltre, nel tentativo di spiegare l'ascesa di MONTANTE, si lasciava andare ad una lucida analisi politica, soffermandosi, in tal modo, sul potere dell'asse siciliano, raffigurato, emblematicamente, da Angelino ALFANO, capace di rimanere in sella al cambiare del colore - ingannevoli giochi cromatici - dei governi che si susseguivano (“...ti faccio un'altra riflessione qua...ALFANO è stato Ministro degli Interni...Ministro della Giustizia....Segretario ...(inc) … nemmeno... (inc)... e RESTIVO...(inc)...hanno avuto tanto potere...e questo è...(inc) … nemmeno...(inc) ...ALFANO è stato Ministro degli Interni...Ministro della Giustizia...(inc)...ed è sempre là! Quali soggetti lo sponsorizzano? Quale ambiente lo sponsorizza? [...] L'asse siciliano qual è...qual è...quali sono quei poteri che fanno per me di uno scemo l'uomo più...uno degli uomini più potenti d'Italia! Centro Destra...Centro Sinistra...è la continuità di certi poteri...")

[…] A questo punto, ed esattamente al minuto 04,06 dall'inizio della registrazione e fino al minuto 21.14 OMISSIS in quanto i tre continuano a ripetere gli stessi discorsi fatti in precedenza. CICERO e VENTURI aggiungono soltanto che forse sarebbe meglio aspettare che Attilio (BOLZONI) scenda in Sicilia e, dopo averli ascoltati ed avere assunto tutta una serie di notizie di vario genere, comprese quelle che riguardano alcune persone, gli dirà lui a quale magistrato o a quale investigatore rivolgersi per incontrarlo perfare partire immediatamente un'azione giudiziaria. Al minuto 09,07 dall'inizio BOLZONI propone di telefonare a Gabriella, anziché telefonare al fratello, per dire che ci sono due persone che vogliono parlare (con il fratello) ma CICERO dice che forse sarebbe meglio che quando Attilio rientri a Caltanissetta, il fratello Pietro ci parli di persona.

BOLZONI replica dicendo che non sa di preciso se il fratello Attilio, dopo il viaggio in Egitto, rientri subito a Caltanissetta. ma lo saprà. Quindi i tre convengono che in effetti è meglio aspettare il rientro di BOLZONI Attilio a Caltanissetta e che per adesso è meglio non parlarne con nessuno.

[…] Premesso che CICERO e VENTURI riuscivano, effettivamente, ad incontrare ripetutamente Attilio BOLZONI a far data dall'11 agosto 2015 (ciò che è puntualmente ricostruito nella più volte citata C.N.R. n. 1092/17, da p. 212), risultano agli atti diverse altre intercettazioni ambientali di conversazioni intercorse tra VENTURI e CICERO, da cui emerge pacificamente il senso dell'iniziativa della rottura, mediatica e giudiziaria, con MONTANTE, certamente estranea ad ogni intento di esibizionismo pubblico, ma anzi condotta all'ombra di un forte metus per le possibili azioni ritorsive del potentissimo imprenditore, amico di magistrati, prefetti, ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza e di alti funzionari della Polizia di Stato. Tra tali conversazioni, una, risalente al 15 settembre 2015 (progr. n. 2676; cfr. all. n. 86 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.), appare particolarmente significativa, in quanto CICERO, discutendo con VENTURI, si soffermava sulla necessità che, all'intervista a quest'ultimo che avrebbe pubblicato BOLZONI, seguisse, sine ullo medio, la loro deposizione innanzi ai magistrati inquirenti, nell'ottica di ciò che, con felice sintesi lessicale, egli definiva, come sopra anticipato, "educazione istituzionale”. […] Anche la conversazione successiva, sempre del 15 settembre 2015 (R.Int. n. 347/15, progr. n. 2677 e R.Int. n. 347/15, progr. n. 2678), nella quale CICERO e VENTURI provavano ad immaginare le domande che sarebbero state rivolte loro dagli inquirenti, appare di sicuro rilievo nella valutazione della credibilità di entrambi, posto che gli stessi, oltre a mostrare una effettiva conoscenza dei fatti che intendevano esporre ai magistrati, si sforzavano di calibrare il registro espressivo in modo ad evitare enfatizzazioni o rappresentazioni iperboliche delle vicende narrate e del sentimento di apprensione con cui stavano vivendo la drastica risoluzione di ogni rapporto con MONTANTE: Conversazione ambientale n. 2677: In ufficio sono presenti Marco Venturi e Alfonso Cicero. Quest 'ultimo chiede a Venturi che risposta darà al PM quando chiederà spiegazioni in merito alla paura che dice di avvertire. OMISSIS

CICERO: Scusi dottore Venturi, la cosa più importante in questo momento per noi è la paura...da dove gli proviene e da cosa? Concretamente però! Che cosa gli rispondi?

VENTURI:(inc) perché sono spaventato (inc) la microspia.

CICERO: La microspia...perfetto...ma dopo che gli spieghi cos'è e non era una cosa contro di te...perfetto...si ma la paura perché? Era contro di lei? E tu gli devi dire ”No"...

VENTURI: Eh?

CICERO: E tu gli dirai "non era contro di me” e quindi gli dovrai sempre spiegare questa paura...

VENTURI: Paura psicologica! Non è una paura che io ho avuto delle minacce! […]

OMISSIS

Cicero dice di avere riletto più volte tutto il documento e qualcuno potrebbe chiedersi come mai ha confidato tutte queste cose a Venturi e non ad un organo di Polizia con cui Cicero ha un rapporto quasi quotidiano. La risposta a questa domanda, dice Cicero, sta nel fatto che ha una fiducia in Venturi con cui ha condiviso da sempre questa battaglia. Cicero dice che per i motivi appena esposti devono far uscire le cose ma nel modo giusto, compresa la notizia sulla Security. Cicero in sostanza dice che le cose che faranno uscire sulla stampa non devono precedere ciò che diranno al Magistrato e sopratutto Venturi non dovrà riferire circostanze di cui è a conoscenza Cicero in quanto dovrà essere Cicero stesso a dichiararle. Cicero prende appunti della conversazione e annota ”Security ...Cicero Di Francesco più testimoni". Cicero a questo punto chiede se c'è qualche altro punto del documento che è risaltato agli occhi di Venturi. Si trascrive integralmente dal minuto 10.29 della registrazione.

[…] OMISSIS

I due continuano a parlare della ''paura" che Venturi dichiarerà di avere. Quest'ultimo parla di segnali e Cicero dice che si tratta invece di cose concrete visti gli ultimi eventi, seppur non si tratti di incursioni in casa o cose del genere. I due sono d'accordo nel dire che una volta pubblicato l'articolo ci sarà un terremoto e non dovranno più fare errori di nessun genere. Cicero legge a bassa voce ed in fretta il testo di un documento che comincia così “C'è una voce dal di dentro che rompe un silenzio di tomba...per la prima volta una figura rappresentativa degli imprenditori dell'isola parla di Antonello Montante...delegato per l'antimafia...”. I due concordano di apporre delle piccole correzioni, in particolare nell'uso dei termini. Al minuto 20.18 della registrazione Cicero nomina Di Francesco e dice di avere svolto un gran lavoro antimafia nelle aree industriali; parla del fatto che lo vogliono fare fuori e aggiunge che tutto quello che si è scatenato nelle aree industriali contro di lui si riflette anche su Venturi. Infine Cicero nomina delle circostanze e dei soggetti coinvolti nella loro denuncia: parla di quelli che all'interno di Confindustria hanno pressato Venturi per commettere un reato, parla di Di Francesco e delle aree industriali, parla del fatto che le persone che fanno il "doppio gioco” lo volevano fare fuori, del fatto che terza persona ha detto che deve fare fallire "gli amici di Caltanissetta". Cicero dice che ci sono dieci o quindici fatti che giustificano la loro inquietudine. […]

Riparte l'indagine sulle maschere siciliane. La Repubblica il 5 novembre 2019. Una data certamente importante nella ricostruzione degli eventi è quella del 17 settembre 2015, quando veniva pubblicato sul quotidiano La Repubblica l'articolo a firma di Attilio BOLZONI intitolato "Trame e affari torbidi la svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno”, contenente l'intervista rilasciata da VENTURI. La prima riflessione esternata da quest'ultimo immediatamente dopo la pubblicazione, che dà la misura della sofferenza interiore che aveva accompagnato la presa di distanze da MONTANTE, era quella della liberazione da un peso, una sorta di catarsi dopo tre anni di tormento interiore, nel corso dei quali aveva finito per considerare non più accettabile la propria vicinanza al vice presidente di Confindustria nazionale e al suo sistema di potere. Tanto emergeva, infatti, dalle conversazioni telefoniche avute da VENTURI prima con CICERO e poi con BOLZONI (cfr. trascrizione telefonate contenuta nella C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 231). […] Nel pomeriggio di quello stesso 17 settembre 2015 CICERO e VENTURI si presentavano spontaneamente in Procura per rendere dichiarazioni, sulla cui attendibilità non è possibile discettare, anche alla luce della intercettazione del giorno successivo, in cui VENTURI, innanzi a Massimo ROMANO (si ricorderà, l'amico di MONTANTE, titolare di supermercati e presidente del CONFIDI), esprimeva il proprio disgusto per la strumentalizzazione subita ad opera del predetto MONTANTE, che lo aveva indotto ad accreditare il boss V. ARNONE dentro l'associazione nissena degli industriali, tacendone consapevolmente la qualità di mafioso. Identica strumentalizzazione, secondo VENTURI e ROMANO, il potente industriale aveva praticato nei loro riguardi, suggerendo, ma non eseguendo personalmente, l'espulsione dall'associazione dell'Ing. DI VINCENZO, sicché VENTURI concludeva che l'esito finale di tali giochi di "interposizione di persona" (il lessico è del giudice) era la sovraesposizione del solo CICERO, che era l'unico che realmente, credendo senza riserve nella battaglia alla mafia, aveva “rischiato la vita vera!! Perché (incomprensibile)...ha licenziato delle persone....ha tolto solo degli appalti della mafia! Un coglione! Mica se l'è inventati?! Allora loro utilizzavano Alfonso per entrare ed uscire? Quando gli serviva Alfonso (incomprensibile)...un'espulsione per mafia non c'è stata (incomprensibile)”. Si riporta il contenuto della conversazione, con brevissime note di sintesi della polizia giudiziaria (cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 238): […] OMISSIS

VENTURI: No...lì ci sono...c'è (Incomprensibile)...sai quanta gente che ha chiamato? Mi ha chiamato uno (Incomprensibile) Vinci..."Sai per me...sai anch'io ho pensato di denunziare... "... "Ascolta, a me non mi dire niente. Se sai vai in Procura...se hai notizie di reato vai in Procura a dirle (Incomprensibile) a Palermo" (Incomprensibile) ma a me (Incomprensibile)....cioè...vai in Procura! Io gliel'ho detto... gli ho detto "Stai tranquillo e vai!"... VINCI ...(Incomprensibile)nella quale lui dichiara che De Simone era in uso a fare attività di intercettazione per Confindustria...e lo fa per iscritto! (Incomprensibile)...

ROMANO: ieri mi sono sentito con Michele...tu l'hai sentito?

VENTURI: Si (Incomprensibile)...

ROMANO: ...(Incomprensibile) Mi fa... "inchia iddru si vulìa jittari! "

VENTURI: Eh?

ROMANO: Dici che si voleva buttare (incomprensibile)... ci dissi "Compà...stai sereno!" (ride)

VENTURI: ...(incomprensibile) Ora lo chiamo...(incomprensibile)...ieri poi ho chiamato a Pietro (Incomprensibile) dopo un po' (Incomprensibile) il telefono e fa...dodici e quarantasei una telefonata...chiamata senza risposta di Antonello Montante (Incomprensibile). . . dissi assurdo. .. com'è possibile...

ROMANO: Ah ti chiamà Antonello?

VENTURI: Si!

ROMANO: E tu u richiamasti?

VENTURI: Che sei scemo? Io ho avuto uno squillo...uno squillo (Incomprensibile)...ah quindi tu Montante tu (Incomprensibile)?

ROMANO: Si l'ho chiamato io che erano le tre e mezza...ci dissi...perché era (Incomprensibile) perché anch'io la mattina mi è arrivata la notizia...non sapevo un cazzo e quindi (Incomprensibile) … comunque una cosa che... cioè alla fine tu ti lassi puru cu tu muglieri no? Cioè comunque abbiamo condiviso un percorso insieme...cioè un...allora la rabbia è più data dal rispetto e dall'affetto che c'era prima.... Un percorso.

VENTURI: (Incomprensibile) E se avevamo condiviso un percorso...insieme...

ROMANO: Insieme relativo Marco...noi lo pensavamo (Incomprensibile) [...]

VENTURI: (Incomprensibile) Ma io sono incazzato con Antonello Montante perché lui è stato il testimone di nozze di Arnone... io...personalmente...

ROMANO: Non c'è niente di male....

VENTURI: (Incomprensibile) Diciassette anni...in un paese (Incomprensibile)...nel novantasette quando lui fa entrare Arnone...Il testimone di nozze era lui! Lui lo doveva presentare...fìrmare...e mettere (Incomprensibile) ...ma tu sapevi che era mafioso! Hai fatto l'azione in malafede...ora...viene la mia elezione (Incomprensibile)...mi ha utilizzato (Incomprensibile) i saggi … siamo stati nominati...lui si fa (incomprensibile)

ROMANO: No, no...

VENTURI: Tu eri Presidente (Incomprensibile) ...incensurati...(incomprensibile)...insieme a te! (incomprensibile)

ROMANO: Bastardo!

VENTURI: No! E invece io sono incazzato per...cioè non...poi dopo tutte le altre cose!

ROMANO: Dopo... (Incomprensibile)...

VENTURI: Come no?

ROMANO: Ed io. . .perché accetto la discussione all'interno?

VENTURI: (Incomprensibile)...Alfonso...Alfonso è l'unico che (Incomprensibile)

ROMANO: Vero!

VENTURI: E' l'unico che ha rischiato la vita vera!! Perché (Incomprensibile)...ha licenziato delle persone... ha tolto solo degli appalti della mafia! Un coglione! Mica se l'è inventati? Allora loro utilizzavano Alfonso per entrare ed uscire? Quando gli serviva Alfonso (Incomprensibile)...una espulsione per mafia non c'è stata (Incomprensibile)

ROMANO: Voleva che io espul... facevo l'espulsione di Di Vincenzo (Incomprensibile)

VENTURI: Bravo, sempre gli altri! Lui una firma, che io ricordi...il primo che firma l'espulsione (Incomprensibile) sono io! Presidente (incomprensibile)

ROMANO:(Incomprensibile)

VENTURI: Perché è crollato tutto! Lo ricordo perfettamente cioè non.

ROMANO: E infatti si...

VENTURI: E io ho firmato perché per me era una battaglia importante! Cioè non ho remore (Incomprensibile) Ma che cazzo significa? (Incomprensibile) Assumendomi le mie responsabilità! (Incomprensibile)... e noi lo sappiamo...(lunga frase incomprensibile) […]

VENTURI: Non può essere Massimo! Continuare a tenersi tutto dentro equivale a continuare a mentire su tutto! Che mentre oggi posso dire...le biciclette se le...non le hanno fatte mai.. (Incomprensibile) tutto documentato....prima siccome (incomprensibile)...i torroni...Massimo i torroni (Incomprensibile) ...scusami...io per me...l'ho scoperto veramente tardi che non era sua...per me era la sua azienda! Come se il marchio CSD non è di Romano...per me sei tu il CDS! Sai che nessuno della tua famiglia è socio del CDS! Eh! O no? Se tu fai il marchio penso che qualcuno di voi ci sarà in rappresentanza...uno! Non dico tutti!

ROMANO: I marchi sono CDS... (ride)

VENTURI: O no!

ROMANO: Ma certo!

VENTURI: Un'azienda tua...anche un'azienda piccolina e non ci metti uno ...un tuo nipote un tuo...non è giustificabile! (Incomprensibile) Lui si deve giustificare!

ROMANO: (Incomprensibile) i suoi Poliziotti...

VENTURI: (Incomprensibile)

ROMANO: No! Guarda Marco! Si ci guadagna

VENTURI: Massimo io non mi confondo! Se io...

ROMANO: Allora io ho passato degli anni più brutti della mia vita...mi segui? Però li ho passati affettuosamente sereno...cioè io quando qui in questo tavolo, guardando in faccia Beppe Lumia gli ho detto "Ma vai a ,fare in culo perché tu vuoi che io denunzio una cosa che non ho fatto e io non la faccio.. hai capito?”...voleva che io denunziassi...

VENTURI: (Incomprensibile) come cazzo ti permetti di dire a Massimo...

ROMANO: Cioè...mi segui? Voleva estorcermi di andare lì a fare una dichiarazione per poi farlo diventare presidente dell'antimafia...

VENTURI: E ti vincolava!

ROMANO: Bravo! Quindi...quando l'ho mandato a fare in culo e ho passato gli anni, e tu lo sai, più brutti della mia vita perché...minchia! Minchia! Guarda...minchia! Non potrò mai dimenticare... […]

§ 3. II vaglio di credibilità di Cicero e Venturi. Le intercettazioni fin qui esaminate dimostrano l'effettiva matrice genetica della volontà di CICERO e di VENTURI di offrire agli inquirenti il loro contributo nel disvelamento del “sistema MONTANTE", volontà che non risponde ad alcuna architettura strategica dalla finalità carrieristica, ma è per converso accompagnata dalla consapevolezza della estrema delicatezza di una scelta che importerà l'espulsione dai circuiti del potere. Ad ulteriore avallo della tesi della loro correttezza e lealtà nella esposizione dei fatti innanzi all'autorità giudiziaria, può essere utile prendere in considerazione il contenuto delle conversazioni intercettate intercorse tra i due, prima che VENTURI rendesse dichiarazioni nelle date del 12, 14 e 28 novembre 2015. CICERO e VENTURI, in particolare, mentre il primo coadiuvava il secondo nella stesura di un promemoria riguardante i suoi trascorsi, le sue interrelazioni con MONTANTE, le amicizie di quest'ultimo all'interno delle istituzioni o le strategie, sempre dell'imprenditore di Serradifalco, per la "compera" del consenso della stampa, mostrano, nella rievocazione dei ricordi tra trasporre nel documento, un approccio meramente cronachistico agli eventi passati, senza alcuna interpolazione storica dei fatti eventi o escrescenza narrativa scevra di reale base mnestica. A fini meramente esemplificativi, si riportano alcuni brani della conversazione captata in data 9 novembre 2015 all'interno degli uffici della società Sidercem s.r.l. di Marco VENTURI (R.Int. n. 347/15, progr. nn. 5436, 5437, 5438, 5439; cfr. C.N.R. 1092/2017 cit., da p. 297), che rilevano non tanto per l'oggetto in sé del dialogo, bensì per lo stile storiografico adottato dai loquenti, fermi nella necessità di un recupero memoriale asettico, privo di additivi soggettivi e personali che potessero alterare la consistenza delle vicende da esporre, in termini ingiustificatamente accentuativi o riduttivi: Conversazione ambientale n. 5436: Dall'inizio della registrazione e fino al minuto 00,27 OMISSIS in quanto VENTURI Marco CICERO Alfonso conversano senza proferire nulla di rilevante ai fini delle indagini. Al minuto 00,28 CICERO rilegge un documento e pertanto, dal minuto 00,28 si trascrive integralmente: CICERO: Allora... a quell'incontro partecipai insieme ad altri dirigenti... e tutte ste cose no? MONTANTE e LO BELLO ci dissero di contribuire con una quota...(inc)...tra i dieci e i ventimila...(inc)...per sponsorizzare alcune iniziative editoriali!..LO BELLO sottolineava no? Che tale … sottolineava no ?...che in quella riunione...che tale sostegno economico poteva servire per evitare attacchi mediatici da parte di giornalisti della suddetta testata Giuseppe LO BIANCO e Sandra...(inc)...che scrivevano sul Fatto Quotidiano e che avevano intrapreso no? Eh...iniziative di...di aprire il nuovo...(inc)...il nuovo giornale online L'Ora Quotidiano...virgolette...allora a parte...dici...che ti glieli hai dati e giusto? Ne...(lnc)...a MONTANTE poi...sai che gli altri glieli hanno dati pure o no?

VENTURI: Si si si...tutti...

CICERO: Okey...diamo le notizie essenziali ora...

VENTURI: ...si...

CICERO: ...eh...tu dopo...dopo un po' di giorni...quando è stato?

VENTURI: Si...poi c'era CATANZARO che si occupava.. (inc)...

CICERO: ...della raccolta?

VENTURI: (inc)...delle mail da mandare al responsabile... (inc)...di questo progetto...

CICERO: ..uhm...

VENTURI: ...questo ci contatto e quindi...(inc)...

CICERO: ..CA TANZARO curò...eh... il rapporto con la redazione...

VENTURI: ..(inc)...

CICERO: il...CA TANZARO...fece avere a...al

VENTURI: ...(inc)...

CICERO: ...al citato giornale i riferimenti...i riferimenti no?

VENTURI: (inc)...

CICERO: ...i riferimenti di diversi esponenti...

[…] Conversazione ambientale n. 5437:

CICERO: Catanzaro fece avere al citato giornale i riferimenti di diversi esponenti di Confindustria per effettuare i relativi contatti per l'erogazione del contributo...a distanza di circa un mese effettuai un bonifico di dieci mila euro e successivamente un altro di altri dieci mila euro no?

VENTURI: Si...

CICERO: ...a favore de L'Ora Quotidiano...

VENTURI: ...(inc)...

CICERO: per quanto ho saputo anche AMARU'...penso o no?

VENTURI: ...AMARU'...

CICERO: ...(inc)...CA TANZARO...

VENTURI: CA TANZARO...

CICERO: ...TURCO, CAPPELLO...

VENTURI: ...si tutti...

CICERO: ...ALBANESE..corrisposero alla citata testata giornalistica dei contributi economici … MONTANTE mi disse che aveva dato il proprio contributo in nero...questo è un aspetto da segnalare...

VENTURI: ..si..

[...] A questo punto, ed esattamente al minuto 14,28 dall'inizio della registrazione e fino al minuto 15,42.

OMISSIS in quanto CICERO chiede un fazzoletto per gli occhiali e dice di completare l'argomento parlando delle Forze dell'Ordine. Dal minuto 15,43, si riprende la trascrizione integrale:

VENTURI: Partendo dal basso ORFANELLO, ARDIZZONE...

CICERO: Allora...io poi... (inc)... gli metto le qualifiche però...se no...drà erano tutti Prefetti e quindi...perciò il Maggiore no? Ettore...

VENTURI: Ettore...

CICERO: ...ORFANELLO...no sai che facciamo noi? A ognuno e poi mettiamo le date e tutte ste cose e poi andiamo...(inc)...dimmi tu di ORFANELLO capito? Conviene fare così se no... (inc)...

VENTURI: ...di ORFANELLO sapevo...ho saputo che ORFANELLO aveva un'amante che lavorava da Massimo ROMANO... (inc)...

CICERO: ...ca tu dissi iddru...

VENTURI: Massimo!

CICERO: No ma anche LUCIANI te l'ha detto...anche a me me l'ha detto...no l'amante...mi dissi ma lei una biondona...ci dissi...cu minchia è!

VENTURI: Massimo... era l'amante...

CICERO: ...quindi era di ORFANELLO...

VENTURI: per togliersela davanti...

CICERO: ...scusa e chiddra di ARDIZZONE è la figlia allora?

VENTURI: Si...

CICERO: Va be ci stà...chiddru è vicchiu!

VENTURI: ...per togliersela davanti le palle...va...dall'azienda se l'è portata al consorzio FIDI...

CICERO: ...certo...okey...e di altro di ORFANELLO?

VENTURI: ...(inc)...

CICERO: ...che aveva un rapporto importante con Antonello?

VENTURI: Aveva un rapporto strettissimo con Antonello...

CICERO: ...questo non ce lo dobbiamo mai dimenticare...(inc)...

VENTURI: (inc)...

CICERO: ...rapporti sempre di frequenza e di tutto il resto...il Maggiore della Guardia di Finanza Ettore ORFANELLO aveva frequenti rapporti...frequenti rapporti con MONTANTE … punto … ORFANELLO aveva assunto...no ORFANELLO...Massimo ROMANO...

VENTURI: ...lavorava già da Massimo ROMANO...no che... (inc)...

CICERO: ...e lo so...si! Amanti dobbiamo scrivere? La compagna...poi...(inc)...sapranno loro che erano amanti giusto? Ah?

VENTURI: ...(inc)...

[...] VENTURI: Poi ARDIZZONE...

CICERO: Gianfranco ARDIZZONE...eh... già comandante della Guardia di Finanza...

VENTURI: ...di Caltanissetta. ..

CICERO: di Caltanissetta. . . cosa devi raccontare?

VENTURI: Che lui è venuto qui un giorno...

CICERO: Intanto aveva rapporti con MONTANTE?... (inc). ..

VENTURI: ...aveva rapporti...(inc)...can MONTANTE e aveva rapporti anche con...(inc)...eh...mi è venuto...è venuto qui e mi ha detto che cercava lavoro per la figlia... una richiesta di lavora...(inc).. per assumere la figlia...

[…] Conversazione ambientale n. 5439: Dall 'inizio della registrazione e fino al minuto 01,41 OMISSIS in quanto a causa del tono della voce molto basso di VENTUR1 Marco il discorso è poco comprensibile. Dal minuto 01,42 dall'inizio della registrazione, si trascrive integralmente:

CICERO: Allora ARDIZZONE...ARDIZZONE aveva un rapporto molto stretto con MONTANTE e si frequentavano...si frequentavano spesso?

VENTURI: Eh?

CICERO: Si frequentavano con MONTANTE...ARDIZZONE?

VENTURI: Si...

CICERO: ...si frequentavano spesso...punto...poi...

VENTURI: Poi... generale ADINOLFI... io sono stato... (inc)...BERNINI...ospite di Antonello...

CICERO: ...il generale della Guardia di Firianza... (inc)...minchia incuntravu a chiddra... (inc). ..

VENTURI: ...uhm?

CICERO: Al compleanno che sono stato di Michele...(inc)._.PASQUALINO...mi ha detto che si era vista con te...(inc)...allora il colonnello della Guardia di Finanza...(inc)..il generale della Guardia di Finanza... aspetta...si?

VENTURI: ...insieme al BERNINI...eh...Antonello mi ha coinvolto in questa cena e c'erano il generale ADINOLFI, la moglie... (inc)...

CICERO: ...si...

[...] Orbene, è di tutta evidenza che CICERO e VENTURI, nel passare in rassegna tutte le amicizie strette da MONTANTE con i vari prefetti succedutisi a Caltanissetta, non esprimevano alcun commento volto a qualificare, in termini di giudizi di valore, il tipo di rapporto instaurato, limitandosi gli stessi ad una mera elencazione. Lo stesso tenore di apprezzabile oggettività permea di sé la conversazione nella parte in cui essa cade sui rapporti tra MONTANTE e due ufficiali della Guardia di Finanza, il Colonnello Gianfranco ARDIZZONE, odierno coimputato, e il Maggiore Ettore ORFANELLO (coimputato per cui si procede separatamente), il primo comandante provinciale a Caltanissetta (e, dopo qualche anno, capo centro D.I.A. nella medesima sede), l'altro comandante del nucleo di polizia tributaria (in sintesi: nucleo P.T.) presso il medesimo comando. E' bene a tal proposito rilevare come VENTURI, nella rievocazione di episodi specifici che avevano riguardato i due ufficiali, id est l'assunzione della figlia del primo e della compagna del secondo presso il CONFIDI sotto la presidenza di Massimo ROMANO, non appaia affatto mosso da un intento calunniatorio. Anzi, ripercorrendo le sue parole, trapela soltanto l'impegno ricostruttivo, senza alcuna pennellata gratuitamente disvaloristica. Per esempio, in relazione all'assunzione della figlia del Colonnello ARDIZZONE, Giuliana, presso il citato consorzio, VENTURI si apprestava ad annotare fedelmente il contenuto dei suoi ricordi (confermati nelle sommarie informazioni successive), secondo cui la richiesta di trovare un'occupazione lavorativa alla giovane gli fu rivolta direttamente dall'ufficiale, senza che gli risultasse alcun intervento propiziatore da parte di MONTANTE. Inoltre, di fronte ad alcune falle conoscitive di VENTURI, CICERO lo esortava ad attenersi, strettamente, al contenuto effettivo dei suoi ricordi ("[...] tu devi dire quello che sai...non ti devi creare il problema di quello che lui pensa...mi hai capito?"), senza alcuna protesi narrativa.

La difesa ad oltranza di Confindustria. La Repubblica il 6 novembre 2019. Così evidenziati gli elementi più salienti che supportano adeguatamente e in maniera incontrovertibile la credibilità dei principali accusatori di MONTANTE (e, di riflesso, di alcuni dei suoi coimputati), deve altresì rilevarsi come la loro esitazione a rompere gli indugi, rivelando agli inquirenti quanto a loro conoscenza, è ampiamente spiegata dai timori, da loro ripetutamente manifestati nel corso delle conversazioni esaminate, di subire una bieca reazione vendicativa da parte del predetto MONTANTE e della sua potente macchina del potere. Timori che, ex post, si rivelavano tutt'altro che infondati, posto che, alla pubblicazione dell'intervista di VENTURI su La Repubblica, seguiva una pronta presa di posizione di Confindustria nazionale, all'epoca presieduta da Giorgio SQUINZI, di tipo sostanzialmente espulsivo nei riguardi dello stesso VENTURI, e aprioristicamente solidaristica in favore di MONTANTE. Giorgio SQUINZI, infatti, alla lettura dell'articolo di stampa, si schierava apertamente dalla parte del suo vice, MONTANTE, sicché a VENTURI non restava altro che assumere una decisione abdicativa innanzi al collegio dei cosiddetti "probiviri", presieduto dal Dott. Federico LANDI, collegio chiuso in un ottuso j'accuse fondato su presunte violazioni, da parte di VENTURI, del codice etico confindustriale. Ciò emerge, in particolare, dalle sommarie informazioni testimoniali rese da Marco VENTURI il 2 novembre 2015, nonché dalla documentazione dallo stesso prodotta: Verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da Marco VE'NTURI il 2 novembre 2015 ...omissis...“ho chiesto di poter conferire con la S.V. per rappresentare quanto avvenuto negli ultimi giorni, successivamente all'intervista rilasciata in data 17 settembre scorso al quotidiano “La Repubblica".

La settimana dopo, infatti, e sin dal lunedì ho inviato più sms, dopo una iniziale chiamata senza risposta, al Presidente SQUINZI, chiedendogli un incontro ed anticipandogliene il contenuto; in particolare nell'ultimo sms del giovedì ho accennato a SQUINZI della necessità di parlargli della non applicazione del codice etico e, genericamente, difatti gravi. Sino al giovedì il Presidente SQUINZI mi ha sempre risposto in maniera cordiale, mentre all'ultimo messaggio, inviato in quella giornata, si è limitato a rispondere che si trovava a Taranto. Dopo circa mezz'ora ho ricevuto la lettera di convocazione dei probiviri nazionali che aveva, almeno in quel momento, un carattere interlocutorio. Sempre quel giorno, mentre mi trovavo all'aeroporto di Fiumicino, ho avuto modo di leggere un comunicato stampa di SQUINZI con cui esprimeva solidarietà incondizionata a MONTANTE. Ho immediatamente dettato un altro comunicato stampa per le agenzie con il quale mi dichiarava basito per le parole di SQUINZI, rilasciate senza che prima avesse avuto modo di ascoltare le mie ragioni. Gli organi di stampa nei giorni seguenti hanno dato atto di questo scambio di comunicati tra me e il Presidente SQUINZI. Successivamente ho ricevuto un 'ulteriore nota da parte dei probiviri, con la quale mi si intimava, pena l'espulsione da Confindustria, di non rilasciare ulteriori dichiarazioni o interviste alla stampa e mi si comunicava la convocazione per il giorno 1 ottobre presso la sede di Federchimica a Milano. ...omissis...

L'incontro ai probiviri è iniziato alle ore 14 dell'1 ottobre ed allo stesso erano presenti il dott. LANDI, altri 4 probiviri ed uno collegato in conference call. Preliminarmente ho chiesto perché la sede dell'audizione fosse stata spostata; il dott. LANDI mi ha fatto presente che gli era stato consigliato per evitare un danno di immagine a Confindustria e che tale sollecitazione gli era giunta dal Comitato di Presidenza di Confindustria Nazionale, ma alla mia insistenza nell'avere delucidazioni sul nominativo, è intervenuto uno dei probiviri che mi ha fatto presente che si trattava di decisione assunta dal collegio dei probiviri stesso. Preciso che in quella sede ho consegnato ai presenti un documento, copia del quale produca alla S. V. Ho anche chiesto perché avevano convocato me e non era, invece, mai stato convocato MONTANTE e mi è stato risposto che questi non aveva infranto alcuna regola del codice etico e non aveva avuto sino a quel momento alcun avviso di garanzia da parte dell'A.G. Ho risposto di essere personalmente a conoscenza di una indagine nei confronti del MONTANTE poiché ero stato escusso dall'autorità giudiziaria, ribadendo, pertanto che questi avrebbe dovuto essere sanzionato con l'espulsione o, al limite, con l'autosospensione. Per contro i probiviri mi hanno risposto che il comportamento da me tenuto in questi ultimi giorni e le dichiarazioni rilasciate alla stampa avevano, di fatto, decretato il mio allontanamento da Confindustria. Ho replicato che, pur essendo consapevole che in un contesto monolitico quale ormai è diventata Confindustria “i panni sporchi si devono lavare in famiglia", avendo ritenuto inopportuno affrontare quelle vicende all'interno degli organismi provinciali e regionali poiché composti da persone condizionate da MONTANTE. In realtà, questa indefessa fedeltà di Confindustria nazionale a MONTANTE aveva una spiegazione utilitaristica ben precisa, che emerge dalle parole di Nazario SACCIA, ex ufficiale della Guardia di Finanza (e già comandante del G.I.C.O. di Caltanissetta), transitato in E.N.I. s.p.a., vicino a MONTANTE e al coimputato Diego DI SIMONE PERRICONE, secondo cui la questione legalitaria era servita all'associazione degli industriali, in chiave strumentale, soltanto per acquisire la legittimazione a sedere allo stesso tavolo delle istituzioni, al di fuori di qualsivoglia teleologia di carattere etico: "...dice la meteora MONTANTE...la meteora MONTANTE è servita...è stato un astro...come dire ci ha consentito di stare su certi ri...su certe... su certi tavoli in un certo momento però vidi comu finiu...cioè ma a noi che cazzo ce ne fotte...noi che ama fari so/di...ama a fari business...siamo un associazione di imprenditori...mica di paladini della giustizia” (conv. tel. progr. n. 2679 del 5 febbraio 2016; vd. C.N.R. n. 1092/2017 cit., p. 1190). Tali parole, lette alla luce del rinvenimento (sequestro del 22 febbraio 2016), nell'abitazione di MONTANTE, di un'email inviatagli proprio dal presidente del collegio dei cosiddetti “probiviri”, Federico LANDI, mettevano a nudo una fortissima ragione associativa alla base della posizione avversativa assunta nei riguardi di VENTURI: MONTANTE, grazie ai suoi "collegamenti istituzionali con l'Interpol in Romania", avrebbe dovuto adoperarsi per evitare la deflagrazione di uno scandalo, legato a gravi illeciti commessi da Marco RONDINA nella qualità di direttore di Unionimprese Romania, che avrebbe potuto gettare una cattiva luce sulle imprese italiane e sull'organizzazione confindustriale. Per i dettagli, si richiama il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 498), che peraltro riporta integralmente il testo dell'email sopra menzionata e ne contiene una esplicazione ragionata e condivisibile:

Ed invero, all'esito delle perquisizioni eseguite da questo Ufficio nei confronti del MONTANTE in data 22.2.2016, all”interno di una cartellina intestata “Senato della Repubblica” e riportante a mano la scritta “Grifa ex Fiat Termini 1.” veniva rinvenuta una e-mail (di seguito riportata) che Federico LANDI (e cioè il Presidente dei Probiviri innanzi ai quali era stato convocato il VENTURI) inviava al MONTANTE il 14.10.2010: […] Sarà agevole rilevare come il LANDI, con quella e-mail, avesse inteso ragguagliare il MONTANTE di una “situazione delicatissima” - che aveva appreso nel corso di un incontro riservato avuto a Bucarest con il dott. Paolo SARTORI (indicato come Direttore del coordinamento Interpol del Sud Est Europa) e Fambasciatore italiano in Romania - riguardante i numerosi elementi di prova che le autorità inquirenti rumene avevano raccolto su collegamenti tra l”allora Direttore di Unimpresa Romania ed esponenti della criminalità organizzata italiana. Il LANDI evidenziava, altresì, che non era stata avviata sino a quel momento alcuna iniziativa in quel paese per volere del Premier rumeno “(“per evitarsi problemi con le imprese italiane numerosissime in un momento di grave difficoltà economica”) e riferiva delle preoccupazioni dell°ambasciatore italiano relative al fatto che - laddove le autorità politiche avessero dato il via libera ad eventuali azioni giudiziarie - ne sarebbe nato uno scandalo enorme che avrebbe finito per travolgere le imprese italiane ”e la stessa Confindustria”. Il LANDI riferiva, infine, delle iniziative che aveva già intrapreso affinché si procedesse, in prevenzione, a rimuovere il Direttore di Unimpresa Romania e chiedeva, altresì, al MONTANTE di attivarsi attraverso i suoi “collegamenti istituzionali con l'Interpol in Romania” per acquisire, in maniera formale, elementi che avrebbero consentito ai probiviri confederali di intervenire. Pare evidente concludere - almeno stando al contenuto letterale della mail in questione - che “i tavoli” attorno ai quali, anche grazie al MONTANTE, CONFINDUSTRIA Nazionale si era potuta sedere, servissero per finalità legate alla tutela degli interessi economici dell'associazione degli imprenditori, potendo dirsi particolarmente palese che il LANDI, assieme al MONTANTE, intendessero agire, nella vicenda in questione, “in prevenzione” e dunque al fine di evitare che l'associazione potesse risultare invischiata in vicende che, di certo, ne avrebbero procurato grave nocumento all'immagine. E' pertanto evidente come la posizione assunta da Giorgio SQUINZI e dal collegio dei probiviri nell'affare MONTANTE, quale già affiorava dalle pagine del giornale, non mostrava di essere ispirata ad una logica di preservazione dell'immagine di Confindustria rispetto a presunti attacchi mediatici da parte di un suo appartenente, ma ad una finalità di stampo utilitaristico-associativo. L'associazione nazionale degli industriali, dunque, benché annoverasse, al suo interno, anche un collegio dei "probiviri", chiamato ad assicurare il rispetto del codice etico, appariva legata ad un concetto trasimacheo di giustizia, secondo cui “Il giusto altro non è che l'utile del più forte". E in quel momento il più forte era MONTANTE. La proscrizione di VENTURI, quale hostis publicus, da Confindustria era soltanto una delle possibili sanzioni conseguenti alla lesa maestà del potente industriale. Questi, infatti, come si evince dalle conversazioni intercettate, aveva elaborato una visione nemetica dell'esistenza e delle relazioni personali, per cui chiunque, entrato in contatto con lui, avesse tradito le sue aspettative sinallagmatiche, sarebbe automaticamente transitato nella lista degli epurandi. Tanto si evince dal contenuto di diverse intercettazioni. L'8 febbraio 2016, per esempio, Rosanna BAIO, moglie di Michele TRUBIA, al ritorno da un cena cui avevano partecipato anche MONTANTE e l'amico sindacalista PASQUALETFO, commentava con il marito il proposito espresso dall'imprenditore di Serradifalco di "scassare" VENTURI, perché tutti coloro che lo avevano tradito dovevano "pagare". Ed è in tale contesto che MONTANTE, secondo la BAIO, pronunciava espressamente la parola “vendetta” (cfr. C.N.R. n. 1092/17 cit., da p. 374, e all. n. 133 alla medesima informativa). […] D'altro canto, meno di una settimana prima, MONTANTE, intercettato a casa propria nel corso di una cena, cui stava partecipando ancora una volta TROBIA, aveva affermato che era suo intendimento “rump/'ri u culu” a tutti coloro che lo stavano attaccando (cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 377).

Conversazione ambientale del 2 febbraio 2016, progr. nr. 109 omissis

omissis dal minuto 00.13.55 al minuto 00.28. 34, Montante spiega che è previsto a livello Nazionale e spiega le quote che pagano le aziende. Poi parlano di pietanze e di ciò che devono mangiare. Successivamente la conversazione viene integralmente trascritta.

TROBIA : e allura Antonello.... ca mafari.... ci ama rumpiri u culu a tutti... ?

VALENZA: (ride)...

MONTANTE: l'avvocato ...

TROBIA: ni pigliammu sta bella soddisfazione...

MONTANTE: u culu ci lu spaccammu di sìcuru.....

TROBIA: mi chiedevo per far fare un straordinario.. ne parlavo con lui... questo continuo ripetere ritornare alla stessa cosa non è un modo di aggredire... cioè non esiste questa... non dico... non è stolking.. non è... è una sorta di...continua aggressione ecco...un un reato di ammissione... ripetere per esempio fare un riassunto... spunta na notizia in un giornale su quella notizia scrivono poi ogni du íorna... c'è uno ca scrivi.. sempri.. il riassunto della stessa cosa.....

MONTANTE: non po fari nenti...

TROBIA: non si può fare niente vero... ? la stampa...

MONTANTE: non puoi fare niente... puoi fare solo ca.. puoi fare solo che...che non abbiamo (inc).. tutte le denunce informazioni querele normali.. querele più approfondite... già u fattu ca tu vidi... c'è ne sono di tu.. di tutti i colori.... aziende che hanno....hanno ricevuto .. avvisi di garanzia...? di tutto di più.... solo questo puoi fare... poi...poí..poi..poi... risarcimento danni.. poi tutto c'è...però per ora tu non è che puoi fare arrestare....ne ca ci po sparari... inc.....Il quadro si tinge di tonalità ancora più marcatamente decadenti se si considerano le parole pronunciate da MONTANTE qualche giorno dopo, anch'esse oggetto di captazione, nel corso di una conversazione dallo stesso intrattenuta con l'amico Calogero Giuseppe VALENZA, vice presidente della camera di commercio di Caltanissetta. In tale contesto, infatti, MONTANTE professava certezza circa l'adesione di Ivanohe LO BELLO ai suoi desiderata (relativi ad una questione non meglio precisata), posto che, altrimenti, egli gli avrebbe fatto saltare la testa, così come prima o poi avrebbe fatto a pezzi Pino RABIOLO, evidentemente transitato dalla lista bianca a quella nera delle sue relazioni sociali, dovendosi considerare quest'ultimo un traditore, alla stessa stregua di VENTURI, il cui destino non poteva che essere l'isolamento e la morte sociale. La regula aurea, infatti, per MONTANTE era quella evangelica, in edizione rivista ed aggiornata, per cui o con me o contro di me ( tu sio cu mi o contru di mia...; cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit da p 377).

[…] Come accennato sopra, a quali specifiche circostanze, inerenti a LO BELLO, avesse inteso riferirsi MONTANTE in quel 13 giugno 2016, non è chiaro. Tuttavia, CICERO riferiva di un episodio, che l'organo requirente collocava ragionevolmente nel marzo 2015, nel quale il rifiuto di Ivanohe LO BELLO alla pretesa di MONTANTE di ottenere la sottoscrizione di un documento, aveva scatenato la reazione di quest'ultimo, che aveva ridotto in lacrime l'amico riluttante. La vicenda era stata raccontata da Linda VANCHERI, che ne era stata testimone oculare, ad Alfonso CICERO, il quale, riversandola agli investigatori con tutti i dettagli appresi dalla donna, consentiva agli inquirenti di circoscrivere il fatto entro ben precise coordinate spazio-temporali. Sul punto appare utile riportare il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 513), in cui gli eventi sono ricostruiti, con estrema precisione logica, verificando le dichiarazioni di CICERO, testualmente riportate, alla luce dell'analisi dei tabulati telefonici delle persone coinvolte nella vicenda e degli esiti dell'accertamento compiuto dalla P.G. dei nominativi delle persone alloggiate nell'albergo nel quale il fatto si era consumato: Ed invero, il CICERO evidenziava di aver raccolto, dopo la pubblicazione della notizia dell'indagine in corso nei confronti del MONTANTE, le confidenze della VANCHERI su di un episodio cui la stessa aveva assistito - e che le aveva provocato notevole turbamento - all'interno di una stanza di un albergo romano. In quella occasione erano presenti il MONTANTE, l'avvocato Antonio INGROIA - intento a collaborare il primo nella stesura di un documento a difesa dello stesso - la VANCHERI, appunto, ed il LO BELLO ed il MONTANTE era addivenuto ad uno scontro, quasi fisico, con il LO BELLO medesimo poiché questi si era rifiutato di sottoscrivere il documento che si stava redigendo. L'imprenditore catanese si era quindi allontanato dall'hotel in stato di estrema agitazione e paura, piangendo a dirotto ed aveva, poi, inviato diversi sms proprio alla VANCHERI. La vicenda riferita dal CICERO si è, con ragionevole certezza, effettivamente verificata in data 5 marzo 2015 posto che: sebbene dall'analisi dei tabulati telefonici, si è potuto accertare che le utenze in uso al MONTANTE, al LO BELLO e all'INGROIA venissero contemporaneamente censite a Roma in diverse occasioni, sia nel mese di febbraio che nel mese di marzo, il 5 marzo è l'unico giorno in cui, nelle ore serali - proprio come raccontato dal CICERO - e precisamente dalle 23.11, si registrava l”invio di una serie di sms da parte del LO BELLO alla VANCHERI, la quale rispondeva, dopo la mezzanotte, con un solo sms. Inoltre, sempre il 5 marzo 2015, veniva accertata - attraverso la banca dati “alloggiati” - la presenza del MONTANTE presso l'Hotel Majestic sito a Roma in via Vittorio Veneto 50 (cfr, all. nr. 133 - accertamento alloggiati a carico del MONTANTE Antonio Calogero). Ulteriore conferma si aveva dall'analisi delle celle agganciate dagli apparecchi radiomobili in uso al MONTANTE - ubicate nei pressi del citato albergo sin dal pomeriggio di quel 5 marzo - così come quelle del LO BELLO e di INGROIA, che, sempre quel giorno, venivano censite vicine tra loro e tutte prossime all”indirizzo dell°Hote1 Majestic sin dal tardo pomeriggio e fino a dopo le 23.00 (cfr. annotazione nr. 1062/201 7 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26.04.2017, all. 4 della CNR). Del resto, nel corso di una conversazione intercorsa il 15 gennaio 2016 tra il solito Michele TROBIA e l'avvocato romano Enrico TOTI, il primo raccontava al secondo della coazione esercitata su di lui da MONTANTE, pochi giorni prima, affinché si risolvesse ad isolare VENTURI, altrimenti potendosi interpretare la sua equidistanza tra lo stesso MONTANTE e il suo accusatore come una forma di tradimento nei suoi riguardi (TROBIA, riferendo il pensiero dell'imprenditore di Serradifalco: “non si ammettono discussioni con me o contro di me..."). MONTANTE, tra l'altro, secondo TROBIA, aveva manifestato il proposito di attivarsi per fare chiudere l'azienda di VENTURI, perché il potente industriale era "terrificante", “paranoico”, "terribile", assimilabile al boss Totò RIINA ("Se fosse lui Riina... invece di essere lì Riina..."), mentre TOTI, a sua volta, lo definiva un "malvagio", in preda a "deliri di onnipotenza” (cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 365): […]. Anche nella conversazione progr. n. 852 del 6 marzo 2016 Michele TROBIA, stavolta chiacchierando con Pietro RABIOLO, uno dei “traditori” di MONTANTE, commentava la mentalità di quest'ultimo di vendicarsi di tutti coloro che deludevano le sue aspettative solidaristiche. Ma chi veramente ne scolpiva il suo ordinario modus operandi era Pietro RABIOLO: “chi ha a che fare con Antonello ne rimane schiavo a vita” (C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 367):

Conv. progr. n. 852 del 6 marzo 2016

TROBIA: ti rifiuti tu di collaborare con me di restare a fare parte del gruppo di assumerti delle responsabilità ed in cambio...

RA B1OLO: ora ti faccio vedere io...

TROBIA: e ora ti rompo il culo...se ti ho detto che io io io...ho vissuto questa cosa in prima persona … conosco il soggetto è fatto così...

RABIOLO: cioè quindi o rimani schiavo per tutta la vita...

TROBIA: chiddru Davide Scancarello con i torroni appena si sono azzuffati.

RABIOLO: e...

TROBIA: gli ha gridato e me l 'ha detto Davide a me infatti mi fa la ringrazio lei rischia a farmi entrare nella (inc) pirchi mi dissi tu non lavorerai più in nessuna parte d 'Italia manco all'estero non ci sarà angolo dove tu potrai trovare spazio per i tuoi torroni...per dirlo in maniera violenta gliel'ha detto in faccia chiddru lo ripete e questo discorso

[…] omissis

RABIOLO: si ma...però voglio dire a questo punto...quando ha a che fare con Antonello ne rimane schiavo a vita...eh...

TROBIA: allora...

RABIOLO: perché appena non dico ti ribelli ma chiedi cortesemente di non essere più suo schiavo hai le sue ire di sopra eh...

omissis

TROBIA: io ti dico sinceramente...che Antonello è veramente una persona pericolosissima...e che purtroppo ha fondato un impero lui è avido.

Tali e tante minacce di vendetta ripetutamente lanciate da MONTANTE nei confronti dei "traditori" o degli eretici, come pure possiamo definirli, non possono essere liquidate, semplicemente, come innocue manifestazioni di straripamento verbale, legate a contingenti situazioni di nervosismo, trattandosi in realtà dello strumento mediante il quale l'imprenditore di Serradifalco soggiogava chi gli stava intorno, consapevole che un atto di ribellione sarebbe stato pesantemente sanzionato.

Gli spioni a servizio permanente. La Repubblica il 7 novembre 2019. Una delle dimostrazioni più eclatanti della serietà dei propositi di vendetta di MONTANTE, aduso alla repressione del dissenso come nei più chiusi regimi dittatoriali, la si rinviene nell'attività, dallo stesso ordinata ed esercitata, di illecita acquisizione e conservazione di dati sensibili relativi ai suoi avversari, attuali o potenziali, dati che, come si vedrà infra, diventavano sovente il mezzo per ricattare gli oppositori e piegarne la volontà. Tali dati, unitamente a tanta altra documentazione rinvenuta nella villa di MONTANTE, nella "stanza diciamo della legalità” (per fare esercizio di mimesi linguistica rispetto all'odierno imputato, che così si esprimeva nella conversazione telefonica di cui al progr. n. 87 del 23 gennaio 2016; vd. C.N.R. n. 1Q92/2017 cit., da p. 113), ossia email, articoli di giornali, trascrizioni di sms, et cetera, costituivano un imponente archivio funzionale a tale obiettivo: non già l'accumulo fine a se stesso, nell'ambito di una triste e caotica sillogomania, ma un autentico armamentario di informazioni da utilizzare all'occorrenza animo nocendi. Molti di tali dati, peraltro, estrapolati dalle banche in uso alle forze dell'ordine, pervenivano a MONTANTE, come anticipato, attraverso una collaudata filiera operativa: egli li richiedeva a Diego DI SIMONE PERRICONE, il quale si rivolgeva all'amico ed ex collega DE ANGELIS, il quale, a sua volta, si appoggiava generalmente all'amico e collega GRACEFFA, in servizio alla squadra mobile di Palermo. L'ordinanza cautelare ricostruisce puntualmente tale attività illecita di raccolta dei dati sensibili. Essa, in particolare, come vedremo dettagliatamente infra, consente di affermare senza ombra di dubbio che:

nell'abitazione di MONTANTE sono stati rinvenuti estratti delle banche dati della Polizia di Stato o, comunque, delle annotazioni manuali di dati certamente provenienti da quelle fonti;

il terminale esecutivo della filiera, di norma, era GRACEFFA, evincendosi ciò dal meccanismo di funzionamento delle banche dati, che consente di tracciare esattamente i passaggi della consultazione e di risalire alle credenziali, esclusive, dell'autore dell'accesso;

GRACEFFA agiva su richiesta di DE ANGELIS, che a sua volta agiva su l'input di DI SIMONE;

DI SIMONE operava eseguendo le direttive di MONTANTE, verso il quale nutriva un forte senso di gratitudine, per il salto di qualità economica che lo stesso gli aveva assicurato mediante il suo reclutamento presso la società AEDIFICATIO s.p.a.

§ 2. Gli imputati Dì Simone, De Angelis e Graceffa. Al fine di spiegare e dimostrare l'esattezza di tale conclusione, è opportuno muovere dalla descrizione della fisionomia professionale degli imputati, coinvolti nella vicenda dello "spionaggio" (espressione che reca i limiti della sintesi nominale, ma che appare tutto sommato efficace per una indicazione brachilogica dei fatti), e dalla disamina dei loro rapporti con MONTANTE. Come correttamente sintetizzato nell'ordinanza cautelare (p. 525), i cui dati sono pedissequamente attinti dalla nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 3227 del 21 novembre 2016 (cfr., in particolare, in allegato, le schede professionali di GRACEFFA e DI SIMONE e, relativamente a DE ANGELIS, la nota della squadra mobile di Milano n. 54354 del 12 ottobre 2016), Diego DI SIMONE PERRICONE, definito dal Magg. Ettore ORFANELLO (imputato di reato connesso per cui si procede separatamente), nel corso di una conversazione (n. 2161 del 22 gennaio 2016, su cui vd., amplius, infra) con Nazario SACCIA, quale “vassallo" di MONTANTE, è un ex appartenente alla Polizia di Stato, in servizio presso il reparto mobile di Palermo dal 24 novembre 1990 al 29 novembre 1994, e dal 30 novembre 1994 al 18 luglio 2009, fino all'ultimo incarico ricoperto prima delle sue dimissioni, in servizio presso la squadra mobile di Palermo con il grado di ispettore superiore- sostituto commissario. Dall'8 luglio 2009 alla data di celebrazione del giudizio DI SIMONE risultava dipendente della AEDIFICATIO s.p.a., società unipersonale soggetta ad attività di direzione e coordinamento da parte di Confindustria ex art. 2497 c.c., con le mansioni di "Responsabile dell'organizzazione, della pianificazione e del coordinamento delle attività di sicurezza, vigilanza e accoglienza”. Inoltre DI SIMONE PERRICONE è procuratore speciale del presidente pro-tempore di Confindustria, affinché in suo nome e vece provveda a:

intrattenere corrispondenza con le forze di Polizia;

recapitare all'autorità di pubblica sicurezza, carabinieri, guardia di finanza, vigili urbani, vigili del fuoco, protezione civile, autorità doganali ecc., istanze, denunce, querele e richiedere e ritirare copie, certificati, attestazioni;

richiedere e ritirare dalla pubblica amministrazione i nulla osta di segretezza.

Ciò posto, deve rilevarsi come gli inquirenti abbia raccolto elementi sufficienti per potere affermare che la migrazione di DI SIMONE in AEDIFICATIO s.p.a. Fosse imputabile all'impegno personalmente speso da MONTANTE, al quale era giunta la segnalazione da parte del Prefetto Giuseppe (detto Peppino) CARUSO, già questore di Palermo e direttore dell'agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità. Infatti, a seguito della perquisizione eseguita il 22 gennaio 2016 nella villa di MONTANTE, sita, come già detto, in contrada Altarello di Serradifalco, veniva rinvenuto (vd. verbale di perquisizione e di sequestro in atti) anche il "curriculum vitae et studiorum" di DI SIMONE, datato 23 giugno 2009 (la data, come si vedrà, assume uno specifico significato) e composto di sei pagine, la prima delle quali viene di seguito riportata: […] E' agevole rilevare come, sul margine sinistro di tale foglio, risulti vergata a mano (con ragionevole certezza proprio da MONTANTE) la seguente frase "segnalato da Questore Peppino Caruso".

[…] Dunque, appare incontrovertibile, come riportato nell'ordinanza cautelare (da p. 527) che:

il DI SIMONE era stato “segnalato” per la “security in via Veneto” proprio dal Questore CARUSO e che lo stesso DI SIMONE aveva redatto il suo curriculum vitae (il 23 giugno 2009) in previsione de1l°appuntamento che avrebbe avuto il giorno seguente col MONTANTE per discutere de visu della questione;

il MONTANTE era poi stato l'artefice dell°assunzione del DI SIMONE alle dipendenze della “AEDIFICATIO” (avvenuta pochi giorni dopo e cioè l°8.7.2009) affinché andasse a svolgere il compito per il quale era stato segnalato dal Questore CARUSO, in quel momento Questore della Provincia di Roma e, precedentemente, Questore di Palermo.

A tale ultimo proposito, non è un caso che nel menzionato file excel, alla data dell'8.7.2009, il MONTANTE abbia annotato la firma del contatto del DI SIMONE in Confindustria, nonché il giorno in cui questi ha poi effettivamente iniziato a lavorare. […] Cosi come, ad ulteriore dimostrazione del fattivo interessamento del MONTANTE nella vicenda, si rileva che in allegato al predetto curriculum vitae del DI SIMONE vi è la minuta di due note, non firmate, indirizzate dall'allora Presidente di CONFINDUSTRIA Emma Marcegaglia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per richiedere il rilascio del nulla osta di sicurezza in favore del DI SIMONE. Analoga documentazione veniva rinvenuta, sempre all'interno dell'abitazione del MONTANTE, all'interno di un “carpettone” di colore azzurro con scritta “delega legalità”. Si tratta, a ben vedere, di documentazione che il MONTANTE non avrebbe avuto alcun titolo per detenere o, se vogliamo, alcun interesse in astratto, trattandosi di richieste avanzate dall'allora Presidente Nazionale dell'associazione degli industriali e la cui conservazione si giustifica solo come “promemoria” cartaceo degli step che avevano condotto all'assunzione da parte del DI SIMONE delle mansioni tuttora rivestite in seno a CONFINDUSTRIA. Si tratta di un aspetto - quello relativo alle modalità che avevano condotto DI SIMONE a cambiare vita professionale - che è bene sottolineare, sia per la refluenza che esso ha sulla intensità del legame stretto dallo stesso con MONTANTE sia perché la difesa di quest'ultimo ha ritenuto di potere contestare l'esattezza della ricostruzione effettuata sul punto dagli investigatori. In verità, deve osservarsi come il rinvenimento di quei documenti (curriculum di DI SIMONE, con la glossa in epigrafe “segnalato da Questore Peppino Caruso") nella disponibilità di MONTANTE e l'esame di quelle annotazioni sul suo file excel hanno una forza probatoria altissima nella validazione dell'assunto degli inquirenti circa il ruolo-chiave assolto dallo stesso MONTANTE nella migrazione di DI SIMONE dalla Polizia di Stato verso l'AEDIFICATIO s.p.a. Tra l'altro, l'ordinanza cautelare, che a tal proposito ripercorre la relativa richiesta, mette in luce ulteriori elementi che impinguano un quadro probatorio già di per sé autosufficiente, elementi che afferiscono alla spiegazione della genesi motiva per la quale MONTANTE avrebbe accolto la richiesta di CARUSO di concedere una più "degna" sistemazione lavorativa a DI SIMONE dal punto di vista strettamente economico (sull'aspetto dei vantaggi economici legati alla nuova professione, cfr. ordinanza cautelare, p. 531: "Appare, altresì, utile rappresentare come /'assunzione del DI SIMONE alle dipendenze della AEDIFICATIO abbia comportato per lo stesso un notevole beneficio economico, andando quasi a triplicare i redditi in precedenza percepiti come funzionario della Polizia di Stato. Ed invero i compensi lordi percepiti dal DI SIMONE sono passati da una media di 45.000 euro circa [cfr. annualità 2005-2007] – quando era in servizio, appunto, alla Polizia di Stato - ad un importo compreso tra i 90.000 ed l 110.000 euro nel momento in cui è transitato alle dipendenze della AEDIFICATIO s.r.l. [cfr. annualità 2010-2015]".) Infatti, come affermato da CICERO nelle dichiarazioni rese l'8 ottobre 2016, per averlo appreso da Linda VANCHERI nel periodo in cui questa era impiegata al gabinetto dell'assessorato regionale, al tempo retto da Marco VENTURI, il Prefetto Peppino CARUSO si sarebbe rivelato determinante per l'ascesa di MONTANTE:

A D R In relazione al Questore Peppino CARUSO di cui mi chiede la S. V. premetto di aver rappresentato ciò che conosco sul conto dello stesso nel documento che ho oggi consegnato alla S. V. In ogni caso, posso dire che alla fine del 2014-inizi del 2015 il MONTANTE mi chiese di trovare una collocazione a Giosuè MARINO in qualche struttura facente capo all 'IRS/IP; il MONTANTE mi disse che si trattava però di nomina da fare urgentemente, che il MARINO era da poco andato in pensione e che si trattava di un suo amico. Dovendo procedere alla nomina di un componente del CDA dell'Autoporto SR. s.p.a., proposi al MONTANTE di designarlo in quella società e questi si trovò d 'accordo ribadendomi, però, di fare in fretta e dandomi il suo recapito telefonico. Contattai, quindi, il MARINO con il quale ebbi un prima incontro al Bar Magnolie di Palermo, ove gli spiegai di cosa si trattasse e gli inviai anche la documentazione che gli potesse meglio consentire di valutare la fattibilità di quell'incarico rispetto al fatto che egli fosse in pensione e se dunque quella nomina potesse essere legittima. Ebbi qualche altro incontro col MARINO, ma poi la sua nomina non andò in porto per quei motivi ostativi di cui ho detto.

Tale vicenda che mi è nel frattempo tornata alla mente mi ha fatto anche ricordare che nel periodo in cui la VANCHERI era al Gabinetto dell 'Assessorato diretto da VENTURI, la stessa VANCHERI mi ebbe a dire che Giosuè MARINO e Peppino CARUSO si era rivelati due elementi “preziosissimi" per l 'ascesa del MONTANTE.

Premesso che non sono note le modalità con cui CARUSO avrebbe agevolato l'ascesa di MONTANTE (né l'apporto in sé può essere in alcun modo criminalizzato), deve osservarsi come le più svariate argomentazioni difensive volte ad incrinare la credibilità di CICERO, indicato (ingiustificatamente) come una sorta di "pentito" del "sistema MONTANTE", non colgano nel segno. Infatti, non ci si può esimere dal rilevare come le dichiarazioni di CICERO testé esaminate siano perfettamente coerenti con i dati offerti dalla lettura del file excel, nella parte relativa ai contatti intercorsi tra MONTANTE e CARUSO, da cui si ricava, oltre alla intensità della loro frequentazione, l'interessamento del primo nella sistemazione lavorativa della figlia del secondo.

Giova richiamare ancora una volta l'ordinanza cautelare sul punto (da p. 529): Le dichiarazioni del CICERO vengono logicamente confrontate dalle annotazioni contenute nel file excel redatto dal MONTANTE riguardanti proprio il Questore CARUSO - che di seguito si riportano integralmente - la cui analisi oggettivamente rivela Pintensificarsi, a partire dal 2009, dei rapporti tra i due: […]. Si consideri inoltre che, con ragionevole certezza, il prodigarsi del CARUSO - come descritto dal CICERO - in favore del MONTANTE non era rimasto privo di vantaggi per l'ex Direttore dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità. Sempre nel file excel in questione, infatti, e più specificamente all'interno della cartella denominata “CURRIC. PER SEN”, viene riportato il seguente appunto: CARUSO PEPPINO PER FIGUA GIULIA. L'annotazione in questione va coniugata con quella, sopra riportata, contenuta nella cartella “TUTTI”, ove, come si sarà senz'altro potuto notare, alla data del 17.11.2009 il MONTANTE ha registrato un appuntamento avuto, alle ore 20, con “Caruso e figlia”. […] I successivi accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria hanno altresì permesso di rilevare che Giulia CARUSO (figlia, appunto, di Giuseppe CARUSO) ha svolto, nel corso del tempo, attività lavorativa secondo quanto di seguito evidenziato (cfr annotazione nr. 994 bis/201 7 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 18. 04.201 7):

I da luglio 2006 a giugno 2008 per Carraro spa;

da luglio 2008 a febbraio 2010 per Carraro Drive Tech Spa, con periodi di cassa integrazione nel 2009 e nei primi due mesi del 2010;

da marzo 2010 a luglio 2016 per FAAC spa...

Se ne ricava, da un punto di vista oggettivo, che, qualche mese dopo l'appuntamento del 17.11.2009 annotato dal MONTANTE, CARUSO Giulia, che era già stata posta in cassa integrazione dalla società presso cui prestava la propria opera, cambiava attività lavorativa e la retribuzione percepita presso la nuova società (la FAAC spa) era nettamente superiore a quella percepita presso la Carraro Drive Tech Spa. Infatti, presso quest'ultima azienda - per 46 settimane di lavoro nell'anno 2009 - la sua retribuzione era stata pari a euro 23.636,00, mentre presso alla FAAC spa - per 52 settimane di lavoro - aveva percepito, nell'anno 2011, la somma di euro 46.558,00, nel 2012 di euro 49.885,00, fino a giungere nel 2015 ad un importo di euro 68.872,00. Ora, indipendentemente dalla effettiva esistenza di una reciprocità di favori tra CARUSO e MONTANTE, è incontestabile che l'inserimento di DI SIMONE nella società che cura la sicurezza di Confindustria nazionale sia riconducibile all'interessamento dell'imprenditore di Serradifalco, su segnalazione del prefetto. Tanto spiegato sulla biografia professionale di DI SIMONE, è utile precisare che, se lo stesso proveniva dalla Polizia di Stato, alla medesima istituzione appartenevano (e appartengono) Marco DE ANGELIS e GRACEFFA, ai cui profili professionali è opportuno fare riferimento, al fine di evidenziare la pertinenza tra la specifica attività lavorativa da loro svolta e il ruolo che è loro rispettivamente attribuito nella vicenda che ci occupa.

GRACEFFA, infatti, grazie alle funzioni esercitate presso la squadra mobile di Palermo, aveva la possibilità di un'autonoma e spedita consultazione delle banche dati del ministero dell'Interno e, pertanto, di assecondare le richieste rivoltegli da DE ANGELIS, il quale, ad un certo punto della sua carriera, prima per il mutamento delle funzioni concretamente esercitate a Palermo e poi per il trasferimento a Milano, in un ufficio (fisicamente collocato nel palazzo prefettizio) privo di attribuzioni di polizia giudiziaria, aveva temporaneamente perso la possibilità di effettuare personalmente tale consultazione. E' utile, a questo punto, precisare che, come emerge dall'annotazione di P.G. della squadra mobile di Palermo n. 3227 del 21 novembre 2016 (cit.), intercorreva una conoscenza certa tra DI SIMONE, ex appartenente alla Polizia di Stato, DE ANGELIS e GRACEFFA, questi ultimi appartenenti tuttora al medesimo corpo, atteso che, dal 2000 al 2009, tutti e tre avevano prestato contemporaneamente servizio presso la squadra mobile palermitana, ed in particolare:

Diego DI SIMONE PERRICONE, dal 29 novembre 1994 al 19 luglio 2009, con incarichi in diverse sezioni, in ordine temporale: la sezione reati contro la P.A., la sezione Omicidi ed infine l'area Affari Generali, quale responsabile, dall'1 luglio 2005 al 17 luglio 2009;

Marco DE ANGELIS, dal 15 febbraio 1999 al 7 maggio 2014, con incarichi in diverse sezioni; in ordine temporale: componente della sezione Criminalità Organizzata - gruppo Brancaccio dal 15 febbraio 1999 al 18 luglio 2009; nonché l'area Affari Generali (quale responsabile in sostituzione del DI SIMONE PERRICONE) dal 19 luglio 1999 al 16 maggio 2014;

Salvatore GRACEFFA, dall'11 ottobre 2000 ad oggi, con incarico nella sezione Criminalità Organizzata - gruppo Brancaccio.

§ 3. I rapporti tra De Angelis e Montante. La metafora quasi ideogrammatica della "catena" con cui si descrive la filiera dei contatti illeciti che partiva da MONTANTE e terminava da GRACEFFA, se non corredata dalle opportune annotazioni didascaliche, può essere foriera di equivoci, potendo suggerire il pensiero che ogni anello della catena fosse agganciato esclusivamente a quello che prossimamente lo precedeva o lo seguiva, senza alcuna possibilità di contatto con gli anelli distali. In realtà, una visione siffatta sarebbe distorta, posto che la catena, di per sé, gode di una sua flessibilità che può comportare un contatto anche tra gli anelli non immediatamente conseguenti. Ossia, fuor di metafora, tra DE ANGELIS e MONTANTE. Infatti, se, come riferito da CICERO, era stato MONTANTE a chiedergli di nominare quale propria segretaria, tra i funzionari del disciolto consorzio ASI di Palermo, proprio la moglie di DE ANGELIS, Rosaria SANFILIPPO, è evidente che doveva pur esistere una forma di relazione, diretta o indiretta, tra MONTANTE e DE ANGELIS. Anticipando sin d'ora che tale conclusione, di tipo logico-deduttivo, è in verità asseverata da molteplici elementi, che si esamineranno infra, appare opportuno soffermarsi sulle dichiarazioni rese da CICERO sul punto (verbale dell'8 ottobre 2016), che collocavano la nomina della SANFILIPPO agli esordi dell'esperienza dello stesso all'interno dell'I.R.S.A.P., nella qualità di commissario straordinario (l'insediamento risale al 21 dicembre 2012): […]. Ciò posto, deve rilevarsi che la deduzione, sopra formulata, circa l'esistenza di rapporti diretti o indiretti tra DE ANGELIS e MONTANTE, è avvalorata dall'annotazione, puntuale, contenuta nell'ormai noto file excel, da cui si ricava che il 25 settembre 2015 l'imprenditore di Serradifalco aveva incontrato DE ANGELIS "+ DIEGO" per una "colazione The Grey", ciò che deve essere interpretato, anche alla luce di quanto ammesso da DE ANGELIS nel corso dell'esame, che quest'ultimo, nella predetta data, aveva incontrato MONTANTE insieme a Diego DI SIMONE PERRICONE presso il citato hotel The Grey (v. p. 103 e ss. del verbale di udienza del 18 dicembre 2018). […] Ovviamente, il tentativo, esperito da DE ANGELIS nel corso del proprio esame, di ridimensionare l'aspetto della sua conoscenza con MONTANTE è destinato ad un esito fallimentare, posto che la sua affermazione per cui egli si era limitato, a quella data, ad accompagnare semplicemente DI SIMONE all'appuntamento con MONTANTE, con il quale aveva soltanto condiviso un caffè, appare in evidente iato con la precisazione “Aud", fatta dall'imprenditore nell'annotazione testé riprodotta, che segnala, come verrà spiegato infra, l'avvenuta registrazione della conversazione imbastita in quella occasione. […] Del resto, il nome di DE ANGELIS non sarebbe stato ritenuto meritevole di menzione, da parte di MONTANTE, nel famoso file excel, se lo stesso DE ANGELIS non avesse mai partecipato alla conversazione con DI SIMONE e MONTANTE e laddove, quindi, il suo incontro con quest'ultimo fosse stato fugace e non programmato.

I poliziotti servi e le “pietanze” servite. La Repubblica l'8 novembre 2019. La vicenda DI FRANCESCO può considerarsi emblematica dell'ordinarlo modus operandi della filiera MONTANTE - DI SIMONE - DE ANGELIS – GRACEFFA, atteso che quel modello di spionaggio risulta essere stato replicato dagli odierni imputati in occasione degli altri accessi abusivi alle banche dati che sono stati accertati. Scorrendo, infatti, le ulteriori pagine dell'ordinanza cautelare e della C.N.R. n. 1092/2017 cit., potrà constatarsi come la matrice delle richieste di interrogazione fosse da ricondursi sempre a MONTANTE (sovente, infatti, la procedura di accesso risaliva al momento in cui lo stesso e DI SIMONE si trovavano contestualmente a Roma, nella sede di Confindustria) e come le richieste avanzate da DE ANGELIS a GRACEFFA fossero precedute e seguite da analoghi contatti tra DE ANGELIS e DI SIMONE, i quali, non a caso, preferivano, ove possibile, comunicare mediante utenze telefoniche fisse istituzionali, o, comunque, non personali (per lo più quella della prefettura di Milano per DE ANGELIS e quella della sede romana di Confindustria per DI SIMONE), si da evitare possibili intercettazioni. I fatti potranno essere ripercorsi anche mediante il richiamo testuale dell'ordinanza cautelare (da p. 571), la quale costituisce la trasposizione perfetta, fatta salva l'adozione di alcune accortezze stilistiche, della ricostruzione contenuta nella comunicazione di notizia reato testé menzionata (da p. 421), che, a sua volta, si basa su ineludibili dati oggettivi, quali il contenuto delle conversazioni e comunicazioni intercettate e i dati temporali del traffico telefonico (tipologia, data, ora e durata dei contatti). Peraltro, è appena il caso di evidenziare che le parti dell'informativa, riportate nell'ordinanza cautelare, dal taglio non meramente compilativo, contenenti la decodificazione del linguaggio criptico utilizzato dalle parti (ad es. “pietanza” anziché "nominativo" da interrogare), non lasciano significativi margini per interpretazioni alternative, precluse, come vedremo, dal contesto colloquiale complessivo e, in ogni caso, dalle ampie ammissioni fatte da DE ANGELIS sul punto (vd. esame del 18 gennaio 2019, da p. 56, ove, l'imputato, pur negando la finalità intenzionalmente elusiva del linguaggio oggettivamente criptico, non negava l'esattezza della decodificazione proposta in sede cautelare, provando a giustificare il riserbo espressivo nell'uso del telefono come una sorta di deformazione professionale).

Di seguito il contenuto dell'ordinanza citata:

Gli accadimenti registrati tra l'1.5.2016 ed il 6.5.2016. In data 02.05.2016, (conversazione nr. 244 delle ore 15.23), veniva intercettata una conversazione tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS nel corso della quale, dopo lo scambio di alcuni convenevoli, quest'ultimo testualmente chiedeva al primo “che me lo fai un nome” ed il GRACEFFA, nel rispondere affermativamente, gli chiedeva di mandargli tutto su whatsapp. Dopo aver discusso di altri argomenti (sui quali si tornerà nel prosieguo) sul finire della telefonata il DE ANGELIS domandava al GRACEFFA se avesse una penna e se non potesse darglielo a bocca, chiedendogli nel contempo se avesse qualcosa in contrario (“o non vuoi?”). Il GRACEFFA a quel punto mostrava qualche titubanza (“eh”), sicché il DE ANGELIS comprendeva che non volesse (“no...non vuoi...”), ma il GRACEFFA gli chiedeva di pazientare un attimo per recuperare la penna e gli dava poi il via libera. Il DE ANGELIS diceva quindi testualmente “TODARO...ventidue sette cinquantanove Angelo si chiama di nome” ed il GRACEFFA, prima di chiudere la telefonata, evidenziava che gli avrebbe fatto sapere. […] I tentennamenti mostrati dal GRACEFFA a farsi dettare per telefono le generalità del soggetto poi indicatogli dal DE ANGELIS ben si spiegano alla luce degli accertamenti compiuti sul punto dalla P.G. Ed invero, sempre attraverso apposita richiesta avanzata al Ministero dell'Interno - Dipartimento Centrale Polizia Criminale - Servizio per il Sistema Informatico Interforze di Roma, si è potuto appurare che, in data 2 maggio 2016 (e cioè lo stesso giorno della suddetta telefonata), il GRACEFFA ha interrogato in Banca Dati S.D.I.: […] In buona sostanza, il GRACEFFA nel tardo pomeriggio dello stesso giorno in cui interveniva la telefonata col DE ANGELIS procedeva a compulsare la Banca Dati in uso alle forze di polizia proprio in relazione al nominativo che lo stesso DE ANGELIS gli aveva fornito nel corso della telefonata in questione. I successivi tentativi effettuati dal GRACEFFA sempre riferibili al TODARO ma con generalità diverse (quanto alla data di nascita) rispetto a quelle che gli erano state fornite o attraverso l'indicazione del solo nome e cognome (senza specificare alcuna data di nascita) si spiegano alla luce di una conversazione intercorsa il giorno seguente sempre tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS. Ed invero, alle ore 11.01 del 3.5.2016 il GRACEFFA (conversazione nr. 275) chiedeva conferma al DE ANGELIS se gli fosse arrivato il messaggio mandato via whatsapp, essendosi accorto che per problemi legati alla connessione dati non era riuscito inizialmente ad inviarlo. Il DE ANGELIS rappresentava di aver ricevuto “di notte quello che tu mi avevi detto della cosa negativa no...” e su richiesta del GRACEFFA - che gli chiedeva se avesse controllato “la data " - gli comunicava che era nato il “ventinove luglio 1959”. A quel punto il GRACEFFA si spiegava le ragioni per le quali “io non trovavo niente proprio niente zero” - avendo ricevuto il giorno precedente dati differenti (22 luglio, anziché 29 luglio) - sicché dopo aver “assolto” il DE ANGELIS per l”errore commesso, gli rappresentava che gli avrebbe fatto sapere. Risulta, cioè, evidente che le interrogazioni effettuate dal GRACEFFA il 2 maggio 2016, successive alla prima (ove aveva inserito i dati che gli erano stati comunicati dal DE ANGELIS (Angelo TODARO, 22 luglio 1959), erano state effettuate poiché gli esiti erano negativi (“io non trovavo niente proprio niente zero"), sicché l'appartenente alla Squadra Mobile di Palermo aveva effettuato ulteriori tentativi, non riuscendosi a spiegare per quali motivi non avesse rinvenuto alcunché sul conto del soggetto segnalatogli dal DE ANGELIS. Effettivamente, la polizia giudiziaria accertava, interrogando lo SDI con la prima data di nascita (sbagliata) indicata dal DE ANGELIS, che gli esiti risultavano negativi, mentre con la data di nascita corretta il soggetto da controllare risultava annoverare pregiudizi di polizia. Sempre attraverso la consultazione dello SDI, la polizia giudiziaria verificava che TODARO ANGELO è socio della s.r.l. “Eolo Energie” con sede e uffici siti in Roma, via Giulio Bertoni snc, come dallo stesso riferito in sede di una denuncia di furto sporta in data 28.1.2012. […] Non appena chiusa la telefonata, il GRACEFFA, immancabilmente, effettuava nuovi accessi alla Banca Dati S.D.I. […]. Per completezza, va altresì rilevato che attraverso la consultazione di fonti aperte, in particolare del sito di Confindustria Siracusa, è stata rinvenuta ampia rassegna stampa attinente un progetto, da realizzare in quel di Priolo (SR), relativo alle energie rinnovabili da parte di un imprenditore a nome TODARO Angelo, che, vista la comunanza del settore di interesse dell'attività imprenditoriale svolta, si ritiene possa essere proprio quello per il quale il DE ANGELIS aveva chiesto al GRACEFFA di attingere informazioni di natura riservata.

In merito a quanto sin qui evidenziato va ulteriormente rappresentato che: l'analisi dei dati di traffico telefonico acquisiti al procedimento ha permesso di accertare che, il giorno prima della iniziale richiesta avanzata dal DE ANGELIS al GRACEFFA sul conto del TODARQ, e cioè l'1.5.2016, le utenze in uso al MONTANTE e un°utenza in uso al DI SIMONE venivano censite a poca distanza tra loro;

inoltre alle ore 18.08 del 3 maggio 2016, il DE ANGELIS chiamava il DI SIMONE (conversazione progr. 3184 di seguito riportata).

Pur non essendo stato rilevato, tra le 11 del mattino di quel giorno (momento in cui, come detto, il GRACEFFA effettuava il secondo accertamento sul TODARO) e le ore 18 (momento in cui il DE ANGELIS contattava, appunto, il DI SIMONE), alcun ulteriore contatto tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS, può dirsi estremamente probabile che, nel momento in cui raggiungeva telefonicamente il DI SIMONE, il DE ANGELIS avesse già ricevuto le informazioni che il GRACEFFA aveva attinto sul conto di TODARO Angelo, ciò perché già dal tenore delle conversazioni telefoniche sin qui riportate (e, in verità, dalla maggior parte di quelle captate tra i due) emerge con chiarezza come il DE ANGELIS ed il GRACEFFA siano soliti comunicare (in specie per l”inoltro delle informazioni richieste) attraverso sistemi di messaggistica (“whatsapp”) non intercettabili né rilevabili attraverso i tabulati di traffico telefonico. La telefonata tra il DE ANGELIS ed il DI SIMONE si interrompeva, però, quasi subito poiché il DI SIMONE rappresentava al suo interlocutore di trovarsi a Parigi. […] L'analisi degli elementi acquisiti al procedimento consentiva di avere riscontro al fatto che, effettivamente, quel giorno il DI SIMONE si trovava a Parigi, da cui faceva ritorno in Italia nel pomeriggio del 5 maggio 2016 (cfr. progr. n. 3228 delle ore 1 7. 45 del 5.5.2015 costituente la ricezione di un messaggio di testo in relazione alla quale l'utenza del DI SIMONE agganciava una cella ubicata a pochissima distanza dall'aeroporto di Milano Malpensa). Il successivo giorno 6 maggio il DI SIMONE si recava a Palermo, ove giungeva attorno alle ore 10.20 (come desumibile dal fatto che la sua utenza radiomobile agganciava celle ubicate presso l'aeroporto Falcone-Borsellino). Il DE ANGELIS ed il DI SIMONE tornavano a sentirsi proprio in data 6.5.2016, (conversazione progr. 3272 delle ore 15.36) ed il DE ANGELIS, dopo aver appreso che questi si trovasse a Palermo, gli chiedeva se aveva un telefono fisso ove rintracciarlo da altra utenza fissa del suo ufficio, utenza che il DI SIMONE prontamente forniva. Tale circostanza può dirsi di estremo interesse investigativo, occorrendo tener presente che gli esiti degli accertamenti complessivamente eseguiti dimostrano come il DE ANGELIS ed il DI SIMONE mantenessero, in alcune circostanze, contatti proprio attraverso utenze fisse, in genere attestate presso i rispettivi uffici, evitando, perciò, di affrontare alcuni argomenti - giudicati, all'evidenza, compromettenti - su utenze di telefonia mobile. Sicché - laddove messa in connessione con gli eventi succedutisi a partire dal 2 maggio – la telefonata intercorsa il 6 maggio, sulle utenze fisse, tra il DE ANGELIS ed il DI SIMONE (e non sui rispettivi cellulari) può trovare una logica e convincente spiegazione con la necessità avvertita dal DE ANGELIS stesso di comunicare al DI SIMONE, in maniera quanto più sicura possibile, le notizie di natura riservata che aveva appreso dal GRACEFFA nei giorni precedenti e che già aveva provato a comunicare al DI SIMONE lo stesso giorno in cui il GRACEFFA aveva effettuato l'interrogazione in Banca Dati S.D.I. con le corrette generalità del soggetto su cui occorreva acquisire informazioni. Sicché ben si comprende anche come il DE ANGELIS abbia cercato di giustificare quella richiesta al DI SIMONE (di raggiungerlo su una utenza fissa) col fatto che il suo apparecchio radiomobile fosse “caduto” all'evidente fine di non destare alcun sospetto negli inquirenti laddove fossero in corso intercettazioni telefoniche. Né può sorprendere che eguali cautele il DE ANGELIS non ha mostrato di adottare nella conversazione suindicata intercorsa col GRACEFFA (ove gli dettava le generalità del TODARO). Il DE ANGELIS ed il GRACEFFA, infatti, rappresentano solo interlocutori mediati del MONTANTE (attraverso il DI SIMONE) ed è pertanto ragionevole che si adoperino per adottare più stringenti precauzioni nell'ipotesi in cui il contatto avvenga con soggetti strettamente legati allo stesso MONTANTE (come è di certo il DI SIMONE) e che tali precauzioni siano poi destinate a scemare laddove si tratti di contatti che, in difetto degli elementi acquisiti attraverso le perquisizioni (che hanno permesso di legare anche il GRACEFFA ed il DE ANGELIS all'imprenditore di Serradifalco), ben difficilmente si sarebbe potuti leggere come pur sempre funzionali agli interessi del MONTANTE medesimo e, quindi, finalizzati ad accessi abusivi in Banca Dati S.D.I...

[…] Non rimane che sottolineare come, dall'analisi dei tabulati telefonici, è emerso che, due minuti dopo rispetto alla telefonata appena riportata (alle 15.38 cioè), il DE ANGELIS, utilizzando la sua utenza fissa dell'Ufficio di Polizia ubicato in Prefettura di Milano, effettivamente chiamava il DI SIMONE sul numero dell'utenza fissa che questi gli aveva dettato (la telefonata aveva una durata di 849 secondi).

Gli accadimenti registrati il 12 maggio 2016. Alcuni giorni dopo, ed in specie il 12 maggio 2016, il GRACEFFA ed il DE ANGELIS tornavano a sentirsi telefonicamente ed il primo subito gli faceva presente che non aveva potuto accontentarlo perché era stato fuori ufficio sin dal mattino. Il DE ANGELIS gli diceva di non preoccuparsi ed evidenziava che aveva “aggiunto un 'altra pietanza”, sicché il GRACEFFA subito rispondeva che non vi era alcun problema (“mangiamo tutto”). Il DE ANGELIS specificava, poi, che in relazione a tale ultima “pietanza” era interessato a “capire bene una specifica” ed il GRACEFFA lo rassicurava che glielo avrebbe fatto nello specifico, nel contempo chiedendogli se già è specificato naturalmente. Una volta avuta conferma, sempre il GRACEFFA rappresentava che di li ad una mezz'oretta sarebbe tornato in ufficio ed avrebbe quindi potuto ed il DE ANGELIS, prima di chiudere la telefonata, gli rammentava che glielo aveva mandato su whatsapp. […] Gli accertamenti eseguiti a riscontro del contenuto della telefonata appena riportata hanno permesso, innanzitutto, di accertare che (cfr annotazione nr 96/2017 del 12 1 2017). Salvatore GRACEFFA dalle ore 19 06 e 32 secondi alle ore 19 08 e 15 secondi del 12 maggio 2016 (dunque in epoca successiva alla conversazione col DE ANGELIS ed in orario compatibile rispetto a quello nella stessa indicato “e... guarda sono in questo istante ancora fuori perché... ora devo andare a fare una cosa poi torno in ufficio diciamo quindi una mezz'oretta e potrei...”) ha interrogato in banca dati SDI i seguenti nominativi:

CHIRCO Giuseppe, nato a Marsala il 16.12.1965;

SOLDANO Salvatore, nato a Roma il 19.8.1966;

LORICCHIO Francesco, nato a Catanzaro il 14.5.1964;

PROIA Tranquillo, nato a Gorga l'1.2.1954;

VOLPE Lorenzo, nato a Castelluccio de' Sauri il 19.10.1955.

Si accertava altresì che i nominativi del SOLDANO (intestatario di una licenza NCC), del LORICCHIO (segretario del comune di Gorga), del PROIA (appartenente alla polizia municipale di Gorga) e del VOLPE fossero tutti tra loro collegati, in quanto dalla banca dati S.D.I. risultavano denunciati, in relazione alla stessa vicenda, per reati di falso e contro la P.A. Ciò consente di desumere che una “pietanza” servita dal DE ANGELIS al GRACEFFA fosse quella che riguardava la necessità di interrogare il nominativo del CHIRCO (che, con gli altri, non risulta avere, almeno apparentemente, alcun legame) e l'altra - quella per la quale occorreva “una specifica" - fosse quella che riguardava tutti i nominativi dei soggetti poc'anzi indicati. Si accertava, altresì, che, effettivamente, per la seconda “pietanza” il GRACEFFA era stato investito, con ragionevole certezza, del compito di verificare se il SOLDANO fosse stato vittima o autore dei reati per i quali vi era specifica indicazione in banca dati S.D.I. Ciò perché, compulsando tale banca dati, si ricava che il SOLDANO il 14.12.2010 risulta essere stato denunciato all'A.G.., mentre il 12.6.2010 risultava, per mero errore di inserimento, persona offesa nell'ambito della stessa vicenda. L analisi dei tabulati telefonici acquisiti al procedimento hanno poi ulteriormente permesso di accertare che (cfr., pur sempre, annotazione nr. 96/2017 del 12.1.2017):

alcuni minuti prima che il DE ANGELIS chiamasse il GRACEFFA per chiedergli di eseguire accertamenti allo S.D.I. (alle ore, è bene ripeterlo, 18.07) si rilevavano, alle ore 17.54 (13 secondi) ed alle ore 17.55 (678 secondi), due chiamate provenienti dall'utenza fissa di Confindustria Roma e dirette all'utenza fissa attestata presso l'ufficio del DE ANGELIS alla Prefettura di Milano. A riprova del fatto che il DI SIMONE ed il DE ANGELIS in quel momento fossero a lavoro nei rispettivi uffici, va altresì rilevato che le loro utenze di telefonia mobile venivano censite, in quegli orari, su celle telefoniche prossime alle loro sedi lavorative;

il giorno seguente e più precisamente alle ore 12.49 del 13 maggio 2016, si registrava un'altra telefonata proveniente dall'utenza fissa di CONFINDUSTRIA Roma verso l'utenza fissa attestata alla Prefettura di Milano (anche in tal caso, in orari prossimi a quella telefonata, gli apparecchi radiomobili del DI SIMONE e del DE ANGELIS agganciavano celle telefoniche limitrofe ai loro luoghi di lavoro).

L'11 maggio 2016 (e cioè, come detto, il giomo prima dell'interrogazione in banca dati del GRACEFFA) il MONTANTE si trovava, dalla mattina ed almeno sino alle ore 15, in CONFINDUSTRIA Roma, ove senz'altro si trovava anche il DI SIMONE.

Gli accadimenti registrati il 3 giugno 2016. In data 03.06.2016, il DE ANGELIS inviava un sms al GRACEFFA (progr. nr. 1464 delle ore 11.49) con il quale gli rappresentava che gli aveva “scritto”, evidentemente su whatsapp, non essendo stato intercettato alcun tipo di messaggio di testo prima di quel momento. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle ore 17.45 (progr. 1472), il DE ANGELIS, non avendo evidentemente ancora ricevuto alcuna comunicazione dal GRACEFFA, gli inviava altro sms con il quale chiedeva se avesse notizie per lui. […] Meno di mezz'ora dopo, continuando a non ricevere alcuna risposta da parte del GRACEFFA, il DE ANGELIS lo chiamava (progr. nr. 1473 del 3.6.2016 alle ore 18.08) e gli chiedeva, ancora una volta, se avesse notizie per lui. Il GRACEFFA gli diceva che non si era dimenticato, ma che non aveva potuto provvedere perché era stato in servizio fuori sede con “Peppino” e che di lì a poco gli avrebbe fatto sapere. […] A tal proposito si rileva che, dagli accertamenti eseguiti dalla P.G. a riscontro su delega dell'Ufficio (cfr. annotazione n. 3227 del 21.11.2016), si poteva effettivamente appurare che quel giorno il GRACEFFA aveva svolto turno esterno di P.G. in abiti civili con orario 8-l4 e lavoro straordinario dalle ore 15 alle 20. Analogo servizio era stato svolto dal Sovrintendente Giuseppe MANZELLA, il quale, come evidenziato dal Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, è comunemente inteso all'interno del luogo di lavoro come “Peppino”. Ovvio concludere che proprio al MANZELLA il GRACEFFA abbia fatto riferimento nella telefonata sopra riportata col DE ANGELIS. Poco dopo, alle ore 18.44 (progr. nr. 1475) il GRACEFFA richiamava il DE ANGELIS e dalla conversazione in questione si riusciva a comprendere che questi aveva evidentemente mandato al DE ANGELIS, sempre via whatsapp, le fotografie degli esiti delle schermate relative alle interrogazioni effettuate. La circostanza si desumeva chiaramente dal fatto che, nel conversare e facendo con ogni probabilità riferimento ad ulteriori scambi di messaggi avvenuti sempre via whatsapp, il GRACEFFA subito diceva che glielo stava rimandando e gli chiedeva se “fosse l'ultimo quello che non...”. Il DE ANGELIS specificava che si trattava del primo, ma che comunque non era più interessato se, come gli aveva già comunicato (all'evidenza sempre via whatsapp), si trattasse solamente di un alloggiato, ma il GRACEFFA lo correggeva dicendogli che c“era una minaccia. A quel punto il DE ANGELIS gli faceva presente che “non riesco proprio a capire che cazzo c'è... aspetta n'attimo fammelo vedere... l'ho ingrandito a bestia pure...” e, per risolvere il problema, il GRACEFFA gli comunicava che glieli stava “rimandando tutti di nuovo”. Prima di chiudere la telefonata, il DE ANGELIS chiedeva se gli potesse “vedere anche uno che si chiama PICCOLI” e, recependo una sollecitazione del GRACEFFA, gli rappresentava che gli avrebbe inviato “come si chiama ”. […] Ebbene, la telefonata intercorsa tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA poteva dirsi già estremamente chiara nel suo contenuto e consentiva di affermare, attesi gli inequivocabili riferimenti all'“alloggiato” ed al “reato”, che quest'ultimo avesse interrogato, su sollecitazione dello stesso DE ANGELIS (come dimostrato dai due messaggi di testo inviati, l'uno la mattina, l'altro poco prima della conversazione poc'anzi riportata), la Banca dati S.D.I., inviando, poi, i relativi esiti via whatsapp, che però il DE ANGELIS non riusciva a decifrare. In ogni caso, sono stati eseguiti specifici accertamenti sul punto, dai quali è stato possibile accertare che: tra le ore 18.08 e le ore 18.44 del 3 giugno 2016 GRACEFFA Salvatore aveva interrogato i sottoelencati soggetti:

RECCHI Giuseppe”, nato a Torino il 20 Gennaio 1964;

RECCHI Giuseppe, nato a Napoli il 20 Gennaio 1964;

PATUANO Marco Emilio Angeio”, nato ad Alessandria il 16 Giugno 1964;

RECCHI Marone, nato a Campobasso il 20 Gennaio 1964;

Sarà agevole rilevare come il GRACEFFA avesse compulsato la Banca Dati S.D.I. subito dopo la prima telefonata col DE ANGELIS di cui si è poc'anzi dato conto.

Alle ore 18.46 e 55 secondi e alle ore 18.47 e 14 secondi, il GRACEFFA interrogava il nominativo PICCOLI Giuseppe”, nato a Taranto il 30 luglio 1952. Subito dopo - alle ore 18.47 e 38 secondi - interrogava il nominativo PICCOLI Giuseppe, nato a Massafra il 30 luglio 1952 e, a seguire, (alle ore 18.47 e 49 secondi) effettuava ancora ricerche sul nominativo PICCOLI Giuseppe, nato a Taranto il 30 luglio 1952. Inoltre, il GRACEFFA estendeva l'accertamento anche nei confronti di due soggetti che erano stati fermati e controllati con il PICCOLI:

BORSOI Fabio”, nato a Roma il 22 Dicembre 1956, Manager Gruppo Intesa San Paolo - amministratore delegato IMI Fondi Chiusi SGR S.p.A.;

COCO Graziella”, nata a Catania il 13 Luglio 1976, Avvocato.

Gli accertamenti eseguiti andavano, quindi, a confermare ciò che già emergeva dal contenuto delle telefonate intercorse tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS, ma l'analisi dei tabulati telefonici consentiva di acquisire altro elemento significativo ai fini che qui rilevano. Ed invero, la mattina del 3 giugno 2016, alle ore 11.36, veniva rilevato un contatto telefonico (della durata di di 737 secondi, dunque poco più di 12 minuti) tra un'utenza fissa di Confindustria Roma (centralino), ove in quel momento si trovava con certezza il DI SIMONE, e l'utenza fissa della Prefettura di Milano che risulta in uso al DE ANGELIS. Si può ritenere, con ragionevole certezza, che la telefonata in questione sia stata quella nella quale il DI SIMONE aveva sollecitato al DE ANGELIS gli accertamenti da compiere in Banca Dati S.D.I. sui nominativi che lo stesso DE ANGELIS aveva poi girato al GRACEFFA. A simili conclusioni si può giungere laddove si tenga ben presente la cronologia degli eventi succedutisi quel giorno e, in specie, considerando che, subito dopo la conclusione di quella telefonata intercorsa tra le due utenze attestate presso i rispettivi uffici (alle ore 11.48), il DE ANGELIS, come poc'anzi rilevato, inviava un sms al GRACEFFA per rappresentargli che gli aveva scritto (alle ore 11.49).

Gli accadimenti registrati il 10 giugno 2016. Il successivo 10 giugno si registrava altra telefonata tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS (progr. 1626 delle ore 11.43) nel corso della quale quest'ultimo, avendo compreso dai rumori di fondo che il primo non si trovasse in ufficio, gli domandava a chi poteva rivolgersi per “chiedergli una cosa al volo “e quest'ultimo lo indirizzava o da “Peppino” o da “Silvia” della quale gli forniva anche il numero dell'utenza attestata presso l'Ufficio. […] Si è già detto poc'anzi come il “Peppino” si identifichi nel Sovrintendente Giuseppe MANZELLA, mentre “Silvia”, del pari menzionata dal GRACEFFA nella telefonata suindicata, deve identificarsi nell'Ispettore Capo Salvatrice GIANNAZZO, comunemente chiamata “Silvia” (come comunicato, anche in tal caso, dal Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, cfr. la già più volte menzionata annotazione n. 3227 del 21.11.2016). Ciò perché l'utenza telefonica fissa avente nr. 091/210526 (che veniva dettata al DE ANGELIS dal GRACEFFA come quella ove poter raggiungere “Silvia”) risulta attestata all'interno della 1^sezione Criminalità Organizzata - gruppo Brancaccio - della Squadra Mobile di Palermo ed è in uso al Sostituto Commissario Antonio SCHIRO' e, appunto, all'Ispettore Capo Salvatrice GIANNAZZO. Va ulteriormente rilevato che, nel momento in cui interveniva la telefonata appena riportata tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS, sia il MANZELLA che la GIANNAZZO prestavano servizio nel medesimo ufficio del GRACEFFA (e cioè la 1^sezione Criminalità Organizzata – gruppo Brancaccio; il MANZELLA alcuni giorni dopo, e precisamente il 16 giugno 2016, veniva poi aggregato alla 8^ sezione catturandi). Infine, sempre dagli accertamenti eseguiti, è stato appurato che il DE ANGELIS – allorché era in servizio a Palermo - aveva condiviso (prima di essere chiamato a dirigere l'Area Affari Generali) l'attività lavorativa (oltre che col GRACEFFA) con il MANZELLA e la GIANNAZZO all'interno della stessa sezione (e cioè sempre la l^sezione Criminalità Organizzata - gruppo Brancaccio). Ciò spiega perché il DE ANGELIS fosse stato in grado di comprendere perfettamente a chi si riferisse il GRACEFFA benché questi si fosse limitato a menzionare semplicemente i diminutivi dei rispettivi nomi. Anche in tal caso, gli approfondimenti investigativi eseguiti a riscontro di quanto emerso dalla telefonata appena riportata hanno permesso di accertare che:

nel momento in cui interveniva la conversazione tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA quest'ultimo (come desunto dalla cella agganciata dal suo apparecchio radiomobile) effettivamente non si trovava all'interno dell'ufficio della Squadra Mobile di Palermo, mentre l'utenza del DE ANGELIS veniva localizzata su di una cella che serve la zona in cui si trova la Prefettura di Milano;

alle 11.45 sempre del 10 giugno 2016 (subito dopo, cioè, la telefonata sopra riportata tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS), un'utenza fissa della Prefettura di Milano contattava l'utenza nr. 091/210526 (durata della conversazione 362 secondi) e cioè proprio quella che era stata fornita dal GRACEFFA al DE ANGELIS nella telefonata prima riportata e che risulta in uso a Salvatrice GIANNAZZO;

dalle ore 11.46 e 3 secondi alle ore 11.49 e 32 secondi del 10 giugno 2016, l'Isp. Capo GIANNAZZO risulta aver interrogato la banca dati S.D.I. in relazione ai nominativi GREGNI Lorenzo Luigi, nato a Milano l'l.8.1977 e GUEYE Ousseynou, nato in Senegal il 17.9.1964. In altre parole, si accertava inequivocabilmente che la GIANNAZZO eseguiva un'interrogazione in banca dati S.D.I. mentre era proprio al telefono con il DE ANGELIS.

Gli accadimenti registrati il 4 luglio 2016. In data 4.7.2016 (progr. 2341 delle ore 12.45) il DE ANGELIS, dopo aver conversato del più o del meno col GRACEFFA, chiedeva, per l°ennesima volta, a quest'ultimo se gli potesse “fare un nome ” ed il GRACEFFA, nel mostrarsi disponibile, lo invitava, secondo le consuete modalità già sin qui registrate, a mandargli le generalità via whatsapp. […] Alle successive ore 12.49 (progr. nr. 2342) il DE ANGELIS inviava al GRACEFFA il seguente messaggio di testo “fatto”, a volergli, cioè, significare che aveva provveduto ad inviare via whatsapp i dati identificativi del soggetto. Qualche minuto dopo, però (progr. nr. 2344 delle ore 12.53), il DE ANGELIS scriveva un altro sms al GRACEFFA Salvatore, con il quale gli chiedeva, in relazione al nominativo “Pompei Alessandro 5/4/75”, se gli potesse far sapere anche dove risultasse residente. […] Gli accertamenti successivamente esperiti consentivano di rilevare che il GRACEFFA, quel giorno, e dopo appena un minuto dalla ricezione del secondo sms da parte del DE ANGELIS ~ precisamente dalle ore 12.54.23 alle ore 12.56.39 - aveva interrogato la banca dati S.D.I. in relazione al nominativo POMPEI Alessandro, nato a Nereto (Teramo) il 5.4.1975. Va, poi, rilevato che dall'analisi dei tabulati telefonici non emergevano contatti telefonici tra il DE ANGELIS ed il DI SIMONE prima che il GRACEFFA, su input dello stesso DE ANGELIS, effettuasse l'ennesimo accesso in banca Dati S.D.I. In questa circostanza, tuttavia, importanti conferme giungevano dalle attività d'intercettazione, poiché, circa otto minuti dopo che il GRACEFFA aveva terminato di consultare la Banca Dati (alle ore 13.04), il DE ANGELIS raggiungeva telefonicamente Diego DI SIMONE. In particolare DE ANGELIS subito chiedeva al DI SIMONE dove si trovasse e quando sarebbe rientrato in ufficio. Il DI SIMONE rispondeva che sarebbe tornato a lavoro nel primo pomeriggio ma, a quel punto, il DE ANGELIS gli rappresentava che, a quell'ora, non sarebbe stato in ufficio e, pertanto, lo invitava a “giocare con internet” ed a “godersi l'aria condizionata”. Ebbene, anche in tal caso, la cronologia degli eventi autorizza a ritenere che la telefonata effettuata dal DE ANGELIS al DI SIMONE fosse funzionale a comunicare a quest'ultimo gli esiti degli accertamenti compiuti dal GRACEFFA. A ciò aggiungasi il contenuto della telefonata intercorsa tra i due, dalla quale si evince chiaramente che il DE ANGELIS intendesse contattare il DI SIMONE sull'utenza fissa dell'ufficio (esattamente come rilevato, nelle occasioni precedenti, dall'analisi dei tabulati telefonici); sicché, l'invito successivamente formulato dallo stesso DE ANGELIS al DI SIMONE di “giocare con internet” ben può interpretarsi come l°avvertenza, cripticamente espressa, secondo cui avrebbe provveduto a comunicare gli esiti degli accertamenti richiesti utilizzando sistemi di messaggistica che viaggiano, appunto, su rete internet. […] Ciò posto, deve darsi atto degli ulteriori accessi allo S.D.I. effettuati da GRACEFFA nei giorni successivi, accessi preceduti dalle consuete interlocuzioni tra DI SIMONE e DE ANGELIS e relativi a nominativi che, come approfondito dagli inquirenti, sono risultati in vario modo collegati a MONTANTE, sempre sulla base di rapporti che, attualmente o potenzialmente, si conformavano secondo il paradigma della conflittualità. La riconduzione di tali interrogazioni a MONTANTE, peraltro, non avviene esclusivamente in ragione del substrato motivo che ne sorregge l'esecuzione, ma anche in considerazione di un elemento oggettivo, che è costituito dalla vicinanza fisica dell'imprenditore di Serradifalco a DI SIMONE al momento della partenza dell'input all'accertamento (le celle agganciate dai rispettivi telefoni mobili si rivelano, in tal senso, altamente suggestive). Emblematica, in tal senso, l'attività di spionaggio condotta sul conto del Dott. Nicolò MARINO, già magistrato in servizio nella procura nissena e poi assessore - fino alle dimissioni - nel governo regionale presieduto da CROCETTA, e dei suoi familiari. Tale attività, in particolare, si concretava in una spasmodica ricerca volta alla individuazione del numero di targa della vettura usata dal Dott. MARINO e delle generalità della moglie, ricerca condotta persino mediante la disamina di una denuncia di furto presentata dallo stesso MARINO e la visura dei possibili alloggiamenti in albergo. Per agilità espositiva, appare utile ripercorre sul punto l'ordinanza cautelare (da p. 594), anche qui sostanzialmente ricognitiva delle acquisizioni investigative compendiate nella più volte menzionata C.N.R. n. 1092/2017 (da p. 433):

[…] Gli accadimenti registrati il 7 luglio 2016: Gli eventi certamente più inquietanti tra quelli emersi dalle attività tecniche eseguite nei confronti del GRACEFFA venivano, però, accertati il successivo 7 luglio, allorché veniva registrata, alle ore 9.15 (progr. 2445), l'ennesima conversazione telefonica tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA. In particolare, il DE ANGELIS apprendeva che il GRACEFFA non si trovasse in ufficio in quel momento, sicché gli chiedeva chi altro potesse ivi rintracciare in quel momento. Il GRACEFFA, a quel punto, gli indicava “Silvietta ma, al contempo, gli diceva che, se non aveva particolare urgenza, avrebbe potuto darglielo e più tardi glielo avrebbe fatto lui. Il DE ANGELIS si mostrava d'accordo e chiudeva la telefonata ringraziandolo. […] Qualche istante dopo (progr. 2446 delle ore 09.16), il DE ANGELIS inviava un sms al GRACEFFA con il quale gli faceva presente che gli avrebbe mandato “whatsapp” e quest'ultimo rispondeva con un successivo messaggio (registrato al progressivo 2447 delle ore 09.17) con cui dava il suo assenso. […] Il pomeriggio dello stesso giorno il DE ANGELIS nuovamente telefonava al GRACEFFA (progr. 2481 delle ore 16.49 del 7. 7.2016) e gli chiedeva conferma se “questo Nicolò ” non esistesse. Il GRACEFFA gli faceva presente che, al contrario, esisteva e che gli aveva già mandato la foto. Il DE ANGELIS specificava allora che si stesse riferendo alla “mogliera di Nicolò” ed il GRACEFFA gli spiegava che sicuramente esisteva, ma che occorreva però andare a verificare a Catania; proseguiva, poi, sottolineando che risultavano due figli, uno dei quali aveva fatto “domanda di smarrimento ”, ma che non erano, però, mai stati “fermati con una donna ” e lo stesso poteva dirsi anche per Nicolò, sicché non sapeva come arrivarci, anche perché aveva provato a consultare l'ACI, ma non risultavano mezzi intestati se non “un mezzo che gli hanno rubato nella macchina. Però non è mai stato controllato con...con una donna quindi, non so che dirti”. Emblematicamente il GRACEFFA domandava al DE ANGELIS se fosse a conoscenza che lavoro facesse Nicolò (il senso della domanda risulterà chiaro allorché si evidenzierà quale nominativo avesse interrogato il GRACEFFA) e lo stesso DE ANGELIS rispondeva che “voleva controllare prima se era buono ” in quanto un qualcuno, che però non indicava, gli aveva “chiesto una cosa”. Il GRACEFFA, quindi, sottolineava che non sapeva come poterlo aiutare ed il DE ANGELIS replicava, in maniera sibillina, che sperava “che magari quando se ne andava a curcare da qualche parte ”, ma il GRACEFFA gli faceva presente che “neanche quello ha...non ha niente...una sola...ospite singolo...capito, quindi per questo non so come…come arrivarci capito?”. Il DE ANGELIS proseguiva dicendo di essere sicuro “che il signore c'ha una ditta ma non è...” ed il GRACEFFA gli sottolineava che l'unica maniera per poter raggiungere lo scopo era fare “un'anagrafica a Catania” e gli chiedeva se conoscesse qualcuno a cui chiederla. Il DE ANGELIS, però, subito replicava che non era una soluzione percorribile in quanto avrebbe creato “troppo scruscio” e gli chiedeva conferma se risiedesse a Catania "capoluogo", avendo risposta positiva dal GRACEFFA, il quale gli raccomandava di guardare “...la nota di quando gli rubano le cose in macchina” perché dalla stessa avrebbe ricavato l'indirizzo dell'abitazione (“La macchina è posteggiata sotto casa...”). […] Ebbene, gli accertamenti eseguiti a riscontro hanno fornito esiti, come si diceva, davvero inquietanti, essendosi accertato che il GRACEFFA:

dalle ore 16.29.08 alle ore 16.37.01 ha interrogato alla Banca dati S.D.I. il nominativo di Nicolò MARINO, ex Assessore del Governo regionale siciliano;

contestualmente, dalle ore 16.36.09 alle ore 16.38.14, ha interrogato allo S.D.I. anche i figli del MARINO, MARINO Fabio Maria e MARINO Monica.

In buona sostanza, il GRACEFFA aveva terminato di consultare la Banca Dati (alle ore 16.38) pochi minuti prima che il DE ANGELIS effettuasse la telefonata (alle ore 16.49) con la quale i due, con tutta evidenza, discutevano degli esiti che il GRACEFFA gli aveva inviato, anche in tal caso, per il tramite del sistema di messaggistica denominato whatsapp. Ed invero, a tal proposito, la polizia giudiziaria verificava che le informazioni comunicate dal GRACEFFA al DE ANGELIS effettivamente corrispondono a quelle desumibili dalla Banca Dati S.D.I. poiché, dalle stesse, si ricava che il dott. Nicolò MARINO non risulta avere autovetture intestate e non risulta avere mai alloggiato in strutture alberghiere in compagnia di una donna; il figlio ha denunciato il furto di un'autovettura e la figlia lo smarrimento di alcuni documenti d'identità. Inoltre, l'analisi dei tabulati telefonici acquisiti al procedimento ha consentito di accertare, in merito alla specifica vicenda, le circostanze che di seguito si rappresenteranno e che vanno coordinate con quelle sin qui già evidenziate: in data 6.7.2016 (dunque il giorno precedente rispetto ai contatti tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA di cui si poc'anzi dato conto), alle ore 12.52, veniva censito un contatto tra l'utenza fissa del centralino di Confindustria Roma, ove si trovava il DI SIMONE, e l'utenza fissa della Prefettura di Milano, ove si trovava il DE ANGELIS. Poco più di mezz'ora prima, alle ore 12.17 del 6.7.2016, era stata intercettata una conversazione (progr. nr. 832546) nel corso della quale il DE ANGELIS ed il DI SIMONE rimanevano d'accordo di risentirsi, a breve, proprio sulle rispettive utenze fisse. Si tratta della ripetizione di uno schema comportamentale già visto e che denota, senz'altro, l'adozione di particolari cautele tra il DI SIMONE ed il DE ANGELIS nel tenere i contatti che ben può spiegarsi alla luce di quanto poi di certo accaduto il giorno successivo e, quindi, con la necessità di avere comunicazioni “riservate” in considerazione della particolare delicatezza dei temi trattati […]. Quello stesso giorno (6 luglio), nel pomeriggio, alle ore 16.35 (conversazione progr. 834447), il DI SIMONE richiamava il DE ANGELIS e quest'ultimo gli faceva presente che non aveva poi più potuto chiamarlo perché era uscito. Il DI SIMONE lo rassicurava e gli chiedeva, poi, se stesse tornando in ufficio. Avuta risposta negativa il DI SIMONE chiedeva anche spiegazioni sul perché gli avesse domandato “come potessero fare ”; a quel punto il DE ANGELIS gli faceva presente che aveva “lasciato la... praticamente tutto quanto, quindi.. ”, sicché il DI SIMONE gli chiedesse se vi fosse un punto dove potesse raggiungerlo. Anche in tal caso il DE ANGELIS rispondeva negativamente, evidenziando che si trovasse a casa di “Luca” (e cioè del figlio) in attesa dell'idraulico e tornava quindi a chiedere come potessero fare, sicché il DI SIMONE chiudeva la conversazione chiedendo di poter avere cinque minuti di tempo. Ebbene, non può che rilevarsi l'estrema cripticità del contenuto di tale telefonata, nel corso della quale il DI SIMONE ed il DE ANGELIS evitavano accuratamente di fare riferimento all'oggetto dei loro discorsi, pur riuscendo, però, entrambi a comprendere in maniera perfetta l'argomento trattato durante la conversazione, evidentemente per averne già parlato con mezzi di comunicazione più sicuri. Nel momento in cui avveniva la telefonata in questione il DI SIMONE si trovava a Roma ed il DE ANGELIS a Milano, sicché può desumersi con certezza che il DI SIMONE, nel chiedere al suo interlocutore dove potesse raggiungerlo, stesse facendo riferimento ad un altro canale di comunicazione più sicuro rispetto alle utenze di telefonia mobile e non, di certo, ad un incontro de visu. Ebbene, a tacer d'altro, la conversazione in questione rivela, ancora una volta, le cautele adottate dal DE ANGELIS e dal DI SIMONE nel discutere di questioni che, all'evidenza, non ritengono consigliabile affrontare utilizzando i rispettivi telefoni cellulari, cautele che, occorre tornare a ripeterlo, trovano una loro coerente e convincente spiegazione alla luce di ciò che veniva poi chiesto, nelle prime ore del mattino seguente, a Salvatore GRACEFFA e cioè di interrogare la Banca Dati S.D.I. per attingere notizie sul conto del dott. Nicolò MARINO […]. Non da ultimo, sempre in relazione agli accadimenti del 6.7.2016, va evidenziato che., quel giorno, il DI SIMONE ed il MONTANTE si trovavano entrambi certamente in Confindustria Nazionale in epoca compresa tra le ore 16.04 e le ore 18.54, come si evince dalle celle censite dalle rispettive utenze telefoniche, graficamente riportate di seguito ai fini di una migliore intellegibilità: […]. Infine, alle ore 10.16 e 10.27 del 7 luglio 2016 - dunque dopo la prima telefonata intercorsa tra il GRACEFFA ed il DE ANGELIS ed il successivo scambio di sms - il DE ANGELIS veniva contattato sul suo cellulare da utenza passata dal centralino della Questura di Palermo. Non ci si può esimere, a questo punto, dal sottolineare - muovendo dalla indiscutibile premessa secondo cui gli accertamenti in Banca Dati S.D.I. sul conto del dott. MARINO sono stati abusivamente eseguiti - come non esista, allo stato, alcuna fondata ragione che possa indurre a ritenere un diretto interesse del DE ANGELIS ad attingere notizie sul conto del magistrato. Ciò vieppiù laddove si consideri l'attuale contesto lavorativo dello stesso DE ANGELIS, radicato in luoghi distanti dal territorio siciliano, nonché da quello ove, in quel momento, il dott. MARINO svolgeva la propria attività lavorativa. Per contro, esistono indubitabili ragioni che possono ritenere il MONTANTE fortemente interessato a praticare attività di dossieraggio sul conto del dott. MARINO per via delle note vicende riferibili al periodo in cui il magistrato svolgeva la funzione di Assessore del Governo regionale presieduto da Rosario CROCETTA.

Il telefono inesistente e il misterioso Diego. La Repubblica il 9 novembre 2019. A chiudere definitivamente il cerchio, nel quale MONTANTE risulta il primum movens degli accessi abusivi al sistema informatico e, contemporaneamente, il destinatario ultimo delle informazioni per quella via ricavate, concorre la vicenda del numero "inesistente", avvenuta nella seconda metà del 2016. Essa origina dalla richiesta, rivolta da MONTANTE a DI SIMONE nel corso di una telefonata intercettata, di effettuare delle ricerche su un numero di telefono che, annotato nella sua rubrica, risultava, appunto, "inesistente". Da lì si attivavano i collaudati canali che passavano, in prima battuta, da DE ANGELIS, il quale, a seguito di un duplice contatto telefonico tra l'utenza fissa di Confindustria nazionale - dove si trovava in quel momento DI SIMONE - e l'utenza fissa (numero interno) del centralino della prefettura di Milano, ove il DE ANGELIS era quel giorno in servizio, provava personalmente a selezionare il numero dettato poco prima da MONTANTE a DI SIMONE, riscontrando che esso appariva non più esistente. Attesa l'insistenza manifestata da MONTANTE con DI SIMONE per avere maggiori ragguagli, venivano effettuate verifiche più puntuali tramite Claudio PERNICIARO, appartenente alla squadra mobile di Palermo, con il quale DE ANGELIS aveva un comprovato rapporto di conoscenza. Orbene, quali che fossero le ragioni per le quali l'interrogazione richiesta, nel caso di specie, fu eseguita da un poliziotto diverso da GRACEFFA (per es. la temporanea scadenza della password di accesso in uso a quest'ultimo), il dato significativo è l'emersione palese della figura di MONTANTE nelle interlocuzioni telefoniche culminate nella interrogazione dei sistemi informativi a disposizione della Polizia di Stato. In tal modo risulta ulteriormente avvalorata la tesi accusatoria che individua la matrice di tali accertamenti spionistici in MONTANTE, direttamente collegato a DI SIMONE, a sua volta in grado di attivare, tramite DE ANGELIS, i canali di acquisizione dei dati riservati accessibili alla Polizia di Stato. Per i dettagli tecnici della vicenda (specifico contenuto delle telefonate intercettate, orari dei contatti telefonici, etc.), si rinvia a quanto puntualmente contenuto nell'ordinanza cautelare (da p. 605), che ripercorre gli esiti dell'attività tecnica compendiata nella C.N.R. n. 1092/2017 (da p. 446): Il 18 luglio 2016, infatti, (conversazione progr. nr. 612 delle ore 10.41) il MONTANTE raggiungeva telefonicamente il DI SIMONE e inizialmente lo redarguiva per l'incuria che aveva percepito nella trattazione di una denuncia da sporgere nei confronti di giornalisti del quotidiano on line “Sicilia Cronaca” (che nei giorni precedenti aveva pubblicato pesanti articoli contro il MONTANTE).[...] Prima di chiudere la telefonata, il MONTANTE chiedeva, poi, al DI SIMONE di segnarsi “un numero vecchio” - che contestualmente gli dettava (“328+++++++”) - e che sapeva essere in uso ad una persona “che cercava” e che probabilmente “era sbagliato”, invitandolo, altresì, a fare delle ricerche presso la “Telecom”. Orbene, onde poter correttamente comprendere gli accadimenti successivi, va posta attenzione al fatto che il MONTANTE avesse sottolineato al DI SIMONE che si trattava di un numero “vecchio”, in relazione al quale, quindi, onde poter comprendere il soggetto che ne abbia la disponibilità, occorre fare accertamenti proprio presso il relativo gestore telefonico. […] Successivamente alla telefonata in questione tra il MONTANTE ed il DI SIMONE, si rilevavano, sulla scorta dei dati di traffico telefonico acquisiti al procedimento, due contatti (alle ore 11.33 ed alle ore 11.38) tra l'utenza fissa di Confmdustria Nazionale - dove si trovava in quel momento il DI SIMONE - e l'utenza fissa del numero interno del centralino della Prefettura di Milano, ove il DE ANGELIS era quel giorno in servizio. Lo stesso DE ANGELIS - come rilevato sempre dall'analisi dei tabulati - alle ore 11.39 (dunque un minuto dopo l'ultimo dei contatti suindicati col DI SIMONE) dalla utenza cellulare avente nr. 331/+++++++ nella sua disponibilità contattava il numero 328/+++++++ e cioè proprio il numero che il MONTANTE aveva dettato al DI SIMONE meno di un'ora prima. Se ne trae conferma del fatto che le telefonate intercorse sulle utenze fisse attestate presso i rispettivi uffici fossero servite al DI SIMONE per comunicare al DE ANGELIS la necessità di ottenere quelle informazioni che il MONTANTE voleva conoscere sul numero di cellulare in questione. Di qui l'ulteriore conseguenza che le telefonate, pur sempre rilevate dai tabulati telefonici, intercorse tra le utenze fisse attestate negli uffici di costoro in prossimità degli accertamenti poi eseguiti in banca dati dal GRACEFFA siano state funzionali a che il DI SIMONE indicasse al DE ANGELIS gli estremi dei soggetti da interrogare successivamente allo S.D.I. Si è, cioè, in presenza di circostanze di straordinaria importanza investigativa, poiché consentono di legare, in maniera oggettiva ed incontrovertibile, il DI SIMONE al DE ANGELIS nella ricerca di notizie che al primo vengono veicolate dal MONTANTE. Attraverso quella verifica (in verità non particolarmente brillante) il DE ANGELIS aveva di certo potuto sperimentare che il numero che interessava al MONTANTE era inesistente e lo aveva poi comunicato al DI SIMONE (con ragionevole certezza attraverso il sistema di messaggistica whatsapp, non essendo stati rilevati ulteriori contatti né dalle intercettazioni eseguite, né sulla scorta dei tabulati telefonici), come dimostrato da una successiva telefonata intercettata tra lo stesso DI SIMONE ed il MONTANTE. Ed invero, circa mezz'ora dopo le telefonate (rilevate dai tabulati) tra il DE ANGELIS ed il DI SIMONE., quest'ultimo richiamava il MONTANTE (progr. nr. 616 delle ore 12.10), cui chiedeva di dettargli nuovamente il numero telefonico che gli aveva fornito in precedenza, ritenendo di averlo trascritto in maniera errata perché lo stesso risultava “inesistente”. Il MONTANTE, tuttavia, gli confermava di sapere già che l'utenza in questione fosse inesistente e gli faceva presente che voleva conoscere il soggetto che lo aveva avuto in uso e se, nel frattempo, avesse cambiato numero. Nel prosieguo della conversazione, tra le altre cose, il DI SIMONE cercava di rimediare al rimprovero in precedenza ricevuto e diceva al MONTANTE di aver già provveduto a contattare il responsabile della Polizia Postale e si stava altresì occupando di redigere una denuncia da presentare per richiedere l'oscuramento del sito. […] Trascorsi pochi minuti dalla telefonata in questione, alle ore 12.17, veniva rilevato (sempre dai tabulati telefonici acquisiti al procedimento) un altro contatto tra il DI SIMONE ed il DE ANGELIS, anche in tal caso attraverso le utenze fisse attestate in Confindustria Nazionale ed in Prefettura a Milano. Il 21 luglio 2016, il DI SIMONE chiamava il DE ANGELIS (nr. 9421 delle ore 14.59) ed inizialmente i due discutevano di argomenti che verranno ripresi di qui a poco. Di seguito, il DE ANGELIS introduceva un tema apparentemente slegato dal contesto discorsivo sino a quel momento trattato e, in verità, incomprensibile da un punto di vista logico, poiché rappresentava al DI SIMONE che voleva dirgli “una cosa" per poi subito rappresentargli che “dal punto di vista storico... la storia non è niente perché quando una cosa non esiste, non esiste”. Ciononostante il DI SIMONE riusciva a comprendere perfettamente a cosa si stesse riferendo il suo interlocutore (“Non esiste! Chiaro...ho capito”), rappresentandogli che si trattava di “un modo giusto filosofico di esprimersi ” e, dopo che il DE ANGELIS aveva sottolineato che era “una cosa strana evidenziava che avevano “imparato una cosa nuova”. […] Il giorno seguente, (progr. nr. 837 delle ore 15.32 del 22.7.2016) veniva intercettata una telefonata tra il DI SIMONE ed MONTANTE, cui il primo, tra le altre cose, evidenziava che “per quanto riguarda lo storico non possiamo avere dati”. […] Ebbene, in merito alla vicenda in trattazione occorre previamente rappresentare che la polizia giudiziaria effettuava accertamenti sul numero telefonico (328+++++++) per il quale il MONTANTE aveva richiesto informazioni al DI SIMONE e lo stesso risultava intestato:

- dai 2000 al 2006 a BORTOLAMEAZZI Renato”,

- dal 14.5.2008 a1 16.5.2009 a DI MARCO Stefania”,

- dal 18.4.2011 al 22.4.2011 a POSTI Lauretta”.

In riferimento a tale ultimo intestatario, le notizie rilevabili dalle informazioni fomite alla P.G. dal gestore telefonico Wind (cfr. annotazione nr. 2349/16 Cat. E1-16/Mob. SCO 3 G. del 20.10.2016) sono parzialmente errate, poiché alla voce “stato dell'utenza” corrisponde la dicitura “attivo” (pur essendo riportata la data del 22.4.2011 come quella di “fine validità”). L'utenza è, infatti, allo stato certamente inattiva, come desumibile sempre dagli accertamenti eseguiti dalla P.G. dai quali è emerso che l'utenza di che trattasi risulta “non presente in archivio”. Si procedeva, inoltre, a verificare, sempre presso il gestore WIND, chi avesse proceduto ad esperire accertamenti sul numero 328+++++++ ed emergeva che lo stesso era stato interrogato, alle ore 13.18 del 21.7.2016, da un appartenente alla Squadra Mobile di Palermo, il Sovrintendente Capo della Polizia di Stato PERNICIARO Claudio”.

A tal proposito, va rilevato che gli accertamenti astrattamente possibili presso il gestore telefonico possono essere:

quello c.d. “puntuale”, relativo, cioè, alla sola utenza e che, laddove effettuato, avrebbe prodotto, nel caso di specie, il risultato secondo cui il numero 328+++++++ non era presente in archivio;

quello c.d. “storico”, che, sempre in relazione al numero in questione, avrebbe consentito di rilevare i soggetti che, nel corso del tempo, erano stati intestatari dell”utenza.

Ebbene, gli accertamenti condotti presso il gestore wind (cfr. nota nr. 235/ 17del 23.1.2017 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta) hanno permesso di rilevare che il PERNICIARO si era limitato ad effettuare l'accertamento c.d. “puntuale”, senza poi estendere le verifiche allo “storico”. Vien da sé, quindi, che l'appartenente alla polizia di stato aveva quindi solo potuto rilevare che l'utenza risulta “non presente in archivio. Sicché trova una ragionevole spiegazione - e, soprattutto, una perfetta corrispondenza negli eventi occorsi - la risposta fornita dal DE ANGELIS al DI SIMONE nella conversazione telefonica del 21 luglio 2016 (con le allusive modalità di cui si è già fatto cenno) secondo cui non era possibile avere lo “storico” degli intestatari del numero, essendosi, appunto, il PERNICIARO limitato a verificare che il numero non era presente negli archivi del gestore telefonico (“dal punto di vista storico ... la storia non è niente perché quando una cosa non esiste, non esiste”), informazione che era poi stata veicolata, negli stessi termini (“mentre per quanto riguarda lo storico ...non possiamo...non possiamo avere dati... ") dallo stesso DI SIMONE al MONTANTE nella telefonata del 22 luglio 2016.

Ebbene, a tal proposito occorre rilevare che: il DE ANGELIS contattava il DI SIMONE (alle ore 14.59 del 21 luglio 2016) per riferirgli, in maniera criptica, che “dal punto di vista storico la storia è niente... perché quando una cosa non esiste, non esiste” poco più di un'ora e mezza dopo che il PERNICIARO aveva interrogato la Banca Dati in relazione al numero in questione (alle ore 13.18 del 21.7.2016);

il DE ANGELIS ed il PERNICIARO certamente si conoscono e mantengono attuali rapporti, come rilevabile, innanzitutto, dall'analisi dei tabulati telefonici, che hanno consentito di accertare l'esistenza di diretti contatti tra i due, uno il 16.10.2015 con l'utenza nr. 334+++++++ all'epoca in uso allo stesso DE ANGELIS, e due con l”utenza 331+++++++ (sempre in uso al DE ANGELIS) risalenti al 20.10.2015 ed al 20.05.2016.

Inoltre, la Squadra Mobile di Palermo comunicava (cfr. allegati alla già citata nota n. 3227 del 21.11.2016) che dalla consultazione del fascicolo personale del PERNICIARO era possibile riscontrare come questi si fosse direttamente relazionato, da un punto di vista professionale, col DE ANGELIS - quando questi era il responsabile dell'area affari generali della Questura di Palermo - in relazione al servizio di scorta del personale F.B.I. che annualmente giunge a Palermo in occasione della commemorazione della strage di Capaci. Le ragioni per le quali l'accertamento di che trattasi sia stato eseguito dal PERNICIARO e non da Salvatore GRACEFFA - che, come sin qui rilevato, costituisce il canale privilegiato attraverso cui il DE ANGELIS ottiene le informazioni che gli vengono richieste dal DI SIMONE - possono essere le più disparate. Tra queste - e senza pretese di certezza - occorre evidenziare che, onde poter eseguire accertamenti presso i gestori telefonici, il personale di polizia giudiziaria necessita di credenziali di accesso da utilizzare attraverso una password che è sottoposta a scadenza periodica. Sicché, pur essendosi appurato che il GRACEFFA, nel mese di luglio 2016, fosse abilitato ad accedere al portale Wind per gli accertamenti di rito è anche plausibile ritenere che avesse la password scaduta e, pertanto, non fosse in condizioni di soddisfare eventuali richieste avanzategli dal DE ANGELIS. La spiegazione in questione viene fornita solo come mera ipotesi poiché gli specifici accertamenti condotti sul punto non hanno permesso di avere elementi risolutivi in tal senso posto che la password del GRACEFFA risulta, ad oggi, “attiva”, anche se l'ultimo accesso al portale risulta essere stato eseguito il 3.9.2013 (il che, dato il lungo lasso di tempo trascorso, induce a ritenere vieppiù come fondata la tesi prospettata secondo cui, pur se attiva, la password nell'ottobre del 2015 fosse scaduta, cfr. nota nr. 236/17 del 23.1.2017 redatta da appartenenti alla Squadra Mobile di Caltanissetta). Del resto, il contenuto complessivo delle intercettazioni poc'anzi riportate rende evidente come il DE ANGELIS, in più di qualche occasione, si sia rivolto al GRACEFFA domandandogli, essendo questi impossibilitato in quel momento ad evadere le sue richieste, a chi potesse rivolgersi per avere un riscontro immediato (ed il GRACEFFA gli forniva i nominativi di altri appartenenti alla sua sezione della Squadra Mobile). Sicché appare dimostrato che, pur costituendo di certo il GRACEFFA l'interlocutore privilegiato del DE ANGELIS ai fini che qui rilevano, lo stesso DE ANGELIS, in situazioni “emergenziali”, non disdegni di far ricorso ad altri appartenenti al suo vecchio ufficio della Squadra Mobile di Palermo. Non deve, infine, sorprendere che, oltre a quelli tra il DI SIMONE ed il DE ANGELIS (tra le rispettive utenze fisse degli uffici), non siano stati rilevati altri contatti, per così dire “a valle”, tra lo stesso DE ANGELIS ed il GRACEFFA e/o il PERNICIARO, al fine di veicolare a questi ultimi la richiesta di accertamenti sul numero telefonico che di certo il DI SIMONE aveva sollecitato per conto del MONTANTE. Anche in tal caso, infatti, gli esiti delle intercettazioni, come già più volte sottolineato, hanno dimostrato come il DE ANGELIS sia solito dialogare con i suoi interlocutori per i fini che qui rilevano attraverso sistemi di messaggistica in rete (“whatsapp”) allo stato non intercettabili. Ciò posto, è chiaro che la correlazione tra i tentativi di chiamata, da parte di ANGELIS, del numero dettato da MONTANTE a DI SIMONE, subito dopo la chiamata ricevuta da quest'ultimo, e l'ulteriore accertamento eseguito sul medesimo numero da parte di soggetto legato professionalmente a GRACEFFA, non può che dimostrare, in maniera inequivocabile, che MONTANTE era il committente degli accessi, DI SIMONE l'emissario di MONTANTE, e DE ANGELIS e GRACEFFA, ciascuno per la propria parte, gli esecutori materiali.

Tutti nel mirino della “banda Montante”. La Repubblica il 10 novembre 2019. Salvatore Petrotto, ex sindaco di Racalmuto, uno degli spiati della "banda Montante”. Fatte queste considerazioni, può procedersi con l'ulteriore esame, ancora una volta mediante la lettura dell'ordinanza cautelare (da p. 615), dell'ampia casistica di accessi abusivi eseguiti dagli odierni imputati. Si tratta di avvenimenti la cui esposizione non richiede alcuna preventiva opera autenticamente ricostruttiva, con una componente concettuale apprezzabile che importi l'onere di selezione tra più opzioni interpretative. Essa, infatti, si appaga della mera ricognizione di intercettazioni e dati tecnici di immediata lettura, raccolti nella C.N.R. n. 1097/2017 (da p. 470), che rendono impervia la possibilità di una esegesi diversa da quella fornita dagli investigatori e compendiata in sede cautelare:

Gli accadimenti registrati il 21 luglio 2016. Sempre nei giorni di cui si è poc'anzi dato conto, ed in specie il 21 luglio 2016, venivano registrati ulteriori accadimenti che meritano di essere qui riportati in maniera cronologica onde avere pienamente contezza degli stessi. Ed invero: la mattina di quel giorno poteva evincersi, dall'analisi dei tabulati telefonici, una prima telefonata delle ore 8.27 (della durata di 144 secondi) ed una successiva delle ore 8.39 e 25 secondi (59 secondi) indirizzate dall'utenza fissa avente nr. 06+++++ - attestata presso la sede di Roma di Confindustria Roma - a quella, sempre fissa, avente nr. 02+++++++ attestata presso l'ufficio della Prefettura di Milano nella disponibilità di DE ANGELIS Marco. Sempre dai tabulati telefonici era possibile rilevare che, negli orari in cui venivano rilevate quelle telefonate, le utenze radiomobili nella disponibilità del DI SIMONE e del DE ANGELIS agganciavano celle telefoniche limitrofe ai rispettivi luoghi di lavoro. In altre parole è possibile affermare che la mattina del 12 luglio 2016 il DI SIMONE avesse contattato per due volte il DE ANGELIS attraverso le utenze dei rispettivi uffici. Giova evidenziare che, sempre dall'analisi dei tabulati telefonici, si è accertato che il giorno precedente, dalle ore 17 circa sino alle ore 20 circa, il MONTANTE ed il DI SIMONE si trovavano entrambi nella sede romana di CONFINDUSTRIA, così come la contemporanea presenza dei due in quei luoghi veniva rilevata anche il 21 luglio dalle ore 9.45 circa sino alle successive ore 15.00 circa. Sulla scorta delle attività d’intercettazione eseguite nell'ambito del procedimento si rilevava altresì che alle ore 8.41 e 34 secondi del 21 luglio 2016 (dunque un minuto e 10 secondi dopo aver chiuso la telefonata col DI SIMONE) il DE ANGELIS inviava un sms a Salvatore GRACEFFA del seguente tenore “Salvo sei operativo ?” (cfr. R. Int. 322/2016, progressivo nr. 3193 del 21. 7.2016). Pochi minuti dopo (alle ore 8.44 e 7 secondi), sempre tramite sms, il GRACEFFA rispondeva “di pomeriggio sì” (cfr. R. Int. 322/2016, progressivo nr. 3194 del 21.7.2016), sicché, appena un minuto dopo, il DE ANGELIS inviava altro sms con cui testualmente evidenziava al suo interlocutore “se puoi ti ho scritto su w”. Orbene, pare possibile affermare, senza tema di smentita, che dopo aver parlato col DI SIMONE, il DE ANGELIS subito si era messo in contatto col GRACEFFA per sondare la sua disponibilità ad effettuare accertamenti in banca dati S.D.I. i cui estremi gli aveva poi inviato su “W” e cioè per il tramite del sistema di messaggistica denominato “whatsapp”. Gli accertamenti compiuti per verificare accessi del GRACEFFA, quel giorno, alla banca dati S.D.I. hanno permesso di rilevare che dalle ore 14.32 sino alle ore 14.42 questi aveva interrogato il nominativo di Salvatore PETROTTO. Appena sette minuti dopo (alle ore 14.49) il DE ANGELIS provava a contattare il DI SIMONE - che però non rispondeva - ed alle successive ore 14.59 quest'ultimo richiamava il DE ANGELIS. Si tratta della conversazione telefonica di cui si è dato conto in precedenza (R. Int. 1 72/2016 progr. 9149), in apertura della quale il DE ANGELIS subito diceva al DI SIMONE “va taliati i cosi...”. Si può quindi affermare che, subito dopo aver compiuto gli accertamenti sul conto del PETROTTO, il GRACEFFA aveva inviato i relativi esiti, tramite whatsapp - come desumibile dalle molteplici evidenze sin qui rappresentate - al DE ANGELIS e questi li aveva girati al DI SIMONE del pari tramite whatsapp, invitandolo, poi, nella telefonata delle ore 14.59 a controllare quanto gli aveva già scritto. Si dirà in seguito, ad ulteriore conforto del fatto che si sia trattato dell'ennesimo accesso abusivo in banca dati S.D.I. eseguito su disposizione del MONTANTE del concreto interesse da questi nutrito ad attingere informazioni riservate nei confronti del PETROTTO.

Gli accadimenti registrati il 22 luglio 2016. Da ultimo, va rilevato che il 22 luglio 2016 si registrava l'ennesima richiesta rivolta dal DE ANGELIS al GRACEFFA di accertamenti da eseguirsi in Banca dati S.D.I. In particolare, in quella occasione, il DE ANGELIS rappresentava al suo interlocutore di avere solo un nome e cognome, sia pure “particolare”, senza data di nascita di un soggetto di Paderno Dugnano dell'età di circa trentacinque anni e chiedeva al GRACEFFA se gli potesse “vedere come sta” (progr. nr. 3277 delle ore 10.24). Il GRACEFFA, come al solito, mostrava la sua disponibilità e gli chiedeva di mandarglielo su whatsapp. […] Neanche a dirlo, anche in tal caso gli accertamenti eseguiti a riscontro hanno consentito di rilevare che il GRACEFFA, quello stesso giorno, aveva interrogato la Banca Dati S.D.I. dalle ore 13.37.08 alle ore 13.38.36 (quindi dopo l'orario in cui era intercorsa la sopra indicata telefonata) in relazione ai seguenti nominativi:

- DI PECO Alessandro, nato a Paderno Dugnano il 29.12.1984

- DI PECO Alessandro uno nato a Milano il 29.11.1974

- DI PECO Alessandro, nato a Milano il 29.12.1984.

Dall'analisi dei tabulati non emergeva alcun ulteriore contatto tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA, i quali, al1'evidenza - e come dimostrato dalle intercettazioni di cui si è dato conto - hanno poi comunicato con altri canali, in specie quelli di messaggistica su rete web. Non venivano neanche censiti altri contatti tra i soggetti di interesse, ed in specie col DI SIMONE o tra questi ed il MONTANTE e la circostanza, a parere del Pubblico Ministero, si spiega adeguatamente proprio dal tenore della conversazione intercettata, da cui traspare come il DE ANGELIS conoscesse, sia pure superficialmente, il soggetto in relazione al quale aveva chiesto al GRACEFFA di attingere notizie allo S.D.I. e che, dunque, si sia trattato, in tal caso, di un accertamento che lo stesso DE ANGELIS aveva chiesto a proprio beneficio. Si riportano, di seguito, gli ulteriori accessi S.D.I. compiuti dal collaudato staff di MONTANTE: In particolare, seguendo un criterio cronologico (e tralasciando di indicare i nominativi interrogati dal GRACEFFA di cui si è già in precedenza dato conto) si appurava ulteriormente che lo stesso GRACEFFA:

il 6.11.2009, alle ore 11.21, interrogava il nominativo dell'imprenditore di Caltanissetta LO CASCIO Salvatore;

il 30.11.2009 (data in cui, come si è detto in precedenza, effettuava accertamenti anche sul conto di Antonino GRIPPALDI, Antonino SMIRIGLIA e Michele BERNA NASCA), dalle ore 12.27 alle ore 12.35, interrogava il nominativo di Davide DURANTE (ex Presidente di Confindustria Trapani);

il 6.12.2009, alle ore 11.16, interrogava il nominativo di CICERO Alfonso (dunque, anche in epoca in cui il CICERO doveva ritenersi vicino al MONTANTE);

il 3.12.2009, alle ore 8.14, interrogava il nominativo di CUSUMANO Giulio;

il 18.1.2010, dalle ore 22.19 alle ore 22.26 interrogava il nominativo di altro imprenditore nisseno, MISTRETTA Salvatore, nonché dalle ore 23.15 alle ore 23.19 il nominativo dell'ex Presidente del Consorzio A.S.I. di Caltanissetta Umberto CORTESE;

il 24.1.2010, alle ore 3.37 del mattino, effettuava una nuova interrogazione sul nominativo di Salvatore MISTRETTA;

il 5.3.2010, dalle ore 17.00 alle ore 17.02, interrogava i nominativi dei collaboratori di giustizia RIGGIO Pietro, BARBIERI Carmelo e RIGGI Aldo;

il 7.3.2010, dalle ore 17.33 alle ore 17.35, interrogava ancora una volta i nominativi dei collaboratori di giustizia RIGGIO Pietro e RIGGI Aldo;

l'8.3.2010, dalle ore 12.46 alle ore 12.51, interrogava il nominativo dell'ex Direttore del Consorzio ASI di Caltanissetta Salvatore IACUZZO;

il 15.3.2010, dalle ore 19.41 alle ore 19.42, interrogava ancora una volta il nominativo di Salvatore IACUZZO;

il 31.3.2010, alle ore 16.48 effettuava accertamenti, per la seconda volta, sul nominativo di Davide DURANTE ed alle ore 17.48 su quello di Pietro DI VINCENZO;

il 20.4.2010, dalle ore 8.41 alle ore 8.58, tornava ad interrogare il nominativo di Umberto CORTESE; sempre quel giorno, alle ore 8.55 e dalle ore 9.00 alle ore 9.08 effettuava accertamenti su Tullio GIARRATANO, ex Direttore di Confindustria Caltanissetta;

il 25.4.2010, alle ore 15.14 effettuava l'ennesimo accertamento su Salvatore MISTRETTA; dalle ore 16.42 alle ore 16.44 tornava ad interrogare il nominativo del predetto Tullio GIARRATANO, nonché dalle ore 16.45 alle ore 16.57 effettuava altri accertamenti su Umberto CORTESE;

il 28.4.2010, alle ore 17.09 ed alle ore 19.08 ancora una volta effettuava accertamenti su Umberto CORTESE;

il 14.3.2011, alle ore 12.26, interrogava nuovamente il nominativo di Pietro DI VINCENZO;

il 7.3.2012 dalle ore 12.31 alle ore 12.38, interrogava ancora una volta il nominativo del già menzionato Davide DURANTE;

il 12.9.2012, alle ore 8.07, tornava ad interrogare per l'ennesima volta DURANTE Davide;

il 31.3.2013, alle ore 12.12, effettuava accertamenti su Gioacchino GENCHI, già appartenente alla Polizia di Stato e, tra le altre cose, legale di Pietro DI VINCENZO nel procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale nei confronti dello stesso;

il 6.2.2013, alle ore 14.02 (dopo aver poco prima fatto accertamenti, come si è già detto in premessa della presente sezione, su RABBITO Gaetano) interrogava il nominativo del politico Vladimiro CRISAFULLI;

il 2.4.2013, dalle ore 9.07 alle ore 9.28, interrogava il nominativo di ARMAO Gaetano;

il 7.5.2013, alle ore 8.21 interrogava di nuovo il nominativo di ARMAO Gaetano;

il 3.6.2013, dalle ore 13.39 alle ore 13.41 interrogava il nominativo di BENANTI Marco;

il 7.6.2013, dalle ore 8.15 alle ore 8.27 interrogava nuovamente il nominativo di BENANTI Marco;

l'11.7.2013, dalle ore 8.30 alle ore 8.38 interrogava il nominativo del dott. Nicolò MARINO;

il 18.7.2013, dalle ore 7.33 alle ore 7.38 effettuava ancora accertamenti sul dott.  Nicolò MARINO;

il 31.7.2013, alle ore 10.21 (subito dopo aver effettuato, anche in tal caso, accertamenti su RABBITO Gaetano), interrogava ancora una volta il nominativo di Vladimiro CRISAFULLI;

il 19.9.2013, alle ore 8.35, interrogava il nominativo di altro imprenditore di Caltanissetta, Pasquale Carlo TORNATORE;

il 26.9.2013, alle ore 7.57 (ancora una volta dopo aver compiuto, pochi minuti prima, accertamenti sul conto di RABBITO Gaetano) effettuava altra interrogazione sul nominativo di Vladimiro CRISAFULLI;

il 29.9.2013 dalle ore 16.41 alle ore 16.43 interrogava per la terza volta il nominativo di ARMAO Gaetano;

il 3.10.2013, alle ore 8.05 tornava ad effettuare accertamenti su ARMAO Gaeta;

il 4.10.2013, dalle ore 7.38 alle ore 7.39 e dalle ore 10.00 alle ore 10.01 ancora una volta, interrogava il nominativo di ARMAO Gaetano;

il 9.10.2013, dalle ore 16.44 alle ore 16.45 interrogava, per l'ennesima volta, il nominativo di ARMAO Gaetano;

il 3.2.2015, alle ore 18.03 interrogava ancora il nominativo di Davide DURANTE;

l'11.6.2015, dalle ore 12.16 alle ore 12.43 interrogava il nominativo di Gianpiero CASAGNI;

il 5.11.2015, alle ore 9.39, 9.40 e dalle ore 9.55 alle ore 10.01 effettuava accertamenti sul conto del giornalista Attilio BOLZONI;

il 7.7.2016, dalle ore 8.16 alle ore 8.19 e dalle ore 17.20 alle ore 17.27 interrogava per la seconda volta il nominativo del già menzionato CUSUMANO Giulio.

In un solo caso, peraltro, l'accesso è risultato eseguito, anziché da GRACEFFA, personalmente da DE ANGELIS, e ciò quando quest'ultimo ancora disponeva delle credenziali di accesso alle banche dati, benché già trasferito alla questura di Milano presso gli uffici distaccati all'interno della prefettura meneghina (successivamente le sue credenziali sarebbero scadute, con la conseguenza che ogni accesso non poteva che passare attraverso la compulsazione di GRACEFFA che, invece, continuava a prestare servizio presso la squadra mobile di Palermo). Si tratta dell'interrogazione del nominativo di Vincenzo ARNONE, il boss di Serradifalco che era stato testimone di nozze di MONTANTE e con il quale quest'ultimo aveva avuto delle forme di cointeressenza economica. Tale interrogazione, peraltro, era avvenuta il 13 maggio 2014, ossia sedici giorni dopo la divulgazione mediatica (27 aprile 2014, articolo sul mensile I Siciliani giovani; 26 e 29 aprile 2014, notizia ripresa dal sito on line Iene sicule) della fotografia di MONTANTE, il giorno delle sue nozze, in compagnia del boss, come peraltro puntualmente annotato nel famoso file excel: […]. È  di tutta evidenza come l'interrogazione della banca dati sul conto di ARNONE, da parte di DE  ANGELIS, non poteva essere legata a ragioni istituzionali, in quanto quest'ultimo era ormai stato trasferito presso la questura-prefettura di Milano, ove non svolgeva più attività di polizia giudiziaria. Inoltre, nessuna finalità di presunto contrasto alla mafia poteva giustificare l'input che, alla luce di quanto esposto (prossimità temporale rispetto alla divulgazione della foto compromettente), deve ritenersi fosse originato da MONTANTE (come nella generalità degli accessi abusivi accertati), in quanto questi, se da un lato certamente conosceva, come ampiamente rappresentato antea, lo status soggettivo di uomo d'onore rivestito da ARNONE (e perciò non gli necessitava alcun riscontro documentale in tal senso), dall'altro non era legittimato ad assumere improprie posture istituzionali che giustificassero la formazione di un archivio personale con la raccolta di dati o informazioni riservate sul conto di terzi e, nella specie, del predetto ARNONE.

§ 4.6. Considerazioni sull'esecuzione materiale degli accessi abusivi. E' appena il caso di accennare ad una questione che, già emersa nel corso del secondo interrogatorio cui DE ANGELIS veniva sottoposto, lo stesso ha provato a chiarire nel corso del suo esame, ossia l'asserita esecuzione personale, tramite le credenziali di GRACEFFA, di alcuni degli accessi abusivi ascritti dall'accusa a quest'ultimo. Si tratterebbe di una sorta di confessione volta ad una verosimile finalità liberatoria a vantaggio dell'amico e collega, trascinato nel vortice del “sistema MONTANTE” senza averne (almeno apparentemente) percepito alcun vantaggio immediato. Al fine di giustificare l'emersione di tale circostanza soltanto nel corso del secondo interrogatorio, DE ANGELIS ha invocato, nel corso dell'esame, una sorta di originaria amnesia sul punto, che gli avrebbe impedito di esporre tale dettaglio sin dal primo interrogatorio.

Esame DE ANGELIS (da p. 47 del verbale di udienza del 18 ottobre 2018): “[…] IMPUTATO DE ANGELIS - Perfetto. Allora, deve tener conto che questo... il primo interrogatorio di fronte al G.I.P. è stato un giorno e mezzo o due giorni dopo l'esecuzione dell'ordinanza e io... come ho detto e come confermo, mi è crollato il mondo addosso. Ho cercato di leggere tutto quello che ci era in queste tremilacinquecento pagine di ordinanza e ho cercato di fare mente locale su cose del 2009 fino al 2014, perché materialmente io ero convinto che le cose fossero andate così come avevo detto. Quando poi sono tornato a casa e ho iniziato a pensare di nuovo a tutto quello che era successo e ho chiesto di potere essere risentito dal P.M., io in quella occasione ho fatto due cose che sono assolutamente - diciamo - nella... in buonafede, anche perché non ho... in tutto questo periodo io ritengo che dopo avere analizzato tutto quello che ho fatto e avere capito di avere sbagliato ad avere fatto tutta una serie di azioni riprovevoli, io mi sono detto che la unica cosa che poteva non dico riscattarmi, ma se non altro farmi sentire in pace con me stesso fosse quello di dire tutta la verità, cosa che io ho fatto sia nel primo interrogatorio che nel secondo. Questa discordanza tra quello che... tra il primo e il secondo interrogatorio sta nel fatto che nel periodo di... tra il primo e il secondo interrogatorio, nel quale io vorrei specificare che non ho assolutamente avuto contezza delle dichiarazioni di Graceffa, che sono state poi depositate dopo il mio secondo interrogatorio, quindi io quello che aveva detto Graceffa non lo sapevo, ma questo mi è venuto in mente nel corso ... nel periodo appunto, tra il primo e il secondo interrogatorio, tant'è che sono andato a farmi io una auto-perquisizione a casa e ho trovato... mi sono ricordato di questo fatto, che tante interrogazioni le ho fatte io con le credenziali di Graceffa e mi sono trovato a casa mia, in un portafoglio vecchio, un bigliettino con le dichiara.. con le credenziali della utenza S.D.I. di Graceffa e la sua password in quel... quindi, quando ho chiesto li interro... il secondo interrogatorio a... il 28 giugno, mi sembra, ho riferito questi particolari, ma non ho... assolutamente non sono mai voluto andare in contraddizione con quello che ho detto. Nel primo interrogatorio è vero che io ho detto che sono state fatte tutte da Graceffa, ma perché io - ripeto - nell'immediatezza dell'interrogatorio ho ricordato la parte successiva, la parte - come abbiamo detto - milanese, in cui io mi rifacevo esclusivamente a Graceffa. Nel secondo interrogatorio non ho voluto rimangiarmi delle cose, perché - ripeto - io tutto quello che sto dicendo adesso e che ho detto negli interrogatori precedenti sono la pura verità. Queste cose sono frutto di un... di una riflessione più attenta. Non è facile ricordarsi quello che si è fatto dal... nel 2009. lo nel secondo interrogatorio ho detto che è vero, Graceffa mi aveva dato a un certo punto le sue credenziali, ma ho anche detto che materialmente in un primo periodo le... queste interrogazioni me le ha fatte lui, poi probabilmente non lo ricordo esattamente, forse perché lui si era stufato di questo... di queste mie richieste o forse perché io volevo una... avere l'accesso più immediato gli ho chiesto se acconsentiva a farmi .. a darmi queste sue credenziali per potere accedere al... direttamente io, cosa che ho fatto. Questa credo che sia la doma... la risposta alla domanda che mi...” Ciò posto, deve osservarsi come la questione posta da DE ANGELIS non assuma alcun significato sotto il profilo della possibile rarefazione della posizione di GRACEFFA, che peraltro qui non rileva se non incidenter tantum. Infatti, gli accessi abusivi fatti da terzi mediante l'inserimento delle credenziali di un GRACEFFA consapevole della loro utilizzazione impropria, non vale ad elidere la responsabilità concorsuale di quest'ultimo, sicché ogni ulteriore discettazione sul punto appare invero sterile.

§ 4.7. Le ragioni degli accessi abusivi. Esaminata l'ampia carrellata degli accessi abusivi alle banche dati della polizia, occorre passare all'analisi delle ragioni sottese ai singoli accessi, in quanto esse consentono di lumeggiare la loro matrice ideativa.

§ 4.7.1. Le ragioni di carattere generale. L'argomento delle ragioni sottostanti agli accessi abusivi ai sistemi informatici delle forze di polizia è stato accennato antea (§ 4.1), con un taglio di tipo negativo, volto ad escludere la sussistenza, in capo a GRACEFFA, di una causa di giustificazione idonea a scriminare la sua condotta (cfr. annotazione n. 501/2017 cit. della squadra mobile di Palermo, che nega la pertinenza delle interrogazioni de quibus ad indagini in quel momento in corso). Analoghe considerazioni è possibile fare per DE ANGELIS, in quanto, nel periodo di servizio prestato presso gli uffici T.L.C. (telecomunicazioni) della questura di MILANO, distaccati presso la prefettura meneghina, egli non svolgeva alcuna attività di polizia giudiziaria (cfr., a tal proposito, allegato n. 7 dell'annotazione n. 3227 del 21 novembre 2016, redatta dalla squadra mobile di Caltanissetta). Esclusa, dunque, la ricorrenza di una causa di accesso lecita ai sistemi informatici, occorre ricercare le ragioni illecite di tali interrogazioni. Dagli elementi raccolti pare potersi ragionevolmente inferire la plausibilità di un'ottica ricattatoria, perseguita da MONTANTE mediante l'utilizzazione strumentale dei dati estrapolati dalle interrogazioni abusive. Ovviamente si tratta di una considerazione di massima, che poi si specifica in relazione alle singole vicende e che certamente rinviene un innegabile pendant con la tentata violenza privata in danno di CICERO. In tale ultima vicenda (cfr. sez. seconda, cap. II, § 4), infatti, MONTANTE aveva mostrato a CICERO un corposo tabulato contenente una lunghissima serie di messaggi telefonici ricevuti, tra i quali quelli inviatigli dallo stesso CICERO. In tal modo, secondo l'interpretazione dei fatti data da quest'ultimo e risultata avvalorata da dati oggettivi, MONTANTE aveva inteso intimorirlo prospettando, implicitamente, la possibile esibizione di quei messaggi. E ciò, al fine ultimo di indurlo a confezionare una lettera retrodatata diretta a dimostrare, in maniera artificiosa, che le dichiarazioni contro Di FRANCESCO, rese da CICERO innanzi alla commissione parlamentare antimafia, fossero state ispirate, ex ante, dallo stesso MONTANTE. Ora, tale vicenda non appare esibire delle connessioni oggettuali con la diversa vicenda degli accessi abusivi alle banche dati della polizia, e tuttavia ne suggerisce l'ispirazione teleologica: raccogliere informazioni per ricattare. Si tratta di un calco operativo, questo, che veniva adottato sistematicamente da MONTANTE nei confronti dei propri avversari, come potrà constatarsi osservando da vicino alcuni dei singoli episodi di accesso abusivo accertati.

Il giudice contro “i signori della Monnezza”. La Repubblica l'11 novembre 2019. Emblematica appare la vicenda del Dott. MARINO, magistrato e assessore all'Energia della Giunta regionale presieduta da Rosario CROCETTA, che, come visto, aveva subito diversi accessi abusivi ai propri dati personali - talvolta estesi anche a quelli dei suoi prossimi congiunti (in particolare, i figli) - che si collocano l'11 luglio 2013, il 18 luglio 2013 e il 6 e 7 luglio 2016. Diverse erano le ragioni di contrasto tra MARINO e il sistema confindustriale siciliano, riconducibile in primis a MONTANTE e, in secundis, ai soggetti che gli ruotavano intorno, ispirandone le manovre o traendone ispirazione: il Sen. Giuseppe LUMIA; l'assessore regionale al Territorio e Ambiente, Mariella LO BELLO; l'imprenditore agrigentino operante nel settore dei rifiuti Giuseppe CATANZARO. In particolare il Dott. MARINO, nella veste di assessore regionale, aveva manifestato l'intenzione di mettere mano al sistema oligopolico di gestione delle (quattro) discariche di rifiuti di natura privata, un sistema che, ad avviso di MARINO, si erano ampliate in virtù di provvedimenti autorizzatori illegittimi. Pertanto, coltivando il progetto di esercitare un più penetrante controllo sul regime autorizzatorio e di “recupero dell'intervento pubblico a scapito del privato”, MARINO si era attivato da un lato per attrarre, mediante un'apposita deliberazione della giunta regionale, la materia del rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA) sotto il proprio assessorato (prima di competenza dell'assessorato Territorio e Ambiente), dall'altro per ottenere, dal Governo regionale, la dichiarazione dello stato di emergenza nel settore dei rifiuti. Ciò gli avrebbe, infatti, consentito di attingere ai fondi già stanziati in bilancio per la Regione siciliana e finanziare la realizzazione di piattaforme pubbliche, che avrebbero fatto concorrenza a quelle private, erodendo il sistema oligopolico. Tali iniziative suscitavano le ire di più soggetti riconducibili alla sfera di potere di MONTANTE: dalla LO BELLO, che tentava inutilmente di ripristinare le pregresse attribuzioni del proprio assessorato - Territorio e Ambiente - in materia di A.I.A., a CROCETTA e LUMIA, questi ultimi in specie dopo l'accertamento di numerose violazioni di legge riscontrate nel rilascio dell'autorizzazione in favore della discarica di Siculiana, riconducibile a CATANZARO, e nella gestione della discarica medesima. Si riportano di seguito le dichiarazioni rese dal Dott. MARINO in sede di sommarie informazioni testimoniali rese il 16 aprile 2016:

“[…] Per ovviare a tale situazione, come primo atto portai sotto la competenza del mio assessorato il rilascio dell'A.I.A., prima di competenza dell'Assessorato Territorio e Ambiente.  Ricordo che dopo questo mio atto di governo, la LO BELLO, allora Assessore al Territorio e Ambiente, andò su tutte le furie, e mi disse che avrebbe chiesto la convocazione di altra seduta della Giunta per riportare la competenza dell'A.I.A. sotto il suo assessorato. A testimonianza del notevole interesse che vi è dietro il rilascio dell'A.I.A., posso anche dire che molti dirigenti che se ne occupavano nell'Assessorato Territorio e Ambiente, chiesero a Marco LUPO, Dirigente del Dipartimento Acqua e Rifiuti del mio assessorato, di transitare al suo ufficio, proposta che venne rifiutata. Posso altresì dire che solo dopo un anno, e nonostante numerose lettere di sollecito, il mio Assessorato ricevette la documentazione necessaria per poter assolvere al futuro rilascio delle autorizzazioni. Ciò posto, mi resi anche conto che l'unica possibilità che vi fosse per poter realizzare il progetto che prevedesse il recupero dell'intervento pubblico a scapito del privato nella gestione delle discariche, era quello di chiedere l'emergenza al Governo nazionale, affinché si potessero utilizzare i fondi già stanziati nel relativo capitolo di bilancio per la Regione Sicilia. […] In sede di conversione del Decreto Legge 274 del 2013, venimmo convocati al Senato in una riunione congiunta delle commissioni ambiente del Senato e della Camera, presieduta dal Sen. MARTINELLO di Agrigento. In quell'occasione esponemmo ampiamente le nostre ragioni, e solo al termine della riunione il Senatore MARTINELLO diede atto che era pervenuta una nota a firma dell'imprenditore CATANZARO e dell'esponente di Legambiente FONTANA, con la quale, nella sostanza, si paventava il rischio che la dichiarazione di emergenza potesse favorire interessi delle organizzazioni mafiose, come già avvenuto in passato. Subito dopo la riunione, incontrai il Se. LUMIA al Caffè Sant'Eustachio di Roma; il LUMIA mi contestò di non averlo informato della convocazione in Commissione. Gli risposi che non capivo perché avrei dovuto avvisarlo […]. Com'è evidente, tali contrasti tra l'assessore MARINO e il gruppo MONTANTE (MONTANTE - LUMIA - LO BELLO - CATANZARO), maturati nell'ambito di una materia connotata da una elevata sensibilità dal punto di vista lucrativo (gestione rifiuti), avevano trovato la loro massima espressione proprio nell'anno 2013, quando si inscrivono i primi accessi al sistema informatico relativi al predetto MARINO. Non deve, dunque, stupire che CATANZARO avesse concorso nella captazione di informazioni sul conto dell'assessore, come emerge dalla intercettazione della conversazione intercorsa de visu, il 14 febbraio 2016 (progr. n. 449), tra Giuseppe CATANZARO e MONTANTE. In essa, infatti, il primo annunciava al secondo di essere in attesa di ricevere, tramite un terzo soggetto, il numero di targa del Dott. MARINO: […]. Ad arricchire il quadro probatorio, che invero appare già di per sé autosufficiente, soccorrono le dichiarazioni rese agli investigatori da CICERO, secondo cui egli aveva appreso da CATANZARO, tra la fine del 2013 e gli inizi del 2014, che MONTANTE disponeva di un video sulla vita privata dell'assessore, che intendeva divulgare sul web “per tentare di delegittimare Marino, colpevole delle accuse pubbliche contro lo stesso Catanzaro ed i vertici di Confindustria Sicilia, in merito alle note vicende della gestione dei rifiuti in Sicilia” (sommarie informazioni testimoniali del 3 maggio 2016): ...omissis...

Giuseppe Catanzaro. Nel periodo in cui imperversava l'aspra polemica tra l'ex Assessore all'Energia Nicolò Marino, Giuseppe Catanzaro e Confindustria Sicilia (fine mesi 2013/primi mesi 2014), Catanzaro mi riferì che Antonello Montante, a suo dire, deteneva un dossier ed un video contenente delle immagini scandalose riguardanti anche la vita privata di Marino e che stava facendo di tutto per farle diffondere su un giornale on line o blog per tentare di delegittimare Marino, colpevole delle accuse pubbliche contro lo stesso Catanzaro ed i vertici di Confindustria Sicilia, in merito alle note vicende della gestione dei rifiuti in Sicilia"

...omissis...

Le dichiarazioni di CICERO manifestano una incredibile assonanza con quelle di MARINO, il quale collocava nell'ottobre del 2013 un incontro con MONTANTE, il Sen. LUMIA e Ivanhoe LO BELLO, presso un hotel catanese, nel corso del quale l'imprenditore di Serradifalco lo aveva invitato “a non raccogliere più informazioni sul suo conto, aggiungendo, poi, che se avesse voluto fare la guerra a colpi di dossier, si sarebbe fatto trovare pronto" (vd. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 18 dicembre 2014 innanzi alla Procura di Catania). Tanto vero che già l'11 luglio e il 18 luglio 2013, come detto, risultano effettuati gli accessi allo S.D.I. che riguardavano proprio MARINO.

Di seguito le dichiarazioni rese da quest'ultimo: omissis...

Domanda; vuole descriverci nei particolari l 'incontro avuto con LO BELLO, LUMIA e MONTANTE all'Hotel Excelsior?

Risposta: l'incontro avvenne un lunedì intorno a ottobre 2013 dopo la pubblicazione di un articolo scritto sul “Fatto Quotidiano" relativo alla c.d. antimafia di facciata contenente, tra l'altro, dichiarazioni di Lari relative al ministro Alfano.

Ricevetti una telefonata da Lumia che conosco da tempo, almeno dal 2001, nella quale lo stesso mi chiedeva di vedermi con urgenza rappresentandomi che trattasi di interesse suo, di MONTANTE e di LO BELLO (che chiamò per nome). Dal tenore della conversazione compresi che tutti e tre i soggetti si trovavano a Palermo e, quando manifestai loro la mia impossibilità a raggiungere il capoluogo nel corso della giornata, si offrirono di raggiungermi a Catania dove mi trovavo per esigenze connesse al mio incarico di allora (Assessore regionale all'energia). In effetti, verso le 21.00 ci trovammo tutti nella hall dell'Hotel Excelsior in Catania dove io arrivai trovando tutti quanti già presenti. Quando arrivai lasciai all'ingresso BUCETI e Giuseppe LENTINI che mi collaboravano nella mia attività presso l'assessorato e che non parteciparono pertanto alla discussione. Appena arrivato mi sedetti difronte a MONTANTE il quale immediatamente dopo convenevoli preliminari si alzò in piedi ed in dialetto stretto mi intimo di cessare la mia attività di dossieraggio nei suoi confronti e mi disse altresì che avrei dovuto smettere di inviare BUCETI a raccogliere informazioni sul suo conto e condurre intercettazioni. MONTANTE in particolare disse testualmente che se avessi voluto fare la guerra a colpi di dossier lui si sarebbe fatto trovare pronto.

...omissis...

L'effettivo svolgimento dell'incontro narrato da MARINO è confermato dalla puntuale annotazione nel file excel di MONTANTE, nel quale, peraltro, come può constatarsi dalla lettura della seconda griglia sotto riportata, estrapolata dalla cartella “TUTTI” del predetto file, è riportata altresì l'annotazione di una serie di avvenimenti riguardanti il medesimo MARINO: [...]. Alla luce di quanto ricostruito, non possono sussistere dubbi circa l'attribuibilità a MONTANTE del ruolo di mandante degli accessi in pregiudizio dell'assessore, risultando in maniera macroscopica la convergenza di molteplici elementi di prova circa l'esistenza di motivi di astio da parte del primo nei confronti del secondo e, soprattutto, nella medesima direzione, l'assunzione di iniziative di raccolta di dati da utilizzare in maniera obliqua e ricattatoria. D'altra parte, all'epoca della spasmodica ricerca della targa del veicolo dell'ormai ex assessore all'Energia (intercettazione MONTANTE-CATANZARO del 14 febbraio 2016, sopra riportata), il conflitto tra lo stesso ed il sistema confindustriale siciliano (con MONTANTE in posizione verticistica) non solo non si era mai sopito, ma si era addirittura radicato e cronicizzato. Infatti, giusto qualche mese prima rispetto ai più recenti accessi (luglio 2016) al sistema informatico nei riguardi di MARINO, quest'ultimo aveva rilasciato un'intervista al quotidiano La Sicilia, pubblicata il 13 marzo 2016 sotto il titolo “Nicolò Marino: Ecco le Istituzioni che hanno coperto il sistema Montante”, nella quale lo stesso “si esprimeva in maniera decisamente critica nei confronti” del potente industriale (valutazione contenuta nell'ordinanza cautelare, a p. 629, e, in ragione dell'oggettivo contenuto dell'articolo, assolutamente condivisibile). A ciò occorre aggiungere un ulteriore fatto, verificatosi circa un mese prima degli ultimi accessi abusivi. Il Dott. MARINO, invero, aveva reso dichiarazioni agli inquirenti sul conto di Letterio ROMEO, ufficiale dell'Arma dei carabinieri che, dopo avere redatto una relazione di servizio circa delle minacce da lui subite ad opera di MONTANTE, l'avrebbe distrutta, soppressa o occultata (capo “M" di imputazione, per cui si procede separatamente). Ebbene, secondo la ricostruzione, plausibile, fatta in fase cautelare, ROMEO, escusso dagli investigatori in ordine a tale fatto, avrebbe riferito subito dopo a MONTANTE il contenuto della propria deposizione. E ciò, in data 7 giugno 2016. Poiché la ricostruzione di tale vicenda presuppone l'esposizione di meri dati oggettivi, derivanti dall'analisi del traffico telefonico dei suoi protagonisti, è opportuno rimettersi a quanto già sintetizzato nell'ordinanza cautelare (da p. 631): Inoltre, va posto in rilievo un ulteriore elemento che, sia pure senza essere dotato dei crismi di assoluta certezza (ma della probabilità, sia pure elevata), può servire a spiegare ulteriormente perché il GRACEFFA era tornato ad acquisire notizie in banca dati SDI nel luglio 2016, dopo averle già carpite (come si tornerà a dire di qui a poco) nel 2013. Si dirà in seguito, infatti, che in data 7 giugno 2016 veniva escusso da questo Pubblico Ministero il T. Col. Letterio ROMEO e che nel corso di quell'atto istruttorio venivano chieste circostanze direttamente afferenti i suoi rapporti col MONTANTE ed in specie che sorte avesse avuto una relazione di servizio redatta a seguito di una telefonata che questi gli aveva effettuato. Sempre in occasione di quell'atto istruttorio erano stati rappresentati all'ufficiale dell'Arma gli elementi che su quella vicenda emergevano dalle dichiarazioni che in precedenza aveva reso proprio il dott. MARINO. Ebbene, dall'analisi dei tabulati telefonici acquisiti al procedimento è emerso che il ROMEO, il giorno seguente rispetto a quello in cui era stato audito presso questi Uffici, si era recato a Roma ove era rimasto sino al pomeriggio del 10.6.2016. In quegli stessi giorni, si registrava la presenza nella capitale anche del MONTANTE, il quale era ivi giunto già il giorno 7 per poi recarsi a Milano il successivo 10 giugno. In particolare il giorno 08.06.2016, si accertava che il MONTANTE, nel pomeriggio, si spostava appositamente nella zona della stazione Termini, essendo stato in precedenza in luoghi della città estremamente distanti dal principale scalo ferroviario della capitale. Ed invero le celle telefoniche agganciate dalle sue utenze di telefonia mobile consentivano di accertare che questi si spostava dalla zona Eur (ore 16.46) a via Bompiani (zona Garbatella, ore 17.38), per poi avvicinarsi alla stazione Termini (ore 18.25, via Paolina e ore 18.42, via Cavour). Inoltre, a partire dalle ore 20.20 le sue utenze agganciavano celle telefoniche ancor più vicine alla stazione Termini, venendo rilevate a via Liberiana che dista circa 300 metri dallo scalo ferroviario romano. D'altro canto si accertava pure che Letterio ROMEO, quello stesso giorno, era giunto a Roma, in treno, alle ore 21.38 circa. Il dato emergeva, oltre che da1l°analisi dei tabulati, anche da una telefonata ricevuta dallo stesso ROMEO da parte del fratello che lo era andato a prendere in stazione. Come ricavato ancora una volta dai tabulati telefonici, le utenze in uso al MONTANTE, alle ore 21.14 e alle ore 21.15, censivano due celle telefoniche molto vicine alla stazione Termini, rispettivamente in via Cavour e via Liberiana (essendo le due utenze attestate su due gestori diversi). Dalle intercettazioni telefoniche sull'utenza riservata a quel tempo in uso al MONTANTE (quella avente nr. 338+++++++ intestata a DE MARIA Maddalena, di cui meglio si dirà nel prosieguo) si rilevava che questi, alle ore 21.58, aveva provato a contattare (progr. nr. 652) il giornalista de “Il Fatto Nisseno”, SPENA Michele, e, anche in questa occasione, la cella censita era quella di via Cavour.

Se ne ricava, pertanto, con certezza che allorché il ROMEO, nella prima serata dell'8 giugno 2016, era giunto alla Stazione Termini di Roma, il MONTANTE si trovava nelle immediate vicinanze, come meglio si può comprendere dal grafico di seguito riportato: […]. Ed allora, sembra davvero plausibile ipotizzare che (evidentemente utilizzando altri canali di comunicazione non intercettabili, ad esempio il sistema di messaggistica whatsapp) il ROMEO avesse chiesto al MONTANTE di poterlo incontrare onde rappresentargli gli esiti dell'atto istruttorio cui era stato sottoposto e, in special modo, ragguagliarlo sulle dichiarazioni che il dott. MARINO aveva reso a questo Ufficio (e che di certo direttamente riguardavano il MONTANTE, oltre che lo stesso ROMEO). Ciò consentirebbe di trovare un'ulteriore spiegazione alle ragioni per le quali il GRACEFFA, all'incirca un mese dopo, fosse stato compulsato per tornare ad attingere notizie riservate sul conto del magistrato. Potrebbe certamente obiettarsi che la ricostruzione dell'incontro tra l'ufficiale dei carabinieri e l'imprenditore di Serradifalco è condotta su base meramente probabilistica e che, dunque, non è stata raggiunta la certezza circa l'effettività di tale incontro e il contenuto delle relative conversazioni. Ebbene, anche a volere elidere mentalmente tale episodio, l'interessamento spionistico di MONTANTE sul conto del Dott. MARINO non può essere seriamente messo in dubbio, in quanto avvalorato da tutti gli altri elementi sopra rappresentati (dichiarazioni dello stesso MARINO, dichiarazioni di CICERO, contenuto del file excel, intercettazioni), che consentono di individuare incontrovertibilmente nell'imprenditore di Serradifalco la fonte della richiesta di acquisizione di informazioni personali nei riguardi del magistrato ed ex assessore e dei suoi familiari.

Regione Siciliana, manovre e affari. La Repubblica il 12 novembre 2019. Tra i soggetti verso i quali si era appuntata l'attenzione delle interrogazioni illecite allo S.D.I. si annoverano, come visto, Gaetano ARMAO e Giulio CUSUMANO, i cui casi possono essere trattati congiuntamente in quanto collegati ad una medesima vicenda. Entrambi infatti - il primo nella qualità di assessore all'Economia del Governo regionale presieduto da Raffaele LOMBARDO e il secondo quale vice presidente dell'Azienda Siciliana Trasporti (AST) s.p.a. - si erano opposti al progetto, sostenuto da ambienti confindustriali, di varare la fusione tra l'Azienda predetta e una sua partecipata, Jonica Trasporti, nella quale la M.S.A. s.p.a. di MONTANTE deteneva il 49% del capitale sociale. Tale operazione, in particolare, secondo quanto ritenuto da CUSUMANO, si sarebbe risolta in una ingiustificabile locupletazione a vantaggio della Jonica Trasporti, in quanto "il socio privato [la Jonica Trasporti, ndr] alla fine dell'operazione sarebbe divenuto proprietario di una piccolissima percentuale delle quote dell'AST s.p.a. e ciò avrebbe comportato comunque che lo stesso socio privato, pur entrando con una quota infinitesimale in AST, avrebbe avuto, in caso di privatizzazione della quale già si cominciava a parlare in quel periodo, il diritto di prelazione per acquisire AST s.p.a. E di certo l'AST s.p.a. godeva e gode tuttora di un patrimonio immobiliare estremamente consistente, che in caso si fosse concretizzata la fusione e nel caso di successiva privatizzazione, sarebbe finito nelle mani del socio privato” (verbale di sommarie informazioni testimoniali dell'11 febbraio 2017). ARMAO, oltre a condividere la posizione avversativa a tale operazione, di cui avrebbe beneficiato soltanto il socio privato, aveva altresì deciso di procedere alla dismissione del patrimonio immobiliare dell'AST, al fine di reinvestire i proventi nella medesima azienda, in ciò incontrando la (sterile) opposizione del presidente della società, Dott. LO BOSCO. Si tratta di una vicenda nella quale si scolpisce il conflitto tra interesse privato alla fagocitazione dell'immenso patrimonio immobiliare dell'azienda dei trasporti e quello pubblico alla migliore gestione dell'azienda medesima. Il tutto, secondo le dichiarazioni di ARMAO e CUSUMANO, si svolgeva sotto il cono d'ombra di Confindustria Sicilia che, alleata con l'allora presidente della Regione, Raffaele LOMBARDO, aveva ritenuto di perorare l'ennesimo atto predatorio in danno della cosa pubblica. Tale vicenda, che ripercorreremo dettagliatamente, appare non priva di una sua valenza semeiotica sotto il profilo dell'interesse che poteva sorreggere il compimento di atti di dossieraggio - certamente da riferirsi a MONTANTE sul piano del mandato - nei riguardi tanto di ARMAO quanto di CUSUMANO. Peraltro, la vicenda di CUSUMANO si permea di un sinistro squallore, posto che, come vedremo, a fronte della sistematica opera di contenimento del costi condotta dallo stesso all'interno dell'AST una volta assuntane la presidenza di fatto, si ergeva il crescente ostruzionismo esercitato nei suoi riguardi dal Governo regionale. Infatti, il Presidente LOMBARDO lo aveva convocato per invitarlo a mettersi da parte, in quanto, a suo dire, un esposto anonimo lo aveva segnalato quale appartenente ad una famiglia con parentele mafiose e, comunque, quale soggetto omosessuale incline alle orge. Notizie che, adeguatamente diffuse, avrebbero creato, secondo il presidente della Regione, notevole imbarazzo. Se a ciò si aggiungono, come vedremo di seguito, le altre minacce ricevute da CUSUMANO per la vicenda AST, ve n'è abbastanza per affermare che la politica regionale dell'epoca sembrava ispirata, in una logica di solidarietà con personaggi di Confindustria e, in particolare, con MONTANTE, alla depredazione della res publica in favore del soddisfacimento degli appetiti privati. Appare utile, sul punto, ripercorrere la ricostruzione contenuta nell'ordinanza cautelare, nella quale si dà atto anche di un'ulteriore, grave vicenda che aveva visto contrapposto Gaetano ARMAO ad Antonio Calogero MONTANTE, sotto la regia, non troppo occulta, del Sen. LUMIA, id est quella relativa ad un progetto di acquisizione dell'ex stabilimento Fiat di Termini Imerese da parte della società D.R., avente sede extrainsulare. Nell'occasione, infatti, ARMAO aveva osteggiato la realizzazione di tale progetto, che prevedeva l'erogazione di un finanziamento in favore della D.R. da parte dell'I.R.F.I.S. (intermediario finanziario avente come socio unico la Regione Sicilia), e ciò sulla base di un duplice profilo afferente alla affidabilità economico-finanziaria della predetta società e al divieto di erogazione di finanziamenti, da parte dell'I.R.F.I.S., a vantaggio di società non aventi sede in Sicilia. La posizione di ARMAO, come dallo stesso riferito, aveva tuttavia suscitato le reazioni avverse del Sen. LUMIA e di MONTANTE, che, al contrario, avevano perorato l'iniziativa. Tale vicenda viene riportata dalla viva voce di ARMAO non già al fine di distribuire torti e ragioni tra le due fazioni contrapposte, ma al solo scopo di evidenziare come essa avesse determinato una fenditura nei rapporti tra l'assessore regionale da un lato e LUMIA e MONTANTE dall'altra, si da rendere agevolmente comprensibili le motivazioni che avevano spinto quest'ultimo a coltivare sentimenti di ostilità verso l'assessore testé menzionato. Si riportano, di seguito, le dichiarazioni rese da quest'ultimo in sede di sommarie informazioni testimoniali, rese in data 12 marzo 2015, in ordine a tale vicenda: A.D.R. Altra vicenda che posso riferire pur sempre a testimonianza di quella premessa generale che ho fatto, è quella che fa riferimento alla società D. R. ed al progetto di subentro da parte della stessa nell'ex stabilimento FIAT di Termini Imerese. Si tratta di vicenda che si colloca alla fine del 2011-inizi del 2012. Ricordo che si presentò a Palazzo d'Orleans il senatore LUMIA in compagnia dell'imprenditore DI RISIO per manifestare al Presidente LOMBARDO l'intenzione da parte del DI RISIO stesso di rilevare l'ex FIA T di Termini. Il Presidente LOMBARDO mi convocò per assistere alla discussione e, successivamente, ne parlai a parte con il senatore LUMIA ed il DI RISIO, cui dissi che avrei studiato la fattibilità della loro proposta per gli aspetti di competenza della Regione. Presi informazioni presso UNICREDIT sulla consistenza dell'azienda del DI RISIO e venni a sapere che la stessa era in sofferenza economica. Ebbi poi casualmente a parlare del DI RISIO con Anna FALCHI che aveva girato uno spot pubblicitario per tale azienda e questa mi disse che non aveva mai ricevuto il relativo compenso di 10. 000 euro. Mi resi perciò conto che si trattava di un 'operazione che non aveva i relativi presupposti. Nello stesso periodo arrivò all'Assessorato una richiesta di avallo di un finanziamento che IRFIS voleva concedere alla società del DI RISIO per l 'importo di 20 milioni di euro. La richiesta era a firma del dirigente dell'IRFIS dott. EMANUELE. Dissi al mio direttore generale, dott. BOSSONE, di studiare con attenzione la pratica, posto che non si poteva concedere in alcun modo un finanziamento a società allocate fuori dalla Regione Sicilia come voleva fare l'IRFIS con la richiesta in questione. L'operazione fu conseguentemente bloccata e il senatore PISTORIO mi riferì che LUMIA e MONTANTE erano “imbestialiti" per la mia iniziativa; ritengo anche che costoro si fossero recati dal Presidente LOMBARDO per sollecitarne il buon esito, posto che lo stesso LOMBARDO mi rappresentò che era favorevole all'operazione DI RISIO purché non avessi ravvisato condizioni ostative. Da quel momento in poi il senatore LUMIA mi fu apertamente ostile e ricordo anche di essere stato a cena a Roma all'Assunta Madre, col DI RISIO, invitato da Salvatore GALVANICO, il quale si mostrava in soggezione nei confronti dello stesso LUMIA. A.D.R. Quanto all'EMANUELE posso dire che lo stesso, quando divenni Assessore all'Economia, era ragioniere generale. Ricordo che nel 2010 "Il sole 24 ore'' fece due articoli molto ostili nei confronti dell'EMANUELE e ricordo anche che il VENTURI mi disse che, a suo parere, era inaccettabile che un soggetto come l'EMANUELE avesse tutto quel potere, posto che era anche segretario generale. Non avendo io peraltro alcuna stima dell'EMANUELE nel febbraio-marzo del 2011 chiesi ed ottenni la rimozione dell'EMANUELE stesso dal ruolo di ragioniere generale. Il Presidente LOMBARDO nominò a quel punto l'EMANUELE direttore generale dell'Assessorato ai rifiuti e da quel momento in poi i rapporti di costui con CONFINDUSTRIA Regionale divennero idilliaci. Lo stesso EMANUELE in mia presenza ed anche alla presenza del dott. NICOSIA, al tempo mio capo di gabinetto, si vantava del fatto che il senatore LUMIA si recasse a mangiare a casa sua e che fosse entrato in ottimi rapporti con l'imprenditore CA TANZARO. Successivamente l'EMANUELE fu spostato come direttore generale dell'IRFIS, con il plauso pubblico dell'imprenditore CATANZARO che fece una dichiarazione pubblica in tal senso, e fu colui che, come detto, avanzò la richiesta di avallo per il finanziamento al DI RISIO. A seguire, le dichiarazioni rese da ARMAO in merito alla diversa questione del progetto di incorporazione per fusione della Jonica TRASPORTI s.p.a. in AST s.p.a.: A.D.R. Posso anche riferire in merito all'operazione che doveva condurre alla fusione di incorporazione della Jonica TRASPORTI s.p. a. in AST Spa... Il governo nazionale infatti emanò una norma che prevedeva la necessità di eliminare le partecipazioni a grappoli ed io nella mia qualità di Assessore mi trovai a dovermi occupare del riordino delle società partecipate della Regione Sicilia. In tale veste discussi, tra le altre cose, in commissione proprio dell'operazione di Jonica TRASPORTI e ne discussi con l'allora Presidente LO BOSCO, il direttore generale NICOLOSI, nonché con l'avvocato Guido BARCELLONA. Costoro si presentarono con alcuni pareri favorevoli all'operazione rilasciati dal prof. PITRUZZELLA. L'operazione però presentava un problema che era quello relativo alla possibilità di mantenimento da parte dell'AST spa di affidamento in house del servizio nonostante il sub ingresso di un socio privato proprio attraverso la descritta fusione per incorporazione. Possibilità che la normativa e la giurisprudenza formatasi sul punto escludeva. I pareri del prof PITRUZZELLA superavano però il problema ritenendo che il servizio svolto dall'AST non fosse un servizio pubblico locale o che comunque non fosse riconducibile al regime in house. Io e Carmelo RUSSO, allora Assessore alle infrastrutture, mostrammo delle perplessità all'operazione nonostante i parerei del prof PITRUZZELLA, perplessità che vennero confermate dal parere del Prof RAIMONDI, che questi aveva redatto per conto di due società operanti nel settore dei trasporti e di una parte dei deputati del PD regionale. Decisi, quindi, di mandare la pratica all'allora Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ed all'Autorità Antitrust, ma non so in che maniera poi costoro si siano pronunciati. Preciso che accanto alla fusione per incorporazione si prevedeva contestualmente la modifica dei patti para-sociali nel senso che il socio privato di Ionica TRASPORTI avrebbe avuto il diritto di prelazione in caso di dismissione dell'AST spa. Posso presumere che anche per tale vicenda il Presidente LOMBARDO ricevette pressioni, posto che si mostrò con me favorevole alla sua concretizzazione, purché, come sempre, fosse possibile realizzarla. So che poi, anche a fronte di interrogazioni parlamentari, delle prese di posizione del prof RAIMONDI, dei miei esposti e del clamore mediatico che iniziò ad avere la vicenda, la fusione non ebbe alcun seguito. Devo anche dire che, nel periodo in cui si discuteva di tale fusione, fui promotore di una norma poi votata favorevolmente in assemblea che prevedeva la possibilità per la Regione di valorizzare in maniera autonoma e diretta il proprio patrimonio immobiliare senza necessariamente doverlo affidare alla società mista S.P.I. s.p. a... Una volta approvata la norma, tra gli altri, convocai il prof LO BOSCO cui rappresentai la necessità di mettere in vendita il patrimonio immobiliare di AS. T. spa - ed avevo già fatto un bando in tal senso - affinché col ricavato si potessero finanziare gli investimenti della stessa AST. Ricordo che il prof LO BOSCO all'inizio mostrò perplessità e resistenze nel fare ciò che avevo intenzione di realizzare, ma alla fine dovette sottostare alle mie decisioni. L'insieme di queste vicende mi attirarono ancora una volta l'ostilità del MONTANTE, come potei chiaramente percepire dagli ostacoli giuridici e amministrativi che via via il management di AST saldamente legato al MONTANTE - frapponeva alla effettiva dismissione del patrimonio immobiliare di AST spa. In oltre l'allora vice presidente di AST, l'avv. TAFURI, mi confidò di aver subito identici tentativi di condizionamenti da parte dei vertici di AST su input del MONTANTE. Non è certamente questa la sede, come già spiegato, nella quale discettare sulla funzionalità, rispetto all'interesse pubblico, dei due progetti – quello relativo all'ex stabilimento di Termini Imerese e quello afferente alla fusione per incorporazione tra A.S.T. e Jonica Trasporti - riferiti da ARMAO, che lo videro attestarsi su posizioni antagoniste rispetto a quelle di LUMIA e MONTANTE. E tuttavia, non ci si può sottrarre alla constatazione circa l'esistenza di diversi elementi che riscontrano la "veridicità dell'estrinseco" delle dichiarazioni di ARMAO, ossia che confermano che effettivamente i fatti narrati hanno una loro consistenza storica, a prescindere dalla condivisibilità delle posizioni, favorevoli o contrarie, assunte rispetto ad essi dalle parti contrapposte. Infatti, solo per esemplificare, non può non rilevarsi come, a proposito dell'operazione relativa all'ex stabilimento di Termini Imerese, il Sen. PISTORIO, menzionato da ARMAO quale soggetto che ebbe a rappresentargli l'ira di MONTANTE e di LUMIA per le resistenze dello stesso ARMAO al finanziamento della società extrainsulare ad opera dell'I.R.F.I.S., è persona effettivamente nota a MONTANTE, con la quale quest'ultimo ebbe diverse occasioni di incontro, come può agevolmente evincersi dalle annotazioni contenute nel file excel, all'interno della cartella denominata “TUTTI”:[…]. Tali annotazioni suggeriscono, peraltro, l'esistenza di una spiccata vicinanza tra il Pres. LOMBARDO e MONTANTE, come si ricava dall'appunto del 23 maggio 2009, secondo cui “ore 23.00 arriva Emma hotel Delle Palme (Lombardo chiede ad Emma di farmi assessore e diciamo no!!) [...]": il governatore, invero, avrebbe espresso alla MARCEGAGLIA (nella quale deve identificarsi pacificamente l'“EMMA” menzionata ripetutamente da MONTANTE nel file excel) il proposito di nominare l'imprenditore di Serradifalco quale assessore regionale. L'ordinanza cautelare, poi, contiene la descrizione del materiale documentale rinvenuto nella “stanza segreta” di MONTANTE, che conferma l'attenzione rivolta dallo stesso alla questione dell'ex stabilimento Fiat anche mediante l'acquisizione di informazioni riservate sul conto dei suoi protagonisti, che deve considerarsi certamente priva di connessioni giustificative con la carica confindustriale rivestita dall'imprenditore di Serradifalco. Trattandosi di esporre, anche qui, meri dati oggettivi, può essere utile la riproduzione di un escerto dell'ordinanza cautelare (da p. 641), nella parte in cui essa passa in rassegna il contenuto di quanto rinvenuto in sede di perquisizione e rammenta gli episodi degli accessi abusivi sopra esaminati, collegati alla presente vicenda: In particolare occorre tornare a ripetere che, all'interno della c.d. “stanza segreta” della abitazione di Contrada Altarello, era custodito un fascicolo (con intestazione Senato della Repubblica) contenente documentazione relativa ad una società denominata GRIFA che aveva, del pari, manifestato il suo interesse a rilevare l'ex stabilimento della Fiat di Termini Imerese. Il contenuto del file excel consente di ricavare che, sempre nel periodo in cui la società in questione intendeva concludere l'affare, il MONTANTE abbia avuto alcuni incontri con “TONELLI” e “FORENZA”, che si identificano, pressoché con certezza, in Augusto FORENZA (Presidente, all'epoca dei fatti, del Consiglio di Amministrazione della GRIFA) e Giancarlo TONELLI (all'epoca titolare – assieme a Giuseppe RAGNI - della Walking World, società che faceva da consulente alla GRIFA per la realizzazione di quel progetto). Gli appunti annotati a margine di alcuni documenti contenuti nel predetto fascicolo intestato al “Senato della Repubblica” (in specie una copia incompleta di un atto di cessione di quota sociale della GRIFA, nonché una copia non l'innata di un verbale di assemblea ordinaria del 2.9.2014 sempre della GRIFA) consentono di desumere che era stato proprio il TONELLI a consegnarli a colui che li ha poi inseriti in quel fascicolo (che è poi stato consegnato al MONTANTE). Sia detto per inciso, sempre alla questione relativa alla possibile acquisizione da parte della GRIFA dell'ex stabilimento FIAT di Termini Imerese sono legati gli accertamenti effettuati in banca dati S.D.I. dal GRACEFFA sul conto di ZUCCHELLI Alberto e DORIGO Maurizio (appare opportuno rammentarlo) il 16 e 18 novembre 2014. La circostanza è inconfutabilmente provata pur sempre dall'analisi dei documenti contenuti nel predetto fascicolo intestato al “Senato della Repubblica”, in specie laddove si ponga mente alla summenzionata copia incompleta di atto di cessione di quota sociale effettuata, il 6 ottobre 2014, tra Augusto FORENZA (in rappresentanza della GRIFA) e proprio Alberto ZUCCHELLI (in rappresentanza della Elettra Progetti e Servizi s.p.a.). Sempre all'interno di quel fascicolo vi è infatti una visura della “Elettra Progetti e Servizi s.p.a.” in cui sono annotate le date di nascita dei soci e dove i nominativi del DORIGO e dello ZUCCHELLI sono evidenziati in giallo. Non vi è quindi possibilità di incertezza sul fatto che, ancora una volta, quegli accertamenti fossero stati chiesti ad uso e consumo del MONTANTE (nella cui disponibilità sono stati peraltro rinvenuti i relativi esiti) e che, guarda caso, risultano effettuati poco più di un mese dopo rispetto al momento in cui avveniva quell'operazione di cessione di quote sociali. Del resto, i reperti documentali rinvenuti nella disponibilità di MONTANTE offrono riscontri (peraltro non necessari, attesa la qualità di ARMAO quale persona informata dei fatti, senza compromissioni coimputative) anche alle dichiarazioni dell'ex assessore relative alla sua contrapposizione con l'imprenditore di Serradifalco in relazione alla diversa vicenda del progetto di fusione AST s.p.a. - Jonica Trasporti. Infatti, è stato accertato che MONTANTE, tra le altre cose, aveva conservato un articolo pubblicato il 3 marzo 2013 sul quotidiano La Repubblica, edizione di Palermo, dal titolo “Tutti gli uomini del Presidente, ecco chi comanda nella Regione Sicilia" a firma del giornalista Emanuele Lauria. La conservazione, da parte di MONTANTE, di tale articolo appare particolarmente significativa, in quanto in esso “veniva esplicitamente citato il MONTANTE, in connessione col Senatore LUMIA, come uno dei soggetti maggiormente legati al Presidente CROCETTA, nonché, tra le altre, argomentava proprio sulla vicenda relativa alla fusione tra Jonica Trasporti ed A.S.T... Ebbene il MONTANTE (che si tratti di annotazioni redatte di suo pugno è agevolmente rilevabile, in questo caso, dal fatto che, in relazione alla Jonica Trasporti, l'estensore parla in prima persona), oltre a sottolineare alcuni passaggi dell'articolo e ad annotare appunti a margine degli stessi che dovessero servire a smentirne il contenuto, nella parte superiore aveva testualmente scritto ''firmato Armao", a voler, cioè, significare che proprio questi fosse stato, a parere dell'imprenditore di Serradifalco, uno degli ispiratori dell'articolo in questione e, in specie, delle considerazioni in esso contenute riguardanti la vicenda A.S.T. che aveva diligentemente sottolineato. Peraltro, è stata rinvenuta anche la bozza di una risposta che il MONTANTE aveva indirizzato al giornalista con la quale lo invitava a ''più penetranti controlli di ''veridicità'' delle notizie ''specie nei casi in cui le informazioni provengono, come credo sia stato in questo caso, da fonti sterilmente rancorose e notoriamente prive di ogni attendibilità". Ovvio, alla luce di quanto si è detto, il riferimento all'ARMAO” (ordinanza cautelare, da p. 653). E del resto, all'incirca un mese dopo la pubblicazione di tale articolo, ed esattamente in data 2 aprile 2013, puntuale era arrivata l'interrogazione allo S.D.I. sul conto di ARMAO. La vicenda dell'A.S.T., come detto in premessa, è riferita anche dall'Avv. CUSUMANO, colui che può essere definito l'artefice di una stoica resistenza contro l'operazione di fusione, ove l'aspetto stoico è da ravvisare nella fermezza della posizione contraria da lui assunta alla realizzazione del progetto, nonostante i gravissimi attacchi subiti sul piano personale, perché reo di essersi battuto per assicurare una gestione sana della società pubblica dei trasporti. Secondo quanto riferito dall'Avv. CUSUMANO e come già sopra anticipato, il Governatore LOMBARDO gli aveva prospettato le possibili conseguenze derivanti dall'eventuale divulgazione di uno scritto anonimo che lo accusava di condotte sessualmente deviate, nonché di appartenere ad una famiglia legata alla mafia. Inoltre, il predetto CUSUMANO, stando alla sua narrazione, era stato avvicinato da due persone sconosciute perché evitasse di interessarsi ulteriormente della questione della fusione. […] Ora, in assenza di contraddittorio sul punto con l'ex Governatore LOMBARDO, non è possibile esprimere valutazioni sul suo operato, che comunque deborderebbero dal perimetro dell'odierno giudizio. Un aspetto della vicenda merita, tuttavia, di essere evidenziato: le dichiarazioni di CUSUMANO appaiono coerenti con quelle rese da Maria Sole VIZZINI, revisore contabile dell'A.S.T. dal 2007 al marzo 2016, la quale, se da un lato aveva avuto modo di raccogliere gli sfoghi dell'Avv. CUSUMANO per la duplice intimidazione subita ad opera del Governatore LOMBARDO e, separatamente, ad opera di due persone ignote, dall'altro aggiungeva un particolare importante nella ricostruzione di quegli eventi: VIZZINI era stata contattata dal giornalista Lirio ABBATE, il quale le aveva chiesto informazioni per vagliare la veridicità della notizia relativa ai presunti problemi giudiziari della famiglia di CUSUMANO e alla asserita partecipazione di quest'ultimo a dei festini.

Si veda lo stralcio del verbale di sommarie informazioni testimoniali rese in data 1 aprile 2016 da VIZZINI: In tale contesto si inserisce, a mio parere, la vicenda relativa alla fusione di Jonica Trasporti ed A.S.T.; in particolare, su tale specifica vicenda, posso riferire che una volta, l'Avv. Giulio CUSUMANO, in quel momento Vice Presidente con funzione di Presidente a seguito delle dimissioni di GIAMBRONE per problemi giudiziari, durante più sedute manifestò con assoluta decisione che era contrario all'operazione diffusione. Accadde che il CUSUMANO mi volle incontrare di persona, incontro che avvenne in Palermo nei pressi del mio studio; in quella occasione chiese il mio supporto e di non lasciarlo solo nella sua battaglia contro la fusione, dicendomi altresì che era molto spaventato perché due soggetti, con il volto semi coperto da sciarpe, l'avevano avvicinato, dicendogli che “se avesse continuato a rompere” avrebbero reso pubbliche notizie riguardanti vecchie vicende giudiziarie che riguardavano la sua famiglia nonché la sua partecipazione a festini omosessuali. Se mal non ricordo, successivamente, qualche notizia sul coinvolgimento di CUSUMANO in festini e/o bische clandestine, fu pubblicato. Per far comprendere cosa risposi nell'occasione al CUSUMANO devo premettere che sono solita redigere perizie, a titolo personale, per inchieste giornalistiche ed in tale contesto ho avuto modo di conoscere il giornalista Lirio ABBA TE, al quale in più di qualche occasione avevo espresso le mie perplessità sul progetto di fusione. Lo stesso Lirio ABBA TE mi consigliò di affrontare la situazione non come mio solito, di spada, bensì di fioretto. Risposi, pertanto, al CUSUMANO in occasione dell'incontro di cui ho parlato che era consigliabile, rifacendomi al consiglio che mi aveva detto tempo prima Lirio ABBATE, che era consigliabile, appunto, agire di fioretto. Successivamente all'incontro che ebbi col CUSUMANO lo stesso ABBATE mi chiamò chiedendomi cosa gli potessi dire del CUSUMANO medesimo e cioè se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se effettivamente questi aveva partecipato a festini. Compresi, pertanto, che la vicenda raccontatami dal CUSUMANO avesse un suo serio e concreto fondamento. Non ho però mai riferito al CUSUMANO della telefonata ricevuta da Lirio ABBA TE.

A.D.R.: Posso dire di aver assistito ad un consiglio di gestione in cui l'Avv. CUSUMANO era particolarmente fuori di se' e disse, visibilmente alterato, che LOMBARDO lo aveva minacciato per la vicenda relativa alla fusione tra l'A.S. T. e la JONICA TRASPORTI; ricordo anche che ne rimase molto turbato.

È appena il caso di rilevare come le parole del revisore contabile dell'A.S.T., oltre a validare le dichiarazioni di CUSUMANO, siano a loro volta validate dalle risultanze del file excel di MONTANTE, ove sono annoverati numerosi contatti, anche a carattere conviviale, tra quest'ultimo e il giornalista: […].

Ciò porta inevitabilmente a stringere il cerchio intorno a MONTANTE l'odierno imputato aveva interesse all'operazione di fusione osteggiata da CUSUMANO ed ARMAO e, pertanto, era entrato in conflitto con entrambi per tale vicenda. Ad eliminare uno scomodo oppositore - l'Avv. CUSUMANO - era arrivato in soccorso il Gov. LOMBARDO, mediante la prospettazione della minaccia di divulgazione di notizie compromettenti a suo carico. Inoltre, il giornalista amico di MONTANTE, Lirio ABBATE, si attivava per verificare la fondatezza di tali notizie, comprese quelle che potevano riguardare la sfera più intima e personale di CUSUMANO. Sebbene il comportamento di ABBATE possa alternativamente interpretarsi, in astratto, come partecipazione alla congiura ricattatoria in danno di CUSUMANO ovvero come scrupoloso e doveroso tentativo di verificazione di notizie riservatamente pervenutegli, non è dato comprendere, in concreto, quali ragioni etico-professionali potessero sorreggere il suo interessamento per l'eventuale partecipazione del presidente dell'A.S.T. a presunti festini, se non quello di dare il là ad un'operazione di gogna mediatica. Su tale specifico profilo, tuttavia, non sarebbe corretto indugiare oltre inaudita altera parte (ove l'altera pars è costituita dal giornalista ABBATE), dovendosi riconoscere a tale conclusione il limite della natura ipotetica, benché imperniata sull'analisi ragionata di evidenze processuali (ossia le dichiarazioni di VIZZINI, rispetto alla cui credibilità non sembrano emergere profili di censura). Considerazioni diverse valgono invece per MONTANTE, che, in quanto parte processuale ed attore del contraddittorio, ha avuto ampia facoltà di discettare sul punto. In ordine allo stesso, invero, non può non rilevarsi come tutti gli elementi evidenziati convergano nell'individuarlo come il responsabile delle vicissitudini di CUSUMANO, né d'altra si può negare che MONTANTE avesse una particolare inclinazione alla pratica del dossieraggio. In tal senso particolarmente eloquenti appaiono le dichiarazioni di CICERO e del Dott. MARINO, sopra riportate, a proposito del dossier-ricatto che MONTANTE stava imbastendo o aveva imbastito nei riguardi proprio del citato MARINO. In ogni caso, al di là del fatto che, con specifico riguardo al caso CUSUMANO, l'attribuibilità a MONTANTE delle iniziative intimidatorie assunte nei suoi confronti si basi soltanto su uno scrutinio di tipo probabilistico, è innegabile che l'esistenza di un rapporto conflittuale tra CUSUMANO e MONTANTE sia connotato dal crisma della certezza, perché il primo aveva assunto una posizione nettamente contraria alla fattibilità "economica" del progetto di fusione di cui si è ampiamente parlato. Pertanto, non appare affatto casuale che l'interrogazione allo S.D.I. sul conto di CUSUMANO risalga al 3 dicembre 2009, quando lo stesso aveva assunto le funzioni di presidente all'interno dell'A.S.T. ed aveva iniziato ad approfondire questioni che riguardavano il descritto progetto di fusione. In conclusione, è possibile affermare che, mentre MONTANTE aveva certamente un forte interesse all'assunzione di informazioni sul conto di ARMAO e CUSUMANO, nessun interesse personale potevano nutrire in quella direzione, secondo quelle che sono le risultanze processuali, GRACEFFA, DE ANGELIS o DI SIMONE. Sicché, ancora una volta, non può non riconoscersi nei relativi accessi abusivi il mandato dell'imprenditore di Serradifalco.

Storia di un articolo mai pubblicato. La Repubblica il 13 Novembre 2019. […] Unica appare anche la matrice motiva degli accessi alla banca dati per l'estrapolazione di informazioni relative a Marco BENANTI, Gianpiero CASAGNI ed Attilio BOLZONI, tutti responsabili, separatamente, di avere esercitato il diritto di critica nei riguardi di MONTANTE e del sistema confindustriale siciliano. Può essere utile, in particolare, ripercorrere sul punto l'ordinanza cautelare (cla p. 654), che coglie, in maniera convincente, la correlazione temporale e causale tra l'interrogazione allo S.D.I. sul conto di BENANTI e la pubblicazione di articoli giornalistici, da parte dello stesso, fortemente critici verso MONTANTE (anche per i suoi rapporti con il boss Vincenzo ARNONE) e l'allora Presidente della Regione CROCETTA: Ed invero, Marco BENANTI è un giornalista che, tra le altre cose, è il direttore responsabile del quotidiano telematico “Iene Sicule” e si è già detto in precedenza come proprio tale quotidiano fosse stato uno di quelli che, per primo, aveva rilanciato l'articolo pubblicato su “I siciliani giovani” relativo ai rapporti tra il MONTANTE e Vincenzo ARNONE. Ebbene, la mera consultazione del sito web di tale quotidiano (“ienesiciliane.it”) rende particolarmente evidente come il BENANTI abbia pubblicato, nel corso del tempo, diversi articoli fortemente critici nei confronti del MONTANTE e, più in generale, sui rapporti tra il Presidente della Regione Rosario CROCETTA e gli esponenti di Confindustria Sicilia, peraltro già nel momento in cui era ancora in corso la campagna elettorale per la nomina del nuovo Governatore (cfr. articoli acquisiti agli atti del procedimento). In particolare, in data 23 aprile 2013 (“Regione Sicula e Industriali ''piglia tutto": Antonello Montante presidente di Unioncamere. Grazie all'amico ''Saro Confindustria" e ai suoi commissariamenti”) e in data 26 aprile 2013 (“Economia, Regione, elezioni catanesi: parla il vicepresidente nazionale di Confcommercio Pietro Agen”) il BENANTI pubblicava due articoli con i quali poneva in diretta connessione l'elezione del MONTANTE a Presidente di Unioncamere ai commissariamenti delle Camere di Commercio siciliane disposte dal Presidente CROCETTA. Immancabilmente il 3 e 7 giugno 2013 il GRACEFFA interrogava in banca dati S.D.I. proprio il nominativo del BENANTI. A nulla varrebbe obiettare che i magistrati inquirenti sarebbero caduti in un tipico errore di adduzione, per cui post hoc propter hoc, in quanto la riconducibilità a MONTANTE dell'accesso abusivo nei riguardi di BENANTI non si fonda soltanto sulla posteriorità prossima dell'accesso allo S.D.I. rispetto alla pubblicazione degli articoli de quibus, ma anche sui dati ricavabili dal file excel dello stesso MONTANTE, ove ''la cartella denominata “SCANSIONATI” - consente di rilevare come qualche mese dopo il MONTANTE ed il LO BELLO avessero presentato un esposto proprio nei confronti di «Benanti Iene Sicule››, ad ulteriore riprova del fatto che, in quel periodo, l'imprenditore di Serradifalco attentamente monitorasse ciò che il giornalista pubblicava sul predetto quotidiano telematico" (ordinanza cautelare, p. 655). […] Se, dunque, gli elementi raccolti depongono decisamente per il riconoscimento, in capo a MONTANTE, del ruolo di mandante dell'interrogazione allo S.D.I. a carico di BENANTI, analoghe argomentazioni non possono estendersi in relazione agli altri livelli della filiera (DI SIMQNE-DE ANGELIS-GRACEFFA), rispetto ai quali non è possibile individuare alcuna traccia motiva autonoma che conduca alla ricerca, da parte loro, di dati o informazioni sul conto del giornalista. Di analogo stampo dossieristico appaiono anche gli accessi allo S.D.I. sul conto di Gianpiero CASAGNI, verso il quale MONTANTE nutriva forti sentimenti di rancore. La vicenda è però più articolata, come può apprezzarsi dalla lettura dell'ordinanza cautelare (da p. 655), che può essere utilizzata come base di partenza della quale occorre verificare la tenuta al vaglio certistico imposto dal processo: La situazione rilevabile nei confronti del BENANTI è, nella sostanza, la stessa che è possibile constatare in relazione ad altro giornalista, Gianpiero CASAGNI, nei cui confronti, si ricorderà, il GRACEFFA effettuava interrogazioni in banca dati S.D.I. l'11.6.2015. Il CASAGNI, infatti, sin dal momento in cui iniziava a collaborare col settimanale “Centonove” pubblicava diversi articoli ancora una volta estremamente critici nei confronti dell'imprenditore di Serradifalco (cfr. a tal proposito il contenuto della cartellina “CASAGNI” di cui si dirà in appresso). In tal caso, a dimostrare il concreto interesse del MONTANTE per l'attività professionale svolta dallo stesso CASAGNI, soccorre 1'analisi della documentazione sequestrata all'interno dell'abitazione di contrada Altarello (sempre nella c.d. “stanza segreta”), ove, tra le altre cose, veniva rinvenuta: una cartellina di colore blu intestata “CASAGNI”, contenente, oltre alla copia di numerosi articoli redatti dal giornalista e pubblicati sul settimanale “CENTONOVE”:

- una email datata 06.07.2013 inviata dal CASAGNI a Unioncamere Sicilia - con allegato curriculum vitae - avente ad oggetto “manifestazione interesse a collaborazione giornalistica - ufficio stampa”;

- la copia di una conversazione apparentemente avvenuta il 28 dicembre 2014 - e verosimilmente intrattenuta attraverso sistemi di messaggistica dei social network - tra lo stesso CASAGNI ed Alfonso CICERO dal cui contenuto si poteva evincere che il primo domandasse di tenerlo in considerazione qualora occorresse un addetto stampa a1l'ASI.

E' stata anche rinvenuta una cartellina trasparente con all'interno una mail inviata dal CASAGNI al MONTANTE il 18 gennaio 2010 con la quale il giornalista allegava il proprio curriculum vitae chiedendogli se potesse “dargli una mano” a trovargli un'occupazione. La documentazione riportata ai punti che precedono (unitamente ad altri lanci di agenzia del CASAGNI relativi ad anni antecedenti, nei quali non si esprimeva criticamente nei confronti del MONTANTE) può dirsi chiaramente funzionale a supportare la tesi che il giornalista avesse iniziato ad scrivere articoli contro il MONTANTE perché animato da sentimenti di rancore per essersi visto negare opportunità lavorative. Del resto è lo stesso MONTANTE ad annotare su di un post-it apposto alla predetta mail indirizzata ad UNIONCAMERE “fare denuncia che doveva essere assunto perché lo fa”. Prescindendo da quanto testé evidenziato, ciò che desta maggiore inquietudine è, innanzitutto, un appunto manoscritto contenuto pur sempre nella suddetta cartellina “CASAGNI” dal cui contenuto è possibile evincere come il MONTANTE avesse già raccolto informazioni sul conto dello stesso CASAGNI (in specie sulle sue collaborazioni lavorative, nonché sulle parentele della sua compagna) e si riprometteva di acquisirne ulteriori e più approfondite (su di un post-it apposto su tale documento è dato testualmente leggere “proprietà Casagni + revisual”). Inoltre all'interno della rassegna stampa riguardante “Centonove” veniva rinvenuta ulteriore documentazione estremamente significativa ai fini descritti ed in particolare: una visura camerale della società Editoriale Centonove s.r.l. con amministratore unico BASSO Vincenzo e con scritto a mano con penna di colore rosso (3.5.61) riportante in alto a destra la scritta .0/2013 DA ECL0099, con allegati: (tra gli altri) un foglio manoscritto rispettivamente con due penne di diverso colore, riportante in alto la dicitura EDITORIALE 109, contenente le generalità di BASSO Vincenzo ed i suoi pregiudizi penali e di altri soggetti facenti parte della società Editoriale Centonove s.r.l.. (LOMBARDO Graziella, CRISTINA Fulvio e ORLANDO Maria Eugenia). Si è già detto in precedenza - e non si intende, pertanto, tornare sul punto - come i nominativi di tutti i soggetti poc'anzi riportati (BASSO, LOMBARDO. CRISTINA e ORLANDO) siano stati interrogati in Banca dati SDI da Salvatore GRACEFFA. Ciò a dimostrazione del fatto che il MONTANTE, evidentemente, “monitorasse” tale testata giornalistica ben prima che il CASAGNI vi iniziasse a scrivere; una conferma di tale assunto si trae dal fatto che i numerosi articoli di tale testata giornalistica scrupolosamente raccolti dall'odierno indagato e catalogati come “Centonove” sono tutti riferibili al 2015 - in specie ad epoca successiva alla pubblicazione da parte de “La Repubblica” della notizia dell'indagine nei suoi confronti - tranne due. Il MONTANTE ha infatti conservato anche due articoli riferibili al 2013 e in specie uno pubblicato il 6 settembre (dal titolo “Camera con...svista”) e l'altro il 27 settembre (dal titolo “Nove mesi posson bastare”), entrambi riguardanti la sua persona ed il secondo dei quali anche diligentemente sottolineato in una parte che, tra l'altro, riguardava considerazioni critiche esposte da Gaetano ARMAO. Ebbene, pochi giorni dopo la pubblicazione di quegli articoli - e più esattamente il 4 ottobre 2013 - il GRACEFFA interrogava i nominativi dei soggetti inseriti nella struttura di Centonove. Sempre tra gli articoli di Centonove ne è stato rinvenuto uno a firma del CASAGNI (dal titolo “Amici per la pelle”) avente, nella sostanza, il medesimo contenuto di quello che il giornalista aveva in precedenza proposto al direttore di Panorama Giorgio MULE' e che viene definito dallo stesso MONTANTE uno “sporco dossier” (cfr. pag. 1002 dello stralcio del memoriale redatto dal MONTANTE depositato innanzi al Tribunale per il Riesame di Caltanissetta). In estrema sintesi - la vicenda è ricostruita anche dal CASAGNI in un esposto presentato presso questi Uffici (cfr. esposto del 26 marzo 2015) - il giornalista aveva contattato, il 2 maggio 2014, via e-mail il direttore del predetto settimanale Giorgio MULE' (per il tramite del dott. Stefano Zammuto, che ne era stato compagno di classe), per proporgli la pubblicazione di un articolo riguardante i rapporti tra il MONTANTE e Vincenzo ARNONE basato anche sulla documentazione di Confindustria di cui disponeva (e che ha poi consegnato in copia a questo Ufficio, come evidenziato in precedenza). Il MONTANTE era poi stato informato dallo stesso MULE' della vicenda e non si fa fatica a crederlo in considerazione della natura dei rapporti estremamente confidenziali tra i due, quali desumibili, in primo luogo, ancora una volta, dalle annotazioni contenute nel file excel, di seguito riportate, che documentano numerosi incontri trai due: […]. Si considerino, inoltre, le dichiarazioni rese, rispettivamente da Marco VENTURI (cfr. verbale di s.i.t. del 14 novembre 2015) e da Alfonso CICERO (cfr. memoria dell'8.l0.20l6, il cui contenuto veniva integralmente fatto proprio dal CICERO in occasione del verbale redatto in pari data). In particolare il VENTURI ha dichiarato che il nipote del MULE', Vincenzo VITALE, è un Dirigente della Regione Sicilia che era stato chiamato da Linda VANCHERI a far parte dell'Ufficio di Gabinetto dell'Assessorato alle Attività Produttive ed aveva anche curato i finanziamenti erogati per la partecipazione ad EXPO. A.D.R. Effettivamente ho partecipato alla rappresentazione teatrale “La volata di Calò " che si è tenuta in un teatro di Catania che, al momento, non ricordo. Non so se ho conosciuto in quella circostanza il Direttore del teatro, ma ho comunque poi saputo da Alfonso CICERO che questi ha avuto un finanziamento per partecipare all'EXPO, anche se non so per quale iniziativa. I finanziamenti per l'EXPO, derivanti da fondi comunitari, sono stati interamente gestiti, in relazione alla Sicilia, dall'Assessorato alle Attività produttive ed in particolare dall'assessore VANCHERI per la parte politica, dal dirigente generale Alessandro FERRARA e da tale VITALE, nipote del direttore di Panorama Giorgio MULE', che ha curato i rapporti tra imprese che chiedevano il finanziamento e l'Assessorato. In sede di rilettura del verbale su domanda dell'Ufficio il dott. VENTURI risponde: il VITALE è un dirigente regionale che è stato chiamato dalla VANCHERI a far parte del suo Gabinetto. Alfonso CICERO mi ha detto che anche “l'Antico Torronificio Nisseno” ha avuto un finanziamento per partecipare ad EXPO. Le dichiarazioni del VENTURI sono state confermate dal CICERO, il quale ha anche aggiunto che la nomina del VITALE da parte della VANCHERI quale componente dell'ufficio di Gabinetto dell'Assessorato e l'attribuzione allo stesso di un ruolo centrale nelle attività correlate ad EXPO 2015 era stata fortemente voluta dal MONTANTE in ragione del rapporto di amicizia con Giorgio MULE', amicizia che lo stesso MONTANTE considerava preziosa in virtù dei rilevanti rapporti da questi intessuti con ambienti della politica e del mondo dell'informazione. “Nell'ufficio di Gabinetto della VANCHERI, fin dal primo periodo del suo insediamento all'Assessorato Regionale delle Attività Produttive, la stessa aveva nominato, quale componente, tale VITALE VINCENZO, funzionario di ruolo della Regione Siciliana.

La VANCHERI, fin dai primi mesi del 2013, ebbe a confidarmi che tale nomina le fu indicata dal MONTANTE, in quanto il VITALE sarebbe un parente dell'attuale Direttore del periodico PANORAMA, MULE ' Giorgio, soggetto, a dire della VANCHERI, legato da profonda amicizia con il MONTANTE. La VANCHERI mi riferì che il MULE' godeva di rapporti di un certo “peso” negli ambienti del potere politico, istituzionale e della comunicazione e, per tali ragioni, rappresentava per il MONTANTE un legame più che prezioso. Era questo il motivo per cui il MONTANTE teneva moltissimo alla nomina del VITALE ed all'attribuzione dello stesso di un ruolo “centrale” nello staff" della stessa VANCHERI e, altresì, nelle attività correlate ad EXPO 2015, le cui rilevanti competenze economiche ed organizzative erano state assegnate, dal Governo Regionale, anche al citato Assessorato. In altre parole, non stupisce affatto che il MULE' si fosse affrettato a mettere a parte il MONTANTE delle notizie che il CASAGNI gli proponeva di pubblicare e che poi, in data 17 marzo 2015 (cfr. allegato n. 19 all’esposto-denuncia del 15/05/2015 indirizzato ai Procuratori Nazionale Antimafia e di Caltanissetta, prodotto dalla difesa del MONTANTE innanzi al Tribunale per il Riesame), abbia redatto, su richiesta dello stesso MONTANTE, una nota con la quale rappresentava per iscritto ciò che, a quanto pare, gli aveva già comunicato verbalmente nell'autunno del 2014 e cioè la proposta di collaborazione, appunto, fattagli dal predetto CASAGNI, che egli aveva poi declinato reputandola una “non notizia” e, anzi, giudicandola come una manifestazione della volontà di danneggiare la reputazione dell'imprenditore di Serradifalco. L'insieme di tali elementi, in ogni caso, dimostra inequivocabilmente che anche il CASAGNI era via via entrato in rotta di collisione con il MONTANTE per via delle notizie che aveva cercato di diffondere dapprima su “Panorama” e che poi, dal momento in cui ha iniziato a collaborare con “Centonove”, ha effettivamente pubblicato sul conto dell'imprenditore di Serradifalco. Si spiegano, pertanto, adeguatamente le ragioni per le quali il GRACEFFA in data 11 giugno 2015 avesse compulsato la banca dati S.D.I. per attingere notizie sul conto del CASAGNI. Dunque, in estrema sintesi, i fatti che riguardano CASAGNI e, in genere, la redazione della rivista Centonove, possono cosi sintetizzarsi:

dal 2010 al 2013 CASAGNI offriva la propria disponibilità, non accolta, a collaborare come giornalista con MONTANTE o, comunque, con Unioncamere Sicilia;

nel settembre 2013 la rivista Centonove pubblicava due articoli dal contenuto critico verso MONTANTE;

il 4 ottobre 2013 avvenivano le interrogazioni abusive allo S.D.I. sul conto di Vincenzo BASSO, amministratore della società editoriale Centonove s.r.l., e dei sopra menzionati LOMBARDO, CRISTINA e ORLANDO, suoi collaboratori;

nel maggio 2014 CASAGNI contattava il direttore del settimanale Panorama, Giorgio MULE', per proporgli la pubblicazione di un articolo riguardante i rapporti tra MONTANTE e Vincenzo ARNONE, basato anche sulla documentazione di Confindustria di cui lo stesso CASAGNI era entrato in possesso (e che ha poi consegnato in copia alla Procura della Repubblica, come evidenziato in precedenza), spiegandogli, nel contempo, che un loro comune amico, il Giudice Stefano ZAMMUTO, aveva visionato in anteprima i documenti comprovanti la fondatezza dell'informazione che egli intendeva rendere pubblica;

il 28 dicembre 2014 (data non certa) CASAGNI chiedeva a CICERO di lavorare come addetto stampa all'A.S.I.;

il 9 aprile 2015 CASAGNI pubblicava, sulla rivista Centonove, un articolo dal titolo "Coop rosse, i lupi e l'Agnello”, accompagnato dal sottotitolo "I sigilli preventivi della Guardia di Finanza per dichiarazioni infedeli. Le prime indagini che aprono uno squarcio sugli affari con personaggi che vanno da LO BELLO a MONTANTE, passando per l'“amico” LUMIA. I retroscena”.

L'11 giugno 2015 avveniva l'interrogazione abusiva allo S.D.I. sul conto di CASAGNI. Ora, nel caso di specie non può essere posto in dubbio che il mandato ad interrogare lo S.D.I. sul conto dei giornalisti di Centonove, compreso CASAGNI, sia da attribuire a MONTANTE, non solo per la significativa "consecutio temporum" tra le pubblicazioni degli articoli di stampa, scomodi per l'imprenditore di Serradifalco, e gli accessi abusivi al sistema informatico, ma anche per il dato insormontabile del rinvenimento, nella disponibilità di quest'ultimo, degli articoli giornalistici de quibus, della visura camerale della Società editoriale Centonove s.r.l. e di appunti manoscritti riportanti l'esito della consultazione S.D.I. sui giornalisti medesimi. D'altra parte, a nulla vale osservare che CASAGNI, nella pubblicazione dell'articolo sul conto di MONTANTE, potesse nutrire personali motivi di acrimonia per la frustrazione di non avere ricevuto alcun incarico lavorativo da parte di quest'ultimo. Infatti, non soltanto i rapporti tra MONTANTE ed ARNONE, di cui parlava CASAGNI, costituiscono una verità storica inconfutabile, ma l'accesso abusivo al sistema informatico non risulta in ogni caso assistito da alcuna causa di giustificazione, non potendosi considerare tale il bisogno di documentarsi, mediante mezzi illeciti, sugli eventuali trascorsi criminali dei responsabili della pubblicazione. Inoltre, non si vede come la presunta azione ritorsiva asseritamente posta in essere nel 2014-2015 da CASAGNI contro MONTANTE possa giustificare retroattivamente gli accessi abusi al sistema informatico sul conto degli altri appartenenti alla società Editoriale Centonove. La discesa in campo, peraltro, dell'ex direttore di Panorama, Giorgio MULE', oggi parlamentare di Forza Italia, appare assai poco onorevole, in quanto non è CASAGNI a dovere giustificare la decisione di volere pubblicare un articolo, dal contenuto oggettivamente vero e di vivissimo interesse sociale (oltre che giudiziario) sul conto di MONTANTE, ma è MULE' a dovere giustificare, sul piano dell'etica professionale, la scelta di tradire la fiducia di CASAGNI in favore di MONTANTE, rivelando a quest'ultimo l'intenzione del giornalista di rendere noto materiale scottante che lo riguardava (vd. dichiarazioni di CASAGNI, riportate nella parte di ordinanza cautelare testé trascritta). Evidentemente, MULE' aveva preferito, in un'ottica familistica, privilegiare la tutela delle buone relazioni con MONTANTE, posto che, grazie a Linda VANCHERI, assessore regionale alle Attività Produttive e fedelissima dello stesso MONTANTE, il Dott. VITALE, nipote di MULE', aveva ottenuto un incarico nell'ufficio di Gabinetto della citata VANCHERI (vd. dichiarazioni di CICERO e VENTURI riportate nella parte di ordinanza cautelare suindicata). D'altro canto, ciò non può stupire: in data 5 dicembre 2012, Giorgio MULE', secondo il file excel più volte menzionato, avrebbe mandato un sms a MONTANTE, puntualmente trascritto da quest'ultimo, del seguente tenore: “dove ci sarò io, ovunque sarà casa tua. Grazie a te un abbraccio Giorgio."

MULE', peraltro, non può defilarsi dalla scena allegando che, all'epoca, non si conosceva ancora il vero volto di MONTANTE, perché, come dimostrato da CASAGNI mediante la consegna agli inquirenti dell'email che di seguito si riproduce, quest'ultimo aveva messo MULE' in condizione di conoscere la pericolosità del soggetto, raccontando dell'ingresso del boss Vincenzo ARNONE nell'associazione degli industriali e della sua prossimità qualificata all'imprenditore di Serradifalco, ma soprattutto offrendo in visione una copia del certificato di matrimonio di MONTANTE, una foto che ritraeva quest'ultimo insieme al citato ARNONE e i verbali di assemblea di Confindustria che risultavano scomparsi. […] Pertanto, MULE', quando (anziché chiamare CASAGNI, come promessogli) decise di riferire tutto a MONTANTE, compreso il ruolo assolto dal Giudice Stefano ZAMMUTO nella vicenda (avere procurato a CASAGNI l'indirizzo email di MULE' e avere visionato preventivamente i documenti che il primo aveva messo a disposizione del secondo a dimostrazione della fondatezza e veridicità dell'articolo che intendeva pubblicare), era messo nelle migliori condizioni per verificare la veridicità della notizia datagli dal collega. Occorre osservare in via incidentale che tale delazione, oltre a partorire la reazione di MONTANTE contro CASAGNI (e si vedrà infra come fosse stato intendimento del primo calunniare il secondo per la presunta, quanto inesistente, installazione di una microspia in una sede confindustriale), fu all'origine di ciò che sembrerebbe essere stato un avvertimento lanciato al Giudice ZAMMUTO, in servizio presso la sezione Gip-Gup del tribunale di Agrigento, dall'allora Procuratore presso il medesimo tribunale, dott. Renato DI NATALE. Al fine di comprendere tale fase appendicolare della vicenda, occorre premettere che il Dott. DI NATALE era legato a MONTANTE da stretti rapporti di amicizia (cfr. file excel, in risultano annotati diversi incontri di commensalità tra gli stessi), se non addirittura di interesse. CASAGNI, infatti, nell'esposto del 5 luglio 2017, accennava al contenuto di un suo articolo giornalistico - “La volata di MONTANTE" - nella parte in cui si riferiva all'affidamento, da parte dell'I.R.S.A.P., alla figlia del procuratore, Chiara DI NATALE, dello “studio di toponomastica che portò all'intitolazione anche di una strada al nonno di Antonello MONTANTE, Calogero [...]", circostanza, quest'ultima, che trova un riscontro nel file excel, ove, alla data del 30 dicembre 2009, risulta annotato un appuntamento a casa del procuratore, alle ore 17.00, e la dicitura "curriculum Chiara”. Orbene, fatte queste premesse funzionali a lumeggiare la natura dei rapporti intercorrenti tra MONTANTE e DI NATALE, non può non segnalarsi come CASAGNI, nell'esposto citato, abbia rappresentato di avere appreso dall'amico Stefano ZAMMUTO che quest'ultimo, dopo l'email mandata dallo stesso CASAGNI a MULE', aveva ricevuto due visite in ufficio da parte del procuratore della Repubblica, il quale lo aveva reso edotto del sospetto di MONTANTE che CASAGNI stesse orchestrando una congiura in suo danno con la complicità dello stesso ZAMMUTO, e che, per tale motivo, l'imprenditore intendeva sporgere denuncia. […] In effetti, ripercorrendo il file excel di MONTANTE, emerge che tra il 2 maggio 2014, data dell'email inviata da CASAGNI a MULE', e il 1 marzo 2015, data dell'incontro nel corso del quale ZAMMUTO raccontò all'amico CASAGNI delle visite ricevute dal Procuratore DI NATALE, quest'ultimo aveva incontrato MONTANTE in diverse occasioni, a partire dall'11 maggio 2014, ossia nove giorni dopo l'email inviata dal giornalista al collega MULE'. Non sussistendo alcuna ragione per dubitare della credibilità di CASAGNI, le cui dichiarazioni in questa sede hanno sempre trovato puntuale riscontro, non può non riconoscersi, nell'iniziativa di DI NATALE, una scelta comportamentale quanto mano inopportuna, in quanto suscettibile di essere letta nei termini di un ammonimento al collega e, indirettamente, a CASAGNI, di non calpestare i piedi a MONTANTE. La versione del medesimo episodio, contenuta nel memoriale di MONTANTE prodotto presso il tribunale del Riesame (adito per impugnare il provvedimento di sequestro), rappresenta il portato di una ricostruzione improntata a funambolismo logico: l'articolo, che CASAGNI intendeva pubblicare, si sarebbe incasellato nell'ambito di un più ampio progetto volto all'ingiusta e calunniosa delegittimazione dello stesso MONTANTE, nel quale si sarebbero inserite anche le dichiarazioni del collaboratore DI FRANCESCO. Secondo tale versione, dunque, MULE', accortosi della congiura, avrebbe immediatamente informato MONTANTE, permettendo l'emersione di un “aspetto gravissimo” della vicenda, ossia che il materiale documentale messo a disposizione del direttore di Panorama da Gianpiero CASAGNI era stato "supervisionato dal presunto servitore dello Stato, che ricopre un ruolo di garanzia nella istituzioni [...]”, dovendosi identificare quest'ultimo nel giudice Stefano ZAMMUTO. Orbene, è agevole osservare che l'“aspetto gravissimo” della vicenda non può ravvisarsi nella condotta del magistrato, che si era limitato a procurare un contatto giornalistico "importante" ad un amico che lo aveva chiesto e ad avere preso visione dei documenti che nell'occasione gli erano stati mostrati, ma nella condotta dell'Onorevole MULE', il quale, anziché vagliare il materiale documentale messogli a disposizione dal collega giornalista e verificare la veridicità della notizia offertagli, optava per la soluzione della passiva supinazione ai piedi di MONTANTE al quale “vendeva” CASAGNI a basso prezzo, in un pacchetto al/ inclusive che comprendeva anche il proprio ex compagno di classe Stefano ZAMMUTO. In data 5 novembre 2015, inoltre, avveniva l'accesso abusivo al sistema informatico sul conto di Attilio BOLZONI, il quale - giova ricordarlo - il 9 febbraio di quell'anno aveva pubblicato con Francesco VIVIANO, su La Repubblica, l'articolo dal titolo "L'industriale paladino dell'antimafia sotto inchiesta in Sicilia per mafia", con il quale si dava notizia dell'indagine che la D.D.A. nissena stava in effetti conducendo nei confronti di MONTANTE per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, mentre il 17 settembre 2015 aveva pubblicato, sul medesimo quotidiano, l'articolo intitolato "Trame e affari torbidi la svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno", contenente l'intervista rilasciata da VENTURI. Come vedremo ripercorrendo l'ordinanza cautelare (da p. 661), il rinvenimento, nella disponibilità di MONTANTE, di specifico materiale documentale sul conto di BOLZONI, vale a suggellare in maniera incontrovertibile la tesi per cui anche l'interrogazione alla banca dati della Polizia di Stato sul conto del giornalista di La Repubblica era riconducibile alla committenza dell'imprenditore di Serradifalco.

E storia di un articolo pubblicato. La Repubblica il 14 novembre 2019. Non da ultimo, si può serenamente affermare come il MONTANTE di certo avesse un diretto interesse ad acquisire notizie di natura riservata nei confronti del giornalista Attilio BOLZONI, per ragioni che pare ultroneo stare qui a rammentare. Ciò che pare davvero lapalissiano affermare può, in ogni caso, dirsi concretamente confermato da una congerie di elementi acquisiti al procedimento, in primis, ancora una volta, quelli ricavabili dalla documentazione rinvenuta nella stanza “segreta” dell'abitazione di contrada Altarello di Serradifalco, ove, tra le altre cose, veniva recuperato un raccoglitore di colore celeste con scritto a mano sul dorso e sul fronte “BOLZONI + REPUBBLICA”. Tra i documenti che ivi erano custoditi, meritano di essere segnalati: una mail inviata dal BOLZONI al MONTANTE (per il tramite di Patrizia LONGHINI, assistente di direzione della MARCEGAGLIA) con la quale, nella sostanza, il giornalista sondava la disponibilità dell'imprenditore di Serradifalco a finanziare un film che aveva in progetto di realizzare; […]. Il BOLZONI è poi tra i destinatari di una intera cartella (denominata appunto “BOLZONI”) contenuta all'interno del file excel, riepilogativa di quasi tutte le annotazioni (di seguito evidenziate) già riportate nella cartella denominata “TUTTI” […]. La lettura congiunta degli appunti in questione e della documentazione rinvenuta nella disponibilità del MONTANTE consente di ipotizzare, tra le altre cose, come il MONTANTE intendesse imputare gli articoli che il giornalista aveva pubblicato nei suoi confronti a partire dal mese di febbraio del 2015 - esattamente come già rilevato per il CASAGNI - a pretesi sentimenti di rancore per non aver assecondato richieste di concessioni di finanziamenti per lavori che lo stesso BOLZONI aveva realizzato. Oltre a quelle appena riportate, nella cartella denominata “TUTTI” è dato rintracciare anche le seguenti annotazioni. […] Oltre a dimostrare che, alla fine, il MONTANTE (anche in tal caso esattamente come ha agito nei confronti del CASAGNI) aveva querelato il BOLZONI, da tali appunti si ricava, ancora una volta, la ricerca spasmodica di notizie da parte dell'odierno indagato sul conto del BOLZONI medesimo, come dimostrato dalle eloquenti annotazioni del 9.10.2015 (“Bolzoni telefona a Di Simone”) e del 29.19.2015 (“mi ha telefonato Michele Giarratana dal numero di cell. 338/+++++++, l'ho richiamato alle ore 20,01 dall'Hotel The Gray e mi ha riferito che qualche giorno prima Bolzoni girava a Serradifalco per cercare persone”). Si è già accennato e meglio si dirà, poi, nel prosieguo come il MONTANTE avesse anche dato mandato ai soggetti allo stesso strettamente legati di registrare eventuali conversazioni telefoniche che avessero intrattenuto con lo stesso. Anche a proposito di BOLZONI valgono le stesse considerazioni, già espresse in relazione a CASAGNI, circa l'irrilevanza di ogni argomentazione tesa ad accreditare una presunta azione vendicativa del giornalista verso l'imprenditore di Serradifalco, reo di non avere finanziato delle attività culturali cui egli era interessato. Infatti, non può non rilevarsi come il contenuto degli articoli giornalistici di BOLZONI si siano rivelati (drammaticamente) veri e, in ogni caso, qualunque fosse stato il movente sottostante alla duplice pubblicazione, nulla poteva giustificare una reazione illecita da parte di MONTANTE. Le sorti di CASAGNI e BOLZONI, peraltro, erano destinati ad incontrarsi. Il crocevia, in particolare, era costituito da due esposti anonimi, che additavano BOLZONI e CASAGNI, ma anche Umberto CORTESE, Tullio GIARRATANO, Ivan RANDO e Michele TORNATORE, come esponenti di un gruppo mafioso, capeggiato dall'Ing. DI VINCENZO e dall'Avv. Gioacchino GENCHI, e riconducibile, sostanzialmente, alla potente famiglia mafiosa nissena dei MADONIA. Vicini a BOLZONI dovevano, inoltre, considerarsi CICERO e VENTURI. Obiettivo del presunto sodalizio sarebbe stato quello di fermare la stagione del rinnovamento intrapresa dagli industriali sulla via della legalità. Per i dettagli circostanziali della vicenda, può essere utile riportare un passo dell'ordinanza cautelare (da p. 663): Non da ultimo, va debitamente segnalata altra “singolare” coincidenza rilevabile in merito all'accesso abusivo in banca dati S.D.I. eseguito sul conto del BOLZONI e che, peraltro, ulteriormente accomuna lo stesso BOLZONI al CASAGNI. Come diffusamente si argomenterà nel prosieguo, in data 18 marzo 2015 era giunto nella sede di Caltanissetta di Confindustria Centro Sicilia un esposto anonimo, contenuto in una busta con timbro postale del 17.03.2015, con il quale si indicava il CASAGNI come “uomo vicino alla mafia nissena e in particolare a Di Vincenzo Piero, Tullio Giarratano, Umberto Cortese, Ivan Rando e Michele Tornatore, tutti associati e vicini alla famiglia Madonia unico filo conduttore e altri”. Ebbene, tra i documenti sequestrati al MONTANTE è stato rinvenuto altro esposto anonimo indirizzato “ai Dirigenti di Confindustria Sicilia”, recapitato in busta con timbro postale del 5 novembre 2015, secondo il quale: il BOLZONI farebbe parte di un gruppo di persone che avrebbe come “strategia e mandato preciso di portarvi all'isolamento...e fermare l 'opera di legalità che avere intrapreso”; pertanto lo stesso Bolzoni “non va in giro come giornalista ma come affiliato alla mafia”; di tale gruppo sarebbero registi “Genchi” e “Di Vincenzo” e ne farebbero parte anche “Cicero” e “Venturi”. […] Ebbene, proprio la mattina del 5 novembre 2015 il GRACEFFA interrogava in banca dati S.D.I. il nominativo del BOLZONI. Volendo poi risalire alla possibile identità dell'autore degli esposti, MONTANTE è certamente il soggetto che, per i fatti ampiamente rappresentati nella presente motivazione, coltivava forti sentimenti di livore nei confronti di tutti i soggetti menzionati dall'anonimo estensore. Per MONTANTE la tassonomia dell'intero genere umano si poteva riassumere in due prototipi antropologici: quello dello stesso MONTANTE o dei cosiddetti "paladini della legalità", e quello di DI VINCENZO o dei cosiddetti "mafiosi". Sicché ogni membro della collettività, spogliato di un'autonoma dignità antropologica, era destinato, inesorabilmente, ad essere sussunto nell'una o nell'altra categoria di "cosiddetti". Tale visione notevolmente scarnificata del genere umano si riflette nell'assimilazione a DI VINCENZO di tutta una serie di soggetti, in vario modo ruotanti intorno all'esperienza confindustriale nissena, che erano caduti in disgrazia agli occhi di MONTANTE e che, pertanto, venivano indicati dall'autore degli esposti (non tanto) anonimi come facenti parte del sodalizio mafioso asseritamente capeggiato, con furore, dall'ingegnere. E tra i c.d. "mafiosi" era finito persino l'Avv. GENCHI, che aveva assunto la difesa dell'Ing. DI VINCENZO nei giudizi che lo avevano interessato. Nonché CASAGNI e BOLZONI, rei di lesa maestà nei riguardi di MONTANTE con le loro inchieste giornalistiche. Ed infine - melius abundare quam deficere - CICERO e VENTURI, i principali accusatori di MONTANTE.

La lettura critica del contenuto degli esposti non intende, ovviamente, accreditare una lettura negazionista dei trascorsi delittuosi di Pietro DI VINCENZO, condannato per estorsione verso i suoi dipendenti, ma non può giustificare neppure l'elezione dello stesso, mediante la presentazione di un esposto anonimo, a vertice di un gruppo mafioso, del quale farebbero parte, sincreticamente, giornalisti, avvocati ed imprenditori. Vi è, peraltro, un elemento oggettivo che depone per la identificazione nell'odierno imputato dell'autore degli esposti de quibus. Infatti, quattro giorni prima de|l'invio dell'esposto anonimo su CASAGNI a Confindustria Centro Sicilia, veniva captata una conversazione (conversazione n. 32 delle ore 11.30 del 13 marzo 2015), intercorsa tra MONTANTE e il suo fedelissimo Vincenzo MISTRETTA, nella quale il primo, evidentemente stizzito per la pubblicazione di articoli di stampa che lo avevano riguardato, se da un lato ipotizzata il ricorso ad azioni giudiziarie, dall'altro evidenziava anche che vi fossero sul conto del giornalista CASAGNI “elementi pazzeschi si pensa che sia un avvicinato a...a cosa nostra":[…]. Pertanto:

a) se le persone che sono state oggetto di interrogazione dello S.D.I. sono accomunate dall'essere considerate eretiche rispetto ai dogmi c.d. "antimafiosi" di MONTANTE;

b) se esse sono altresì additate, negli esposti anonimi, quali appartenenti ad organizzazioni mafiose;

c) se tali esposti anonimi puntualmente finivano nelle sedi di Confindustria e poi, conseguentemente, nelle mani di MONTANTE (e addirittura un esposto veniva sequestrato proprio a quest'ultimo), arbitro di farne l'utilizzo ritenuto più congeniale;

d) se qualche giorno prima dell'arrivo dell'esposto anonimo che accusava CASAGNI di essere mafioso, MONTANTE "confidava" a V. MISTRETTA che vi erano elementi "pazzeschi" su "questo...mmhh buttana a miseria...questo Casagni," circa la sua qualità di avvicinato a Cosa Nostra;

allora non è seriamente dubitabile che non solo le interrogazioni dello S.D.I., ma anche gli esposti, formalmente anonimi, provenissero da MONTANTE.

Ma vi è di più. Anche provando ad amputare la catena lungo la quale si snodavano gli accessi abusivi allo S.D.I., elidendo - in seno ad un giudizio controffattuale - la posizione di MONTANTE, il primo anello della catena sarebbe costituito da DI SIMONE, rispetto al quale non emerge alcun elemento di conflittualità con le persone vittime dell'accesso abusivo, e in ogni caso, l'unica centrale di raccolta di dati personali afferenti a terze persone era allocata nell'abitazione di MONTANTE, non già di DI SIMONE. Pretermettendo anche tale considerazione, se MONTANTE non fosse stato l'artefice degli esposti anonimi, occorrerebbe spiegare come mai, nella sua abitazione, venivano rinvenuti, come vedremo, diversi appunti manoscritti dal tenore analogo a quello degli esposti anonimi, in cui si affermava, ancora una volta, il connubio DI VINCENZO-MADONIA, che avrebbe “utilizzato” una catena di persone, che partiva da "GENCHI", passava per “MARINO”, poi per “COLONNA” e che, finiva, dulcis in fundo, in "VENTURA/CICERO", ma anche che Pasquale TORNATORE "ricicla soldi per i colletti bianchi e per DI VINCENZO'', che fa "operazioni inesistenti”, che ha attaccato il Ministro degli Interni Anna Maria CANCELLIERI e che era in “stretto contatto”, tra gli altri, con Tullio GIARRATANO e Umberto CORTESE, nonché, da ultimo, che “tutti riferiscono a DI VINCENZO". Per un migliore apprezzamento delle circostanze testé rappresentate, si richiama il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 667), che riporta i dettagli, anche grafici, degli appunti di cui si è detto, rinvenuti della disponibilità di MONTANTE:

Si consideri, altresì, il contenuto di alcuni appunti rinvenuti sempre tra la documentazione del MONTANTE redatti di pugno dall'imprenditore di Serradifalco ed in specie: quello vergato su di un post-it applicato ad un articolo del 22.10.2015 (a firma del giornalista Francesco La Licata e dal titolo “Se il denaro inquina l'anticrimine")[...]. quello contenuto all'interno di una cartellina intestata “TORNATORE” (ove era custodita documentazione riguardante, appunto, il già citato Pasquale TORNATORE su cui si tornerà diffusamente nel prosieguo) […]. Com'è evidente, la figura di DI VINCENZO era diventata una vera e propria ossessione per MONTANTE, che, improvvisamente, lo aveva eletto a nemico da combattere e lo aveva incoronato "mafioso" (a prescindere dalla meritevolezza del titolo), autoincoronandosi, a sua volta, come "antimafioso". Una ossessione che portava l'imprenditore di Serradifalco ad estendere il raggio della sua actio destruens verso tutti coloro che, all'interno di Confindustria, non si erano allineati alle sue posizioni, come Salvatore MISTRETTA e Salvatore LO CASCIO, che da un lato, come già visto, erano entrati nel calderone dei nominativi da scandagliare illecitamente allo S.D.I., dall'altro - ciò che verrà approfondito infra - erano divenuti bersaglio anche di attività ispettive mirate da parte della Guardia di Finanza, trasformato in autentico braccio armato di MONTANTE.

Anche l'interrogazione allo S.D.I. del nominativo di Pasquale Carlo TORNATORE è agevolmente riconducibile a MONTANTE. Essa, infatti, avveniva nello stesso giorno (17 settembre 2013) in cui il Prefetto VALENTE, che aveva condiviso con MONTANTE diverse occasioni di commensalità (cfr. le annotazioni contenute nel file excel), denunciava di avere ricevuto una lettera anonima, dal contenuto minatorio, orientando i propri sospetti proprio su TORNATORE, protagonista di un commento critico verso un'intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia dallo stesso prefetto (nella denuncia del 19 settembre 2013, il Pref. VALENTE parlava di "una reazione particolarmente veemente da parte di tale Tornatore Pasquale, imprenditore locale, il quale sul giornale on-line “Il fatto nisseno” replicava aspramente, affermando di essere rimasto sorpreso ed amareggiato per le mie affermazioni”). L'intervista del prefetto, peraltro, non aveva certamente lasciato indifferente MONTANTE, il quale, nel file excel, aveva prontamente annotato, in corrispondenza della data dell'11 agosto 2013, l'appunto "intervista Pref. Valente su la Sicilia a favore di Montante e Crocetta". Anche in ordine alle interrogazioni abusive allo S.D.I. relative a Salvatore PETROTTO e Davide DURANTE non può farsi a meno di evidenziare come, nell'abitazione di MONTANTE, sia stato rinvenuto materiale documentale relativo agli stessi (carpetta contenente la stampa di diversi commenti pubblicati dallo stesso PETROTTO sul social network Facebook, nonché, per quanto riguarda DURANTE, una nota riservata personale indirizzata il 21 marzo 2014 ai componenti del consiglio di amministrazione del CONFIDI TRAPANI, presieduto dal predetto DURANTE, relativa a presunti ammanchi di fondi dal consorzio; cfr. verbale di sequestro del 22 gennaio 2016), che segnala la sussistenza, in capo all'imprenditore di Serradifalco, di uno specifico interesse a seguirne le vicende e a raccogliere dati che li riguardassero. Anche Alfonso CICERO fu bersaglio di interrogazione allo S.D.I., persino in un momento nel quale i suoi rapporti con MONTANTE fluivano secondo coordinate di apparente normalità e collaborazione (6 dicembre 2009). Il senso di tutto ciò si coglie, però, se letto alla luce della vicenda successiva del tentativo di violenza privata, posto in essere da MONTANTE in danno di CICERO, per costringerlo a confezionare una missiva retrodatata atta a testimoniare una inveritiera ispirazione montantiana delle denunce fatte da quest'ultimo contro il boss DI FRANCESCO in seno alla commissione parlamentare antimafia. MONTANTE, evidentemente, persino tempore pacis aveva l'abitudine di curare l'arsenale delle armi da utilizzare tempore belli contro i nemici, attuali o potenziali, presenti o futuri ed eventuali. Tanto vero che lo stesso, quando si trovò a "convincere" CICERO che era il caso di assecondare la sua richiesta di confezionamento della lettera retrodatata, ebbe ad esibirgli una lunga serie di messaggi che il predetto CICERO gli aveva mandato e che lui aveva sistematicamente e pazientemente raccolto e conservato.

§ 5. Conclusioni. Tracciando un primo bilancio delle interrogazioni allo S.D.I., può dirsi dimostrato come MONTANTE avesse intrapreso la via della purgazione degli eretici mediante attività di dossieraggio, accompagnata, come vedremo infra, dalla induzione di pubblici ufficiali all'assunzione di una serie di iniziative penali o amministrative volte a punire atti di infedeltà alla sua entità personale. Il tutto puntualmente preceduto o accompagnato da esposti anonimi, regolarmente recapitati ad un ambiente, quale quello confindustriale, controllato dallo medesimo MONTANTE che, pertanto, ricevuto l'esposto, poteva utilizzarlo secondo le proprie strategie epurative. Per comprendere le dimensioni criminali dall'attività complessivamente svolta dal potente industriale, è sufficiente fare mente locale alla costanza con la quale lo stesso si dedicava alla documentazione dei suoi rapporti con i terzi, ciò che, alla luce di una visione globale dei fatti, non poteva che essere correlata ad una finalità “prossimale” di precostituzione della prova di tali relazioni e ad una ulteriore finalità "distale" di utilizzazione di essa in chiave ricattatoria.

Registrare, il vizietto di Antonello. La Repubblica il 15 Novembre 2019. Nell'ambito della descritta tendenza alla documentazione delle sue relazioni con i terzi si inquadrano certamente talune registrazioni, effettuate da MONTANTE o su disposizione dello stesso, di conversazioni intercorse con i terzi. Di seguito verranno riportati alcuni esempi, tratti dalla C.N.R. n. 1092/2017 cit. (da p. 395) e trasfusi nell'ordinanza cautelare, uno dei quali appare particolarmente significativo in quanto offre la legenda della sigla "Aud" talvolta presente nel famoso file excel. Infatti, posto che, grazie alle intercettazioni compiute nel corso della presente indagine, si è acquisita la certezza della registrazione, da parte di MONTANTE, di una conversazione de visu da lui avuta con Angelo LO MAGLIO (meglio identificato nel brano dell'ordinanza cautelare che ci si accinge a riprodurre), e posto, altresì, che tale conversazione risulta annotata nel predetto file con l'ulteriore indicazione della sigla "Aud", è possibile inferire che tale sigla significa che, della conversazione con LO MAGLIO, esisteva una traccia audio, per intervenuta registrazione fonica.

Dall'ordinanza cautelare (da p. 720): Ai fini descritti, va anche richiamata la conversazione telefonica (nr. 2 del 1 7. 6.2015) – già in precedenza riportata - con la quale Vincenzo MISTRETTA evidenziava di avere registrato il colloquio con Gioacchino MONTANTE, dal quale si era recato, su ordine del MONTANTE, per sapere cosa gli fosse stato chiesto in sede di escussione presso questi Uffici. Così come va evidenziata un'ulteriore conversazione intercettata il 2 settembre 2015 (conversazione ambientale nr. 1942) dalla quale era possibile evincersi che il MONTANTE, quel giorno, si trovasse a bordo dell'auto di GIARDINA Carmela e che, nel tragitto di ritorno verso casa - dopo essere stato in Corso Garibaldi in Serradifalco – avesse iniziato registrato una traccia vocale per “documentare” l'incontro che avrebbe dovuto avere di li a poco con Angelo LO MAGLIO, esponente dei Democratici di Sinistra e direttore del CEFPAS di Caltanissetta, istituto che fa capo direttamente all'Assessore alla salute della Regione Siciliana (Due settembre duemila e quindici..mi sta raggiungendo a casa questo Angelo LO MAGLIO.”). Giunti presso l'abitazione del MONTANTE, poi, si sentiva il rumore del motore di altra autovettura e si udiva lo stesso MONTANTE salutare un uomo, ovvero proprio il LO MAGLIO. […] L'episodio di tale incontro e la sua avvenuta registrazione confluivano puntualmente nel file excel, ove dopo la data "2/9/2015" e l'ora, "10.00" perfettamente compatibili con i riferimenti temporali della intercettazione da parte degli investigatori, veniva indicata la causale dell'annotazione – "app. Angelo LO MAGLIO A/t." (id est: appuntamento con Angelo LO MAGLIO nella villa di Altarello, zona di Serradifalco) - e l'avvenuta registrazione fonica: "(Aud)". Del resto, la correttezza dell'interpretazione è confermata, nel corso dell'interrogatorio del 9 agosto 2018, anche dallo stesso MONTANTE:

P.M. dott. PACI- Allora, senta, c'è una cosa che, insomma, ci ha colpito e quindi vogliamo capire...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Si, scusi.

P.M. dott. PACI - ...se lei oggi dà la stessa versione o continua a sostenere il punto su una vicenda che riguarda sempre i famosi appunti. Cioè lei ha detto che nel file dove c'è scritto “aud”, “aud” sta per “audito”.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Sì.

P.M. dott. PACI - Ecco, noi vogliamo capire, sapere se oggi questa conferma me la conferma oppure c”è una (versione) che per noi, lo diciamo subito, non è convincente.

AVV. CALECA - Se cӏ una registrazione...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - E allora, vi dico subito perchè è importante questo... questo argomento, è una delle domande che non l'ho scritto, ma che mi aspettavo. Dal 2015 in poi,

dottore Luciani, mi creda, lo faccio per un attimo... Dal 2015 in poi, dottore Paci... no, io...

P.M. dott. LUCIANI - Lei ha capito bene, ha capito benissimo.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Non ho incontra... non ho incontrato più nessuno. Quando incontravo qualcuno o parlavo a telefono con qualcuno che secondo me poteva chiedermi, perché poi ci sono tante altre cose che non sono messe in questi fogli, o perlomeno non le ho... non avendo gli altri nominativi, venivano una massa di richieste, una massa di richieste di incontri che non finivano mai, significa Camera di Commercio, Union Camere, telefonate, consorzi universitari, Camera di Commercio, Union Camere, incarichi sotto... tutto quello che era inerente al nostro mondo. Praticamente tutto quello che io ritenevo di incontrare raramente, mi incontravo sempre in compagnia; quando non sapevo cosa mi potesse dire, che poteva essere... poteva essere anche un giornalista di periferia o uno importante, io avevo un aggeggino piccolino, piccolino, che è una sorta di pen-drive, e registravo tutto, significa tutto. Poi se la questione mi interessava, la trascrivevo, quella era... se la questione non mi interessava, significa se non era rilevante, che non mi chiedevano nulla, la trascrivevo, ma se mi chiedevano: “Antonello...” Sempre ovviamente il presidente del consorzio universitario, non so, Tizio o Caio, perché mi...? Perché io sono socio, allora dove io avevo un ruolo, diciamo, a tutti gli effetti e praticamente dicevo: “Perfetto, per quale motivo...'? Quello è...” Quindi, siccome spesso il mio carattere era molto spigoloso su queste cose, praticamente dicevo o no, o ni, quindi prendevo... Questo era.

P.M. dott. LUCIANI - Quindi...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Io... io vi posso...

P.M. dott. LUCIANI - Ma quindi è registrata questa...'?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Io tutto quello che...

P.M. dott. LUCIANI - Ma che roba registrava?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Tutto quello che è registrato...

P.M. dott. PACI- Eh!

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Tutto quello che è registrato... Aspetti, no, non c'è... Tutto quello che è registrato veniva...

P.M. dott. PACI - Eh!

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Se mi fa finire...

P.M. dott. PACI- Prego, facciamo finire.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Quello che mi serviva, che era registrato...

P.M. dott. PACI- Eh!

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - ...veniva estrapolato dal sottoscritto e messo nel calendario, tutto quello che c'era nella registrazione di interessante, perché a me interessava quello. Non c'è un audio, un audio dico, un audio, e questo lo posso giurare su tutto quello che... un audio registrato, perché poi... per poter avere un audio... per avere un audio... mai... non ho mai utilizzato un audio, mai utilizzato, mai conservato un audio, diciamo, che non...

P.M. dott. PACI - (inc. sovrapposizione di voci).

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - L'audio... la registrazione, scusi, la registrazione e l'audio erano... potevano essere... potevano essere a volte la stessa cosa.

P.M. dott. LUCIANI - Quindi audio registrato.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Però la mia sigla vecchia, che è una sigla antica, sa che cos'era? Ma molto antica, come... come Campagna senza il nome, questo qua era... era così, significa che io ho chiuso un... una discussione nega... positiva.

P.M. dott. LUCIANI - Sì, ma una volta che lei c'ha il file “aud”...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Si, sì.

P.M. dott. LUCIANI - ...sta per registrazione?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Sì, sì.

P.M. dott. LUCIANI - Colloquio registrato?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Sì, era... eh, attenzione, però, voglio dire, quello che era registrato e che, praticamente, era utile...

P.M. dott. PACI - Veniva trascritto.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - ...veniva trascritto da me.

P.M. dott. LUCIANI - E non ci stanno le trascrizioni qua.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Non... cioè...

[...]

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - No, ce ne sono due, ce n'è un'altra, ce n'era. Attenzione, tutto quello che era... che mi serviva, io lo trascrivevo; quello che non mi serviva, veniva cancellato anche dopo tre secondi, appena... appena finiva la conversazione veniva cancellato. Aspetti, era una cosa che nessuno sapeva, ma nessuno, significa manco mio... era un pennino cosi.

P.M. dott. LUCIANI - Quello della perquisizione a casa sua.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - No, no, non era a casa mia, era...

P.M. dott. LUCIANI - Ah!

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Nel borsone l'ho lasciato. E forse non... non l'avete visto che cos'è.

P.M. dott. LUCIANI -No, dico, era...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Eh, io lo posso...

P.M. dott. LUCIANI - ...era simile a un pen-drive?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Però era... era di forma particolare, era... era nel mio zaino, era nascosto bene.

P.M. dott. PACI- Sì, ma questo aggeggetto l'abbiamo trovato.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Non ce n'è istruzioni, non ce n'è istruzione.

[...]

Numerose le conversazioni finite nel registratore di MONTANTE: conversazioni con avvocati (CALECA, che ha assistito l'odierno imputato per una parte del presente giudizio), ministri e capi della polizia (Angelino ALFANO e Alessandro PANSA), due degli odierni imputati (DE ANGELIS e DI SIMONE), Tano Grasso etcetera, come potrà meglio apprezzarsi dallo specchietto riepilogativo che segue, ottenuto mediante l'ordinata estrapolazione e accorpamento di tutte le voci del file citato contenenti la voce "Aud": […]. Tale attività di captazione occulta delle conversazioni con i terzi era condotta con metodi professionali, tanto vero che, nella disponibilità di MONTANTE, venivano rinvenute le istruzioni per il funzionamento di un dispositivo di registrazione audio-video camuffato da unità di memoria esterna (pen-drive; vd. del resto le dichiarazioni di MONTANTE sopra riportate a proposito del significato della sigla "Aud" e del mezzo utilizzato per la registrazione). Il quadro che se ne ricava, in verità abbastanza desolante, è quello di un uomo, MONTANTE, che di mestiere faceva il ricattatore seriale, non potendo attribuirsi altro significato, anche alla luce dell'esperienza riferita da CICERO sul tentativo di violenza privata in suo danno, alla raccolta incessante di dati riservati, documenti e registrazioni di conversazioni.

§ 2. Le annotazioni delle segnalazioni ricevute da parte di terzi: "TEL SEN" e "SMS SEN". Nel quadro di tale raccolta di dati e informazioni si annovera l'annotazione delle richieste, ricevute da MONTANTE, di segnalazioni per l'ottenimento di posti di lavoro, trasferimenti o benefici di varia natura. E' stato, in particolare, ritenuto in sede cautelare come tale annotazione venisse effettuata con la sigla "TEL SEN" e "SMS SEN", in dipendenza delle modalità - rispettivamente telefonata o messaggio telefonico - con cui la richiesta di "raccomandazione" era pervenuta a MONTANTE (ordinanza cautelare, da p. 732): Inoltre, non si può fare a meno di rilevare che sempre nel file in questione sono contenute due cartelle, rispettivamente denominate “TEL SEN” e “SMS SEN”, in cui sono, del pari, annotati messaggi di testo e telefonate ricevute dal MONTANTE, alcune delle quali (attesa la sigla “SEN”, identica a quella annotata anche nella cartella “CURRIC.”) aventi ad oggetto, con ragionevole certezza, richieste di “raccomandazioni” che gli sono state rivolte nel corso del tempo. Orbene, che la sigla "SEN" fosse utilizzata dall'imprenditore di Serradifalco per annotare una segnalazione, deve considerarsi pacifico, non potendosi fare alcun affidamento alla spiegazione che ne dava lo stesso, nel corso del proprio interrogatorio (cfr. stralcio del 9 agosto 2018, di seguito riprodotto), secondo cui "SEN" avrebbe significato "senza rinomina”, ossia senza “rinomina nei due pennini", ciò che appare francamente incomprensibile. L'inattendibilità di tale affermazione emerge dalla considerazione per cui ricorre sovente nel file la dicitura di "curriculum per SEN", che correla senza alcun dubbio la sigla "SEN" ad un profilo professionale. Infatti, MONTANTE, di fronte a tale rilievo, mossogli nel corso dell'atto di P.G. di cui si è detto, ammetteva che si trattava di un curriculum ricevuto per una segnalazione, conseguendone, pertanto, che non avrebbe alcun significato interpretare "curriculum per SEN" come "curriculum per senza rinomina”. Ha un senso, invece, la diversa esegesi, proposta dall'accusa, per cui "curriculum per SEN" significhi "currlculum per segnalazione”.

Segue lo stralcio dell'interrogatorio di MONTANTE:

P.M. dott. BERTONE - Ci sono tutta una serie di cartelle, cartelle curriculum per “sen”, “tel sen”.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - No, “sen” è... la nomina... E questo è al 100%.

P.M. dott. BERTONE - E “curriculum per sen” che significa?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - E per... per “se”, no per “sen”.

P.M. dott. PACI - “Cirricu per sen”.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Ma non... non è... non è una cosa che ho scritto io, è “sen”.

P.M. dott. LUCIANI - C'è una cartella qua.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Ma per...

P.M. dott. LUCIANI - Risulta anche questo file che si...

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Ma per non lo so io se... è “sen”, senza rinomina, non c'è la rinomina nei due pennini. Se prendiamo i pennini, gli faccio vedere... (Interventi fuori microfono).

P.M. dott. LUCIANI - Currie... vede, ci sono... c'era scritto “curric - puntato - per sen”.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Per “sen”, senza rinomina, nel senso che tutto... facciamo tinta la... non facevamo la rinomina, perché è un lavoro doppio.

P.M. dott. LUCIANI - Eh, ma “curric” che è?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Un curriculum.

P.M. dott. LUCIANI - Quindi sono i curriculum che (fuori microfono) le persone?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Certo, certo, si, certo.

P.M. dott. LUCIANI - Per raccomandazioni?

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Per raccomandazioni, si, e... tutto... io tutto quello che... ma vi dico...

P.M. dott. LUCIANI - Eh?

P.M. dott. BERTONE - Cartella “curriculum”, sono tutte segnalazioni che le fanno.

MONTANTE ANTONINO CALOGERO - Si, certo.

Le dimensioni del fenomeno erano davvero enormi. Se si dovessero censire personaggi che, secondo il file, apparivano essere i "mandanti" delle segnalazioni, l'enumerazione sarebbe sterminata e soprattutto molto varia, spaziandosi dai magistrati ai prefetti, dagli appartenenti alla Polizia di Stato, all'Arma dei Carabinieri, alla Guardia di Finanza ed alla D.I.A., agli esponenti laici del consiglio superiore della magistratura, dai rappresentanti delle associazioni antiracket ai sindaci dei comuni. Ovviamente, non potendosi avallare un approccio fideistico alle annotazioni contenute nel file excel di MONTANTE, è doveroso maneggiare con prudenza i relativi dati, limitando ogni discettazione a quei nominativi per i quali risultano agli atti specifiche attività investigative di riscontro. In tal senso si riportano alcuni passi estrapolati dell'ordinanza cautelare (da p. 1872), che - a parte quanto verrà approfondito sulle utilità ricavate da Col. ARDIZZONE (già comandante provinciale della Guardia di Finanza nissena, capo centro D.I.A. di Reggio Calabria e capo centro D.I.A. nisseno), dal Col. SCILLIA (già comandante provinciale della Guardia di Finanza nissena e poi capo centro D.I.A. del medesimo territorio, nonché, successivamente, capo centro D.I.A. di Reggio Calabria), dal Magg. ORFANELLO (comandante nel nucleo P.T. Della Guardia di Finanza nissena) e dal Col. D'AGATA (già comandante provinciale dei Carabinieri in questo centro e poi capo centro D.I.A. di Palermo) grazie alla loro vicinanza a MONTANTE (o comunque a soggetti entranei al suo "sistema”) - annoverano molte altre segnalazioni ricevute dall'industriale ad opera di vari soggetti, tutti accomunati dalla posizione istituzionale pubblica ricoperta: Orbene, l'analisi complessiva dei documenti in questione consente di rilevare che: all'interno della cartella denominata “CURRICULUM PER SEN” del più volte richiamato file excel era riportata, tra le altre, la seguente annotazione: AMICO Peppe DIGOS (Figlio Felice). Gli accertamenti compiuti hanno permesso di accertare che “AMICO peppe DIGOS” si identifica in Giuseppe AMICO, Sostituto Commissario della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Caltanissetta. È stato, altresì, riscontrato che lo stesso ha effettivamente un figlio a nome Felice come riportato nell'annotazione di che trattasi. Si è infine appurato che Felice AMICO presta la sua attività lavorativa presso la società C.D.S. s.p.a. dal 26.11.2009 ad oggi; all'interno della cartella denominata “TUTTI” sempre del file excel veniva riportato, alla data del 6.6.2012, il seguente appunto: ore 10,30 app. Calvagna Michele all'Irish (ricevuto curriculum della figlia Calvagna Maura del 07/07/1980 diplomata di disegno industriale). Pure in tal caso, attraverso gli accertamenti compiuti, si accertava che il CALVAGNA era Sostituto Commissario della Polizia di Stato (ormai in pensione), già responsabile dell'Ufficio Scorte della Questura di Caltanissetta. Il CALVAGNA ha effettivamente una figlia di nome Maura che, sulla scorta dei dati ricavati in banca dati INPS, risulta. dal 10.07.2007 in poi. dipendente della società Max Market s.r.l...In relazione all'Arma dei Carabinieri: all'interno della cartella “CURRlC. PER SEN” è stato rinvenuto il seguente appunto: FlSCHIONE ADOL.(LUPO SALVATORE NISCEMI + ALTRI APP.PERS.+ QUADRI). Laddove si tengano in considerazione le ulteriori annotazioni contenute nella cartella “TUTTI” (di seguito riportate) sarà agevole rilevare che il soggetto cui si riferiva il MONTANTE si identifichi, con ragionevole certezza, in Adolfo FISCHIONE, ora generale di Divisione dell'Arma dei Carabinieri e già Comandante Provinciale di Caltanissetta prima di Giuseppe D'AGATA. […] Sempre dalle annotazioni poc'anzi riportate si evince con chiarezza che quella contenuta nella predetta cartella “CURRIC. PER SEN” si riferisce ad una “segnalazione” che il FISCHIONE aveva effettuato al MONTANTE, il 29.10.2008, in favore di tale Salvatore LUPO di Niscemi. Si evince altresì che l”ex Comandante Provinciale dell'Arma aveva fatto presente al MONTANTE di essere interessato a diventare cittadino onorario di Gela e che, sempre in quella occasione, gli aveva consegnato “altri appunti personali”. Inoltre sembrerebbe evincersi che nel 2006 il MONTANTE aveva regalato al FISCHIONE una scultura in bronzo ed un quadro. Sempre nella cartella “CURRIC. PER SEN” venivano rinvenuti i due seguenti appunti ZULIANI (AMICO) MAURIZIO VILARIO UDINE ZULIANI PER MOGLIE C.C. COPASIR RITA BADALAIVIENTI PER CONF.PALERMO. Anche in tal caso, attraverso il contenuto degli appunti riportati nella cartella “TUTTI” è possibile ritenere che quelle annotazioni si riferiscano a Roberto ZULIANI, Colonnello dei Carabinieri ora in pensione e già Comandante Provinciale dell'Arma dei Carabinieri di Caltanissetta dopo Giuseppe D”AGATA e sino all'agosto del 2013 (come fedelmente annotato anche dal MONTANTE). […] Si evince, altresì, che ZULIANI aveva segnalato al MONTANTE tale “Rita BADALAMENTI di Villabate”, indicata come moglie del CC COPASIR, e che la stessa sarebbe poi stata anche assunta evidentemente grazie ai buoni uffici dello stesso MONTANTE. Pur non essendo, in tal caso, le annotazioni del file altrettanto chiare, pare possibile affermare che l'ex Comandante Provinciale de11”Arma avesse avanzato all'imprenditore di Serradifalco anche una qualche richiesta in favore di un suo amico, tale Maurizio VILARIO di Udine. Va inoltre rilevato che tra la documentazione sequestrata all'interno dell'abitazione di contrada Altarello è stata anche rinvenuta una email inviata, in data 20 gennaio 2014, da Antonella NIGRO al MONTANTE avente ad oggetto “casa Udine” e con la quale la donna scriveva “Ciao ti invio la foto della casa di Udine sperando in un miracolo La casa si trova in via Lapaicco”. Sulla email in questione risulta annotato a mano il seguente indirizzo di posta elettronica “++++@+++++” (va rammentato che il Colonnello ZULIANI dopo la permanenza a Caltanissetta veniva trasferito al centro Operativo D.I.A. di Padova). In assenza di ulteriori elementi va però osservato, per doverosa correttezza, che non è possibile operare un certo collegamento tra la mail in questione e lo stesso ZULIANI, potendo ben darsi, in ipotesi, che su tale documento sia stato annotato il suddetto indirizzo di posta elettronica in maniera del tutto estemporanea.

In relazione alla Guardia di Finanza: sempre muovendo dal contenuto della cartella “CURRIC PER SEN” vi è da segnalare il seguente appunto: SOZZO PIER LUIGI (IVIATTEO GIANNAVOLA CL 27/06/1993 -FIGLIO SUO – COLLABORATORE FINANZIERE). Si tratta, come desumibile pur sempre dalle annotazioni della cartella “TUTTI”, di Pierluigi SOZZO, Colonnello della Guardia di Finanza di Caltanissetta succeduto a Gianfranco ARDIZZONE nel ruolo di Comandante Provinciale di Caltanissetta. […] Si può altresì affermare come il successore dell'ARDIZZONE si fosse rivolto al MONTANTE per consegnargli il curriculum vitae del figlio di un altro appartenente alla Guardia di Finanza di Caltanissetta. Non può non osservarsi, in tal caso, come la condotta dell'ex Comandante Provinciale possa anche essere stata motivata dalla necessità di poter agevolare un soggetto che, almeno stando a quanto annotato dal MONTANTE, è affetto da problemi che lo rendono invalido. La ricostruzione testé ripercorsa delle relazioni "qualificate" di MONTANTE, ove la qualificazione fa riferimento esclusivo alle richieste di favori e raccomandazioni avanzate da pubblici ufficiali, è stata condotta, come visto, sulla base di seri, puntuali e rigorosi accertamenti di riscontro. Essa deve, tuttavia, essere corredata da una considerazione: le menzionate segnalazioni, benché non risultino inserite nell'ambito di meccanismi sinallagmatici, dimostrano l'ampiezza del raggio relazionale di MONTANTE, capace di ingraziarsi diversi personaggi istituzionali, ai diversi livelli, fino alla tessitura, in alcuni casi (ARDIZZQNE, ORFANELLO, D'AGATA, DE ANGELIS), della trama dell'irretimento corrispettivo.

Le raccomandazioni per gli amici spioni. La Repubblica il 16 novembre 2019. Nell'ambito di una visione cratocentrica dell'esistenza, ove tutte le relazioni interpersonali vengono reificate e mercificate, si inquadra l'aspetto sinallagmatico della vicenda della raccolta dei dati attraverso canali della Polizia di Stato. Il riferimento, in particolare, è alla promessa di interessamento, fatta da MONTANTE e veicolata da DI SIMONE, in favore di DE ANGELIS, intenzionato a rientrare - dopo il servizio prestato presso la questura di Milano (esattamente negli uffici distaccati ubicati in prefettura) - nella sede di Palermo, dalla quale era provenuto (e nella quale, come visto, aveva prestato servizio, presso l'ufficio della squadra mobile, con DI SIMONE, prima del congedo permanente di quest'ultimo per l'assunzione in AEDIFICATIO s.r.l., e con GRACEFFA, il terminale ultimo nella catena di accesso ai dati riservati). A tal fine DE ANGELIS aveva presentato una prima domanda di trasferimento, l'11 dicembre 2015, per il centro operativo D.I.A. di Palermo. In ordine all'accoglimento di tale domanda, l'allora questore di Milano, Dott. SAVINA, aveva espresso parere favorevole alla condizione della sostituzione di DE ANGELIS, sostituzione che, secondo quanto prospettato dal questore, poteva avvenire mediante l'assegnazione alla questura cli Milano del Dott. ANANIA, vice questore aggiunto in servizio presso la D.I.A. meneghina (vd. nota “riservata” del 28 gennaio 2016). Trascorsi alcuni mesi dalla domanda di trasferimento senza che la stessa fosse stata accolta, DE ANGELIS, in data 17 giugno 2016, aveva presentato una seconda domanda di trasferimento “presso la sede di Palermo, qualsiasi ufficio o reparto”, istanza che però, in data 12 luglio 2016, era stata rigettata per difetto della legittimazione quadriennale, essendo lo stesso arrivato nella sede milanese solo il 19 maggio 2014 (vd. nota di trasmissione della domanda di trasferimento del 23 giugno 2016 e provvedimento di rigetto della Direzione Centrale per le risorse umane del Dipartimento P.S. del 12 luglio 2016). A distanza di qualche giorno dall'intervenuto rigetto, venivano intercettate alcune telefonate, intercorse tra DE ANGELIS e GRACEFFA e tra DE ANGELIS e DI SIMONE, che dimostrano da un lato l'ansia del citato DE ANGELIS di ottenere il trasferimento a Palermo, dall'altro l'interessamento di MONTANTE, filtrato da DI SIMONE, per assicurare la realizzazione di quell'aspettativa. Come già accaduto in altre parti del presente atto, appare utile il richiamo dell'ordinanza cautelare (da p. 743), che contiene la riproduzione testuale del contenuto delle conversazioni intercettate, preceduta da una loro sintesi, della quale è possibile apprezzare la correttezza (cfr. anche C.N.R. n. 1092/2017 cit., da pag. 439): A tal fine, occorre muovere dal contenuto di una telefonata - della quale si è già dato conto in precedenza - intercorsa tra lo stesso DE ANGELIS ed il GRACEFFA il 2 maggio 2016 (conversazione nr. 244 delle ore 15.23) nel corso della quale il primo (oltre a chiedere al suo interlocutore il consueto accertamento in banca dati S.D.I.), nel rispondere ad una domanda dello stesso GRACEFFA se vi fossero novità “imminenti”, evidenziava che “alla DIA” era già “arrivato tutto ”, anche la richiesta, e che, pur non essendovi problemi di sorta, il trasferimento era stato momentaneamente bloccato dal Ministero poichè si era in attesa dell'assegnazione di un'altra unità alla Questura di Milano “e poi dopo mi sganciano...”.

Il DE ANGELIS sottolineava pure come quella situazione di temporaneo stallo non gli dispiacesse, essendo in quel periodo impegnato ad aiutare il figlio nella definizione dell'acquisto di una nuova casa. […] Ed invero, in data 19.7.2016 (dunque in epoca successiva alla comunicazione inoltrata al DE ANGELIS secondo cui le istanze di trasferimento non potevano essere accolte per i motivi già indicati) veniva registrata un conversazione (nr. 9252 delle ore 19.27) in cui il DE ANGELIS ed il DI SIMONE affrontavano alcuni temi di cui si darà conto, in dettaglio, nel prosieguo. Quasi sul finire della telefonata, nel cambiare argomento (“io ora voglio capire una cosa che non c 'entra niente con questo fatto ”), il DE ANGELIS chiedeva ulteriori delucidazioni su una questione - che accuratamente ometteva di indicare nello specifico - della quale, si comprendeva, avevano già discusso il giorno precedente ed in relazione alla quale il DI SIMONE si era riservato di fornirgli maggiori informazioni (“...tu ieri mi hai detto "Ah...io domani saprò qualcosa di più...di altre cose di altri discorsi... " ). Il DI SIMONE, a quel punto, lo rassicurava dicendogli che fosse “tutto a posto” e che stava “seguendo la sua strada serenamente”; inoltre - e la circostanza è chiaramente desumibile dal tenore complessivo della telefonata ove, sino a poco prima, i due avevano trattato argomenti chiaramente riferibili al MONTANTE - faceva un implicito riferimento proprio all'imprenditore di Serradifalco, sottolineandogli come questi avesse “grande rispetto nella tua persona” e ciò al chiaro fine di ulteriormente rassicurare il DE ANGELIS, posto che, come egli ben sapeva, “lui è molto ad personam nelle cose...”. […] La telefonata in questione va posta in connessione con altra intercorsa il 21 luglio 2016 (si tratta della conversazione di cui si è già detto con la quale il DE ANGELIS comunicava, in maniera criptica, al DI SIMONE gli esiti degli accertamenti eseguiti dal V. Sovr. PERNICIARO sul numero wind richiesti dal MONTANTE). Ebbene, nel corso del dialogo intercorso tra i due in quella circostanza, il DI SIMONE, riprendendo idealmente il contenuto della telefonata di cui si è dato poc'anzi conto, confermava al DE ANGELIS che era “tutto a posto ” e che quindi il suo pensiero avesse “corpo e sostanza”.

Il DE ANGELIS non afferrava immediatamente il senso del discorso e chiedeva, pertanto a quale “argomento” si stesse riferendo il DI SIMONE e questi, senza alcuna esitazione, rispondeva “tuo personale”. […] Ulteriore conferma alla ipotesi che qui viene in rilievo giungeva qualche giorno dopo (progr. 9645 delle ore 15.22 del 25.7.2016) quando il DI SIMONE ed il DE ANGELIS tornavano a sentirsi telefonicamente. Dopo lo scambio di qualche convenevole e quando il DE ANGELIS era quasi sul punto di chiudere la conversazione, il DI SIMONE ~ verosimilmente poiché accortosi che il DE ANGELIS non aveva colto gli ottimistici riferimenti che aveva cercato sino a quel momento di fare - esordiva dicendo “però tutto a posto In effetti il DE ANGELIS, non avendo compreso il senso della interlocuzione, chiedeva “su che fronte” e, ancora una volta, il DI SIMONE evidenziava “tuo ...tuo... tuo”. L'ulteriore scambio di battute consentiva di avere conferma del fatto che i due stessero discutendo di un futuro trasferimento del DE ANGELIS, poiché il DI SIMONE cercava di fugare lo scetticismo mostrato dal suo interlocutore e questi, a quel punto, chiedeva se disponesse di “una tempistica ” anche perché doveva valutare se “buttarsi malato “ o meno, ma il DI SIMONE replicava dicendogli che ne sarebbe venuto a conoscenza in seguito. […] Non sembra necessiti sottolineare che proprio i riferimenti operati dal DE ANGELIS alla “tempistica” ed alla necessità di “buttarsi malato ” o meno (chiaramente riferendosi, perciò, all'attività d'ufficio) consentono di avere lapalissiana conferma al fatto che, in questa telefonata, cosi come nelle precedenti (nelle quali il DI SIMONE aveva sempre sottolineato che si stesse allusivamente riferendo a questioni “personali” del suo interlocutore) i due avessero affrontato discorsi inerenti la pendenza della domanda di trasferimento avanzata dallo stesso DE ANGELIS. Sicché, per tale via, si ha anche la dimostrazione che fosse il MONTANTE colui che si stava interessando affinché il trasferimento del DE ANGELIS andasse a buon fine, come rappresentato dal DI SIMONE nel corso della telefonata del 19 luglio 2016 allorché, è bene ripeterlo, espressamente gli evidenziava che “lui è molto ad personam nelle cose...”. ed aveva “grande rispetto nella tua persona”. Del resto, si dirà meglio nel prosieguo come proprio la D.I.A. sia una delle forze di polizia ove il MONTANTE ha potuto godere delle entrature ai più alti livelli e che gli hanno consentito, nel corso del tempo, di promettere il suo interessamento in relazione alle richieste di “raccomandazioni” provenienti dai più svariati soggetti. Occorre dare atto, a questo punto, del tentativo di DE ANGELIS, fatto nel corso dell'esame, di smontare tale ricostruzione proposta dall'accusa e accolta in fase cautelare, a partire dall'interessamento di MONTANTE per il buon esito del trasferimento. In particolare, ha sostenuto l'imputato che: DI SIMONE gli aveva proposto l'intercessione di un suo amico, del quale non faceva il nome ma che lui intuiva essere MONTANTE, per perorare l'accoglimento della sua domanda; egli, tuttavia, aveva preferito optare per un intervento soft, diretto esclusivamente ad acquisire informazioni sulla tempistica del trasferimento.

Tale tesi si scontra con diversi elementi che emergono dagli atti del procedimento. In primo luogo, infatti, nelle conversazioni di cui sopra, DI SIMONE rassicurava DE ANGELIS circa la serietà dell'intervento che “quello", che aveva un grande rispetto nei suoi confronti, stava esperendo in suo favore: “perché quello sta seguendo la sua strada serenamente e tutto a posto...anche perché c'è grande rispetto ne/la tua persona...poi tu lo sai lui è molto ad personam nelle cose...”. L'uso, da parte di DI SIMONE, dell'espressione "quello" non pare coniugarsi felicemente con il riferimento ad una persona le cui generalità non siano note ad entrambi i loquenti, anche perché il "grande rispetto nella [sua, ndr] persona" era un argomento che presupponeva la piena consapevolezza, da parte dei due interlocutori, della identità del soggetto terzo che si stava interessando per il trasferimento. Pertanto, l'affermazione di DE ANGELIS, per cui egli aveva semplicemente intuito che l'autore della intercessione promessa potesse essere MONTANTE, non è plausibile. Inoltre, non si può non confutare l'assunto per cui l'intercessione di MONTANTE fosse finalizzata semplicemente al monitoraggio dei tempi del trasferimento, in quanto, sempre nel corso delle conversazioni sopra riportate, GRACEFFA, ricevuta conferma della prognosi favorevole sulle sorti della sua domanda di trasferimento, chiedeva di conoscere “anche una tempistica”. Invero, l'uso dell'avverbio aggiuntivo "anche", associato al termine "tempistica", dimostra che l'informazione sull'aspetto temporale del trasferimento era meramente additiva e collaterale rispetto all'informazione principale, relativa all'anno del trasferimento medesimo. Inoltre, non appare condivisibile l'ulteriore discettazione difensiva circa la oggettiva superfluità dell'intervento di MDNTANTE per avallare l'agognato trasferimento, superfluità determinata dal fatto che DE ANGELIS poteva contare, per ottenere l'ingresso nella D.I.A. palermitana, sull'appoggio del Dott. CALVINO, ex dirigente della squadra mobile di Palermo, poi transitato nella D.I.A (DE ANGELIS, esame del 18 dicembre 2018: "Al che, prima di fare la domanda, che appunto formulai l'11 dicembre 2015, mi misi in contatto con il mio ex Dirigente della Squadra Mobile, Dottor Vito Calvino, che nel frattempo era stato promosso ed era... aveva assunto il... la... l'incarico di Direttore delle Operazioni di Polizia Giudiziaria della D.I.A. a Roma, quindi era diventato il numero tre in ambito nazionale. Data la mia lunga collaborazione col Dottore Calvino e poiché lui mi conosceva e mi stimava in qualità di suo stretto collaboratore - ho lavorato con lui per oltre quindici anni - gli chiesi se c'era la possibilità, appunto, di potere avere una presentazione, perché...presentazione, perché alla D.I.A. non ci si arriva con una semplice domanda di trasferimento, bisogna avere un pregresso, bisogna avere una presentazione e il Dottor Calvino mi... approvò questa mia richiesta"). Infatti, la conversazione di cui sopra mostra in maniera inequivocabile come DE ANGELIS avesse chiesto a DI SIMONE notizie "anche" in ordine alla "tempistica" del trasferimento", e non solo in ordine ad essa, sicché è evidente come il medesimo DE ANGELIS non contasse affatto sull'intervento risolutore del funzionario CALVINO per ottenere il risultato in sé del trasferimento. D'altra parte, se proprio si volesse valorizzare il buon rapporto esistente tra DE ANGELIS e CALVINO per decretare l'erroneità della ricostruzione accusatoria (che, in realtà, non è una "ricostruzione", ma la lettura oggettiva di un passo di una conversazione intercettata che obiettivamente non si presta ad esegesi alternative), non si comprende per quale ragione il primo non si fosse rivolto al secondo “anche” per avere lumi sui tempi del suo trasferimento. In realtà, CALVINO, sentito dal difensore ai sensi dell'art. 391-bis c.p.p., dichiarava che il suo intervento intercessorio si sarebbe limitato alla segnalazione delle qualità professionali di DE ANGELIS, in assenza di qualsiasi garanzia di risultato: […]. Ha sostenuto ancora la difesa che, nel periodo in cui DE ANGELIS avrebbe ricevuto rassicurazioni sull'intercessione di MONTANTE, il potere di quest'ultimo era ormai vacillante. […] Orbene, tale tesi, sebbene non priva di una intrinseca suggestività, non può essere accolta, e ciò per le ragioni che seguono. La pendenza dell'indagine sul capo di MDNTANTE e, soprattutto, la sua divulgazione coram populo, aveva certamente inciso, in qualche misura, sul potere negoziale dell'imprenditore nei rapporti con i suoi interlocutori istituzionali, altrimenti DI SIMONE non lo avrebbe mai definito un “cavallo perdente”. Purtuttavia, la definizione, assai plastica, riservata al numero due di Confindustria nazionale dal suo "vassallo", deve essere adeguatamente circoscritta. Essa, infatti, è contenuta, peraltro in forma de relato (SACCIA la attribuiva, infatti, a DI SIMONE), in una intercettazione del febbraio 2016, periodo nel quale MONTANTE non celebrava certo i fasti della sua belle époque: l'imprenditore era intercettato da quasi un anno, e di ciò egli, come vedremo infra, era perfettamente consapevole, tanto da intraprendere una serie di iniziative elusive delle indagini in corso (es. bonifiche, da possibili microspie, della propria villa di c.da Altarello, a Serradifalco, e dei locali di varie sedi confindustriali, grazie all'apporto dei fratelli CALI', per cui si procede separatamente; analoga bonifica dei veicoli dei propri più stretti collaboratori; utilizzazione di schede telefoniche intestate ad altri; etc). Tuttavia, se si focalizza l'attenzione sulle fasi antecedenti e susseguenti a quel periodo, si ricavano due elementi oggettivi ed incontrovertibili di estrema importanza. In primo luogo, la reazione immediata alla diffusione della notizia dell'indagine (febbraio 2015) sul conto di MONTANTE non era stata quella dell'isolamento istituzionale.

Dalla lettura del file excel, infatti, si deduce che lo stesso:

~ il 10 marzo 2015 avrebbe ricevuto la comunicazione prefettizia circa il rafforzamento della sua scorta (livello 3^ rafforzato);

~ il 22 aprile 2015 avrebbe incontrato Arturo DE FELICE (dirigente generale della Polizia di Stato, direttore D.I.A. dal 31.10.2012 al 30.9.2014, oggi prefetto di Caserta) all'hotel Bernini di Roma;

- il 29 aprile 2015 avrebbe incontrato il Ministro degli Interni Angelino ALFANO e l'allora Capo della Polizia, Alessandro PANSA;

~ il 13 maggio 2015 avrebbe incontrato ALFANO e il suo capo di gabinetto, LAMORGESE, attuale Ministro dell'Interno;

~ l'11 giugno 2015 avrebbe ricevuto l'invito, da lui declinato, a partecipare al “direttivo Agenzia Beni Confiscati”;

~ il 16 giugno 2015 avrebbe incontrato il Min. ALFANO presso gli uffici del ministero;

il 30 giugno 2015 avrebbe pranzato con il Pref. GABRIELLI, attuale Capo della Polizia;

~ il 1 luglio 2015 avrebbe incontrato il Min. ALFANO;

~ il 16 settembre 2015 avrebbe incontrato il Min. ALFANO, Luciana LAMORGESE e l'allora capo della Polizia PANSA.

Quelli testé segnalati, peraltro, non sono gli unici incontri avuti da MONTANTE nel periodo successivo alla discovery giornalistica dell'indagine sul suo conto, costituendo essi un mero estratto da una elencazione notevolmente più nutrita. Tuttavia, tale estratto, pur nella sua natura intrinsecamente esemplificativa, appare già emblematico della insostenibilità della tesi della recisione ex abrupto, da parte di MONTANTE, delle sue relazioni istituzionali per via della pubblicizzazione dell'indagine. Ex adverso, non può non ricordarsi come nell'ottobre 2015 il collegio dei c.d. "probiviri" avesse adottato, nei riguardi di VENTURI, reo di avere fatto pubbliche dichiarazioni critiche verso il "sistema MONTANTE", una decisione sostanzialmente espulsiva, che lo aveva costretto a rassegnare le dimissioni (vd. sez. seconda, cap. IV, § 4). Si potrebbe ovviamente, addurre, in chiave subordinata, che le relazioni istituzionali di MONTANTE, per effetto della progressione investigativa, fossero entrate in una fase di vischiosità, tanto vero che, nel febbraio 2016, DI SIMONE, come già visto, rappresentava a SACCIA un quadro di grave deminutio delle possibilità operative di MONTANTE.

Su ciò si può anche concordare. Tuttavia, un conto è ritenere, realisticamente, che le dinamiche relazionali di MONTANTE, a causa dell'incalzare delle indagini e, soprattutto, della divulgazione della relativa notizia, fossero divenute meno fluide, un altro è sostenere che MONTANTE fosse relegato in un ambito di totale ed assoluta interdizione nella gestione del suo enorme potere. Significative, nella direzione tracciata, appaiono le dichiarazioni di SACCIA e del Magg. ORFANELLO, i quali, nel corso di una conversazione del 15 gennaio 2016 (n. 1933; cfr. all. 395 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.), pur nella consapevolezza della minore agilità operativa dell'imprenditore di Serradifalco in ragione dell'indagine in corso, avevano perfettamente intuito che lo stesso, se si fosse mosso con la dovuta cautela (ad esempio, chiamando l'interlocutore sul telefono fisso, anziché sull'utenza mobile, ed assumendo opportunamente “un tono istituzionale"), avrebbe potuto continuare a coltivare le sue consuete interlocuzioni con i vertici istituzionali: […]. In ogni caso, a prescindere dal convincimento di SACCIA sulla sopravvivenza del potere di MONTANTE di relazionarsi con i vertici delle istituzioni, non può eludersi la considerazione di un dato oggettivo di straordinaria importanza: le interlocuzioni telefoniche, da cui si evince l'interessamento dell'imprenditore di Serradifalco per il trasferimento di DI SIMONE, si collocano nel luglio 2016, quando il potere di MONTANTE, per effetto della nomina di Vincenzo BOCCIA al vertice di Confindustria nazionale, aveva trovato un rinnovato slancio. Non si tratta di una mera ipotesi, ma della oggettiva considerazione di evidenze investigative. Infatti, il 31 marzo 2016, DI SIMONE, commentando al telefono con Salvatore CALI' l'elezione di BOCCIA al vertice di Confindustria nazionale (conv. progr. n. 1568; cfr. all. 192 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.), esprimeva tutta la propria soddisfazione per un risultato che, a suo avviso, sanciva la continuità del potere di MONTANTE all'interno dell'associazione degli industriali. Tanto vero che CALI', che aveva un interesse economico a mantenere il rapporto di collaborazione con Confindustria (si vedrà come la ditta CALI' Service avesse effettuato le bonifiche nella villa di MONTANTE e in alcune sedi confindustriali), condivideva il gaudio di DI SIMONE pronunciando le parole "quindi rimaniamo tutti, giusto?” e, ricevutane conferma da DI SIMONE, concludeva che avrebbero fatto "ufficio tecnico”. Tutto ciò, dunque, quasi due mesi dopo rispetto al momento nel quale SACCIA aveva riferito ad ORFANELLO dell'epicedio prematuramente annunciato da DI SIMONE: […]. Sarebbe vano, peraltro, sostenere che la rinascita di MONTANTE costituiva oggetto di una valutazione meramente predittiva e ingiustificatamente ottimistica di DI SIMONE, in quanto dalla lettura degli atti si arguiscono elementi di natura oggettiva che confermano, in maniera incontrovertibile, come il "vassallo" di MONTANTE si esprimesse a ragion veduta. Infatti, come verrà approfondito nel paragrafo che segue, è del marzo 2016 la lettera con la quale ALFANO, debitamente instradato dal duo MONTANTECATANZARO, allertava diverse prefetture italiane, da Nord a Sud (Asti, Milano, Roma, Palermo e Caltanissetta), sul tema della sicurezza del predetto MONTANTE, così come è del febbraio 2016 l'esortazione del dirigente della squadra mobile di Agrigento, Dott. Giovanni MINARDI, rivolta al citato CATANZARO, notoriamente vicino all'imprenditore di Serradifalco, di prestare attenzione perché il momento appariva molto pericoloso (“Iddru vero mi' dissi teniamo l'occhi aperti picchi è un momento di...carne d'arrustiri...stamu attentu..."). Tale esortazione, di cui non è chiarissimo il significato (a scanso di equivoci, essa non sembra assumere disvalore penale), certamente non è ispirata a ragioni avversative rispetto alla figura di MONTANTE, non potendosi peraltro sostenere l'inattendibilità della narrazione di CATANZARO, atteso che MINARDI, dalla lettura del file excel, risulta tra le persone segnalate al potente industriale dall'allora Procuratore della Repubblica di Gela, Lucia LOTTI, verosimilmente in vista del concorso per la qualifica di commissario. Tali episodi, dunque, consentono di escludere in maniera radicale ed assoluta che il potente industriale, benché fosse decorso già oltre un anno dalla diffusione della notizia sull'inchiesta, avesse subito, anche soltanto in via cautelare o prudenziale, una qualche forma di emarginazione o esilio istituzionale.

Angelino e Antonello, una bella coppia. La Repubblica il 17 novembre 2019. Entrando nei dettagli della vicenda cui si è accennato nel paragrafo che precede, occorre cominciare dall'analisi della conversazione testé menzionata, intercettata nel febbraio 2016, mentre MONTANTE discuteva delle strategie da adottare per fronteggiare l'avanzare dell'indagine sul suo conto e l'ingravescenza di iniziative parallele, politiche e mediatiche, che venivano man mano assunte. Il suo interlocutore era l'amico Giuseppe CATANZARO, imprenditore leader nel settore dei rifiuti in Sicilia, già entrato in contrasto con l'allora assessore MARINO, fermamente intenzionato ad erodere il sistema oligopolico privatistico nella gestione del predetto settore (sez. seconda, cap. V, § 4.7.2).

In quel contesto, MONTANTE e CATANZARO rimuginavano sulla necessità di rallentare la trattazione, in commissione antimafia, del “caso MONTANTE", vagliando l'opportunità di rivolgersi, formalmente, all'On. Rosy Bindi, che la presiedeva, per chiedere l'apposizione del segreto istruttorio sugli atti, secondo un modulo già sperimentato con successo quando era esploso il conflitto tra lo stesso CATANZARO e il Dott. MARINO (CATANZARO: “ascunta a me... io nello scontro con Marino... che... rispetto al tuo la proporzione è di un decimo... cioè nenti...però ho fatto qualche esperienza, devi valutare se l'avvocato che ti difende deve scrivere un atto giudiziario alla presidente Bindi e ciava a diri con riferimento al contenuto del verbale di stu signore... [...] di Bolzoni... [...] infatti l'accennau a Caleca e mi dissi sono assolutamente d'accordo ci mettiamo un freno comunque...e ciava a scriviri atto coperto da segreto istruttorio picchi se no cu e ghiè u po' pigliari...Caleca u sapi cumu si fa ca l'ha fatto cu mia pi Marino [...] ...allura nell'interrogazione chiddra dei cinque stelle... che cosa..."; cfr. conv. progr. n. 449). Ad un certo punto della conversazione, i due imprenditori, al fine di oppugnare una interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle, concordavano, accogliendo il suggerimento dell'Avv. CALECA, di fare pervenire una lettera al presidente di Confindustria nazionale Giorgio SQUINZI, firmata da alcuni industriali siciliani che si sarebbero assunti formalmente la paternità dell'iniziativa, vertente sulla elevata esposizione al pericolo dello stesso MONTANTE (CATANZARO: "si... Caleca mi dissi... gli ho fatto il quadro ficimu chissu... ficimu chissu e l'obiettivo è cuminciare a mettere qualche freno rispetto a sti circostanze... e lui mi dice te lo l'anticipo... dici...non dovete farla partire da qui... posto che ne avete già fatte altre...dici può Squinzi scrivere ad Alfano o al Presidente del Consiglio o meglio ancora o Presidente da Repubblica? Ci dissi, aspetta che parlo cu Antonello! [...] e... io cu tia l'aiu ha stabilire, se no io chiamo a chiddri ca l'hanno a firmare ed è fatta...la lettera è pronta...”; MONTANTE: però dici...cà se non c'è un intervento immediato qua c'è il rischio è altissimo in questo momento, quindi questo è un out...out...chista è...pi..chi... ”).

Passando in rassegna i nominativi degli imprenditori da coinvolgere nella sottoscrizione della lettera, MONTANTE individuava, tra gli altri, un certo “Tano”, il quale, se non avesse aderito alla iniziativa, sarebbe stato tagliato fuori ("ca..a TANU ciamma a fa mittiri manu ni sti cosi...”). E' in quel momento che CATANZARO, accettando l'incarico di reclutare “Tano”, preannunciava che, nell'opera di persuasione che avrebbe esperito per indurlo a firmare la lettera, avrebbe rincarato la dose ("no.... io cià fazzu chiù carrica cu chissà, mancu a iddru ci l'haiu a diri...”), anche perché aveva casualmente incontrato il sopracitato dirigente della squadra mobile di Agrigento, il quale lo aveva esortato alla massima attenzione ("...anche picchi vitti u dirigente da Squadra Mobile di Agrigento... occasionalmente chiddru vero mi dissi teniamo l'occhi aperti picchi è un momento di...carne d'arrustiri...stamu attentu..."). Orbene, come emerge dalla citata C.N.R. n. 1092/2017 (p. 171), "In riferimento al contenuto della lettera che il MONTANTE ed il CATANZARO concertavano insieme, si rappresenta che, effettivamente, essa veniva inviata, in data 14.3.2016, al Presidente di Confindustria Nazionale, Giorgio SQUINZI che, a sua volta, in data 21.3.2016, la inoltrava al Ministro dell'Interno, On. Angelino ALFANO, come risulta agli atti classificati in possesso di quest'Ufficio. Il Ministro, infatti, inviava la predetta missiva alle Prefetture di Caltanissetta, Palermo, e per conoscenza anche a quelle di Roma, Milano, Asti, per le opportune valutazioni circa il dispositivo di sicurezza che, a tutt'oggi, è riconosciuto al MONTANTE Antonio Calogero, ossia il 3^ livello rafforzato (3 operatori)".

Ciò posto, appare evidente che: a) il progetto elaborato dal duo MONTANTE-CATANZARO era diretto a magnificare la presunta esposizione a rischio del primo, nell'ambito di una precisa strategia di contenimento di iniziative, di segno contrapposto, di carattere politico, volte a sollevare il caso MONTANTE in commissione parlamentare antimafia;

b) tale progetto partorì una nota dell'allora Min. dell'Interno Angelino ALFANO, diretta ad allertare, sulla questione sollevata, diverse prefetture italiane, dal Nord al Sud del Paese.

Ciò posto, non può non rilevarsi come, indipendentemente dalla consapevolezza di ALFANO circa la reale finalità dell'iniziativa assunta dal manipolo di imprenditori al servizio di MONTANTE ("..il potere con la leva politica perché aveva minchia... da ALFANO iddru non è che si dava del tu...si dava dell'io...”, così l'ex ufficiale della Guardia di Finanza, Nazario SACCIA, conversando con il Magg. ORFANELLO, si esprimerà a proposito del rapporto tra MONTANTE e ALFANO; cfr. conv. progr. n. 2679 del 5 febbraio 2016, su cui vd. infra), il lancio dell'allerta di cui si è detto a diverse prefetture italiane, a distanza di oltre un anno dalla discovery giornalistica dell'indagine per concorso esterno in associazione mafiosa a carico del medesimo MONTANTE, dimostra che, almeno nei primi mesi del 2016, quest'ultimo era tutt'altro che isolato nel panorama istituzionale, continuando anzi a godere del sostegno del vertice del ministero da cui dipendeva proprio l'odierno imputato DE ANGELIS. Da ciò consegue la caducazione logica della tesi difensiva per cui DI SIMONE, garantendo l'intercessione di MONTANTE per il buon esito del trasferimento del citato DE ANGELIS da Milano a Palermo, stesse soltanto millantando un intervento che, in realtà, non poteva essere esperito. Giova, a questo punto, soffermarsi su un altro episodio che, dal punto di vista temporale, è particolarmente interessante, in quanto si colloca appena un mese prima rispetto alle telefonate da cui si ricava l'esistenza di una promessa di intercessione di MONTANTE a beneficio di DE ANGELIS, e un anno e quattro mesi dopo la discovery mediatica dell'indagine in questione. Tale episodio emerge dalla intercettazione di una conversazione tra presenti (progr. n. 7070), avvenuta il 13 giugno 2016 (parzialmente esaminata antea; cfr. sez. seconda, cap. IV, § 4), in cui gli interlocutori sono MONTANTE e l'amico Calogero Giuseppe VALENZA. In particolare, si legge nella C.N.R. n. 1092/2017 cit. (p. 350), che “Poi il VALENZA faceva riferimento al LO BELLO Ivan senza specificare cosa quest'ultimo avrebbe dovuto fare ma il MONTANTE che capiva a cosa si stesse riferendo l'interlocutore gli rispondeva che il LO BELLO avrebbe fatto ciò che si aspettavano, altrimenti "gli sarebbe saltata la testa”, compiacendosi del fatto che aveva il potere di metterlo in difficoltà qualora il LO BELLO non avesse fatto quello che gli si diceva di fare poiché il MONTANTE poteva contare sulle tante conoscenze importanti che aveva in Italia. Medesimo vanto il MONTANTE esprimeva riguardo al Ministro dell'Interno Angelino ALFANO: infatti quando il VALENZA gli raccontava di essere stato ricevuto da quest'ultimo con molta riverenza mettendosi a disposizione, il MONTANTE gli diceva testualmente "o u faciva, o u faciva!”. Immediatamente dopo, il MONTANTE aggiungeva che il Ministro era preoccupato per qualcosa che non specificava meglio ma in ordine al quale sosteneva che ne erano a conoscenza solo loro tre, ossia il Ministro, il MONTANTE ed il VALENZA". […] Il dialogo, limitando il commento a quanto rileva in questo specifico luogo argomentativo, solleva due riflessioni, la prima delle quali relativa alla identificazione del ministro di cui parlano MONTANTE e VALENZA, che, per gli investigatori, è senz'altro Angelino ALFANO. In effetti, tale identificazione appare corretta, in quanto ALFANO è l'unico ministro, in carica in quel momento, con il quale, secondo le risultanze degli atti del procedimento, MONTANTE era in rapporto di grande confidenza. Altro ministro il cui nome viene fuori dall'indagine è quello di Federica GUIDI, il cui compagno, Gianluca GEMELLI, era stato degnamente allocato dall'imprenditore di Serradifalco presso l'I.A.S. s.p.a. di Siracusa (vd. infra). Tuttavia, è certo che MONTANTE e VALENZA non parlassero della GUIDI, perché gli stessi mostrano di discutere di un ministro di sesso maschile ("iddru"). Dovendosi, dunque, considerare pacifico il riferimento, da parte dei due loquenti, ad Angelino ALFANO, il quadro che ne viene fuori è certamente inquietante: MONTANTE aveva anticipato ad ALFANO che “iddru”, cioè VALENZA, sarebbe andato a trovarlo perché “doveva sedersi a Roma” (lett.: “iddru veni a Roma sa va beni assittari”). ALFANO, effettivamente, aveva ricevuto VALENZA, lo aveva trattato con modi reverenziali, quasi che l'ospite fosse stato a sua volta un ministro (VALENZA: "..è u stessu ca ci avissi iutu un Ministru come mi ha ricevuto"), e, infine, gli aveva messo a disposizione tutto ciò che gli potesse servire, comprese stanze per eventuali riunioni (VALENZA: "mi dissi qua è tutto a tua disposizione, se ti servono qualchi stanza.. riunioni, cosi.."). MONTANTE, dunque, di fronte ad un VALENZA stupefatto per il trattamento ricevuto, gli lasciava intendere che ALFANO non poteva non mettersi a disposizione, perché non era nelle condizioni di poterlo contraddire: "..o u faciva,. o u faciva, o u facival”. MONTANTE, cioè, stando alle sue parole, aveva in pugno il ministro dell'Interno. Ciò consente di affermare che, comunque si voglia definire l'oggettivo momento di difficoltà attraversato da MONTANTE per via dell'indagine, il suo potere negoziale con il ministro dell'Interno, dal cui dicastero dipendeva DE ANGELIS, era rimasto del tutto inalterato nel periodo nel quale si inscrive la promessa di interessamento dello stesso MONTANTE, veicolata da DI SIMONE, per il trasferimento del citato DE ANGELIS. Da ultimo, occorre considerare che vi sono ulteriori elementi in base ai quali escludere che DI SIMONE, quale portavoce di MONTANTE, promettesse mere chimere a DE ANGELIS.  Infatti, in almeno un'altra occasione quest'ultimo, come vedremo nel paragrafo che segue, aveva ottenuto una utilità dal rapporto sinallagmatico che si era instaurato con MONTANTE: la moglie, Rosalia SANFILIPPO, già dipendente del disciolto consorzio ASI di Palermo, aveva ottenuto, tramite l'intercessione del potente industriale, la nomina quale segretaria di CICERO, una volta che questi, il 21 dicembre 2012, era divenuto commissario straordinario all'I.R.S.A.P. (istituto regionale che aveva rilevato i consorzi in liquidazione).

La “cordata” in divisa. La Repubblica il 18 novembre 2019. Dal contenuto delle intercettazioni sopra riportate, relative alle conversazioni intercorse tra DE ANGELIS e GRACEFFA e tra DE ANGELIS e DI SIMONE, emergerebbero, ad avviso del P.M., significative spie circa la sussistenza di una stabile struttura associativa che legava DE ANGELIS a DI SIMONE e a MONTANTE. A tal fine occorre considerare:

~ il riferimento, contenuto in una conversazione telefonica (progr. n. 244 del 2 maggio 2016) intercorsa tra DI SIMONE e GRACEFFA, alla loro comune appartenenza ad una medesima "cordata";

~ l'ulteriore elemento, tratto dalla intercettazione di un'altra conversazione (progr. n. 9252 del 19 luglio 2016), in cui DI SIMONE, a proposito dei veleni scatenati dalla divulgazione, da parte di CICERO e VENTURI, di link contenenti articoli contrari a MONTANTE, intendeva elidere ogni dubbio sulla fedeltà a quest'ultimo da parte della moglie di DE ANGELIS, divenuta segretaria particolare di CICERO grazie ai buoni uffici proprio di MONTANTE, e, conseguentemente, dimostrare la lealtà dei "suoi", così alludendo all'esistenza di un gruppo stabile di persone, riconducibili allo stesso DI SIMONE, su cui l'imprenditore doveva nutrire fiducia indiscussa;

~ il numero degli accessi abusivi allo S.D.I. e la loro collocazione temporale.

E' utile, in proposito, ripercorre la argomentazioni accusatorie, confluite nell'ordinanza cautelare (da p. 751), per poi verificarne la tenuta rispetto al complesso degli elementi di prova ricavabili dagli atti: Si dirà di qui a poco degli elementi di carattere oggettivo che giustificano la conclusione secondo cui gli elementi acquisiti nel corso delle indagini esperite dimostrano l'esistenza di un contesto di soggetti stabilmente dedito al procacciamento di notizie in favore del MONTANTE attraverso accessi abusivi alle banche dati in uso alle forze di polizia.

In premessa, va tuttavia richiamato il contenuto di due telefonate intercettate nell'ambito del procedimento in quanto fortemente dimostrative dell'esistenza, per ciò che qui rileva, di una cerchia di soggetti, rappresentata dagli odierni indagati, legata da rapporti strettamente fiduciari al MONTANTE ed alla propaggine di questi rappresentata da Diego DI SIMONE al fine di commettere le illecite condotte di cui si è sin qui dato conto. In tal senso, viene in rilievo, in primis un passaggio della telefonata intercorsa, il 2 maggio 2016, tra il DE ANGELIS ed il GRACEFFA (già poc'anzi richiamata sia in relazione all'accertamento SDI che il DE ANGELIS aveva richiesto, quel giorno, al GRACEFFA, sia nella parte in cui i due avevano discusso delle aspettative del DE ANGELIS in relazione al suo trasferimento alla D.I.A. di Palermo). Sempre in quella occasione, infatti, (conversazione nr. 244), il DE ANGELIS stimolava il suo interlocutore ad un commento sul nuovo capo della Polizia chiedendogli se fosse “contento” della recente nomina del Prefetto Franco GABRIELLI ed il GRACEFFA mostrava, al riguardo, la propria totale indifferenza (“a me proprio non mi cambia niente.. ”) subito aggiungendo, però, una considerazione estremamente significativa ai fini del procedimento. Il GRACEFFA, infatti, testualmente evidenziava che “l'unico problema nostro è se cambia la cordata... capito? la...la potrebbe interessarci la cosa”, venendo, però, immediatamente interrotto dal DE ANGELIS (“no basta, si, si, si, non ti faccio sbilanciare”), che evidentemente non riteneva prudente approfondire simili discorsi al telefono. Ebbene, può dirsi innanzitutto certo come il GRACEFFA, nel parlare della “cordata”, non avesse affatto inteso riferirsi all'ambiente della Polizia di Stato, avendo poco prima mostrato un’assoluta noncuranza rispetto all'avvicendamento al vertice, che riteneva totalmente ininfluente per la propria personale posizione. Il GRACEFFA, poi, usava eloquentemente il plurale (“l'unica problema nostro”) allorché passava a rappresentare al DE ANGELIS l’unica situazione, in astratto, in grado di incidere, a suo parere, sulla vita di entrambi e cioè il possibile cambiamento della “cordata Ebbene, non si può che sottolineare come l'unica situazione che dal contenuto delle intercettazioni disposte nell'ambito del procedimento può dirsi accomunare tanto il DE ANGELIS che il GRACEFFA è quella relativa alle interrogazioni in banca dati SDI che il primo continuamente sollecita al secondo per conto del DI SIMONE e, quindi, del MONTANTE. Sicché, pare ovvio concludere che la “cordata” cui si riferiva il GRACEFFA fosse proprio quella che lega il loro ex collega DI SIMONE al MONTANTE, così peraltro dimostrando la perfetta consapevolezza della destinazione e finalità ultime delle notizie abusivamente carpite attraverso gli strumenti a disposizione, per ragioni di servizio, all'interno della Polizia di Stato.

A tal proposito, non pare superfluo rammentare che, nel periodo in cui veniva captata la telefonata di cui si tratta, non era ancora stato nominato il Presidente di Confindustria nazionale (Vincenzo BOCCIA, infatti - pur essendo stato designato a Presidente, alla fine di marzo del 2016, dal Consiglio generale degli industriali - veniva eletto dall'assemblea generale solo in data 25 maggio 2016) e, quindi, agli occhi di soggetti estranei a quell'ambiente non era ancora chiaro se le vicende giudiziarie che avevano coinvolto il MONTANTE avrebbero potuto comportare, come diretta conseguenza, una perdita del potere che quest'ultimo aveva acquisito nel corso degli anni. Di qui l'ovvio timore che l'imprenditore di Serradifalco potesse essere messo di lato e che, quindi, potesse venire a mancare un prezioso punto di riferimento utile per indirizzare, all'occorrenza, richieste che il MONTANTE ha dimostrato di sapere sapientemente soddisfare attraverso i canali creati proprio in ragione della visibilità e del credito acquisito grazie anche alla progressiva scalata di posizioni all'interno dell'associazione nazionale degli industriali. […] DE ANGELIS, nel corso del proprio esame (cfr. verbale dell'udienza del 18 dicembre 2018, da p. 29), ha provato a giustificare l'utilizzo del termine “cordata” riferendolo a correnti interne alla questura, […]. In verità tale spiegazione appare soltanto un modo artificioso di giustificare ciò che non può essere giustificato. Infatti, non si riesce a cogliere, innanzitutto, la ragione per la quale DE ANGELIS, di fronte a quella che avrebbe dovuto costituirebbe – secondo l'esegesi da lui proposta - una presunta lagnanza di GRACEFFA verso il Dott. RUPERTI, avesse immediatamente indotto l'interlocutore a cambiare argomento ("...no basta...si si si... non ti faccio sbilanciare... invece di...”). In fondo, non si comprende quali conseguenze sarebbero potute discendere dalla captazione intercettiva di una critica verso un superiore gerarchico.

In secondo luogo, il concetto di “cordata”, riferito al dirigente della squadra mobile e al questore, è privo di riscontro concreto, posto che l'insediamento di un questore in una provincia non ha mai determinato l'automatica caducazione del dirigente della squadra Mobile in carica, in quanto il trasferimento dei questori non risulta legato assolutamente al trasferimento dei dirigenti dei singoli uffici. L'affermazione contraria di DE ANGELIS, per cui il rapporto tra questore e dirigente dell'ufficio investigativo sarebbe informato al principio simul stabunt simul cadent, è soltanto parzialmente vera, nel senso che il questore potrebbe decidere una rotazione dei dirigenti in servizio negli uffici di P.S. della provincia, senza che ciò determini la formazione o la individuazione di una “cordata”.

In terzo luogo, accogliendo l'interpretazione che DE ANGELIS vorrebbe accreditare come “autentica”, si assiste ad una distonia tra il linguaggio oggettivamente utilizzato dai loquenti e il significato che si vorrebbe attribuire alla conversazione. Infatti, l'impiego dell'aggettivo possessivo “nostro” ("...l'unico problema nostro...l'unico problema nostro è se...") fa evidente riferimento ad una situazione che accomuna GRACEFFA e DE ANGELIS, mentre il "problema" della presunta “cordata” non avrebbe mai potuto tangere DE ANGELIS, che il Dott. RUPERTI non lo aveva neppure conosciuto ("...Io non l'ho mai avuto e non l'ho mai conosciuto e non ho mai fatto servizio sotto la sua Direzione ...", esame cit., p. 29 e s.) e non aveva neanche la prospettiva di conoscerlo, posto che alla data della conversazione - 2 maggio 2016 - DE ANGELIS era in attesa del trasferimento alla D.I.A. di Palermo (in realtà, mai avvenuto), che costituisce un ufficio interforze privo di qualsivoglia rapporto di subordinazione con l'ufficio della squadra mobile.

Questo, comunque, non è l'unico elemento che sorregge l'accusa associativa. L'ordinanza cautelare, infatti, ha messo in luce un ulteriore dato che esprimerebbe una rilevante significatività nella direzione dell'esistenza di una stabile organizzazione tra gli imputati, nella specie identificati, oltre che in MONTANTE, in DI SIMONE e DE ANGELIS. Esso può essere colto dalla lettura diretta dei passaggi argomentativi del provvedimento (da p. 754) ed è relativo, come anticipato, alle fibrillazioni che seguirono alla circolazione, per iniziativa di CICERO e VENTURI, di alcuni link di articoli improntati ad una forte critica nei riguardi di MONTANTE, link che erano finiti anche nelle mani della moglie di DE ANGELIS e dello stesso MONTANTE. Ciò, in particolare, aveva fatto insinuare il dubbio, nel foro (non troppo) interno di MONTANTE, che Rosaria SANFILIPPO avesse potuto concorrere nell'attacco alla sua persona, tradendo il vincolo fiduciario: Un'ulteriore conversazione telefonica estremamente rilevante ai fini che qui interessano è quella che veniva intercettata il 19 luglio 2016 (della quale, anche in tal caso, si è dato conto in precedenza) ed intervenuta, questa volta, tra il DE ANGELIS ed il DI SIMONE. In tale occasione, infatti il DI SIMONE evidenziava al DE ANGELIS che: alcuni giorni prima “Lilli” gli aveva segnalato due articoli - che si erano poi rivelati i primi di una lunga serie - mettendolo sull'avviso che dietro agli stessi vi fosse la regia dei “due che sappiamo noi ” e che il DI SIMONE indicava come “quello suo e l'altro, il pentito ” (individuabili, come si dirà, in Alfonso CICERO e Marco VENTURI). Costoro, a dire sempre del DI SIMONE, avevano dapprima fornito il materiale utile alla loro pubblicazione e, successivamente, avevano diffuso i link relativi al loro contenuto via e-mail o via whatsapp ad una “pletora di gente ” tra i quali anche qualcuno che erroneamente avevano reputato dalla loro parte, ma che, in realtà, aveva poi informato dell'opera di diffusione che stavano facendo “il destinatario ” degli articoli medesimi e cioè il MONTANTE; il “destinatario”, a quel punto, si era chiesto “ma com'è che è arrivata questa cosa...minchia guarda che stanno facendo tutto sto bordello di qua e di la... " e, sempre dal tenore complessivo delle parole pronunciate dal DI SIMONE, si riusciva anche a comprendere che, in relazione a quella vicenda, “il destinatario” (id est sempre il MONTANTE) aveva pure per qualche momento dubitato dell'affidabilità della stessa “Lilli” e, dunque, di riflesso del DE ANGELIS, posto che, come si dirà, “Lilli” altri non è che SANFILIPPO Rosaria, moglie del DE ANGELIS medesimo.

Ci si permette di osservare che le circostanze rappresentate dal DI SIMONE al proprio interlocutore corrispondono in maniera esatta all'usuale schema comportamentale del MONTANTE, laddove si tenga in considerazione che, come evidenziato in precedenza, la SANFILIPPO, proprio su input dell'imprenditore nisseno, era stata chiamata da Alfonso CICERO a collaborare con la sua persona allorché si era insediato come Commissario straordinario dell'IRSAP. Sicché, può dirsi perfettamente coerente alla logica di pensiero del MONTANTE (impregnata, come già ampiamente illustrato in precedenza, di un diffuso sospetto verso chi lo circonda e dalla continua pretesa di una netta presa di posizione in suo favore  contro i suoi “nemici”, da parte di coloro che reputa più vicini) il fatto che questi abbia potuto dubitare della SANFILIPPO in virtù dello stretto rapporto che in passato aveva avuto con chi, in quel momento, giudicava di certo come un proprio avversario e cioè Alfonso CICERO; ebbene, proprio la situazione che si era venuta a creare costituiva, a dire del DI SIMONE, il motivo per il quale questi aveva contattato il DE ANGELIS, cui infatti chiedeva di interessare “Lilli” per verificare se avesse “una mail dalla quale risulta l'origine che viene dal suo...perché dell'altro non lo può avere...ma del suo...che (inc) che la mano è sua”. In altre parole, il DI SIMONE chiedeva al DE ANGELIS di poter avere da “Lilli” la mail che le era giunta - nella quale erano contenuti i link degli articoli che gli aveva poi lei stessa segnalato per prima - al fine di poter avere la prova tangibile che a diffonderne il contenuto erano stati il CICERO ed il VENTURI, circostanza che il DI SIMONE reputava peraltro pacifica, poiché confermatagli da numerose persone che lo avevano contattato per rappresentargli la situazione. Il DI SIMONE evidenziava anche che si trattava di un accertamento da fare “in maniera ovviamente del tutto riservata e tutelata ” sottolineando al DE ANGELIS - che chiedeva se necessitasse un “verbale di sommarie informazioni ” (pare di comprendere che si trattasse di una vera e propria attività d'indagine) – che occorrevano delle dichiarazioni “...spontanee e secretate...”. Il DI SIMONE chiariva anche al DE ANGELIS - e si tratta della parte della conversazione maggiormente rilevante ai fini che qui interessano - che l”inoltro di quella mail da parte di “Lilli” gli serviva in particolare per “smentire... a me personalmente questa cosa mi fa gioco per smentire quello che tu sai...quello che abbiamo parlato._.ti ricordi? Perché laddove ci fosse l'un per cento del dubbio sulla affidabilità o sul fatto che faccia parte della squadra...questo dubbio io lo...Lo fuggo, bravo...lo fugo...lo fugo e c'u 'mpiccicu nta facci e ci dicu "I miei non sono i suoi! I miei su mia! E iu sugnu sicuru ca a mia un mi tradi'sciunu... "....lasciamelo dire... ”. Le parole del DI SIMONE venivano, poi, confermate anche dal DE ANGELIS, il quale - ad ulteriore riprova dell'atteggiamento di assoluta “fedeltà” al DI SIMONE ed al MONTANTE - si chiedeva come potessero essere stati il CICERO ed il VENTURI tanto sprovveduti da inviare una mail contenente il link degli articoli riguardanti il MONTANTE anche alla moglie Rosaria, pur conoscendo il rapporto estremamente stretto che li lega allo stesso DI SIMONE ed essendo, perciò, di certo prevedibile, che costui venisse immediatamente informato di quanto stesse avvenedo. […] Per mera completezza, va osservato che “Lilli” si identifica con certezza nella predetta Rosaria SANFILIPPO, laddove si consideri che:

il DI SIMONE, nella telefonata appena riportata, evidenziava al DE ANGELIS che non si sarebbe permesso di chiedere alcunché alla donna prima di averne parlato con lui, a dimostrazione dello stretto legame che di certo doveva esistere tra i due;

la SANFILIPPO è, allo stato, ancora dipendente dell'IRSAP e nel sito di detto ente è ricavabile la mail dalla stessa utilizzata (++++++@+++++++) che dimostra come la donna sia comunemente chiamata con il soprannome di “Lilla”, del tutto assimilabile, cioè, al diminutivo utilizzato dal DI SIMONE nella telefonata che qui viene in rilievo;

infine, l'individuazione di “Lilli” nella SANFILIPPO rende anche coerente e perfettamente comprensibile il passaggio della conversazione in cui il DI SIMONE indicava una delle due persone sospettate di aver diffuso gli articoli sul conto del MONTANTE come “quello suo ", alludendo, cioè, al già descritto rapporto di collaborazione tra la stessa SANFILIPPO ed il CICERO allorché questi divenne Commissario straordinario dell`IRSAP_ Facile concludere come l'altro soggetto - “il pentito ” cioè - dovesse identificarsi, secondo le parole utilizzate dal DI SIMONE, in Marco VENTURI.

Va altresì rilevato che gli articoli di stampa cui faceva riferimento il DI SIMONE possono individuarsi, con ragionevole certezza, in quelli pubblicati sul giornale on-line “Sicilia Cronaca” in data 8.7.2016 ed in data 14.7.2016 intitolati rispettivamente “Il presunto mafioso Antonello Montante chiama, l'assessora regionale Mariella Lo Bello risponde ed il 5 luglio si precipita a Caltanissetta” e “Cavalier Montante, mafioso o no, ma mizzica, la Vancheri, sua ex donna tuttofare, mentre era assessora regionale, quante vacanze “intelligenti ” si è fatta, a spese di noi cretini?” (cfr. all. nr. 159 - n.2 articoli di giornale). Trova, inoltre, conferma l”ulteriore circostanza indicata dal DI SIMONE al DE ANGELIS secondo cui, in relazione agli articoli in questione, si stesse “procedendo legalmente ”, come desumibile dalla conversazione telefonica intercorsa, il giorno precedente, tra lo stesso DI SIMONE ed il MONTANTE (si tratta della conversazione in precedenza riportata allorché si è trattato degli accertamenti chiesti dall'imprenditore di Serradifalco sul numero “Wind” poi effettuati dal PERNICIARO) con la quale lo stesso MONTANTE si doleva della lentezza con la quale si stesse affrontando la questione relativa alla denuncia che egli intendeva sporgere. Orbene, prescindendo dal merito della questione, in verità un po' stucchevole, trattata dal DI SIMONE nella telefonata in questione, ciò che più interessa in questa sede è la perfetta consapevolezza che traspare dalle parole da questi pronunciate di poter disporre di “una squadra composta da soggetti di sua completa fiducia e che aveva poi introdotto nella sfera orbitante attorno al MONTANTE sapendo che costoro non avrebbero mai “tradito” (“I miei non sono i' suoi/ I miei su mia! E iu sugnu sicuru ca a mia un mi tradísciunu..."…”). In altre parole, è lo stesso DI SIMONE a fornire una inoppugnabile conferma dell'esistenza di un contesto stabilmente legato, attraverso la sua persona, al MONTANTE sin dal momento in cui egli era transitato in Confindustria nazionale e del quale fanno certamente parte, per ciò che si è potuto accertare dalle indagini sin qui svolte, il DE ANGELIS ed il GRACEFFA con il preciso compito di attingere, abusando delle possibilità offerte dall'appartenenza alla Polizia di Stato, informazioni di natura riservata da riversare poi all'imprenditore di Serradifalco. […] In realtà, negli articoli individuati dagli inquirenti, pubblicati nel giornale on-line Sicilia Cronaca, in data 8.7.2016 ed in data 14.7.2016 intitolati rispettivamente “Il presunto mafioso Antonello Montante chiama, l'assessora regionale Mariella Lo Bello risponde ed il 5 luglio si precipita a Caltanissetta” e “Cavalier Montante, mafioso o no, ma mizzica, la Vancheri, sua ex donna tuttofare, mentre era assessora regionale, quante vacanze “intelligenti ” si è fatta, a spese di noi cretini?”, non pare potersi ravvisare alcuna offesa diretta contro Confindustria. D'altra parte, deve ritenersi che gli inquirenti abbiano correttamente individuato gli articoli in questione, atteso che CICERO, nel corso del suo esame, ha confermato che si trattava di articoli imperniati intorno al baricentro comune della critica a MONTANTE, escludendo, al contempo, che essi potessero riguardare Confindustria in quanto tale ("No, riguardavano Montante in modo preciso, alle sue vicende giudiziarie, i sospetti che venivano evidenziati su diversi affari, che riguardava Catanzaro, quindi, i rifiuti, che riguardava la Vancheri, che... cioè, c'era una serie di articoli che riguardavano proprio vicende giudiziarie, sospetti, il potere presso l'assessorato regionale delle attività produttive, l'incidenza presso le aree industriali della Sicilia."; cfr. esame del 16 marzo 2019, p. 41).

Volendo, del resto, accreditare la tesi contraria, secondo cui gli articoli circolati riguardavano Confindustria, apparirebbe priva di qualsiasi logica proporzionale l'accensione emotiva di DE ANGELIS a fronte di una ipotetica critica rivolta ad una organizzazione, per la quale, a ben vedere, DI SIMONE neppure lavorava direttamente (egli, infatti, come più volte ricordato, era dipendente della società AEDIFICATIO, che eroga il servizio della sicurezza per Confindustria). E' dunque evidente come DE ANGELIS non fosse affatto un corpo estraneo al meccanismo reticolare che ruotava intorno a MONTANTE, diversamente non potendosi spiegare la sua reazione alla circolazione di articoli critici verso quest'ultimo e al fatto che la propria moglie, assurta a segretaria di CICERO grazie all'intercessione dello stesso MONTANTE, potesse essere sospettata ingiustamente, proprio da quest'ultimo, di intelligenza con il nemico (ossia VENTURI e CICERO). Altro punto della conversazione sopra riportata, oggetto di dibattito nel corso del giudizio, ha riguardato il significato da attribuire all'utilizzo, ad opera di DI SIMDNE e con l'approvazione di DE ANGELIS, delle espressioni "miei" e "suoi" riferite a gruppi di persone facenti parte di una “squadra": […]. Per l'accusa il registro espressivo dei loquenti dimostrerebbe la comune appartenenza di DE ANGELIS e DI SIMONE all'associazione a delinquere diretta da MONTANTE, mentre per la difesa proverebbe l'esatto contrario: nella contrapposizione tra i “miei” e i "suoi" si anniderebbe la mancanza di una organizzazione e di uno spirito associativo comune. In realtà, una lettura integrale della conversazione e l'analisi del riferimento alla comune appartenenza ad una "squadra" lasciano intendere la presenza, all'interno di un'unica aggregazione di persone, di gruppi diversi, in quanto diverso ne è il canale di reclutamento: DE ANGELIS, per esempio, è un adepto accreditato da DI SIMONE, e non “selezionato” direttamente da MONTANTE. Tuttavia, non è possibile escludere, nella specie, una lettura “laica” del termine "squadra" impiegato da DI SIMONE, atteso che esso, effettivamente, può essere inteso quale declinazione sinonimica di gruppo o sistema di potere, anche di tipo lobbistico, ma non necessariamente orientato alla commissione di reati. Prova ne sia che, seguendo il vettore logico del discorso fatto dagli interlocutori, i traditori dovrebbero identificarsi in CICERO e VENTURI, le cui fortune di carriera erano certamente legate a MONTANTE e che, con un inaspettato revirement, lo avevano aspramente criticato, esponendo le sue malefatte alla magistratura. Ma a loro né DE ANGELIS né DI SIMONE sembrano attribuire alcuna condotta associativa, ma al più una pregressa militanza nella “squadra”, poi abbandonata. Tale argomentazione, dunque, legittimerebbe l'attribuzione, alla parola “squadra”, di un significato sfrondato da connotazioni criminologiche. Tuttavia, occorre domandarsi cosa ci facesse DE ANGELIS in quella "squaclra": a differenza di VENTURI, egli non aveva presieduto camere di commercio e non era stato assessore regionale; a differenza di CICERO, egli non aveva neppure presieduto consorzi ASI ed I.R.S.A.P. Aveva, però, effettuato numerosissimi accessi abusivi allo S.D.I. e, per quella via, era entrato a fare parte della "squadra", ossia di un gruppo di potere che perseguiva la scalata economica e sociale con metodi illeciti. Del resto, l'elevato numero di accessi abusivi allo S.D.I. (quelli compiutamente disaminati dal P.M., come confermato da DE ANGELIS nel corso del proprio esame, costituiscono soltanto dei "campioni" tratti da una più ampia collezione di dati coltivata da MONTANTE) non pare potere giustificare la sussunzione delle condotte illecite nel più semplice prototipo del concorso di persone nel reato. Infatti, appaiono sintomi rivelatori dell'esistenza di uno stabile apparato organizzativo il compimento di un numero elevato di accessi abusivi alla banca dati della polizia, la elongazione temporale del periodo esecutivo (dal mese di novembre 2009-2016), ma soprattutto la mancata predeterminazione quantitativa degli accessi da espletare: essi venivano compiuti tutte le volte in cui MONTANTE, per svariate ragioni che maturavano via via nel corso del tempo (contrasti all'interno di Confindustria, critica giornalistica o altro), avvertisse l'esigenza di spiare taluno. Inoltre, il sodalizio non si scioglieva dopo l'esecuzione di un numero determinato di reati programmati (es. accesso sugli avversari in Confindustria), ma rimaneva silente, in attesa che sorgesse la necessità di compiere altri accessi abusivi. 

Carmelina e la caccia alle microspie. La Repubblica il 19 novembre 2019. Carmelina Giardina, la segretaria "tuttofare” del Cavaliere Montante. Altro capitolo della vicenda MONTANTE è quello relativo alle attività di bonifica dallo stesso fatte eseguire nella sua abitazione, nelle vetture dei suoi più fidi collaboratori (GIARDINA e V. MISTRETTA) e in diverse sedi di Confindustria da parte della ditta CALI' SERVICE s.r.l., di cui sono soci i fratelli Salvatore ed Andrea CALI' (oltre a Pietro COSTANZA, soggetto estraneo al processo). Tali bonifiche risultano essere state compiute in concomitanza con la progressione investigativa che riguardava il potente industriale, e, in particolare, con l'emersione di un importante segmento dell'inchiesta, relativo ai contatti e alle convergenze operative tra l'imprenditore di Serradifalco e l'ufficiale dei carabinieri Col. Giuseppe D'AGATA. Una ulteriore concomitanza si registrava tra l'esecuzione delle bonifiche e le gravi rivelazioni dei segreti d'ufficio relative alla medesima inchiesta, per cui sono imputati, oltre ad Andrea GRASSI, altri soggetti per i quali si procede separatamente, ossia Andrea CAVACECE, Angelo CUVA e Renato SCHIFANI. Sullo svolgimento illecito di tali bonifiche - illeicità confermata dalla omessa denuncia delle microspie rinvenute - non occorre soffermarsi diffusamente, trattandosi di capi di imputazione che, in ragione della scissione dell'originario procedimento penale in riti diversi, sono fuoriusciti dal perimetro dell'odierno giudizio. E tuttavia, all'esclusivo fine di consentire la formazione di una visione completa degli eventi e non spezzarne la continuità logico-cronologica, appare opportuno ricordare quanto ricostruito dagli investigatori sul punto, al fine di verificarne, incidenter tantum, la tenuta processuale. Il primo, fondamentale, elemento di prova emerge dalla intercettazione di una conversazione, intrattenuta mediante utenze riservate (al riguardo, cfr. C.N.R. n. 1092/2017 cit., da p. 525), da MONTANTE e DI SIMONE in data 23 febbraio 2016. Invero, come emerge dalla C.N.R. n. 1092/2017 (p. 526), “Entrando nel merito delle attività tecniche, in data 23.2.2016, il DI SIMONE PERRICONE Diego avvisava il MONTANTE di qualche problematica che era insorta mentre i dipendenti della ditta CALI' SERVICE si stavano recando presso la sua abitazione, per effettuare una bonifica all'interno della abitazione del MONTANTE. In particolare, alle ore 08.30, nella conversazione progr. 381 DI SIMONE PERRICONE Diego e gli riferiva che loro hanno avuto difficoltà a entrare e quindi "tiraru drittu" e si sono recati al bar per un caffè. MONTANTE rispondeva di trovarsi davanti al cancello e di non aver notato niente, quindi non capiva cosa volessero dire queste terze persone. Il DI SIMONE PERRICONE Diego si riprometteva di richiamare subito questi soggetti e MONTANTE ribadiva nell'occasione le sue perplessità sul fatto che "loro non potevano entrare''. [...]"Alle successive ore 08.39 - così prosegue l'informativa citata – veniva registrata la conversazione progr. 382 PERRICONE Diego rassicurava il MONTANTE che quelli stavano per arrivare; il MONTANTE chiedeva dettagli su quanto accaduto e se c'era qualche problema ed il DI SIMONE PERRICONE replicava che evidentemente avevano visto qualcosa che gli avrebbero spiegato di presenza. Al che il MONTANTE diceva che non avevano segreti da nascondere e che dovevano fare un lavoro tecnico. I/ DI SIMONE PERRICONE precisava al MONTANTE di aver detto a quello di andarci, aggiungendo di aver capito cosa c'era, cosa che gli avrebbe spiegato la persona che stava per arrivare a casa del MONTANTE". […]. Orbene, come si evince dall'informativa richiamata, alle ore 08.47 varcava il cancello della villa di MONTANTE (progr. video n. 141), uscendovi alle ore 14.40, un'autovettura intestata a Salvatore CALI', socio del fratello Andrea e di Pietro COSTANZA nella ditta CALI' SERVICE s.r.l., avente sede a Palermo e con oggetto sociale individuato nella costruzione, installazione, riparazione, manutenzione e modifica di apparecchi elettrici, elettronici e di telecomunicazione, di tipo informatico, etc., nonché, tra l'altro, nei servizi di investigazione privata, ossia di una ditta abilitata anche all'esecuzione di attività d'intercettazione per conto dell'autorità giudiziaria. Gli eventi accaduti tra l'ingresso e l'uscita della vettura dei CALI' dalla villa di MONTANTE sono descritti nell'ordinanza cautelare (da p. 766) in termini assolutamente coerenti alle risultanze investigative, compendiate nell'informativa menzionata (da p. 529). Di seguito, la parte dell'ordinanza testé citata: Ebbene, ciò che veniva captato quella mattina dalle microspie installate nell'abitazione del MONTANTE non lasciava adito ad alcun dubbio sul fatto che fosse stata eseguita una bonifica al suo interno, in quanto:

si poteva percepire che coloro che vi avevano fatto ingresso avessero operato proprio vicino agli apparati di captazione, i quali, dopo essere stati rinvenuti e, con ragionevole certezza, anche fotografati, non erano però stati rimossi;

in alcuni tratti, benché i presenti parlassero a bassa voce e fosse stata anche accesa la radio ad alto volume all'interno della casa, si poteva udire il MONTANTE fare riferimento a due che potevano essere in grado di fare “questo lavoro”, alludendo, a parere di questo Ufficio, ai soggetti che avevano eseguito la perquisizione all'interno di quella casa circa un mese prima;

inoltre, in altro tratto della conversazione, si poteva altresì percepire il MONTANTE riferire ai presenti “però quello che mi hanno detto è che le hanno messe”.

Ebbene, le parole pronunciate nell'occasione dall'imprenditore di Serradifalco lasciano fondatamente ipotizzare come la richiesta di intervento, per il tramite del DI SIMONE, di soggetti esperti come quelli impiegati nella CALI” SERVICE non sia stata casuale o formulata a scopo meramente preventivo, quanto piuttosto appositamente pianificata in conseguenza delle notizie che il MONTANTE aveva ricevuto sul fatto che “le avevano messe”. Si tratta di altra circostanza che dimostra la pervasività dei contatti che l'odierno indagato è riuscito a tessere nel corso degli anni e che, all'evidenza, si erano attivati per dispiegare la loro rete protettiva onde metterlo sull'avviso delle attività tecniche che questo Ufficio era riuscito ad attivare all'interno della sua abitazione, come peraltro risulterà oltremodo chiaro allorché si passerà ad affrontare la tematica relativa ai rapporti intrattenuti dal MONTANTE con esponenti dei Servizi di informazione e Sicurezza. [...]Ulteriore conferma al fatto che le operazioni condotte quel giorno fossero state abbondantemente pianificate si trae dal fatto che, sempre dalla telecamera installata innanzi all'abitazione del MONTANTE, si aveva modo di notare accedere all'interno della proprietà dapprima (alle ore 8.49) GIARDINA Carmela a bordo della sua autovettura e, successivamente (alle 9.43), MISTRETTA Vincenzo, del pari a bordo della sua macchina. Ebbene, prima che l'autovettura intestata al CALI” lasciasse la villa di Serradifalco si potevano percepire rumori nelle vicinanze delle microspie installate all'interno di entrambi i mezzi in questione, che lasciavano fondatamente ipotizzare come anche le autovetture della GIARDINA e del MISTRETTA fossero state, nell'occasione, debitamente controllate alla ricerca di possibili apparati di captazione ivi occultati. Nel pomeriggio di quel giorno, poi, all'interno dell'autovettura della moglie del MISTRETTA (COSTA Rosaria) si poteva udire lo stesso MISTRETTA compiere operazioni proprio nei pressi dell'apparato di intercettazione ivi installato. […] A questo punto appare possibile effettuare una ricostruzione ragionata degli eventi accaduti il 23 febbraio 2016 ed in specie:

prima di quel giorno il MONTANTE, attraverso le entrature di cui dispone, era venuto a conoscenza, come meglio si dirà in seguito allorché si tratterà dei rapporti intrattenuti con esponenti dell'A.I.S.I., che le indagini condotte da questo Ufficio nei suoi confronti si stavano ampliando e che in particolare stavano riguardando anche la natura dei rapporti intrattenuti col Colonnello Giuseppe D'AGATA, anche attraverso attività d'intercettazione eseguite in direzione di quest'ultimo;

avvalendosi delle conoscenze di Diego DI SIMONE, il MONTANTE aveva pianificato l'esecuzione di accurate attività di bonifica, estese anche ai suoi più stretti collaboratori (Carmela GIARDINA e Vincenzo MISTRETTA) ed il DI SIMONE aveva incaricato allo scopo i responsabili della ditta CALI' SERVICE, con i quali aveva ragionevolmente instaurato rapporti quando svolgeva servizio alla Questura di Palermo;

attorno alle ore 8.20 del 23 febbraio 2016 i dipendenti della ditta in questione giungevano nei pressi dell'abitazione di Serradifalco, ove, però, inizialmente reputavano opportuno non accedere e tirare dritto. Si è trattato di un qualche imprevisto della cui esatta natura non è possibile sapere, anche se si può ipotizzare - senza pretese di certezza alcuna - che i due CALI” si fossero essersi accorti della telecamera installata dalla P.G. nei pressi dell'abitazione del MONTANTE;

ne seguiva un frenetico giro di telefonate tra Salvatore CALI', il DI SIMONE ed il MONTANTE (tra le 8.26 e le 8.42) e, dopo essere stati rassicurati dal MONTANTE medesimo (attraverso Diego DI SIMONE), Salvatore ed Andrea CALI' facevano ingresso, alle ore 8.47, all'interno della proprietà del MONTANTE ove rimanevano sino alle successive ore 14.40. In tale lasso di tempo, alla presenza dello stesso MONTANTE, davano corso alle operazioni di bonifica, poi estese anche alle autovetture della GIARDINA e del MISTRETTA, nel frattempo sopraggiunti nella casa dell'imprenditore di Serradifalco.

Mentre erano ancora in corso le operazioni in questione - e una volta appurato che, effettivamente, all'interno della casa erano installate delle microspie – il MONTANTE (allo ore 12.43 e 12.48) interloquiva con Antonella NIGRO all'evidente scopo di precostituirsi documentalmente una giustificazione all'accesso, quel giorno, dei dipendenti della CALI' SERVICE a1l'interno della sua abitazione.

Sono molteplici gli elementi che inducono a ritenere la perfetta consapevolezza in capo a tutti i protagonisti della vicenda in questione del fatto che, quel giorno, si dovessero compiere operazioni aventi come precipuo scopo quello di verificare l'esistenza di indagini di natura tecnica attivate da questo Ufficio all'interno dell'abitazione del MONTANTE. […] Ad ulteriore sostegno di quanto si sta sostenendo - e, dunque, della non casualità dell'intervento eseguito nell'abitazione di contrada Altarello, ma della programmata pianificazione dello stesso - giungono ulteriori elementi desumibili dal file excel, ove, nella cartella denominata “TUTTI” sono annotate altre visite di Salvatore CALI' presso l'abitazione di contrada Altarello ed in specie: 28/09/2015 | ore12,00 Calì Altarello […] In questa sede appare sufficiente evidenziare che:

già da epoca precedente al periodo in cui ha annotato la presenza del CALI' nella casa di Serradifalco, il MONTANTE iniziava a porre in essere una serie di cautele che costituivano il frutto di una grave fuga di notizie sul fatto che, nell'ambito del procedimento che lo vedeva indagato presso questa D.D.A., erano in corso attività di intercettazione;

il considerevole lasso di tempo in cui, in quella circostanza, il CALI' permaneva all'interno dell'abitazione di Serradifalco, sta ad ulteriormente testimoniare la bontà di ciò che si va sostenendo, trattandosi di un arco temporale di certo indicativo dell'esecuzione di attività di bonifica esattamente eguali a quelle accertate nel febbraio dell'anno seguente;

anche nel 2015 - così come avvenuto nel 2016 - il CALI' eseguiva bonifiche, questa volta cartolarmente giustificate, in altre sedi di CONFINDUSTRIA abitualmente frequentate dal MONTANTE.

Inoltre, a ben vedere, un intervento di bonifica eseguito dal CALI” (nel maggio del 2015) prima di quello inequivocabilmente accettato il 23 febbraio 2016 può ben spiegare, da un punto di vista logico, le ragioni per le quali il MONTANTE, dopo le perquisizioni eseguite il 22 gennaio 2016, chiedesse alla GIARDINA (in data 26 gennaio 2016) notizie su come si fossero mossi i poliziotti durante le operazioni eseguite all'interno della sua abitazione, evidentemente perché consapevole che, prima di quel momento, quei locali erano al riparo da qualsivoglia apparato di intercettazione.

La GIARDINA, in quella occasione, lo aveva ampiamente rassicurato dicendogli che potesse “stari no cuietu, di più”, sicché, anche in tal caso, trova logica spiegazione la circostanza per cui il MONTANTE non avesse provveduto a far bonificare l'abitazione subito dopo il compimento dell'attività da parte della polizia giudiziaria ed aveva poi atteso un mese prima di dare mandato al CALI' nei termini di cui si e detto, alla cui decisione era giunto anche perché - come desumibile dalle parole dello stesso MONTANTE - glielo avevano detto. […] Ora, alla luce di quanto emerso nelle indagini e sopra riportato, non può mettersi in dubbio che MONTANTE, tramite i suoi più stretti collaboratori, ed in primis DI SIMONE, avesse organizzato la bonifica da possibili microspie della propria villa, eseguita in data 23 febbraio 2016, e, poco dopo, di alcune sedi di Confindustria, tra cui quella di Palermo e di Roma. Appare, dunque, evidente come il tentativo di creare false piste documentali per accreditare l'idea di interventi tecnici di altra natura - installazione dì antifurti O generiche consulenze tecniche aziendali (il termine "consulenza", nella prassi criminologica, è talmente abusato da risultare affetto da un forte logorio semantico con seria compromissione di ogni capacità definitoria) – è sventato dalle evidenze offerte dalle intercettazioni delle comunicazioni tra gli indagati (oggi imputati), benché ostacolate dalla pratica delle intestazioni fittizie delle sim. Solo per esemplificare, la descritta esitazione - restituita dalle conversazioni intercettate di cui sopra - dei fratelli CALI' ad entrare nella villa di c.da Altarello di MONTANTE, ove gli stessi si stavano recando per la bonifica al domicilio di quest'ultimo, sono ovviamente correlate alla percezione della presenza di una telecamera su un palo della luce in prossimità della villa, ciò che appare altamente suggestivo della consapevolezza, da parte dei tecnici, che l'intervento di bonifica, che era stato loro richiesto, servisse a rilevare la presenza di eventuali strumenti di captazione installati dagli inquirenti. Infatti, le giustificazioni rese da Andrea e Salvatore CALI' nel corso dei rispettivi interrogatori (svoltisi entrambi in data 6 settembre 2018), oltre a risultare tra loro divergenti, non sono assolutamente verosimili e appaiono in contrasto con altre evidenze investigative:

1) per Salvatore CALI', egli e il fratello non erano entrati subito nella villa di MONTANTE soltanto perché avevano errato nell'individuazione dell'abitazione, ma tale spiegazione è smentita dalle parole pronunciate da DI SIMONE al telefono con il predetto MONTANTE, secondo cui i due tecnici avevano tirato dritto anziché entrare nella villa, perché "[...] Significa che hanno visto qualcosa che io... ”;

2) per Andrea CALI' essi avevano effettivamente notato un'anomalia sul palo della luce - esattamente “una sovralimentazione e [...] una scatola” - che tuttavia, a suo dire, non doveva necessariamente significare la presenza di una videocamera, potendosi semplicemente trattare di un meccanismo volto alla commissione di un furto di energia elettrica o di un ripetitore abusivo di wireless.

Ma se così fosse, sarebbe interessante capire perché l'eventuale constatazione di un furto di energia elettrica o della presenza di un ripetitore wireless abusivo in prossimità della villa di MCJNTANTE avrebbe dovuto provocare la loro decisione di tergiversare prima di entrare e, addirittura, di tirare dritto prima che DI SIMONE li convincesse a tornare indietro. Il punto è che la divaricazione narrativa dei due fratelli in ordine alla medesima circostanza è la manifestazione più eclatante del loro tentativo, malriuscito, di mascherare la loro effettiva conoscenza delle reali finalità per le quali avevano esperito gli interventi di bonifica, dovendosi piuttosto ritenere, coerentemente con l'assunto accusatorio, che essi, avendo percepito la presenza di una telecamera fuori della villa e, pertanto, il rischio di essere ripresi (agli atti, infatti, le immagini della vettura dei fratelli CALI' che fa ingresso nell'abitazione di MONTANTE), avessero esitato fino a quando l'ignaro DI SIMONE, sollecitato dall'altrettanto ignaro MONTANTE, non li aveva convinti a rompere gli indugi e ad entrare. Ovviamente, non si intende, in questa sede, pregiudicare la posizione processuale dei CALI', oggetto di accertamento innanzi ad altro giudice, quanto chiarire i contorni della vicenda delle bonifiche per la refluenza che essa spiega nel presente giudizio.

Come incastrare il giornalista. La Repubblica il 20 novembre 2019. […] Per fini di coerenza argomentativa, occorre passare ad esaminare un altro caso di bonifica, stavolta meramente simulata, avente, come vedremo, uno scopo del tutto diverso da quello fin qui illustrato.

§ 2.1. L'antefatto. Il tema oggetto di enucleazione è quello della esecuzione, su disposizione di MONTANTE, di una bonifica fittizia, diretta a simulare uno spionaggio nei riguardi di Confindustria Centro Sicilia, di cui all'epoca dei fatti era presidente Marco VENTURI e direttore Carlo LA ROTONDA (nei confronti del quale si procede separatamente). Una simulazione che, soltanto per la mancata accondiscendenza di VENTURI, non trascendeva in una calunnia in danno del giornalista Gianpiero CASAGNI. Al fine di comprendere i termini della vicenda, giova riallacciarsi ad alcuni fatti precedenti, di cui si è detto in altra parte del presente atto (vd. Sezione seconda, cap. V, § 4.7.5). Orbene, si ricorderà senz'altro come il 2 maggio 2014 CASAGNI avesse contattato il direttore di Panorama, ora parlamentare di Forza Italia, On. Giorgio MULE', proponendogli di pubblicare un articolo sui rapporti tra MONTANTE e il boss mafioso, suo compaesano, Vincenzo ARNONE. Nell'occasione il giornalista aveva anche informato il direttore della rivista che egli era in possesso di documentazione di Confindustria, che dimostrava il percorso, certamente non encomiabile per MONTANTE, attraverso il quale l'esponente di Cosa Nostra V. ARNONE era stato accreditato all'interno dell'associazione degli industriali, fino a diventarne un componente. MULE', anziché perseguire l'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti, aveva rivelato tutto a MONTANTE, il quale, pertanto, quale misura di sterilizzazione delle future denunce mediatiche di CASAGNI, aveva deciso di indicare quest'ultimo - mediante un esposto “anonimo” - quale "uomo vicino alla mafia nissena e in particolare a Di Vincenzo Piero, Tullio Giarratano, Umberto Cortese, Ivan Rando e Michele Tornatore, tutti associati e vicini alla famiglia Madonia unico filo conduttore e altri .... ..", attribuendogli un concorso nella presunta strategia industriale reazionaria, asseritamente sostenuta da DI VINCENZO in contrapposizione con l'azione riformatrice legalitaria propugnata dallo stesso MONTANTE. L'esposto, giunto il 18 marzo 2015 nella sede nissena di Confindustria Centro Sicilia, era stato immediatamente consegnato agli inquirenti dal suo direttore, Carlo LA ROTONDA, il quale si era premurato di precisare spontaneamente alla polizia giudiziaria che, secondo l' “ignoto” autore, CASAGNI era stato "ingaggiato per distribuire carte e documenti sottratti [...] a Confindustria". [...]L'esposto, peraltro, non era stato inviato a Confindustria Centro Sicilia - per poi essere consegnato alla polizia giudiziaria - in un momento qualsiasi, ma poco dopo l'effettiva accesso di CASAGNI, per motivi professionali, nei locali nisseni della predetta associazione. Quest'ultimo, infatti, escusso a sommarie informazioni il 26 settembre 2015, confermava di avere fatto ingresso nei locali di Confindustria Centro Sicilia, in epoca antecedente e prossima alle festività pasquali del 2015, allo scopo di acquisire informazioni in merito al P.O.N. sicurezza e di accertare che, all'interno della predetta sede, operasse lo sportello legalità. L'accesso negli uffici confindustriali, in particolare, era avvenuto il venerdì o il lunedì precedente al 12 marzo 2015 - data in cui lo stesso aveva pubblicato sul settimanale Centonove l'articolo "Confindustria che bel PON PON di legalità" - e, dunque, il 6 o il 9 marzo 2015. Con il senno processuale di poi è possibile ritenere che la data esatta fosse quella del 6 marzo 2015, tenuto conto di quanto annotato nel file excel di MONTANTE, il quale, evidentemente, era interessato alla visita di CASAGNI nei locali associativi: […]. Tali circostanze inducono a ritenere che l'ingresso di CASAGNI presso Confindustria Centro Sicilia non fosse stato affatto clandestino o “strano”, per usare l'espressione di MONTANTE, ma avesse perseguito l'unico scopo di raccogliere informazioni da utilizzare per la stesura dell'articolo che il predetto giornalista da lì a poco avrebbe pubblicato. E' utile, a questo punto, rammentare quanto già spiegato antea circa l'emersione di una circostanza che dimostra, con ragionevole certezza, la provenienza dell'esposto da MONTANTE. Infatti, il 13 marzo 2015, ossia qualche giorno dopo l'accesso di CASAGNI nei locali associativi e cinque giorni prima dell'arrivo dell'esposto, era stata captata una conversazione (progr. n. 32 delle ore 11.30 del 13 marzo 2015), intercorsa tra MONTANTE e il suo fedelissimo Vincenzo MISTRETTA, che restituiva i commenti del primo circa l'esistenza di presunti elementi indiziari sulla vicinanza di CASAGNI a Cosa Nostra (“elementi pazzeschi si pensa che sia un avvicinato a...a cosa nostra"). Tali commenti, che non hanno mai avuto riscontro di veridicità in sedi investigativo-processuali, si rivelavano straordinariamente “predittivi” del contenuto dell'esposto, sicché, unitamente all'intenzione calunniatrice partorita da MONTANTE nei confronti di CASAGNI nella vicenda di cui ci andremo ad occupare, dimostra come allo stesso MONTANTE fosse da riferire la paternità dell'esposto in questione.

In tale contesto di antagonismo dell'imprenditore di Serradifalco contro il giornalista si inquadra, secondo l'accusa, il tentativo del primo di attribuire al secondo anche un'azione di spionaggio nei confronti dell'associazione degli industriali. […] Il mese successivo rispetto all'arrivo dell'esposto “anonimo” e alle dichiarazioni spontanee di LA ROTONDA testé riportate, MONTANTE e DI SIMONE avrebbero simulato il rinvenimento di una microspia nei locali di Confindustria Centro Sicilia, con la complicità dello stesso LA ROTONDA e di Salvatore CALI', il quale, asseritamente chiamato a risolvere un'anomalia nel funzionamento dell'impianto elettrico, avrebbe "casualmente" rilevato la presenza dello strumento captativo. Il piano criminoso, la cui attuazione sarebbe iniziata durante la temporanea assenza del presidente di Confindustria Centro Sicilia, Marco VENTURI, prevedeva l'attribuzione della responsabilità per il presunto atto di spionaggio a Gianpiero CASAGNI. VENTURI, tuttavia, tardivamente informato da Carlo LA ROTONDA del presunto rinvenimento della microspia e dei sospetti sul giornalista, manifestava subito serie ed oggettive perplessità sulla veridicità di quanto riferitogli, sia per la probabile incapacità tecnica di quest'ultimo di porre in essere un'azione di captazione abusiva sia per una grave anomalia nella condotta di LA ROTONDA, il quale, a seguito di tale presunto rinvenimento, aveva omesso di richiedere l'intervento della polizia giudiziaria. […] E' chiaro come l'antefatto rappresentato supra circa l'esposto anonimo contro CASAGNI avvalora l'intuizione di VENTURI, secondo cui “Ho ricavato l'impressione che tutta questa vicenda fosse stata creata per far apparire il CASAGNI coinvolto in attività di spionaggio del MONTANTE e che la stessa non fosse poi andata in porto per la netta contrarietà che avevo dimostrato”. Ulteriori elementi di asseveramento della credibilità di VENTURI e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni si evincono, come vedremo nei paragrafi che seguono, dalle forti anomalie che avevano contraddistinto lo svolgimento dei fatti, cosi come esposti nella denuncia di LA ROTONDA, dalle modalità di formalizzazione del rapporto tra Confindustria e la ditta CALI' Service e dai contatti telefonici che precedettero l'esecuzione dell'incarico e seguirono al presunto rinvenimento della microspia. […] L'intervento tecnico nei locali confindustriali, che aveva poi portato alla denuncia del presunto atto di spionaggio, risulta documentato in una relazione di operazioni compiute datata 13 aprile 2015, redatta dalla ditta CALI' SERVICE, che giustificava l'espletamento dell'intervento de quo sulla base di un incarico conferito da Confindustria Centro Sicilia con nota prot. n. 69/CL/2015 del 26 marzo 2015 (lettera di incarico acquisita in data 18 ottobre 2016 sia presso la sede confindustriale interessata sia presso la ditta CALI' Service). […] Infine, vi è un ultimo elemento che decreta, irreversibilmente, la reale finalità dell'intervento tecnico eseguito in Confindustria Centro Sicilia: invero, benché la lettera di conferimento dell'incarico, datata 26 marzo 2015, da parte di Confindustria Centro Sicilia in favore della ditta CALI' SERVICE s.r.l., facesse formale riferimento alla verifica della corretta funzionalità dell'impianto elettrico (e di rete e delle relative apparecchiature elettroniche ad essi collegate), così come la fattura pro-forma n. 1 del 27 marzo 2015 rinvenuta presso la ditta menzionata, la copia della medesima fattura acquisita presso la sede confindustriale interessata recava, oltre alla causale formale, l'annotazione a matita "spese per sicurezza", che un'impiegata di Confindustria (Lucia Marina ZACCARIA), prima di essere bloccata dalla polizia giudiziaria, aveva provato a cancellare (cfr. relazione di servizio del 18 ottobre 2016 allegata all'annotazione n. 2340/2016 del 19 ottobre 2016 redatta dalla squadra mobile di Caltanissetta).

Dunque, non può non rilevarsi come l'intervento tecnico fosse stato contrabbandato per verifica dell'impianto elettrico, benché avesse, invece, una causale diversa, diretta alla effettuazione di una bonifica (nel caso di specie, simulata). A riprova di ciò, non ci si può esimere dal rilevare la sussistenza di elementi probatori concreti che inducono a ritenere come la causale della "verifica dell'impianto elettrico” costituisse, per S. CALI', una ordinaria operazione di cosmesi linguistica, tesa ad occultare il reale oggetto del contratto: la ricerca di possibili strumenti di captazione. Tanto si evince dal contenuto di una conversazione telefonica (progr. n. 2174; cfr. all. n. 180 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.), intrattenuta da DI SIMONE e S. CALI' il 12 aprile 2016, nella quale il secondo lamentava con il primo l'ingenuità di un suo cliente, che, parlando con il mezzo del telefono, tendeva a lasciarsi sfuggire le reali finalità dell'intervento tecnico, da identificarsi nell'esecuzione di autentiche bonifiche ("Cioè noi facciamo la verifica dell'impianto, la messa a terra...se tutto funziona, se è regolare...se ci sono corpi estranei, se ci sono situazioni che creano disturbo eccetera eccetera eccetera...e iddu continuava a insistere dicendo...dicendo determinate terminologie no?”), che, però, a suo avviso, dovevano essere spacciate per verifiche dell'impianto elettrico: […]. Sulla scorta di quanto rappresentato, appare financo diseconomico passare in rassegna le dichiarazioni rese da LA ROTONDA in sede di interrogatorio, in quanto esse appaiono, ictu oculi, inattendibili. […] La condotta di LA ROTONDA, se realmente si fosse svolta nei termini descritti, costituirebbe un'autentica aberratio: egli, nella qualità di direttore di Confindustria Centro Sicilia, anziché precipitarsi a segnalare il fatto grave del rinvenimento della telecamera all'organo competente a tutelare la sicurezza dell'associazione degli industriali, avrebbe delegato la segnalazione al tecnico, che è un soggetto completamente estraneo all'associazione medesima. La verità è che LA ROTONDA, sottoposto ad interrogatorio, non è riuscito a districarsi nel labirinto argomentativo nel quale era caduto, non potendo spiegare alcuna delle anomalie, sopra evidenziate, emerse nella ricostruzione del fatto. […] All'esito dell'excursus che precede, è possibile affermare che la denuncia di LA ROTONDA e le dichiarazioni dallo stesso rese nel corso dell'interrogatorio non risultano affatto affidabili. Per converso, non può farsi a meno di rilevare come tutte le scansioni storiche raccontate da VENTURI abbiano trovato puntuale riscontro nelle dichiarazioni e nei documenti acquisiti dalla P.G. e nell'analisi dei tabulati telefonici, dalla sua partecipazione alla riunione confindustriale nissena del 9 aprile 2015, in occasione della quale era stato informato del presunto rinvenimento della microspia, alla successiva riunione di Confindustria Sicilia a Palermo il 13 aprile 2015, quando DI SIMONE, come visto sopra, gli aveva parlato di presunte manovre occulte contro l'associazione degli industriali, e, da ultimo, alla visita fatta, sul finire del maggio del 2015, dallo stesso VENTURI a MONTANTE, il quale, nell'occasione, aveva inteso affermare, con toni decisi ed oppositivi, la propria estraneità alla bonifica. […] Concludendo sull'attendibilità delle dichiarazioni di VENTURI, non si può non rilevare come le informazioni dallo stesso rese, che hanno costituito l'humus di impianto dell'accusa per il reato di simulazione, devono considerarsi assolutamente affidabili, in quanto, anche nelle parti deduttive (ad esempio, nella individuazione della intenzione originaria, da parte dei patiscenti, di calunniare CASAGNI), si sono rivelate assolutamente corrette, validate da diversi elementi di prova e congruenti rispetto a tutte le evidenze probatorie. […] A questo punto dell'esame del compendio probatorio può apparire persino superfetativo soffermarsi sul ruolo di MONTANTE nella vicenda.

Infatti, VENTURI, le cui dichiarazioni, come visto, risultano confortate dall'intero compendio probatorio, affermava espressamente - anche ciò è stato già oggetto di puntualizzazione - di avere appreso da LA ROTONDA che l'ordine di bonifica era partito proprio da MONTANTE e DI SIMONE ("Alla mia richiesta di spiegazioni su chi gli avesse impartito un simile ordine, mi disse che erano stati Antonello MONTANTE e Diego DE SIMONE, quest'ultimo ex poliziotto originario di Canicattì, che ora è responsabile della sicurezza nazionale di Confindustria"). […] Il punto è che DI SIMONE diresse le operazioni in questione, certamente finalizzate alla simulazione dell'avvenuta installazione abusiva della microspia, su disposizione di MONTANTE, non avendo peraltro alcun personale motivo di astio o acrimonia nei riguardi di quel CASAGNI contro il quale, come è stato spiegato e dimostrato, era originariamente orientata l'azione delittuosa. Pertanto, preso atto del quadro di totale saturazione probatoria nel senso prospettato dall'accusa, è davvero arduo rinvenire una valvola di sfiato che possa accogliere una ricostruzione alternativa degli eventi.

Il colonnello “Pino” e le pen drive. La Repubblica il 21 novembre 2019. Le dichiarazioni di CICERO e VENTURI si sono rivelate preziose anche nella ricostruzione di un altro segmento della complessa vicenda che ci occupa, relativo ai rapporti tra MONTANTE e gli appartenenti alle forze di polizia. Intorno a tali rapporti, infatti, ruotano alcuni dei fatti più significativi oggetto di odierna contestazione. Si tratta di relazioni sociali coltivate dal potente imprenditore a partire dalla sua introduzione nel circolo del tennis di Caltanissetta, di cui parlava TROBIA nel corso delle conversazioni intercettate, e che sono state sapientemente intrecciate con la stessa abilità e pazienza con cui il ragno tesse la rete, nella quale molte delle personalità transitate nelle istituzioni nissene, che si erano interfacciate con lui ricavandone vantaggi, erano rimaste inesorabilmente impigliate, astrette dentro asfittici cappi sinallagmatici. Per quanto qui rileva, glissando sulla posizione di chi, come Letterio ROMEO, è giudicato separatamente, è utile cominciare dalla disamina dei rapporti tra MONTANTE e il Colonnello Giuseppe D'AGATA, iniziati durante il periodo nel quale quest'ultimo era in servizio a Caltanissetta quale comandante provinciale dei Carabinieri, e sviluppati anche in epoca successiva, quando l'ufficiale svolse l'incarico di capo centro presso il centro operativo D.I.A. di Palermo e quando, a seguire, fu reclutato nell'agenzia informazioni e sicurezza interni (A.I.S.I.). Un primo, inequivocabile, elemento di prova della peculiarità del rapporto intercorso tra MONTANTE e D'AGATA lo si rinviene nel famoso file excel, ove tra i due soggetti sono annotati innumerevoli incontri, anche di commensalità privata. Pare utile premettere alcune indicazioni di carattere didascalico alla lettura del file, che consentano di riconoscere immediatamente i riferimenti in esso contenuti al Colonnello D'Agata. Ancora una volta, per comodità espositiva, giova riportare il contenuto dell'ordinanza (da p. 851), che, come è possibile constatare, propone un'analisi ragionata dei dati presenti nel file, conducendo ad una loro decodificazione univoca e condivisibile (es. incrociando i nomi propri annotati per esteso con quelli annotati per abbreviazione si riesce, mediante l'esame del contesto nel quale è usata l'abbreviazione, a riconoscere in essa lo stesso significato dell'annotazione per esteso): Bisogna brevemente evidenziare come gli elementi acquisiti agli atti del procedimento consentono di affermare, senza alcuna incertezza, che i rapporti tra il MONTANTE ed il Colonnello D'AGATA sono certamente molto stretti e risalenti nel tempo, essendo sorti dal momento in cui questi prese servizio a Caltanissetta, a partire dal settembre del 2008, come Comandante Provinciale dell'Arma dei Carabinieri. Valga per tutti, in prima istanza, il contenuto del più volte menzionato file excel, che va a fotografare in maniera inequivocabile la natura dei rapporti che qui rilevano, dimostrando una frequentazione - sostanziatasi in appuntamenti, pranzi e cene - mantenutasi assidua e costante nel tempo, dalla fine del 2008 e sino al 2015.

Va osservato come il D'AGATA, nel file in questione venga indifferentemente indicato per nome e cognome, col solo cognome o attraverso Fannotazione “Pino D.”; […] Dunque, com'è evidente, dal 2008 al 2015 si annoverano svariati incontri tra l'imprenditore di Serradifalco e l'ufficiale dei Carabinieri, cui si aggiungono numerosi contatti telefonici - evinti dall'analisi del traffico telefonico - tra il gennaio 2014 e il gennaio 2016. […] Uno dei fatti più inquietanti partoriti dalla relazione MONTANTE-D'AGATA è quello relativo al passaggio di pen drive, contenenti dati riservati, da parte del secondo polo del segnalato rapporto interpersonale, in favore del primo. Tanto è riferito da Marco VENTURI mediante una serie di dichiarazioni che, sebbene non integralmente riscontrate, appaiono intrinsecamente coerenti, oltre che congruenti con altri elementi di prova offerti dalle indagini. In particolare, in data 12 novembre 2015 (cfr. verbale di assunzione di informazioni), VENTURI riferiva della consegna “in maniera furtiva”, dall'ufficiale all'imprenditore, di una pen drive nel corso di una cena organizzata nell'aprile-maggio 2014 presso il ristorante dell'hotel Porta Felice di Palermo, cui avevano presenziato, oltre ai due protagonisti della vicenda e allo stesso VENTURI, Linda VANCHERI e un ingegnere dell'ANAS di nome TONTI. Inoltre, VENTURI si mostrava a conoscenza di altri due analoghi episodi di consegna di pen drive da D'AGATA a MONTANTE, per averli appresi il primo da Maurizio BARNAVA, dal 31 ottobre 2014 segretario confederale della C.I.S.L. (con delega alla Pubblica Amministrazione, Politiche dell`Istruzione e della Ricerca, etc.), il secondo da Giuseppe DDDO, giornalista, nel corso di due distinti incontri avvenuti rispettivamente a Roma e a Milano, dopo la pubblicazione dell'intervista del medesimo VENTURI sul quotidiano La Repubblica. […] Le dichiarazioni di VENTURI non devono necessariamente essere suffragate da riscontri perché possano assumere dignità di prova: VENTURI, come iteratamente precisato, è una persona informata dei fatti, non un indagato o imputato di reato connesso. In ogni caso, la valutazione complessiva degli elementi emersi dalle indagini depongono per una generale affidabilità del predetto VENTURI, le cui dichiarazioni non sono mai state smentite, mentre BERNAVA risulta avere intessuto rapporti molto stretti con MONTANTE, al di là della presunta, quanto inverosimile, insofferenza del primo per l'esibizione delle amicizie importanti da parte del secondo. Infatti, prima dell'utilizzazione da parte di MONTANTE, nel giugno 2015, di utenze "riservate", risultano centinaia di contatti telefonici tra lo stesso MONTANTE e BERNAVA (Cfr. C.N.R. n. 1092/2017, Cit., p. 581). Tra l'altro, i rapporti tra MONTANTE e BERNAVA avevano certamente trasceso il piano della giustificazione "laburistica" conseguente al ruolo rivestito dal primo, esponente degli industriali siciliani e poi nazionali (quale vicepresidente di Confindustria nazionale), e dal secondo, quale segretario confederale della C.I.S.L. (con delega alla Pubblica Amministrazione, Politiche dell'Istruzione e della Ricerca), tanto vero che il Senatore Giuseppe D'ALIA ricordava come la candidatura di Rosario CROCETTA alla presidenza della Regione Siciliana fosse stata sostenuta congiuntamente da MONTANTE e BERNAVA, i quali, nel corso di un incontro avvenuto nel giugno~luglio del 2012 presso l'hotel Villa Igiea di Palermo, l'avevano apertamente sponsorizzata […]. Infine, a completare il quadro, concorre il rinvenimento, nell'abitazione di MONTANTE, di un'email datata 5 novembre 2012 (vd. all. n. 200 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.), da cui risultano le scuse rivolte dal giornalista ODDO all'imprenditore perché impedito a moderare un convegno organizzato da BERNAVA, scuse che si spiegano soltanto se MONTANTE si era personalmente speso nell'organizzazione dell'evento in favore del sindacalista.

Alla luce di quanto sopra, non pare dunque possibile screditare VENTURI sulla base delle dichiarazioni, che appaiono reticenti, di BERNAVA, il quale con MONTANTE ha mostrato di avere condiviso iniziative di carattere politico e culturale. Del resto, la cointeressenza politica tra MONTANTE e BERNAVA non può non apparire antinomica rispetto alla presunta avversione, dichiarata da quest'ultimo, per l'esibizionismo relazionale del primo. Inoltre, non ci si può esimere dal rilevare che le indagini svolte hanno condotto ad accertare che l'occasione nella quale, secondo VENTURI, egli avrebbe incontrato BERNAVA, ricevendo l'informazione circa la consegna di una pen drive da D'AGATA a MONTANTE, ebbe effettivamente luogo, sicché appare davvero singolare che VENTURI possa avere impiantato, con piglio fantastico, su un incontro realmente svoltosi, circostanze corollariche mai verificatesi, attribuendo all'interlocutore, che in qualsiasi momento lo avrebbe potuto smentire, affermazioni mai pronunciate. Invero, le intercettazioni delle conversazioni intercorse tra VENTURI e BERNAVA nelle date del 23 e del 24 settembre 2015 (cfr. rispettivamente, progr. n. 9483 e n. 9578; vd. C.N.R. n. 1092/2017, cit., da p. 561) dimostrano come gli stessi avessero concordato di incontrarsi proprio il 24 settembre citato, e, in effetti, l'analisi dei rispettivi traffici telefonici consente di rilevare che le utenze agli stessi in uso venivano censite a Roma, molto vicine tra loro e a piazza Montecitorio, tra le 08.42 e le 10.47 di quel giorno (vd. C.N.R. n. 1092/2017, cit., p. 562), ossia nel periodo (successivo all'intervista rilasciata da VENTURI a La Repubblica, in cui lo stesso aveva preso pubblicamente le distanze da MONTANTE) e nella zona della capitale indicata dallo stesso VENTURI nelle dichiarazioni sopra riportate. In ordine alla consegna di altra pen drive da parte del Colonnello D'AGATA nelle mani di MONTANTE, episodio che sarebbe stato riferito a VENTURI da ODDO, giornalista de Il Sole 24 ore, in un caso anche alla presenza di BARBACETTO, giornalista de Il Fatto quotidiano, deve rilevarsi che né ODDO (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 27 novembre 2015) né BARBACETTO (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali dell'8 marzo 2016) ricordavano tale circostanza. Tuttavia, mentre l'amnesia di quest'ultimo è agevolmente comprensibile, atteso che gli argomenti della conversazione intrattenuta nel corso dell'incontro non erano di suo interesse sotto il profilo giornalistico […], la posizione di ODDO deve essere meglio puntualizzata. Questi, infatti, ammetteva di avere incontrato VENTURI dopo la pubblicazione, da parte di BOLZONI, della sua intervista fortemente critica verso MONTANTE, e di avere appreso, dal suo interlocutore, di un episodio relativo alla consegna di una pen drive, da parte di un probabile appartenente ai servizi segreti, in favore del medesimo MONTANTE. ODDO, tuttavia, negava di avere personalmente assistito ad episodi analoghi a quelli raccontati dal suo interlocutore ("Non ricordo di aver assistito ad episodi analoghi a quello raccontato dal VENTURI"; vd. verbale di sommarie informazioni testimoniali cit.). Ora, passando in rassegna l'evoluzione dei rapporti intercorsi tra ODDO e MONTANTE, possono sorgere dei dubbi circa l'assenza di cause di condizionamento della libertà dichiarativa del giornalista. ODDO, infatti, se da un lato, in alcune fasi della sua conoscenza con l'imprenditore di Serradifalco, aveva mostrato forme di dissenso rispetto a richieste (es., di redazione del libro “Senza padrini", poi scritto da Filippo ASTONE) o scelte compiute da quest'ultimo (ad. esempio, il giornalista non aveva condiviso la mancanza di collaborazione, da parte di MONTANTE, nel 2013, nel suo tentativo di recupero di documenti di Confindustria utili alla ricostruzione delle fasi associativo-industriali che precedettero l'uccisione dell'imprenditore Libero Grassi; cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali cit.), dall'altro versava, verosimilmente, in una posizione di ricattabilità. Ciò si evince, invero, dal rinvenimento, nella "stanza segreta” di MONTANTE, di email del 2012 attestanti la manovra ordita proprio da ODDO per promuovere l'epurazione del direttore del giornale Il Sole 24 ore per il quale egli lavorava, epurazione per la quale il predetto ODDO aveva richiesto il sostegno di MONTANTE, consigliere dal 2010 al 2012 in seno a IL SOLE 24 ORE S.P.A. Inoltre, a prescindere dal nitore dei ricordi e dalla credibilità delle persone escusse, deve evidenziarsi come "In relazione ad un incontro dell'ODDO con il D'AGATA e con il MONTANTE ove il primo possa effettivamente avere assistito ad uno scambio pen drive, si rappresenta che il 13 maggio 2015 a Roma, dalle 11 e le 13 circa, le tre utenze in uso all'ODDO, al MONTANTE e al D'AGATA risultavano “vicine” tra loro" (cfr. C.N.R. n. 1092/2017, cit., p. 566). Ovviamente, ciò non costituisce riscontro in senso tecnico alle dichiarazioni di VENTURI, in quanto l'effettività dell'incontro tra il giornalista escusso, l'imprenditore e l'ufficiale è una circostanza afasica rispetto allo scambio di pen drive che nel corso di esso si sarebbe consumato, ma, ancora una volta, concorre a corroborare un generale giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del citato VENTURI, il cui contenuto risulta quanto meno compatibile con gli altri elementi di prova. Da ultimo, deve considerarsi un dato importante: la disponibilità di preziose pen drive da parte di  MONTANTE emerge da tre intercettazioni eseguite nel corso della presente indagine. Inoltre, nel corso dell'esecuzione dell'ordinanza cautelare nei confronti degli indagati, MONTANTE offriva la più eclatante conferma alla tesi per cui egli disponesse di pen drive dal contenuto compromettente. Lo stesso, infatti, fingendo di non sentire la polizia che bussava, provava a disfarsi di alcune pen drive, rinvenute poi dagli investigatori in stato di grave danneggiamento, cagionato, evidentemente, mediante manovre e colpi meccanici inferti sulle stesse (vd. annotazione di P.G. della squadra mobile di Caltanissetta del 15 maggio 2018 e ordinanza di aggravamento della misura cautelare). Ovviamente, nessun credito logico può riconoscersi alla linea difensiva di MONTANTE, secondo il quale egli aveva danneggiato le pen drive, già prima dell'arrivo della Polizia, soltanto perché i suoi contenuti li aveva ormai trasfusi in altri supporti. […] L'esame complessivo di tali intercettazioni, dunque, dimostra che MONTANTE aveva delle pen drive alle quali teneva in modo particolare, e che, certamente, qualcuna di esse aveva a che fare con il Col. D'AGATA. Se ciò lo si correla con l'apprensione manifestata da quest'ultimo, dialogando con la moglie, Rosa BATTIATO, il 31 gennaio 2016 (vd. supra, conv. progr. n. 564), circa il possibile rinvenimento, nella disponibilità di MQNTANTE, di “carte” che egli gli aveva dato, la tesi accusatoria circa l'effettività del passaggio di dati segreti dall'ufficiale all'imprenditore di Serradifalco può considerarsi provata (senza che, peraltro, l'uso del termine “carte”, in un contesto di forte apprensione di essere intercettati, possa comportare un vincolo di interpretazione letterale, tesa ad escludere il riferimento, più generale, a materiale segreto comunque transitato dall'uno all'altro). La conversazione da ultimo citata, peraltro, presenta una rilevanza euristica impressionante, in quanto vale a lumeggiare il significato delle intercettazioni, antecedenti di qualche giorno (22 gennaio e 23 gennaio 2016), aventi ad oggetto pur sempre conversazioni coniugali D'AGATA-BATTIATO. Nella prima di esse (conv. progr. n. 1146), infatti, l'ufficiale dei Carabinieri esternava una palpabile preoccupazione per le perquisizioni in corso nei luoghi di pertinenza di MONTANTE, sicché la consegna di “carte”, cui lo stesso faceva poi esplicito riferimento il 31 gennaio 2016, ne rende palesi le ragioni. Nella seconda (conv. progr. n. 351), invece, a proposito del comportamento autoritario ingiustamente serbato dall'imprenditore nei loro confronti nel corso di un loro incontro con Maria Grazia BRANDARA (commissario ad acta dell'I.R.S.A.P., socio di maggioranza dell'I.A.S. presieduto dalla BATTIATO per volontà di MONTANTE, su cui vd. infra), l'ufficiale dei Carabinieri esprimeva insofferenza, in quanto loro, in fondo, per "leccargli il culo", stavano rischiando “un casino”. […] Leggendo, dunque, le intercettazioni secondo la loro progressione cronologica, si evince una graduale discovery della reale natura dei rapporti intrattenuti da D'AGATA con MONTANTE e l'abdicazione, da parte del primo, alla tutela della funzione pubblica in favore dell'asservimento personale/professionale agli interessi del secondo:

il 22 gennaio 2019 l'ufficiale è preoccupato per le perquisizioni a MONTANTE;

il 23 gennaio 2019 l'ufficiale rivela di avergli “leccata il culo", rischiando un "casino";

il 31 gennaio 2019 l'ufficiale teme che, in esito alle perquisizioni disposte nei confronti di MONTANTE, possano essere rinvenuto delle “carte” che gli ha dato;

il 21 febbraio 2016 l'ufficiale, fortemente preoccupato per gli esiti dell'indagine su MONTANTE, ad un certo punto fa improvviso riferimento ad una pen drive, salvo poi a tentare di dirottare il discorso sul figlio Marco.

E' pertanto evidente come le affermazioni di VENTURI sul passaggio delle pen drive da D'AGATA a MONTANTE appaiono tutt'altro che eccentriche nell'ambito di un rapporto, quale quello instaurato tra l'ufficiale dei Carabinieri e l'imprenditore, certamente malato, attraverso il quale il secondo ricavava notizie segrete dal primo. Del resto, se il materiale consegnato da D'AGATA a MONTANTE non avesse riguardato dati coperti dal segreto, rimarrebbe oscura la ragione dell'apprensione dell'ufficiale per il suo possibile rinvenimento presso l'abitazione dell'imprenditore.

Rosa e gli altri, ricchi premi e cotillons. La Repubblica il 22 novembre 2019. Abbiamo visto come D'AGATA avesse erogato diverse "prestazioni di servizio", tutte vietate, in favore di MONTANTE: dal passaggio illecito di pen drive e documenti di contenuto ignoto, ma la cui circolazione era sicuramente interdetta dalla legge (in tal senso depone la preoccupazione manifestata dall'ufficiale per il loro possibile rinvenimento nell'abitazione dell'imprenditore), alla bonifica della sua abitazione prima che vi procedesse la ditta CALI' qualche mese più tardi. Occorre a questo punto esaminare se tali illecite "prestazioni di servizio" si inserissero, come sostenuto dal P.M., all'interno di un gioco sinallagmatico, nel quale entrambe le parti vincevano un premio. E in effetti, se MONTANTE, grazie a D'AGATA, aveva conseguito notizie segrete, D'AGATA, grazie a MONTANTE, aveva percepito due utilità:

1) l'incarico della moglie quale componente, con funzioni presidenziali, del consiglio di amministrazione presso l'I.A.S. s.p.a. (Industria Acqua Siracusana s.p.a., a partecipazione mista, nella quale l'I.R.S.A.P. era il socio di maggioranza);

2) la propria cooptazione presso i servizi segreti (esattamente, presso l'A.I.S.I.).

§ 4.2. L'ingresso di Rosa Battiato nell'I.A.S. s.p.a. di Siracusa. Il proemio di tale vicenda si apre intorno al controllo che MONTANTE riusciva ad esercitare sulla Industria Acqua Siracusana s.p.a., società a partecipazione mista nella quale, come anticipato, era socio di maggioranza l'I.R.S.A.P., ossia quello stesso ente pubblico (istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive) già sottoposto alla penetrante influenza di MONTANTE, tanto da averne propiziato con successo l'assegnazione del ruolo di vertice a CICERO, odierna parte civile, prima quale commissario straordinario, poi quale presidente. Onde evitare una lettura dismorfica del senso della presente decisione, appare pregiudiziale sgomberare il campo da possibili sincretismi tra l'etica e il diritto. Deborda, infatti, dal perimetro del giudizio penale ogni considerazione morale sulla conquista del potere. Da questo punto di vista, l'odierno giudizio andrà “al di là del bene e del male”, abdicando ad ogni valutazione eticamente fondamentalista. Esso, tuttavia, non potrà abdicare allo scrutinio delle modalità di conquista del potere, se tali modalità appaiono contra ius. Come nell'ipotesi in cui la collocazione di un soggetto all'interno di un ente, società o istituto, pubblico o privato, costituisce l'oggetto di una controprestazione che si inserisce all'interno di un negozio corruttivo. Nel caso di specie, invero, secondo la tesi accusatoria, MONTANTE, che aveva il potere di controllare le nomine nel consiglio di amministrazione dell'I.A.S. s.p.a., se ne serviva al fine di collocarvi i propri clientes, ai quali, a sua volta, chiedere dei servigi. Ciò che accadde, ad avviso degli inquirenti, con l'inserimento nel consiglio di amministrazione della citata società, della moglie del Col. D'AGATA, Rosa BATTIATO, già dirigente dell'ufficio legale I.N.P.S. Di Siracusa. Tale inserimento, segnatamente, avrebbe costituito una delle due monete di pagamento, da parte di MONTANTE, delle prestazioni a lui erogate dall'ufficiale dei Carabinieri, e consistite nelle rivelazioni dei segreti d'ufficio e nella bonifica domiciliare. Il nucleo probatorio originario è costituito dalle dichiarazioni di Alfonso CICERO e Marco VENTURI, rispetto alle quali non sono stati trovati semplici riscontri (peraltro non necessari, tenuto conto della qualità processuale degli stessi), ma addirittura ulteriori prove, di tipo intercettivo e documentale, dotate di una loro aseità epidittica. Partendo dalle prove dichiarative, illuminante si rivela l'apporto fornito soprattutto da CICERO, il quale, nel periodo che qui rileva, era presidente dell'I.R.S.A.P., ossia dell'istituto che, per le ragioni già spiegate e legate alla propria partecipazione maggioritaria all'interno dell'I.A.S., aveva un peso determinante nella rinnovazione del consiglio di amministrazione e della nomina del presidente di tale società. CICERO, in particolare, descriveva la procedura di cooptazione di Rosa BATTIATO all'interno dell'I.A.S., a partire dalla segnalazione del suo nominativo da parte di MONTANTE per l'inserimento nel consiglio di amministrazione, con posizione apicale, negli anni 2013 e 2014, fino all'inoltro, allo stesso CICERO, del curriculum vitae della stessa mediante l'email istituzionale del marito, nel periodo nel quale quest'ultimo era capo centro della D.I.A. di Palermo. Inoltre, CICERO si soffermava sull'inserimento, previa segnalazione di MONTANTE, di altri personaggi all'interno della società de qua, tra cui il sindacalista della U.I.L. Salvatore PASQUALETTO, presidente del Tavolo Unico di regia per la legalità e lo sviluppo di Caltanissetta, e Gianluca GEMELLI, compagno del Ministro dello Sviluppo Economico Federica GUIDI (governo RENZI). […] Il predetto CICERO avvalorava le proprie dichiarazioni producendo l'email inviatagli dalla BATTIATO, che, esattamente, appariva spedita dall'indirizzo di posta elettronica del Col. D'AGATA (+++++@+++++; cfr. allegato n. 16 del predetto memoriale). Le affermazioni di CICERO, oltre ad essere coerenti con quelle di Marco VENTURI, secondo il quale la nomina della moglie del colonnello D'AGATA alla presidenza dell'I.A.S. s.p.a. era imputabile all'intervento di MONTANTE ("So anche che il Presidente dello I.A.S. è la moglie del colonnello D'AGATA, anche quest'ultima nominata su indicazione di Antonello MONTANTE"; cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 14 novembre 2005), ricevono una serie di riscontri documentali. Infatti, a parte la conferma della riferibilità al Col. D'AGATA dell'indirizzo di posta elettronica "+++++@++++++" dal quale Rosa BATTIATO aveva inviato a CICERO il proprio curriculum vitae (cfr. risposta fornita sul punto dalla D.I.A. di Roma – II Reparto), gli accertamenti compiuti presso l'istituto previdenziale (I.N.P.S.) dimostrano, in maniera non falsificabile, l'esistenza del rapporto di lavoro tra la predetta BATTIATO e l'I.A.S. s.p.a. […] Solo ai fini della verificazione della attendibilità della deposizione di CICERO, è appena il caso di rilevare che anche le sue dichiarazioni sulle nomine di PASQUALETTO e di GEMELLI sono corroborate da riscontri documentali, posto che, quanto a quest'ultimo, “si è potuto accertare dalla consultazione della banca dati dell'Agenzia delle Entrate - Punto Fisco che lo stesso risulta essere percipiente di redditi per l'anno 2013 per l'importo complessivo di Euro 58.438,00 in qualità di amministratore unico della I.T.S. S.r.l. (Industrial Technical Services) con sede a Siracusa in via Ciane n. 21. Nell'annualità 2014 il GEMELLI risulta avere percepito un reddito complessivo di Euro 72.399,00 più precisamente Euro 69.063,35 percepiti dalla I.T.S. S.r.l. e Euro 3.336,12 percepiti dalla I.A.S. S.p.A." (così, la C.N.R. testé citata, p. 549). In relazione, invece, alla nomina di PASQUALETTO, essa si ricava dagli allegati alle note della squadra mobile di Caltanissetta n. 1065/2016-Mob./SCO4 del 20 aprile 2016 e n. 1247/2016-Mob./SCO4 del 7 maggio 2016 e, in particolare, dalla documentazione acquisita presso l'I.A.S. relativa alla nomina del presidente e al rinnovo del consiglio di amministrazione (cfr. verbale del 28 ottobre 2014, nel quale Salvatore PASQUALETTO risulta nominato componente del consiglio di amministrazione, nonché verbale del 23 febbraio 2016, in cui lo stesso veniva indicato quale “assente giustificato”). Inoltre, la lettura della predetta documentazione consente di apprezzare (cfr. sul punto anche nota della squadra mobile di Caltanissetta n. 909/2016 Cat. II/14 Mob. SCO 3° G. del 2 aprile 2016) il ruolo propositivo assolto da CICERO nelle nomine, quale membro e presidente del consiglio di amministrazione, di BATTIATO, nonché, quali ulteriori componenti del medesimo consiglio, dei menzionati PASQUALETTO e GEMELLI. Pertanto, deve ritenersi che le dichiarazioni di CICERO sulla attribuibilità a MONTANTE dell'ingresso di Rosa BATTIATO nell'I.A.S. s.p.a. siano assolutamente veritiere, ciò che risulta ulteriormente confermato dal contenuto di una conversazione intercettata (oggetto di più specifica disamina infra), nella quale emerge una sostanziale ammissione del ruolo di MONTANTE in tali nomine. Infatti, in data 31 gennaio 2016, i coniugi D'AGATA, dopo avere appreso dal Prof. CUVA di essere intercettati nell'ambito dell'indagine sul conto dell'imprenditore di Serradifalco, discutevano della opportunità che venissero rassegnate le dimissioni dall'I.A.S. s.p.a., per evitare un loro coinvolgimento ingravescente nell'inchiesta (BATTIATO: "perché se no altri problemi ni purtamu a casa!"). Tale soluzione, però, gradita alla moglie, non era condivisa dal marito, ad avviso del quale un atto abdicativo, in quel momento, avrebbe potuto rivelare un'accusatio manifesta: […]. E' chiaro che, nell'ambito di una piattaforma conversativa che verte sulla pericolosa propagazione del raggio investigativo, la discettazione in sé sulla opportunità delle dimissioni dall'I.A.S. s.p.a., indipendentemente dalla posizione rispettivamente assunta sulla questione da ciascuno dei due coniugi (favorevole la BATTIATO, contrario l'ufficiale), conferma che esiste una correlazione tra la nomina (duplice: membro e presidente del consiglio di amministrazione) della BATTIATO in seno alla predetta società e il legame del marito con MONTANTE. […] La conferma della correttezza dell'interpretazione è offerta dal contenuto della conversazione intercorsa poco prima tra la BATTIATO e il marito lungo il viaggio di andata verso Palermo (progr. n. 564), ove gli stessi avrebbero incontrato l'amico CUVA per ottenere le agognate informazioni sugli sviluppi dell'indagine sul conto di MONTANTE. In particolare, mentre entrambi provavano a formulare ipotesi sui risvolti investigativi di cui CUVA li avrebbe da lì a poco informati, la BATTIATO riteneva che l'unico problema poteva derivare proprio dal suo inserimento nell'I.A.S. s.p.a., così certificando l'esistenza di una correlazione tra MONTANTE e la sua cooptazione all'interno di tale società. […] Si osservi parenteticamente, ricavando una nicchia di riflessione nella più ampia esposizione del vincolo sinallagmatico che legava MONTANTE a D'AGATA, come il primo riuscisse a collocare nei diversi enti o società - nella specie una società a partecipazione mista - anche rappresentanti sindacali, come per esempio Salvatore PASQUALETTO, esponente della U.I.L. Lo stesso PASQUALETTO, tra l'altro, che, secondo le parole (intercettate) della BATTIATO (vd. amplius nel paragrafo che segue), si serviva dell'I.A.S. unicamente come comoda fonte di locupletazione. Il caso PASQUALETTO, la cui presenza all'I.A.S., ad avviso della BATTIATO, che sul punto non aveva motivo di mentire, era meramente virtuale, rivela, al pari del caso BARNAVA (sindacalista della C.I.S.L., imputato di reato connesso, per il quale si procede separatamente), un decadimento non trascurabile del ruolo degli esponenti sindacali, e l'utilizzazione strumentale, da parte loro, della organizzazione dei lavoratori come mero ascensore sociale, attraverso il quale soddisfare la propria cupidigia carrieristica, lontano da prospettive teleologiche di trasformazione sociale. Essi sembrano calcare il palcoscenico di MONTANTE non già per avanzare rivendicazioni salariali o migliori condizioni di lavoro, non già per partecipare ad attività di concertazione sociale o per promuovere il dialogo sociale, ma semplicemente per acquisire una "partecipazione societaria” all'interno di quel sistema di potere. Un'acquisizione utile, in fondo, allo stesso MONTANTE, che si serviva della distribuzione di posti di prestigio e di incarichi appetibili quale instrumentum regni: comprare il consenso per prevenire il dissenso. Del resto, come vedremo immediatamente, MONTANTE esercitava un enorme condizionamento nelle sedi del potere regionale (e non solo), ciò che gli consentiva la distribuzione di posti e remunerazioni, a loro volta strumento di accrescimento iperplastico del proprio personale potere.

Quel chiacchierone del signor Trobia. La Repubblica il 23 novembre 2019. […] E' tuttavia compito di questo giudice verificare se le accuse, rivolte a MONTANTE, di accaparramento del potere pubblico per finalità mercantili, perseguite nelle relazioni strette con i pubblici ufficiali, abbiano un reale fondamento negli atti processuali. A tal proposito, particolarmente significative si rivelano le conversazioni (intercettate) che seguono, le quali dimostrano le pesanti ingerenze che MONTANTE riusciva ad esercitare nella più volte menzionata società I.A.S. e, in generale, nella politica regionale. Il punto di partenza è costituito dai dialoghi relativi all'organizzazione e allo svolgimento di un pranzo nella villa di MONTANTE il 7 gennaio 2016, nel corso del quale la BATTIATO intendeva affrontare con l'anfitrione, formalmente privo di incarichi all'interno dell'I.A.S., alcune problematiche ad essa relative, come quella della sostituzione di un componente del consiglio di amministrazione (il dimissionario GEMELLI) e, dopo la fuoriuscita di CICERO dall'I.R.S.A.P., quella concernente le difficoltà di comunicazione con il successore di quest'ultimo, Maria Grazia BRANDARA. Si ripercorreranno, a tal proposito, le riflessioni fatte, successivamente al pranzo, da un altro partecipante al momento di commensalità, il solito Michele TROBIA, ad avviso del quale MONTANTE, nonostante la bufera che lo stava investendo, a causa dell'inchiesta di cui parlavano i media e dell'atto di insubordinazione di VENTURI, continuava, imperterrito, ad esercitare un grande potere, controllando posti di prestigio e potendosi permettere di esibire ancora l'amicizia con il Col. D'AGATA, ormai transitato nei servizi segreti. MONTANTE, addirittura, secondo TROBIA, mentre gli investigatori indagavano sul suo conto e sui suoi rapporti con la criminalità mafiosa, aveva acquisito il controllo di ben quattro assessorati regionali, a fronte di un presidente della Regione – Rosario CROCETTA - che assumeva sempre più le sembianze di una vacua sagoma istituzionale, che si agitava senza un perché. Del resto - così spiegava TROBIA in una delle conversazioni intercettate dagli inquirenti - erano in molti a rivestire una posizione di ancillare asservimento rispetto a MONTANTE. A cominciare dallo stesso TROBIA, che, rischiando di perdere i contributi dell'Università per l'organizzazione del torneo di tennis in conseguenza della strenua opposizione di due componenti del consiglio di amministrazione, era riuscito a piegare ogni resistenza grazie ad una semplice telefonata di MONTANTE.

Tali passaggi investigativi, idonei ad offrire preziosi elementi di prova, possono essere ripercorsi mediante la lettura di stralci dell'ordinanza cautelare (da p. 947), basati, essenzialmente, sulla riproduzione del contenuto delle conversazioni intercettate, precedute, more solito, da una sintesi assolutamente coerente con il loro tenore testuale: Le indagini condotte hanno [...] consentito di acquisire significativi elementi di riscontro alle dichiarazioni del CICERO e del VENTURI, poiché dimostrativo, da un lato, del fatto che la BATTIATO cercasse conforto in MONTANTE in relazione a decisioni da assumere nella qualità di Presidente dell'I.A.S. e, dall'altro lato, come quest'ultimo continuasse a mantenere ben saldo il controllo di tale società, anche dopo le dimissioni di Alfonso CICERO dall'IRSAP, attraverso BRANDARA Maria Grazia, nominata commissario dell'IRSAP dopo l'uscita di scena del CICERO. A tal fine, occorre preliminarmente evidenziare come, a ridosso delle festività natalizie del 2015, venivano registrate alcune conversazioni telefoniche dalle quali si aveva modo di comprendere come il D'AGATA volesse prendere accordi col MONTANTE al fine di avere un incontro. Peraltro si registravano contatti anche tra la moglie del D'AGATA e il MONTANTE, dal cui contenuto si evinceva l'esistenza di rapporti altrettanto confidenziale ed amichevoli. In sintesi, venivano registrate più conversazioni telefoniche e scambi di sms da cui era possibile ricavare che i tre, inizialmente, si sarebbero dovuti incontrare a Catania, ove il D'AGATA aveva in animo di invitare il MONTANTE per una cena il 29 dicembre o per un pranzo da tenersi il giorno seguente. Sennonché, per impedimenti del MONTANTE - che si trovava quei giorni fuori dalla Sicilia - l'appuntamento veniva rimandato ad un pranzo da tenersi il 06.01.2016, tant'è che il D'AGATA si attivava anche per prenotare un tavolo al ristorante “Le Tre Bocche” sito a Catania. Anche in quell'occasione, però, il MONTANTE rimandava l'appuntamento per problemi di salute, riservandosi, però, di invitare i due coniugi a pranzo presso la sua abitazione di Serradifalco per il 07.01.2016, pranzo che poi, effettivamente, quel giorno aveva luogo.

Tanto sinteticamente premesso, va rilevato che, in data 14.12.2015, veniva intercettata una telefonata (conversazione nr. 351 delle ore 13.42) in cui la BATTIATO riferiva al marito delle ultime novità riguardanti l'I.A.S., comprese quelle relative alla proroga concessa e alle dimissioni del GEMELLI, cui doveva seguire l'assunzione di una donna per il rispetto delle “quote rosa”. Proprio in riferimento alla persona che sarebbe dovuta subentrare al GEMELLI, la BATTIATO affermava che quest'ultimo ne avrebbe dovuto parlare con il MONTANTE affinché nel CDA dell'I.A.S. venissero nominate persone competenti. Si fa davvero fatica, si consentirà, a comprendere quali “competenze” possa avere, rispetto ad una siffatta nomina, un imprenditore inserito nel settore della produzione e fornitura di ammortizzatori e biciclette e perché mai debba essere proprio il MONTANTE - e non i competenti organismi - ad indicare i nomi di persone “preparate” da inserire in compagini societarie di soggetti giuridici a partecipazione mista. Inoltre la BATTIATO affermava che bisognava rappresentare al MONTANTE la possibilità di rimuovere il PASQUALETTO dall'incarico ricoperto in I.A.S. poiché quest'ultimo, sempre a dire della donna, incamerava la somma 1.400 euro euro senza essere mai presente. Infine, la BATTIATO diceva al marito che il GEMELLI aveva già avuto modo di parlare con il MONTANTE per rappresentargli di ritenerla meritevole di un posto in un consiglio di amministrazione “più importante” ed il D'AGATA affermava che, a suo parere, si trattava in realtà di una proposta partorita dal MONTANTE. […] Quello stesso giorno, alle ore 18.02, veniva captata altra conversazione (sulla neo intercettata utenza del D”AGATA, conversazione nr. 7) dal cui contenuto si percepiva chiaramente come anche la BATTIATO (oltre, per quanto si dirà, lo stesso D'AGATA) avesse necessità di incontrare il MONTANTE per rappresentargli delle problematiche insorte all'interno dell'I.A.S. anche in considerazione del fatto che non aveva più referenti con i quali interfacciarsi, in conseguenza delle dimissioni di Linda VANCHERI e CICERO Alfonso. In particolare, la BATTIATO rappresentava al marito che l'indomani all'I.A.S. si sarebbe tenuta una riunione in cui si sarebbe dovuto discutere delle dimissioni di un componente del consiglio di amministrazione (Gianluca GEMELLI) e di un componente del collegio sindacale. Quanto alle dimissioni del GEMELLI - motivate dal fatto che si era venuto a trovare in una situazione di incompatibilità per il sopravvenuto incarico all'interno di Confindustria Siracusa - la BATTIATO evidenziava i problemi che sarebbero prevedibilmente insorti per la nomina della persona che avrebbe preso il suo posto, problemi che derivavano dal fatto che il GEMELLI fosse intenzionato ad indicare motu proprio il nominativo mentre, a suo parere, occorreva che si rapportasse con la BRANDARA e con il MONTANTE (“può esseri ca chiddri politicamente ci vonu piazzari a una... di loro...”). La BATTIATO diceva al marito che anche il GEMELLI fosse consapevole del malcontento che sarebbe potuto sorgere qualora avesse portato a termine i suoi propositi, ma si era comunque determinata a non dirgli più di chiamare il MONTANTE - chiaramente al fine di discutere preventivamente la questione - temendo che poi il GEMELLI potesse dire allo stesso MONTANTE che era stata lei a spronarlo in quel senso. Quindi la BATTIATO affermava che della nuova nomina, sia il GEMELLI che lei, in veste di Presidente, avrebbero comunque dovuto discutere anche con la BRANDARA, la quale avrebbe poi dovuto affrontare la questione con l”Assessore e con il Presidente CROCETTA. Inoltre sempre la BATTIATO si doleva del fatto che non riuscisse a parlare con il nuovo commissario dell'IRSAP (la BRANDARA appunto) e che, dopo le dimissioni dell'Assessore alle Attività Produttive Linda VANCHERI e del Commissario straordinario dell'IRSAP Alfonso CICERO, non aveva referenti in Regione con cui poter liberamente interloquire come era avvenuto sino al recente passato. La donna, quindi, affermava che avrebbe dovuto parlare direttamente con il MONTANTE per risolvere quella questione ed avrebbe, altresì, dovuto rappresentare allo stesso MONTANTE anche il problema derivante dalle dimissioni del GEMELLI e dell'intendimento di questi di “ratificare” la nomina di una donna, non meglio indicata, al suo posto (“perché inc... in moto un meccanismo dicendo a quello senti c 'è sto problema per quello quello si vuole dimettere... quindi vuole ratificare una donna”). Infine, la BATTIATO - e la circostanza è di non poco momento poiché esplicativa del vantaggio economico che era derivato ai due coniugi dalla nomina alla Presidenza dell'I.A.S. - evidenziava al marito che aveva sino a quel momento sopportato molte situazioni che non aveva gradito sol perché duemila euro al mese in più facevano loro comodo ed “era un peccato lasciarli”. […] Effettivamente, nel dicembre 2015, come ricavato dalla P.G. attraverso la consultazione di fonti aperte, veniva concessa la proroga di sei mesi, rinnovabili per altri sei mesi, per la gestione dell'impianto di proprietà dell'ex Consorzio ASI di Siracusa e, sempre in quel periodo, il GEMELLI rassegnava le sue dimissioni (esattamente come evidenziato dalla BATTIATO al marito nella conversazione poc'anzi riportata, cfr. All. 207 - articolo del quotidiano “Siracusa Live” del 22.12.2015). Il giorno seguente arrivava la conferma che era proprio il MONTANTE il soggetto col quale la BATTIATO manifestava l'esigenza di parlare e sarà, poi, sempre il MONTANTE, come si dirà di qui a poco, colui che organizzerà un incontro tra la BATTIATO e la BRANDARA, voluto dalla prima, proprio per discutere delle problematiche in seno all'I.A.S.. Ciò a conferma del fatto che gli auspici della BATTIATO sul fatto che il MONTANTE fosse in condizioni di risolverle quei problemi di incomunicabilità con la BRANDARA (dei quali si era lamentata col marito) fossero fondati sulla piena consapevolezza della influenza che il MONTANTE era (ed è tuttora) in grado di esercitare sul Commissario dell'I.R.S.A.P.. […] In data 29.12.2015 (progressivo nr. 1128 dette ore 09.14) il D'AGATA metteva ai corrente la moglie degli ultimi preparativi prima della sua partenza in auto per la Sicilia e le specificava i capi di abbigliamento che aveva messo in valigia da indossare sia per il cenone di capodanno sia per un eventuale pranzo con il MONTANTE (indicato dal D'AGATA come “Nello Nello”). […] Va a questo punto rilevato che - pur avendo, come detto, il MONTANTE e la BATTIATO inizialmente programmato di vedersi la sera del giorno 29 dicembre o a pranzo del giorno seguente, ma con l'intesa, comunque, di risentirsi in seguito per darsi reciproca conferma - non veniva registrato alcun ulteriore contatto né tra il MONTANTE ed il D'AGATA, né tra il primo e la BATTIATO per discutere della situazione, neanche dopo che il D'AGATA era sceso in Sicilia, nella giornata del 29 dicembre, per trascorrere le festività di Capodanno. […] L'ulteriore contatto ai fini che qui rilevano veniva poi registrato il successivo giorno 4 gennaio tra il MONTANTE ed il D'AGATA proprio per mettersi d'accordo su dove vedersi. Se ne ricava che, lungo tale arco di tempo - e cioè quello che va dalla telefonata tra la BATTIATO ed il MONTANTE del 17.12.2015 a quella, di cui si dirà di seguito, tra quest'ultimo ed il D'AGATA - erano di certo avvenute ulteriori interlocuzioni attraverso sistemi di messaggistica non intercettabili con i quali il programmato incontro era stato, di certo, rimandato. Ciò perché nelle telefonata di seguito riportata il MONTANTE ed il D'AGATA riprendevano l'argomento senza fare alcun riferimento agli accordi di massima presi alla metà del dicembre, segno evidente che, nel frattempo, erano riusciti comunque a comunicare per procrastinare quanto avevano già stabilito di fare.

Ed invero, il giorno 4 gennaio, alle ore 21:38, veniva intercettata una telefonata (conversazione nr. 600) intercorsa, appunto, tra il D'AGATA ed il MONTANTE nel corso della quale quest'ultimo evidenziava di avere letto poco prima il messaggio che gli aveva inviato ed i due ipotizzavano, poi, di incontrarsi il giorno dell'Epifania, anche se il MONTANTE si riservava di dare conferma subito dopo aver consultato i suoi familiari. Va rilevato che il messaggio cui faceva riferimento il MONTANTE nel corso della telefonata in questione non veniva rilevato né dall'attività tecnica né dall'analisi dei tabulati, ad ulteriore conferma del fatto che i due fossero soliti comunicare anche attraverso il ricorso ad applicazioni di messaggistica utilizzabili con gli smartphone. […] In effetti, poco dopo (alle ore 21.42, progressivo nr. 601 del 4.1.2016), il MONTANTE richiamava il D'AGATA e si accordavano per pranzare insieme, il giorno seguente, a Catania. […] Sennonché, la mattina del 6 gennaio (conversazione nr. 623 delle ore 09:53), il MONTANTE chiamava il D'AGATA per dirgli che, quella notte, non si era sentito bene e per quel motivo si trovava costretto a declinare l°invito a pranzo. Pur tuttavia il MONTANTE rinnovava l'invito per il giorno seguente presso la propria abitazione, a Serradifalco, evidenziando che in quella maniera “sarebbero stati tranquilli”. […] Inoltre replicava al D'AGATA - che cercava di sollevare il suo interlocutore da quell'impegno viste le sue condizioni di salute - dicendogli “lo facciamo, se no sta cosa salta poi”, a riprova del fatto che riteneva assolutamente necessario incontrarsi. […] In effetti, il giorno 07.01.2016, come da intese, il D'AGATA e la BATTIATO si recavano presso l'abitazione del MONTANTE, come inequivocabilmente si evinceva dalle intercettazioni (in specie dalle celle censite dai loro telefoni cellulari, ubicate in territorio di Serradifalco) nonché dai dati del GPS installato sulla autovettura Mini Cooper in uso alla BATTIATO. Anche le immagini delle videocamere installate nei pressi dell'abitazione del MONTANTE documentavano l'arrivo dei due coniugi presso la villa sita in Serradifalco in contrada Altarello alle ore 13.00 e la loro partenza alle successive ore 17.29. […] Alle ore 08.24 veniva intercettata una conversazione (nr. 1388) intercorsa tra la BATTIATO ed una sua amica, cui la prima evidenziava che si stava recando a Caltanissetta a casa del MONTANTE per metterlo al corrente della sua volontà di dimettersi dall'I.A.S. essendo scontenta della politica regionale e ritenendo di non avere una “copertura politica”. Dal contenuto della telefonata in questione, inoltre, si aveva ulteriore conferma degli stretti rapporti esistenti tra i due nuclei familiari, poiché si poteva ricavare come il D'AGATA e la BATTIATO avessero presenziato al matrimonio della figlia del MONTANTE. […] Vi è, altresì, da rilevare che quel giorno il MONTANTE invitava a casa anche Michele TROBIA e la moglie, come si evinceva da altra telefonata registrata nell'ambito del procedimento (conversazione nr. 3052 del 07. 01.2016). […] La presenza del TROBIA a casa del MONTANTE in quella occasione è premessa indispensabile per comprendere i commenti cui si lasciavano andare lo stesso TROBIA e la di lui moglie e che venivano registrati all'interno della vettura nella loro disponibilità lungo il tragitto di andata e ritorno dalla casa di Serradifalco. Ed invero (progr. nr. 323 delle ore 12.17) mentre si recavano dal MONTANTE i coniugi TROBIA commentavano l'invito ricevuto e la moglie diceva al TROBIA che avrebbero dovuto parlare a Renato DI NATALE, Procuratore Capo di Agrigento, di questi inviti a casa del MONTANTE per i quali aveva l'impressione che quest'ultimo ricevesse le persone a casa “come un boss”. Infine, i due supponevano che l'invito fosse stato esteso anche a MISTRETTA Vincenzo. […] Terminato il pranzo, poi, il TROBIA e la di lui moglie, lungo il tragitto di ritorno intrattenevano una lunga conversazione (progr. nr. 326 delle ore 16.44) che offriva diversi spunti di interesse investigativo. Peraltro, il TROBIA anche nei giorni seguenti tornava a commentare il pranzo tenutosi a casa del MONTANTE con altri interlocutori ed appare opportuno evidenziare in relazione alle stesse che ci si limiterà, in questa sede, ad evidenziare solo le parti che rilevano in relazione al D'AGATA. Ed invero, mentre tornavano a Caltanissetta dall'abitazione di Serradifalco, tra le altre cose, il TROBIA e la BAIO riprendevano a parlare degli ospiti presenti quel giorno a casa del MONTANTE ed il TROBIA si mostrava stupito che il Colonnello D'AGATA, sul conto del quale si esprimeva negativamente, avesse rivestito, da ultimo, incarichi prestigiosi quale quello di capocentro della DIA di Palermo e di appartenente ai Servizi segreti. Oltre ad aversi, pertanto, conferma della presenza del D'AGATA e della BATTIATO a casa del MONTANTE, non pare secondario il riferimento fatto dal TROBIA agli incarichi rivestiti nel corso del tempo dal D'AGATA - peraltro nel contesto di un discorso in cui questi e la moglie facevano riferimento al potere che il MONTANTE era ancora in grado di esercitare - posto che, come si vedrà, il trasferimento del D'AGATA ai Servizi di Informazione e Sicurezza costituisce altro favore ottenuto dall'ufficiale dei Carabinieri grazie ai buoni uffici ed alle entrature di cui dispone l'imprenditore di Serradifalco. […] Alcuni giorni dopo (il 15.1.2016) il TROBIA commentava, ancora una volta, il pranzo avvenuto a casa del MONTANTE, questa volta mentre si trovava in compagnia di un avvocato romano, TOTI Enrico […]. Per ciò che qui rileva, tra gli altri argomenti trattati, il TROBIA faceva esplicito riferimento al fatto che il MONTANTE, nonostante l°indagine a suo carico da parte di questo Ufficio, aveva mantenuto intatto il suo potere e, a sostegno della sua affermazione evidenziava l’influenza che ancora esercitava alla Regione ove poteva disporre di quattro Assessori, addirittura più che nel passato, nonché il rapporto diretto che continuava ad avere con il Ministro Alfano e, infine, facendo chiaramente riferimento al pranzo del 7 gennaio, menzionava “questo Generale dei Carabinieri dei servizi che era li... è andato a chiedere favori a lui”. […] Il TROBIA ricordava ancora di questo pranzo a casa del MONTANTE, anche successivamente, allorché il giorno seguente alle perquisizioni disposte da questo Ufficio nei confronti del MONTANTE, si trovava in compagnia di Marco VENTURI (conversazione ambientale nr. 3978). Pure in tale occasione il TROBIA faceva riferimento al pranzo del 7 gennaio nell'abitazione del MONTANTE, cui era presente il Colonnello D'AGATA che, peraltro, si era mostrato stupito anche della sua presenza. In particolare il TROBIA si mostrava colpito per il fatto che il MONTANTE, quel giorno, avesse fatto attendere il D'AGATA per più di un'ora e mezza e si diceva convinto che si fosse trattato di un comportamento scientemente posto in essere per dargli un “prova di forza” ed avente come scopo quello di dimostrargli che, nonostante fosse indagato, frequentasse ancora alti rappresentanti delle istituzioni che, peraltro, venivano fatti attendere prima di concedere loro udienza. […] La questione (rectius: una delle questioni) di cui la BATTIATO aveva discusso in occasione della visita effettuata al MONTANTE si poteva desumere dal contenuto di una telefonata che la BATTIATO stessa, una volta tornati ad Aci Sant'Antonio, effettuava nel tardo pomeriggio di quel giorno a SCUDERI Sebastiano, cui è legata da saldi rapporti di amicizia (progr. nr. 1408 delle ore 19.26 del 07. 01.2016). In particolare la BATTIATO raccontava di avere illustrato al MONTANTE le problematiche insorte di recente in I.A.S. s.p.a. e della difficoltà a rapportarsi con la BRANDARA, attuale commissario ad acta dell'lRSAP, ente regionale da cui appunto dipende la società di cui la BATTIATO è Presidente.

Una volta raccolte le sue lamentele, il MONTANTE subito chiamava la BRANDARA e fissava un incontro per il giorno seguente alle ore 13.00. Inoltre, nel contesto della conversazione, la BATTIATO si sfogava con lo SCUDERI anche in merito all'atteggiamento superficiale con il quale aveva avuto l'impressione che il MONTANTE si approcciasse alle problematiche che gli aveva sollevato in relazione all'I.A.S., come quelle attinenti alle dimissioni del GEMELLI, alla poca professionalità di PASQUALETTO Salvatore (che peraltro, a suo giudizio, in un anno e mezzo si era “fottuto” 15.000 euro presenziando in sole cinque occasioni alle riunioni del C.D.A.), al direttore del depuratore ed aggiungeva che il MONTANTE l'aveva comunque spronata a non lasciare l'incarico e “a non sprecare gli anni spesi”. […] Prima di proseguire nella lettura diretta dell'ordinanza, un dato va subito evidenziato. Come abbiamo visto, Michele TROBIA, conversando con Enrico TOTI in macchina, pronunciava le seguenti parole: “Questo Generale dei Carabinieri del servizi che era lì... è andato a chiedere favori a cui pur... con il Ministro Alfano continua ad avere un rapporto diretto...” (conv. amb. 398 del 15 gennaio 2016). Nell'occasione TROBIA mostra dl parlare a ragion veduta, ossia dl conoscere le circostanze oggetto di conversazione, tanto vero che, scorrendo il file excel di MONTANTE, si annoverano numerosi incontri avvenuti tra quest'ultimo e l'allora Ministro ALFANO in epoca successiva al febbraio 2015, quando fu pubblicato l'articolo di BOLZONI e VIVIANO con discovery dell'indagine in corso (e del resto, sulla concreta vicinanza manifestata, in quel periodo, dal Min. ALFANO a MONTANTE, si è ampiamente argomentato antea; cfr. sez. seconda, cap. VII, § 2). Tale riflessione non è strumentale alla riserva di osservazioni critiche nei riguardi di ALFANO, il quale, in fondo, si relazionava con un soggetto semplicemente indagato (salvo a volere affermare il principio etico per cui deve regolarmente applicarsi l'isolamento, quale misura di profilassi, nei riguardi di coloro che sono “contaminati” dalle indagini), ma è funzionale alla constatazione per cui TROBIA, nell'atto di compiere quelle esternazioni relative alle relazioni sociali coltivate da MONTANTE e alla parabola evolutiva del suo potere, non esprimeva semplici opinioni personali né formulava congetture, ma faceva delle affermazioni sulla base di conoscenze oggettive, storicamente verificabili e verificate. Rimane da spiegare come mai la BATTIATO si sia rivolta ad un imprenditore della provincia di Caltanissetta per discutere di questioni che afferiscono la società di cui è Presidente del consiglio di amministrazione e la risposta - oltre ad essere estremamente chiara dal complesso delle risultanze d'indagine - viene fornita dalla stessa BATTIATO in occasione di altra telefonata avuta con lo SCUDERI prima di recarsi, quel giorno (e cioè il già menzionato 7 gennaio 2016), dal MONTANTE. In particolare, (conversazione nr. 1386 delle ore 07.56 del 7.1.2016) la BATTIATO evidenziava che aveva intenzione di chiedere chiaramente al MONTANTE “una copertura politica” per proseguire la sua azione all'interno dell'I.A.S. e lo SCUDERI le chiedeva se fosse certa che il MONTANTE potesse aiutarla. La BATTIATO, innanzitutto, evidenziava l'inutilità di seguire - come le suggeriva il suo interlocutore - la “strada più ufficiale” (quella cioè volta ad interloquire con coloro che avevano le effettive competenze sull'I.A.S.) poiché, all'interno della Regione, il Presidente CROCETTA era come se non ci fosse (“quello Crocetta non c 'è più, capito?... gli hanno levato ogni potere! Cioè non è in grado di affermarsi su nulla”) e, dall'altro lato, non riusciva a mettersi in contatto con la BRANDARA e sottolineava, pertanto, la sua intenzione di dimettersi qualora il MONTANTE - che definiva, emblematicamente, il suo “referente” - non le avesse dato quelle garanzie che cercava. Non sembra occorra spiegare come sia stata proprio la BATTIATO, nell'indicare il MONTANTE come il suo “referente” per le questioni relative all'I.A.S, ad aver dato conferma del fatto che la nomina alla Presidenza del consiglio di amministrazione fosse avvenuta su indicazione dell'odierno indagato, esattamente come dichiarato da Alfonso CICERO a questo Ufficio. […] Come si è potuto constatare ripercorrendo le intercettazioni che precedono, uno dei motivi di lagnanza della BATTIATO con MONTANTE era la propria difficoltà, nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione dell'I.A.S. s.p.a. di Siracusa, di comunicazione con Maria Grazia BRANDARA, commissario ad acta presso l'I.R.S.A.P nella fase successiva alla presidenza di CICERO. Lo scioglimento dell'impasse da parte di MONTANTE, mediante una semplice telefonata fatta alla BRANDARA, dimostra come il primo avesse il controllo non soltanto dell'I.A.S., ma anche del suo socio di maggioranza, ossia l'I.R.S.A.P., ciò che avvalora la tesi, sostenuta da CICERO, per cui fu MONTANTE, tramite lo stesso CICERO quando ancora era presidente all'I.R.S.A.P., a promuovere l'ingresso della BATFIATO presso il consiglio di amministrazione dell'I.A.S., con tanto di investitura presidenziale. Tra l'altro, come si vedrà nelle intercettazioni che di seguito verranno riprodotte, all'incontro tra la BATTIATO e la BRANDARA, sostanzialmente deciso da MONTANTE, partecipava non soltanto Mariella LO BELLO, ciò che poteva anche essere normale tenuto conto che quest'ultima era divenuta assessore regionale alle attività produttive, ma anche lo stesso MONTANTE, il quale, privo di qualsivoglia legittimazione formale ad intervenire nel convegno, vi presenziava in quanto deus ex machina delle dinamiche dl potere all'interno della regione e dei suoi enti. MONTANTE, come emerge dalla ricostruzione dell'appuntamento con la BRANDARA e la BATTIATO, oltre ad avere partecipato sine titulo all'incontro, sostanzialmente lo gesti, dirigendolo magistralmente ed assumendo improprie posture dominicali che, dal punto di visto semiologico, appaiono evidenti modalità di comunicare che a comandare era lui. Mentre la BRANDARA e la BATTIATO diventavano figure sempre più diafane, che degradavano sullo sfondo nebuloso nel quale venivano relegate tutte le pedine di MONTANTE. Si assisteva, in altre parole, ad una atopizzazione del potere, avulso dalle sedi proprie e sottratto ai suoi formali detentori, in favore di un soggetto terzo, nella specie MONTANTE, privo di formale legittimazione o investitura, che parlava e decideva - abile ventriloquo - articolando meccanicamente le fauci altrui.

Altamente sintomatica, poi, si rivela l'affermazione della BATTIATO nel commentare, al telefono, lo spirito che animava la ferma volontà di MONTANTE di piazzare, in seno al consiglio di amministrazione dell'I.A.S., al posto del dimissionario GEMELLI, un uomo che fosse promanazione di Confindustria. Rosa BATTIATO, certamente spregiudicata ma dotata di una indiscutibile capacità di analisi degli eventi, comprendeva perfettamente che la logica che ispirava le indicazioni di MONTANTE era di tipo spartitorio: a lui poco importava la funzionalità e l'efficienza del consiglio di amministrazione (tanto che egli prendeva le difese del|'inerte PASQUALETTO pur a fronte dei rilievi di inefficienza della stessa BATFIATO), quanto utilizzare i vari enti o istituti regionali quali luoghi da occupare per esercitare il potere su di essi e servirsene quale merce di scambio per ottenere favori a diversi livelli. […] Alla luce di tale lungo excursus dei dialoghi degli attori della vicenda narrata, non è seriamente evocabile lo spettro del dubbio circa l'effettività e l'ampiezza del potere esercitato da MONTANTE, oltre che in generale sulle istituzioni regionali, ove lo stesso, per esempio, aveva la capacità di condizionare pesantemente la scelta degli assessori, anche sull'I.A.S. s.p.a., così ratificandosi l'assoluta attendibilità delle dichiarazioni di CICERO circa la cooptazione della BATTIATO nella predetta società grazie all'intercessione del citato MONTANTE.

Un ufficiale molto disponibile. la Repubblica il 24 novembre 2019. L'incarico della BATTIATO presso l'I.A.S. s.p.a. non costituisce l'unico vantaggio tratto dai coniugi D'AGATA dal patto mutualistico stretto dall'ufficiale dell'Arma con MONTANTE. Infatti, dalla lettura degli atti emergono significativi elementi per affermare che il Col. D'AGATA, proprio grazie a buoni uffici di MONTANTE, era riuscito a passare, nel luglio 2014 dalla Direzione investigativa antimafia di Palermo, ove esercitava le funzioni di capo centro, all'Agenzia informazioni e sicurezza interna (A.I.S.I.), rientrante nelle Istituzioni dei servizi segreti italiani. Sul punto particolarmente interessanti, per la rispettiva specificità e il reciproco riscontro, si rivelano le dichiarazioni di Nicolò MARINO e di Salvatore PASQUALETTO. In via preliminare, può essere utile precisare come Nicolò MARINO ha assunto, nel presente procedimento, la veste di persona informata dei fatti, sicché le sue dichiarazioni, sul piano della vis probatoria, sono munite di una sorta di aseità e, pertanto, non costituiscono quella probatio claudicans, tipica delle dichiarazioni rese dagli indagati di reati connessi o figure simili, di importanza sub-testimoniale, che necessita di un etero-sostegno in elementi di riscontro. Tuttavia, pur nella consapevolezza della plena probatio di tale fonte, non può farsi a meno di evidenziare come il convincimento giudiziale non è stato basato esclusivamente sulle sue dichiarazioni, ma anche sulle affermazioni, convergenti, fatte spontaneamente dal sindacalista Salvatore PASQUALETTO nel corso di una conversazione che è stata oggetto di captazione. Peraltro, com'è noto, PASQUALETTO doveva avere stretto buoni rapporti con MONTANTE, se è vero che quest'ultimo, come visto supra, prendeva le sue difese nei discorsi con la BATTIATO, a fronte delle osservazioni della stessa sull'assoluta inefficienza del sindacalista all'interno dell'I.A.S. s.p.a. Entrando nel merito delle evidenze probatorie, Nicolò MARINO riferiva che, divenuto ormai assessore al Territorio e Ambiente della Giunta regionale siciliana, aveva ricevuto la confidenza da parte di D'AGATA, all'epoca capo centro D.I.A. di Palermo, che quest'ultimo aveva mantenuto gli ottimi rapporti instaurati con MONTANTE nel suo precedente periodo nisseno (il colonnello, si ricorderà, era già stato comandante provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta), e che, grazie agli addentellati istituzionali dell'imprenditore, egli aveva la possibilità di entrare nei servizi segreti (verbale di assunzione di informazioni del 16 aprile 2016): “...omissis...

ADR Mi viene chiesto se sono a conoscenza di rapporti esistenti tra MONTANTE ed il Col. D'AGATA. A tal proposito evidenzio che mi risultano rapporti nati e consolidati tra il Col. D'AGATA e MONTANTE durante il periodo in cui il D'AGATA fu Comandante Provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta. Mi risultano personalmente per avermene parlato direttamente il Col. D'AGATA ed il Ten. Col. ROMEO, all'epoca Comandante del Reparto Operativo presso il Comando Provinciale Carabinieri di Caltanissetta. Ritrovai successivamente il Col. D'AGATA come Capo Centro della D.I.A. di Palermo durante il mio periodo di permanenza al governo della Regione siciliana e dialogando con lui nell'ultimo periodo, appresi che aveva mantenuto ottimi rapporti con Antonello MONTANTE e che vi era anche la possibilità per lui, di ottenere un incarico presso l'AISI o AISE, non ricordo esattamente quale delle due strutture, grazie ai buoni rapporti che MONTANTE aveva con i vertici istituzionali. ...omissis...”

Le rivelazioni di MARINO risultano perfettamente compatibili con un dato storico: in data 15 giugno 2012 il Gen. Arturo ESPOSITO, legato a MONTANTE da un saldo rapporto di amicizia (sul punto, vd. amplius nel prosieguo della motivazione), veniva nominato direttore dell'A.I.S.I., qualità che possedeva ancora alla data - luglio 2014 - della cooptazione, in tale organismo, del Col. D'AGATA. A nulla varrebbe contestare la credibilità di MARINO sulla base della involuzione dei suoi rapporti con il sistema confindustriale siciliano, atteso che, come detto, anche volendo accogliere osservazioni di tal fatta e volendo irrigidire il vaglio sull'affidabilità dello stesso, le sue dichiarazioni, oltre ad essere "riscontrate" dal dato storico testé evidenziato, appaiono del tutto convergenti, come anticipato, con quelle rese spontaneamente da Salvatore PASQUALETTO, nel corso di una conversazione intrattenuta il 25 maggio 2015 con Marco VENTURI:

“[…] PASQUALETTO: Glielo ha messo lui!..(inc)...

VENTURI: può essere...perché è facile dire che tutto quello che è successo in Italia...(inc)...lo ha fatto lui...

PASQUALETTO: ...no...ma glielo ha messo lui!.. ascoltami...perché l'ha tolto dalla DIA di Palermo e l'ha mandato là! Perché l'ha allontanato dal covo dei briganti in modo che iddru quannu si ni và...che parte...passa da Catania omissis”

[…] PASQUALETTO, nell'attribuire a MONTANTE il merito del passaggio del Col D'AGATA dalla D.I.A. di Palermo all'A.I.S.I., non pare formulare una mera ipotesi, ma sembra esprimere una vera e propria certezza sulla base della sua conoscenza storica degli avvenimenti.

Infatti, mentre VENTURI approvava il discorso di PASQUALETTO in termini deduttivi, ossia evincendo la fondatezza dell'assunto del suo interlocutore dall'ampiezza del potere esercitato da MONTANTE sulle diverse istituzionali nazionali (“..può essere...perché è facile dire che tutto quello che è successo in Italia...(inc)...lo ha fatto lui...”), il sindacalista lo correggeva, spiegandogli che non si trattava di una sua supposizione, benché ragionata e fondata su dati obiettivi, ma del frutto della sua conoscenza diretta della vicenda: “..no ma glielo ha messo lui...ascoltami...perché  l'ha tolto dalla DIA di Palermo e l'ha mandato là! Perché l'ha allontanato dal covo dei briganti...”. PASQUALETTO, dunque, non appare elaborare ipotesi, ma piuttosto sembra spiegare le ragioni in sé del cooptazione dell'ufficiale dell'Arma nei servizi segreti. Coniugando, dunque, le dichiarazioni di MARINO con quelle di PASQUALETTO e leggendo le stesse attraverso il filtro dell'amicizia stretta da MONTANTE con il Gen. ESPOSITO, non può seriamente dubitarsi circa la sponsorizzazione, da parte dell'imprenditore di Serradifalco, del reclutamento del Col. D'AGATA all'interno dell'A.I.S.I. A fronte della esaustività del quadro probatorio, può aggiungersi soltanto che anche nel famoso file excel risultano annotazioni di segnalazioni cui era interessato D'AGATA, che, per la loro collocazione cronologica, appaiono perfettamente compatibili con la ricostruzione testé effettuata. E tuttavia, sebbene nulla osti a passarli in rassegna, si tratta, ad avviso di questo giudice, di elementi indiziari aspecifici, che al più appaiono compatibili con la piattaforma probatoria raccolta, la quale, tuttavia, attesa la sua intrinseca completezza, non necessita di una ulteriore attività di verificazione. Per agilità espositiva, è possibile ripercorre direttamente la parte dell'ordinanza cautelare (da p. 1041) relativa a tale dettaglio della ricostruzione della vicenda: Occorre poi rilevare che, sempre dall'analisi del più volte menzionato file excel potrebbe ricavarsi altro elemento che servirebbe a confortare l'ipotesi secondo cui il D'AGATA sia stato agevolato dal MONTANTE per transitare nei Servizi d'informazione e sicurezza. Ed invero nella cartella di tale file denominata “CURRIC. PER SENN” - e che reca in intestazione del suo contenuto la dicitura “CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE” - è dato leggere anche la seguente annotazione: PINO D. O7/O8/2012 BIGLIETTO. L'annotazione in questione è anche diligentemente riportata nella cartella “TUTTI”, ove, proprio alla data del 7 agosto 2012, il MONTANTE ha diligentemente riportato la stessa indicazione: […].

Orbene, essendo contenuto in una cartella del file che rappresenta, di certo, un analitico promemoria redatto dal MONTANTE (soprattutto) per cristallizzare i soggetti che, nel corso del tempo, evidentemente gli avevano chiesto di intercedere per ottenere i più svariati favori, può anche ipotizzarsi che l'appunto in questione riguardante il D'AGATA sia stato redatto dal MONTANTE proprio al fine di “rammentare” l'interessamento che l'Ufficiale dell'Arma gli aveva chiesto al fine di transitare nei ranghi dei Servizi di informazione. Sicché, se così dovesse essere, non si può non sottolineare che, alla data in cui viene riportata tale annotazione, il D'AGATA era già in servizio al centro operativo D.I.A. di Palermo e, dunque, la “segnalazione” chiesta al MONTANTE non poteva che riguardare il successivo incarico svolto e cioè proprio il passaggio all'A.I.S.I. ove l'Uff1ciale dell'Arma presta ad oggi servizio. In tal senso, non appare secondario rilevare anche che, nel momento in cui l'imprenditore di Serradifalco annotava quell'evento, il Generale ESPOSITO si era da poco insediato (neanche due mesi prima) al vertice dell'A.I.S.I. Per correttezza, va rilevato che l'annotazione in questione non è, dal punto di vista del contenuto, cosi chiara come altre del pari contenute nella medesima cartella o in quella denominata “TUTTI” (sulle quali non si può nutrire alcun dubbio che si tratti di richieste di “raccomandazioni”), sicché - anche in virtù della dicitura posta in epigrafe della cartella in questione (“CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE”) - è certamente possibile ritenere che il “biglietto” riferibile al D'AGATA di cui il MONTANTE ha voluto lasciar traccia (e che, analogamente all'altra documentazione di cui si è annotato scrupolosamente i riferimenti, è ancora nella sua disponibilità) si riferisca ad altre e diverse vicende – avulse da quella in trattazione - delle quali non è dato sapere.

Tutti gli amici nella Finanza. La Repubblica il 25 novembre 2019. MONTANTE non manteneva rapporti patologici soltanto con gli appartenenti all'Arma dei Carabinieri. Anzi, se mai fosse possibile, il rapporto intrattenuto con i vertici provinciali nisseni della Guardia di Finanza, secondo l'impianto accusatorio, aveva subito un processo di distorsione anche maggiore, se si considera che di loro MONTANTE si sarebbe avvalso non solo a tutela dei propri interessi personali, in termini di esenzione dagli esiti delle verifiche fiscali, ma anche per colpire gli avversari, mediante verifiche fiscali mirate e talvolta pretestuose. In particolare, gli interlocutori dell'imprenditore, nella tesi dell'accusa, erano il Maggiore Ettore ORFANELLO (nei confronti del quale si procede separatamente) e il Colonnello Gianfranco ARDIZZONE (odierno imputato), rispettivamente comandante del nucleo di Polizia Tributaria presso il comando provinciale e comandante provinciale. Entrambi, peraltro, avrebbero ricavato dei vantaggi (assunzioni di propri familiari, trasferimenti, etc) dalla instaurazione di tale relazione con MONTANTE, nell'ambito di una declinazione corrispettiva del rapporto interpersonale. Al fine di comprendere l'aspetto temporale della vicenda oggetto di esame, può essere utile rammentare gli incarichi ricoperti da ARDIZZONE nell'ultimo periodo della sua carriera, dovendosi pertanto segnalare che lo stesso “[...] ha ricoperto l'incarico di capocentro della D.I.A. di Reggio Calabria dal luglio 2011 al 29.5.2014, cui è seguito l'incarico di capocentro della D.I.A. di Caltanissetta dal 30.5.2014 al 14.6.2015. L'avvicendamento avviene con il colonnello della Guardia di Finanza Gaetano SCILLIA, il quale a sua volta lascia l'incarico di capocentro della DIA di Caltanissetta per ricoprire il medesimo ruolo nella DIA reggina [...]” (C.N.R. n. 1092/2017 cit., p. 1332; cfr. anche annotazione della Guardia di Finanza di Caltanissetta del 30 luglio 2016, in atti). Ettore ORFANELLO, per converso, ha comandato il nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Caltanissetta dal 1 agosto 2005 al 24 giugno 2012 (cfr. annotazione della Guardia di Finanza di Caltanissetta del 30 luglio 2016, ult. cit.). Ciò posto, occorre muovere dalle dichiarazioni di VENTURI per una preliminare visione panoramica del tipo di rapporti instaurati dall'imprenditore di Serradifalco con i due ufficiali della Guardia di Finanza.

VENTURI, in particolare, sentito il 12 novembre 2015 (cfr. verbale di assunzione di informazioni), si soffermava:

a) sul rapporto di confidenza ed amicizia intercorsa tra MONTANTE e i vertici nazionali della Guardia di Finanza;

b) sulla "sistemazione" o sui miglioramenti della posizione lavorativa ottenuta dai familiari del Magg. ORFANELLO e del Col. ARDIZZONE presso imprese vicine a MONTANTE (in particolare, presso imprese riconducibili a Massimo ROMANO, coimputato nei riguardi del quale si procede separatamente);

c) sul vanto dello stesso MQNTANTE circa gli esiti favorevoli delle verifiche fiscali sul suo conto ("condono tombale");

d) sulle tangenti percepite dal Magg. ORFANELLO per ammorbidire le verifiche fiscali;

e) sulle singolarità che avevano contraddistinto le indagini nei riguardi di due imprese operanti nel settore dell'arredo (la ARREDI POLIZZI s.r.l. e la FA.SI. s.r.l.), riconducibili a Gioacchino PQLIZZI, indagini verso le quali MONTANTE aveva manifestato un particolare interesse, e che, inspiegabilmente, si erano arenate.

Nell'ambito di tali singolarità, VENTURI segnalava la sottoposizione a verifica fiscale del consulente incaricato dal P.M. per rilevare, da un punto di vista tecnico-contabile, le ipotizzate fattispecie delittuose a carico del citato POLIZZI. Per ragioni di comodità espositiva, giova richiamare il contenuto dell'ordinanza cautelare (da p. 1051), che contiene un'utile sintesi delle dichiarazioni di VENTURI, unitamente alla loro riproduzione testuale: In tal senso, occorre partire, ancora una volta, dalle dichiarazioni rese a questo Ufficio da Marco VENTURI (cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015), il quale, in relazione allo specifico tema che qui viene in rilievo, ha innanzitutto riferito degli ottimi rapporti intercorrenti tra il MONTANTE ed esponenti della Guardia di Finanza, sia a livello nazionale che a livello locale. In particolare il VENTURI (cfr. verbale del 12.11.2015 in atti) ha dichiarato che:

aveva personalmente potuto constatare l'amicizia esistente tra il MONTANTE ed il Generale ADINOLFI, con il quale si era trovato a cena, a Roma, all'Hotel Bernini, su invito dello stesso MONTANTE;

VENTURI ha anche parlato dei buoni rapporti che intercorrevano tra il MONTANTE e l'ex comandante Provinciale di Caltanissetta - e poi capocentro della D.I.A. nissena - Colonnello Gianfranco ARDIZZONE.

In relazione a quest'ultimo, il VENTURI ha anche specificato che, tra il 2007 ed il 2009, quando egli era Presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta, l'ARDIZZONE gli aveva chiesto se avesse la possibilità di assumere la figlia. Non avendo, in quel momento, necessità di personale e sapendo che al CONFIDI si stavano cercando persone da assumere, aveva girato la richiesta a ROMANO Massimo (che al tempo ne era, appunto, il Presidente) e la ARDIZZONE, effettivamente, dopo poco tempo era stata assunta. A dire del VENTURI, poi, l'ARDIZZONE gli aveva fatto presente che si era rivolto alla sua persona poiché non si era voluto recare direttamente dal MONTANTE e dal ROMANO per avanzare loro una simile richiesta. In ogni caso, ciò che importa rilevare in questa sede - e che emerge in verità anche dalle dichiarazioni del VENTURI (oltre che da altri elementi acquisiti al procedimento di cui si dirà in appresso) - è che la figlia dell'ARDIZZONE era poi stata assunta al CONFIDI grazie all'interessamento del ROMANO (sia pure mediato dallo stesso VENTURI). Le dichiarazioni rese da Pasquale TORNATORE (delle quali, anche in tal caso, meglio si dirà di qui a poco) inducono seriamente a dubitare che la ARDIZZONE sia stata assunta in virtù delle specifiche competenze di cui disponeva, quanto, piuttosto, per “ragioni di riguardo” nei confronti di colui che, al tempo, rappresentava il vertice della Guardia di Finanza del capoluogo nisseno. Infine, sempre il VENTURI, ha posto l'accento sugli ottimi rapporti - che personalmente gli risultavano - tra il MONTANTE ed il Magg. Ettore ORFANELLO. A tal proposito, infatti, ha riferito di aver pranzato, in diverse occasioni, in compagnia del MONTANTE e dello stesso ORFANELLO, così come era a conoscenza che quest”ultimo spesso si era trovato a pranzare con l'imprenditore di Serradifalco o si recava a fargli visita presso l'abitazione di contrada Altarello o la sede di CONFINDUSTRIA Caltanissetta quando il MONTANTE ne era Presidente.

Il VENTURI, inoltre, riferiva pure dei buoni rapporti intercorrenti - anche in tal caso per averne avuto personale contezza - tra Romano MASSIMO e l'ORFANELLO, essendosi, peraltro, trovato in qualche occasione a pranzo in compagnia tanto di questi ultimi che del MONTANTE. I rapporti “amichevoli” del ROMANO e del MONTANTE descritti dal VENTURI con i citati esponenti della Guardia di Finanza di Caltanissetta servono esclusivamente per poter delineare la cornice all'interno della quale inquadrare le ben più gravi dichiarazioni rese dal VENTURI medesimo, in specie in relazione al Magg. ORFANELLO. Si è trattato di dichiarazioni che, allorché sono state raccolte da questo Ufficio, hanno aperto orizzonti investigativi per certi versi inaspettati e sono servite a delineare uno scenario in verità allarmante.

Ed invero, con specifico riguardo all'ORFANELLO, il VENTURI ha dichiarato che:

- la compagna, al tempo, dell'Ufficiale della Guardia di Finanza, TIRRITO Rosaria - che già lavorava presso un supermercato del ROMANO - era stata da quest'ultimo assunta, verosimilmente dietro sollecitazione del MONTANTE, al CONFIDI, quando il ROMANO medesimo ne era Presidente;

- in epoca antecedente al 2010, il MONTANTE gli aveva espressamente evidenziato di considerare le verifiche ispettive eseguite dalla Guardia di Finanza alla stessa stregua di un “condono tombale” tanto che, per tali ragioni, aveva chiesto che gli venissero eseguite.

Sempre il MONTANTE, gli aveva fatto presente che la sua azienda, differentemente da quelle di altri imprenditori di CONFINDUSTRIA Caltanissetta, non aveva mai subito controlli da parte della Guardia di Finanza, sicché avrebbe fatto in modo di fargli eseguire una visita ispettiva. Nonostante non si fosse trovato d'accordo con le intenzioni del MONTANTE, non avendo, in verità, mai subito prima di quel momento una verifica - che giudicava, peraltro, inusuale per attività imprenditoriali come quella condotta dalla sua azienda - dopo circa otto mesi~un anno, effettivamente, la Guardia di Finanza di Caltanissetta aveva dato corso ad un controllo e ricordava che il responsabile di quelle operazioni fosse stato proprio il Magg. ORFANELLO. La verifica si era chiusa regolarmente, non essendo stata riscontrata alcuna irregolarità, e, dopo qualche mese, si era trovato a passeggiare nel centro di Caltanissetta assieme al MONTANTE. In quell'occasione, quest'ultimo gli evidenziò che anche Carmelo TURCO aveva subito una verifica della Guardia di Finanza ed aveva versato somme di danaro all'ORFANELLO affinché questi “chiudesse gli occhi” su alcune irregolarità che erano state riscontrate nel corso delle operazioni. Il MONTANTE gli fece, quindi, presente che avrebbe dovuto erogare la somma di 2.500 euro all'ufficiale della Guardia di Finanza, ma egli si rifiutò, anche perché non era stata riscontrata alcuna anomalia in relazione alla sua azienda, così provocando il forte disappunto del suo interlocutore, che aveva poi lasciato cadere il discorso. Il VENTURI ha anche riferito che il MONTANTE aveva introdotto quell'argomento prima che incontrassero ORFANELLO, il quale si uni a loro a passeggiare per un breve tratto, fin tanto che notò sopraggiungere il TURCO ed a quel punto decise di allontanarsi. […] Le dichiarazioni rese dal VENTURI a questo Ufficio - laddove coniugate con quelle fornite da numerose persone informate sui fatti di cui si dirà in appresso - permettono di affermare come il MONTANTE abbia utilizzato la Guardia di Finanza di Caltanissetta, attraverso il comportamento accondiscendente dei suoi vertici, non solo a protezione degli interessi propri e dei soggetti a lui vicini, ma anche come efficace strumento per colpire soggetti invisi o che egli riteneva ne avessero in qualche maniera ostacolato la sua azione. Ed invero, in data 28.l 1.2015, il VENTURI chiedeva di essere nuovamente sentito e premetteva di aver avuto, in passato, rapporti commerciali con due società riconducibili a POLIZZI Gioacchino, la “ARREDI POLIZZI s.r.l.” e la FA.SI. s.r.l.” che si occupavano, rispettivamente, di vendita e di produzione di mobili. In particolare riferiva di un primo acquisto di mobili per gli uffici della sua azienda, avvenuto nel 2000, nonché di altro, più consistente, nel 2002 allorché aveva deciso di rinnovare totalmente gli arredi della SIDERCEM. Una volta specificati i dettagli di tale seconda operazione (per i quali si rimanda al contenuto del verbale in atti) il VENTURI evidenziava anche che, nella primavera/estate del 2010, il MONTANTE gli aveva fatto presente che era in corso un'indagine da parte della Guardia di Finanza di Caltanissetta e che era anche stato nominato un consulente dalla Procura per esaminare le carte relative al fallimento delle ditte “Arredi Polizzi” e “FASI”. Il VENTURI ha aggiunto che il MONTANTE si era mostrato preoccupato per i possibili sviluppi di quel procedimento, in relazione al quale, a suo dire “sarebbero stati tirati in ballo”, trattandosi (neanche a dirlo) di una manovra ordita per screditarli e che, dunque, sarebbe intervenuto con la Guardia di Finanza per “cautelare” la situazione. Egli aveva risposto al MONTANTE che non era interessato alla questione, poiché i rapporti che aveva intrattenuto con quelle ditte erano stati improntati a correttezza. Nel successivo mese di settembre la moglie aveva ricevuto una telefonata da parte di un appartenente alla Guardia di Finanza a nome LA VECCHIA, il quale si era poi recato negli uffici della SIDERCEM chiedendo la documentazione afferente ai suddetti rapporti commerciali con le due ditte riconducibili a POLIZZI Gioacchino. In considerazione del periodo trascorso, avevano chiesto del tempo per poter reperire i documenti occorrenti, richiesta che era stata accolta dal finanziere, il quale aveva lasciato loro il proprio numero di telefono (il relativo appunto è stato acquisito agli atti del procedimento) dove poter essere successivamente contattato. Il VENTURI ha infine specificato che, una volta approntata la documentazione, aveva provato a contattare il LA VECCHIA ma non aveva ricevuto alcuna risposta, sicché aveva conservato quei documenti in cassaforte, ove erano rimasti sino al giorno in cui aveva poi reso le dichiarazioni a questo Ufficio. Dopo qualche tempo, aveva riferito della visita del finanziere al MONTANTE, il quale si era limitato ad apprendere la notizia senza effettuare alcun commento o avere una qualche particolare reazione. Emblematicamente il VENTURI aggiungeva di aver in seguito appreso che il consulente nominato dal Pubblico Ministero di cui gli aveva parlato il MONTANTE aveva poi subito una verifica ispettiva da parte della Guardia di Finanza.

La bella “cantata” del comandante Saccia. La Repubblica il 26 novembre 2019. I rapporti tra MONTANTE e la Guardia di Finanza, come anticipato, trascendevano gli orizzonti provinciali, attingendo ai livelli regionali e persino nazionali. Tanto emerge, oltre che dalle dichiarazioni di VENTURI, da quelle di Giovanni CRESCENTE e di Gioacchino BORZELLINO, quest'ultimo appartenente al nucleo P.T. della Guardia di Finanza di Caltanissetta, nonché dalle numerose e assai significative annotazioni contenute nel noto file excel, relative ad una moltitudine di incontri ed appuntamenti tra l'imprenditore di Serradifalco e i diversi livelli della gerarchia del corpo in questione. Ma a scolpire in maniera plastica la natura, perversa, dei rapporti intercorsi tra MONTANTE e le istituzioni nissene e nazionali era Nazario SACCIA (che si ricorda essere l'ex comandante del G.I.C.O. presso il comando provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta poi transitato in E.N.I. s.p.a.), nel corso di una conversazione telefonica con il Magg. QRFANELLO. In particolare, tale conversazione (progr. n. 2493), avvenuta il 28 gennaio 2016, fornisce un tassello straordinario nella ricostruzione della natura del rapporto intessuto da MONTANTE con gli esponenti del comando provinciale nisseno (tra cui, appunto, lo stesso ORFANELLO). I loquenti, infatti, che conoscevano benissimo MONTANTE per essersi variamente relazionati con lui in diverse situazioni di cointeressenza (vd. infra), non esitavano ad affermare come l'imprenditore di Serradifalco avesse il potere di “dettare legge" all'interno della Guardia di Finanza, “dove aveva un ascendente di un certo spessore” (SACCIA), e che “da noi [ossia, presso il comando provinciale di Caltanissetta] poteva fare veramente dico il padrone di casa” (ORFANELLO).

In verità, le conversazioni di interesse nella prova del rapporto costruito tra l'imprenditore e la Guardia di Finanza, intercorse tra SACCIA ed ORFANELLO, sono diverse, e tutte parimenti interessanti. Basti pensare, per esempio, all'esortazione che, secondo ORFANELLO, il Gen. ACHILLE, comandante regionale del corpo, aveva rivolto al comandante provinciale di Caltanissetta, Col. ARDIZZONE, affinché lo stesso andasse “a braccetto” con “questa gente" (cosi ORFANELLO; conversazione progr. n. 2228 del 26 gennaio 2016), dovendosi identificare tale “gente”, dal tenore complessivo della conversazione, con MONTANTE e ROMANO (nei confronti del quale si procede separatamente).

L'ordinanza cautelare (da p. 1060), oltre a ripercorre le dichiarazioni dei citati CRESCENTE e BORZELLINO sulla esistenza di rapporti qualificati tra MONTANTE e le più alte gerarchie della Guardia di Finanza (il Gen. CAPOLUPO, comandante generale della Guardia di Finanza dal 2012 al 2016; il Gen. ADINOLFI, vice comandante generale della Guardia di Finanza sino al dicembre 2015), offre una rassegna esaustiva delle conversazioni intercorse tra SACCIA ed ORFANELLO, aventi ad oggetto lo specifico thema probandum:

Ed invero, una prima conferma delle entrature di cui il MONTANTE ha potuto godere all'interno della Guardia di Finanza e degli stretti rapporti esistenti con esponenti apicali di tale forza di polizia, quali il Generale ADINOLFI, si trae da un passaggio delle dichiarazioni rese da Giovanni CRESCENTE (cfr. verbale del 22.12.2015), il quale ha evidenziato che, nel periodo in cui Emma MARCEGAGLIA era Presidente di Confindustria nazionale, il MONTANTE, in sua presenza, contattò quest'ultima, dandole appuntamento a Roma e preannunciandole che all'incontro avrebbero presenziato anche il Ministro della Giustizia Angelino ALFANO e, appunto, il Generale ADINOLFI. […] Altra conferma proviene dalle dichiarazioni rese da un appartenente al Nucleo P.T. della Guardia di Finanza di Caltanissetta, Gioacchino BORZELLINO, che ha riferito di una visita al Reparto di Caltanissetta eseguita dal Generale Saverio CAPOLUPO, cui era seguito un pranzo con gli ufficiali al quale aveva partecipato, come unico civile presente, anche Antonio Calogero MONTANTE (cfr. verbale di s.i.t. Del 19.11.2016). […] Gli elementi, tuttavia, maggiormente pregnanti che stanno a testimoniare l'intensità delle relazioni intrattenute dal MONTANTE con alcuni esponenti di vertice della Guardia di Finanza derivano dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche il cui esatto significato si potrà comprendere laddove si consideri che le stesse sono state registrate successivamente alle perquisizioni che questo Ufficio aveva disposto proprio nei confronti del MONTANTE.

Si dirà nel prosieguo come le notizie di stampa che erano state pubblicate, sia su siti internet che su testate regionali e nazionali, in merito alle operazioni che erano state compiute nei confronti dell'imprenditore di Serradifalco avessero ingenerato un forte senso di preoccupazione nei confronti dell'ORFANELLO, in specie dopo aver appreso che anche Massimo ROMANO aveva reso dichiarazioni sul conto del MONTANTE, sicché lo stesso ORFANELLO si lasciava andare al telefono ad una serie di commenti estremamente significativi ai fini del procedimento. Ebbene, in tale contesto e per ciò che qui più specificamente rileva, l'ORFANELLO conversava a più riprese con Nazario SACCIA, attualmente impiegato alle dipendenze di ENI S.p.a. come Responsabile Security della Divisione Refining & Marketing, ma già in servizio alla Guardia di Finanza di Caltanissetta come Comandante del G.I.C.O. nello stesso periodo in cui il predetto ORFANELLO era al comando del Nucleo P.T. del capoluogo nisseno (da cui funzionalmente dipende il predetto G.I.C.O.). In una prima telefonata, captata alle ore 9.39 del 26.1.2016 (conversazione progressivo nr. 2228) l'ORFANELLO, nell'esprimere, tra le altre cose, il proprio timore di rimanere coinvolto nelle indagini che questo Ufficio stava conducendo sol perché, a suo dire, si potesse “criminalizzare” il fatto che “mi pigghiava u cafè cu Montante mi mangiava a pizza cu Romano” rammentava al suo interlocutore i rapporti che avevano avuto con costoro anche “il comandante generale nostro” ed il Comandante Regionale, Generale ACHILLE, i quali, ogniqualvolta venivano in visita a Caltanissetta, sempre a dire dell'ORFANELLO “con questa gente erano cazzo e culo” e non mancavano di raccomandare loro di “andare a braccetto con questa gente, minchia me lo ricordo il termine che macari mi faceva impressione... dovete andare a braccetto con questa gente, a braccetto dovete andare”. […] Nello stesso senso, si pone il contenuto di altra conversazione telefonica intercorsa, due giorni dopo, pur sempre tra l'ORFANELLO ed il SACCIA (conversazione nr. 2493 del 28.1.2016) nel corso della quale quest'ultimo sottolineava come il MONTANTE fosse in condizioni di “dettare legge” all'interno della Guardia di Finanza, trattandosi di un ambiente “dove aveva un ascendente di un certo spessore " e l'ORFANELLO, di rimando, significativamente evidenziava che “da noi poteva, fare veramente dico il padrone di casa”. Appare appena il caso di osservare come la conversazione in questione si sia svolta tra due soggetti che hanno rivestito incarichi di rilievo all'interno della Guardia di Finanza e che, dunque, hanno concretamente potuto apprezzare le dinamiche interne di tale forza di polizia, nonché il tipo di relazioni che il MONTANTE ha saputo intessere con i suoi esponenti di vertice. E non può non inquietare il fatto che due soggetti che hanno avuto simili ruoli nell'ambito del contesto istituzionale parlino con così tanta naturalezza della possibilità che un imprenditore privato abbia di “dettare legge” all'interno della forza di polizia in cui hanno militato o militano tuttora. […] Il tema dei rapporti tra il MONTANTE e gli esponenti di vertice della Guardia di Finanza veniva incidentalmente ripreso dal SACCIA e dall'ORFANELLO nel corso di altra telefonata (già in precedenza riportata) del 5.2.2016 (progr. 2679 delle ore 10.14 del 5. 2.2016) in cui il SACCIA, nel riferire alcune circostanze apprese da Diego DE SIMONE, evidenziava come la “meteora MONTANTE” fosse servita a CONFINDUSTRIA per “stare su certi tavoli in un certo momento” e che, con ogni probabilità, si trattava di esperienza destinata a non ripetersi trattandosi di un’associazione di imprenditori che ha come obiettivo primario fare “soldi” e “business” e non quello di “fare i paladini della legalità”.

L'ORFANELLO si mostrava concorde con il suo interlocutore e, facendo evidentemente riferimento ai “tavoli” di cui aveva poco prima parlato il SACCIA, sottolineava ciò che “CAPOLUPO” aveva detto al MONTANTE in occasione di pranzi cui aveva evidentemente partecipato anche lo stesso ORFANELLO. Al di là del contenuto del discorso avuto dai due nell'occasione, si potrà certamente notare, ancora una volta, come sia ORFANELLO a certificare le relazioni di altissimo livello del MONTANTE, laddove si tenga presente che il “CAPOLUPO” deve certamente identificarsi con il Generale della Guardia di Finanza che, tra le altre cose, dal 23 giugno 2012 al 29 aprile 2016 è stato Comandante Generale di tale forza di polizia. Si spiega, pertanto, perché, sempre nel corso della telefonata in questione, il SACCIA evidenziasse che sino a poco tempo addietro “a Caltanissetta Antonello era il potere assoluto” poiché in grado di concentrare su di sé “il potere sulle forze dell'ordine”, “il potere con la leva politica” (citando, a titolo esemplificativo, gli strettissimi rapporti esistenti con l'allora Ministro dell'Interno Angelino ALFANO) e “il potere sulla magistratura”.

SACCIA: Però compà...però compà...però compà facendo analisi compà...u discursu qual è compà...u discursu qual è...secondo me è...mo al di là...io non esprimo giudizi sulla...sul processo pirchì o solito s'anna a leggiri i carti non è ca putimmu leggiri nti giornali...però iofaccio un'analisi così, di sistema...compà questo era andato a toccare un argomento.. chiddru díll'antimafia che ormai è un business micidiale l'antimafia...l'antimafia è n'autra mafia no? Lo sappiamo tutti quanti benissimo no... leggi gli scandali CAPPELLANO-SEMINARA di ca...di dra…l'antimafia... l'antimafia è un grande business...è un grande business...è un grande argomento...ha portato avanti gente, un coglione e un deficiente come a CROCETTA u purtau a fare u presidente della Regione … un LUMIA che campa in Senato da novant'anni sulu parlannu sulu stu fattu dill'antimafia … l'antimafia...l'antimafia...(inc)...chiddru nun capisce un cazzu di una minchia eppure è senatore da non sò quanto cazzo di tempo...comunque è n'argomento tosto...lui con que...con la sua...con la sua campagna...col suo protagonismo e quant'altro...compà...ha sottratto questo argomento ai detentori storici di questo argomento ovvero la magistratura...lui minchia...al massimo del suo potere compà … andava a influire anche sulle cariche del..della magistratura, andava ad agire direttamente sulle Forze dell'Ordine fottendosene della...della magistratura e quant'altro...compà e la magistratura giustamente tutto...no giustamente...la magistratura tutto ciò secondo te poteva tollerarlo?...Che venisse anche solo in parte depredata...depredata di un argomento che detiene in maniera storica e in maniera forte? Poteva permettersi che sul suo territorio ci fosse un potere così forte perché compà … minchia a Caltanissetta due anni fa...tre anni fa Antonello era il potere assoluto... assoluto anche al palazzo di Giustizia … compà … è come dire "una voce pisanti pisanti pisanti''...poteva permettere la magistratura che esistesse una...una figura di questo tipo?

ORFANELLO: Ma cosi di pazzi!

SACCIA: Cioè compà ... (inc) … su Antonello si concentravano una serie di poteri...compà di … come dire … proprio tra virgolette "incompatibili fra di loro" … cioè il potere sulle forze dell'ordine...il potere con la leva politica perché aveva minchía...da ALFANO iddru non è che si dava del tu...si dava dell'io...il potere sulla magistratura...

omissis

[…] L'analisi di SACCIA sul “potere assoluto” costruito da MONTANTE (“..da ALFANO iddru non è che si dava del tu...si dava dell'io...”, conv. progr. n. 2679 del 5 febbraio 2016), piaccia o non piaccia, è un monumento di sintesi, forse cinica e spietata, ma certamente assai obiettiva, che fotografa il dominio dello stesso su molte delle istituzioni nazionali (e regionali) e che, pertanto, vanificava il senso stesso della democrazia, in quanto poteri diversi tra loro, che avrebbero dovuto relazionarsi in termini dialettici, finivano per trovare nell'influente esponente di Confindustria il punto occulto di coincidentia oppositorum.

L'attribuzione a MONTANTE, da parte di Confindustria nazionale, del ruolo di delegato alla legalità, non rispondeva, secondo SACCIA, che in tal senso mostrava di condividere quanto appreso da Diego DI SIMONE PERRICONE, ad alcuna finalità etica, ma soltanto allo scopo, molto più pragmatico ed utilitaristico, di “stare su certi ri...su certe... su certi tavoli in un certo momento”, aggiungendo subito dopo "però vidi comu finiu...cioè ma a noi che cazzo ce ne fotte...noi che ama fari soldi...ama a fari business...siamo un associazione di imprenditori...mica di paladini della giustizia [...]". E' impossibile non cogliere immediate connessioni tra le parole di SACCIA (e quelle di DI SIMONE, riferite dal primo nel corso della conversazione in commento) sulla natura autenticamente utilitaristica della declamata svolta legalitaria di Confindustria, e l'esperienza vissuta da VENTURI, il quale, dopo la pubblica presa di distanza da MONTANTE, era stato destinatario di un provvedimento sostanzialmente espulsivo da parte del collegio dei "probiviri" dell'associazione nazionale degli industriali, ispirato dal presidente Giorgio SQUINZI (sez. seconda, cap. IV, § 4). E ciò, in totale pretermissione della questione morale-legalitaria tanto agitata come strumento di autoreferenza nei rapporti con il potere politico e la magistratura. Tale considerazione consente di comprendere il senso più profondo delle parole, lucide e disincantate, di SACCIA, per cui “l'antimafia è un grande business...è un grande business...è un grande argomento...ha portato avanti gente, un coglione e un deficiente come a CROCETTA u purtau a fare u presidente della Regione...un LUMIA che campa in Senato da novant'anni sulu parlannu sulu stu fattu dill'antimafia...l'antimanfia...l'antimafia...(inc)...chiddru nun capisce un cazzu di una minchia eppure è senatore da non sò quanto cazzo di tempo...comunque è n'argomento tosto...lui con que...con la sua...con la sua campagna...col suo protagonismo e quant'altro … compà … ha sottratto questo argomento ai detentori storici di questo argomento ovvero la magistratura...lui minchia...al massimo del suo potere compà...andava a influire anche sulle cariche del...della magistratura, andava ad agire direttamente sulle Forze dell'Ordine fottendosene della...della magistratura [...]". Peraltro, nonostante il lessico azzardato ed incontinente riservato da SACCIA a CROCETTA e a LUMIA, dal quale occorre dissociarsi, il pensiero espresso dall'ex ufficiale della Guardia di Finanza, che conosceva benissimo MONTANTE e le sue relazioni sociali, è chiaro: intere e longeve carriere politiche e professionali apparivano sorrette soltanto sui proclami antimafia, finalizzati all'acquisizione di consensi prêt-à~porter in una terra ansiosa di riscattarsi dalle più buie stagioni di mafia.

Ciò posto, deve osservarsi come, a dimostrazione della fondatezza delle considerazioni espresse da SACCIA, ma anche da VENTURI, circa i rapporti intessuti da MONTANTE con vari esponenti, anche di rango nazionale, della Guardia di Finanza, può essere utile passare in rassegna il contenuto del famoso e più volte citato file excel, ove sono annoverate diverse occasioni di incontro e di commensalità dell'imprenditore di Serradifalco con il Gen. Michele ADINOLFI (come già detto, vice comandante generale della Guardia di Finanza sino al dicembre 2015), anche per il festeggiamento di ricorrenze decisamente private, con il Gen. Saverio CAPOLUPO (comandante generale della Guardia di Finanza dal 2012 al 2016) e con il Gen. Domenico ACHILLE (dal marzo del 2008 e sino al 2012 comandante del comando regionale Sicilia della Guardia di Finanza; nel marzo del 2015 designato come componente effettivo del collegio dei Revisori dell'Agenzia Nazionale dei beni sequestrati e confiscati, in rappresentanza del Ministero dell'Interno), nonché con altri ufficiali della Guardia di Finanza (GIBILARO, dal 2004 al 2008 comandante generale dello S.C.I.C.O.; successivamente e sino al 2010, comandante provinciale di Catania; poi, dal settembre 2013, comandante provinciale di Roma e nel marzo del 2013 comandante regionale della Guardia di Finanza in Sicilia; TOSCHI, succeduto ad ADINOLFI come vice comandante generale della Guardia di Finanza e dal 29 aprile 2016 comandante generale, succedendo al già menzionato CAPOLUPO; CARTA, dal settembre del 2012 e nel 2013, capo di Stato Maggiore del comando generale della Guardia di Finanza): […] Com'è ovvio, non si intende qui suggerire una lettura obliqua di tali rapporti, costruiti da MONTANTE con i diversi ufficiali della Guardia di Finanza, quanto evidenziare che tali rapporti, di fatto, esistevano, ciò che, se da un lato vale a lumeggiare l'orizzonte relazionale del potente industriale, dall'altro munisce di consistenza l'assunto, espresso da ORFANELLO al telefono con SACCIA (vd. supra), secondo cui erano i vertici regionali della Guardia di Finanza a promuovere e sponsorizzare la manifestazione della massima solidarietà, da parte dei livelli inferiori del medesimo corpo, in favore del citato imprenditore ("[...] dovete andare a braccetto con questa gente, a braccetto dovete andare").

Un capo centro Dia a servizio da privati. La Repubblica il 27 novembre 2019. Il primo a dischiudere, sia pure in forma incipiente, lo scenario di un possibile quadro di corruttela tra MONTANTE (e l'amico Massimo ROMANO) e i tre pubblici ufficiali della Guardia di finanza è Marco VENTURI, il quale, nelle sommarie informazioni rese in data 12 novembre 2015, a proposito di ARDIZZONE affermava quanto segue: […] Risposi all'ARDIZZONE che non necessitavo di persone da assumere, ma in ogni caso, sapendo che il CONFIDI doveva assumere personale, domandai a ROMANO se avesse la possibilità di assumere la figlia dell'ARDIZZONE. Dopo qualche settimana la figlia di ARDIZZONE in effetti venne assunta. L'ARDIZZONE si presentò da me poiché con lo stesso era nato un rapporto di stima e cordialità, tanto che mi invitò pure al suo matrimonio ad Enna. Ricordo anche che l'ARDIZZONE mi disse espressamente che non si era voluto recare da ROMANO e MONTANTE per domandare il lavoro per la figlia. So, comunque, che ARDIZZONE e MONTANTE avevano buoni rapporti, si vedevano frequentemente e lo stesso MONTANTE mi diceva di avere ottimi' rapporti con I'ARDIZZONE. Dunque, secondo VENTURI, ARDIZZONE gli aveva chiesto se fosse stato possibile trovare un'occupazione lavorativa alla propria figlia, Giuliana, occupazione che VENTURI effettivamente le aveva trovato mediante Massimo ROMANO, che l'aveva assunta all'interno del CONFIDI, da lui presieduto (lo stesso consorzio, dunque, nel quale era stata assunta anche la compagna del Magg. ORFANELLO, sempre sotto la presidenza di ROMANO). A tal proposito si ricava dalla C.N.R. n. 1092/2017 cit. (p. 970) che “veniva accertato che presso il Confidi di Caltanissetta risultava essere assunta ARDIZZONE Giuliana, nata a Gaeta il 10.12.1985, dal 09.01.2008 a tempo determinato e, successivamente, dal 01.05.2008, a tempo indeterminato", dato che, sia pure senza gli specifici dettagli cronologici, è ammesso dall'imputato ARDIZZONE nel corso del suo esame. L'ufficiale, infatti, ha spiegato che, dopo la fine del suo primo matrimonio, la figlia era andata a vivere fuori, in un contesto sociale che non poteva garantirle la costruzione di un futuro solido ed adeguato, sicché la incoercibilità del sentimento familiare lo aveva spinto a cercarle un'occupazione nella propria sede di servizio, al fine di poterle assicurare la dovuta e necessaria protezione paterna (esame del 7 dicembre 2018). Ha aggiunto l'ufficiale che, in ogni caso, egli si era bensì rivolto a VENTURI, che era il presidente della camera di commercio e con il quale, in ragione dell'affidamento alla Guardia di Finanza della sua protezione personale (tutela), si era instaurato un rapporto di amicizia (“Forse per questa tranquillità, iniziando a frequentarci con il Venturi, anche con le famiglie, io mi ricordo nel... era periodo di Natale del 2007, ancora Giuliana non si era convinta del tutto a venire a Caltanissetta, e io ero... insomma, ero in quella situazione un po' strana, ero molto preoccupato, e mi confidai con... parlando così, delle rispettive figlie, mi confidai con Venturi, gli dissi ''guarda, io ho questa situazione di Giuliana, che sta lì a Ragusa, la vorrei far venire qui, però... mi piacerebbe trovarle una occupazione'', e lui mi disse ''vedo cosa posso fare, vediamo cosa...''. Mi disse subito ''io nella mia azienda non la posso assumere'', e io fui tranquillo... ''no, nella tua azienda, ci mancherebbe, non te lo avrei chiesto né ora e né mai. Vedi tu, insomma''. Io ero tranquillo che il Presidente della Camera di Commercio, una persona che non... alla quale io non avevo proposto nulla, né mi chiedeva nulla in cambio, non mi avrebbe... non avrebbe comportato per me grossi problemi. Poi...”), ma non a MONTANTE ("No, assolutamente. Io, Montante... Di questa situazione con Montante non ne ho mai parlato"), al quale aveva volutamente evitato di chiedere alcunché. Tale postilla argomentativa è in effetti confermata sia da VENTURI (“l'ARDIZZONE mi disse espressamente che non si era voluto recare da ROMANO e MONTANTE per domandare il lavoro per la figlia”) sia, indirettamente, da ROMANO (per il quale, come detto, si procede separatamente), il quale riferiva agli inquirenti del forte disappunto esternato da MONTANTE alla notizia che l'assunzione della figlia del comandante provinciale della Guardia di Finanza non fosse transitata dal suo filtro, ciò che gli avrebbe consentito di assumersi la paternità del "favore" reso all'ufficiale e, dunque, si deduce, di maturare un credito nei confronti dello stesso ("Devo, però, precisare che l'assunzione di Giuliana ARDIZZONE presso il CONFIDI urtò la suscettibilità del MONTANTE, il quale voleva sempre avere "la paternità di tutte le cose'', ed aveva creato anche malumori dello stesso MONTANTE nei miei confronti”, cfr. verbale di interrogatorio del 18 luglio 2016). Nell'ambito di tale esperienza lavorativa di Giuliana ARDIZZONE all'interno del CONFIDI si innestava la collaborazione della stessa con il giornale free press denominato SiciliaOggi, collaborazione che, secondo l'accusa, fu un modo per "riciclare" la giovane che, inidonea alle mansioni affidatele nel CONFIDI, non poteva essere licenziata in quanto figlia del comandante provinciale della Guardia di Finanza. Glissando sulle dichiarazioni rese in merito da Maurizio SAPIENZA (sommarie informazioni testimoniali del 5 dicembre 2015), perfettamente coerenti con la tesi accusatoria ma aventi natura più assertiva che realmente ricognitiva di conoscenze oggettive e certe ("Ricordo anche di aver commentato le assunzioni in questione con la VANCHERI e col direttore CRESCENTE e convenimmo che si trattasse di assunzioni “di favore”), maggiore rilevanza assumono le dichiarazioni di Pasquale TORNATORE (sommarie informazioni testimoniali del 4 dicembre 2015), il quale riferiva di avere appreso da Michele SPENA, che insieme a Corrado MAIORCA curava il giornale free press in questione, che la figlia del Colonnello ARDIZZONE era stata ammessa a collaborare nella loro attività giornalistica in quanto si era rivelata non in grado di svolgere l'attività alla quale, all'interno del consorzio, era stata preposta. Il dirottamento della giovane verso la collaborazione giornalistica, dunque, era stata una soluzione finalizzata ad evitarne l'estromissione dal consorzio ed ispirata dal rispetto reverenziale nutrito nei riguardi del padre. […] tutti gli articoli giornalistici prodotti dalla difesa, pubblicati su SiciliaOggi dal 15 marzo 2008 al 16 gennaio 2009 da Giuliana ARDIZZONE, risultano temporalmente legati alla durata e all'evoluzione del rapporto tra MONTANTE e MAIORCA (vd. supra).

Pertanto, il dato che emerge è quello di un favore - quello relativo all'assunzione di Giuliana ARDIZZONE nel CONFIDI - che era stato chiesto dal Col. ARDIZZONE esclusivamente a Marco VENTURI nell'ambito di un personale rapporto di amicizia che si andava costruendo con quest'ultimo; soddisfatto dall'imprenditore Massimo ROMANO; consolidato grazie ad Antonio Calogero MONTANTE, mediante la sua personale disponibilità a garantire le condizioni per il sostanziale reimpiego della giovane nell'attività giornalistica. L'evoluzione delle concrete modalità di impiego della giovane non può considerarsi di poco momento, se si riflette sul fatto che la figlia dell'ufficiale, come già precisato, godeva di un contratto a tempo indeterminato presso il CONFIDI solo per scrivere qualche articolo in un giornale free press mantenuto con le inserzioni pubblicitarie degli imprenditori più in vista di Caltanissetta, tra i quali proprio VENTURI e ROMANO, e che aveva sede in un locale di proprietà di MONTANTE, amico del direttore (Corrado MAIORCA) del giornale medesimo. Ma vi è di più. Anche volendo amputare l'intera ricostruzione dell'ultimo tassello, relativo al reimpiego di Giuliana ARDIZZONE presso il giornale SiciliaOggi per il tramite di MONTANTE, e limitare la valutazione al favore reso all'ufficiale direttamente da ROMANO, sollecitato da Marco VENTURI, non ci si riesce a districare dal morso del capo di imputazione per la contestata corruzione, in quanto una delle utilità che avrebbe tratto il Col. ARDIZZONE dalla vendita delle proprie funzioni sarebbe stata rappresentata proprio dall'assunzione della figlia Giuliana alle dipendenze del CONFIDI di Caltanissetta, ad opera di ROMANO, a prescindere dall'intercessione, a monte o a valle, di MONTANTE. Ciò che infatti unifica la fattispecie di cui al capo R) della rubrica (corruzione in concorso tra MONTANTE, ROMANO ed ARDIZZONE) è il permanente asservimento delle funzioni, da parte dell'ufficiale, sia in favore di ROMANO, dal quale egli ricevette in cambio l'assunzione della propria figlia al CONFIDI, sia da parte di MONTANTE, dal quale, come si vedrà infra, lo stesso ricevette l'intercessione per il proprio trasferimento da Reggio Calabria, ove aveva nel frattempo assunto la qualità di capo centro della D.I.A., a Caltanissetta, al vertice dell'omologo ufficio investigativo. Tra l'altro, l'assunto del P.M., che intende accreditare una visione unitaria della complessiva azione corruttrice, nel cui spettro si inseriscono entrambi i corruttori, MONTANTE e ROMANO, riceve conferma dal contenuto delle annotazioni rilevate nel file excel, ove risulta l'invio di due curricula da ARDIZZONE a MONTANTE e che dimostrano sostanzialmente come l' “affare Giuliana”, iniziato insciente domino (ove il dominus è evidentemente MONTANTE), fosse proseguito sub tutela domini: [...]. Nel caso di specie, gli ulteriori elementi che, sul piano logico, si saldano con tali annotazioni, rendendole attendibili, sono costituiti sia dalle dichiarazioni di VENTURI (sopra testualmente riportate) sulla instaurazione di un rapporto di amicizia tra MONTANTE ed ARDIZZONE ("So, comunque, che ARDIZZONE e MONTANTE avevano buoni rapporti', si vedevano frequentemente e lo stesso MONTANTE mi diceva di avere ottimi rapporti con l'ARDIZZONE”) sia dall'ulteriore annotazione, parimenti contenuta nel predetto file excel, per cui, proprio alla data del 17 febbraio 2009, in cui "ARDIZZONE G." avrebbe mandato un curriculum a MONTANTE, si sarebbe tenuto un pranzo tra quest'ultimo, il Col. ARDIZZONE e VENTURI. […] Tale particolare coincidenza temporale tra la data nella quale MONTANTE avrebbe ricevuto per email il curriculum di "ARDIZZONE G." e la data in cui lo stesso MONTANTE si era intrattenuto a pranzare con l'ufficiale, destituisce di ogni fondamento l'asserto di quest'ultimo secondo il quale "Mai, mai scritto curriculum, inviati per Giuliana a Montante. Non lo so se Montante nel tempo, avendo conosciuto Giuliana ovviamente, perché poi l'ha conosciuta certamente, le ha chiesto... [...] Non so se nel tempo Montante ha chiesto a Giuliana di mandargli un curriculum per qualche incarico, non lo so, io questo non lo posso sapere. Giuliana stessa, a cui ho chiesto questo fatto, perché l'ho letto sempre negli atti processuali, non mi sa dare una motivazione, non se lo ricorda, perché sono passati tanti anni e lei dice "io non mi ricordo” per quale motivo Montante aveva un curriculum di Giuliana." (p. 18 del verbale di udienza del 7 dicembre 2018). E' evidente come la lettura proposta dall'imputato ARDIZZONE, per cui l'email, al più, potrebbe essere stata spedita a MONTANTE dalla figlia Giuliana a sua insaputa, oltre ad apparire priva di addentellati nelle risultanze processuali (non emerge infatti alcun rapporto di amicizia personale e diretto tra la figlia del colonnello e l'imprenditore di Serradifalco), non regge dal punto di vista sistematico, proprio per la singolare coincidenza cronologica dell'invio della prima email (quale risulta annotato nel file in questione) con il pranzo tra lo stesso ARDIZZONE, MONTANTE e VENTURI. A ciò occorre aggiungere quanto segue. Il Col. ARDIZZONE, incalzato dalle domande di questo giudice, benché non abbia mai ammesso di avere inviato il curriculum della figlia Giuliana a MONTANTE, ha riconosciuto di avere mandato a quest'ultimo, ma soltanto sul finire del 2009 o agli inizi del 2010, il curriculum proprio affinché l'imprenditore potesse perorare una sua progressione onorifica (da cavaliere della Repubblica a cavaliere ufficiale). […] In definitiva, la lettura olistica di tutte le circostanze evidenziate dimostra, in maniera incontestabile, che il Col. ARDIZZONE fu anche lui risucchiato nel vortice del sistema MONTANTE, che consentiva ai suoi intranei di conseguire, in maniera pervia e spedita, vantaggi di diversa natura e tipologia. In tale contesto, si inserisce la questione relativa al trasferimento dell'ufficiale, eseguito in data 16 giugno 2014, dalla sede D.I.A. di Reggio Calabria alla sede D.I.A. di Caltanissetta.

La premiata ditta Romano and Company. La Repubblica il 28 novembre 2019. Il "re dei supermercati” Massimo Romano attualmente sotto processo nel dibattimento con rito ordinario che si sta celebrando a Caltanissetta sul "sistema Montante”. Secondo l'accusa, assume carattere corrispettivo, rispetto alla presunta vendita della propria funzione da parte di ORFANELLO, il ricevimento, da parte dello stesso, una volta sospeso dal servizio per ragioni legate ad altro procedimento penale, dell'ulteriore beneficio dell'assunzione “in nero”, a partire dal febbraio/marzo 2015, alle dipendenze di una società di Natale SCRIMA. E ciò, grazie ai buoni uffici di ROMANO. In particolare, l'assunzione sarebbe avvenuta da parte della S.A.S. Detective Scrima di SCRIMA Natale & C., che, come emerge dal contenuto delle intercettazioni, è risultata occuparsi della sicurezza dei supermercati dello stesso ROMANO. […] A conferma del servizio di security prestato dall'ORFANELLO Ettore nei supermercati del ROMANO Massimo, in data 7.12.2015, veniva intercettata la conversazione nr. 83 delle ore 13.01, nel corso della quale D'AQUILA Francesco (dipendente della ditta S.A.S. Detective Scrima di SCRIMA natale & C.) informava l'ORFANELLO, che si trovava in un altro punto vendita, che c'era stata una rapina a mano armata in un punto vendita del ROMANO Massimo ma erano riusciti ad acciuffare il rapinatore, ricevendo il plauso del ROMANO, “abbiamo fatto un ottimo lavoro e quindi massimo romano era contento”. L'ORFANELLO si mostrava compiaciuto e nel chiedere dettagli al D'AQUlLA utilizzava un linguaggio che incontestabilmente lo inquadrava in questo ambito lavorativo di security, chiedendo se c'erano i loro uomini, “la rapina qua? E c 'erano dei nostri?”, e dicendo che avevano fatto bella figura catturando il malvivente, “abbiamo fatto la nostra bella figura, almeno chistu”. […] Le conversazioni telefoniche intrattenute dal Magg. ORFANELLO e teste riportate sono di un nitore contenutistico talmente elevato che qualsivoglia commento apparirebbe un artlficioso pleonasmo motivazionale. Infatti, risulta davvero sterile ogni ulteriore disquisizione in merito se si considera:

a) l'impegno assunto da ROMANO a trovare un'occupazione lavorativa all'ORFANELLO all'interno della ditta SCRIMA e l'effettivo inserimento dell'ufficiale nell'organico della stessa, evinto, solo per esemplificare, dalla sua disponibilità a farsi il turno "dalle nove in poi" (“Dico così oggi, vuoi che giriamo insieme, vuoi che me li faccio io dalle nove in poi? Io ca sugnu”);

b) l'interessamento dl ORFANELLO per sapere se c'erano "i nostri” durante una rapina sventata in uno dei supermercati vigilati (“la rapina qua? E c'erano dei nostri?” [...] “abbiamo fatto la nostra bella figura, almeno chistu”), ossia se c'era qualcuno della ditta SCRIMA di cui, evidentemente, ORFANELLO si sentiva di fare parte. […].

Dall'intraneità al "sistema Montante" vantaggi analoghi a quelli di ARDIZZONE ed ORFANELLO avrebbe tratto Mario SANFILIPPO, luogotenente della Guardia di finanza in servizio presso il comando provinciale di Caltanissetta. Secondo l'accusa, infatti, in tale perverso meccanismo corruttivo si inscriverebbe l'assunzione di Calogera SANFILIPPO, sorella del luogotenente, presso la C.D.S. s.p.a., società riconducibile al citato ROMANO, nonché l'interessamento di quest'ultimo per la sistemazione lavorativa di Davide SANFILIPPO, figlio del finanziere. Segnatamente, in ordine alla posizione lavorativa di Calogera SANFILIPPO, deve osservarsi che la stessa è risultata assunta alle dipendenze della citata C.D.S. s.p.a. a partire dal 9 settembre 2008 (cfr. accertamenti alla banca dati INPS ed Agenzia delle Entrate, allegato n. 426 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.). Deduce, a tal proposito, l'accusa che l'esistenza di tale rapporto di lavoro, ignorata da quasi tutti i finanzieri al momento dell'esecuzione, nel 2011, della verifica fiscale (pilotata) presso la medesima C.D.S. s.p.a., era stata volutamente tenuta riservata dal Lgt. SANFILIPPO, in modo da potere, nascostamente, agevolare il suo titolare, Massimo ROMANO, nell'esercizio della funzione pubblica esercitata. Ecco, in particolare, il contenuto delle dichiarazioni rese, sul punto, dai militari escussi, da cui risulta che soltanto Paolo MESSINA era a conoscenza di tale circostanza già al momento del compimento della verifica fiscale in questione: […]. In effetti, ritiene questo giudice che l'organo dell'accusa colga nel segno, in quanto, come vedremo, la verifica fiscale eseguita dal nucleo P.T., retto dal Magg. ORFANELLO, presso tale società si tradusse in un'autentica pantomima, alla quale, in palese violazione dell'obbligo di astensione imposto dal principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), partecipò, quale

attore protagonista, proprio il citato SANFILIPPO. La disamina della posizione del luogotenente, da cui non può prescindersi in quanto quest'ultimo è, nell'ipotesi associativa di cui al capo a), concorrente di MONTANTE (mentre, in ordine all'accusa di corruzione, concorre con Massimo ROMANO), si arricchisce del capitolo relativo all'assunzione del figlio, Davide, nel 2016, presso uno studio commercialistico, assunzione che deve considerarsi avvenuta all'interno del “sistema MONTANTE" (sia pure, come vedremo, senza la diretta intercessione dell'imprenditore di Serradifalco). Dalle intercettazioni emerge, infatti, non soltanto che già nel 2014 ROMANO si era interessato per cercare un'occupazione al giovane, ma anche che, nel 2016, l'assunzione di quest'ultimo ad opera di un fedelissimo di ROMANO, Carmelo CARBONE (amministratore unico di una delle sue società e suo commercialista di riferimento; cfr. C.N.R. n. 1092/2017, p. 980), era stata condizionata, dal punto di vista temporale, dalla concomitante pendenza dell'indagine sul conto di MONTANTE. In particolare, in data 31 marzo 2016, quando ancora il figlio di SANFILIPPO era in attesa di essere assunto presso lo studio commercialistico di Carmelo CARBONE, veniva intercettato un dialogo, svoltosi nella vettura in uso al militare (da poco in quiescenza), tra lo stesso e la moglie, Calogera TRICOLI (amb. progr. n. 1534 del 31 marzo 2016, condotta nella vettura in uso a Mario SANFILIPPO; cfr. C.N.R. n. 1092/2017, cit., p. 974). Nel corso della conversazione, Mario SANFILIPPO spiegava alla moglie che il ritardo nell'assunzione del figlio, già promessa dal commercialista Carmelo CARBONE, non era imputabile alla inaffidabilità di quest'ultimo come dalla donna erroneamente ritenuto, ma dal concomitante svolgimento delle indagini su MONTANTE, con l'esecuzione di accertamenti sulle verifiche fiscali eseguite dal nucleo P.T. al quale il militare era appartenuto. Ciò, evidentemente, sulla base del presupposto implicito che CARBONE fosse un soggetto riconducibile a ROMANO, e quest'ultimo a MONTANTE, dovendosene dunque ricavare che l'assunzione del figlio di SANFILIPPO non poteva considerarsi avulsa dal contesto montantiano. […] Poco tempo dopo, in ogni caso, l'assunzione andava in porto. Infatti, dopo il garbato sollecito, l'11 aprile 2016, di SANFILIPPO a CARBONE per la sistemazione lavorativa del giovane (sms delle ore 11.03, di cui al progr. n. 95; cfr. C.N.R. n. 1092/2017, cit. p. 1240: "Carmelo, scusa se ti disturbo ma ho Davide che mi marca stretto perché è a casa senza fare niente tvb") e il successivo incontro tra il militare e il commercialista del 9 maggio 2016 (ricavato in via deduttiva dall'appuntamento tra loro concordato mediante messaggistica telefonica intercettata, ibidem), lo stesso 9 maggio, mediante un ulteriore messaggio inviato dal primo al secondo, se ne evinceva che Davide SANFILIPPO aveva accettato l'offerta di lavoro che evidentemente gli era stata fatta ("Carmelo ciao, ho provato a telefonare due volte ma forse avevi il telefono da parte o eri impegnato. Ti faccio sapere che Davide ha accolto con piacere!..", di cui al progr. n. 274; cfr. C.N.R. n. 1092/2017, cit., p. 1241). La telefonata immediatamente seguente, intercorsa tra SANFILIPPO e CARBONE, confermava l'esattezza della ricostruzione, in quanto il finanziere (in quiescenza) raccontava al commercialista dell'entusiasmo del proprio figlio per l'opportunità di lavoro che gli era stata offerta, e il predetto commercialista comunicava all'interlocutore l'orario di inizio dell'attività lavorativa, prevista per il lunedì successivo (cfr. progr. n. 275 delle ore 13.26 dell'11 maggio 2016, di cui alla C.N.R. n. 1092/2017, cit., da p. 1241; vd. anche all. n. 428 della medesima fonte): […]. In effetti, le intercettazioni, eseguite il lunedì seguente sulla vettura in quel momento utilizzata da Davide SANFILIPPO (cfr. conv. progr. n. 2386 del 16 maggio 2016, di cui alla C.N.R. n. 1092/2017, cit., da p. 1243, nonché all. n. 429 alla medesima fonte), consentivano di confermare che l'assunzione era andata in porto, come si arguisce dalla narrazione del primo giorno di lavoro fatta dal giovane, prima alla madre, Calogera TRICOLI, sentita telefonicamente ("ho finito ora, sono uscito, sono in macchina, sto tornando e ci rivado domani mattina perché pomeriggio Gabriella non c'è e gli altri sono impegnati a fare altre cose...''), poi alla sorella, la quale, ad un certo punto dell'itinerario, era entrata in macchina (''E...per ora niente...mi stanno insegnando un po' di cose...come fare i bilanci..."). D'altra parte, l'apparecchio GPS installato a bordo della vettura dimostrava che il giovane SANFILIPPO, quella mattinata, aveva percorso il tragitto da Sommatino, ove insisteva la sua abitazione, a Caltanissetta, nel luogo di ubicazione dello studio commercialistico di CARBONE, e viceversa, in orari perfettamente compatibili con il turno di lavoro (C.N.R. n. 1092/2017, cit., da p. 1243). Nessun dubbio, dunque, può sussistere in ordine alla effettiva assunzione del giovane SANFILIPPO da parte di Carmelo CARBONE, persona fedelissima di ROMANO. A ciò occorre aggiungere che, nel 2014, come già anticipato, quest'ultimo aveva personalmente cominciato ad occuparsi della possibile sistemazione lavorativa del figlio del luogotenente, ciò che è possibile ricavare dalla sequenza delle conversazioni intercettate in quel periodo e puntualmente ripercorse nella C.N.R. n. 1092/2017 (da p. 1246), più volte citata: […]. Tale appendice storica sul pregresso interessamento di ROMANO per la sistemazione del figlio di SANFILIPPO, qui collocata in posizione caudale rispetto alla trattazione della successiva assunzione del giovane presso CARBONE, non deve trarre in inganno, suggerendo una lettura reciprocamente segregata degli avvenimenti. L'anacronia espositiva, infatti, con inversione dell'ordine storico dei fatti (prima l'assunzione del 2016, poi l'interessamento per l'assunzione del 2014), non intende significare alcuna frattura storica delle vicende ricostruite, in quanto esse, in realtà, sono avvinte tra loro da un unico tessuto connettivo, costituito dalla comune sussunzione nel "sistema MONTANTE", come provato dalla conversazione, sopra riportata, per cui l'esecuzione dei controlli sulle verifiche fiscali, nell'ambito dell'indagine sull'imprenditore di Serradifalco, stava rallentando la concretizzazione dell'assunzione del giovane.

Il “mitico” maggiore Orfanello. La Repubblica il 29 novembre 2019. Benché la posizione di ORFANELLO sia giudicata separatamente, non può prescindersi dalla sua disamina nel presente contesto, sia perché del reato corruttivo contestatogli risponde, in concorso, anche MONTANTE, odierno imputato, sia perché è comune al vaglio della posizione dei due ufficiali della Guardia di Finanza - il citato ORFANELLO e ARDIZZONE - l'accertamento delle anomalie-illeicità che, nello svolgimento dell'attività di verifica fiscale (ma anche nell'evasione delle deleghe di indagini penali), sarebbero state commesse dal primo (oltre che dal Lgt. SANFILIPPO) con l'avallo del secondo. In immediata consecuzione si passerà allo scrutinio delle utilità che dal presunto inserimento nel "sistema MONTANTE" avrebbe ricavato il Lgt. SANFILIPPO, imputato di corruzione insieme a Massimo ROMANO, oltre che dell'associazione a delinquere, in concorso con lo stesso ORFANELLO, con ARDIZZONE e con MONTANTE (ma anche con altri soggetti, la cui posizione non rileva nello specifico contesto). Il punto di partenza nella verifica degli eventuali vantaggi che avrebbe percepito ORFANELLO dal "sistema MONTANTE” è costituito, ancora una volta, dalle dichiarazioni di Marco VENTURI, il quale, nel verbale di sommarie informazioni testimoniali del 12 novembre 2015, affermava quanto segue: A.D.R. Quanto al Magg. Ettore ORFANELLO so che la sua compagna, in precedenza alle dipendenze di un supermercato di Caltanissetta di Massimo ROMANO, venne assunta dallo stesso ROMANO al CONFIDI di Caltanissetta. Ritengo che il ROMANO sia stato sollecitato in tal senso dal MONTANTE e ciò sulla base degli ottimi rapporti che lo stesso MONTANTE aveva con l'ORFANELLO. […]Orbene, riferiva dunque VENTURI che la compagna del Magg. ORFANELLO, Rosario TIRRITO, già dipendente di un supermercato riconducibile a Massimo ROMANO, ad un certo punto era stata assunta presso il CONFIDI presieduto dallo stesso ROMANO.

VENTURI, inoltre, aggiungeva che era suo convincimento, in virtù degli ottimi rapporti intercorrenti tra il Magg. ORFANELLO e MONTANTE, che il passaggio della TIRRITO dai supermercati al CONFIDI fosse da ascrivere all'intervento propiziatore di quest'ultimo. […] In effetti, la posizione lavorativa di Rosaria TIRRITO, oltre ad essere descritta da VENTURI, risulta documentalmente provata, essendo stato accertato, previa acquisizione di documenti detenuti dal CONFIDI, che la stessa era stata assunta il 4 ottobre 2010 con contratto a tempo indeterminato (C.N.R. n. 1092/2017 cit., p. 969: “Da ottobre 2010 - ossia quando l'ORFANELLO era in servizio presso il GICO di Caltanissetta - la TIRRITO Rosaria figurava tra i dipendenti del CONFIDI di Caltanissetta, ove veniva acquisita la relativa documentazione che ne datava precisamente l'assunzione al 4.10.2010, con contratto a tempo indeterminato. Tale dato si evinceva altresì anche da fonti aperte: sito on-line Linkedin. Dalla documentazione già acquisita al Confidi, da una nota del 04.10.2010e da una nota del 07.07.2014, si evinceva, rispettivamente, che la stessa veniva assunta con la qualifica di commessa inquadrata al livello 1 del C.C.N.L. settore Credito Assicurazioni, mentre, successivamente, acquisiva la qualifica di impiegata inquadrata al livello 1-2 area professionale del C. C. N.L. Credito Assicurazioni.”). Può considerarsi, altresì, pacifico che Rosaria TIRRITO, prima di essere assunta al CONFIDI sotto la presidenza di Massimo ROMANO, avesse lavorato in supermercati nisseni riconducibili a quest'ultimo, come emerge dalla banca dati I.N.P.S. (cfr. C.N.R. ult. cit., p. 968) e dall'ammissione, da parte dello stesso ROMANO, che i supermercati, nei quali la TIRRITO aveva svolto le mansioni di cassiera, dovevano considerarsi riconducibili allo stesso, sebbene formalmente estraneo alla relativa compagine sociale. Nell'occasione, ROMANO riconosceva, altresì, di essere stato lui a fare assumere la TIRRITO nel consorzio, su esplicita richiesta di quest'ultima: […]. Solo per offrire un esempio plastico di ciò che si sostiene, si riporta immediatamente, con riserva di approfondimento postea, un escerto di una conversazione telefonica (progr. n. 1518) intercorsa tra il Magg. ORFANELLO e Massimo ROMANO in data 4 agosto 2014, nella quale quest'ultimo raccontava al primo di avere detto chiaramente alla TIRRITO, a proposito del suo passaggio presso il CONFIDI, che egli non aveva "preso una ca stava cu strazzatu [...]'' (ove il termine "strazzatu" deve considerarsi l'equivalente di nullafacente o di persona di infimo livello), lasciando così intendere che uno dei fattori (in realtà, l'unico fattore, come si vedrà infra) da lui apprezzati per il reclutamento della donna nel consorzio era stata la sua vicinanza all'ufficiale: […]. Come si vedrà nel prosieguo dell'esposizione, la suggestione di una decisione autologa, assunta da ROMANO, su richiesta della sola TIRRITO, non regge all'impatto con l'evidenza offerta dalle conversazioni telefoniche cui si è accennato. Infatti, il contenuto dei dialoghi intercettati, intercorsi tra il Magg. ORFANELLO e ROMANO e tra il medesimo ORFANELLO e la propria compagna, Rosaria TIRRITO, appare dirimente nella dimostrazione che l'autentico profilo causale dell'assunzione di quest'ultima nel consorzio fu un atto di riguardo nei confronti dell'ufficiale, previo nulla osta di MONTANTE. In particolare, come emerge dalla C.N.R. n. 1092/2017 cit. (da p. 998; cfr. altresì nota della squadra mobile di Caltanissetta di cui all'allegato n. 343 della C.N.R. menzionata), già la conversazione (progr. n. 1518) del 4 agosto 2014, intrattenuta tra ORFANELLO e ROMANO, mostrava l'ingerenza del primo nella gestione del rapporto di lavoro che la donna aveva con il secondo all'interno del CONFIDI, tanto che l'ufficiale si faceva portavoce delle rimostranze della stessa a causa della riduzione delle ore di lavoro e della sua aspirazione alle modifiche contrattuali. Era questa l'occasione nella quale ROMANO, come già accennato, riferiva ad ORFANELLO il discorso che egli aveva fatto alla TIRRITO, ricordandole che la sua vicinanza all'ufficiale era stato uno dei motivi (in realtà, l'unico, come vedremo e come già anticipato) che l'avevano indotto a decidere di impiegarla nel CONFIDI: […]. Drammaticamente rivelatrice è, peraltro, l'epilogo dell'intercettazione di una telefonata avuta dalla TIRRITO con la sorella (progr. n. 2112 del 21 febbraio 2016, per cui cfr. all. 372 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.), nel corso della quale la prima arrivava a definire ORFANELLO, per il periodo antecedente alla sua sospensione dal servizio, quale il “padrone di Caltanissetta”, volendo significare - ciò che per la verità la donna esplicitava con una chiarezza imbarazzante - di avere ottenuto importanti benefici in ambito lavorativo proprio grazie al ruolo in precedenza assolto dal compagno all'interno del comando provinciale della Guardia di Finanza. […] Non può non riconoscersi come i dialoghi captati, grazie alla chiara confessione stragiudiziale, per via telefonica, del Magg. ORFANELLO e al contributo ulteriormente chiarificatore offerto, eadem via, dalla compagna di quest'ultimo, Rosaria TIRRITO, abbiano lasciato emergere, in prima battuta, come l'assunzione della stessa all'interno del consorzio costituì una graziosa concessione di ROMANO all'ufficiale della Guardia di Finanza. Approfondendo ulteriormente le acquisizioni probatorie, peraltro, è agevole risalire integralmente la catena eziologica che aveva condotto a tale assunzione, fino alla conferma dell'esattezza del convincimento di VENTURI, secondo il quale la decisione di cooptare la TIRRITO nel consorzio doveva essere stata influenzata dalla volontà di MONTANTE. In effetti, man mano che ROMANO cominciava a rendere dichiarazioni meno inveritiere di quelle originariamente confluite nel verbale di sommarie informazioni (lo stesso, infatti, veniva prima sentito come persona informata dei fatti, poi come indagato, venendo sottoposto ad interrogatorio), si evinceva che l'impiego della TIRRITO nel consorzio, preceduto dalla richiesta dell'ufficiale di adibirla a mansioni di carattere amministrativo, era stato filtrato dal nullaosta di MONTANTE, già urtato nella sua sensibilità per l'assunzione di Giuliana ARDIZZONE, nel medesimo consorzio, insciente domino. In particolare, a richiedere l'imprimatur di MONTANTE era stato proprio ORFANELLO, su indicazione dello stesso ROMANO. […] L'ammissione di ROMANO circa il ruolo autorizzatorio assolto da MONTANTE nell'assunzione della TIRRITO nel CONFIDI trova riscontro in tutte quelle conversazioni, regolarmente captate, nelle quali ORFANELLO, parlando con SACCIA, auspicava la possibilità di riattivare il canale sinallagmatico aperto con l'imprenditore di Serradifalco, temporaneamente sospeso per via dell'indagine che aveva riguardato quest'ultimo. Ciò che presuppone, sul piano logico, che già in passato lo stilema, che aveva connotato i rapporti tra l'ufficiale e l'imprenditore di Serradifalco, aveva recato l'impronta utilitaristica. […] Non è un caso che l'ufficiale, come si arguisce dalle medesime intercettazioni, avesse manifestato il timore che le perquisizioni sul conto di MONTANTE potessero fare affiorare tracce documentali circa l'intenzione di quest'ultimo di aiutarlo (“mettiamo caso che ci trovano una pen drive o un appunto in cui dicono ... Orfanello è amico mio e voglio un attimino vedere come poterlo aiutare...”). […] E' chiaro che l'affidamento indiscusso di ORFANELLO sulla capacità di MONTANTE di reperire posti di lavoro e sostenere carriere professionali, si va a saldare con l'assunto di ROMANO per cui fu proprio MONTANTE a consentire l'assunzione della TIRRITO nel CONFIDI. Ciò consente di comprendere il senso di un'altra conversazione (progr. n. 849; vd. all. 386 alla C.N.R. n. 1092/2017, cit.), già esaminata (§ 3.1.), datata 26 dicembre 2015, nella quale ORFANELLO, condividendo lo smarrimento della compagna per l'improvviso licenziamento dal consorzio, la invitava ad accettare il rientro nei supermercati di ROMANO in attesa che MONTANTE superasse la bufera investigativa e potesse cambiare lo stato delle cose (“cioè i guai finiranno pure per lui.. ma noi aspettiamo, cioè non.. cerchiamo di sopravvivere Rosaria...”). ORFANELLO, peraltro, esprimeva certezza sull'aiuto dell'imprenditore, in quanto quest'ultimo aveva rotto il lungo silenzio telefonico per porgergli gli auguri natalizi, avendone apprezzato la solidarietà in quel momento, per lui delicato, di coinvolgimento nell'indagine: […]. Ora, l'attesa del revival di MONTANTE per ripristinare lo status quo ante afferente all'attività lavorativa della TIRRITO costituisce un argomento legato da un rapporto di specularità logica all'argomento originario, introdotto dalle dichiarazioni del coimputato, ROMANO, secondo cui era stato proprio MONTANTE a filtrare l'assunzione della compagna dell'ufficiale, in quanto l'imprenditore di Serradifalco ci teneva a rivendicare la paternità dei favori che venivano elargiti. Cosi esaminati tutti gli elementi di prova emersi, l'intuizione di VENTURI circa il ruolo assolto da MONTANTE nell'assunzione della TIRRITO nel CONFIDI ne riceve ampia validazione, atteso che tale circostanza è ammessa da ROMANO con dichiarazioni che risultano riscontrate da una pluralità di elementi:

l'effettiva esistenza di un rapporto personale, tra ORFANELLO e MONTANTE, che trascendeva la giustificazione istituzionale (vd. § 3.1);

la disponibilità di ROMANO, come vedremo meglio infra, ad assumere soggetti su richiesta di MONTANTE;

l'ammissione di ORFANELLO, nelle intercettazioni da ultimo esposte, di avere richiesto, sebbene in misura inferiore a quanto avrebbe potuto, delle utilità a “questa gente" (da identificarsi, per i motivi enunciati nel brano dell'ordinanza cautelare sopra riportato, anche in MONTANTE);

l'attesa, da parte dell'ufficiale, del rientro in corsa di MONTANTE per ottenere il ripristino della situazione lavorativa della compagna;

le lagnanze dello stesso per non avere potuto approfittare tempestivamente del periodo aureo di MONTANTE, per ottenere posti di prestigio;

il suo timore che le perquisizioni nei riguardi di MONTANTE potessero portare alla emersione di dati sull'intenzione di quest'ultimo di “aiutarlo”.

Alla luce di tale compendio probatorio, pertanto, deve considerarsi provato che l'assunzione di Rosaria TIRRITO, sollecitata dal Magg. ORFANELLO, ebbe come sponda interlocutoria determinante tanto ROMANO quanto, ancor più, MONTANTE.

Quelle verifiche fiscali un po' così. La Repubblica il 30 novembre 2019. Esaminata la natura dei rapporti intercorsi tra i principali protagonisti delle contestate condotte corruttive e associativa, nonché la tipologia dei vantaggi che ciascuno dei pubblici ufficiali imputati ne ha ricavato, occorre soffermarsi sulle modalità con le quali sarebbero stati compiuti gli atti contrari ai doveri d'ufficio, da parte degli stessi, nell'ambito di un più ampio e stabile asservimento della funzione pubblica. Sul piano meramente prologico, giova dare atto del contenuto di una conversazione telefonica intrattenuta dal Magg. ORFANELLO, successivamente al licenziamento della compagna dal CONFIDI, con un collega della Guardia di Finanza legato da rapporto di affinità al nuovo presidente del consorzio. Tale conversazione, benché postuma rispetto al compimento degli atti contrari ai dovere d'ufficio, appare illuminante circa l'ordinario modus procedendi dell'ufficiale, il quale, rappresentando i rischi cui ci si esponeva contrastando la sua volontà, per il potere che egli esercitava, cedeva ad una sorta di confessione stragiudiziale sulla sua personale (e distorta) interpretazione del proprio ruolo istituzionale. La conversazione in questione è riportata nel passo dell'ordinanza cautelare (da p. 1230; cfr. anche C.N.R. n. 1092/2017, cit., da p. 1075 e l'allegato n. 374 alla comunicazione di notizia di reato de qua) che viene testualmente riprodotto: Si consideri, a tal proposito, una telefonata che intercorreva il 28.4.2015 (progr. 5140 delle ore 14.45) tra ORFANELLO e ROSSI Angelo, quest'ultimo, come detto, fratello di Giuseppe (appartenente al Comando della Guardia di Finanza di Enna) nonché genero di Vincenzo FIORINO, attuale Presidente del CONFIDI. Nel quadro, infatti, delle attività poste in essere dall'ORFANELLO successivamente al licenziamento della TIRRITO, vi era anche quella, come poc'anzi accennato, di indurre i vertici del CONFIDI a tornare sui propri passi ed in tal senso si spiegano, dunque, i contatti avuti con il predetto ROSSI. Orbene, nella telefonata in questione, 1'ORFANELLO ed il ROSSI discutevano proprio del comportamento che stava tenendo il FIORINO ed al riguardo l'ORFANELLO si mostrava estremamente contrariato, ritenendo che il Presidente del CONFIDI lo stesse prendendo in giro e che non si trattasse di “una cosa intelligente facendo poi esplicito riferimento, in maniera velatamente minacciosa, al suo imminente rientro in servizio presso la Guardia di Finanza ed al fatto che si sarebbe scordato di tutti, ma “ma mi ricorderò di quanto è stato strano stu cristianu”. Poco dopo ORFANELLO ribadiva il concetto, evidenziando al suo interlocutore come, a suo giudizio, il FIORINO avrebbe dovuto mostrare in quella vicenda “un minimo di intelligenza, essendo un imprenditore, di capire che a me non mi può venire a prendere per il culo, cioè, che è stupido. capisci, perchè essere un fangu con la figlia è una cosa, ma vieniri. ma veniri a prendere per il culo, dico, l'ex cumannanti del nucleo di Polizia Tributaria è un creti.. ce.. non...non”. Di seguito, l'Ufficiale della Guardia di Finanza continuava a rimarcare di essere stato “sette anni" a Caltanissetta e, dunque, non poteva essere “esattamente uno sconosciuto in quel mondo” sicché riaffermava la totale mancanza di “intelligenza” del FIORINO poiché “una volta che rientro la mia posizione lo riprendo”. Successivamente, sempre ORFANELLO invitava il ROSSI a far presente al suocero, se ne avesse avuto l'occasione, che col suo comportamento aveva finito per prenderlo in giro ed a domandargli, di conseguenza, se lo ritenesse un comportamento “intelligente Come se non bastasse, in chiusura di conversazione l'ORFANELLO tornava ad evidenziare che il FIORINO, nella sostanza, poteva comportarsi come meglio credeva con chiunque (“uno può essere uno stupido con i figli, può essere un maleducato con i generi, può essere intelligente con chi cazzo vuoi”), ma doveva avere “un atteggiamento un po' più opportuno” ogniqualvolta “si trova davanti una persona come me”. In altre parole, parafrasando il ragionamento spiegato dall'ORFANELLO, meglio averlo come amico che come nemico. Non si ritiene opportuno spendere sul punto ulteriori considerazioni. […] La conversazione in questione può considerarsi una sorta di manifesto del pensiero di ORFANELLO sull'esercizio della funzione pubblica, racchiudendone la visione cratologica dei rapporti sociali, improntata a manovre di potere e alla sistematica strumentalizzazione del munus publicum per il conseguimento di vantaggi personali. Tale strumentalizzazione rappresenterà, infatti, come vedremo, il comune denominatore di tutte le vicende che vedranno l'ufficiale quale attore protagonista, a partire dalla c.d. "vicenda GIORGIO".

§ 2. La vicenda Giorgio. Soltanto al fine di offrire una esemplificazione delle ordinarie performance del Magg. ORFANELLO, è utile richiamare, in un gioco di escursione cronologica, una vicenda accaduta nel 2009, ossia ben sei anni prima rispetto alla conversazione commentata nel paragrafo che precede. vicenda che, sebbene formalmente estranea all'oggetto del presente giudizio, vale a fondare la conclusione per cui le esternazioni dell'ufficiale, sopra riportate, secondo cui è altamente pericoloso contraddirlo, non erano meri sfoghi verbali, dettati da un momento di stizza, ma l'esposizione del dogma cui egli aveva regolarmente informato la propria condotta professionale. In tale vicenda, in particolare, si evidenzia l'impegno speso dal Magg. ORFANELLO per pilotare, in senso favorevole all'interessato, un accertamento su possibili operazioni sospette. E ciò in quanto il destinatario del controllo, Pasquale Antonio GIORGIO, altro non era se non il soggetto che concedeva all'ufficiale un immobile in comodato d'uso (dunque, secondo una tipologia contrattuale a titolo gratuito). Ripercorrendo le dichiarazioni rese dai militari coinvolti nell'esecuzione dell'accertamento, emerge altresì come ORFANELLO, al fine di garantirne l'esito favorevole all'interessato, era giunto a trasferire il Mar. Vincenzo DANIELE, finanziere ritenuto scomodo rispetto all'obiettivo prefissato, e ad imporre un'amputazione del controllo in corso, ordinandone la chiusura pur nella necessità di ulteriori approfondimenti. Già da tale vicenda, peraltro, confluita in una condanna in appello nei confronti di ORFANELLO, dopo l'annullamento con rinvio della Cassazione, per il reato di cui agli artt. 56, 319-quater cod. pen. (procedimento n. 717/2012 R.G.N.R. Mod. 21), comincia ad affiorare il ruolo del Lgt. SANFILIPPO, lesto ad esaudire i desiderata del maggiore. Emerge, inoltre, come due sottufficiali, il Mar. CARVOTTA, subentrato al Mar. DANIELE, e il Mar. DI NARO, che definirono la pratica in senso conforme alle indicazioni dell'ufficiale, “sono gli stessi che poi verranno prescelti per comporre la squadra di verificatori che eseguirà un'attività ispettiva nei confronti della società C.D.S. s.p.a. di Massimo ROMANO" (così l'ordinanza cautelare, p. 1245, in un passo meramente ricognitivo di evidenze obiettive). […] L'organo dell'accusa ha ritenuto sussistenti gravi anomalie in alcune operazioni di verifica eseguite da tale organo. In qualche caso tali anomalie avrebbero contaminato procedimenti privi di (evidenti) connessioni con il "sistema MONTANTE"; in altri casi, invece, l'adulterazione della procedura accertativa avrebbe riguardato soggetti comunque attratti nell'orbita dell'imprenditore di Serradifalco, essendo legati allo stesso o da un nesso sinagonistico o da un nesso antagonistico. In questo secondo insieme di casi, l'uso strumentale dei controlli fiscali aveva la finalità di avvantaggiare gli "amici" di MONTANTE o lo stesso MONTANTE (ad adiuvandum) o di danneggiare i suoi "nemici" (ad opponendum), e si traduceva in un protagonismo partigiano e settario della Guardia di Finanza, schieratasi aprioristicamente, nelle lotte intestine che si erano scatenate all'interno di Confindustria nissena, a fianco dell'imprenditore di Serradifalco. Prima di passare alla disamina dell'ampia casistica di verifiche fiscali "pilotate" dal Magg. ORFANELLO, talvolta con la consapevole inerzia del Col. ARDIZZONE, giova illustrare alcune anomalie, di carattere generale, che contraddistinguevano le modalità di esercizio delle funzioni da parte del primo. Tali anomalie, secondo l'accusa, avevano carattere servente e strumentale rispetto alla edificazione di un collaudato sistema volto ad indirizzare le singole verifiche nella direzione voluta. Innanzitutto, nell'ambiente della Guardia di Finanza nissena erano note le eccentricità che connotavano le scelte operative del Magg. ORFANELLO, tanto che il Mar. Alfonso CARVOTTA riferiva di essere entrato in rotta di collisione con il comandante del nucleo P.T., in quanto non aveva mai taciuto che avrebbe preteso un ordine scritto per eseguire delle attività che erano del tutto singolari nel panorama delle funzioni del corpo (come gli accertamenti in materia di edilizia, che, come vedremo, furono eseguiti dalla Guardia di Finanza solo ed esclusivamente nei riguardi degli avversari di MONTANTE). Particolarmente inquietanti le parole che ORFANELLO, secondo il racconto di CARVOTTA, gli aveva rivolto per censurare la sua scarsa vocazione ad assecondarne le modalità operative: “devi ringraziare che già maggiore mi hanno fatto, sennò gente come te, che si mette di traverso, l'avrei macinata”. […] Altro profilo di singolarità nell'esercizio delle funzioni da parte del Magg. ORFANELLO e, dunque, nella conduzione dell'attività di verifica fiscale, veniva segnalata dal Lgt. Santo MATTA, il quale riferiva, esattamente, che nel 2010-2011 il nucleo P.T. aveva fatto un ricorso disinvolto alle verifiche extraprogramma o in deroga, in tal modo allargando il proprio raggio di azione alle fattispecie che, per volume d'affari, sarebbero rientrate, ordinariamente, nelle attribuzioni del “comando compagnia": […]. E' appena il caso di accennare, con riserva di approfondimento nel paragrafo dedicato, che l'istituto delle verifiche extraprogramma costituì lo strumento attraverso il quale furono esperiti accertamenti approfonditi nei confronti di imprese o attività professionali riconducibili a soggetti che MONTANTE aveva eletto quali avversari (la ditta SILAMPLAST s.r.l. di Salvatore MISTRETTA; le società di Pasquale Carlo TORNATORE; il commercialista nisseno dott. Paolo BUONO). Altra significativa e grave anomalia nella conduzione dell'attività del nucleo P.T. era costituita dalla sostanziale esautorazione del Cap. Antonino COSTA dalle funzioni di direttore delle verifiche, che, in base alle circolari interne alla Guardia di Finanza (vd. paragrafo precedente), gli spettavano in quanto comandante della sezione Tutela Finanza Pubblica. Tale compito, infatti, era stato avocato a sé dal Magg. ORFANELLO, ciò che appare perfettamente congruente con la tesi accusatoria circa la ferma volontà di quest'ultimo di mantenere il controllo assoluto sull'attività di verifica fiscale, da indirizzare verso scopi connotati da una certa opacità, se non da una chiara obliquità. Tanto emerge dal prospetto dell'allegato n. 4 all'annotazione n. 374791/2017 del 7 luglio 2017, redatta da appartenenti al nucleo P.T. della Guardia di Finanza di Caltanissetta, da cui si ricava che delle trentadue verifiche fiscali eseguite nell'anno 2011 dal medesimo nucleo, soltanto in una la direzione veniva affidata al Cap. COSTA, mentre, in tutte le altre, la funzione direttiva veniva assolta direttamente dal Magg. ORFANELLO. Il dato documentale veniva confermato dal Cap. COSTA, il quale, nel corso delle sue sommarie informazioni, aggiungeva di avere rappresentato tale situazione al Col. ARDIZZONE, in quanto comandante provinciale, senza tuttavia riuscire a cambiare lo stato delle cose. Anzi, l'unico effetto sortito dalla sua iniziativa era stato quello di subire un pesante richiamo da parte del Magg. ORFANELLO, che gli aveva contestato di non avere rispettato la scala gerarchica nella segnalazione della questione: […].

Il Cap. COSTA, inoltre, riferiva altre due circostanze di particolare rilevanza:

1. nella programmazione delle attività di verifica fiscale, ORFANELLO non si era mai avvalso, come pure avrebbe potuto, della coadiuzione dello stesso COSTA, quale comandante della sezione Tutela Finanza Pubblica, specificamente preposta, come visto, al settore delle verifiche fiscali, preferendo la collaborazione del Lgt. SANFILIPPO, anche dopo che quest'ultimo, proprio in correlazione con l'arrivo del capitano, era stato trasferito nella sezione Tutela Economia (30 settembre 2010; vd. supra), priva di competenza nella materia delle verifiche fiscali;

2. il Magg. ORFANELLO, a seguito di rilievi sullo scarso rendimento nelle attività di verifica fiscale eseguite nei primi mesi del 2012, aveva contestato a COSTA la modestia dei risultati raggiunti, nonostante quest'ultimo avesse subito una chiara emarginazione operativa. Il capitano, pertanto, su consiglio del nuovo comandante provinciale, il Col. SOZZO, aveva declinato per iscritto ogni responsabilità, evidenziando proprio l'estromissione subita dall'attività di programmazione, sicché SOZZO, nelle battute successive del procedimento, aveva avallato la posizione assunta dal capitano;

3. senza un motivo apparente, se non il possibile proposito di giustificare l'accentramento dei poteri nelle mani di ORFANELLO nella gestione delle verifiche fiscali, il Col. ARDIZZONE aveva "rispolverato", nei confronti del Cap. COSTA, un vecchio procedimento interno, nato e chiuso favorevolmente nella precedente sede di servizio (Enna), ruotante intorno alla contestata convivenza, da parte del capitano, con un'avvocatessa “che nel passato aveva difeso imputati per reati di mafia e che era anche stata chiamata a rendere sommarie informazioni testimoniali in Procura a Caltanissetta". Il procedimento era stato poi chiuso, nuovamente in senso favorevole al capitano, dal Col. SOZZO: […].

Ciò posto, deve rilevarsi come le dichiarazioni di COSTA abbiano trovato numerose conferme sia di tipo dichiarativo che di tipo documentale. Basti ricordare come la querelle nata dalla contestazione allo stesso, da parte del Magg. ORFANELLO, dello scarso rendimento nelle verifiche fiscali, pur nella consapevolezza, da parte di quest'ultimo, della quasi totale esclusione del capitano da ogni adempimento ad esse relativo, è assolutamente corroborata sul piano documentale, essendo state rinvenute la contestazione in questione e la nota con la quale il Col. SOZZO, piuttosto che ratificare l'operato del maggiore, formulava delle osservazioni critiche al suo operato (cfr. a tal proposito annotazione n. 328245/2017 del 14 giugno 2017 redatta da appartenenti al nucleo P.T. della Guardia di Finanza di Caltanissetta). L'esclusione del Cap. COSTA da ogni coinvolgimento nell'attività di programmazione di verifica fiscale era, inoltre, segnalata anche da altri militari escussi. In particolare, il Mar. DI NARO affermava che il Lgt. SANFILIPPO, che nella qualità di comandante della sezione Tutela Finanza Pubblica aveva regolarmente e legittimamente affiancato in tale attività il comandante del nucleo di P.T., ORFANELLO, aveva mantenuto di fatto tale attribuzione anche dopo che il comando della suddetta sezione era passato al Cap. COSTA (1 ottobre 2010), con trasferimento del medesimo SANFILIPPO alla sezione Tutela Economia ("il SANFILIPPO era “il vice” di ORFANELLO nel senso che i due avevano un rapporto molto stretto e così fu anche nel periodo in cui venne assegnato a Caltanissetta il Capitano COSTA. In particolare il SANFILIPPO era colui che assieme all'ORFANELLO si occupava di elaborare la programmazione delle verifiche", cfr. verbale di sommarie informazioni testimoniali dell'11 luglio 2016). Del resto, come si ricava dalle dichiarazioni del Lgt. MATRASCIA, che era inserito nella sezione Tutela Finanza Pubblica al momento dell'insediamento del Cap. COSTA, il Magg. ORFANELLO aveva deciso subito di esautorare il capitano dai possibili compiti di collaborazione all'attività di programmazione delle verifiche fiscali per l'annualità successiva (2011), preferendogli lo stesso MATRASCIA, benché sottordinato al capitano. Tale collaborazione, tuttavia, fu di brevissima durata, in quanto da essa era emerso il proposito del Magg. ORFANELLO di inserire nella programmazione annuale per il 2011 imprese rispetto alle quali egli versava in posizione di incompatibilità, sicché lo stesso, deluso nelle sue aspettative di una coadiuzione acritica da parte di MATRASCIA, lo aveva sollevato dall'incarico, sostituendolo con il Lgt. SANFILIPPO (sebbene, quest'ultimo, non fosse più nell'organico di quella sezione) e, dopo poco tempo, lo aveva trasferito nella sezione Tutela Economia. […] Ciò posto, è bene sottolineare un dato: secondo quanto riferito dal Cap. COSTA, il Col. ARDIZZONE era stato messo a conoscenza della sua sostanziale emarginazione all'interno del nucleo P.T., ciò che avrebbe dovuto indurlo ad interrogarsi sulle ragioni della gestione rigidamente monocratica, da parte del Magg. ORFANELLO, della materia delle verifiche fiscali, gestione temperata soltanto dall'affiancamento gregario di un SANFILIPPO non più appartenente (dal 30 settembre 2010) alla sezione competente. ARDIZZONE, esaminato su tale specifico aspetto, ha fornito una risposta niente affatto convincente. A suo avviso, infatti, COSTA aveva un carattere "molto spigoloso", e ciò sarebbe valso a giustificarne la sostanziale esautorazione dai compiti propri: […]. La spiegazione fornita dal Col. ARDIZZONE appare l'allestimento di una scusa posticcia e sintetica per coprire una circostanza che non può trovare alcuna giustificazione legittima, quasi che le attribuzioni di un organo, stabilite per legge (eventualmente interpretate dalle circolari), possano essere conformate secondo le note caratteriali dei pubblici ufficiali che li impersonano. Tra l'altro, che si tratti di una rielaborazione della vicenda completamente affrancata dalle regole della logica è confermato dall'episodio, narrato dal capitano, nel quale il colonnello ARDIZZONE "rispolverava'' (così, COSTA) nei suoi confronti un vecchio procedimento disciplinare, nonostante lo stesso ARDIZZONE lo avesse già personalmente definito, illo tempore, in senso ampiamente favorevole al capitano. In ordine a tale circostanza, ARDIZZONE non ha saputo dare alcuna spiegazione (udienza del 18 gennaio 2019), allegando di non ricordare affatto la vicenda ("No, assolutamente non la ricordo. Assolutamente non la ricordo'', p. 108), di non avere letto la parte dell'ordinanza cautelare che la riportava ("Sto provando a capire cosa sia successo da/le date che Lei mi sta dicendo, perché tra l'altro non ho avuto modo di leggere nemmeno questa... quella pagina dell'ordinanza'', ibidem) e di non comprendere il senso della contestata riesumazione del procedimento disciplinare, attribuendo alla questione la stessa rilevanza della chiacchiera da bar ("Se un procedimento disciplinare è stato chiuso, è sta... è chiuso, non se ne parla più, che motivo c'è di riaprirlo, di rifarlo? Cioè, mi sembra di sentire delle cose che si dicono al bar'', p. 109). In realtà, anche la vicenda della provocata reviviscenza del procedimento disciplinare nei riguardi del Cap. COSTA rinveniva delle ineccepibili validazioni documentali, mirabilmente riassunte nell'ordinanza cautelare, senza che sul punto, come testé rappresentato, ARDIZZONE abbia saputo introdurre alcun elemento confutativo. […] Orbene, spiace osservare come la lettura complessiva dell'iniziativa assunta dal Col. ARDIZZONE paia improntata ad un animus excludendi omnes alios da possibili interferenze nella gestione delle verifiche fiscali. ARDIZZONE, infatti, mentre rappresentava il deterioramento intervenuto nei rapporti tra il Cap. COSTA, comandante della sezione Tutela Finanza Pubblica, e il Magg. ORFANELLO, comandante del nucleo P.T. in cui si inseriva la predetta sezione, ne taceva le reali ragioni, a lui note, che affondavano nella sostanziale ed ingiustificata espropriazione, da parte del maggiore, delle attribuzioni spettanti al capitano, la cui presenza avrebbe modificato lo status quo ante della gestione del tutto arbitraria delle verifiche fiscali (si passeranno in rassegna, di seguito, le gravi irregolarità che avevano caratterizzato i controlli fiscali condotti ed eseguiti dalla sezione in questione). Per converso, lo stesso rappresentava un quadro del tutto diverso, costituito dalla presunta frustrazione del Cap. COSTA per la propria mancata assegnazione al G.I.C.O., in tal modo aprendosi il varco per la reviviscenza del vecchio procedimento disciplinare, da cui sarebbero emersi profili di controindicazione all'adibizione del capitano ad attività di P.G. a contatto con magistrati della D.D.A. nissena e l'opportunità di un suo trasferimento. Con tale manovra si sortiva una duplice effetto: quello di prevenire eventuali denunce, ai livelli superiori, da parte di COSTA, circa la sistematica violazione, nota ad ARDIZZONE, del riparto delle attribuzioni all'interno del nucleo P.T., comandato da ORFANELLO, e quello, ulteriore, di giustificare la proposta di trasferimento del medesimo COSTA. D'altra parte, tale conclusione è inevitabile se si fa mente locale alle modalità con le quali ARDIZZONE avrebbe rilevato la presunta insoddisfazione del capitano per l'incarico svolto, definita il ''frutto di percezioni acquisite nell'ambito dei rapporti intrattenuti dallo scrivente con i militari dipendenti". In sintesi, una spiegazione inafferrabile nella sua scaturigine (una sorta di “sentito dire” intra moenia), né verificabile né falsificabile, con un comodo effetto di relevatio ab onere probandi. Ulteriori elementi dimostrativi della perfetta consapevolezza, in capo al colonnello, della gestione deviata, da parte di ORFANELLO, dello strumento della programmazione delle verifiche fiscali, gestione agevolata dalla esclusione del Cap. COSTA da qualsiasi forma di compartecipazione, emergono dal paragrafo che segue.

La Guardia di Finanza del Cavalier Antonello. La Repubblica l'1 dicembre 2019. Secondo la tesi accusatoria, MONTANTE interferiva nell'attività istituzionale della Guardia di Finanza in una duplice direzione: da un lato sollecitando azioni repressive e sanzionatorie nei riguardi dei propri avversari, come già esaminato in relazione ai casi BUONO, MISTRETTA, LO CASCIO e TORNATORE, dall'altro propiziando interventi indulgenzialistici nei confronti propri e dei soggetti che gli erano vicini. A tale ultimo proposito, certamente emblematico deve considerarsi il caso della verifica fiscale eseguita, nel 2011, nei confronti della società C.D.S. s.p.a.

§ 4.1. La verifica presso la C.D.S. s.p.a. di Massimo Romano. La verifica fiscale nei riguardi società C.D.S. s.p.a., riconducibile a Massimo ROMANO, originava da una segnalazione da parte del comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano, da cui emergevano sospetti di un possibile coinvolgimento della predetta società nelle c.d. frodi carosello, volte a simulare la cessione all'estero di beni, che in realtà venivano ceduti a soggetti economici operanti in Italia, per finalità di elusione dell'imposta sul valore aggiunto (cfr. relazione Dott. CATTANEO, pp. 50-52). A seguito di tale segnalazione si metteva in moto la macchina della Guardia di Finanza nissena, al fine di:

trattenere presso il nucleo P.T., comandato da Ettore ORFANELLO, mediante l'apposita procedura autorizzatoria filtrata dal Col. ARDIZZONE, la verifica fiscale che, ordinariamente, sarebbe rientrata nella competenza degli organi superiori, in ragione del volume d'affari della società da controllare;

chiudere l'accertamento con minore pregiudizio possibile per Massimo ROMANO, attraverso una verifica diretta dal Magg. ORFANELLO ed eseguita dal Lgt. SANFILIPPO.

Questi primi dati introducono già alla più macroscopica anomalia della vicenda: la verifica fiscale fu gestita secondo criteri di conduzione familiare. ROMANO, infatti, aveva assunto nel CONFIDI la compagna del Magg. ORFANELLO (che diresse personalmente la verifica espropriando, more solito, il Cap. COSTA delle competenze proprie) e la figlia del Col. ARDIZZONE, ma aveva assunto anche, presso la medesima società da verificare, la sorella del Lgt. SANFILIPPO. Com'è agevole desumere dall'esposizione che segue, resa spedita dalla riproduzione del contenuto dell'ordinanza cautelare, non si trattò di una vera e propria verifica fiscale, ma piuttosto di una trasfigurazione farsesca di una verifica fiscale. In primo luogo, infatti, essendo stato inserito l'accertamento de quo nella programmazione annuale del 2011, si era estromessa dalla verifica, per ragioni di decadenza, l'annualità del 2005, che era quella connotata dal maggiore volume d'affari per la C.D.S. s.p.a., e ciò, nonostante le circolari interne prescrivessero, nei casi di imminente decadenza, il ricorso alla procedura in deroga (o extraprogramma), che, in concreto, avrebbe consentito di salvare l'annualità in questione. In secondo luogo, la pattuglia era stata composta soltanto da personale estraneo alla sezione preposta alle verifiche fiscali, ossia la sezione Tutela Finanza Pubblica, e pertanto, completamente inesperto (tra tale personale, persino il V. Brig. MESSINA, che fino ad allora si era occupato di "motorizzazione"), lasciato in balia delle decisioni del più navigato SANFILIPPO, il quale, per la pregressa appartenenza alla predetta sezione, aveva maturato una vasta esperienza nel settore. Gli operatori escussi, infatti, ammettevano candidamente la loro totale ignoranza operativa in fatto di controlli fiscali, oltre che la loro radicale inconsapevolezza delle specifiche finalità formalmente perseguite con quella verifica (cioè, come si è detto, l'accertamento di possibili "frodi carosello"), sicché, evidentemente, si era costituita, con una sapiente ed ingegneristica strategia criminale, una pattuglia composta da meri convitati di pietra, chiamati a partecipare alle attività accertative con la medesima intraprendenza di una cariatide. Inoltre, nel corso delle operazioni tecniche svolte dal consulente del P.M. non era possibile ricostruire, con precisione, le attività svolte nell'espletamento di tale verifica fiscale, in quanto essa era stata condotta con modalità scarsamente tracciate. L'unico dato certo, ricavabile dalle dichiarazioni dei finanzieri (con esclusione di SANFILIPPO) che vi avevano partecipato e dall'analisi degli atti del fascicolo, era la totale pretermissione della rilevazione delle giacenze di magazzino (operazione fondamentale nell'accertamento di eventuali “frodi carosello”)in favore di una verifica di mera coerenza interna della documentazione contabile, che, com'è noto, nelle frodi per l'elusione dell'I.V.A. risulta sempre regolare. Infine, nonostante l'anomalia di presunti pagamenti in contante in favore della C.D.S. s.p.a., anche per importi consistenti (tale modalità di pagamento risulta indicata nelle fatture emesse dalla società di ROMANO), non era stato eseguito alcun accertamento bancario per verificare l'effettività dell'operazione commerciale né era stata fatta alcuna segnalazione all'autorità competente in relazione ad un utilizzo inusuale/anomalo del denaro contante. […] E' dunque evidente come non solo i verificatori nisseni possedevano tutti gli elementi per accertare la fondatezza della ipotizzata “frode carosello", come arguito anche dalla emersione, dalla contabilità della C.D.S. s.p.a., di ulteriori analoghi rapporti, in realtà comunitari, intrattenuti dalla stessa con altre società asseritamente maltesi, ma, peraltro, tutti gli altri uffici ed organi pubblici (Guardia di Finanza di Catania; Agenzia delle Dogane di Porto Empedocle) che, nell'ambito delle rispettive competenze, si erano occupati delle "frodi carosello" in relazione alla stessa C.D.S. s.p.a. o a carico delle società "maltesi" con cui essa, secondo la motivazione della verifica fiscale incriminata, aveva avuto rapporti commerciali, avevano riscontrato la fondatezza dell'ipotesi delittuosa. Tutti, quindi, tranne la Guardia di Finanza nissena, ravvisavano gli estremi della violazione della normativa sull'I.V.A. nelle transazioni comunitarie. Dovendosi, dunque, considerare pacifico il consapevole insabbiamento, da parte della Guardia di Finanza nissena, della responsabilità della C.D.S. s.p.a. di Massimo ROMANO in ordine alla questione delle "frodi carosello", occorre soffermarsi, specificamente, sul ruolo assolto nella vicenda dal Col. ARDIZZONE, che, diversamente dal Magg. ORFANELLO e dal Lgt. SANFILIPPO, è imputato nel presente giudizio. Si ricorderà, in proposito, come la figlia del Colonnello ARDIZZONE fosse stata assunta alle dipendenze del CONFIDI proprio grazie alla decisione di Massimo ROMANO), all'epoca in cui egli deteneva la presidenza del consorzio. Tale circostanza avrebbe dovuto indurlo o ad astenersi dal compimento di qualsiasi atto diretto ad attrarre nella sede nissena l'espletamento di una verifica (di terza fascia) che, secondo le regole ordinarie, sarebbe stata di competenza dei livelli più elevati, o, quanto meno, a dichiarare l'esistenza della causa di astensione, rimettendone il vaglio agli organi gerarchicamente competenti. Pertanto, la giustificazione, dallo stesso addotta nel corso dell'esame, secondo cui egli si sarebbe accollato quella verifica in uno spirito di collaborazione con i vertici superiori del corpo, gravati da un numero eccessivo di verifiche di terza fascia, non può essere condivisa: […]. Non solo, infatti, il dato della congestione degli uffici della Finanza competenti per le verifiche di terza fascia, pur dedotto dall'imputato, non risulta in alcun modo dimostrato, ma, indipendentemente dall'ottica di collaborazione asseritamente perseguita dal comando provinciale nisseno, il Col. ARDIZZONE avrebbe dovuto comunque segnalare l'esistenza della causa di incompatibilità alla gestione in loco di quella verifica. Il principio, infatti, della trasparenza e della imparzialità della pubblica amministrazione non è subordinato, dall'art. 97 della Costituzione, a valutazioni statistiche sul carico di lavoro degli uffici pubblici. Inoltre, ARDIZZONE conosceva certamente l'esistenza di un'altra causa di incompatibilità, legata dall'assunzione, presso il CONFIDI, della compagna del Magg. ORFANELLO, Rosaria TIRRITO. Infatti, tale circostanza costituiva fatto notorio all'interno dell'ambiente della Guardia di Finanza nissena, posto che il Magg. ORFANELLO aveva anche invitato la donna anche alle cene istituzionali. Per agevolare la lettura del presente provvedimento ed evitare scomodi rimandi, si riportano, ancora una volta, le dichiarazioni rese in merito dai numerosi finanzieri escussi: […]. Com'è ovvio, non si intende qui sostenere che la mera conoscibilità del fatto - esistenza della relazione sentimentale tra ORFANELLO e la TIRRITO e occupazione di quest'ultima presso il CONFIDI - da parte del Col. ARDIZZONE equivalga alla sua effettiva conoscenza, invocando la formula del “non potere non sapere” che rischia di fare scivolare il principio di colpevolezza della responsabilità penale verso forme di responsabilità sine culpa, ma si ritiene di potere affermare, senza tema di smentita, che il Col. ARDIZZONE conosceva perfettamente l'identità della TIRRITO e la sua storia lavorativa. Infatti, è lo stesso ARDIZZONE ad ammettere tali circostanze nell'ambito del proprio esame, in particolare specificando di avere appreso ciò dalla viva voce di ORFANELLO nel periodo di Pasqua 2011 (esame, p. 46 e ss. del verbale di udienza ult. Cit.): […]. Pertanto, anche a volere credere che, prima della Pasqua del 2011, il Col. ARDIZZONE fosse l'unico, all'interno del comando provinciale, ad ignorare l'identità e l'attività lavorativa della compagna del comandante del nucleo P.T., nonostante la stessa partecipasse anche alle cene istituzionali (persino alla presenza del comandante regionale), è possibile affermare che il medesimo ARDIZZONE, quanto meno nel periodo di Pasqua del 2011, aveva acquisito piena contezza di tutto. Pertanto, posto che la verifica fiscale in questione cominciò dopo la Pasqua del 2011, ed esattamente il 12 maggio 2011, non può sostenersi che, nella fase incoativa della verifica, il Col. ARDIZZONE non possedesse tutte le informazioni utili ad impedire che il Magg. ORFANELLO, in quello specifico caso, esercitasse le funzioni di direttore della verifica. Tra l'altro, ARDIZZONE, all'epoca, era assolutamente consapevole che il Magg. ORFANELLO si fosse arrogato quella funzione, espropriandola al comandante della sezione Tutela Finanza Pubblica, Capitano Antonino COSTA, in quanto, come già spiegato (sez. seconda, cap. XII, § 4), quest'ultimo si era lamentato di ciò appena qualche mese dopo il proprio arrivo a Caltanissetta, avvenuto il 31 agosto o il 1 settembre 2010. A ciò occorre aggiungere che, dopo la vicenda PANZICA su esaminata, accaduta sul finire dell'anno 2010 (vicenda nella quale, come si ricorderà, solo la reazione di MATRASCIA e COSTA aveva evitato l'inserimento, nella programmazione annuale delle verifiche ispettive, del datore di lavoro della figlia del Maggiore ORFANELLO), il Col. ARDIZZONE conosceva perfettamente il vizietto del Magg. ORFANELLO di operare delle verifiche “di comodo”, inserendo nella programmazione annuale imprese verso le quali nutriva un interesse protettivo. Perciò, il Col. ARDIZZONE non può affermare che “Se il Romano era... sarebbe risultato responsabile di evasione fiscale o di fatture per operazioni inesistenti, avrebbe pagato come qualsiasi altro individuo” (p. 73 del verbale di udienza ult. cit.), perché, in realtà, il colonnello oggi imputato era perfettamente consapevole che ROMANO non poteva mai risultare responsabile di alcunché se la verifica veniva svolta sotto la direzione del Magg. ORFANELLO. […] Nel corso della presente esposizione ci si è ampiamente soffermati sulla illustrazione e sulla dimostrazione della tesi accusatoria circa la strumentalizzazione dell'attività istituzionale della Guardia di Finanza nissena, da parte di Antonio Calogero MONTANTE, per colpire e punire coloro che egli considerava suoi “nemici”. Si è, tuttavia, precisato che la latitudine di tale tesi è in verità più ampia, in quanto, secondo l'accusa, l'attività repressiva contro gli antagonisti, veri o presunti, di MONTANTE costituiva soltanto una faccia della medaglia. L'altra faccia, speculare alla prima, era rappresentata dalle verifiche fiscali compiacenti eseguite, dalla Guardia di Finanza nissena, nei riguardi di MONTANTE e dei soggetti allo stesso ricollegabili da rapporti di prossimità o cointeressenza: il “condono tombale” di cui aveva parlato VENTURI, riferendo le parole pronunciate dallo stesso MONTANTE. […] La ricostruzione sin qui condotta, come epilogato in calce al paragrafo che precede, ha ampiamente dimostrato la flessibilità modulare dei metodi operativi della Guardia di Finanza nissena, molto elastici nei riguardi di MONTANTE o di soggetti a lui vicini, particolarmente rigidi nei riguardi di suoi avversari. La sistematica replicazione di siffatti modelli operativi rispetto alle due categorie di contribuenti, distinte secondo lo spartiacque della sfera di interessi di MONTANTE, in assenza di ragioni obiettive che potessero sorreggere la legittimità scriminatoria, fonda il ragionevole convincimento che tale duttilità plastica sfuggisse all'adozione di criteri oggettivi e fosse, piuttosto, intenzionalmente preordinata all'adesione solidaristica al sistema di potere ruotante intorno all'imprenditore di Serradifalco. Tale convincimento è avallato da una serie di conversazioni intercettate, nelle quali emerge chiaramente come il Magg. ORFANELLO in primis, e in secundis anche il Col. ARDIZZONE e il Lgt. SANFILIPPO, avessero dirottato l'attività istituzionale verso il perseguimento di interessi di carattere privato, riconducibili, essenzialmente, all'affermazione di MONTANTE nella faida che si era scatenata all'interno di Confindustria nissena. Scorrendo il vasto campionario di intercettazioni compiute, alcune delle quali riguardano conversazioni intercorse tra il Magg. ORFANELLO e l'imprenditore Massimo ROMANO (che, come si ricorderà, aveva già assunto al CONFIDI, che presiedeva, la figlia del Col. ARDIZZONE e la compagna del Magg. ORFANELLO, quando ricevette la verifica fiscale-farsa presso la C.D.S. s.p.a., nella quale lavorava, tra l'altro, la sorella di SANFILIPPO), deve sin da subito precisarsi un aspetto: secondo il principio simul stabunt simul cadent, ORFANELLO e ROMANO, temendo una comune debacle a seguito delle indagini in corso sul conto di MONTANTE, cominciavano ad assumere, concordemente, un atteggiamento massimamente cauto nelle loro interlocuzioni. Il dato è di estrema importanza, sia perché avvalora la tesi della condivisione di intenti tra ROMANO ed ORFANELLO, sia perché dimostra l'ulteriore condivisione di intenti tra ROMANO, ORFANELLO e MONTANTE, posto che tale cautela espressiva, come vedremo, veniva adottata in una fase in cui, mentre era notoria (per effetto della pubblicazione dell'articolo giornalistico di BOLZONI e VIVIANO del 9 febbraio 2015) l'esistenza dell'indagine su MONTANTE per concorso esterno in associazione mafiosa, l'ulteriore filone investigativo che vedeva coinvolti anche gli uomini delle istituzioni e lo stesso ROMANO (confluito nell'odierno processo) non era di pubblico dominio, ma era stata oggetto di indebita rivelazione di segreto d'ufficio a beneficio di MONTANTE. Deve, dunque, logicamente ritenersi che MONTANTE, avuta cognizione di tale sviluppo investigativo, avesse comunicato la notizia alle persone a lui vicine (a sua volta disponendo, come in parte già accertato e come si potrà constatare infra, una serie di bonifiche da possibili microspie in luoghi di sua pertinenza e avvalendosi di utenze riservate nelle comunicazioni tra sé e i suoi fedelissimi), cosi spiegandosi agevolmente le riserve espressive di ROMANO ed ORFANELLO. Emblematica, in tal senso, si rivela la conversazione intercorsa tra ORFANELLO e ROMANO nel corso di un incontro svoltosi in data 10 maggio 2015, quando il primo non era più in servizio a Caltanissetta e, come si vedrà postea, la rivelazione del segreto d'ufficio sulle intercettazioni, disposte nei riguardi di MONTANTE, si era già consumata. […] Appare, dunque, evidente come ORFANELLO e ROMANO avessero concordato la linea da seguire per superare l'ondata dell'indagine che, partendo da MONTANTE, li avrebbe potuti travolgere per l'intimo legame esistente tra loro e l'imprenditore di Serradifalco, convenendo, per esempio, di prestare attenzione a possibili intercettazioni (ROMANO: ''Occhio ai telefoni..."; ORFANELLO: ''Compà tranquillo...a mia mù rici! C'iaiu campatu nà vita cù i telefoni!"), per cui è agevole comprendere il senso delle parole con le quali l'ufficiale si vantava di avere, a Caltanissetta, "ancora le orecchie buone”, alle quali l'imprenditore nisseno rispondeva invitando l'interlocutore a mantenere “le orecchie aperte". Non può, inoltre, non segnalarsi, in senso confermativo rispetto all'esistenza di un consolidato asse illecito ORFANELLO-ROMANO (che in realtà, come più volte segnalato, aveva un ben più ampio orizzonte soggettivo, con coinvolgimento, oltre che di MONTANTE, anche di ARDIZZONE e SANFILIPPO, limitando l'enumerazione al filone della Guardia di Finanza), il riferimento operato dallo stesso ORFANELLO a soggetti organici alla Guardia di Finanza nissena (appartenenti al G.I.C.O.) dai quali, a suo dire, avrebbe potuto attingere informazioni utili in merito all'indagine che poteva coinvolgerli. Un passaggio fondamentale della conversazione è quello relativo al riferimento, da parte di ORFANELLO, ad un tale “Mario” quale possibile fonte di notizie preziose, in quanto certamente a sua disposizione: "[...] io drà c'iaiu...io ciò...(inc)...a Mario ca si ci dicu mezza parola...(inc)...". E' chiara l'evocazione, nel contesto conversativo, del Lgt. SANFILIPPO, ossia di colui che, come più volte ripetuto, qualche anno dopo avere ottenuto l'assunzione della sorella presso la società C.D.S. s.p.a. di Massimo ROMANO, aveva eseguito la verifica fiscale nei riguardi della medesima società, così come tutte le altre verifiche fiscali che, a fini persecutori o, al contrario, assolutori, riguardavano soggetti di interesse per MONTANTE. Del resto, “Mario”, nel discorso fatto da ORFANELLO a ROMANO, è una persona di loro fiducia, che l'ufficiale non colloca all'interno del G.I.C.O. che pur menziona. Inoltre, nessuno dei finanzieri che avevano eseguito delle attività per ordine di ORFANELLO, le cui dichiarazioni sono state ampiamente analizzate, possiede quel nome di battesimo. Infine, come vedremo infra esaminando il contenuto di un dialogo intercorso tra ORFANELLO e SANFILIPPO il giorno di Natale del 2015, è a quest'ultimo che il primo chiedeva spiegazioni circa un controllo eseguito dalla Guardia di Finanza nei confronti di Massimo ROMANO, a comprova del fatto che una delle fonti dell'ufficiale, dopo il suo trasferimento da Caltanissetta, fosse proprio Mario SANFILIPPO.

A questo punto si impone una riflessione. Se ORFANELLO menziona “Mario” quale fonte disponibile ed affidabile delle notizie che potevano circolare all'interno della Guardia di Finanza nissena, se Mario si identifica in SANFILIPPO (ciò che appare incontestabile) e se ROMANO coglie immediatamente il senso del discorso e l'identità del soggetto menzionato, è perché SANFILIPPO è pacificamente il braccio destro dell'ufficiale nella esecuzione delle verifiche fiscale correlate, in positivo o in negativo, al sistema MONTANTE, comprese quelle eseguite nei confronti dello stesso ROMANO: SANFILIPPO, dunque, non è un elemento spurio al sistema associativo di cui si discuterà ampiamente. Peraltro, le giustificazioni addotte da ROMANO nell'interrogatorio del 18 luglio 2016, secondo cui la cautela, manifestata nella conversazione testé ripercorsa rispetto a possibili attività captative ("Occhio ai telefoni...'' diceva lo stesso ad ORFANELLO, nella fase caudale della conversazione su riportata), derivava dal timore di possibili intercettazioni abusive (“devo evidenziare che ho sempre avuto, in generale, timore nella mia vita per possibili intercettazioni abusive da parte di terzi; in quel periodo, poi, le mie paure erano particolarmente accentuate dalle notizie che circolavano all'interno di CONFINDUSTRIA secondo cui era stata rinvenuta una microspia nei locali di Confindustria Centro Sicilia”), non appare affatto convincente, in quanto non emerge un solo elemento, derivante da una pregressa esperienza di ROMANO, sul quale fondare una siffatta inquietudine. Anche il riferimento, contenuto nelle parole di ROMANO di cui al citato interrogatorio, alla divulgazione della notizia del presunto rinvenimento di una microspia nei locali di Confindustria (si tratta dell'episodio della simulazione di reato contestata nel presente giudizio), non può mai sorreggere l'argomentazione difensiva, sia perché non si vede in che modo il fatto accaduto in Confindustria, ammesso che il predetto ROMANO ne ignorasse la simulazione, potesse incidere sulle sue scelte d'azione, sia perché lo stesso allegava una sorta di timore diffuso che lo avrebbe sempre attanagliato (“devo evidenziare che ho sempre avuto, in generale, timore nella mia vita per possibili intercettazioni abusive da parte di terzi”), a prescindere dallo specifico caso confindustriale. Tra l'altro, a volere ammettere che questo timore ancestrale, coltivato da ROMANO, circa possibili attentati alla propria riservatezza fosse affiorato casualmente nel bel mezzo del vortice dell'inchiesta su MONTANTE, esattamente dopo la fuga di notizie, non si spiega la ragione per cui lo stesso ROMANO avesse esortato ORFANELLO alla cautela espressiva nelle conversazioni telefoniche, ossia perché quest'ultimo dovesse condividere con lui le sue più intime paure. Peraltro, difficilmente l'episodio di Confindustria poteva avere risvegliato o alimentato tali timori, in quanto, subito dopo il fatto, VENTURI, nel corso di una conversazione intrattenuta proprio con ROMANO esattamente un mese prima dell'intercettazione in commento (10 aprile 2015), gli aveva esternato il proprio convincimento che non si era trattato di un autentico atto di spionaggio, quanto, piuttosto, di una simulazione, montata ad arte per finalità oblique. E all'esito di ciò, ROMANO, approvando le conclusioni cui era addivenuto VENTURI, aveva affermato, riferendosi agli autori della simulazione, che "comunque non sono normali ah!". […] In realtà, al di là delle peripezie argomentative di ROMANO, da una lettura complessiva del contenuto delle altre intercettazioni compiute, aventi ad oggetto le conversazioni del Magg. ORFANELLO o comunque di soggetti a lui vicini (es. la compagna, Rosaria TIRRITO), si evince chiaramente come i timori che avevano suggerito l'adozione della massima cautela espressiva nelle interlocuzioni tra l'ufficiale e il citato ROMANO affondassero le radici nel loro possibile coinvolgimento nell'inchiesta sul "sistema MONTANTE", in buona parte basato sull'utilizzo strumentale delle verifiche fiscali. Sono diverse, infatti, le conversazioni che consentono, tassello dopo tassello, di ricostruire il ruolo realmente assolto dalla triade ARDIZZONE-ORFANELLO-SANFILIPPO nella distorsione funzionale dell'attività ispettiva della Guardia di Finanza nissena. […] Com'è evidente, se l'intreccio tra le assunzioni al CONFIDI e le verifiche fiscali ingeneravano in ORFANELLO il convincimento di essere indagato in concorso con Massimo ROMANO, alternativamente all'ipotesi che ad essere indagato potesse essere il Col. ARDIZZONE, non può seriamente discettarsi, anche alla luce di quanto acclarato sulle modalità di esecuzione degli accertamenti fiscali e penali all'interno del comando provinciale della Guardia di Finanza nissena, circa il coinvolgimento di entrambi gli ufficiali nei giochi sinallagmatici di potere che costituiscono il fil rouge dell'impianto accusatorio. Vi è, infine, un ultimo gruppo di intercettazioni da prendere in considerazione, che vedono come protagonista il Lgt. Mario SANFILIPPO. La posizione di quest'ultimo, come già precisato, è esaminata incidenter tantum, per la refluenza che essa spiega ai fini dell'accertamento della fattispecie associativa, che coinvolge gli odierni imputati.

Non potendosi, dunque, prescindere da un riferimento, sia pure parentetico, al ruolo da lui assolto nella vicenda, giova ripercorre il contenuto delle conversazioni intercorse tra il sottufficiale e la propria moglie, Calogero TRICOLI, nonché tra il sottufficiale e il suo collega PIRNACI. Si tratta dei dialoghi già esaminati a proposito dei vantaggi ricavati da SANFILIPPO dall'adesione al "sistema MONTANTE", costituiti, tra l'altro, dall'assunzione del figlio Davide presso uno studio commercialistico, grazie alla disponibilità data, in tal senso, da Carmelo CARBONE, legato da ottimi rapporti a Massimo ROMANO, a sua volta, come visto, beneficiario di verifiche fiscali indulgenti presso la società C.D.S. s.p.a. Tale specifico profilo della vicenda, dunque, non verrà riproposto, scongiurandosi, così, il rischio della superfetazione motivazionale. Tuttavia, delle predette conversazioni dovranno evidenziarsi quei passaggi nei quali emerge il riferimento alle verifiche fiscali "truccate", dirette o a sanzionare i nemici di MONTANTE ovvero ad aiutare quest'ultimo e le persone allo stesso vicine. Estremamente significativa in tale direzione è la conversazione n. 1534 del 31 marzo 2016 (all. n. 424 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.), intercorsa tra il sottufficiale e la moglie, nella quale, come si ricorderà, l'innesco alla discussione sulle verifiche fiscali era costituito dallo scetticismo della donna in ordine alla affidabilità di CARBONE, il quale, pur avendo promesso una sistemazione lavorativa per il loro figlio, Davide, non aveva ancora onorato l'impegno assunto. É in tale contesto che il Lgt. SANFILIPPO spiegava alla moglie che il ritardo nell'assunzione era correlato alla pendenza dell'indagine sul conto di MONTANTE, perché quello era il "periodo più negativo che ci poteva essere", nel quale, addirittura, gli inquirenti stavano controllando tutte le loro verifiche fiscali eseguite nei confronti di determinati soggetti quali MONTANTE e ROMANO [...], a causa delle rivelazioni di qualcuno ("sicuramente c'è qualcuno che sta parlando di quelle... hanno fatto le verifiche a quelle, hanno fatto ..(inc).. che cazzo c'è (inc)... no?.. se stanno controllando le verifiche, un motivo ci sarà, capito?"), che, come visto, si identifica sostanzialmente in Marco VENTURI. Tale ambito investigativo, invero, secondo SANFILIPPO, poteva comportare dei problemi essenzialmente legati alla selezione, che era stata fatta, dei soggetti da verificare, selezione che il sottufficiale stesso definiva “discutibile” […]. Egli, tuttavia, secondo la versione che ne dava alla moglie, si era mantenuto neutrale rispetto a quella situazione, anche in occasione della esecuzione delle verifiche a ROMANO, essendosi limitato, in un caso di operazioni sospette con l'estero (è evidente il riferimento alla verifica fatta alla C.D.S. s.p.a.), a fare degli approfondimenti in più, che ordinariamente non avrebbe fatto ("..ho approfondito, quindi diciamo magari se era un soggetto che non conoscevo non approfondivo''), così consentendo all'imprenditore di chiarire degli aspetti dubbi, suscettibili di sfociare in atti di contestazione ("..certo!.. noi.. altrimenti li dovevo segnalare, capito.. magari in un altro caso.. non conoscendo, non conoscendo, aah, eh.. magari si esagerava, capito.. e invece, diciamo questo può essere inteso già come trattamento di favore se vogliamo no ?.. nel senso che mi sono preso anche l'onere di spiegare com'era, com'era...''). Continuando a dialogare con la moglie, SANFILIPPO aggiungeva che ROMANO, comunque, non aveva mai preteso nulla da lui, tanto vero che l'imprenditore era stato pressoché assente alle operazioni di verifica che lo avevano riguardato [...]. E' chiaro che la versione che offriva SANFILIPPO alla moglie appare una edizione rivista ed edulcorata dei fatti, atteso che, come si è ampiamente visto, gli accertamenti eseguiti nell'ambito nella C.D.S. s.p.a. furono in realtà del tutto inadeguati rispetto allo scopo formale della verifica, e che l'assenza di ROMANO sul posto, al momento del controllo, è un dato del tutto neutro, in quanto i verificatori conoscevano benissimo la composizione della compagine societaria e la riconduzione della C.D.S. s.p.a. allo stesso ROMANO. […] Nella successiva conversazione (progr. n. 1535) intercorsa tra i coniugi SANFILIPPO nella medesima data (all. n. 425 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.), il luogotenente spiegava alla moglie la logica cui erano state improntate le verifiche fiscali, illustrando, in particolare, il criterio selettivo dei contribuenti da verificare, basato sull'interesse, coltivato da MONTANTE, ad agevolarli o a punirli ("...questi potenzialmente o sono amici o sono nemici del gruppo Montante, capito!.. quindi le.. il, il coso potrebbe essere.. capitò che magari Montante tramite il Capitano, toglieva di mezzo i suoi nemici, no?..''). Nel primo caso, al di là della formale procedura di programmazione delle verifiche fiscali, talvolta erano stati gli stessi soggetti interessati a chiedere, in via di mero fatto, di essere controllati, ciò che era stato assecondato dal Maggiore - già Capitano (così lo chiama, talvolta, SANFILIPPO, nel corso dei dialoghi in esame) - ORFANELLO ("lui decideva e poi alcuni soggetti li metteva direttamente lui, no?.. che solo questi qual.. solo questi qua, Capito!.. che vengono.. esclusa la CDS, altri soggetti che sono quelli che hanno chiesto le verifiche, li metteva lui, capito!.."). E' evidente come tali affermazioni avvalorino esattamente quanto dichiarato da Marco VENTURI sulle verifiche fiscali che potremmo definire "on demand”, dirette ad assicurare al soggetto verificato un “condono tombale". […] Tra l'altro, SANFILIPPO, nel corso di tale dialogo, benché formalmente negasse ogni addebito personale ("..il disegno che si possono fare era questo!.. può essere questo!.. io quale comandante di sezione, capito, avallavo gli atti di Orfanello.. che magari, perché ha fatto la verifica quello!.. perché ha fatto la verifica a quello!.. se mi dovessero chiedere no, in base a queste e quelle cose.. anche na.. non c'è neanche da discutere, era lui che decideva, capito!.."), invitando la moglie ad una cauta serenità rispetto ai possibili sviluppi delle indagini [...], al contempo faceva una confessione stragiudiziale: egli era andato in pensione proprio per sottrarsi più agevolmente alla tempesta dell'inchiesta ("che stanno indagando è pacifico, ormai non ci sono dubbi.. detto fra me e te, poi è stato anche uno dei motivi perché io sono andato in pensione..."). In fondo, SANFILIPPO era perfettamente consapevole dei retroscena delle verifiche fiscali ("...la figlia del Colonnello lavora li, da Montante, Capito!.. ci sono delle situazioni di, che non viaggiano troppo in modo lineare, no!.. tutto dipende su che idea.. che idea si fanno..''; "..avevo già.. qualcosa che non stava girando nel verso giusto, capito?.. Orfanello quando cosa era andato via.. poi Orfanello, poi controllava verifiche, controllava cose, controllava veri.. io non ho mai fatto niente.. però capisti, tu hai un Comandante che fa, che dice (inc).. sapendo queste cose che io già le sapevo.. queste cose diii, Orfanello no!.. non è che (inc).. è stata un sorpresa per me, questa qui diii... [...] di Orfanello, capito...''). Peraltro, a saturare il quadro probatorio era proprio il Lgt. SANFILIPPO, il quale, conversando il 29 aprile 2016 (conv. amb. progr. n. 2063; cfr. all. n. 427 della C.N.R. n. 1092/2017, cit.) con un Mar. PIRNACI sempre più convinto di essere stato strumentalizzato inconsapevolmente mediante il proprio coinvolgimento in verifiche fiscali di dubbia trasparenza (come ad esempio quella nei confronti del Dott. BUONO), affermava: “E' diventata come se ci fosse una faida tra di loro a cui la Guardia di Finanza, il Colonnello e cose, hanno partecipato agevolando uno o gli altri capito?”. Così calando il sipario sulla scena delle verifiche fiscali.

Il capo dei servizi segreti, un caro amico. La Repubblica il 2 dicembre 2019. Il generale Arturo Esposito, fino al 2016 capo del servizio segreto interno. Secondo l'assunto dell'accusa, l'attività di investigazione, apparentemente impermeabilizzata, condotta dagli inquirenti nel presente procedimento, si rivelava particolarmente impervia a causa del trasudamento di notizie segrete che, in maniera inizialmente inspiegabile, riuscivano a raggiungere i diretti interessati. Intorno a MONTANTE, infatti, che nel tempo aveva tessuto solide alleanze con esponenti delle diverse forze di polizia e persino con i vertici dei servizi segreti, si sarebbe eretta - così ha sostenuto l'organo requirente - una barricata di protezione, che gli avrebbe permesso di essere allertato, tempestivamente, dell'esistenza dell'indagine e della tipologia di attività investigativa svolta (essenzialmente, mediante il ricorso alle intercettazioni). Al fine di munirsi delle giuste coordinate conoscitive per decodificare l'intricata vicenda delle plurime rivelazioni del segreto d'ufficio, appare opportuno soffermarsi sugli addentellati di cui godeva MONTANTE anche all'interno dell'A.I.S.I. Antonio Calogero MONTANTE era legato da ottimi rapporti di natura personale al Gen. Arturo ESPOSITO, dapprima capo di Stato Maggiore dell'Arma dei Carabinieri e, dal giugno 2012 al 2016, direttore dell'A.I.S.I. La spiccata vicinanza di MONTANTE ad ESPOSITO emerge sia dalle dichiarazioni di Marco VENTURI (cfr. verbale di assunzione di informazioni del 12 novembre 2015) sia dalle annotazioni contenute nel famoso file excel, nel quale risultano registrati, dal 2007 al 2015, diversi appuntamenti tra l'imprenditore di Serradifalco e il generale, tra i quali anche quattro incontri di commensalità: […] Il rapporto tra MONTANTE ed ESPOSITO si pone in linea di continuità con quello intrecciato dal primo con il predecessore di ESPOSITO, il Prefetto Giorgio PICCIRILLO, già vice comandante generale dell'Arma dei Carabinieri dal gennaio del 2008 e, a partire dal 15 giugno 2008 (e sino al momento in cui è stato, appunto, nominato ESPOSITO), direttore dell'A.I.S.I. Anche in tal caso è sufficiente scorrere rapidamente le risultanze del file excel per trarne il relativo convincimento: […]. Ad ulteriore conferma della natura dei rapporti esistenti tra il Gen. ESPOSITO e MONTANTE, è sufficiente ripercorre l'ordinanza cautelare (da p. 1904), nella parte in cui, incrociando le annotazioni contenute nel file excel del predetto MONTANTE con i dati che emergono dagli accertamenti documentali, si ricostruiscono alcune raccomandazioni ricevute dall'imprenditore ad opera parte dell'alto ufficiale. Giova precisare che, come nei precedenti richiami dell'ordinanza cautelare, anche in questo caso l'utilizzazione di tale provvedimento, intervallato dalle considerazioni di questo giudice, è teso alla valorizzazione, in un'ottica di speditezza redazionale, della parte meramente compilativa degli elementi di prova raccolti, senza alcuna passiva adesione alle osservazioni critico-argomentative in essa eventualmente contenute: Emerge, altresì - sempre dal contenuto del file excel di cui trattasi - come la natura dei rapporti esistenti tra il MONTANTE ed il Generale ESPOSITO non si siano arrestati ad un mero livello istituzionale, ma si siano spinti ben oltre, come sarà peraltro chiaro dall'insieme delle acquisizioni procedimentali di cui si darà conto nel prosieguo. Ed invero, nella cartella “CURRIC. PER SEN” del predetto file (al cui interno, come si è già detto, il MONTANTE ha annotato, almeno per parte degli appunti ivi contenuti, i soggetti che a lui si sono rivolti per ottenere “raccomandazioni”), è dato rintracciare il seguente appunto: ESPOSITO ARTURO: GIANFRANCO MELARAGNI. Tale annotazione trova una perfetta corrispondenza con le altre contenute nella cartella “TUTTI” di cui si è dato poc'anzi conto ed in specie quelle segnate alle date del 6 e 7 marzo 2013: […]. In altre parole, incrociando i dati di cui si dispone, è possibile concludere che, verosimilmente in occasione dell'incontro avuto il 6 marzo 2013, il Generale ESPOSITO avesse “segnalato” al MONTANTE il nominativo del dott. Gianfranco MELARAGNI ed il giorno dopo il MONTANTE aveva poi incontrato lo stesso MELARAGNI all'Hotel Bernini. Si tratta di un primo elemento da tenere in debita considerazione alla luce di ciò che si verrà dicendo, poiché consente di illuminare gli accadimenti che si sono succeduti a partire dal febbraio del 2015 e di porre un primo fondamentale tassello in grado di dimostrare come l'ESPOSITO sia soggetto che è parte integrante del circuito relazionale del MONTANTE nella cui orbita è stato attratto attraverso l'usuale schema comportamentale di quest'ultimo e cioè Pelargizione di favori da portare poi all'incasso alla prima occasione utile. Per completezza va altresì rilevato che il MELARAGNI di cui si è parlato si identifica, con ragionevole certezza, in Gianfranco MELARAGNI già Dirigente Superiore della Polizia di Stato oggi in quiescenza. Il MELARAGNI risulta aver percepito redditi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri dal 2011, il che sta a testimoniare che, nel momento in cui era avvenuto l'incontro col MONTANTE caldeggiato dal Generale Esposito, apparteneva ai Servizi di informazione e sicurezza. Il MELARAGNI, poi, dal 1.1.2014, veniva nominato Capo di Gabinetto del Sindaco di Latina, ruolo che ricopriva fino al 19.6.2015. Si accertava, altresì, che la di lui moglie, Nadia ABBONDANZA risulta aver lavorato dal 01.08.1978 in poi per Ente Automobile Club di Roma, Ente INPDAP gestione autonoma ex ENPDEP, Ministero dell'Interno Dip. Affari Interni E. Inoltre dal 2010 al 2014 risulta avere percepito redditi anche dal Senato della Repubblica. Il figlio del MELARAGNI, Francesco, risulta prestare la propria attività lavorativa presso la Guardia di Finanza a partire dal 01.01.2011 e, nel 2013, aveva il grado di Tenente (cfr. a tal proposito annotazione nota nr. 994 bis/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 18 04.201 7 xxx). MONTANTE, inoltre, conosceva altri appartenenti ai servizi, posto che il file excel mostra l'esistenza di rapporti intrecciati dallo stesso con Mario BLASCO, già dirigente della Polizia di Stato ed attualmente in servizio alla presidenza del Consiglio dei Ministri (A.I.S.I.), rapporti che sembrano monetizzati dal funzionario pubblico mediante richieste di raccomandazioni: Si è già accennato che il 10 giugno 2015 il MONTANTE si recava presso la sede dell'A.I.S.I. ove, stando alle annotazione del file excel, incontrava, oltre al Generale ESPOSITO, anche “Blasco”. Tale soggetto si identifica in Mario BLASCO, già Dirigente della Polizia di Stato ed attualmente in servizio, appunto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Orbene, sempre dalle annotazioni del file excel è possibile ricavare, innanzitutto, l'esistenza di consolidati rapporti tra il MONTANTE ed il BLASCO. […] Ciò che più rileva, tuttavia, in questa sede è che anche i rapporti con il BLASCO – stando pur sempre alle annotazioni del file excel - sembrano essere stati connotati da richieste di “raccomandazioni” avanzate da quest'ultimo al MONTANTE. Ed invero, all'interno della cartella denominata “CURRlC. PER SEN” è dato rintracciare la seguente annotazione: BLASCO (AMICA) GENTILE NATALIA (VT) + CONCETTA FUCCINATI ROMA - E-MAlL 21/03/2012. Tale appunto trova una corrispondenza in quelli contenuti nella cartella denominata “TUTTI” (poc'anzi riportati) ove, come si sarà senz'altro potuto notare, il MONTANTE ha annotato, alla data del 21.3.2012 la verosimile ricezione di una e-mail da parte di GENTILE Natalia, indicata come “amica di Blasco”, nonché, alla data del 21.2.2013, un pranzo avuto con lo stesso BLASCO nel corso del quale gli sarebbe stato consegnato il “curriculum” di Concetta “FUCCINATI”. Alla luce di quanto ricostruito, dunque, è possibile affermare che MONTANTE godesse di diverse entrature all'interno dei servizi segreti, i cui vertici, in diverse occasioni, gli avevano avanzato richieste di favori, gettando così le premesse per la potenziale costituzione di un rapporto sinallagmatico. Se tale è, nella prospettiva inquirente, il prodromo degli eventi, occorre verificare se la edificazione, da parte di MONTANTE, di un sapiente sistema di potere, fondato su una sorta di "soccorso" a base mutualistica, gli sia effettivamente valso ad eludere, anche in parte, le investigazioni o, comunque, a ricevere informazioni riservate sull'evoluzione delle stesse.

La catena delle soffiate. La Repubblica il 3 dicembre 2019. La vicenda si presenta affatto complessa: una sorta di matassa da dipanare nel labirinto di intercettazioni e produzioni difensive. Pertanto, si impone una preliminare operazione di sinossi, a sua volta preceduta da una considerazione prologica: di tutti gli imputati che rispondono di rivelazione di notizie segrete – il Gen. Arturo ESPOSITO, all'epoca direttore dell'A.I.S.I.; il Sen. Renato SCHIFANI; il Dott. Andrea CAVACECE, capo reparto dell'A.I.S.I.; il Dott. Andrea GRASSI, allora dirigente della prima divisione dello S.C.O. di Roma; il Prof. e Avv. Angelo CUVA; il Col. Giuseppe D'AGATA, all'epoca inserito nel reparto di CAVACECE - solo per Andrea GRASSI si procede nel presente giudizio, essendo gli altri separatamente giudicati innanzi al tribunale in formazione collegiale. Tuttavia, le reciproche relazioni tra le diverse condotte di rivelazione di segreto d'ufficio impongono una ricostruzione unitaria degli eventi. Ciò posto, deve ulteriormente premettersi che uno dei protagonisti di tale vicenda è Giuseppe D'AGATA, colonnello dei Carabinieri al quale, al capo P) di imputazione, vengono contestate molteplici condotte illecitamente rivelatorie. Di alcune di esse ci si è occupati nella ricostruzione della connessa vicenda del passaggio di pen drive da D'AGATA a MONTANTE, per cui ripercorrere i medesimi fatti determinerebbe una inutile ed antieconomica iperplasia espositiva. Dal capo P) di imputazione, tuttavia, occorre estrapolare una specifica condotta, che non è stata ancora compiutamente esaminata e che è rappresentata dalla rivelazione, da parte di D'AGATA in favore di MONTANTE, di alcune notizie inerenti alle indagini confluite nell'odierno giudizio, dopo che l'ufficiale, già comandante provinciale dei Carabinieri a Caltanissetta e poi capo centro D.I.A. a Palermo, era transitato nell'A.I.S.I. Tale segmento imputativo si intreccia con la contestazione, di cui al capo T) della rubrica, mossa ad Andrea GRASSI, Andrea CAVACECE e Arturo ESPOSITO, di avere rivelato a MONTANTE la notizia per cui egli, nell'ambito dell'inchiesta nissena ormai oggetto di divulgazione mediatica, era sottoposto ad intercettazione.

La catena cinetica attraverso cui sarebbe avvenuta la rivelazione sarebbe la seguente: dopo la pubblicazione dell'articolo di BOLZONI e VIVIANO del 9 febbraio 2015 su La Repubblica, avente ad oggetto l'esistenza dell'indagine su MONTANTE, la Dott.ssa Marzia GIUSTOLISI, previa autorizzazione dei P.M. titolari dell'indagine, comunicava la notizia delle intercettazioni al Dott. Andrea GRASSI, dirigente della prima divisione dello S.C.O. di Roma, nell'ambito delle doverose interlocuzioni istituzionali;

il Dott. Andrea GRASSI avrebbe rivelato la notizia all'amico Andrea CAVACECE, capo reparto presso l'A.I.S.I. di Roma;

Dott. CAVACECE ne avrebbe parlato sia con il suo superiore, il Gen. ESPOSITO, direttore dell'A.I.S.I., sia con il suo sottoposto, il Col. D'AGATA;

il Gen. ESPOSITO, tramite il Col. D'AGATA, avrebbe comunicato la notizia ad Antonio Calogero MONTANTE.

D'AGATA, dunque, quale ultimo anello della cinghia di trasmissione, avrebbe riversato tale dato all'imprenditore, cosi consentendogli di attivare tutta una serie di misure atte alla cautela contro le insidie investigative (utilizzo di schede telefoniche intestate a terzi; operazioni di bonifica per la rilevazione di microspie; etc.). Tali avvenimenti, in particolare, si collocherebbero “in epoca successiva e prossima al 9 febbraio 2015” (cosi, il capo di imputazione), ossia poco dopo la pubblicazione dell'articolo su La Repubblica di BOLZONI e VIVIANO sull'inchiesta a carico di MONTANTE. Il menzionato capo T) di imputazione contiene, inoltre, l'attribuzione ad Andrea GRASSI, Andrea CAVACECE, Arturo ESPOSITO, al Sen. Renato SCHIANI e al Prof. E Avv. Angelo CUVA, di una ulteriore rivelazione, avente ad oggetto il coinvolgimento del Col. D'AGATA nell'indagine a carico di MONTANTE.

Tali fatti, collocati nel dicembre del 2015, si sarebbero svolti secondo il percorso che segue: la Dott.ssa GIUSTOLISI, per gli stessi motivi già spiegati in relazione alla prima rivelazione, avrebbe legittimamente comunicato al Dott. GRASSI la notizia della estensione dell'indagine, a carico di MONTANTE, sul conto del Col. D'AGATA;

il Dott. GRASSI ne avrebbe parlato con il Dott. CAVACECE, così facendo migrare l'informazione dallo S.C.O., istituzionalmente legittimato a ricevere la notizia, all'A.I.S.I., soggetto estraneo, nel caso di specie, al circuito investigativo;

il Dott. CAVACECE ne avrebbe riferito ancora una volta al suo superiore, il Gen. ESPOSITO;

il Gen. ESPOSITO avrebbe utilizzato la notizia in una duplice direzione: da un lato avrebbe investito il Dott. Valerio BLENGINI, altro capo reparto dell`A.I.S.I., del compito di approfondire l'informazione presso il questore di Caltanissetta, Dott. Bruno MEGALE, dall'altro ne avrebbe riferito al Sen. SCHIFANI;

il Sen. SCHIFANI avrebbe rivelato la notizia al Prof. Angelo CUVA;

il Prof. CUVA avrebbe informato il diretto interessato, ossia proprio il Col. D'AGATA;

il Dott. CAVACECE avrebbe confermato a D'AGATA la veridicità della notizia.

A tale secondo filone di illegittima discovery, ne ne aggiunge un terzo, di cui al capo U) di imputazione, nel quale il Gen. Arturo ESPOSITO, il Sen. Renato SCHIFANI e il Prof. Angelo CUVA, “in concorso con un pubblico ufficiale rimasto allo stato non identificato”, avrebbero rivelato a D'AGATA che lo stesso era sottoposto, insieme alla moglie Rosa BATTIATO, ad intercettazione, sempre nell'ambito della medesima indagine. Il generale, in particolare, appresa tale notizia da un pubblico ufficiale mai individuato ed identificato, l'avrebbe rivelata al senatore, il quale l'avrebbe riferita al professore, il quale, infine, l'avrebbe riversata al colonnello. Tali condotte avrebbe avuto luogo, secondo il capo U) di imputazione, in epoca anteriore e prossima al 31 gennaio 2015" per ESPOSITO, e il 31 gennaio 2016 per SCHIFANI e CUVA. L'indicazione della data del fatto, ascritto al generale, è evidentemente errata con riferimento all'anno (2015, invece di 2016), in quanto, come emergerà dall'esposizione che segue, il ruolo di ESPOSITO si staglia nell'ultima frazione della vicenda, destinata a consumarsi il 31 gennaio 2016. Sullo sfondo di tali condotte, apparentemente convulse per la comparizione sulla scena di diversi personaggi, si agita lo spettro di un'unica associazione a delinquere, della quale farebbero parte, oltre a MONTANTE, all'imprenditore ROMANO e a DI SIMONE PERRICONE, e oltre ai poliziotti (DE ANGELIS, GRACEFFA) e ai finanzieri infedeli (ARDIZZONE, SANFILIPPO, ORFANELLO), anche il Gen. ESPOSITO e il Col. D'AGATA, con il concorso esterno del Dott. GRASSI, del Dott. CAVACECE, del Sen. SCHIFANI e del Prof. CUVA. La ricostruzione delle vicende testé sintetizzate potrebbe risultare alquanto articolata, in quanto l'ordine cronologico di emersione della relativa prova non corrisponde all'ordine cronologico degli eventi: alla loro compartimentazione storica (rivelazione delle intercettazioni nell'indagine su MONTANTE dopo il 9 febbraio 2015; rivelazione dell'estensione dell'indagine nei confronti di D'AGATA del dicembre 2015; rivelazione delle intercettazioni nei riguardi di D'AGATA del gennaio 2016) non corrisponde una compartimentazione probatoria. Occorrerà, infatti, muovere in direzione isterologica: partendo dagli avvenimenti ultimi (gennaio 2016), in relazione ai quali affioravano prima gli elementi di prova, si dovrà risalire a quelli più antichi con un percorso a ritroso, la cui linearità retrograda potrà essere compromessa da qualche necessaria operazione di (controllata) sovrapposizione di piani temporali. […] L'organo requirente individua un episodio che farebbe da spartiacque tra la conduzione segreta dell'indagine e le diverse ipotesi di rivelazione di segreto d'ufficio contestate. Tale episodio sarebbe costituito dalla pubblicazione, in data 9 febbraio 2015, su La Repubblica, dell'articolo di VIVIANO e BOLZONI, che rendeva nota, prematuramente, l'esistenza dell'indagine sul conto di MONTANTE. Dopo tale improvvida divulgazione, la squadra mobile di Caltanissetta informava lo S.C.O. Di Roma dell'intenzione di procedere, nell'ambito dell'indagine in questione, alle intercettazioni. A quel punto si innescava un meccanismo di protezione intorno alla figura di MONTANTE e, successivamente, di D'AGATA, volto alla captazione illecita di notizie afferenti alle indagini, nonché al loro riversamento ai diretti interessati. A parere dell'accusa, infatti, emergeva “uno stabile canale di comunicazione tra un appartenente alla Polizia di Stato ed altro appartenente ai Servizi di Informazione e Sicurezza al fine di travasare notizie riservate sull'indagine in corso presso questa Procura e che poi le stesse, su input del Generale ESPOSITO, venissero veicolate al MONTANTE e, successivamente, anche a Giuseppe D'AGATA al fine di consentire loro di prendere le dovute contromisure. Si accertava, altresì, che il D'AGATA fosse in contatto, a tal fine, con un professionista palermitano cui è legato da saldi rapporti di amicizia, Angelo CUVA, e che quest'ultimo rappresentasse il trait d'union tra lo stesso D'AGATA ed il Senatore Rosario SCHIFANI, il quale, a sua volta, si relazionava ai fini descritti col Generale ESPOSITO" (così l'ordinanza cautelare, da p. 1908, che replica, sul punto, la richiesta di applicazione della misura cautelare). In particolare, “in epoca successiva al febbraio del 2015 - in specie dopo la pubblicazione sul quotidiano “La Repubblica” della notizia dell'iscrizione del MONTANTE nel registro degli indagati di questa D.D.A. - la Squadra Mobile di Caltanissetta, nel quadro delle doverose interlocuzioni in merito alle indagini in corso, informava il Servizio Centrale Operativo, 1^ Divisione (organo dal quale funzionalmente dipende, appunto, la locale Squadra Mobile in relazione alle indagini di criminalità organizzata) che effettivamente era in corso attività d'indagine nei confronti dell'imprenditore di Serradifalco, anche attraverso attività d'intercettazione (cfr. annotazione del 13 giugno 2016 in atti).". […] Dunque, secondo la prospettiva requirente, il dirigente della prima divisione dello S.C.O., Andrea GRASSI, legittimamente informato dalla squadra mobile di Caltanissetta, dopo il 9 febbraio 2015, circa le imminenti intercettazioni su MONTANTE e, nel dicembre 2015, sull'estensione dell'indagine a D'AGATA, avrebbe rivelato entrambe le notizie ad Andrea CAVACECE, capo reparto dell'A.I.S.I. in cui era inquadrato lo stesso D'AGATA, con conseguente ulteriore propalazione di quelle informazioni, secondo diversi canali, fino al raggiungimento dei diretti interessati. Tale primo atto della sequenza rivelatoria, con migrazione delle notizie dallo S.C.O. ai servizi, era reso possibile, in tale ricostruzione, dall'esistenza, tra GRASSI e CAVACECE, di “uno stabile canale di comunicazione in relazione alle indagini in corso nei confronti del MONTANTE" (vd. supra). Prima di passare ad esaminare l'elemento probatorio che determina, oggettivamente, l'emersione della figura di CAVACECE, un dato deve subito essere precisato: Andrea GRASSI ha sempre collocato in un diverso frangente temporale la comunicazione, da parte della Dott.ssa GIUSTOLISI, dell'indagine su MONTANTE. A suo avviso, infatti, tale comunicazione non era avvenuta dopo la pubblicazione dell'articolo di VIVIANO e BOLZONI, come riportato nell'annotazione di P.G. del 13 giugno 2016, firmata dalla Dott.ssa GIUSTOLISI, ma in un momento anteriore (addirittura non potendosi escludere l'anno 2014), tanto da ricordare di avere appreso con grande stupore della successiva rivelazione mediatica dell'indagine (interrogatorio del 25 maggio 2018): […]. La dott.ssa GIUSTOLISI, escussa sul punto all'udienza del 4 settembre 2019, ha confermato quanto già riferito nell'annotazione citata, precisando che la comunicazione de qua era stata successiva al periodo indicato da Andrea GRASSI e correlando l'individuazione della relativa fascia temporale all'ormai avvenuta diffusione mediatica della notizia sull'indagine (9 febbraio 2015) e all'imminente avvio delle intercettazioni, la cui attività preparatoria risaliva al febbraio 2015: […]. In ogni caso, qualunque sia l'esatta dimensione cronologica nella quale collocare la comunicazione, dalla squadra mobile nissena allo S.C.O. di Roma, del ricorso al mezzo intercettivo nell'indagine su MONTANTE, il passaggio successivo, nella filiera della trasmissione illecita della notizia, sarebbe costituito dalla rivelazione dell'informazione da Andrea GRASSI ad Andrea CAVACECE. Il ruolo di CAVACECE emerge da un'interessante conversazione avvenuta tra il Col. D'AGATA e la propria moglie, Rosa BATTIATO, in data 31 gennaio 2016, mentre entrambi si stavano recando in macchina da Catania a Palermo, dal Prof. Angelo CUVA, che aveva convocato l'ufficiale d'urgenza per avvisarlo che lo stesso era intercettato. […] Dunque, secondo l'accusa, tale primo stralcio della intercettazione, nella quale D'AGATA attribuiva esplicitamente al suo capo reparto, Andrea CAVACECE, la rivelazione, "quasi" un anno prima, della confidenza circa la sottoposizione ad intercettazione di MONTANTE, sarebbe confermato, nella sua attendibilità rievocativa, da una circostanza: il periodo sussumibile in quel "quasi un anno fa...'' è identificabile con quell'arco temporale che va dal febbraio e al marzo 2015 e, quindi, coincide effettivamente con la fase successiva alla comunicazione a GRASSI del piano investigativo di procedere alle intercettazioni nell'inchiesta sul conto di MONTANTE, a nulla rilevando che, di fatto, la captazione, per precisa scelta investigativa, non avesse avuto ad oggetto, direttamente, le utenze dell'imprenditore, ma quelle dei suoi più stretti collaboratori (Vincenzo MISTRETTA e Carmela GIARDINA). Un'ulteriore conferma circa l'affidabilità dell'esternazione di D'AGATA deriverebbe dalla quasi totale interruzione delle comunicazioni telefoniche, tra lo stesso e MONTANTE, in epoca successiva al 21 febbraio 2015. […] E' chiaro che la scelta di D'AGATA di cessare i contatti telefonici con MONTANTE, se si consuma il 22 febbraio 2015, si correla non già alla consapevolezza, da parte dell'ufficiale, che l'imprenditore di Serradifalco fosse indagato, ciò che era già divenuto notorio con l'articolo giornalistico del precedente 9 febbraio, bensì, molto più probabilmente, alla effettiva conoscenza, da parte dell'ufficiale medesimo, tramite CAVACECE, della esecuzione di intercettazioni nell'ambito della relativa indagine. Tale deduzione, secondo l'accusa, è avvalorata da un più generale mutamento delle abitudini comportamentali sia di D'AGATA sia, soprattutto, di MONTANTE. Infatti, dopo la contestata rivelazione da CAVACECE a D'AGATA delle intercettazioni su MONTANTE, si verificavano, come vedremo nei paragrafi immediatamente prossimi, le seguenti circostanze: le comunicazioni tra l'ufficiale e l'imprenditore avvenivano mediante modalità che ne assicuravano la riservatezza;

MONTANTE, recandosi nella sede dell'A.I.S.I. per incontrare il Gen. ESPOSITO e il Dott. Mario BLASCO, spegneva completamente il telefono, ciò che può spiegarsi o con il tentativo di impedire la propria geolocalizzazione, mediante l'individuazione delle celle agganciate per effetto dei contatti telefonici, o con l'intenzione di impedire captazioni delle conversazioni mediante l'utilizzo dell'apparecchio telefonico;

MONTANTE, oltre a disporre bonifiche da microspie in luoghi di propria pertinenza, cominciava a comunicare con i suoi più fedeli collaboratori (Vincenzo MISTRETTA, Carmela GIARDINA, Linda VANCHERI) tramite utenze riservate, intestate a terzi, in modo da ostacolare l'identificazione dell'effettivo utilizzatore;

MONTANTE avviava un'attività di occultamento di documenti.

[…] Si è accennato come, dopo la ritenuta rivelazione, da parte di CAVACECE a D'AGATA, della notizia delle intercettazioni nell'indagine su MONTANTE, quest'ultimo e l'ufficiale dei carabinieri avessero mutato le loro abitudini nelle comunicazioni telefoniche. Si è a tal proposito evidenziato come alla data del 21 febbraio 2015 risalisse l'ultimo contatto telefonico tra i due. Deve, inoltre, rilevarsi come, dopo quella data, D'AGATA e MONTANTE avessero in realtà continuato a coltivare il loro rapporto, sia pure con modalità clandestine. Infatti, come già ricostruito antea (vd. sez. seconda, cap. X, § 2), il 12 marzo 2015, quando le intercettazioni sul conto di MONTANTE (id est, disposte nei confronti dei suoi più stretti collaboratori) erano già avviate, D'AGATA incontrava l'imprenditore presso l'hotel Bernini di Roma, senza che la fissazione dell'appuntamento risulti dai tabulati. […] Tuttavia, il dato storico incontrovertibile è che D'AGATA, pur dopo l'esplosione del caso MONTANTE, avesse continuato a mantenere i rapporti con quest'ultimo, ciò che, incensurabile dal punto di vista etico (a meno che non si voglia degradare il principio di non colpevolezza a mera formula linguistica desemantizzata), presenta una certa rilevanza processuale nella misura in cui l'incontro fu certamente organizzato con modalità "carbonare", ossia al di fuori delle normali prassi comunicative costituite dall'uso del mezzo telefonico con le utenze "ufficiali", che avrebbero senz'altro lasciato traccia nei relativi tabulati. […] Nei mesi di maggio e di giugno dello stesso anno, dunque qualche mese dopo la diffusione mediatica dell'indagine sul conto di MONTANTE e la prima rivelazione del segreto sulle intercettazioni, lo stesso MONTANTE si recava presso la sede romana dell'A.I.S.I., in via Giovanni Lanza, al fine di incontrare il vertice dell'agenzia, il Gen. ESPOSITO, e il suo vice, il Dott. Mario BLASCO. Gli incontri, ricostruiti grazie al combinato disposto delle annotazioni contenute nel file excel di MONTANTE e dei dati del traffico telefonico, erano connotati, come già anticipato, dall'adozione, da parte di quest'ultimo, di talune cautele volte ad ostacolare l'agevole tracciamento della sua presenza presso gli uffici dell'agenzia o, alternativamente, ad evitare possibili operazioni captative attraverso il proprio telefono cellulare. […] Ciò posto, non può non rilevarsi come gli incontri di MONTANTE con i vertici dell'A.I.S.I. difficilmente avrebbero potuto riguardare materie "comuni", quali quelle relative alla gestione del protocollo tra i servizi segreti e Confindustria, di cui pure ha parlato l'imprenditore nel corso del proprio interrogatorio (cfr. verbale del 9 agosto 2018). In tal caso, infatti, MONTANTE non avrebbe avuto alcuna necessità di spegnere il telefono durante lo svolgimento degli incontri. Del resto, al di là del legittimo mantenimento dei rapporti amicali, sarebbe stato assolutamente inopportuno, sia per ESPOSITO sia per BLASCO, continuare a coltivare presunti rapporti di collaborazione istituzionale con un soggetto che, pur accreditandosi come il paladino della legalità, risultava indagato per reati di mafia, come reso noto da VIVIANO e BOLZONI già il 9 febbraio di quell'anno. […] Già a partire dal 9 maggio 2015 il tenore di una conversazione telefonica iniziata tra MONTANTE e Carmela GIARDINA e proseguita tra il primo e Vincenzo MISTRETTA, entrambi suoi fidi collaboratori, faceva sorgere il sospetto che talune delle loro comunicazioni avvenissero mediante utenze diverse da quelle "ufficiali". […] L'acquisizione della certezza dell'utilizzo di utenze riservate da parte di MONTANTE e dei suoi collaboratori più vicini comportava un'operazione di “sviluppo” dei dati acquisiti. In particolare, analizzando il traffico telefonico relativo alla chiamata del 9 maggio 2015 (con specifico riferimento alla durata della conversazione e alle celle impegnate nell'arco temporale rilevante), era possibile risalire alla utenze riservate effettivamente impiegate da MONTANTE e da MISTRETTA, arrivando alla conclusione che "Il MONTANTE Antonio Calogero aveva utilizzato l'utenza telefonica nr. 331+++++++, intestata alla suocera SCARPULLA Vincenza, mentre il MISTRETTA Vincenzo aveva usato l'utenza telefonica nr. 333+++++++, a lui stesso intestata”. Inoltre, con riguardo a tale ultima utenza, emergeva altresì che essa generava un modestissimo traffico telefonico, per lo più legato alle conversazioni con l'utenza intestata alla suocera di MONTANTE e in uso a quest'ultimo (ibidem). Tale apparente approdo investigativo era, in realtà, soltanto un trampolino di partenza, dal quale, mediante lo studio del traffico telefonico delle utenze così individuate, si risaliva alle altre utenze riservate di MONTANTE e dei suoi collaboratori, che, via via, entravano in contatto con quelle. In sintesi, la scoperta delle primissime utenze riservate era la chiave di grimaldello attraverso cui si individuavano, passo dopo passo, tutte le altre: ognuna di tali utenze riservate rivelava l'altra utenza riservata con cui essa "dialogava". […] Non appare opportuno ripercorrere dettagliatamente l'intero segmento di indagine relativo alle utenze riservate. Si correrebbe il rischio di una stereotipata elencazione di numeri telefonici, ciascuno individuato, mutatis mutandis, applicando il metodo descritto. Può essere, invece, utile collegare tali accorgimenti, adottati da MONTANTE per ostacolare le intercettazioni delle sue comunicazioni telefoniche, con le contestuali iniziative, poste in essere dallo stesso, volte alla bonifica, da possibili microspie, dei luoghi di propria pertinenza. […] Le date di esecuzione delle bonifiche appaiono molto significative se si tiene conto che, secondo quanto rivelato da D'AGATA alla moglie il 31 gennaio 2016, egli aveva ricevuto la confidenza da CAVACECE circa le intercettazioni, cui era sottoposto MONTANTE, meno di un anno prima, dunque tra il febbraio e il marzo 2015. Com'è ovvio, l'adozione in sé di siffatta contromisura di bonifica dei luoghi di pertinenza propria non si porrebbe in rapporto di rigorosa sequenzialità rispetto alla premessa della rivelazione del segreto d'ufficio, ma in relazione di semplice compatibilità. Il pericolo dell'inganno del post hoc propter hoc sarebbe, infatti, concreto, se si pretermettesse l'esistenza in un altro potenziale fattore eziologico delle bonifiche, costituito dalla divulgazione coram populo dell'indagine a carico di MONTANTE (articolo di BOLZONI-VIVIANO del 9 febbraio 2015): detto altrimenti, l'imprenditore di Serradifalco avrebbe potuto fare bonificare i luoghi di proprio interesse non in quanto destinatario della notizia sulle intercettazioni, ma nell'ambito di una più ampia scelta prudenziale conseguente all'incalzare in sé dell'indagine. Ciò è vero, tuttavia, a patto di segregare la questione delle bonifiche e di leggerla in maniera disgiunta dall'ulteriore iniziativa, sopra descritta, di impiegare utenze telefoniche alternative a quelle “ufficiali”, perché in realtà tale specifica misura, secondo gli accertamenti compiuti, pare emergere per la prima volta nell'aprile 2015, e non già a stretto ridosso della rivelazione mediatica della notizia sull'indagine. Tale ultima circostanza, sebbene non assistita da una certezza rigorosa sul piano temporale (non può escludersi del tutto che già qualche mese prima MONTANTE avesse comunicato tramite "altri canali" con i propri collaboratori più fidati), parrebbe sospingere il significato di tali iniziative elusive più verso l'ambito della sequenzialità che verso la sponda della mera compatibilità rispetto alla rivelazione del segreto d'ufficio. Vi è, infine, un altro elemento che suggerisce, in maniera prepotente, l'approdo sulle coste della sequenzialità. MONTANTE, come già spiegato a proposito degli accessi abusivi al sistema informatico, era già da tempo a conoscenza di essere al centro delle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia (dall'anno 2010). Eppure tali contromisure venivano adottate soltanto nel 2015. Pertanto, l'ipotesi che esse potessero collegarsi alla divulgazione giornalistica della notizia, anziché alla conoscenza, da parte di MONTANTE, del ricorso degli investigatori allo strumento intercettivo, si configura non già come semplicemente recessiva, ma assolutamente incompatibile con una visione complessiva degli elementi acquisiti. […] La primavera del 2015 segnava il compimento di un'altra singolare attività da parte di MONTANTE. Infatti, nell'ambito della medesima strategia elusiva delle indagini si inquadra la spasmodica attività di occultamento di documenti, ordinata dallo stesso, almeno dal maggio 2015, a persone di strettissima fiducia, ed in primis a Vincenzo MISTRETTA, Carmela GIARDINA e Rosetta CANGIALOSI. L'assunto non costituisce mera elucubrazione investigativa, ma oggettiva evidenza offerta dalle intercettazioni di conversazioni, confortate dalle videoriprese eseguite, nelle quali i predetti soggetti, unitamente ad altri che vedremo di individuare scorrendo direttamente l'ordinanza cautelare, fanno ampi e chiari riferimenti alla catalogazione di documenti, alla loro collocazione in scatoloni, alla identificazione degli scatoloni mediante l'apposizione dei nomi dei soggetti a cui i documenti ivi contenuti si riferiscono, nomi poi cancellati e sostituiti da più asettici numeri, e, infine, al loro trasporto altrove, in luogo in cui custodirli per sottrarli alle attività di perquisizione.

Tale ricostruzione non può essere inficiata dal registro espressivo utilizzato convenzionalmente dai loquenti, nella bocca dei quali i documenti subiscono improbabili mutazioni nominali in “pistacchi” e "noci", in quanto la quantità di essi cui si fa riferimento, la loro collocazione in scatoloni risultati molto pesanti, la necessità di una loro accorta custodia, la fregola nell'attività di catalogazione e conservazione, i repentini mutamenti dei criteri di identificazione degli scatoloni, la spasmodica ricerca di luoghi idonei per il loro occultamento risultano assolutamente incompatibili con discettazioni di tipo botanico o gastronomico, eo magis se si considera che, tra tutte le attività svolte da MONTANTE - il meccanico di biciclette, il costruttore edile, il costruttore di ammortizzatori, il professionista dell'antimafia - non pare potersi annoverare quella di produttore agroalimentare. Del resto, MONTANTE è apparso particolarmente abile nel frodare le etichette, sol che si rifletta sulla circostanza che, come vedremo dalla lettura delle intercettazioni che seguono, lo stesso denominava la "stanza segreta", alloggiata dietro una libreria, all'interno della sua villa di contrada Altarello, a Serradifalco, quale “stanza diciamo della legalità”. Definizione, quest'ultima, che appare evidente espressione di libero arbitrio linguistico, se è vero, come è vero, che in tale vano sono stati rinvenuti documenti comprovanti la raccolta di dati riservati di terze persone, ottenuti mediante modalità contra legem (accessi abusivi a sistemi informatici). […].

Nota a margine. Scrive la giudice a pg. 1627 sul ruolo di Andrea Grassi: Tra l'altro, tra tutti i pubblici ufficiali - magistrati, poliziotti, carabinieri, finanzieri, ministri, prefetti - pronti a chiedere favori a MONTANTE, e alcuni di loro anche a ricambiarli, con tanto di puntuale annotazione nel file excel dell'imprenditore, GRASSI non è assolutamente annoverato, per cui, con la stessa determinazione con cui si afferma la sua responsabilità penale per la rivelazione del segreto d'indagine del dicembre 2015, occorre affermare la sua totale estraneità al "sistema MONTANTE": egli allentò il rigore deontico-istituzionale a vantaggio dell'amicizia che lo legava a CAVACECE, verosimilmente non potendo immaginare la protezione reticolare eretta all'interno dei servizi segreti in favore di MONTANTE, ma non svendette la propria dignità professionale al migliore offerente.

Renato Schifani, il “professor Scaglione”. La Repubblica il 4 dicembre 2019. Come diffusamente spiegato, il Prof. CUVA, alle prese con la ricerca di materiale giurisprudenziale “per Marco”, ossia delle informazioni sull'indagine da riferire al Col. D'AGATA, differiva ripetutamente l'appuntamento con quest'ultimo, in quanto, medio tempore, non era riuscito a ricevere alcunché dal "Professore SCAGLIONE". Ergo, il "Professore SCAGLIONE” è la fonte di CUVA. In effetti a Palermo "esiste uno SCAGLIONE Antonio, Professore di diritto processuale penale presso l'Università di Palermo, ove è stato Rettore dal 2010 al 2015 nonché vice presidente del Consiglio della Magistratura Militare, figlio del magistrato ucciso nel 1971" (C.N.R. cit., p. 750), solo che, dagli accertamenti esperiti sui tabulati telefonici del professore e della moglie, emergeva che il docente, pur conoscendo CUVA, non si era affatto relazionato con quest'ultimo nei momenti nei quali, secondo il tenore testuale delle conversazioni tra D'AGATA e CUVA, ciò sarebbe avvenuto (ibidem). Per converso è stato acclarato che la persona che nel "primo pomeriggio" del 23 gennaio 2016, come riferito da CUVA a D'AGATA nella conversazione del giorno dopo, aveva incontrato lo stesso CUVA, non era il Prof. SCAGLIONE, come da lui affermato, ma il Sen. Renato SCHIFANI, il quale, inoltre, è lo stesso soggetto che CUVA aveva incontrato a pranzo il 31 gennaio successivo, prima di convocare d'urgenza il Colonnello D'AGATA. Invero, con riferimento all'incontro del pomeriggio del 23 gennaio, "l'analisi dei tabulati restituiva il dato che il CUVA si fosse sentito con l'On. Renato SCHIFANI, alle ore 14.29 del 23.1.2016, con l'utenza 349+++++++. [...] Dopo questo contatto con l'On. SCHIFANI, l'utenza del CUVA non censiva più alcuna cella perché aveva spento il telefono. Infatti, il telefono per così dire “riappariva” solo alle successive ore 16.59 e la cella agganciata dalla sua utenza era quella di via *******, posta - come calcolato con precisione col sistema denominato “Sfera” - a 65 mt di distanza dall'abitazione palermitana dello SCHIFANI, sita in quella via *******. [...] Pertanto, è l'onorevole SCHIFANI il soggetto che il CUVA aveva incontrato quel pomeriggio ed è lo SCHIFANI che doveva fornirgli le notizie che, poi, a sua volta, il CUVA avrebbe dovuto girare al D'AGATA. Circostanza quest'ultima riscontrata pienamente dal fatto che, appena uscito da casa del politico, il CUVA chiamava immediatamente il D'AGATA, con un primo veloce contatto alle ore 17.09 che si registrava sulle loro utenze "ufficiali" e con un secondo contatto delle ore 17.19 che si registrava, invece, sulle loro utenze “citofono". Il CUVA, perciò, lo richiamava non appena giunto presso la propria abitazione, ove provvedeva ad accendere questa utenza (vds All. nr.04 - nota trasmissione complessiva tabulati nr. 1062/2017 cat. II Mob. SCO- 3° Gruppo del 26.04.2017). [...] Ciò nonostante il D'AGATA, l'indomani, 24.1.2016, richiamava il CUVA perché ansioso di sapere se avesse ottenuto qualche informazione in più ed il CUVA un po' si infastidiva, dicendogli - quindi traendosi in inganno - che già ne avevano parlato ieri e in così breve lasso di tempo non ci sarebbero potute essere ulteriori novità che lo riguardavano (C.N.R. cit., da p. 751). Anche in ordine all'appuntamento avuto da CUVA il 31 gennaio, poco prima di chiamare D'AGATA e riversargli la notizia sulle sue intercettazioni, è stata acquisita la certezza che la persona incontrata fosse il Sen. Renato SCHIFANI. Infatti, come spiegato nella C.N.R. più volte menzionata (da p. 771) testé menzionata, “Molto probabilmente quella notizia che il D34GATA attendeva con ansia e frenesia, veniva appresa dal CUVA quello stesso pomeriggio del 31 gennaio 2016, vista l'urgenza con la quale poi diceva al D'AGATA di raggiungerlo a Palermo. Nella ricostruzione emersa dalla disamina dei tabulati delle utenze in uso al CUVA, si evinceva che, nella giornata del 31.1.2016, dalle ore 14.07 alle ore 15.36, il CUVA si trovava a pranzo nella zona del lungomare di Mondello. Dall'analisi dei tabulati emergeva che il CUVA fosse a pranzo con la moglie DE ROSA Antonella e con i coniugi SCHIFANI. In particolare, dall'analisi dei tabulati emergeva che, alle ore 10.33 di quel giorno OLIVERI Francesca, moglie del Senatore SCHIFANI, contattava un'utenza fissa attestata presso il ristorante "TELIMAR”, sito in Lungomare Cristoforo Colombo in località Mondello di Palermo. Nel dettaglio, la disamina degli spostamenti delle utenze in uso al CUVA in base alle celle censite dalle medesime permetteva di accertare che egli, nella giornata del 31.1.2016, dalle ore 14.07 alle ore 15.36, si trovasse a pranzo nella zona del lungomare di Mondello, dato che la sua utenza veniva censita, in quell'arco di tempo, da una cella ubicata in Lungomare Cristoforo Colombo di Mondello (ove, come detto, insiste il ristorante TELIMAR). Anche l'utenza della moglie del CUVA, DE ROSA Antonella, quel giorno, ed alle ore 14.05, veniva localizzata in Lungomare Cristoforo Colombo; così come l'utenza della moglie del Senatore SCHIFANI, OLIVERI Francesca dalle 14.18 alle 14.59, che agganciava una cella ubicata sul Lungomare Cristoforo Colombo. In conclusione, può dirsi accertato che tra le 14.00 circa e le 15.30 circa del 31.01.2016 l'utenza di CUVA veniva localizzata nella zona in cui si trovava, oltre che quella della propria moglie, anche l'utenza della moglie del Senatore Renato SCHIFANI, OLIVERI Francesca. […] Dopo il pranzo, l'analisi dei tabulati consentiva di acquisire ulteriori dati che saranno di seguito illustrati:

alle ore 15.28, il CUVA chiamava (contatto voce di 428 secondi) il Generale Teo LUZI, Comandante del Comando Provinciale di Milano;

poco dopo, alle ore 15.45, il CUVA riceveva una telefonata da un 'utenza intesta a Candela Maria, moglie dell'Avv. FERRERA;

alle ore 15.52, l'utenza della OLIVERI Francesca (in movimento da Mondello verso la propria abitazione) contattava l'utenza del senatore SCHIFANI, che si trova va a pochissima distanza da quella della moglie;

alle ore 15.58, il CUVA tentava di mettersi in contatto con il D'AGATA Giuseppe, utilizzando utenze “insospettabili”: infatti, con l'utenza nr. 389+++++++ in uso al figlio Vincenzo chiamava D'AGATA Marco, il figlio di D'AGATA Giuseppe, ma l'utenza di quest'ultimo era spenta. Poco dopo, quest'ultimo tentava di mettersi in contatto, utilizzando un'utenza citofono intestata al suocero BATTIATO Giovanni (di cui si dirà più avanti) con il CUVA chiamandolo ad altra utenza citofono in uso a quest'ultimo intestata a MAZZAROTTI Antonio Pellegrino, generale della Guardia di Finanza, ma il CUVA non rispondeva poiché tale utenza l'aveva verosimilmente lasciata a casa. Infatti, poco dopo, recuperata l'utenza citofono il CUVA contattava il Dí4GATA. Le celle censite dalle utenze di tutti i summenzionati protagonisti permettevano di chiarire che tutti si allontanavano dal lungomare Cristoforo Colombo intorno alle ore 15.30". La ricostruzione che precede non può essere censurata, in quanto rappresenta il report fedele di dati tecnici oggettivi. D'altro canto, provando ad esplorare interpretazioni alternative dei medesimi dati e ad ipotizzare, per esempio, che la fonte di CUVA fosse stato il Gen. Teo LUZI, con il quale, come visto, era pure intercorsa una conversazione telefonica nello stesso 31 gennaio, non può non rilevarsi, in senso contrario, come tra CUVA e LUZI non fosse avvenuto alcun altro contatto telefonico nel corso del mese (C.N.R. cit., p. 775; cfr. anche annotazione di P.G., all. 4 alla predetta comunicazione di notizia di reato). Quanto alla telefonata ricevuta da CUVA e partita da un'utenza intestata a Maria CANDELA, moglie dell'Avv. FERRERA, collega di studio dello stesso CUVA, deve rilevarsi come FERRERA e la moglie risultino soggetti completamente estranei all'indagine. Non solo, ma vi è un elemento che rende inane ogni operazione di censimento di interpretazioni alternative a quella per cui il Professore SCAGLIONE è soltanto il “nome d'arte" del Sen. SCHIFANI. Infatti, è la stessa Rosa BATTIATO che, conversando in auto con il marito, il Col. D'AGATA, lungo il tragitto per Palermo ove incontreranno CUVA e riceveranno la notizia delle intercettazioni sul loro conto, a dichiarare, intuendo già il motivo dell'incontro imminente, che è SCHIFANI che, tramite il menzionato CUVA, riversa al marito le informazioni segrete, provenienti dal Gen. ESPOSITO. […] Alla luce di quanto precede, dunque, non è possibile dubitare che SCHIFANI sia stata realmente la fonte attraverso la quale CUVA attingeva le notizie segrete che riversava a D'AGATA, e che tale filiera fu seguita certamente per trasmettere la notizia delle intercettazioni sul colonnello. E del resto, ciò che può apparire a questo punto un mero orpello ornamentale, è indubbio che i rapporti tra SCHIFANI e CUVA fossero massimamente fiduciari, se si considera che quest'ultimo "avvocato, specialista in materia tributaria, e professore presso l'Università degli Studi di Palermo" è stato anche "consulente, tra le altre cose, della presidenza del Consiglio dei Ministri ed anche dello stesso presidente del Senato quando tale carica era rivestita dall'on. Renato SCHIFANI, come evinto dall'articolo pubblicato sul sito on-line de “Il Giornale di Sicllia" del 23.2.2010" (C.N.R. cit., p. 684; cfr. anche all. n. 241 dell'informativa).

L'eminenza grigia che chiamavano "Iddu”. La Repubblica il 5 dicembre 2019. Le intercettazioni eseguite in quel gennaio 2016, oltre a consegnare D'AGATA, CUVA e SCHIFANI nelle mani degli inquirenti, restituiscono una figura, quale quella del Gen. ESPOSITO, che appare l'eminenza grigia della situazione. Al fine di lumeggiare il compendio probatorio formatosi intorno ad ESPOSITO, occorre riavvolgere il nastro narrativo al 31 gennaio 2016, e ritornare a quell'ormai famosa trasferta palermitana allestita ex abrupto dal Col. D'AGATA, insieme alla propria moglie, dopo che il Prof. CUVA gli aveva chiesto telefonicamente di raggiungerlo perché “Antonella” stava male e occorreva portare un certificato a Roma con urgenza, per un rapido inizio della terapia. É stato già dimostrato come il vero motivo della convocazione del colonnello a Palermo fosse da individuare nell'esigenza di comunicargli che era sottoposto ad intercettazioni, ciò che, in effetti, al di là dell'ermetismo espressivo di CUVA, era stato subito intuito dai coniugi D'AGATA. Essi, infatti, durante il viaggio, ragionavano anche sulla fonte delle notizie che CUVA gli avrebbe riversato, individuandola con certezza nel Gen. ESPOSITO. Prima di passare alla lettura diretta del contenuto delle conversazioni intercettate nella vettura dei coniugi D'AGATA, va certamente sottolineato un aspetto: essi, sul coinvolgimento di ESPOSITO nella vicenda, ne hanno assoluta certezza, mentre si esprimono in termini ipotetici soltanto sulle ragioni per cui il generale avesse scelto la soluzione dell'interposizione multipla di persone per portare a conoscenza dell'ufficiale le novità investigative che lo riguardavano. […] E' dunque evidente come costituisca convincimento di D'AGATA e della moglie, Rosa BATTIATO, che all'origine della rivelazione di notizie segrete afferenti all'indagine vi sia ESPOSITO, chiamato anche “iddru” o "chiddru" (lui) o il "generale". Certamente non può sollevarsi alcuna obiezione circa la corretta identificazione in ESPOSITO del generale di cui si sta parlando. A tacer d'altro si consideri che, nella conversazione n. 564 sopra riportata, D'AGATA chiede espressamente alla moglie se "chiuddru" che lei colloca all'apice della catena rivelatoria sia il "generale", ricavandone un cenno di conferma. Inoltre, i loquenti come meglio vedremo infra, parlando di "quello" al quale una donna, non meglio identificata, avrebbe chiesto se D'AGATA svolgeva attività istituzionale, potenzialmente suscettibile di essere compromessa dalle intercettazioni che stavano per essere eseguite nei suoi confronti (D'AGATA: "...o sennò quella gli avrebbe fatto quella domanda per sapere se poteva avere via libera...e quello gli ha detto no... guardi che...istituzionalmente non stà facendo niente quindi automaticamente c'è il via libera!"), non possono non riferisi ad ESPOSITO. Infatti, l'unico soggetto al quale si poteva rivolgere una domanda sugli incarichi coevi di D'AGATA presso l'A.I.S.I. non poteva che rivestire un ruolo apicale all'interno dell'agenzia, nella quale, peraltro, ESPOSITO, tra i soggetti a conoscenza dell'inchiesta su MONTANTE-D'AGATA, era l'unico a rivestire il grado di generale, in quanto CAVACECE e BLENGINI provenivano dal ranghi della Polizia di Stato e, pertanto, non possedevano i gradi militari (cfr., rispettivamente, per le qualifiche possedute da CAVECECE e BLENGINI, verbale di interrogatorio del 25 maggio 2018 e verbale di assunzione di informazioni del 24 maggio 2018). Inoltre, sempre in data 31 gennaio 2016, i coniugi D'AGATA commentavano, sia nel viaggio di andata verso Palermo che nel viaggio di ritorno da Palermo, una visita che il generale aveva fatto il giovedì precedente, in un posto non meglio precisato per attingere maggiori informazioni sull'indagine. Ebbene, il giovedì precedente, ossia il 21 gennaio 2016, il Gen. ESPOSITO era stato a Palermo, come si ricava, tra l'altro, da una telefonata nella quale un ufficiale dei carabinieri, che in quella data si trovava nel capoluogo siciliano, aveva conversato con D'AGATA dicendogli di avere incontrato "il [suo] direttore", da ciò traendosi ulteriore conferma del fatto che ESPOSITO è il generale di cui parlavano i coniugi D'AGATA. Peraltro, ciò consente di superare ogni riserva circa la reale natura del convincimento dei coniugi D'AGATA sulla regia di ESPOSITO nella rivelazione del segreto, convincimento che, evidentemente, non costituiva la solidificazione di loro semplice impressione, bensì l'oggetto di una loro precisa conoscenza degli eventi. […] A questo punto nessun dubbio può sopravvivere circa l'identità della gola profonda cui alludevano i coniugi D'AGATA nel parlare di “iddru” o del “generale”.

E' chiaro che tali conclusioni non intendono pregiudicare la posizione processuale di ESPOSITO, che è al vaglio di altro giudice, ma sono assolutamente funzionali a ricostruire la filiera della rivelazione illecita delle notizie, nella quale si inserirebbe l'odierno imputato, Andrea GRASSI.

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” l'11 dicembre 2019. A maggio, la giudice che ha condannato Antonello Montante aveva mandato in procura i verbali delle testimonianze del direttore dell' Aisi Mario Parente e del suo vice Valerio Blengini. «Mentono sapendo di mentire», aveva scritto la gup Graziella Luparello nella sentenza sull' ex leader di Confindustria al centro di una catena di fughe di notizie sull' inchiesta. Dopo nuovi approfondimenti, la procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati il capo dei servizi segreti, per false informazioni, e ha trasmesso il fascicolo alla procura di Roma. Stessa contestazione è stata mossa al numero due di Parente, a cui i pm nisseni hanno notificato invece un avviso di chiusura dell'indagine. Al centro del caso, uno 007 imputato nel processo bis, è Andrea Cavacece, chiamato in causa perché avrebbe saputo dell' indagine su uno dei fedelissimi di Montante, Giuseppe D' Agata (pure lui ai Servizi), e avrebbe girato la notizia all' allora direttore dell' Aisi, Arturo Esposito. Parente - ex generale del Ros, mai un' ombra in 40 anni di lotta alle mafie - era stato sentito dall' avvocato di Cavacece, nell' ambito di un' indagine difensiva. All' epoca era il vice dei Servizi: spiegò che Blengini gli aveva raccontato di alcune domande su D' Agata («Fatte a un nostro collaboratore durante un incontro per gli auguri di natale con personale dello Sco della polizia»), precisò «di non averne parlato né con Cavacece, né con Esposito, in quanto la notizia era indeterminata». Per la giudice Luparello, invece, l' informazione giunta a Blengini e Parente era tutt' altro che «generica» perché Blengini chiese notizie all' allora questore di Caltanissetta, Bruno Megale, che segnalò subito il caso ai pm.

Fabio Amendolara per la Verità il 7 dicembre 2019. «Mentono sapendo di mentire», aveva sentenziato il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello a proposito delle testimonianze di Mario Parente, messo da Matteo Renzi a capo dell' Aisi, l' Agenzia informazioni e sicurezza interna, e del suo vice Valerio Blengini, per circa un decennio capocentro dei nostri 007 a Firenze, dove entrò in grande confidenza con petali del Giglio magico come Marco Carrai e Antonella Manzione. Il giudice, che aveva mandato gli atti alla Procura, come anticipato dalla Verità, aveva anche specificato la richiesta di approfondire le affermazioni che avevano reso davanti alle toghe. Adesso Blengini è stato iscritto sul registro degli indagati della Procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Amedeo Bertone, per il reato di false dichiarazioni al pm (il 371 bis del codice penale). Blengini è uno 007 di cui questo giornale si è occupato più volte a partire dal 2016, quando, alla vigilia del referendum costituzionale e dell'addio di Renzi a Palazzo Chigi, venne promosso vicedirettore grazie a una modifica last minute del regolamento dei servizi segreti. Il procedimento in cui Blengini è rimasto invischiato è quello su Antonello Montante, il professionista dell' antimafia ed ex numero uno di Confindustria in Sicilia condannato con rito abbreviato a 14 anni di carcere il 10 maggio scorso. Nei corridoi del Palazzo di giustizia di Caltanissetta, oltre che dell' avviso fatto notificare a Blengini, si fa riferimento pure alla trasmissione a Roma degli atti su Parente per competenza territoriale. I due indagati si trovano nei guai perché ai tempi in cui Renzi era premier i vertici dell' Aisi per gli inquirenti si sarebbero arrampicati sugli specchi per confondere i giudici sulle protezioni e sulle relazioni di Montante. L' ipotesi è stata ricostruita nella sentenza che riguarda quest' ultimo. E parte da un capo reparto dell' Aisi, Andrea Cavacece, imputato nell' altro troncone del processo Montante che è in corso con rito ordinario. Lo 007 è accusato di aver girato all' ex direttore dell' Aisi Arturo Esposito notizie sull' indagine sul colonnello Giuseppe D'Agata, ex capo della Dia di Palermo poi passato ai servizi segreti. Un investigatore che, dopo aver indagato sulla trattativa Stato mafia, stando all' indagine sarebbe diventato un fedelissimo di Montante. Il giudice ha ricordato che l' attività di indagine è stata resa «particolarmente impervia [] a causa del trasudamento di notizie segrete che, in maniera inizialmente inspiegabile, riuscivano a raggiungere i diretti interessati». Ma è impervia anche la ricostruzione di quelle fughe di notizie. Per provarci il giudice torna indietro al 2015, quando Blengini raccontò ai magistrati che «durante un incontro con personale dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia di Stato, ndr) per gli auguri di Natale, a un collaboratore dell' Aisi erano state chieste informazioni su D' Agata, tanto da indurlo a ritenere che vi fosse un' attività investigativa sul colonnello». Il vicedirettore dell' Aisi sarebbe stato «attivato per esplicita direttiva del generale Esposito» sul caso e per questo domandò chiarimenti al questore di Caltanissetta Bruno Megale: «Gli chiesi conferma se avesse notizia di un' indagine su D'Agata perché bisognava valutare l' opportunità di trasferirlo in Sicilia». Ma il questore chiuse ogni discussione e firmò una relazione di servizio con cui mise agli atti la vicenda. Blengini confermò alle toghe: «Si trincerò in un silenzio imbarazzato, mi rappresentò solo l' inopportunità di trasferire D'Agata in Sicilia». Questa la versione dello 007 renziano. Che il generale Parente, successore di Esposito, avrebbe confermato ai magistrati, precisando che la notizia raccolta alla cena di Natale era «indeterminata». Ma è su quel termine che sarebbe scivolato Parente. Secondo il giudice, «se, come sostenuto dai due appartenenti ai servizi segreti, l' informazione loro pervenuta sulla possibile indagine sul conto di D' Agata fosse stata veramente così generica, non si comprende il senso dell' iniziativa esplorativa condotta presso la squadra mobile nissena». Infatti, «in assenza di dettagli sull' oggetto dell' indagine», la toga si chiede perché Blengini fosse sceso proprio a Caltanissetta a cercare notizie, agganciando, con mirabile intuito, la «presunta» inchiesta, «ai luoghi di pregresso servizio dello stesso». Secondo il giudice «nell' articolazione dichiarativa di Blengini e Parente si assiste allo scollamento logico tra l' azione compiuta e la giustificazione addotta». Uno «scollamento» che ha portato all' iscrizione sul registro degli indagati. Blengini, contattato dalla Verità, inizialmente preferisce non commentare: «Non posso e neanche vorrei dire niente». Riferendosi alla notifica aggiunge: «Devo ancora vedere, devo capire un attimo». Ma esprime «fiducia totale nell' autorità giudiziaria». Poi aggiunge: «Capisco le linee editoriali, ma quando sono stato etichettato in un certo modo (renziano, ndr) ho perso autorevolezza e non è giusto []. Mi rendo conto che date le notizie che dovete dare... tra l' altro questo (l' avviso di garanzia, ndr) mi arriva adesso...». Quindi si lancia in complimenti al nostro giornale: «Non lo nascondo, mi ha dato delle indicazioni per il lavoro [] l' agenzia sta cercando di dare sicurezza a tutti e posso affermare che in questi tre anni in buona parte ci siamo riusciti grazie anche alla battaglia che avete fatto voi sulle espulsioni». Alla fine della telefonata Blengini si lamenta di aver perso il sonno a causa delle responsabilità che ha sulla testa in quest' epoca di attentati. E di avvisi di garanzia, aggiungiamo noi. Una fase in cui Renzi, in guerra con il suo governo e con i pm, non può certo fungere da Morfeo.

Ecco cos'è la mafia “trasparente”. La Repubblica il 6 dicembre 2019. La fattispecie più controversa, oggetto di turbolenze in fase cautelare, è stata quella dell'associazione a delinquere (capo A), di cui sono accusati, oltre a ROMANO, D'AGATA, ORFANELLO, SANFILIPPO, ESPOSITO e GRACEFFA, per cui si procedere separatamente, gli odierni imputati MONTANTE, ARDIZZONE e DI SIMONE PERRICONE. Inoltre, al capo B) della rubrica è contestato ad Andrea GRASSI (come ad Andrea CAVACECE, Renato SCHIFANI ed Angelo CUVA, giudicati anche loro in separato giudizio) il "concorso esterno" nel reato associativo, ipotesi sulla quale appare ridondante soffermarsi, atteso che, come già spiegato nella parte in fatto, non solo non sono emersi elementi di collegamento tra GRASSI e gli altri imputati, con la sola eccezione di CAVACECE, ma, per converso, sono affiorati elementi di segno contrario che impediscono ab imis fundamentis la configurabilità di qualsivoglia ipotesi associativa, interna o esterna, che leghi GRASSI ai soggetti accusati di comporre il sodalizio. Limitando, dunque, ogni discettazione alla sola ipotesi di cui all'art. 416 c.p., è d'uopo illustrare i contorni della fattispecie, al fine di verificarne la sussumibilità della condotta degli odierni imputati. Ciò posto, deve ricordarsi come, per giurisprudenza consolidata, costituiscono gli elementi strutturali del reato in questione la formazione e la permanenza di un vincolo associativo continuativo fra almeno tre persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, con la predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte dell'illecito sodalizio e di essere disponibile ad operare per l'attuazione del comune programma criminoso (v. per tutte Cass. Sez. I sent. n. 6693 del 1979, ric. Pino; Cass. Sez. I sent. n. 3402 del 1992, ric. Niccolai ed altri). [...]

Tanto premesso sul perimetro applicativo dell'art. 416 c.p., occorre verificare se le condotte degli imputati, come accertate nella parte in fatto, si prestano ad essere inquadrate in tale fattispecie criminosa. Abbiamo visto come MONTANTE avesse elaborato un progetto di occupazione egemonica dei posti di potere, ciò che, di per sé, non costituisce reato (così come non costituisce reato l'accumulazione della ricchezza in quanto tale). Il progetto, certamente ambizioso, era stato condiviso da tutti coloro che traevano beneficio dalla progressiva attuazione di esso, compresi CICERO e VENTURI, i quali, del resto, non avevano alcun motivo per rifiutare le varie proposte di carriera, politica, amministrativa o industriale-associativa che via via, grazie alla innegabile abilità relazionale di MONTANTE, si presentavano. Ed era un progetto condiviso anche da chi sapeva che MONTANTE era la chiave di accesso a ministeri, enti pubblici e imprese private per ottenere posti di lavoro, trasferimento o incarichi di prestigio: MONTANTE non gestiva potere, ma lo creava. Fin qui nessuna censura è possibile muovere agli imputati, ai quali non può essere imposta la pratica dell'ascetismo solitario per liberarsi dai peccaminosi desideri di natura materiale, altrimenti cadendosi in un grave equivoco fondamentalistico, espressione di una trasfigurazione moralistica del diritto. Tuttavia, se associarsi è una pratica legittima, che gode anche di copertura costituzionale, senza scadere nella illeicità in ragione della sola finalità egemonica nelle istituzioni politiche, associarsi per commettere reati, necessari per l'occupazione di posti di potere, integra il delitto di cui all'art. 416 c.p. Orbene, nel caso che ci occupa, gli imputati hanno commesso, in forma concorsuale, diversi delitti: gli accessi abusivi ai sistemi informatici della polizia, le rivelazioni dei segreti d'ufficio, le corruzioni, la simulazione di reato. Avuto riguardo, per esempio, agli accessi abusivi al sistema informatico, essi risultano commessi almeno dal 2011 fino al 2016, sempre dai medesimi protagonisti (MONTANTE, DI SIMONE e DE ANGELIS, limitando l'analisi dei fatti agli odierni imputati, ma anche da GRACEFFA, giudicato separatamente) e con identiche modalità: la richiesta originaria partiva da MONTANTE, raggiungeva DI SIMONE, che la girava a DE ANGELIS, il quale, per lo più, la girava ulteriormente a GRACEFFA, terminale ultimo della catena. Le relative comunicazioni telefoniche, con cui veniva richiesta l'interrogazione della banca dati e restituito l'esito, avvenivano o mediante l'uso di chiamate cellulari, con linguaggio criptico, oppure, ove possibile, mediante le più sicure utenze fisse dei rispettivi uffici, o ancora tramite whatsapp.

In sostanza, si era in presenza di una catena di montaggio, con ruoli prestabiliti, assolutamente collaudata e che ha funzionato per diversi anni, per l'esecuzione di un numero elevato di accessi abusivi (quelli singolarmente attenzionati dagli inquirenti, infatti, sono il frutto di un'analisi a campione dei reperti documentali rinvenuti nella c.d "stanza segreta" di MONTANTE). Circoscrivendo la discettazione agli odierni imputati, ciascuno era consapevole del ruolo altrui: DI SIMONE, infatti, era il braccio destro di MONTANTE e, in qualche occasione, aveva organizzato anche l'incontro diretto tra DE ANGELIS e MONTANTE (uno di tali incontri, si ricorderà, era stato persino registrato da quest'ultimo). DE ANGELIS, peraltro, ha ammesso espressamente di conoscere la provenienza da MONTANTE di ciascuna richiesta di interrogazione, negando tuttavia di sapere le reali finalità di dossieraggio. DI SIMONE, infatti, a dire di DE ANGELIS, era solito giustificare le richieste di accesso alle banche dati con l'esigenza di "bonificare" il campo relazionale di MONTANTE da possibili incontri con soggetti controindicati, ciò che, però, è clamorosamente smentito dalla interrogazione sui movimenti carcerari e sui permessi premio di uno degli accusatori di MONTANTE, ossia il collaboratore Dario DI FRANCESCO. Pertanto, occorre ritenere che DE ANGELIS fosse perfettamente consapevole di appartenere ad un ingranaggio plurisoggettivo, con perfetto riparto dei ruoli operativi, collaudato e stabile nel tempo (almeno dal 2011 al 2016). Del resto, i vantaggi che egli ne ricavò, dalla nomina della moglie quale segretaria di CICERO, con benefici retributivi, nell'anno 2013, alla promessa di trasferimento che egli accettò nell'anno 2016, costituivano la remunerazione della sua indefessa disponibilità ad assecondare le esigenze dei gruppo dei quale era entrato a far parte. In sostanza, ciascuno degli anelli della catena di trasmissione - MONTANTE, DI SIMONE, DE ANGELIS - era perfettamente consapevole di partecipare ad un'alleanza stabile, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di accessi abusivi ai sistema informatico, e perseguiva l'obiettivo di assicurare la longevità operativa del sodalizio, in quanto ciò appariva funzionale al mantenimento di un sistema di potere da cui tutti i federati traevano vantaggio. Peraltro, alla luce di quanto ricostruito nella parte in fatto, ciascun accesso aveva una ragione storica ben precisa, generalmente riconducibile alla insorgenza di varie occasioni di conflitto tra MONTANTE e i soggetti bersaglio dell'accesso abusivo (MARINO, ARMAO, CASAGNI, BOLZONI, PETROTTO, etc), responsabili di ostacolarne le mire espansionistiche (es. l'avv. CUSUMANO, presidente reggente deli'AST s.p.a., che si era opposto alla fusione per incorporazione di tale società a vantaggio dei socio privato Jonica TRASPORTI, cui era interessato MONTANTE) o di criticarne l'operato (come il giornalista CASAGNI), con la conseguenza che non può ritenersi che tutte le interrogazioni allo S.D.I. fossero nate da una matrice ideativa comune ed estemporanea, destinata a dissolversi ai termine dell'esecuzione. E' evidente, ex adverso, come MONTANTE, DI SIMONE e DE ANGELIS fossero legati da un foedus, da cui nasceva una organizzazione stabile, destinata ad operare per un lungo lasso di tempo, il cui oggetto sociale consisteva nella commissione di un numero indeterminato di accessi abusivi ai sistema informatico. E' altrettanto evidente come MONTANTE fosse legato da analogo rapporto associativo, oltre che con Massimo ROMANO, anche con il Coi. ARDIZZONE, il Magg. ORFANELLO e il Lgt. SANFILIPPO, responsabili, a vario titolo, di avere orientato l'attività istituzionale - tra verifiche fiscali ed indagini penali - verso il soddisfacimento dell'interesse personale di MONTANTE, ricavandone apprezzabili e significative utilità (posti di lavoro e trasferimenti). E' innegabile, infatti, come la deviazione dell'attività istituzionale della Guardia di Finanza fosse di carattere sistematico, riguardando tutte le ipotesi in cui ad entrare in gioco fosse l'interesse di MONTANTE, interesse che poteva variamente atteggiarsi come esigenza di salvaguardia ed esonero da responsabili fiscali o penali o finalità persecutoria nei confronti di terzi. Peraltro, la sistematicità della condotta illecita - una lunga serie di abusi d'ufficio assorbiti nella corruzione per asservimento della funzione mediante atti contrari ai doveri d'ufficio - costituisce soltanto uno degli elementi da cui inferire l'esistenza di uno stabile rapporto solidaristico tra MONTANTE, ROMANO, ARDIZZONE, ORFANELLO e SANFILIPPO.

Infatti, non può trascurarsi l'ulteriore dato per cui le diverse indagini penali e verifiche fiscali avevano sovente scaturigini autonome. Infatti, accanto alle indagini penali, come quella scaturita dal fallimento delle società di POLIZZI, si possono annoverare svariate verifiche fiscali, tra le quali quelle che venivano artatamente inserite nella programmazione annuale, per esempio per finalità di "condono tombale", come aveva spiegato MONTANTE a VENTURI, quelle straordinarie, dettate da esigenze contingenti e non prevedibili (es. punire il Dott. BUONO, che, quale consulente del P.M., aveva osato ipotizzare il coinvolgimento di un'impresa di MONTANTE, oltre che di VENTURI, in attività di emissione di fatture per operazioni inesistenti nei rapporti con le imprese di POLIZZI), e ancora quelle stimoiate da omologhi uffici della Guardia di Finanza di altri territori, nell'ambito di indagini penali (ad es., il controllo incrociato richiesto dalla Guardia di Finanza di Biella nei confronti della M.S.A. s.p.a. in relazione ad un acquisto di beni effettuato dalla società GRANDI MARCHE, oppure la verifica fiscale alla C.D.S. s.p.a. di ROMANO, che scaturiva da una segnalazione da parte del comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano per possibili "frodi carosello"). Proprio la eterogeneità delle attività istituzionali manipolate, sul piano della loro natura (indagini penali o verifiche fiscali), delle rispettive scaturigini, dei tempo dei loro compimento e delle finalità perseguite, dimostra che non è configurabile, già sotto il profilo logico, l'esistenza di un accordo singolo, volto a comprendere la commissione concorsuale dei diversi fatti illeciti, deponendo, piuttosto, per l'esistenza di un unico programma criminoso volto alla commissione di un numero indeterminato di illeciti penali, che giungevano a maturazione man mano che se ne presentava l'occasione. Inoltre, vi sono degli elementi che avvalorano la tesi dell'esistenza di una struttura organizzativa stabile tra gli imputati:

1) il sodalizio si reggeva sull'assolvimento di compiti specifici da parte degli imputati: il Magg. ORFANELLO pianificava le verifiche fiscali e ne dirigeva l'esecuzione, sovrintendendo, altresì, all'esecuzione delle deleghe di indagine che interessavano MONTANTE o i soggetti gravitanti nei suo sistema (ossia, i soggetti che, anche estranei ai sodalizio, erano comunque legati all'imprenditore di Serradifalco); il Lgt. SANFILIPPO era l'organo esecutore; il Col. ARDIZZONE avallava l'operato di ORFANELLO, per gli atti di sua competenza;

2) i soggetti istituzionalmente deputati all'assolvimento di compiti afferenti allo svolgimento delle verifiche fiscali (il Cap. COSTA, in virtù dei suo specifico collocamento nell'organigramma dei nucleo P.T., avrebbe dovuto esercitare la funzione di direttore di verifica) venivano sistematicamente esautorati dal Magg. ORFANELLO, con il beneplacito del Coi. ARDIZZONE, che non solo non impediva tale esautorazione, ma addirittura la corroborava (vd. l'episodio della iniziativa, abnorme ed ingiustificata, di ARDIZZONE volta a provocare il trasferimento del Cap. COSTA);

3) le verifiche fiscali "sensibili" venivano eseguite da pattuglie composte ad hoc, in modo che a governare la procedura, a parte la direzione esercitata da ORFANELLO, fosse sempre SANFILIPPO, e ciò anche dopo il suo trasferimento ad una sezione diversa da quella competente, che, come si ricorderà, era la sezione Tutela Finanza Pubblica (assolutamente emblematico deve considerarsi il caso della verifica eseguita presso la C.D.S. s.p.a. di Massimo ROMANO, che fu quella più significativa in relazione alle dimensioni deli'impresa controllata, ove la pattuglia era stata composta soltanto da personale estraneo alla sezione competente, lasciato alla mercé delle decisioni del più navigato SANFILIPPO, il quale, per la sua pregressa appartenenza alla sezione preposta alle verifiche, aveva acquisito una vasta conoscenza della materia).

Pertanto, si è assistito alla costituzione di un gruppo stabile di finanzieri “dedicato”, formato in spregio delle competenze fissate da regolamenti interni e circolari, con il compito specifico di indirizzare l'attività istituzionale verso il perseguimento dell'interesse personale di MONTANTE e, in generale, del sodalizio, dalla cui persistente operatività tutti - ORFANELLO, ARDIZZONE, SANFILIPPO – traevano giovamento. ROMANO solo apparentemente è estraneo a questo meccanismo. Egli, infatti, oltre ad avere personalmente beneficiato di tale utilizzo privatistico e strumentale delle attività istituzionali della Guardia di Finanza (si veda, sopra, il caso della verifica alla C.D.S. s.p.a, che si atteggiò ad autentica pièce teatrale), era l'ordinario ufficio di collocamento di MONTANTE, laddove avevano trovato posto, in momenti diversi, la sorella (anno 2008) e il figlio di SANFILIPPO (2016; esattamente, presso uno studio commercialistico di un soggetto vicinissimo allo stesso ROMANO), la figlia di ARDIZZONE, la compagna di ORFANELLO e lo stesso ORFANELLO dopo la sua sospensione dal servizio (in questo caso, l'assunzione era avvenuta “in nero" presso la società, riconducibile a Natale SCRIMA, con la quale ROMANO aveva stretti rapporti contrattuali e nella quale, anche in altre occasioni, si era assicurato adeguato sfogo alle richieste inoltrate da MONTANTE), entrando, così, in rapporto sinallagmatico con la triade ARDIZZONE-ORFANELLO-SANFILIPPO. La commissione, da parte di ROMANO, di più fatti corruttivi in concorso con gli altri imputati - ARDIZZONE e MONTANTE in un caso; ORFANELLO e MONTANTE in un altro; SANFILIPPO in un altro caso ancora - dimostra come lo stesso fosse legato da rapporti organizzativi stabili con gli stessi, rapporti rimasti intatti anche dopo la discovery dell'indagine su MONTANTE. Giova ricordare, a titolo esemplificativo, il contenuto dell'incontro, appartato, avvenuto tra ROMANO ed ORFANELLO il 10 maggio 2015, quando, ormai verificatasi la discovery giornalistica dell'indagine sul conto di MONTANTE, ORFANELLO invitava esplicitamente ROMANO a chiamarlo e a non considerarlo “morto” perché egli aveva "ancora le orecchie [...] buone” a Caltanissetta, facendo, poi, un esplicito riferimento “a Mario”, da intendersi SANFILIPPO, quale soggetto certamente e costantemente a sua disposizione, mentre ROMANO raccomandava ai suo interlocutore di tenere “le orecchie aperte" e di stare attento “ai telefoni". Inoltre, senza pretesa di esaustività, può rievocarsi il contenuto dell'intercettazione nella quale ORFANELLO, apprese di alcune dichiarazioni di ROMANO contro MONTANTE (che in verità appaiono uno sterile tentativo di simularne una improbabile presa di distanza) riportate dalla stampa, aveva considerato il predetto ROMANO un traditore, definizione che non si spiega in assenza di un rapporto di collegamento stabile tra MONTANTE, ORFANELLO e ROMANO (oltre che ARDIZZONE e SANFILIPPO, a tacere degli altri sodali, la cui identità poteva anche non essere nota ad ORFANELLO) e di un comune pactum sceleris: […]. Con ciò non si intende affermare in questa sede la responsabilità penale di ROMANO, espropriando le prerogative giudicanti proprie dei tribunale collegiale innanzi al quale lo stesso è tratto a giudizio, ma offrire una ricognizione generale di tutti gli elementi che avallano la tesi accusatoria sull'esistenza dell'impresa societaria con finalità delittuose.

Da ultimo, deve respingersi il rilievo difensivo, teso a confutare la tesi della sussistenza della fattispecie associativa, basato sull'assenza di qualsiasi forma di conoscenza, contatto o relazione di alcuni imputati (ARDIZZONE) con altri (DE ANGELIS, DI SIMONE), in quanto, come già spiegato, la consapevolezza e la volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata secondo lo schema legale, non presuppone la conoscenza reciproca di tutti gli associati né l'identità o omogeneità degli scopi perseguiti dai singoli sodali, che integrano soltanto i motivi dell'azione criminosa. Peraltro, non può non esprimersi un giudizio assai severo sul particolare allarme sociale provocato dal sodalizio, e ciò in ragione della finalità delittuosa ad ampio spettro perseguita: eliminare il dissenso con il ricorso all'uso obliquo dei poteri accertativi e repressivi statuali; sabotare le indagini che riguardavano gli associati; praticare la raccolta abusiva di dati personali riservati; corrompere in maniera sistematica i pubblici ufficiali. L'associazione, infatti, era un autentico potere occulto, estremamente pericoloso, non già parallelo a quello statuale o regionale, ma ad esso perpendicolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle.

§ 6. L'aggravante della direzione, promozione ed organizzazione dell'associazione. Ad assumere il ruolo verticistico all'interno della descritta associazione, con compiti di direzione, promozione ed organizzazione, era, secondo l'accusa, Antonio Calogero MONTANTE. In effetti, è emerso dagli atti che lo stesso era l'associato che conosceva tutti i sodali, mentre è possibile che, tra alcuni di questi, non vi fosse una conoscenza reciproca. MONTANTE era anche colui che ordinava gli accessi abusivi ai sistema informatico, che riusciva ad ottenere, mediante sistematiche azioni di corruzione, notizie segrete afferenti alle indagini o notizie riservate contenute nelle banche dati della polizia; che disponeva le bonifiche contro possibili microspie dei luoghi di propria pertinenza, anche associativi (Confindustria), ma era anche colui che utilizzava il potere conquistato all'interno degli enti pubblici e privati quale bacino ove collocare i clientes e, dunque, quale moneta di pagamento rispetto ai favori illeciti che questi gli rendevano. La sistemazione lavorativa o il trasferimento del pubblico ufficiale di turno, o di parenti o amici di questi, era la valuta spesa da MONTANTE per remunerare i sodali: una sorta di ripartizione degli utili prodotti da un'impresa che, con modalità illecite, creava e gestiva il potere. Infine, MONTANTE era colui al quale va doverosamente riconosciuto il diritto d'autore sulla nascita dell' "Antimafia confindustriale" quale forma di business utile a garantire un posto ai tavoli che contano. Tanto può essere descritto mediante il discorso fatto da SACCIA nei corso di una conversazione telefonica (progr. 2679 delle ore 10.14 del 5 febbraio 2016) con ORFANELLO e con l'approvazione di quest'ultimo, che il sistema MONTANTE conosceva perfettamente per esserne un intraneo. Tale discorso, infatti, che ha la pregevolezza di una prolusione sul tema dell'antimafia di facciata, benché vada idealmente depurata dai commenti iicenziosi espressi nei riguardi dei singoli personaggi che in esso sono menzionati, nei complesso offre la riproduzione plastica del fenomeno trattato e, dunque, della causa societatis: […].

L'antimafia confindustriale, dunque, grazie alla complicità o la connivenza di soggetti appartenenti ad ambienti istituzionali diversi, era stata eretta quale laboratorio nel quale creare e distribuire posti di potere, in cambio del totale pronismo dei pubblici ufficiali, lesti ad agire con fermezza squadristica al servizio di MONTANTE, con complessivi esiti di adorazione messianica collettiva di quest'ultimo. La presunta attività di contrasto alla criminalità organizzata, tanto agitata dalla difesa di MONTANTE, si limitava all'azione di denuncia condotta da pochi elementi (tra i quali CICERO) che, con una sorta di involontario naif comportamentale e senza raffinati filtri critici, si immergeva in azioni di contrasto contro soggetti, alcuni dei quali, successivamente, si scoprirà essere stati oggetto di attenzione dossieristica da parte di MONTANTE. A limitati fini esemplificativi e senza volere indulgere in inopportune crasi tra esposizione in fatto ed esposizioni in diritto, giova evidenziare come gli strali lanciati da CICERO nell'audizione in commissione parlamentare antimafia il 10 luglio 2014 (vd. resoconto consegnato da CICERO agli inquirenti in occasione delle sommarie informazioni testimoniali da lui rese il 17 settembre 2015) contro Umberto CORTESE e Salvatore IACUZZO, per la vicenda dell'assegnazione di lotti in comodato d'uso a soggetti vicini alla mafia, aveva un retroscena, successivamente disvelato, costituito dal rapporto acriminioso intercorrente tra MONTANTE e questi ultimi, calati nel calderone degli accessi abusivi ai sistemi informatici della polizia (vd. anche le dichiarazioni di DI FRANCESCO sulla volontà di MQNTANTE di finanziare la sua collaborazione per attaccare IACUZZO). La tesi, dunque, per cui MONTANTE, lungi dall'essere il vertice del sodalizio criminale, era il paladino dell'Antimafia, non regge affatto. Può essere interessante, in tal senso, ripercorre, sia pure per stralci, il contenuto dell'audizione di MONTANTE in commissione antimafia in data 6 luglio 2005, anno dell'esordio della presunta "primavera degli industriali", dalla quale emerge come l'odierno imputato si sforzasse di paventare scenari di estrema perigliosità cui sembravano esposti i protagonisti di tale rivoluzione legalitaria, senza tuttavia riuscire ad indicare precise matrici del presunto pericolo corso (cfr. resoconto allegato dalla difesa in sede di riesame contro il provvedimento di sequestro del 22 gennaio 2016): “MONTANTE: [...] L'Associazione (degli industriali, n.d.r.) [...] ha anche sposato, premiato e incoraggia tutte le associazioni antiracket che possono sorgere [...]. L'Associazione in questo momento si sente molto sovraesposta [...]. Mi auguro che questa concertazione non venga bloccata da istituzioni 0 da potere, che non riusciamo ad individuare perché non abbiamo né l'esperienza né il ruolo per farlo. Quindi, pregherei la Commissione di farsi carico e di vigilare, ma vigilare bene, perché - questo lo dico in maniera... - ci sentiamo troppo sovraesposti. […]

MONTANTE: Noi non siamo gli specialisti dell'antimafia o delle organizzazioni criminali. Non sappiamo dove inizia e finisce la mafia, sappiamo solo che chi uccide è mafioso. Ci rendiamo conto che c'è una cappa che ci schiaccia, ma non sta a noi individuare qual è la cappa che ci schiaccia. Ci sentiamo molte volte braccati: lei mi chiede da che cosa, non lo so. Ho un'azienda al Nord [...]; ebbene, quando esco dallo Stretto mi sento più libero, non so perché. Non abbiamo pressioni dirette, subiamo azioni trasversali. […]”

Alla fine MONTANTE, dopo varie peregrinazioni argomentative, riferiva di un presunto episodio intimidatorie (rinvenimento di un proiettile innanzi all'abitazione), di cui, come si è visto, nessuno dei collaboratori di giustizia ha saputo riferire e che, comunque, non pare potersi configurare come un'azione "trasversale," tale da lasciare presagire l'opposizione di "istituzioni" e "poteri", non meglio precisati, alla rivoluzione legalitaria. MONTANTE, dunque, parlava di "cappa", di "azioni trasversali", di possibili ostruzionismi da parte di "istituzioni" e "poteri" deviati, senza alcun dato oggettivo a suffragio delle sue elucubrazioni, nonostante le ripetute sollecitazioni, da parte dei componenti della commissione, ad inverare il suo discorso con elementi concreti tali da emanciparlo dalla libera esposizione di semplici impressioni. Orbene, le invocazioni di aiuto di MONTANTE contro vaghi spettri, ora collocati all'interno delle istituzioni, non altrimenti identificate, ora dentro presunte organizzazioni criminali, presentano spiccati profili di affinità tematico-stilistica rispetto al teatro dell'assurdo, ove i personaggi beckettiani attendono Godot senza sapere chi sia Godot e perché lo attendono. E quando la scena si chiude, Godot non è ancora arrivato. MONTANTE è il demiurgo non già del linguaggio dell'antimafia, ma dell'antimafia del linguaggio, che non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni, della vulgata mediatica, dei protocolli e delle iniziative dallo scarso risultato pratico, nonostante il capo centro DIA di Caltanissetta, SCILLIA, che tanti favori aveva richiesto a MONTANTE (ciò che è stato ampiamente e documentalmente dimostrato), avesse ritenuto, nell'ottobre del 2013, di vantare i meriti di quest'ultimo nella lotta alla criminalità organizzata in importanti sedi istituzionali. In realtà, ripercorrendo idealmente le intercettazioni testualmente riprodotte nella parte in fatto, si evince chiaramente come MONTANTE, autoinsignitosi paladino dell'antimafia, avesse esteso tale etichetta ai suoi amici e sodali, dichiarando mafiosi i suoi avversari, in difetto di qualsivoglia prova di mafiosità. Si è assistito, dunque, ad un golpe linguistico, con sovvertimento del significato convenzionale delle parole, nel quale "mafia" ed "antimafia" non indicavano più, rispettivamente, un'associazione rispondente al requisiti di cui all'art. 416-bis c.p. E l'insieme delle iniziative, più o meno strutturate, di reale contrasto alla predetta associazione, ma "mafia" era diventato il luogo nominale nel quale confinare tutti gli eretici alla religione di MONTANTE, volta alla costruzione di un sistema di potere formalmente corale ma sostanzialmente egocratico (Marco VENTURI, Alfonso CICERO, ma anche M. Grazia BRANDARA, Mariella LO BELLO, Linda VANCHERI appaiono poco più che pallidi ritratti del potere nella galleria dell'antimafia allestita dall'imprenditore di Serradifalco), mentre "antimafia" era diventato il santuario degli osservanti morigerati del pensiero di MQNTANTE, che utilizzavano le audizioni in commissione antimafia, i convegni sulla legalità e la sottoscrizione di codici etici quali pratiche liturgiche, dirette ad assicurare, più che l'ascesi, l'ascesa sociale e l'occupazione di posti di potere. Ovviamente, non è intendimento di questo giudice compiere un'operazione, a sfondo etico, di demistificazione dell'oleografico moralismo di MONTANTE o evidenziare l'abuso della credulità collettiva confezionato, con strumenti apocrifi e decipienti, dallo stesso, quanto confutare la tesi difensiva di un abbaglio giudiziario che, sanzionando MONTANTE e i suoi sodali, agevoli inconsapevolemente le associazioni criminali da quest'ultimo oppugnate in battaglie senza quartiere. Invero, i fatti, come contestati, sono stati puntualmente dimostrati sulla base di dati oggettivi, che rendono davvero impervia un'ipotesi esegetica alternativa. […] In secondo luogo, deve riconoscersi l'esistenza di un comune disegno criminoso che avvince tutti i reati contestati: edificare un sistema di potere inespugnabile mediante il ricorso sistematico a pratiche corruttive e di spionaggio illecito. Sul piano dosimetrico, in applicazione dei criteri di cui all'art. 133 c.p., si è ritenuto, innanzitutto, di dovere differenziare la posizione di MONTANTE, autentica mano invisibile di memoria smithiana che manovrava le istituzioni deviate, da quella degli altri imputati. MONTANTE, infatti, è stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere, che, sotto le insegne di un'antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di "dossieraggio", molte delle istituzioni pubbliche, sia regionali che nazionali, dando vita ad un fenomeno che può definirsi plasticamente non già quale mafia bianca, ma mafia trasparente, apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e, perciò, in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle comuni misure anticorpali.

STORIE DI MAFIA. Antonello Montante, chi è il finto imprenditore antimafia che fregò persino Libera. L'Inkiesta il 2 agosto 2019. Il 10 maggio 2019 l’ex presidente di Confindustria Sicilia Calogero Antonio Montante viene condannato a quattordici anni di reclusione. Ora la storia del “padrino dell’antimafia” che ha ingannato persino le associazioni come quella di Don Ciotti è raccontata nel libro di Attilio Bolzoni. Il 10 maggio 2019 Calogero Antonio Montante, per tutti “Antonello”, ex presidente di Confindustria Sicilia (Sicindustria) ed ex vicepresidente nazionale e delegato per la legalità di viale dell'Astronomia, viene condannato dal Gup di Caltanissetta a quattordici anni di reclusione. Montante è riconosciuto colpevole di di avere avere organizzato un elaborato sistema di dossieraggio. In media, sostengono i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso , sarebbero stati effettuati accessi abusivi per un arco di 7 anni, per cercare informazioni su personaggi pubblici, tra i quali l'ex presidente dell'Irsap (l'istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive) Alfonso Cicero, e il magistrato ed ex assessore regionale Nicolò Marino. A dipanare la complicata matassa dell'affaire Montante – che gli inquirenti ritengono possa anche essere in possesso delle intercettazioni tra il presidente della Repubblica Napolitano e il ministro dell'Interno Mancino sulla trattativa stato-mafia, intercettazioni che la Corte costituzionale aveva ordinato di distruggere) è il libro “Il padrino dell'antimafia - Una cronaca italiana sul potere infetto”, Zolfo editore, 312 pagine, 18 euro) dell'inviato di Repubblica Attilio Bolzoni. Siamo a inizi 2015. Il giornalista, che si trova a Caltanissetta, sua città d'origine, nota che da un giorno all'altro i quotidiani locali siciliani, che giornalmente dispensano fotografie-santini di Montante insieme al potente di turno, hanno smesso di farlo. Strana virata per giornali solitamente acclamanti i potenti. Bolzoni contatta a Palermo un altro giornalista di Repubblica, Francesco Viviano (“il più grande cacciatore di notizie di Europa”, dice di lui), comincia ad indagare su Montante. È il 9 febbraio 2015 quando su Repubblica compare il primo di quella che sarà una lunga serie di articoli sull'imprenditore-bandiera della legalità in Sicilia, che millanta una storia imprenditoriale cominciata col nonno, ma di cui non esiste traccia se non in un libro di qualche anno prima di Gaetano Savatteri, dove si legge di una bicicletta “Montante” utilizzata da un giovane Andrea Camilleri, che potrebbe essere stato, invece, solo un prototipo (l'avvio della produzione di cicli a marchio Montante data 2011). Bolzoni, che per l'occasione, si è ritrovato per la prima volta nella sua vita a varcare il portone di Palazzo San Macuto non come cronista, ma come teste dalla Commissione parlamentare antimafia, nel libro non fa sconti a nessuno. Alla politica, che col variare dei governi del'Isola – da Lombardo a Crocetta, passando per Cuffaro – ha continuato a riconoscere ad Antonello Montante un interlocutore privilegiato dell'antimafia cosiddetta “sociale”, ai colleghi giornalisti, di cui fa nome e cognome. E non risparmia neppure chi, leggi don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ha continuato a ignorare le notizie ormai divenute di dominio pubblico su quella strana antimafia di Confindustria Sicilia, che aveva strombazzato ai quattro venti con il predecessore di Montante, Ivan Lo Bello, l'iniziativa di espellere dall'associazione gli iscritti che si fossero piegati al pizzo, ma che in realtà non ha mai proceduto ad alcuna espulsione. “Il padrino dell'antimafia” è un libro che chi legge può ritenere un saggio sulla mafia, o al quale il lettore può appassionarsi come si ci appassiona a un romanzo. Chi scrive ci ha visto anche un ottimo manuale di deontologia giornalistica. «Io ho soltanto voluto raccontare una storia», spiega Bolzoni, «riportare una cronaca come fosse un articolo lungo trecento pagine che su Repubblica non avrei potuto certo pubblicare per ragioni di spazio. Di questa inchiesta su Montante ho riempito 63 taccuini».

«Le associazioni antimafia grondano di retorica. La mafia non è mai cambiata, è tornata a mischiarsi con la società. E anche lo Stato non è cambiato dopo che ha mostrato i muscoli».

Attilio Bolzoni. Non hai risparmiato critiche, anche feroci, ai tuoi colleghi.

«Sì, che magari sono gli stessi che vanno a insegnare giornalismo ma che non l'hanno mai fatto. Ce n'è uno, di una associazione antimafia, che penso abbia vissuto il suo brivido più grande in un ufficio stampa negli anni Ottanta. Io il giornalista lo faccio».

Giornalista antimafia è una definizione che ritieni corretta?

«La ritengo una pessima definizione e non mi piace. Un giornalista pubblica le notizie. Il libro l'ho scritto anche pensando proprio a quei colleghi che fanno il “copia e incolla” e senza vergogna si definiscono giornalisti d'inchiesta. Ti garantisco che alcuni funzionari di polizia scrivono molto meglio e i verbali da loro redatti sono scritti in un italiano migliore di quelli usato da tanti colleghi».

A parte “l'allegro sputtanamento di colleghi”, come qualcuno ha commentato dopo aver letto il tuo libro, non sei stato molto tenero neppure con le associazioni antimafia. Mi riferisco a Libera e don Ciotti...

«Sgombriamo il campo da un equivoco: non ho nulla contro don Ciotti, ritengo soltanto che lui e Libera, al pari di altre associazioni, non abbiano gli strumenti culturali per riconoscere la mafia, che è tornata ad essere se stessa dopo la stagione stragista, che è stata solo una parentesi. Tanto che Libera ha continuato a firmare protocolli di legalità con i soci di Montante, anche quando i contorni di chi era veramente avevano cominciato a delinearsi con le inchieste in corso. Purtroppo, in tanti sono rimasti fermi alla mafia che spara. E questa è una mancanza di sapere. Le associazioni antimafia grondano di retorica. La mafia non è mai cambiata, è tornata a mischiarsi con la società. E anche lo Stato non è cambiato dopo che ha mostrato i muscoli».

Nel “Padrino dell'antimafia” parli di pupi e pupari. Uno di questi lo individui nel parlamentare del Pd Beppe Lumia.

«Lumia è sempre stato nelle trame di potere siciliane. L'ex presidente della commissione parlamentare antimafia è stato storicamente vicino a Montante e ha sempre mosso i fili della politica regionale. Dietro il passaggio del potere da un governatore accusato di mafia, rinviato a giudizio e processato, come Raffaele Lombardo, a uno considerato antimafia come Rosario Crocetta si sono alternati lo stesso blocco di potere di voti, di funzionari che si sono spostati indifferentemente da una parte all'altra, è questa la flessibilità del potere, potere con il quale Montante ha sempre mantenuto rapporti».

Chi è Calogero Antonello Montante?

«Una persona da sempre nel cuore del boss di Cosa nostra Paolino Arnone della famiglia di Serradifalco e di Vincenzo Arnone, il figlio, che ad Antonello farà da testimone di nozze e che prenderà le redini del clan quando il padre finirà morto suicida in carcere. Una volta arrestato lui a prendere il posto nella reggenza della famiglia sarà Dario Di Francesco, proprio uno dei pentiti che che accuseranno Montante».

L’imprenditore, che è diventato una sorta di «reuccio» dell’Antimafia ufficiale, è sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa

L'articolo di Repubblica del 9 febbraio 2015 a firma di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano. Dal fondo dell’inchiesta sul «simbolo» dell’antimafia siciliana e della legalità di Confindustria salgono le prime voci e le prime accuse. «È vicino a Cosa Nostra, alla famiglia mafiosa di Serradifalco». Voci e accuse di pentiti che raccontano la loro verità su Antonello Montante, presidente di Sicindustria e componente dell’Agenzia dei beni confiscati ai boss. Questi sono soltanto alcuni frammenti di dichiarazioni di tre pentiti, raccolte in tempi non recentissimi dai magistrati della procura di Caltanissetta dove l’imprenditore, che è diventato una sorta di «reuccio» dell’Antimafia ufficiale, è sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. I collaboratori di giustizia che lo coinvolgono sono cinque ma le rivelazioni che pubblichiamo sono quelle - parziali – di tre di loro, tutti mafiosi della provincia di Caltanissetta. Uno è Pietro Riggio, un altro è Aldo Riggi, il terzo Carmelo Barbieri, un insegnante di educazione fisica nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Qualcuno di loro ha conosciuto personalmente Montante, qualcun altro riferisce confidenze ricevute dai loro capi. Parlano dei suoi rapporti con Paolo Arnone, il vecchio patriarca di Serradifalco – il paese dell’esponente di Confindustria – di una sua «mediazione» per far lavorare una ditta di mafia, del «rispetto» che alcuni picciotti dovevano portare al Montante proprio per il suo legame stretto con gli Arnone. Nei giorni scorsi l’imprenditore aveva parlato di «subdole manovre» e di «campagna mediatica» per delegittimarlo annunciando che non si dimetterà da nessun incarico, neanche da quello dell’Agenzia dei beni confiscati. Se lo lasceranno lì, l’indagato per mafia Antonello Montante si troverà seduto accanto al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che, per legge, occupa di diritto un incarico all’Agenzia. Ma ecco cosa dicono i tre pentiti. Aldo Riggi: «Conosco Antonello Montante dal 1990, periodo in cui stava realizzando un palazzo in via Valenti a Caltanissetta e per questi lavori la mia impresa realizzò lavori… li avevo già quasi terminati e venni avvicinato da Montante che mi chiese di sospendere le forniture ed i trasporti perché doveva subentrare la ditta di Paolino Arnone e del figlio Vincenzo (tutti e due testimoni di nozze di Montante, ndr)». Poi entra nei dettagli: «In particolare il Montante mi rappresentò il rapporto di amicizia che aveva con Paolo Arnone, così come mi fece capire di essere consapevole dell’appartenenza di questi a Cosa Nostra, motivi per i quali non avrebbe potuto non affidargli i lavori». Dichiarazione a verbale di Pietro Riggio. Dopo avere premesso di non avere conosciuto personalmente Antonello Montante, ricorda che un giorno – è il 2000 voleva fare un’estorsione ai danni di un suo fratello che aveva un negozio di giocattoli. Fu fermato da Salvatore Dario Di Francesco, un boss (che poi si pentirà anche lui e accuserà anche lui Montante) «che si mostrò molto rammaricato delle mie intenzioni, poiché mi disse che i Montante erano vicini alla famiglia di Serradifalco, nel senso che si prestavano ad assumere persone indicate da quella famiglia e non erano pertanto persone da vessare, quanto piuttosto da ‘riguardare’…». Così Riggio non chiese più la tangente. E precisa: «Le assunzioni di cui mi ha parlato Di Francesco si riferivano ad una fabbrica di Serradifalco, gestita da Antonello Montante, fabbrica dove, per quel che mi fece intendere Di Francesco, lavoravano già persone indicate dalla famiglia mafiosa ». Poi riferisce di un’altra «mediazione », quando un amico di Montante, Massimo Romano, titolare di una catena di supermercati, per aprirne uno a Serradifalco «ha chiesto il permesso ad Arnone attraverso l’intervento dello stesso Montante». Un’ultima annotazione di Riggio: «Quando ho saputo che Montante era diventato un simbolo dell’ antimafia, mi sono stupito assai, sapendo della sua vicinanza a noi». Il terzo pentito, Carmelo Barbieri: «Uno dei capi della mia famiglia, Carmelo Allegro, mi disse che i Montante erano "soggetti amici"..».

Giornalisti antimafia nella cricca-Montante? Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2018 su Il Dubbio. Secondo l’accusa l’ex presidente di Confindustrai Montante avrebbe creato un sistema parallelo per spiare e fare del dossieraggio. “Double Face” è l’operazione giudiziaria nei confronti dell’ex presidente di Confindustria in Sicilia Antonello Montante, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Non a caso l’operazione parla della doppia faccia: da un lato il richiamo costante al concetto di “legalità”, dall’altra l’attribuzione di etichette di “mafiosità” agli avversari. L’accusa è gravissima ed emblematica nello stesso tempo. Parliamo dell’antimafia come strumento di Potere, tanto da creare un sistema parallelo per spiare, fare del dossieraggio e, non da ultimo, avvicinare i giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate, affinché non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Esattamente al tredicesimo capitolo dell’informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta dalla Procura –, si parla proprio dei rapporti di Montante con i giornalisti. Molti sono di rilievo. Va precisato che si tratta di un’informativa e quindi di un atto d’indagine unilaterale degli inquirenti, a cui dovrà fare seguito il contraddittorio con la difesa e le verifiche da parte delle autorità giudiziarie. Al momento non c’è niente di concreto, solo le accuse della polizia. Per dovere di cronaca e rispetto del lavoro altrui, per chi volesse leggere l’intera l’informativa, può scaricarla dalla testata abruzzese giornalistica on line Site. it. Emerge dall’indagine che proprio il fastidio nei confronti dei giornalisti troppo critici verso il suo operato fu il filo conduttore del rapporto che Montante avrebbe scelto di instaurare con certi esponenti della stampa, con alcuni dei quali aveva cercato anche di intessere rapporti per carpirne la benevolenza nelle cronache. Ne sarebbero la prova, agli atti d’indagine degli inquirenti che hanno condotto all’arresto di Montante, la raccolta di intercettazioni ma anche gli appunti riversati meticolosamente su un’agenda Excel, che completano le fonti di prova indicando orari, luoghi, fatti, temi, persone in merito agli incontri con alcuni giornalisti. Sono gli stessi inquirenti che a questo riguardo citano la viola- zione deontologica della Carta dei Doveri del Giornalista che impone il divieto di ricevere favori o denaro o regalie per evitare che ne venga condizionata l’attività di redazione o lesa la dignità della professione e la credibilità. Un operato che ha creato diversi problemi anche nei confronti di quei giornalisti che si adoperavano per il diritto e il dovere di cronaca. Come il caso di Giampiero Casagni, giornalista siciliano del settimanale “Centonove”, che, dopo avere raccolto del materiale inerente presunti rapporti tra Montante e l’imprenditore Arnone Vincenzo ( che sarebbe un personaggio vicino a Cosa Nostra), aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso la rivista Panorama: la notizia non fu mai pubblicata e dall’informativa emerge la frequentazione che il direttore avrebbe avuto con lo stesso Montante. Tra i rapporti con la stampa emergono quelli intessuti con due giornalisti de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che firmarono un articolo in tema di “professionisti dell’antimafia”, attirando così il fastidio di Montante sul contenuto che ritenne troppo critico nei suoi confronti. Uscito con il titolo "Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della legalità”, l’articolo fu per Montante anche motivo di discordia con il magistrato Niccolò Marino che, nel corso di un procedimento, dovette persino raccontare alla Procura di Catania di aver incontrato Montante in un hotel della città, essendo quest’ultimo molto arrabbiato per il contenuto dell’articolo e credendone il magistrato come l’artefice occulto. Successivamente, fu nell’occasione di una riunione a Caltanissetta in Confindustria Sicilia che, a dire del testimone sentito nel corso delle indagini, ritornarono i nomi dei due giornalisti. Montante chiese a «chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria» di «erogare contributi economici», specificando che era necessario sponsorizzare un sito on line, L’Ora Quotidiano, e un mensile cartaceo. Fu quella l’occasione in cui si seppe che l’iniziativa del sito era stata proposta proprio da quei due giornalisti, che un anno prima avevano pubblicato l’articolo su Il Fatto Quotidiano. Era nella stessa riunione che Montante avrebbe riferito, sempre a detta del testimone sentito, che i giornalisti erano bravi «ed occorreva perciò renderli più morbidi onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona». A detta del testimone, lui versò il denaro. Il sito on line L’Ora Quotidiano dal canto suo ebbe vita breve: fu aperto il 18.10.2014 ma già il 22.2.2015 chiudeva. Sempre sulla vicenda riguardante la creazione del giornale on line e l’insofferenza del Montante a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, l’informativa fa un richiamo anche alle dichiarazioni rese dal giornalista de Il Sole 24 ore Giuseppe Oddo, il quale riferiva agli inquirenti che quando era stato pubblicato il fatidico articolo de Il Fatto Quotidiano, il Montante lo aveva chiamato perché, avendo mal digerito l’attacco a lui, voleva che Oddo intervenisse parlando con il direttore del giornale che all’epoca era Padellaro. Oddo rispedì al mittente l’invito: « Ovviamente rifiutai l’invito del Montante – dichiarazione riportata nell’informativa , dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere». Un’altra vicenda di analogo spessore che interessò le indagini nei rapporti di Montante con la stampa alla ricerca della benevolenza dei giornalisti, fu quella che riguardò la circostanza della fusione da lui fortemente voluta tra Ats e la sua partecipata Jonica Trasporti, ma osteggiata dal revisore contabile Maria Sole Vizzini così come dall’allora Presidente avvocato Giulio Cusumano. È in questa vicenda che affiorano i legami di Montante con il giornalista Lirio Abbate, i cui rapporti e incontri sono rassegnati nell’agenda excel del primo, raccolta agli atti d’indagine. L’ostilità nei riguardi della fusione da parte della Vizzini, revisore contabile, era già stata oggetto di una chiacchierata informale della stessa con il giornalista Abbate: i due si conoscevano per motivi professionali e in quella circostanza lui la invitò a non usare la spada, come al suo solito, «ma il fioretto» a proposito delle perplessità sulla fusione. La vicenda doveva essere di interesse decisivo, perché sempre a proposito della fusione e di chi ne era perplesso, un giorno l’avvocato Cusumano chiese un incontro a Palermo proprio al revisore contabile, la Vizzini, che chiamata a testimoniare, raccontò agli inquirenti che in quell’incontro il Cusumano le disse di essere «molto spaventato perché due soggetti con il volto semi coperto da sciarpe l’avevano avvicinato, dicendogli che se avesse continuato a rompere avrebbero reso pubbliche le vicende giudiziarie, che riguardavano la sua famiglia» oltre che alcuni dettagli della sua vita privata. Non trascorsero molti giorni, che, raccontò la Vizzini agli inquirenti, Abbate la chiamò al telefono e le chiese informazioni sull’avvocato Cusumano e cioè «se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se questi avesse partecipato a qualche festa particolare». La Vizzini fu sentita come testimone sulla vicenda, ma del rapporto tra Montante e Abbate vi è traccia nei numerosi atti d’indagine. Sempre sui rapporti della stampa con Montante, è emersa nell’indagine anche la sua frequentazione con l’autore Roberto Galullo de il Sole 24 Ore. L’occasione di scontro fu una collaborazione in un’inchiesta sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, inizialmente scomoda, ma dalla quale poi sarebbe nato «un rapporto molto stretto», come lo definiscono gli inquirenti, tanto che in occasione del sequestro, al Montante fu rinvenuta anche la ricevuta dell’acquisto di 500 copie di un libro sulla legalità scritto dal medesimo giornalista, oltre che quelle di vacanze pagate a Cefalù. Sul rapporto intrattenuto tra i due, esaustiva per gli inquirenti è stata ritenuta l’intercettazione del febbraio 2016, in cui Montante, parlando con Galullo e raccontandogli di «un’accesa discussione» con il direttore de Il Sole 24 Ore, gli riferì di un articolo che lo riguardava «e che non gli era andato a genio». Fu questa l’occasione in cui Montante raccontò al giornalista di aver convinto il direttore, anche ricordandogli di essere un azionista, a scegliere sempre lui, il Galullo appunto, come firma degli articoli che lo riguardavano. Il direttore – sostiene Montante – acconsentì. Così, come quando – era il 13 febbraio 2015 – solo dopo qualche giorno dalla notizia su Repubblica delle indagini in corso a suo carico, che compariva sul blog del giornalista l’articolo "Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti".

I giornalisti (noti e inaspettati) del “sistema Montante” e l’antimafia amica dei potenti. Giulio Cavalli il 27 Maggio 2018. Dovrebbe essere uno scoop e invece niente. C’è questo documento della Procura che riguarda l’arresto dell’ex numero uno di Confindustria Sicilia che va letto perché è un paradigma. Racconta delle amicizie e delle modalità del divo (decaduto) di una certa antimafia con giornalisti (anche di peso) che nonostante si adoperino per essere considerati cani da guardia contro il potere in realtà spesso sono molto vicini ai poteri di cui scrivono e, inevitabilmente, ne sono condizionati. Ci sono nomi noti. Molto noti. Di questo dossier difficilmente ne sentirete parlare perché raramente i giornalisti scrivono di colleghi (e infatti non è un caso che io ne scriva qui, nel mio piccolo blog). E ci sono tutti gli atteggiamenti. Leggetelo, parliamone.

Fabio Amendolara per “la Verità” il 23 ottobre 2019. Ai tempi in cui il Rottamatore era premier i vertici dell'Aisi, il servizio segreto che si occupa della minaccia interna, si sono arrampicati sugli specchi per confondere i giudici sul sistema di protezione e sulla rete di relazioni su cui poteva contare Antonello Montante, il professionista dell' antimafia ed ex numero uno di Confindustria in Sicilia, condannato con rito abbreviato a 14 anni di carcere il 10 maggio scorso. L'ipotesi è ora ricostruita in una sentenza di 1.700 pagine, che contiene anche i nomi delle barbe finte raccomandate da Montante. L' ha trasmessa alla Procura il gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, con la specifica richiesta di approfondire le dichiarazioni di Mario Parente, messo dal Bullo a capo dell' Aisi, e del suo vice Valerio Blengini (per circa un decennio capocentro dei nostri 007 a Firenze e promosso da Renzi mentre era a Palazzo Chigi) che, sentenzia il giudice, «mentono sapendo di mentire». Al centro del caso c'è un capo reparto dell' Aisi, Andrea Cavacece, imputato nell' altro troncone del processo Montante che è attualmente in corso con rito ordinario davanti ai giudici del tribunale. Lo 007 è accusato di aver girato all' ex direttore dell' Aisi Arturo Esposito notizie sull' indagine a carico del colonnello Giuseppe D' Agata, ex capo della Dia di Palermo poi passato ai servizi segreti. Un investigatore che, dopo aver indagato sull' ipotizzata trattativa Stato-mafia, era diventato fedelissimo di Montante. Ed è solo uno degli episodi che, per dirla come il giudice, ha reso «particolarmente impervia l' attività di investigazione, a causa del trasudamento di notizie segrete che, in maniera inizialmente inspiegabile, riuscivano a raggiungere i diretti interessati». Ma è impervia anche la ricostruzione di quelle fughe di notizie. Per provarci il giudice torna indietro al 2015, quando Blengini fu costretto a spiegare ai magistrati che «durante un incontro con personale dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia di Stato, ndr) per gli auguri di Natale, a un collaboratore dell'Aisi erano state chieste informazioni su D' Agata, tanto da indurlo a ritenere che vi fosse un' attività investigativa sul colonnello». A quel punto Blengini chiese chiarimenti al questore di Caltanissetta, Bruno Megale: «Gli chiesi conferma se avesse notizia di un' indagine su D' Agata perché bisognava valutare l'opportunità di trasferirlo in Sicilia». Ma il questore chiuse ogni discussione. E Blengini confermò alle toghe: «Si trincerò in un silenzio imbarazzato, mi rappresentò solo l' inopportunità di trasferire D' Agata in Sicilia». Blengini, «attivato per esplicita direttiva del generale Esposito», arrivò già troppo informato e forse proprio per questo si beccò un «niet». In più finì in una relazione di servizio con cui Megale mise agli atti la vicenda. A Esposito subentrò Parente. E davanti ai giudici ha retto il gioco del suo vice, precisando che la notizia raccolta alla cena di Natale era «indeterminata». Ma è su quel termine che scivola Parente. Secondo il giudice, «se, come sostenuto dai due appartenenti ai servizi segreti, l'informazione loro pervenuta sulla possibile indagine sul conto di D' Agata fosse stata veramente così generica, non si comprende il senso dell' iniziativa esplorativa condotta presso la squadra mobile nissena, in quanto, in assenza di dettagli sull' oggetto dell' indagine, non era neppure possibile supporre la commissione di reati funzionali da parte di D' Agata, tali da agganciare l' indagine, presunta, ai luoghi di pregresso servizio dello stesso». Perché andare proprio a Caltanissetta a cercare notizie? Secondo il giudice «nell' articolazione dichiarativa di Blengini e Parente si assiste allo scollamento logico tra l' azione compiuta e la giustificazione addotta». Il giudice un'idea se l'è fatta. E la esplicita così: «È convincimento di questo giudice che Cavacece avesse assecondato il direttore Esposito, al quale D' Agata stava particolarmente a cuore, nel proposito di preservare quest'ultimo dall' indagine, e che, una volta scoperto tale retroscena grazie alla relazione del questore Megale, non rimaneva altro che imbastire una pseudo giustificazione istituzionale, nell' ambito di un patto scellerato al quale potrebbe aver aderito, lo si afferma con grande desolazione, anche l'attuale direttore dell' Aisi, il generale Mario Parente». Ma è anche sugli «addentellati di cui godeva Montante» che si concentra il giudice. Oltre agli «ottimi rapporti di natura personale con il direttore Esposito», Montante aveva già legato con il suo predecessore, l' ex vicecomandante dell'Arma e poi capo dell' Aisi Giorgio Piccirillo. Pranzi e cene, incontri all' hotel Bernini di Roma, sono documentati nell'agenda di Montante. Così come raccomandazioni per progressioni di carriera con tanto di schede da inviare ai politici di riferimento. E nell'orbita di Antonello da Serradifalco, re dell' antimafia, era finito un' altro 007, Gianfranco Melaragni, ex dirigente superiore della polizia di Stato ora in pensione che, nel periodo degli incontri segnati sull' agenda di Montante, percepiva redditi dalla presidenza del Consiglio dei ministri, il che testimonia, afferma il giudice, che in quel momento Melaragni apparteneva ai servizi di informazione e sicurezza. Così come Mario Blasco, stesso curriculum di Melaragni e stessa posizione sull' agenda di Montante, l' imprenditore attorno al quale, è scritto in sentenza, «si sarebbe eretta una barricata di protezione che gli avrebbe permesso di essere allertato, tempestivamente, dell' esistenza dell' indagine». Una barricata con al centro anche l' Aisi.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 9 ottobre 2019. È stato «il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un'antimafia iconografica», ha occupato le istituzioni «mediante corruzione sistematica e operazioni di dossieraggio», con la creazione di una «mafia trasparente». Nelle motivazioni con cui lo scorso 14 maggio ha condannato a 14 anni l'ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, il gup di Caltanissetta definisce l'imprenditore «il demiurgo non già del linguaggio dell'antimafia, ma dell'antimafia del linguaggio, che non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni e delle iniziative dallo scarso risultato pratico». Un'antimafia trasformata in «business utile a garantire un posto ai tavoli che contano». Era un «ricattatore seriale», impegnato nella raccolta incessante di dati riservati e documenti. Per il gup, Montante, condannato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico, ha diretto un sodalizio di cui facevano parte ufficiali di Polizia, dell'Arma e della Finanza. Con uno scopo: «Eliminare il dissenso con il ricorso all'uso obliquo dei poteri accettativi e repressivi statuali, sabotare le indagini; corrompere in maniera sistematica pubblici ufficiali». Per il magistrato, l'ex presidente di Confindustria aveva elaborato un progetto di «occupazione egemonica» dei posti di potere. Un progetto condiviso da chi sapeva che lui era la chiave di accesso a ministeri, enti pubblici e imprese per ottenere incarichi di prestigio: «Non gestiva potere, ma lo creava», chiosa il gup. Era talmente potente che nemmeno l'allora ministro dell'interno Angelino Alfano «poteva permettersi di contraddirlo». Tanto che, nel 2013, il Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, era stato addirittura organizzato a Caltanissetta: «Una genuflessione istituzionale - proseguono le motivazioni - innanzi a colui che nel 2015, nel pieno della bufera mediatica per il suo coinvolgimento in un'inchiesta per mafia, riusciva persino a farsi rafforzare la scorta». A indagare su Montante era stata proprio la procura di Caltanissetta. Era stato arrestato nel maggio 2018. I magistrati, facendo accertamenti su presunti legami mafiosi, avevano invece scoperto la rete di spionaggio che teneva informato l'indistriale in tempo reale degli sviluppi della inchiesta. Tutti si rivolgevano a lui per ottenere favori: agli atti, una novantina di raccomandazioni arrivate tra il 2007 e il 2015.

Sicilia, il doppio volto del simbolo antimafia: "Montante aveva dato vita a una mafia trasparente". Le motivazioni della condanna a 14 anni dell'ex presidente della Confindustria schierata contro il racket: "E' stato il motore di un meccanismo perverso di conquista del potere, con corruzione e dossieraggi sistematici". La "genuflessione" di Alfano. E Schifani aveva un nome in codice. Emanuele Lauria l'08 ottobre 2019. "Montante è stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un'antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali". Sono le conclusioni che il Gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, scrive in coda alle oltre 1.700 pagine di motivazioni della sentenza di condanna a 14 anni per l'ex presidente di Confindustria Sicilia. Montante, si legge nelle motivazioni, aveva dato vita "a un fenomeno che può definirsi plasticamente non già quale mafia bianca ma mafia trasparente, apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e perciò in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle misure comuni". Nel corposo fascicolo delle motivazioni, depositate oggi, si ripercorrono tutte le tappe della vicenda Montante, così come accertate nelle indagini della squadra mobile nissena. Un  capitolo è dedicato agli appunti di Calogero Montante, all'elenco di tutti i suoi appuntamenti e delle telefonate che registrava, ma pure delle "intercettazioni" di conversazioni affidate spesso ad amici e sodali, poi trascritte con la sigla "Aud". "Il quadro che se ne ricava, in verità abbastanza desolante, è quello di un uomo, Montante, che di mestiere faceva il ricattatore seriale - si legge nel corpo delle motivazoni- non potendo attribuirsi altro significato, anche alla luce dell’esperienza riferita da Alfonso Cicero sul tentativo di violenza privata in suo danno, alla raccolta incessante di dati riservati, documenti e registrazioni di conversazioni". Montante, è la ricostruzione del giudice, aveva compiti di "direzione, promozione e organizzazione" di un sodalizio di cui hanno fatto parte ufficiali di polizia, dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza: "Non può non esprimersi un giudizio assai severo sul particolare allarme sociale provocato dal sodalizio, e ciò in ragione della finalità delittuosa ad ampio spettro perseguita: eliminare il dissenso con il ricorso all’uso obliquo dei poteri accettativi e repressivi statuali, sabotare le indagini che riguardavano gli associati; praticare la raccolta abusiva di dati personali riservati, corrompere in maniera sistematica i pubblici ufficiali". La sentenza si sofferma poi sull'appeal che Montante esercitava su politici di primo piano ed esponenti delle forze dsell'ordine: "Neppure l'allora ministro dell'interno Angelino Alfano, come da lui affermato, poteva permettersi di contraddirlo, e, nell'anno 2013, a sostegno della presunta "primavera degli industriali", era stato persino "delocalizzato" il Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, che, senza alcun precedente nella storia della Repubblica Italiana, si era riunito a Caltanissetta: un'autentica genuflessione istituzionale innanzi a colui che nel 2015, nel pieno della bufera mediatica per il suo coinvolgimento nell'indagine per mafia, riusciva persino a farsi rafforzare il servizio di scorta". Nelle motivazioni c’è anche un riferimento all’ex presidente del Senato Renato Schifani, imputato in un altro procedimento nel quale ha chiesto il rito immediato: è accusato di aver fatto pervenire al colonnello Giuseppe D’Agata, ex comandante provinciale dei carabinieri, notizie riservate sull’inchiesta che lo coinvolgeva e sulle intercettazioni a carico della moglie. Notizie che Schifani avrebbe appreso dall’ex capo dell’Aisi Arturo Esposito e che sarebbero pervenute a D’Agata tramite il professore universitario Angelo Cuva. Proprio Cuva, secondo gli inquirenti, nell’attesa di informazioni da Schifani, copriva il senatore chiamandolo, quando parlava con i suoi interlocutori, "professore Scaglione" . "Questa è l’ipotesi accusatoria, rimasta tale in quanto — dice il senatore forzista — non trattata in questo processo ma in un altro, dove chiarirò la mia estraneità alla vicenda".

Antonello Montante e l’inchiesta cestinata da Panorama. Il racconto di Claudio Fava su FQ MillenniuM. La vicenda dell'autoproclamato paladino dell'antimafia e della legalità - condannato a 14 anni in primo grado - ricostruita sul mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 11 maggio. In un numero di inchieste e approfondimenti sul "suicidio" della stampa italiana, sempre più in crisi di diffusione e credibilità. Claudio Fava l'11 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Un intreccio sconcertante tra mafia, antimafia e informazione. Andato avanti per anni fra silenzi e connivenze. L’imprenditore siciliano Antonello Montante si era cucito addosso il vestito del paladino dell’antimafia al vertice di Confindustria. Venerdì 10 maggio è finito condannato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e altri gravi reati. Al di là dell’esito giudiziario della vicenda, l’inchiesta della Procura di Caltanissetta ha svelato quanto fosse finta e di facciata la “missione” di Montante e dei suoi sodali in nome della legalità. Claudio Fava racconta questa vicenda in un lungo reportage su FQ MillenniuM, in edicola da sabato 11 maggio, dedicato al “suicidio” del giornalismo italiano. Per colpa di vicende come questa e di tante altre che il mensile diretto da Peter Gomez approfondisce. Ecco un breve estratto: L’occasione me l’ha data Antonello Montante. E qui davvero ci sarebbe da scrivere un’antologia picaresca sul mestiere dell’antimafia per autocertificazione piena di pennacchi, spadini e medaglie di latta, sirene spiegate e comparsate televisive. Perché il cavalier Montante è stato tutto questo e molto di più, come i personaggi di certi fumetti d’anteguerra, Tartarin di Tarascona che abbatte a fucilate il temibile leone cieco di un circo, il Barone di Münchhausen che racconta i suoi assalti a cavalcioni di una palla di cannone… Cose così, all’apparenza innocue fanfaronate, se non fosse che attorno al responsabile nazionale di Confindustria per la legalità (nonché presidente di Confindustria Sicilia, presidente della Camera di commercio di Caltanissetta, presidente di Unioncamere Sicilia, consigliere di amministrazione del Sole 24 Ore, componente del Consiglio di territorio di UniCredit Sicilia, membro del Comitato locale di sorveglianza della Banca d’Italia di Caltanissetta e componente del direttivo dell’Agenzia per i beni confiscati alle mafie) s’era aggrumato un sistema di interessi e di poteri furbo, avido, lesto e così sfacciato da far ombra alla P2. Un sistema di governo privato della cosa pubblica, destinato a pilotare la spesa regionale e nazionale, a definire l’agenda di governo, a promuovere i funzionari fedeli e a cacciar via i riottosi, a controllare gli avversari e a compiacere gli amici curandone carriere, elezioni e promozioni. Sistema collaudato che nel signor Montante aveva solo l’abile cantastorie attorno al quale, e dietro il quale, avanzavano ministri, senatori, presidenti, assessori, prefetti, dirigenti. E naturalmente cronisti (….) Un sistema che alcuni giornalisti delle periferie, poca fuffa e molta sostanza, avevano saputo intercettare. Nell’aprile del 2014 la rivista catanese “I Siciliani giovani” pubblica la foto di Montante in compagnia del suo testimone di nozze Vincenzo Arnone, personaggio contiguo a Cosa nostra e figlio dello storico capomafia di Serradifalco. Ma Montante, come Bruto, è uomo d’onore (direbbe Shakespeare): più della foto compromettente, dei certificati di matrimonio e dell’amicizia con Arnone, vale la sua parola. E di quello scoop si perdono le tracce. Ci riprova un mese dopo un giornalista nisseno, Giampiero Casagni: sa del legame tra Montante e la famiglia Arnone, degli scambi d’affettuosità pubblica e privata tra i due. Decide di proporre la storia a “Panorama”. Storia gustosa, gustosissima: un presunto boss mafioso e il responsabile legalità di Confindustria a braccetto insieme. Scrive al direttore Giorgio Mulé (oggi parlamentare di Forza Italia, ndr) una dettagliata mail «per proporgli», ricostruisce l’ordinanza dei giudici di Caltanissetta, «la pubblicazione di un articolo riguardante i rapporti tra il Montante e Vincenzo Arnone basato anche sulla documentazione di Confindustria di cui disponeva». Mulé riceve. Ma non farà sapere più nulla al Casagni. Informerà subito invece il suo amico Montante. Uno zelo che nemmeno sorprende la Procura di Caltanissetta: «Non stupisce affatto che il Mulé si fosse affrettato a mettere a parte il Montante delle notizie che il Casagni gli proponeva di pubblicare e che egli aveva poi declinato reputandola una “non notizia” e, anzi, giudicandola come una manifestazione della volontà di danneggiare la reputazione dell’imprenditore di Serradifalco».

GIORNALISTI, VIL RAZZA PAGATA. Fabio Amendolara per la Verità il 30 maggio 2018. «Un governo si mantiene con la comunicazione», sentenziava il cavalier Antonello Montante, l' ex presidente di Confindustria Sicilia e pupillo dell' antimafia, finito due settimane fa prima ai domiciliari con l' accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e poi in carcere perché aveva tentato di inquinare le prove. Lui, che aveva preso a modello l' ex premier Matteo Renzi, pensava di poter mettere in atto in Sicilia quello che a suo avviso il Rottamatore faceva con la stampa nazionale: «Renzi dona i soldi ai giornali». E così, secondo Montante, i giornalisti non gli rompevano le scatole. Aveva talmente bene in mente chi erano i rompiscatole da aver fatto attività di dossieraggio anche su alcuni di loro. C' è una informativa della squadra mobile di Caltanissetta che riassume le relazioni allacciate con la stampa. Nel documento giudiziario, ad esempio, viene ricostruito un episodio in cui l' ex leader degli industriali, oltre ad aver preteso durante una riunione di Confindustria il versamento di un contributo per il giornale online L' Ora, sottolineò anche che era «per ammorbidire» i giornalisti del Fatto quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza ed «evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare personalmente lui e Ivanhoe Lo Bello». Marco Venturi, l' ex amico di Montante che si è trasformato nel suo grande accusatore, ha riferito agli investigatori di aver versato lui stesso un contributo da 20.000 euro e che Montante, invece, «aveva versato», si legge nell' informativa, «somme di denaro in nero, perché non voleva figurare tra i finanziatori». Dopo il lauto finanziamento, però, Giuseppe Catanzaro (attuale presidente di Sicindustria autosospeso dopo l' avviso di garanzia) si lamentò con Montante per la pubblicazione di un articolo critico nei suoi confronti proprio sul giornale che pensavano di aver «comprato». Era abile nell' allacciare le relazioni Montante. E nelle carte finiscono tutti gli incontri con il vicedirettore dell' Espresso Lirio Abbate: colazioni, pranzi e cene (sono 26 quelle che Montante aveva appuntato sul suo diario). Ma nei documenti finisce anche un episodio svelato da Maria Sole Vizzini, revisore contabile di un' azienda che stava per fondersi con la Jonica Trasporti (partecipata della Regione e della quale Montante possedeva una piccola quota). La donna sostiene di aver ottenuto dal presidente facente funzioni della partecipata, Giulio Cusumano, la confidenza di aver ricevuto pressioni, legate anche alla sua vita privata, per concretizzare la fusione delle due società. Vizzini, scrivono gli investigatori, «aveva potuto comprendere che ciò che le aveva raccontato Cusumano potesse avere un suo fondamento, in quanto in seguito era stata contattata dal giornalista Lirio Abbate, che le aveva domandato se corrispondessero a verità le notizie sulla vita privata di Cusumano» che circolavano. Ma gli investigatori precisano che «dal contenuto della cartella trovata tra i dossier di Montante, emerge la sussistenza di ottimi rapporti tra lo stesso imprenditore e il giornalista Abbate, risalenti già al 2008». E a provarlo ci sono proprio colazioni, pranzi, cene e un Ferragosto in barca. Annotava tutto Montante. Tra i giornalisti più spiati c' erano Attilio Bolzoni di Repubblica, Marco Benanti, ex direttore de Le Iene Sicule, e Gianpiero Casagni della rivista Centonove. «Si tratta, ed è pure banale sottolinearlo», si legge negli atti dell' inchiesta, «di giornalisti che nel passato hanno pubblicato notizie con le quali si esprimevano in maniera fortemente critica nei confronti di Montante». Gli investigatori, però, trovano la copia di una conversazione tra Casagni e l' ex fedelissimo di Montante, Alfonso Cicero, in cui «si poteva evincere che il primo domandasse di tenerlo in considerazione qualora occorresse un addetto stampa all' Asi» e una mail del 2010 in cui Casagni chiedeva a Montante se potesse dargli una mano a trovare un lavoro. Questioni che Montante usa contro il giornalista, sostenendo che aveva motivi di rivalsa. Nel 2014 Casagni cerca di ottenere su Panorama un servizio sui rapporti tra Montante e un testimone di nozze definito imbarazzante, ma il settimanale cassa la proposta. Rapporti confidenziali ci sarebbero stati, almeno fino al 2013, con il giornalista del Sole 24 Ore Giuseppe Oddo. A lui Montante avrebbe chiesto anche di scrivere un libro per magnificare le sue gesta. Oddo declinò. Ma agli investigatori ha raccontato: «Seppi che il libro era stato redatto da Filippo Astone». «Sul contenuto del libro, intitolato Senza padrini e incentrato essenzialmente su un panegirico dell' attività legalitaria di Montante», chiosano gli investigatori, «nulla si ritiene necessario aggiungere». Nel frattempo l' Ordine dei giornalisti della Lombardia ha avviato un' indagine interna.

Odg censura 4 giornalisti per il caso Montante. Ossigeno.info il 12 Luglio 2019 su . Avvertimento per un altro iscritto – Archiviazione per altri 15 – Le decisioni del Consiglio di Disciplina Territoriale per la Sicilia dell’Ordine dei Giornalisti. Il Consiglio di Disciplina Territoriale per la Sicilia dell’Ordine dei Giornalisti ha deliberato di applicare la sanzione della censura, prevista dall’Ordinamento della professione di giornalista (Legge 3 febbraio del 1963, n. 69 – Art. 51, lettera B) nei confronti di quattro giornalisti professionisti: Francesco Castaldo, Giuseppe Martorana, Vincenzo Morgante e Valerio Martines. La loro posizione è stata valutata insieme a quella di altri giornalisti citati a vario titolo (nell’istruttoria processuale, nelle ordinanze e nei rapporti investigativi della polizia giudiziaria di Caltanissetta) nell’ambito della vicenda riguardante l’imprenditore Antonello Montante, condannato a 14 anni di reclusione dal Tribunale di Caltanissetta per associazione per delinquere, corruzione e dossieraggio. Nell’ambito degli stessi accertamenti, il Consiglio di disciplina ha comminato la sanzione dell’avvertimento nei confronti del giornalista professionista Giuseppe Sottile. Ha archiviato invece i procedimenti a carico dei giornalisti Antonino Amadore, Mario Barresi, Gianpiero Casagni, Felice Cavallaro, Vittorio Corradino, Enrico De Cristofaro, Giuseppe Lo Bianco, Corrado Maiorca, Salvatore Mingoia, Wladimiro Pantaleone, Franco Pullara, Sandra Rizza, Accursio Sabella, Salvatore Toscano. Altri due casi sono ancora sotto esame. Le archiviazioni sono state disposte dopo aver aver verificato (sulla base delle audizioni, delle memorie difensive e delle documentazioni presentate) la mancanza di vulnus deontologici. Il Cdt ha in particolare ritenuto censurabile, sotto il profilo deontologico, l’assidua e ininterrotta frequentazione, fra alcuni giornalisti e Antonello Montante. Frequentazione protrattasi anche dopo la diffusione della notizia, il 9 febbraio 2015, dell’inchiesta giudiziaria , riguardante l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, avviata dalla Procura di Caltanissetta nei confronti di Montante. Nei confronti di Martorana e Martines sono stati riscontrati pagamenti (incarichi, consulenze) disposti da Montante. Mentre per Morgante è stata riscontrata una mail di richiesta di raccomandazione. Morgante e Martines hanno presentato ricorso al Consiglio di Disciplina nazionale.

COME MONTA IL CASO MONTANTE. Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 24 settembre 2019. La Procura di Palermo indaga su una presunta rivelazione di segreto compiuta dall' attuale questore di Roma Carmine Esposito nel 2014 quando era questore di Trapani. La vicenda (già emersa nel provvedimento di arresto del Gip di Caltanissetta contro Antonello Montante del maggio 2018) è ancora tutta da chiarire e riscontrare. Per questa ragione il pm di Palermo Giovanni Antoci, dopo avere ricevuto la notizia di reato dai colleghi di Caltanissetta, ha iscritto alla fine del 2018 il questore Carmine Esposito per rivelazione di segreto e nei giorni scorsi ha sentito alcuni testimoni. Tutto inizia nel 2015 quando nel corso delle indagini sull' allora presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, gli investigatori si concentrano sui rapporti con il fratello del questore: l' allora direttore dei servizi segreti Aisi, il generale Arturo Esposito. Poi nel febbraio 2016 l' imprenditore Pietro Di Vincenzo, già presidente degli industriali della Sicilia, in pessimi rapporti con Montante, racconta ai magistrati di essere a conoscenza di un episodio riferitogli da un amico imprenditore del settore costruzioni: Davide Tedesco. L' amico di Di Vincenzo aveva pranzato il 1° aprile 2014 al ristorante Charme di Palermo e aveva origliato una chiacchierata di Montante con il questore dal tavolo vicino: "Ebbe modo di udire i due discutere di un sequestro di prevenzione che doveva essere applicato nei confronti di Pietro Funaro, imprenditore del Trapanese". La notizia della misura contro Funaro però sarà data dall' Ansa solo 4 mesi dopo, il 5 agosto del 2018. Nel lancio l' agenzia precisa che il sequestro è stato emesso "su proposta del questore". L' imprenditore Tedesco, convocato a stretto giro nel 2016, conferma e offre altri particolari ai pm: "Il giorno 1 aprile 2014 mi recai a pranzo in questo locale assieme ad un mio amico, il professore Giovanni M. (.) A un certo punto entrarono nel locale Montante e un altro soggetto, distinto e ben vestito, e si accomodarono nel tavolo ubicato alla mia sinistra. () essendo stato sempre molto critico nei confronti del Montante, confesso di essere stato estremamente attento nel cercare di capire il contenuto della conversazione () rimasi molto colpito allorché ebbi modo di comprendere che i due stessero discutendo anche di una misura di prevenzione patrimoniale da eseguire nei confronti di un imprenditore di Trapani, Pietro Funaro () non avevo letto alcuna notizia stampa su un sequestro eseguito nei confronti del Funaro". A quel punto Tedesco offre ai pm la possibilità di cercare qualche riscontro: "Subito dopo essermi allontanato dal locale, inviai un sms all' avvocato Gioacchino Genchi per chiedergli un incontro che in effetti avemmo di lì a poco nello studio di questi () a tal proposito produco alla S. V. la stampa di uno 'screenshot' del mio telefono cellulare riportante lo scambio di sms avuto con Genchi in quell' occasione". Proprio insieme a Genchi, Tedesco riuscì a individuare "chi potesse essere l' interlocutore del Montante". Tedesco mette le mani avanti sul suo convitato: "Non credo che il professor M. abbia ascoltato la conversazione tra Montante ed Esposito". Gli inquirenti, sempre nel febbraio 2016 a Caltanissetta, ascoltano Genchi che conferma la visita di Tedesco quel giorno al suo studio e la ricerca sul web per individuare l' interlocutore di Montante. Genchi racconta: "Verificammo su internet che non era stata data alcuna notizia di una misura di prevenzione patrimoniale nei confronti di imprenditori del Trapanese sicché la circostanza rafforzò la certezza che i due stessero discutendo di notizie riservate". Qualche tempo dopo, racconta sempre Genchi ai pm, Tedesco gli telefonò per segnalargli che il sequestro da 25 milioni contro l' imprenditore Funaro era stato effettuato. Negli articoli si faceva notare che tre mesi prima "Funaro era stato sospeso da Confindustria Trapani in quanto a suo carico c' era una interdittiva antimafia". Effettivamente già il 29 gennaio 2014 la Prefettura aveva emesso un' interdittiva antimafia e l' impresa Funaro era stata esclusa da una gara. Esposito è indagato per ragioni di competenza territoriale dal pm di Palermo. Nell'ordinanza di arresto del Gip di Caltanissetta contro Montante (che aveva avuto un' ampia diffusione su internet) l' episodio era citato. Allora era indagato però solo il fratello generale dell' Aisi, ora a processo a Caltanissetta, per altre rivelazioni di segreto a beneficio di Montante che nel frattempo è stato condannato a 14 anni. Nell'ordinanza del Gip si legge che il 31 marzo i cellulari di Montante e del questore Esposito si scambiano attorno alle 20 e 20 tre sms. Il giorno dopo il cellulare di Montante si sposta da Serradifalco a Palermo e poi aggancia una cella vicina al ristorante Charme dalle 11 e 47 fino alle ore 15 e 21. Nell' informativa si citano altre telefonate tra i due cellulari in quel periodo e una sovrapposizione di celle il 13 maggio 2014. Non c' è riscontro invece sulla presenza del telefonino del questore il primo aprile nella cella del ristorante. Contattato dal Fatto, il questore ha declinato l' invito a parlare.

"L'ANTIMAFIA ERA AGITATA COME UNA SCIMITARRE PER TAGLIARE TESTE DISOBBEDIENTI". Fabio Amendolara per “la Verità” il 21 marzo 2019. C'è stato un momento storico ben preciso durante il quale in Sicilia l'Antimafia è stata usata come mezzo per la gestione del potere. E questo momento storico, che era stato raccontato da un' inchiesta giudiziaria ma che si riflette, nitido, anche nelle pagine della relazione conclusiva della Commissione antimafia della Regione siciliana, coincide con la gestione di Confindustria Sicilia da parte di un gruppo ben preciso di persone guidate da Antonello Montante, ex paladino della legalità finito agli arresti il 14 maggio del 2018: ora è imputato di corruzione, favoreggiamento, rivelazioni di segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico. Era l'era «della persecuzione degli avversari politici», si legge nel documento, «fino al vezzo di una certa antimafia agitata come una scimitarra per tagliare teste disobbedienti e adoperata come salvacondotto per sé stessi attraverso un sillogismo furbo e malato: chi era contro di loro, era per ciò stesso complice di Cosa nostra». L' approfondimento curato dal presidente Claudio Fava descrive un grumo di potere che avrebbe svolto un ruolo di supplenza nei confronti della politica. E se la magistratura lo aveva definito «Sistema Montante», uno dei testimoni della commissione d' inchiesta lo ribattezza «Sistema Lumia». L'anima nera, stando alla ricostruzione della commissione Fava, era proprio l' ex senatore del Partito democratico Beppe Lumia. Nello Musumeci, attuale governatore, non se lo lascia tirare con le pinze. Ecco le sue parole: «Il sistema Lumia, non il sistema Montante. Montante era funzionale al sistema di potere ma non era lui il regista». Il ruolo di perno svolto da Lumia durante il governo di Rosario Crocetta viene a galla in più punti della relazione, nonostante le dichiarazioni rese ai commissari anche dal protagonista, che al contrario di Crocetta non si è sottratto all' audizione. Quei meccanismi di potere e di controllo Lumia li chiama «politica». E, parlando di sé in terza persona, aggiunge: «Escludo nel modo più totale che la presenza di Lumia nel governo della Regione fosse giocata sul piano gestionale. Il mio compito era politico, esclusivamente politico e sa, purtroppo, quando in Sicilia si ha qualche abilità politica è chiaro che le leggende metropolitane fioccano». Ma Musumeci fa una mappa del «cerchio magico». E dice: «Da un decennio decide le maggioranze di governo, i componenti della giunta regionale, persino la durata in carica di un assessore, mentre mantiene una complessa rete di relazioni interpersonali con esponenti di rilievo del mondo imprenditoriale e non solo». Qui, forse, fa riferimento ai tanti esponenti delle forze dell' ordine e dell' intelligence che erano in contatto con Montante, alcuni dei quali sono stati beccati durante soffiate e aiutini vari. «In buona sostanza», sostiene Musumeci, «Crocetta aveva il ruolo di esecutore, il mandante era Lumia e del cerchio magico faceva certamente parte Montante». Ma il neo governatore non è il solo a mettere Lumia davanti a Montante. Anche Gaetano Armao, assessore siciliano all' Economia spende qualche parola: «Non c'era questione che avesse una rilevanza finanziaria sulla quale Lumia non tentava di mettere il becco». Conferma la percezione del peso di Lumia anche l' ex assessore Nicolò Marino, che dipinge Crocetta sullo sfondo del quadro della gestione del potere: «Quando c' era qualcosa che dal suo punto di vista era meglio non discutere, Crocetta faceva finta di non sentire anche se tu gli parlavi un' ora e un minuto dopo o appena ti interrompevi, cambiava discorso». Ma nella relazione non ci sono solo «la forzature delle procedure, la sistematica violazione delle prassi istituzionali, l' asservimento della funzione pubblica al privilegio privato e l' occupazione fisica dei luoghi di governo». C' è anche l' uso della stampa, che ha «aiutato Montante nella sua ascesa nell' olimpo dell' Antimafia» e che ha contribuito «a creare e poi a nutrire la mitologia del presidente di Confindustria Sicilia». La Commissione dedica un intero capitolo a questo fenomeno. «Nel suo rapporto con l' informazione, Montante mette in campo tutte le tecniche di seduzione (o di intimidazione): blandisce, compra, promuove, assume, ascolta, gioca di volta in volta ad fare da editore, finanziatore, datore di lavoro, commensale, ospite, confidente». Ma sa anche colpire: «Minacce, pedinamenti, indagini illegali, querele a volontà. La misura è semplice: gli amici sugli altari, gli ostili sul libro nero. O in un dossier». Uno dei giornalisti più esposti, ricostruisce la Commissione, è stato certamente Attilio Bolzoni, autore insieme a Francesco Viviano dell' articolo che rivelò, nel febbraio 2015 l' esistenza di indagini a carico di Montante. La black list è lunga. C'è ad esempio Giampiero Casagni, collaboratore di una testata messinese, entrato in rotta di collisione con Montante per un articolo su ipotizzati rapporti del presidente di Confindustria con un parente di un boss locale. Ma lo sgarro di Casagni, anticipato mesi fa dalla Verità, si è fatto più pesante quando il giornalista ha proposto un servizio su quelle relazioni sospette a Giorgio Mulè, che in quel momento era direttore di Panorama. Ma Mulè, senza avvisare il giornalista siciliano, boccia il servizio e avvisa Montante. Alla Commissione dirà di aver passato l' informazione solo quando la storia era già stata pubblicata su una testata siciliana. La Sicilia riparte da qui, «affinché vicende come quelle descritte», conclude la relazione, «non abbiano mai più a ripetersi».

MONTANTE AL VOLTO. Piero Melati per “il Venerdì di Repubblica” il 22 marzo 2019. Ad Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica e cronista di lungo corso del giornalismo italiano sulla mafia, si debbono alcune immagini fulminanti particolarmente riuscite. Per esempio: «Il cratere di Capaci è troppo grande per qualsiasi aula giudiziaria», a significare che nessun processo penale riuscirà mai a prosciugare definitivamente misteri e implicazioni della strage del 1992 in cui cadde, con Francesca Morvillo e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, il giudice Falcone. Ma dopo le stragi di quell' anno, che segnarono una svolta nella coscienza civile del Paese e una reazione da parte dello Stato, cosa mai è accaduto nel pianeta di Cosa Nostra e dintorni? Per anni è rimasto un enigma. Gli esperti giravano a vuoto, formulando mille ipotesi. Oggi dice Bolzoni: «È accaduto che un uomo, sin da piccolo rampollo di un capomafia, che a sua volta era il consigliori del numero due di Cosa Nostra, è diventato il faro dell' Antimafia nazionale». Sconcertante. Ma come è stato possibile? Davvero si può essere, nello stesso tempo, sia in odor di mafia che il guru dell' Antimafia? Una sfida alle leggi della gravità, condotta con brillante successo a Serradifalco, un comune siciliano di seimila anime in provincia di Caltanissetta, dove un uomo chiamato Calogero Antonio Montante, in arte Antonello, presidente di Sicindustria, è diventato il Giano bifronte della storia italiana. È accaduto che la Confindustria gli abbia dato in mano, dopo il 1992 delle stragi, le chiavi della "rivoluzione della legalità" in Italia, che il presidente della Repubblica Napolitano lo abbia nominato Cavaliere del lavoro, che il governo Renzi (su segnalazione dell' allora ministro degli Interni Angelino Alfano) lo abbia nominato uno dei responsabili dell' agenzia che gestisce i beni sequestrati alla mafia (fatturato: 50 miliardi di euro) e che tutti (governi nazionali e regionali, ministri e assessori, prefetture, questure, comandi dei carabinieri e della Finanza, procuratori, servizi segreti, imprenditori, sindacati, grande distribuzione, sanità, associazioni sociali) siano dovuti passare da lui per carriere, favori, affari, inchieste e iniziative contro l' illegalità. Sembra un incubo surrealista. Ma è stato lui, per anni, a rilasciare le patenti di onestà, seduto sul trono di un vero e proprio Califfato, come lo definisce Bolzoni. Quest' ultimo documenta oggi tutta la sconcertante vicenda in un libro destinato a spaccare in due la storia di mafia e antimafia (Il padrino dell' Antimafia. Una cronaca italiana sul potere infetto. Zolfo editore, pp. 312, euro 18, in uscita il 18 marzo). La domanda di partenza è sempre quella: cosa era successo a Cosa Nostra siciliana dopo le stragi, gli arresti dei grandi latitanti, la morte dei suoi capi storici, l' avvento della 'Ndrangheta? Serradifalco, il paese natìo del prodigio Montante, significa montagna del falco. «Un luogo da cui spiccare il volo, e volo rapace» scriveva Leonardo Sciascia nel suo Candido. Qui Cosa Nostra (o qualcosa di molto simile) ha dato vita alla sua ultima metamorfosi. Quando gli inquirenti, dopo una inchiesta durata anni, hanno fatto irruzione nella villa dell' icona dell' Antimafia, hanno trovato un enorme archivio per ricatti e la documentazione dell' esistenza di un servizio segreto che sarebbe improprio definire "parallelo", poiché era quello ufficiale dello Stato. E poi un elenco di nomi, incontri, circostanze da far impallidire anche la P2 di Licio Gelli, e che documentano il condizionamento diretto e continuato su tre governi regionali (Cuffaro, Lombardo, Crocetta), sempre passando da un asse privilegiato con il pidiessino Beppe Lumia. Un golpe silenzioso. Iniziato con uno storytelling inventato di sana pianta, una sceneggiata infarcita di fake news, nella quale però cadono tutti, anche i più avvertiti. Nel 2008 esce in libreria La volata di Calò. Nella prima parte un cronista e scrittore siciliano non certo sprovveduto, come Gaetano Savatteri, racconta l' epopea della famiglia Montante, che dagli anni Venti fabbrica mitiche biciclette. Dirà poi Savatteri a Bolzoni: «Montante mi aveva documentato tutto». Nella seconda parte del volume il più popolare scrittore italiano, Andrea Camilleri, ricorda che a bordo di una di quelle bici, regalatagli dalla zia Concettina, percorse nell' estate del '43 i 55 chilometri da Sferracavallo a Porto Empedocle, per avere notizie del padre dopo i bombardamenti. Ebbene, annota Bolzoni, si scoprirà alla fine dell' inchiesta giudiziaria che l' azienda di famiglia era una semplice officina di riparazioni meccaniche, che la bici dello scrittore allora giovane era probabilmente un singolo prototipo, che la fabbricazione di veicoli a pedale da parte di Montante inizia solo nel 2011, quando quelle bici "griffate" col marchio di famiglia verranno esposte negli aeroporti italiani come "simboli antimafia" e poi regalate a questure, politici, uomini delle istituzioni. La leggenda serviva a coprire la verità. Il 23 dicembre del 1980 il futuro cavaliere dell' Antimafia aveva sposato Antonella Ristagno. Testimoni sono Vincenzo Arnone, uomo d' onore di Serradifalco, suo padre Paolino, rappresentante di Cosa Nostra nel paese e consigliori del vice di Totò Riina nella cupola degli anni 80 e 90, Giuseppe "Piddu" Madonia. Presto arriveranno cinque pentiti che, sorpresi dalla "svolta antimafia" di Montante, racconteranno con dovizia di particolari la comune infanzia e adolescenza di Montante con gli Arnone, fino al "padrinaggio" di don Paolino sul ragazzo. Arriva così il primo avviso di garanzia per "concorso esterno". Montante reagisce: scatena una campagna ("Montante come Enzo Tortora"), inventa finti attentati e lauree ad honorem, carica le sue armi per fermare l' inchiesta della procura di Caltanissetta: intimidazioni, telefonate registrate, ricatti, pedinamenti. La sua maschera regge ancora nel 2015, quando è già indagato, nel rapporto annuale della Dia se ne parla come di un eroe. Bolzoni, intanto, conduce la più strana delle inchieste giornalistiche. Perché strana? I suoi primi articoli su Montante, pubblicati da Repubblica, cadono nel silenzio («anche tra i giornalisti c' è una concertazione per beatificare la nuova antimafia») e poi viene pedinato e intercettato sia dagli investigatori che conducono l' inchiesta ufficiale della procura, sia dalle spie di Montante. Bolzoni, nel frattempo, ha però scoperto anche i legami tra Montante e la famiglia Patti: sono accusati di essere prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro, con il re delle discariche Giuseppe Catanzaro e con quello della grande distribuzione Massimo Romano. Fino ai rapporti con Banca Nuova, che gestisce i fondi dell' intelligence italiana. Un sistema avvolgente, i cui dettagli verranno presto chiariti al cronista da due voci "da dentro": sono due manager che hanno lavorato fianco a fianco con Montante, ne hanno sofferto intimidazioni e ricatti, ne conoscono ogni segreto e adesso vogliono denunciare tutto.

MONTANTE IN FACCIA. Salvo Palazzolo per repubblica.it l'11 maggio 2019. Quattordici anni di carcere per Antonello Montante. Dopo due ore di camera di consiglio, la gup di Caltanissetta Graziella Luparello ha condannato l’ex responsabile legalità di Confindustria che si proclamava paladino dell’antimafia. Una condanna pesante, che va oltre le richieste del procuratore Amedeo Bertone, dell'aggiunto Gabriele Paci, dei sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, che avevano chiesto 10 anni e 6 mesi. Ed è una condanna scontata di un terzo, perché Montante aveva scelto di essere giudicato con il rito abbreviato, dunque a porte chiuse, e lui - l'onnipresente su giornali e tv - è diventato un imputato fantasma, non si è presentato neanche una volta in aula davanti al suo giudice. Condannati anche i componenti del “cerchio magico” di Montante: 6 anni e 4 mesi per Diego Di Simone, l’ex ispettore della squadra mobile di Palermo diventato il capo della security dell’associazione degli Industriali: era il più fedele scudiero di Montante per gli affari sporchi, dagli accessi abusivi nella banca dati delle forze dell’ordine (per costruire dossier) ai contatti con alcune misteriose talpe istituzionali che provavano a spiare i pubblici ministeri e la dirigente della Mobile, Marzia Giustolisi. Condannato pure Marco De Angelis, funzionario della questura di Palermo, a 4 anni: era il braccio operativo di Diego Di Simone. Tre anni a Gianfranco Ardizzone, l’ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta. Di rivelazione di notizie riservate e concorso esterno rispondeva Andrea Grassi, ex funzionario del Servizio centrale operativo della polizia oggi questore di Vibo Valentia: è stato condannato a 1 anno e 4 mesi (è stato assolto dal concorso esterno, non faceva parte della catena delle talpe di Montante). Assolto Alessandro Ferrara, ex dirigente generale delle Attività produttive, così come aveva chiesto la procura, rispondeva di false dichiarazioni.

Le dichiarazioni. Dice il procuratore Bertone: "Il dispositivo della sentenza dà largamente conto della fondatezza dell'accusa e dello straordinario lavoro che l'ufficio della procura di Caltanissetta ha svolto in questi anni e fa giustizia di alcune affermazioni che ho sentito durante il processo. Il sistema Montante è esistito per davvero. E la procura ha lavorato senza condizionamenti". Il procuratore aggiunto Paci ringrazia l'ex procuratore Sergio Lari, oggi in pensione: "Fu lui ad avviare l'indagine, ha avuto il merito di tenere sempre unito l'ufficio". Polemico invece uno dei legali di Montante, Giuseppe Panepinto, che ha difeso il leader di Confindustria con il professore Carlo Taormina: "Rivendichiamo la titolarità in capo a Montante di essere stato e di essere ancora il vessillo dell'antimafia e chi lo vuole abbattere è il potere mafioso che è riemerso, purtroppo allineato a quello giudiziario che inconsapevolmente sta dando un forte contributo alla sua vittoria". E attacca il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra: "Vergognose le sue esternazioni in questi giorni". Morra aveva annunciato l'acquisizione di tutte le carte dell'inchiesta Montante. E ora rilancia: "La sentenza e le relative condanne a Montante e ai suoi sodali, presunti servitori dello Stato, dimostrano definitivamente la gravità del cosiddetto sistema Montante. Mi aspetto prese di posizione nette e chiare dalla politica".

Le parti civili. Il giudice ha disposto anche il risarcimento alle parti civili. Cinquemila euro per la Regione Siciliana. La stessa cifra è stata riconosciuta a giornalisti, avvocati, professionisti, politici spiati da Montante: Graziella Lombardo, Attilio Bolzoni, Gioacchino Genchi, Salvatore Petrotto, Antonino Grippaldi, Gaetano Rabbito, Vladimiro Crisafulli, Pasquale Carlo Tornatore, Marco Benanti, Monica Marino, Fabio Marino, Gildo Matera, Umberto Cortese e Vincenzo Basso. Un risarcimento di 15mila euro ciascuno è stato riconosciuto a Gianpiero Casagni, Nicolò Marino e Pietro Di Vincenzo. Risarcimento da 10mila euro per Alfonso Cicero, 30mila euro per l'Ordine dei giornalisti di Sicilia e la Camera di commercio di Caltanissetta. Il risarcimento più alto è stato riconosciuto al Comune di Caltanissetta: 70mila euro.

L’inchiesta. Si conclude così la prima tranche dell’inchiesta sul sistema Montante, avviata nel giugno del 2014, dopo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che avevano parlato delle frequentazioni pericolose dell’ex presidente di Sicindustria protagonista della scelta antimafia dell’associazione degli industriali: aveva promesso l’espulsione di chi non denunciava il racket, ma in realtà nessun imprenditore compiacente con i clan è stato mai cacciato, e lui avrebbe continuato a intrattenere frequentazioni equivoche con gli Arnone di Serradifalco, don Paolino e Vincenzo, padre e figlio, suoi testimoni di nozze. Per quelle dichiarazioni dei pentiti - sono sette - Montante è ancora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel febbraio 2015, uno scoop di Repubblica svelò il vero volto di Montante. E a quel punto il cerchio magico si mise in moto per saperne di più, per spiare, per correre ai ripari.

Il processo. Un alto pezzo importante di questa storia procede invece col rito ordinario, dove sono imputati gli altri anelli della catena delle talpe che avrebbe spiato le indagini della procura e della squadra mobile di Caltanissetta. Nomi ai vertici delle istituzioni: Renato Schifani, ex presidente del Senato; Arturo Esposito, ex capo dell’Aisi, in cima alla lista, Giuseppe D’Agata, l’ex capo centro della Dia di Caltanissetta passato ai Sevizi e il tributarista Angelo Cuva. Montante poteva contare anche sui favori di uno dei gli imprenditori più importanti della grande distribuzione al Sud, Massimo Romano.

SERVIZI E SEGRETI. Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 12 maggio 2019. Si riapre il giallo delle talpe istituzionali che avrebbero soffiato notizie riservate sulle indagini ad Antonello Montante, il responsabile legalità di Confindustria condannato due giorni fa a 14 anni. La giudice che ha emesso la sentenza ha trasmesso alla procura - «per le valutazioni di competenza» - i verbali di due testimoni: Mario Parente e Valerio Blengini, il direttore e uno dei vice dell' Aisi, il servizio segreto civile. La gup Graziella Luparello chiede nuovi approfondimenti, erano stati gli stessi pm a sollecitarli, ma solo su Blengini. Al centro del caso, uno 007 imputato nel processo bis sul caso Montante, attualmente in corso: è Andrea Cavacece, chiamato in causa dalla procura di Caltanissetta per una spy story. Avrebbe saputo dell' indagine di Caltanissetta su uno dei fedelissimi di Montante, il colonnello Giuseppe D' Agata ( pure lui un funzionario dei Servizi), e avrebbe girato la notizia all' allora direttore dell' Aisi, il generale Arturo Esposito. L' informazione sarebbe poi passata all' ex presidente del Senato Renato Schifani, al tributarista palermitano Angelo Cuva e infine a D' Agata. Da Roma alla Sicilia, una sequenza di spifferi. Per questa ragione sono imputati Esposito, Schifani, Cuva e D' Agata. Quest' ultimo faceva il nome di Cavacece alla moglie, che gli chiedeva: « Quando ti avevano detto che lui c' aveva sotto controllo chi te l' aveva detto?». Risposta: «Cavacece, ma quasi un anno fa » . E la squadra mobile di Caltanissetta intercettava. Adesso, la giudice ribadisce che ci sono ancora tanti punti oscuri in questa vicenda. Con Montante è stato condannato ( a un anno e 4 mesi, per rivelazione di notizie riservate) un ex dirigente del Sevizio centrale operativo della polizia, Andrea Grassi: è stato ritenuto il primo passaggio della notizia riservata, anche se la gup ha escluso che il funzionario fosse parte della catena dei fedelissimi di Montante, Grassi è stato infatti assolto dall' accusa di concorso esterno in associazione a delinquere. Lui si è difeso dicendo che cercava solo informazioni su D' Agata per aiutare i colleghi di Caltanissetta. Ma, di fatto, la notizia dell' inchiesta arrivò ai Servizi. E qui iniziano le curiosità della giudice e della procura. Blengini ha spiegato che nel 2015 «durante un incontro con personale dello Sco per gli auguri di Natale, a un nostro collaboratore erano state chieste informazioni su D' Agata, tanto da indurlo a ritenere che vi fosse un' attività investigativa sul colonnello » . Blengini chiese chiarimenti a un suo vecchio amico, il questore di Caltanissetta Bruno Megale. «Gli chiesi conferma se avesse notizia di un' indagine su D' Agata perché bisognava valutare l' opportunità di trasferirlo in Sicilia » , ha spiegato il testimone. Il questore troncò l' argomento: «Si trincerò in un silenzio imbarazzato, mi rappresentò solo l' inopportunità di trasferire D' Agata in Sicilia». Megale fece subito una relazione di servizio. E oggi i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso continuano ad avere dubbi sulla versione di Blengini, tanto da aver chiesto la trasmissione del verbale del testimone, che dunque presto potrebbe diventare indagato. La gup Luparello ha inviato gli atti. E c' è anche il verbale del direttore Parente, l' ex generale del Ros che è stato sempre in prima linea contro le mafie, mai un' ombra in una carriera lunga quarant' anni. « Attendiamo di leggere le argomentazioni della giudice per capire il perché di questa trasmissione di atti», dicono in procura. Le motivazioni della sentenza arriveranno fra 90 giorni. Parente era stato sentito dall' avvocato di Cavacece, nell' ambito di un' indagine difensiva. All' epoca era il vice dell' Aisi: ha spiegato che Blengini gli raccontò di quelle domande su D' Agata, ha precisato « di non averne parlato né con Cavacece, né con il direttore Esposito, in quanto la notizia era indeterminata ». Ha aggiunto «di essersi dichiarato contrario quando Esposito propose di mandare D' Agata in Sicilia » . Da direttore, poi, Parente cacciò il colonnello alla prima occasione utile, « perché non si insospettisse » , un avviso di garanzia per un' altra inchiesta. D' Agata però sapeva qualcosa delle intercettazioni. La moglie sussurrava: « Gli puoi chiedere a Cavacece i telefonini che ti attribuiscono?».

·         Denunci la mafia ma non sai se lo Stato ti protegge. Il caso di Natale Giunta.

Denunci la mafia ma non sai se lo Stato ti protegge. Il caso di Natale Giunta, scrive venerdì 5 aprile Francesco Storace su Secolo d'Italia. Non è un paese normale. Lavori. Arriva il mafioso che pretende il pagamento del pizzo. Lo denunci. Comincia la tua seconda vita. Che è ancora più dura, perché non sei mai solo. Hai accanto a te angeli custodi che ti proteggono dai diavoli che ti pedinano. Poi, all’improvviso, ti tolgono gli amici, anche se il nemico che ti minaccia non vede l’ora di uscire dal carcere per fartela pagare. Anche se il mafioso ha i suoi compari in libertà pronti a scannarti. Ti rivolgi al Tar, che te la fa riassegnare. Ma solo in Sicilia. Signori e signore, ecco l’incredibile storia di Natale Giunta, chef siciliano di grande levatura, ospite di Elisa Isoardi a “La Prova del Cuoco“. E proprio la popolare conduttrice ci sta mettendo anima e cuore nel denunciare questa situazione assurda. Magari anche con un po’ di imbarazzo personale. Elisa è stata fidanzata di Matteo Salvini, ministro dell’Interno e sicuramente gliene avrà parlato. Il capo del Viminale farebbe bene a prendere in mano questa situazione, trascurata da troppi uomini dello staff suo o altrui.

Tutti condannati gli esattori del Pizzo. La vicenda di Natale Giunta si trascina dal 2012, quando alcuni malfattori entrarono nel suo ufficio per imporgli di pagare delle somme di denaro che dovevano servire per sostenere le famiglie dei mafiosi che si trovavano in carcere. In Sicilia si chiama “Pizzo”, Un minuto dopo lo chef denunciò tutto alle forze dell’ordine. Cambiò la sua vita. Decine di interrogatori. Faccia a faccia con i delinquenti. Processi. E cinque imputati condannati. Tutto finito? Macché. Intimidazioni a tutto spiano, minacce ai famigliari, madre compresa. Un cane rapito, ucciso e riportato a casa morto. Nel 2013 la scorta. “Tutela su autovettura non protetta”, corrispondente al 4° livello di rischio. Ma attentati e intimidazioni proseguono, di ogni genere. Voglia di vendetta. Avvertimenti. Distruzione dei locali dove lavora. Pallottole e tanto altro ancora. L’obiettivo è sempre lo stesso: seminare paura nella gente onesta. E’ sempre mafia. Dopo l’Antistato ci si mette lo Stato. Il 10 luglio 2018 il Viminale revoca la protezione. Comincia un’altra battaglia, in tribunale, alla fine “vince”. Sì, Natale Giunta conquista il diritto alla protezione, ma solo in Sicilia. Lo decide il Tar.

Elisa Isoardi mobilita le tv. Ma che roba è, viene da chiedere. E in televisione lo dice forte e chiaro proprio la Isoardi. E chiede aiuto anche ad Eleonora Daniele che fa la sua parte e lo intervista per “Storie italiane“. Se ne occuperanno anche altri e lo fa pure il nostro giornale. Perché è indecente quanto sta accadendo. Se Natale Giunta sale a Roma, come in Lombardia o nella vicina Calabria, viaggia da solo. In pericolo. Ma come deve vivere un cittadino onesto che denuncia i mafiosi? Non è Roberto Saviano. Non ha scritto un libro, ma ha firmato verbali di polizia, ha testimoniato nei processi. Eppure Natale Giunta viene lasciato solo. Da chi lo deve proteggere, che si chiama Stato. C’è un dovere civico quando un siciliano denuncia altri siciliani. Perché da una parte c’è il lavoro assieme al rispetto della legge, e dall’altra la prepotenza del delinquente. Non ci possono essere dubbi sulla parte con cui schierarsi. Noi continueremo a parlarne fino a che non si risolva questa storia vergognosa.

·         Interdittiva antimafia e comunicazione antimafia: le differenze.

Interdittiva antimafia e comunicazione antimafia: le differenze. Giurdanella 26 Luglio 2018. Il Tar sulle differenze e similitudini tra intedittiva e comunicazioni antimafia e sui presupposti delle interdittive prefettizie. Il Tar Toscana, Sez. II, con la sentenza n. 910 del 6 giugno 2018, si è pronunciato sulle differenze sussistenti tra l’interdittiva e la comunicazione antimafia, entrambe presenti all’interno dell’articolo 84 del d. lgs. 159/2011, e sui presupposti per l’emanazione del provvedimento interdittivo. Il Tar (Tar Toscana, Sez. II, 6 giugno 2018 n. 910) ha accertato il principio per cui il Prefetto nell’emanazione del provvedimento interdittivo, essendo quest’ultimo per sua stessa natura discrezionale, deve valutare una serie di indici fattuali che devono condurre verso una chiara situazione di infiltrazione mafiosa, secondo la logica del “più probabile che non”. Nel caso in esame, per il Tar Toscana, non basta la sola cessione del ramo d’aziendaper accertare tale quadro fattuale. Con la presente sentenza, il Tar Toscana ha accolto la richiesta di annullamento dei provvedimenti emessi dalla Prefettura di Lucca, avuto riscontro quanto sostenuto dal ricorrente, il quale deduceva che il condizionamento criminale sull’impresa colpita dall’interdittiva era desunto unicamente dall’affitto dell’azienda agricola, cessione che da sola non poteva giustificare l’ordinanza prefettizia. I provvedimenti ex art. 84, d. lgs. 159/2011, quale tutela per l’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. In generale il Collegio si è soffermato sulla valenza garantistica ricoperta dai provvedimenti interdittivi, esempio classico della “forma di tutela avanzata avverso il fenomeno della penetrazione della mafia nell’economia legale” e ha ricordato, inoltre, che l’emissione di tali provvedimenti, come statuito dal Consiglio di Stato attraverso l’Adunanza Plenaria del 6 aprile 2018 n. 3, implica l’esclusione dell’imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le Pubbliche Amministrazioni, comportandogli una particolare forma d’incapacità giuridica.

Differenze tra la comunicazione e l’interdittiva antimafia. Il Tribunale nel motivare tale accoglimento ha evidenziato la differenza versante tra la comunicazione e l’interdittiva antimafia. In particolare, la comunicazione consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del medesimo d.lgs. n. 159/2011; l’interdittiva, ulteriormente alle circostanze appena delineate, può configurare anche la ulteriore sussistenza di tentativi d’infiltrazione mafiosa volti al controllo delle scelte e degli indirizzi di un’impresa soggetta ai controlli in materia. Al contempo il Collegio ha sostenuto che l’interdittiva antimafia, a differenza della comunicazione, si dispone tramite una ponderazione discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi d’infiltrazione mafiosa, i quali devono risultare evidenti da specifici elementi fattuali che devono delineare indici certi e sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali. La necessaria valutazione complessiva dell’azienda ai fini dell’emanazione dell’interdittiva antimafia: non è sufficiente la cessione del ramo d’azienda. In tale sede, il Tar ha appurato che l’affitto del ramo di azienda, nonostante in via astratta possa essere sintomatico del pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa, non è stata accertato all’interno di un quadro fattuale volto a dimostrare che fosse in atto un tentativo di condizionamento nei confronti del ricorrente, risultando non decisivo ai fini di una possibile ordinanza interdittiva. Richiamando le sentenze del Consiglio di Stato (sez. III, 28 dicembre 2016 n. 5509; 29 dicembre 2016, n. 5533), e ricordando che il Prefetto nell’esercizio dei suoi poteri deve basarsi su fatti ed episodi i quali nel loro insieme configurino un quadro indiziario univoco e concordante avente valore sintomatico del pericolo di infiltrazioni mafiose nella gestione dell’impresa esaminata, il Collegio ha statuito definitivamente accogliendo il ricorso del ricorrente e provvedendo all’annullamento dei provvedimenti impugnati. Si riporta di seguito il testo della sentenza Tar Toscana, Sez. II, 6 giugno 2018 n. 910

·         Interdittiva antimafia. Il criterio del "più probabile che non”.

Interdittive antimafia: più 56% in quattro anni. Secondo l’Anac di Raffaele Cantone, le società sospese per sospetto di infiltrazioni mafiose sono state 1.922 dal 2015 al 2018. Maurizio Tortorella il 6 giugno 2019 su Panorama. Una crescita del 56% negli ultimi quattro anni: sta aumentando con rapidità il numero delle interdittive antimafia, lo strumento amministrativo che consente al prefetto di sospendere l’attività economica di una qualsiasi società per il sospetto di un collegamento con il crimine organizzato. L’Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, che oggi ha svolto la sua relazione annuale al Parlamento, ha elaborato appositamente per Panorama.it questi dati relativi agli ultimi anni. Tra il primo gennaio 2015 e il 31 dicembre 2018, il totale delle interdittive è stato di 1.922, un quinto delle quali al Nord. La crescita è stata continua: 366 ordinanze nel 2015, 411 nel 2016, 572 nel 2017 e 573 nel 2018. Tra il primo e l’ultimo anno, la crescita è stata del 56%. In base ai dati in possesso dell’Anac, la Lombardia da sola vale poco più del 6,5% del totale delle interdittive: tra 2015 e 2018, i prefetti lombardi ne hanno emesse in totale 126 (36 hanno riguardato società con la sede a Milano, 23 a Como, 20 a Mantova). L’Anac dispone di questi dati perché le interdittive antimafia emesse dalle varie prefetture vengono comunicate e annotate nel Casellario informatico delle imprese, che è gestito dall’Anac stessa e contiene informazioni utili per le amministrazioni pubbliche che devono assegnare un appalto. Le interdittive di cui ha cognizione l’Anac, però, riguardano soltanto operatori economici che partecipano ad appalti pubblici: quindi il totale complessivo è probabilmente più elevato, in quanto una società colpita da interdittiva che gestisce un ristorante, per esempio, non risulta nel Casellario Anac.  

CONSIGLIO DI STATO. I presupposti e la ratio dell'interdittiva antimafia. Rodolfo Murra (6 marzo 2019) su Il Quotidiano della pubblica Amministrazione.  Il Supremo Consesso sviscera il tema dell'influenza dei rapporti familiari come elemento fondante il provvedimento interdittivo. Il Prefetto di Napoli disponeva una interditta antimafia nei confronti di una società operante nel settore dei lavori pubblici: il provvedimento si fondava sostanzialmente su due elementi: a) il procedimento penale nei confronti della figlia del legale rappresentante per il delitto di cui all’art. 12 quinques, L. n. 356 del 1992; b) il vincolo filiale tra l’amministratore unico della società ricorrente e la moglie di un soggetto attinto da procedimenti penali. Con ricorso al TAR la società faceva rilevare da un lato che, però, nessun collegamento esisteva tra il predetto amministratore e la malavita, né c’erano intercettazioni in tal senso e, dall’altro, che la figlia dell’amministratore stesso non apparteneva alla criminalità organizzata, avendo fatto semplicemente una scelta “sentimentale” opinabile, diventando coniuge di un soggetto attinto da procedimento penale, ma che di certo non può e soprattutto non deve incidere sulla vita del padre (che operava ininterrottamente nel settore dei lavori pubblici dal lontano 1973), riportando sempre una condotta esemplare ed ottenendo informative liberatorie. Infine, il Prefetto non aveva considerato che l’amministratore vive da solo e che non ha nessun contatto con la figlia che, tra l’altro, risiede in un paese diverso rispetto a quello del padre. Il TAR Napoli rigettava il ricorso con sentenza del 2018, e da qui l’appello proposto al Consiglio di Stato.

I giudici di secondo grado (III Sezione) hanno respinto il gravame con sentenza n. 1553 del 6 marzo 2019. In punto di fatto il Collegio ha ritenuto assorbente la considerazione che l’amministratore unico della società fosse comunque il fratello di un noto capo di un celebre clan camorristico, destinatario di plurimi provvedimenti restrittivi della libertà personale, reiterati nel tempo. A tale stretta vicinanza agli ambienti mafiosi si aggiunge, quale elemento indiziario di permeabilità alla criminalità organizzata della società, che l’amministratore fosse intervenuto nell'acquisto di un appartamento a favore della figlia, provvedendo a pagare il relativo prezzo sei giorni prima della stipula del contratto di compravendita, e dimostrando così di essere permeabile alle richieste dell’esponente del clan che ne aveva gestito la negoziazione. Altro elemento indiziario era dato da recenti accertamenti sul territorio dai quali risultavano (a seguito di servizi di pedinamento e controllo) contatti della donna con componenti della famiglia criminale. Tale coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Napoli sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’Autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati. Ciò premesso il Collegio ha rilevato, sotto il profilo giuridico, che l’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pubblica amministrazione, che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con l’Amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente. Si tratta cioè di provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; costituisce una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche. L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette Amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (come ricorreva nel caso di specie) essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”. Pur essendo necessario che nell’interdittiva antimafia siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione, non è invece necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo. Il rischio di inquinamento mafioso deve essere, dunque, valutato in base al criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, quale è, anzitutto, anche quello mafioso. L’art. 84, comma 3, D.L.vo n. 159 del 2011 riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, potendo essere anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento. L’introduzione delle misure di prevenzione, come quella qui in esame, è stata la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata.

Una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia. La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi. Il Collegio, infine, ha aggiunto che gli elementi raccolti dalla Prefettura non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. E dunque è stato chiarito che - quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose - l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali), che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).

Tar Calabria, aumentati ricorsi su interdittive antimafia. Cn24Tv 15 febbraio 2018. Sessantadue ricorsi in materia di interdittiva antimafia: sono i numero delle istanze presentata al Tribunale amministrativo regionale della Calabria nel 2017. Di questi 39 ricorsi sopravvenuti e una media di 40 ricorsi all’anno, numeri superiori a quello di ogni altro Tar. Il dato lo ha evidenziato il presidente del Tar Calabria, Vincenzo Salamone, parlando con i giornalisti in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della giustizia amministrativa catanzarese. Salamone ha dunque spiegato di un aumento consistente delle istanze, dal momento che si tratta di “ricorsi molto complessi” ha affermato, spiegando come gli stessi vengano finiti “con celerità perché – ha aggiunto - riguardano la vita economica della Calabria. “Le interdittive antimafia – ha proseguito Salomone - certamente hanno un impatto negativo sulla vita economica della Regione, ma se non si fa pulizia l’economia legale cede il passo a quella illegale”. Il Tar risulta uno dei più efficienti: negli ultimi 4 anni, come confermato dal suo presidente, sono stati portati avanti infatti “oltre 10mila ricorsi pendenti a 43000, con una durata media dei processi di 700 giorni, 352 giorni in meno rispetto all’anno precedente, un dato che è il migliore tra quelli dei Tar del Sud”. In tema di sanità i giudici amministrativi hanno emesso circa 70 sentenze, con particolare riferimento alle prestazioni ospedaliere e ai tetti di spesa delle strutture accreditate. Una situazione strana, dal momento che in Calabria il commissario non è il presidente della Regione.

Le (tante) interdittive Antimafia bocciate della Prefettura di Reggio. Informative “carenti”. Ditte bloccate senza che vi fosse il “sospetto” che vi fosse il legale con la ‘Ndrangheta. Casellari  giudiziali consultati male. Assoluzioni dimenticate. Pablo Petrasso. Corriere della Calabria 11 settembre 2018. Informative “carenti di circostanze ed elementi indiziari” capaci “di provare una imminente situazione di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi”. Errori materiali e sviste sottolineate dai giudici del Tar. Si potrebbe dire che a Reggio Calabria un’interdittiva antimafia non si nega a nessuno. Ma – capovolgendo il senso di un celebre spot – non è per sempre. I casi di sonore bocciature della giustizia amministrativa non mancano. E al caso “Catanzaro” se ne affianca un altro in riva allo Stretto. E c’è un piccolo campionario di stroncature che, a volte, arriva addirittura a criticare l’architettura di base dei provvedimenti. Al punto da pensare, quasi, a uno “scontro istituzionale” sull’interpretazione degli atti. Perché le censure del Tar sembrano mini lezioni di diritto amministrativo e non vere e proprie sentenze.

Nessun Sospetto. Come nel caso di un’azienda motivato dai legami familiari della propria legale rappresentante: “L’Amministratore unico della cooperativa sociale in argomento è coniugata e convivente con un soggetto inserito in un contesto familiare a cui fanno parte soggetti gravati da pregnanti vicende giudiziarie, alcune dei quali ritenuti elementi di spicco dell’omonimo sodalizio mafioso operante nel territorio reggino, evidenziando la presenza di significative e concordanti connotazioni di tentativi di condizionamento da parte della criminalità organizzata”. Per i giudici non basta, perché “non sono stati prodotti da parte delle intimate amministrazioni atti o elementi concreti, al di là dei vincoli parentali dell’amministratore unico della cooperativa, dai quale sia possibile desumere la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa o dai quali risulti che l’attività di impresa, che, va ricordato, è una cooperativa senza fine di lucro, possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose”. E Poi “negli ultimi quindici anni, in cui per altro la parabola criminale del coniuge della signora – omissis- ha raggiunto l’apice, ma gli organi preposti hanno segnalato alcunchè sul conto della cooperativa oggi interdetta”. E “ non è stato offerto il benchè minimo indizio di coinvolgimento del – omissis – nella gestione o anche nelle ordinarie attività della cooperativa sociale”. Come se non bastasse “ non sono emerse notizie di coinvolgimento alcuno da parte della –omissis – e degli altri soci con altri esponenti della criminalità organizzata”. La bocciatura è chiara: “Non è emersa alcuna operazione societaria sospetta che potesse corroborare, si badi, il mero sospetto, non la prova, che la cooperativa in discorso sia asservita alle logiche della consorteria criminale”.

Ma quale interdittiva? Ci si sposta nel Comune di Ardore. Qui, l’amministrazione ha revocato le Scia( segnalazioni certificate di inizio attività) a una ditta sulla base di una nota della prefettura, “ senza valutare la circostanza che l’informativa interdittiva, oltre ad essere risalente nel tempo, riguarda, altresì, una diversa impresa, già da anni cancellata dal registro delle imprese, di cui il sig. – omissis -era il legale rappresentante”. Non c’erano più rapporti tra il titolare dell’azienda e un soggetto indicato come vicino ai clan, né con uno zio dai trascorsi poco raccomandabili, dopo “la cancellazione dal registro delle imprese (in data 31 dicembre 2014) dell’impresa edile - omissis -, per conto della quale il suddetto soggetto esercitava la propria attività lavorativa”. Il Comune ci ha messo del suo, perché ha bloccato l’impresa soltanto sulla base di una nota trasmessa dalla Prefettura di Reggio Calabria il 22 gennaio 2018. L’ente locale ha considerato come interdittiva antimafia quando si trattava di una nota interlocutoria. Una leggerezza sanzionata dai giudici qualche settimana fa.

Imputato per sbaglio. Nella piana di Gioia Tauro, invece, la tagliola ha colpito una ditta che si occupa del deposito di oli minerali. In questo caso, il presupposto dell’interdittiva “è costituito dalla asserita sussistenza in capo all’amministratore di un’imputazione (turbata libertà degli incanti) rientrante tra quelle che rivelano l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa dando luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva”. Il Problema è che si tratta di un errore materiale: infatti è “emerso, dal certificato dei carichi pendenti rilasciato in data 5 gennaio 2018 dalla Procura della Repubblica di Palmi, prodotto in giudizio dalla società ricorrente, che alcuna imputazione per il reato di turbata libertà degli incanti risulta formulata a carico” dell’uomo. Se ne accorge anche la prefettura, dopo qualche tempo, tanto da emettere un provvedimento liberatorio nel maggio scorso, “ nella quale si dà atto che la mancata imputazione dell’imprenditore in relazione ad alcuna fattispecie individuate dall’art. 84 Dlgs 159/2011 determina l’assenza di elementi da cui sia possibile desumere tentativi di infiltrazione mafiosa dell’impresa”. Contrordine, dunque, l’impresa non è mafiosa.

L’assoluzione dimenticata. Non lo è neppure una società alla quale era stato inizialmente vietato di iscriversi nella white list dell’Autorità Portuale di Gioua Tauro. “Risulta evidente – scrivono i giudici del Tara – che il provvedimento prefettizio impugnato poggia su risultanze istruttorie parziali, che non tengono conto di determinazioni giurisdizionali, sia amministrative che penali, che nel tempo hanno significativamente inciso sugli elementi raccolti nei riguardi dei – omissis -,componendo così un quadro indiziario del tutto insufficiente a palesare un attuale pericolo di infiltrazione mafiosa nei confronti della società ricorrente”. A sostegno dell’interdittiva la Prefettura di Reggio Calabria porta elementi che il Tar considera incompleti e inattuali e, pertanto, insufficienti a sorreggere un giudizio di pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa”. Si tratta di due interdittive, una delle quali era stata annullata dal tar del Lazio e l’altro era sub judice, e dell’imputazione – a carico di un o degli imprenditori – in un processo per concorso in turbativa d’asta. Il fatto è che quel procedimento si era chiuso con l’assoluzione, menzionata però soltanto in una nota dell’interditiva.

C’è del Marcio in Prefettura…Paolo Pollichieni 29 agosto 2018 su Il Corriere della Calabria. Ma che succede al Viminale? E che va capitando nelle prefetture calabresi? E, più in generale, nel delicato settore delle interdittive antimafia alle aziende e delle nomine dei commissari prefettizi dopo lo scioglimento di comuni per sospette infiltrazioni? A porre interrogativi imbarazzanti non sono più singole istituzioni locali o interessati imprenditori. Da ultimo anche diversi tribunali amministrativi, e lo stesso Consiglio di Stato, hanno ritenuto necessario trasmettere atti alle procure della Repubblica competenti, sollecitando una verifica nel merito di alcune decisioni prefettizie. Su questo contesto già sovraccarico di perplessità circa un ruolo politico, esercitato da alcuni organi di governo, ecco abbattersi oggi anche l’ira del Quirinale. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha per nulla gradito la sorpresa di aver firmato un decreto di nomina con il quale mette alla guida della gestione commissariale di un comune sciolto per mafia e fortemente strategico nell’ambito delle indagini sulla criminalità mafiosa, un viceprefetto a sua volta indagato per rivelazione di segreti d’ufficio  e abuso di potere in vantaggio di una ditta padana e ai danni di altra azienda siciliana. E siccome quando c’è una rogna la Calabria risponde sempre “presente”, ecco che anche questa imbarazzante pagina istituzionale si radica, appunto, in Calabria.

Il 19 agosto scorso Mattarella firma la nomina del viceprefetto Pasquale Aversa, in servizio alla Prefettura di Padova, a commissario prefettizio per il Comune di Gioia Tauro, sciolto per infiltrazioni mafiose. Un incarico delicato in un posto delicato: Gioia Tauro è la città del Porto ed è la culla di quella che Pino Arlacchi battezzò come “la mafia Imprenditrice”. Nessuno si è premurato di informare Mattarella del fatto che il viceprefetto Aversa era in ferie e doveva lasciare Padova per una brutta rogna, essendo indagato dalla procura della città del Santo per rivelazione di atti d’ufficio e favoreggiamento personale. Nulla di accertato, per amor del cielo, magari presto si scoprirà l’assoluta innocenza del viceprefetto inquisito, ma non è proprio forzando la lettura di atti giudiziari che spesso vengono mosse interdittive a imprese e sciolti comuni a sospetto di infiltrazione mafiosa? Ecco, forse non era il caso di nominare un indagato a commissario Prefettizio di Gioia Tauro. Almeno così la leggono i collaboratori di Sergio Mattarella che, in queste ore, si ritrovano a chiedere conto al Viminale su questa e altre “singolarità” che farebbero temere su un eccessivo abbassamento della qualità fin qui garantita dal circuito prefettizio del ministero dell’interno.

Se a questo si aggiunge (e, ahinoi, si aggiunge eccome…) che il Tar di Catanzaro, in sincronia con quello di Firenze, bocciano, in via di accertamento pregiudiziale, delle interdittive ad aziende, operate dalle prefetture di Catanzaro e Prato con un danno patrimoniale accertato di oltre 40 milioni di euro e , nel farlo, i due tribunali amministrativi dispongono ulteriori accertamenti sull’operato del ministero dell’Interno e sollecitano l’intervento della magistratura ordinaria, ecco che il quadro diventa ancora più destabilizzante. Ma non è finita, perché arriva anche la notizia che gli ultimi otto anni di attività della prefettura di Crotone son oggetto di indagine da parte della procura distrettuale antimafia di Catanzaro. In proposito, fischiano le orecchie anche al nuovo titolare del Viminale, Matteo Salvini, perché oggetto dell’indagine del procuratore distrettuale Nicola Gratteri e del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto sono proprio i flussi finanziari, enormi, che quella Prefettura ha gestito con riferimento al più grande centro di accoglienza per immigrati esistente in Europa: il famigerato Cara di Isola di Capo Rizzuto. Al centro dell’indagine, nata da una costola dell’operazione “Jonny”, che portò ad una retata eccellente, dimostrando il controllo degli appalti da parte della cosca degli Arena, attraverso la società “Il Quadrifoglio”, che dalla prefettura aveva ottenuto la gestione della mensa per gli extracomunitari. Tale società, cattati gli arresti, è stata commissariata dal Tribunale di Catanzaro e affidata a custodi giudiziari. Successivamente, è stata affiancata da altra azienda, la Ristorart che, tuttavia, prima di farlo, aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione della prefettura. Dopo due anni da tale autorizzazione, e mentre la “Quadrifoglio” otteneva e manteneva dalla prefettura anche la gestione (su incarico diretto) della mensa della Questura Crotonese, la Ristorart si è vista raggiungere da un interdittiva proprio in ragione dei rapporti con tale azienda. L’interdittiva viene adottata dalla Prefettura di Prato, avendo in quella città la sede legale la Ristorart, si potrebbe pensare a un cattivo funzionamento delle comunicazioni tra le Prefetture di Crotone, Catanzaro e Prato. Ci può stare, ma ecco che dalle prime indagini sarebbero emerse singolari coincidenze.

Anche qui, per carità, tutto ancora deve essere valutato e soppesato e ben per questo ci saranno le necessarie indagini, ma alcuni punti fermi già esistono: il prefetto di Prato che firma l’interdittiva è Rosalba Scialla che, nel 2010, lavorava proprio come viceprefetto nella prefettura di Crotone. Erano gli anni d’oro del centrodestra calabrese, gli imprenditori della ”Quadrifoglio” avevano un ruolo politico di grande evidenza. Lo stesso lavoro della viceprefetto Scialla era apprezzatissimo, al punto da spingere la Corte d’appello a nominarla presidente della commissione elettorale per la provincia di Crotone. Erano gli anni in cui Crotone aveva grande visibilità istituzionale: Scipelliti aveva stravinto le Regionali e aveva voluto come vicepresidente della giunta Antonella Stasi, imprenditrice di successo di Crotone. Avrà altri incarichi delicati come quello di commissario prefettizio in due comuni calabresi sciolti per mafia: Corigliano Calabro e Siderno. E anche su quest’ultimo incarico non mancano oggi le polemiche per via di una iniziativa assunta dall’ormai ex sindaco Pietro Fuda, che ha trascinato in giudizio (prima udienza il 5 settembre prossimo) i commissari prefettizi per supposti danni erariali procurati alle casse comunali con concessione dei tributi a una società che poi sarebbe fuggita con la cassa. E’ stata questa l’ultima iniziativa del sindaco Fuda: poche settimane dopo, il suo comune è stato sciolto per supposte infiltrazioni criminali. Inutile dire che Fuda ha giurato Battaglia.

Prima di lasciare la Calabria, comunque, Rosalba Scialla verrà assegnata dal Consiglio regionale della Calabria, Milano, dove è facile ritrovare molti calabresi illustri, come l’avvocato catanzarese Michele Aiello, legale di fiducia dell’ex Ministro dell’Interno e Governatore della Lombardia Roberto Maroni. Anche a Milano farà un ottimo lavoro e avrà modo di conoscere un’altra donna di successo, oggi prefetto di Catanzaro, Francesca Ferrandino. Entrambe, infatti, durante la loro permanenza in servizio presso la Prefettura di Milano faranno parte del “Comitato metropolitano di Milano”,. Un incarico delicato in territorio governato dalla Lega che, alle origini, voleva abolire le Prefetture…Insomma, c’è quanto basta per chiedersi cosa capita al Viminale, dove appare evidente che il ruolo politico, ieri come oggi, assorba totalmente i responsabili governativi del dicastero, finendo con il lasciare tutto in mano ai capi di gabinetto. Che pure sono diretta emanazione del Ministro. Ieri Marco Minniti, oggi Matteo Salvini, hanno scelto in assoluta autonomia il capo di gabinetto, scelte che, però, non sono sembrate baciate dalla buona sorte. Con Minniti, Mario Morcone, che nel diventare suo capo di gabinetto lasciò il delicato ruolo di direttore del dipartimento Immigrazione, quindi responsabile della gestione dei Cara. Con Salvini, Matteo Piantedosi, che in meno di due mesi si è ritrovato nel registro degli indagati per l’indagine della Procura di Agrigento sui derelitti “soccorsi” da nave Diciotti, per non dire dell’imbarazzante vicenda che ha fatto infuriare Mattarella. In circostanze come queste gli inglesi usano una frase poco elegante, ma sicuramente descrittiva: “la cacca è finita nel ventilatore”.

Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa. Simona Musco il 4 Novembre 2017 su Il Dubbio.  Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi ( circa 2000 in cinque anni) e annullamenti ( tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in se- guito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Le interdittive prefettizie antimafia: inutili, punitive e antieconomiche. Quando per combattere la mafia, si colpisce anche l’economia positiva. I limiti dell’interdittiva antimafia. Andrea Cuzzocrea il  30 Ottobre 2018 su Il Circolaccio. Non capita spesso che qualcuno abbia l’ardire di organizzare un convegno sul tema delle interdittive prefettizie antimafia. A questo argomento sono stati dedicati i lavori dell’ultima sessione delle “Giornate Repubblicane”, evento organizzato dal partito dell’edera a Reggio Calabria con l’ambizioso appellativo “Il tempo della politica responsabile”. Da uditore mi è sembrato, però, che sia rimasto sottotraccia proprio il tema del limite di un istituto che, lungi dal raggiungere l’obiettivo per cui è stato pensato, è ormai da ritenere, a mio avviso, una delle principali cause della drammatica condizione economica in cui versa la provincia di Reggio Calabria. Tutti i relatori hanno meritoriamente denunciato le conseguenze estremamente negative che hanno sotto il profilo economico certi modi di applicare determinate misure di prevenzione antimafia senza, peraltro, contribuire in termini di efficacia sul versante repressivo. Ed è emerso in tutta la sua evidenza un grande paradosso: l’interesse generale ad affrontare la questione è inversamente proporzionale all’incidenza che essa ha in termini di soffocamento di legittime iniziative imprenditoriali. Certo, il dibattito avrebbe potuto fornire gli elementi sostanziali per la comprensione della misura delle interdittive prefettizie in relazione alla loro genesi fondativa, alla loro originaria funzione e, soprattutto, in relazione all’evoluzione che nel tempo la misura ha subito stravolgendone gli obiettivi. A partire da un principio che la dottrina e la giurisprudenza che nel tempo si sono occupate della materia non hanno mai perso l’occasione di ribadire: l’informativa prefettizia non dovendo dimostrare l’intervenuta infiltrazione, essendo sufficiente la sussistenza di elementi dai quali sia desumibile un semplice tentativo di ingerenza, deve sempre essere orientata al mantenimento di un giusto equilibrio tra due interessi contrapposti.

Da un lato la presunzione di innocenza ( art. 17 della Cost.) e soprattutto la libertà di impresa ( Art. 41 Cost.) e dall’altro un’efficace repressione della criminalità organizzata. E’ la continua ricerca del contemperamento di queste due esigenze, la continua ricerca di un punto di equilibrio, che dovrebbe guidare la mano degli attori chiamati a pronunciarsi sulla delicata materia. A questo punto la domanda sorge spontanea: di questo equilibrio si tiene conto nella prassi applicativa? È essa improntata a principi di cautela? O i fatti dimostrano che lo strumento, lungi dall’essere preventivo, per come era stato pensato, si è nel tempo trasformato in uno strumento esclusivamente punitivo? Basta guardare in faccia con approccio laico e principio di realtà cosa è successo in questi anni. Nella prassi applicativa, peraltro per nulla omogenea, i presupposti valorizzati dalle Prefetture per comminare la misura interdittiva si sono via via allargati fino al punto che oggi la giurisprudenza del Consiglio di Stato li definisce un “catalogo aperto”. Non solo, mentre un tempo, le “libere indagini” svolte da un Prefetto dovevano quantomeno fare riferimento ad un quadro indiziario composito oggi, ( si badi bene, a legislazione invariata) è sufficiente persino un solo elemento, anche risalente nel tempo, soggettivamente interpretato in perfetto stile inquisitorio, senza contraddittorio, ad essere giudicato sintomatico di un “tentativo” di infiltrazione mafiosa. Tentativo che potrebbe persino essere ordito alle spalle dell’imprenditore. Al punto che ormai siamo in regime di assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto, che gode di discrezionalità pressoché arbitraria, di emettere le interdittive. Ed in numero talmente elevato da apparire davvero poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga da antichi spettri di diritto di Polizia e di pene del sospetto. D’altronde basta guardare i numeri resi ( per la prima volta) pubblici dalla relazione che la Dia ogni anno trasmette al Parlamento; 197 interdittive in Calabria nel corso dell’anno 2017 a fronte delle 60 della Campania presa come metro di paragone per la presunzione di analoga pervasività delle organizzazioni mafiose. Parametrando il valore assoluto al numero di abitanti delle due Regioni è come se in Calabria ci fossero state il 900% in più di interdittive rispetto alla Campania a definitiva dimostrazione, da un lato, della totale discrezionalità che avvolge la materia, dall’altro, di quanto sia influente, sul thema decidendum, la retorica narrazione antimafia che prevale nel dibattito dalle nostre parti. Con la nefasta conseguenza che il destinatario del provvedimento prefettizio finisce con l’essere esposto all’arbitrio dell’organo amministrativo competente a rilasciare la informativa correndo il rischio di vedere dissolti in un istante sulla base di una decisione potestativa unilaterale i sacrifici di una vita. Ed ancora si può davvero tollerare che una misura così restrittiva di libertà fondamentali dell’imprenditore, così gravida di effetti devastanti sulla sua situazione economico patrimoniale, nonché sulla situazione occupazionale dei suoi dipendenti, sia lasciata ad una decisione arbitraria del Prefetto a causa di una disposizione di legge che non indica neanche sommariamente i presupposti e che lascia nelle sue mani poteri investigativi e poteri decisionali? Ecco perché non è più procrastinabile una coraggiosa azione di sistema, con maggiore senso di consapevolezza e responsabilità. Ed ecco la necessità di sostenere con maggiore determinazione l’iniziativa del Partito Radicale e di “Mezzogiorno in Movimento” di raccolta firme per le otto proposte di Legge di iniziativa popolare tra cui le due che si propongono di modificare in senso più democratico e liberale le Leggi sulle interdittive antimafia e sullo scioglimento dei Comuni. Fa davvero specie che in questo scenario non ci sia una forte e responsabile presa di posizione delle associazioni di categoria, dei sindacati, del Sindaco della città metropolitana. E’ così complicato capire che impegnarsi tutti insieme per mettere fine a queste ingiustizie non significa affatto fare il gioco delle mafie quanto piuttosto impegnarsi nella costruzione di una società più giusta, più aderente ai principi costituzionali, persino più forte per combattere davvero ogni forma di illegalità e di criminalità?

·         Interdittiva antimafia. Perseguitato dai burocrati: suicida Rocco Greco.

Denuncia i boss, lo Stato lo punisce: suicida l'imprenditore antiracket. Gela, Greco era stato accusato dagli estorsori di avere rapporti con la mafia: assolto in tribunale. Ma dal prefetto arriva l'interdittiva e lui perde gli appalti. "Oppormi al pizzo mi è costato caro", scrive Salvo Palazzolo e Francesco Patanè l'1 marzo 2019 su La Repubblica. "Denunciare i boss del pizzo mi è costato caro", ripeteva alla moglie negli ultimi tempi. Rocco Greco, l'imprenditore simbolo della lotta al racket nella frontiera di Gela, si è sparato un colpo di pistola alla tempia. "Era finito dentro una storia paradossale", sussurra il figlio Francesco. "I mafiosi che aveva fatto condannare lo avevano denunciato. Ma, poi, ovviamente, era arrivata l'assoluzione. Il giudice aveva ribadito che Rocco Greco era stato vittima della mafia, non socio in affari dei boss". Ma non è bastata una sentenza di assoluzione. Nell'ottobre scorso, il ministero dell'Interno ha negato alla ditta dell'imprenditore gelese, la "Cosiam srl", l'iscrizione nella white list per i lavori di ricostruzione dopo il terremoto in centro Italia. "Nel corso degli anni ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese". Questo ha scritto la "Struttura di missione antimafia sisma". "Ma come si fa a dimenticare che aveva denunciato?", ripete l'avvocato Alfredo Galasso, storico legale di tante parti civili a Palermo. "Proprio con la denuncia aveva scelto di non essere più supino a quel sistema che vigeva a Gela". Nel 2007, Rocco Greco non solo aveva denunciato i boss della Stidda e di Cosa nostra che si dividevano il pizzo. Aveva anche convinto altri sette imprenditori a fare la sua stessa scelta. "Era la primavera di Gela - dice oggi il figlio - mio padre ne andava orgoglioso. Ma non era stato affatto semplice. All'epoca, però, si respirava un'aria nuova in questa parte di Sicilia, anche grazie all'allora sindaco Rosario Crocetta". Le denunce di quegli imprenditori fecero scattare undici arresti nel blitz ribattezzato "Munda mundi". E dopo gli arresti, le condanne per 134 anni. Una sentenza che anche la Cassazione ha confermato. Ma nelle vene dei processi sono rimaste le accuse degli imputati, che hanno sempre cercato di gettare ombre su chi li aveva portati in carcere. "Ma quale pizzo, gli imprenditori pagavano il nostro sostegno. E spartivamo gli utili". Una tesi smentita in tutti i gradi di giudizio. Gli imprenditori erano vittime. Ma vittime - osserva il Viminale - che si erano relazionate con i boss, che avevano accettato il prezzo del pizzo. "C'è il rischio di infiltrazioni mafiose nell'azienda". Parole pesanti. Ma il figlio di Rocco Greco ribadisce l'importanza di quella denuncia fatta dal padre: "Non dobbiamo dimenticare cos'era Gela all'epoca. Più di cento morti in un anno. E veniva ucciso anche chi non pagava il pizzo". Dopo l'ultima interdittiva antimafia, un mese fa, sono arrivate le revoche di tutte le commesse pubbliche e private per la ditta di Greco, che si occupa di lavori edili. "Sono stati licenziati 50 operai", dice Francesco Greco. Intanto, l'imprenditore provava a ribadire le sue ragioni con una serie di ricorsi. Ma il Tar di Palermo non ha concesso la sospensiva dell'interdittiva (anche il Tar Lazio aveva dato disco verde al Viminale). "Il giorno dopo, il 26, siamo andati dall'avvocato per un ulteriore ricorso", racconta ancora il figlio. "La sera, papà era euforico. Mi sembrò strano. Diceva: che bella serata stiamo trascorrendo. Non capivo". Mercoledì mattina, Rocco Greco si è svegliato alle 5,30. Ha detto alla moglie che andava in azienda per guardare alcune carte. Tre ore dopo, sono arrivati Francesco e gli altri dipendenti. "Mio padre non era in ufficio. Mi sono insospettito. Anche perché aveva lasciato la fede e l'orologio a casa. Abbiamo iniziato a cercarlo. Era dentro un container, poco distante, in una pozza di sangue". Rocco Greco non ha lasciato neanche un biglietto. Dice il figlio: "Qualche giorno fa, aveva ripetuto a mia madre: "Ormai, il problema sono io. Se vado via, i miei figli sono a posto".

Perseguitato dai burocrati s’uccide l’imprenditore antimafia. Aver denunciato i boss non ha salvato le aziende di Rocco Greco dalle interdittive, scrive Errico Novi il 2 Marzo 2019 su Il Dubbio. Rocco aveva 57 anni. È il protagonista della “primavera di Gela”. Dodici anni fa, nel 2007, rompe le catene dell’oppressione mafiosa. Prende e denuncia i boss del racket che lo depredavano. Convince altri sette imprenditori a fare come lui. La rivolta della Sicilia buona, capace e desiderosa di produrre. I mafiosi di Cosa nostra e della Stidda vengono condannati in via definitiva. Ma nell’incamminarsi verso le sentenze, durante le deposizioni ai processi seguiti al blitz “Munda mundi”, lasciano una scia di veleno come i nazisti che disarcionavano i binari dietro la fuga: «Ma quale pizzo, quegli imprenditori di Gela pagavano il nostro sostegno: spartivamo gli utili». Non ci credono i giudici, che condannano i boss e considerano Greco e gli altri come delle vittime. Ma una folle interpretazione del codice antimafia spinge prima il Viminale e poi un mese fa il prefetto di Caltanissetta a bollare col marchio delle interdittive l’azienda di Rocco, la Cosiam. «Negli anni scorsi Greco ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese, sussiste un pericolo di infiltrazione mafiosa»: così scrive a ottobre il nuovo ufficio del ministero, il Sisma, cioè “Struttura di missione prevenzione e contrasto antimafia”. Ne segue l’esclusione della Cosiam dalla white list delle imprese ammesse alle gare pubbliche. Ne consegue anche l’interdittiva prefettizia di un mese fa. Rocco ripete una litania, alla moglie: «Denunciare il racket m’è costato caro». E mercoledì mattina la fa finita. È l’incredibile epitome della sciagura dell’antimafia. La mafia dell’antimafia, appunto, in una chiave che forse neppure Sciascia avrebbe ritenuto possibile: il sistema della prevenzione che si lascia manipolare dai criminali e stritola le vittime, in modo piuttosto consapevole ma reso come inesorabile da un’obbedienza cieca a procedure bestiali. È una nuova versione delle sciagure che hanno distrutto aziende come quelle di Francesco Lena o dei Cavallotti: imprenditori depredati di ogni attività dal sistema delle misure di prevenzione. Assolti in via definitiva eppure in tanti casi ancora non rientrati in possesso dei beni perché una legge omicida consente ai giudici palermitani della sezione Misure di prevenzione di ignorare la verità processuale e di non dissequestrare. Solo che stavolta un uomo ci rimette, oltre al patrimonio, la vita. Sospinto al suicidio dalla disperazione per un sistema capace di ignorare pure le verità scolpite in sentenze definitive.

LA CECITÀ DEL “SISMA”, NUOVO UFFICIO DEL VIMINALE. L’incredibile tradimento dello Stato si deve però al combinato disposto fra il tradizionale meccanismo delle interdittive antimafia e la nuova struttura insediata presso il ministero dell’Interno. È quello lo snodo in cui si perdono i sogni di liberazione di Rocco, è lì che lo Stato gli si rivolta contro. Come riferisce lo storico difensore di tante vittime di mafia, Alfredo Galasso, i giudizi di assoluzione pronunciati dai magistrati nei confronti di Rocco sono due. Quello del Tribunale di Palermo riguardante le posizioni dei mafiosi, si conclude nel 2013 col sigillo della Cassazione, che rottama le tesi infamanti portate in udienza dai boss: sono «false» e congegnate solo per «gettare l’ombra della collusione sulle vittime». Ricostruzione decisiva anche per un secondo processo, aperto a Caltanissetta, in cui l’imprenditore di Gela risponde addirittura per associazione a delinquere di stampo mafioso: qui l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» arriva nel dicembre del 2017. Un percorso netto dal punto di vista della giustizia ordinaria che già nel 2015 aveva indotto il prefetto di Caltanissetta ad autorizzare l’iscrizione della Cosiam nella white list per le gare d’appalto. Finché arriva la struttura “Sisma”, che non si capisce bene se per pigrizia o qualcos’altro va a ripigliare un po’ a casaccio lacerti dei vecchi atti processuali, e arriva così a sostenere che sussiste il pericolo di «infiltrazione mafiosa» nella società di Greco. Da lì la rimozione della Cosiam dalla white list e la conseguente nuova interdittiva antimafia del prefetto di Caltanissetta, che capovolge la decisione di quattro anni fa. Parte la raffica di ricorsi al Tar che i Greco presentano attraverso gli avvocati Giuseppe Aliquò e Loriana Palermo. Ma il giudice amministrativo non accoglie le ragioni della famiglia di Gela. Intanto l’interdittiva costa alla Cobram la perdita di tutte le commesse. Greco è costretto a licenziare 50 operai. È l’inizio del baratro. La resa all’assurdità dei provvedimenti, che sono troppo mortiferi perché ci si possa ancora aggrappare alla speranza di un esito di nuovo favorevole. Esattamente come gli imprenditori palermitani assolti o addirittura ristorati quando è ormai troppo tardi delle loro aziende sequestrate. Quando sono del tutto svuotate, piene di debito per milioni, come è avvenuto a lo scorso ottobre al palermitano Massimo Niceta.

Rocco non ha retto di fronte al mostro giuridico edificato sulla base della folle legislazione antimafia. Un mostro la cui devastante irrazionalità è nelle parole dell’avvocato Galasso: «Non è possibile che la sentenze dei giudici valgano meno di informative su fatti comunque precedenti rispetto ai verdetti». All’ultima riunione con i legali, Greco ha già smesso di sperare. Si discute di un nuovo ricorso al Tar contro le interdittive, c’è il figlio Francesco, ormai partecipe, consapevole e determinato nel condurre la battaglia a fianco a suo padre. Verso fine incontro, Rocco pronuncia una frase strana: «Che bella serata, che stiamo trascorrendo». È il segno, forse, che si è definitivamente radicata in lui quella convinzione confessata a un amico: «Se mi metto da parte, se vado via io, i miei due figli potranno continuare a lavorare». Mercoledì mattina si alza alle 5.30 e dice alla moglie che deve andare in azienda per studiare le carte. Lascia a casa fede e orologio. I familiari si insospettiscono, in ufficio non c’è. È in una pozza di sangue in un container sul retro. Muore poco dopo all’ospedale “Vittorio Emanuele”. Ucciso dai no di un’antimafia che si fa manipolare dai mafiosi. 

Il suicidio di Rocco Greco riuscirà a scuotere giornalisti e burocrati? Qualcuno fermerà gli automatismi dell’antimafia professionale? Scrive Piero Sansonetti il 2 Marzo 2019 su Il Dubbio. Vorrei fare una domanda ai miei colleghi giornalisti che si occupano di giudiziaria e di mafia. Non a tutti. Diciamo a quelli che considerano la cosiddetta antimafia professionale come il vangelo. (E sono la maggioranza stragrande). Cioè quelli che pensano che sia sacrosanta ogni cosa che dice il Pm, ogni cosa che dice il Gip, ogni cosa che dice l’associazione antimafia, ogni cosa che dice il questore, il capo dei carabinieri, il prefetto, e che non sia neppur lontanamente possibile mettere in discussione quello che dicono i pentiti, cioè questi nuovi eroi della lotta alla criminalità organizzata, che pontificano, spiegano, condannano, assolvono, scagionano, incastrano, si gloriano. Vorrei chiedere a questi miei colleghi, che so che non amano le domande né farle né riceverle – se hanno saputo che il signor Rocco Greco si è sparato, è morto, perchè lui la mafia l’aveva combattuta davvero, senza chiacchiere e bandierine, e si era trovato messo sotto accusa proprio dall’antimafia professionale. Non solo sotto accusa: “sotto persecuzione”. Era stato costretto a ridimensionare l’azienda, a licenziare, a correre verso il fallimento perché lo Stato, al quale in verità della lotta alla mafia non frega pressoché nulla, lo aveva messo al bando e aveva stabilito che non poteva più concorrere agli appalti, sebbene scagionato da tutto: Perché? Perché, insomma, comunque c’era sempre un Pm che non era del tutto convinto, o magari era anche convinto ma in passato qualche sospetto lo aveva avuto. Ecco qui: persecuzione. E’ la parola più appropriata. Rocco Greco era perseguitato dallo Stato, dai prefetti, dal ministero dell’Interno e dal Tar. Lo hanno spinto alla disperazione. Lo hanno rovinato. Forse per distrazione, per sciatteria, forse per rispondere ai cliché dell’antimafia professionale che (come forse sapete) è l’antimafia più diffusa in Italia, la più inutile e dannosa, e anche la più amata dalla mafia vera.

Rocco Greco è un eroe. Sì, dico proprio così: un eroe. Bisogna fare molta attenzione quando si usa questa parola. Gli eroi sono pochissimi, nella storia e nella cronaca. Non tutte le vittime sono eroi. Gli eroi sono quelli che sacrificano se stessi e la loro vita, o comunque mettono in gioco la loro vita, consapevolmente, per un principio, per vincere una battaglia che non è solo una battaglia personale. Rocco Greco, a quel che sappiamo, si è ucciso per porre fine alla persecuzione e per salvare la sua azienda. La sua azienda era stata abbattuta dallo Stato, per infingardia, e lui ha provato a salvarla col suo coraggio. E si è ucciso, furioso, per denunciare questo sistema assurdo e arrogante delle interdittive e del potere assoluto e incontrollato dello Stato, che sfugge a qualunque controllo e a qualunque giudizio, e demolisce le libertà, l’equità, il mercato libero e i diritti. Torno a chiedere ai miei colleghi (“eletta schiera”, come diceva Guccini…), avete qualcosa da dire? Chiedo anche: domani troverò fiumi di inchiostro sui vostri giornali, per esaltare il sacrificio di Rocco Greco, per condannare lo Stato, per ammettere la follia di un antimafia che è solo burocrazia, privilegio, chiacchiere e distintivo?

Temo di no. Temo che questa tragedia sarà inutile, almeno sul piano politico. Che la politica – e il giornalismo e la magistratura – non si mobiliteranno, non chiederanno che sia fermata la follia delle interdittive, la grande ingiustizia dell’antimafia da cortile, il circo barnum dei pentiti. Rocco è finito vittima dei pentiti esattamente come successe quasi quarant’anni fa ad Enzo Tortora. Prima alcuni magistrati, poi i funzionari del ministero, hanno dato retta a questi pentiti e grazie a loro, e in nome loro, hanno perseguitato il signor Greco fino alla morte. Qualcuno capirà, anche tra i miei colleghi, che bisogna fermare questa religione (questa superstizione) del pentitismo sacro e dell’antimafia divinizzata? Si deciderà a fare giornalismo vero, di inchiesta, e quindi non limitarsi a copiare le carte delle Procure, ma indagare e denunciare i soprusi della mafia e quelli dello Stato? Qualcuno, qui a Roma, nei palazzi della politica, si deciderà a prendere in considerazione la possibilità che il sistema dei prefetti (e del potere che hanno) è un rimasuglio dell’ottocento, e va abolito o almeno riformato? E accetterà l’idea che bisogna frenare l’invasione di un el sospetto di Stato sul mercato e sulla libertà di impresa? O siamo condannati ad assistere ancora, chissà a quanti casi Greco ( e casi Tortora) dei quali magari non sapremo mai nulla, perché molti poveretti non hanno la fortuna ( che non è bastata) di incontrare in Tribunale e poi in appello e in Cassazione dei giudici intelligenti e onesti. A Greco questa fortuna è capitata, ed è stato assolto, assolto e poi assolto. Ma non è servito niente. Ai burocrati delle assoluzioni non interessava niente. Cosa interessava? Boh. Forse esercitare il potere.

Il figlio di Rocco Greco: «Lo Stato ha fatto più danni di Cosa nostra e mio padre ha pagato questa follia». Parla Francesco Greco, figlio dell’imprenditore che si è tolto la vita mercoledì mattina, incapace di reggere il peso impostogli dallo Stato, scrive Simona Musco il 3 Marzo 2019 su Il Dubbio.  «Lo Stato, forse, ha fatto più danni di quanti ce ne abbiano fatti i mafiosi. Non avevo mai conosciuto la mafia prima, l’ho conosciuta due giorni fa, quando ho raccolto mio padre da una pozza di sangue». La voce di Francesco Greco è tesa, cerca di nascondere il dolore enorme che da due giorni si porta dentro e che diluisce in ogni telefonata che lo costringe a spiegare come tutto si sia sbriciolato. Suo padre Rocco, che tutti chiamavano Riccardo, si è tolto la vita mercoledì mattina, incapace di reggere il peso impostogli dallo Stato. Lo Stato che ha aiutato, denunciando i mafiosi che gli chiedevano il pizzo, e che poi lo ha abbandonato. «Lo hanno portato a questa decisione», dice al Dubbio Francesco. Che racimola la forza per non cambiare senso di marcia sulla strada percorsa dal padre, di cui ancora parla al presente. «Consiglierei sempre di denunciare, questo è l’insegnamento di mio padre. Però gli ho fatto una promessa: non lascerò che la sua voce rimanga inascoltata e che altri subiscano gli stessi torti che ha subito lui».

Vi aspettavate un gesto del genere?

«Da qualche mese era molto sofferente, questo è certamente fuori di dubbio. Però mio padre è sempre stata una persona molto discreta, molto razionale in tutti i suoi atteggiamenti e anche per le cose più banali cercava di riflettere per prendere la decisione migliore e più ragionevole. Forse sono stati fatali cinque minuti, cinque minuti in cui è uscito fuori di sé».

Crede sia colpa dello Stato?

«Penso sia stato portato a quel punto, ovviamente. Siamo stati trattati con paurosa superficialità, perché nessuno ha avuto la pazienza di ascoltare la nostra storia, di leggere i nostri ricorsi. L’informativa fatta a nostro carico è del tutto infondata, perché non c’erano i requisiti della concretezza e dell’attualità dei fatti. È stata una storia strana, dall’inizio alla fine. L’informativa è uno strumento di massima anticipazione sociale, dovrebbe essere usato nella maniera più opportuna dai prefetti, perché le aziende che si trovano in una situazione del genere sono a rischio chiusura. La prima cosa che ho detto al mio avvocato una volta notificata è stata: qui ci sono le chiavi della Cosiam, le diamo al prefetto e ci pensa lui in questi mesi, mentre riusciamo a dimostrare che siamo delle brave persone».

E non si poteva fare?

«Una cosa del genere non è prevista in Italia, se non nel caso di superiore interesse pubblico, come per le aziende che fanno la raccolta dei rifiuti o gli impianti idrici. Quindi, sostanzialmente, un’azienda di mafiosi che viene sequestrata o confiscata può continuare a lavorare con un ufficiale giudiziario, mentre un’azienda che ha un’informativa, che dovrebbe essere uno strumento molto più fumoso, ha molte più ripercussioni e molto più gravi. Noi abbiamo perso 50 operai, 20 commesse e un papà».

Suo padre si è pentito di aver denunciato la mafia?

«Mai, nonostante tutto. Però ho ascoltato parole che fanno un po’ paura, anche da avvocati e giudici e in ambienti in cui non si dovrebbero ascoltare parole del genere».

Che parole?

«Del tipo: “forse era meglio non denunciare, guardate dove siete ora”. Ho ricevuto un sacco di solidarietà da parte di gente che ci è vicina o che sta vivendo situazioni analoghe a quella che stiamo vivendo noi. Ma il rischio è che passi il messaggio che non conviene denunciare la mafia, perché altrimenti si finisce per stare peggio».

Quindi si sente di dire che ne vale la pena, nonostante quello che è successo a suo padre?

«Consiglierò sempre di denunciare, perché è quello che mi ha insegnato mio padre e che mi ha lasciato come monito. Però le dico che fidarsi delle istituzioni, oggi, è davvero molto difficile. Quando è arrivata l’informativa non abbiamo voluto fare gesti clamorosi, non abbiamo fatto scioperi, non siamo andati con degli striscioni dal prefetto. Mio padre, a quel tempo, era il titolare e quindi io gli davo dei consigli, ma lasciavo sempre a lui l’ultima parola. Probabilmente io non avrei gestito così la situazione. Ho capito che solo chi grida viene ascoltato in questo Paese. Chi segue le istituzioni, chi cerca di rispettare le regole e si limita ad opporsi ad un’informativa non ottiene nulla. Fai un ricorso di 100 pagine, che poi non leggono, poi sbagliano… Non è una strada facile, mettiamola così».

Che conseguenze ha avuto la denuncia di suo padre?

«Ha contribuito molto a cambiare Gela, si è portato dietro altri imprenditori e insieme sono stati i primi a combattere contro le estorsioni. Gela e la Sicilia erano molto diverse prima. Posso dire di non aver mai conosciuto la mafia, l’ho conosciuta due giorni fa, quando ho raccolto mio padre da una pozza di sangue e l’ho messo in un’ambulanza. Non conoscevo niente della mafia prima: mai una persona sospetta in ufficio, mai una telefonata strana… La nostra azienda era una bomboniera, piena di giovani, di professionisti, tutti con un entusiasmo bellissimo. Mio padre era riuscito a coinvolgere un sacco di persone. E ce l’hanno portata via».

Cosa vi siete detti l’ultima volta che vi siete visti?

«La sera prima chiacchieravamo, eravamo anche abbastanza allegri, anche se il suo sguardo mi ha fatto pensare che non fosse troppo sincero. Però non potevo immaginare che sarebbe andata così. L’unica cosa che voleva era far lavorare i figli senza strascichi a causa della sua situazione. Lo ha confessato a mia madre: le aveva detto “se mi levo io è tutto a posto”. Ma non è stato uno scambio equo».

Ora cosa farete?

«Adesso abbiamo iniziato questa battaglia, vediamo cosa riusciamo a fare, dove ci porterà. È ancora tutto troppo presto per capire. Spero soltanto che altri non soffrano quello che ha sofferto lui, perché mio padre ha davvero subito un’ingiustizia fuori dal comune. E io gli ho promesso che la sua voce non rimarrà inascoltata».

Alfredo Galasso: «Così le interdittive hanno spinto Rocco alla morte». Intervista di Simona Musco del 6 Marzo 2019 su Il Dubbio.  Parla il legale di Rocco Greco, l’imprenditore di Gela che ha denunciato i suoi estorsori ed è stato “punito” dallo Stato con un’interdittiva antimafia. Un’onta così grande da decidere di suicidarsi. «Credo che le interdittive siano uno strumento utile – ha spiegato – ma è importante che venga maneggiato con cura». «Ma come si fa a dimenticare che aveva denunciato e che grazie a lui tanti mafiosi di Gela sono finiti in galera? Si può rovinare la vita delle persone in questo modo?». È arrabbiato Alfredo Galasso, storico avvocato di Palermo, che per anni ha difeso Rocco Greco, l’imprenditore di Gela che ha scelto di farla finita dopo essersi visto punire con un’interdittiva antimafia. Un caso come tanti, verrebbe da dire. Se non fosse che Greco, 15 anni prima di scegliere di uccidersi, ha denunciato i suoi aguzzini, i mafiosi che gli chiedevano il pizzo, facendoli condannare. Ma proprio quel “rapporto” con i mafiosi è diventato, tre lustri dopo, il prezzo da pagare allo Stato per aver deciso di aiutare lo Stato. Con una motivazione assurda: «Nel corso degli anni (Greco, ndr) ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese», recita l’informativa della “Struttura di missione antimafia sisma”. «Credo che le interdittive siano uno strumento utile – ha spiegato due giorni dopo la tragedia, al Dubbio, Galasso – ma deve essere maneggiato con cura e attenzione».

Avvocato, qual è la storia di Rocco Greco?

«Rocco, che tutti chiamavamo Riccardo, tra il 2006 e il 2007 è stato il capofila di una denuncia nei confronti di capimafia sia della cosiddetta “Stidda” sia di Cosa Nostra, due organizzazioni mafiose presenti a Gela e dintorni che avevano continuato, sulla base di minacce, ad estorcere a lui e ad altri sei o sette imprenditori associati a lui dei denari. Si trattava di persone che avevano alcuni appalti nel settore della raccolta dei rifiuti».

Le denunce di questi imprenditori che conseguenze hanno avuto?

«Si è aperto un processo, denominato “Munda Mundis”, che si è concluso con una condanna con pene durissime nei confronti di questi estorsori, tra i quali alcuni diventati, col tempo, collaboratori di giustizia. Nel corso di questo dibattimento, però, alcuni di questi capimafia compresi alcuni pentiti, hanno accusato Greco e altre parti offese di essere stati d’accordo, in qualche modo, con i mafiosi che poi hanno denunciato. Gli imputati, cioè, non hanno negato di aver intascato dei soldi, ma hanno negato che si trattasse di estorsione, parlando, invece, di un accordo tra le parti per far aggiudicare gli appalti della raccolta dei rifiuti a Gela. Insomma, Greco, stando a quelle dichiarazioni, sarebbe stato non una vittima, ma uno che si era avvalso della protezione e degli appoggi dei capi di Cosa Nostra. Questi elementi sono stati trasmessi dal tribunale alla procura di Caltanissetta, ma lo stesso tribunale di Gela ha condannato gli imputati a pene molto pesanti e anche al risarcimento dei danni – materiali e morali – subiti dagli imprenditori estorti».

Erano accuse false, dunque.

«Certo, era una strategia difensiva. Tant’è vero che mentre la procura di Caltanissetta decideva cosa fare, la Corte d’appello prima e la Cassazione poi, per quanto riguarda il processo relativo alle estorsioni, prendendo in considerazione le denunce fatte nel corso del dibattimento dai mafiosi, le hanno liquidate in maniera anche un po’ sfottente come espediente, dicendo che quella ipotizzata dagli imputati era «una suggestiva ed alternativa ricostruzione» che la Corte d’appello aveva attentamente valutato, giungendo alla conclusione che si sia trattato di un artificio finalizzato a rimescolare le carte ed a gettare l’ombra della collusione sulle vittime. Un artificio «manifestamente infondato»».

Mentre a Caltanissetta cosa è accaduto?

«Intanto la procura di Caltanissetta ha deciso di portare avanti le indagini e di chiedere il rinvio a giudizio per concorso in associazione mafiosa per Greco e altri. Il tribunale, a dicembre 2017, ha assolto con formula piena gli imputati, riportandosi anche a ciò che era stato detto dalla Cassazione. La procura generale ha però deciso di impugnare la sentenza e c’era, dunque, un procedimento pendente in appello che si sarebbe concluso sicuramente con un’altra assoluzione sicuramente».

Perché allora il signor Greco ha perso la speranza?

«La cosa veramente grave e che secondo me rappresenta la stortura di tutto quello che è successo è che il Sisma – struttura creata nel 2016 presso il Viminale e che si occupa del controllo della regolarità degli appalti – ad un certo punto, avendo chiesto l’azienda del signor Greco, cioè la Cosiam, l’informativa antimafia, ha recepito in maniera integrale l’appello della procura di Caltanissetta, ignorando totalmente l’assoluzione, e ha così notificato all’azienda un’interdittiva che ha distrutto ogni possibile attività in corso e futura».

Di che danno parliamo?

«Si trattava di una società che aveva degli appalti importanti e che dopo aver subito estorsioni e minacce si era rimessa in piedi. Ma vivendo di commesse pubbliche, all’improvviso, ha perso praticamente tutto».

Quando ha visto l’ultima volta il signor Greco?

«Ci eravamo visti in udienza in Corte d’appello, il 10 febbraio. Ci eravamo detti “andrà bene”, ma in sede amministrativa il Tar non ha accolto la richiesta di sospensiva per l’interdittiva e questo lo ha molto destabilizzato».

Si aspettava un gesto del genere?

«Era molto giù, si capiva che c’era stato un profondissimo turbamento. Ma questa decisione è stata una grande sorpresa».

Crede si fosse pentito di aver denunciato i suoi estorsori?

«Per nulla. Era solo profondamente amareggiato, non si aspettava un trattamento del genere. Tenga conto – e da un punto di vista giuridico non è secondario – che questi presunti collegamenti con la mafia, questa presunta contiguità con i capi di cui era accusato risaliva ad un periodo compreso tra il 1998 e il 2003, perché dopo si è stufato di subire angherie dai clan e ha deciso, assieme ai suoi soci, di denunciare e andare in giudizio. La rottura di questo eventuale – inesistente – rapporto di convenienza con Cosa Nostra e la Stidda risale, dunque, a oltre 15 anni fa. Dopo 15 anni, dopo aver denunciato, dopo averli mandati in galera, qualcuno prende quell’accusa, di tipo vendicativo e anche difensivo, lanciata nel processo scaturito dalle sue denunce e si emette un’interdittiva antimafia. Si può rovinare la vita delle persone in questo modo?»

Crede che le interdittive siano dannose?

«Credo siano uno strumento di prevenzione assolutamente utile, ma è importante che venga maneggiato con cura e attenzione, per non rovinare la vita delle persone. Spero che questa storia assurda, almeno, serva da lezione».

Tolta l’interdittiva all’imprenditore suicida. La tragedia di Gela: l’uomo si uccise dopo che lo stato escluse la sua azienda dalla “white list”. Ora arriva la riabilitazione ma è troppo tardi, scrive Simona Musco l'11 Aprile 2019 su Il Dubbio. Dopo il suicidio del suo titolare, perseguitato da un’interdittiva antimafia emessa dopo aver aiutato lo Stato ad arrestare un gruppo di mafiosi di Gela che taglieggiava gli imprenditori locali, la Cosiam è stata iscritta nell’anagrafe antimafia, tornando ufficialmente sul mercato ad un passo dal fallimento. È una vittoria agrodolce quella della famiglia Greco, che lo scorso febbraio ha subito il trauma del suicidio del capofamiglia, Riccardo. A circa un mese dal suicidio, l’impresa è stata inserita nella “White list” per gli appalti della ricostruzione dopo il sisma del centro Italia. Una battaglia vinta dai figli di Riccardo, Francesco, Paola e Andrea, che hanno lottato per l’annullamento delle due interdittive, conseguenza del processo nato dalla denuncia di Riccardo Greco contro il racket di Stidda e Cosa Nostra. L’imprenditore, 15 anni fa, aveva denunciato i suoi aguzzini, i mafiosi che gli chiedevano il pizzo, facendoli condannare. Ma proprio quel “rapporto” con i mafiosi è diventato, tre lustri dopo, il prezzo da pagare allo Stato per aver deciso di aiutare lo Stato stesso. Con una motivazione assurda: «Nel corso degli anni ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese», recita l’informativa della "Struttura di missione antimafia sisma". Le persone finite in tribunale per merito di Greco, infatti, lo avevano descritto non come una vittima, ma come uno che si era avvalso della protezione e degli appoggi dei capi di Cosa Nostra. Elementi trasmessi dal tribunale alla procura di Caltanissetta, ma definiti anche dalla Cassazione un espediente difensivo manifestamente infondato. A Caltanissetta Greco era stato assolto e il processo si trovava ora in appello, ma l’interdittiva ha fatto perdere le speranze all’imprenditore, che deciso a salvare la propria famiglia ha scelto di farla finita. «Mio padre è stato ucciso da una giustizia ingiusta e superficiale perché nessuno ha mai letto i nostri ricorsi – ha più volte dichiarato il figlio Francesco . Se non sei nella white list non lavori più. E questo era quello che era accaduto alla Cosiam, oltre 40 dipendenti che rischiavano di perdere il lavoro per sempre». Ora è arrivata la giustizia, dolorosa e parziale. «è un primo passo – ha dichiarato a Today24 – ma la strada è ancora lunga e noi non abbiamo alcuna intenzione di fermarci». SI. MU.

·         Quei pentiti che non convincevano Falcone.

Per la Cassazione già nel ’99 Scarantino non era credibile. Fondato il ricorso di Gaetano Scotto, tra i 10 condannati ingiustamente per la strage di via D’Amelio. Per i giudici è «innegabile che, rimosse le sue dichiarazioni, il quadro probatorio dell’epoca viene fortemente ridimensionato», scrive Damiano Aliprandi il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. È fondato il motivo di ricorso in Cassazione che impone una revisione anche per il 416 bis a causa della rivalutazione sulla testimonianza di Vincenzo Scarantino. Il depistaggio non giustifica solo la revisione della responsabilità per la strage ma anche quella di associazione mafiosa. Il ricorrente è Gaetano Scotto, una delle dieci persone condannate ingiustamente per la strage avvenuta in Palermo, via Mariano D’Amelio, il 19 luglio del 1992, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino ed agli agenti della polizia di stato Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina. Lo si legge nella sentenza della Cassazione da poco depositata che sottolinea come – il caso oggetto della ridiscussione – «rappresenta uno dei più gravi errori giudiziari della storia del nostro Paese», essendo stata – all’epoca – affermata la penale responsabilità di dieci individui per il gravissimo delitto di strage sulla base di un materiale dimostrativo dimostratosi, con il passare del tempo, estremamente fragile e inidoneo. Tra di loro vi è Gaetano Scotto, la cui posizione in rapporto al reato associativo – oggetto del ricorso – era, all’epoca, stata costruita, nei giudizi di merito, sui contenuti narrativi resi dallo Scarantino, tesi a raffigurare il coinvolgimento attivo di tale soggetto nella fase esecutiva della strage di via Mariano D’Amelio. «È dunque innegabile che – si legge nella sentenza -, rimosse dal quadro valutativo le dichiarazioni dello Scarantino ( essenzialmente per la sopravvenienza di quelle dello Spatuzza, ritenute affidabili, e per l’assoluta inconciliabilità tra i due contributi) e caduta l’affermazione di penale responsabilità per il concorso nella strage, il quadro probatorio dell’epoca viene fortemente ridimensionato». Va ricordato che la fonte probatoria principale nel giudizio celebratosi a carico di Gaetano Scotto era rappresentata proprio dal contributo narrativo di Scarantino, che aveva riferito circa il coinvolgimento di Scotto e del fratello Pietro nella fase preparatoria della strage di via D’Amelio. In particolare, secondo quanto affermato dallo Scarantino, il fratello di Gaetano Scotto – in virtù delle sue competenze tecniche – avrebbe manomesso le linee telefoniche dello stabile di via D’Amelio dove dimorava la madre di Borsellino al fine di captare abusivamente le conversazioni tra lei e il figlio. Gaetano, già appartenente al consorzio mafioso, sempre secondo Scarantino avrebbe riferito le risultanze di tale captazione abusiva a Vernengo Cosimo ed altri soggetti. La Cassazione ricorda un fatto importante su questo punto. Ovvero che già la posizione del fratello di Gaetano – il presunto captatore – era stata definita da una sentenza di assoluzione, per non aver commesso il fatto, emessa dalla Corte di Assise d’appello di Caltanissetta. Il 23 gennaio del 1999 è stato rigetto il ricorso proposto dalla pubblica accusa, con sentenza emessa dalla prima sezione penale della Cassazione il 18 dicembre del 2000. Aspetto, questo, di elevata criticità e molto dibattuto nel giudizio di merito conclusosi con la sentenza di condanna a carico di Gaetano Scotto emessa dalla Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta il 18 marzo del 2002, ed oggetto di analisi nella stessa decisione di legittimità del 2003, conclusasi con il rigetto del ricorso di Gaetano Scotto. La Cassazione, quindi, non solo ha annullato con rinvio per rivalutare le altre prove riguardante l’appartenenza all’associazione mafiosa e la loro consistenza, ma ha anche voluto sottolineare sotto il profilo storico/ giudiziario, come Gaetano Scotto venne condannato ingiustamente, nonostante l’assoluzione del fratello nel lontano 1999. Quindi il venir meno di un pilastro importante in tempi non sospetti che avrebbero già dovuto far mettere in discussione la veridicità di Scarantino.

Quei pentiti che non convincevano Falcone. Anche nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa, scrive Damiano Aliprandi il 27 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Fu proprio Giovanni Falcone, durante un convegno nazionale di diritto e procedura penale nel ’ 91, a parlare della necessità dei pentiti come importante strumento per la lotta alla mafia, ma tenendo bene a precisare che «ovviamente non costituiscono mezzo di prova unico e indispensabile». Sappiamo che Falcone temeva i falsi pentiti che spacciano fandonie e notizie artefatte per ragioni personali o per depistare le indagini. Il caso eclatante fu quello del pentito Giuseppe Pellegritti, che accusò indirettamente Giulio Andreotti come mandante di un omicidio politico. «Era molto preoccupato», aveva ricordato l’ex giudice D’Ambrosio che all’epoca ricevette una visita di Falcone a Roma. «Mi disse: “Pellegritti mi ha teso una trappola, ha detto cose che non sono vere. È una falsa pista che non porta da nessuna parte. Ma se non la seguo mi diranno subito: Perché non vuoi incriminare Lima?”». Falcone non può correre rischi, il maxi- processo è in appello e se un rimestatore di professione come Pellegritti dovesse farla franca l’intero impianto accusatorio comincerebbe a sgretolarsi. Il giudice si muove rapidamente e parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Se fosse vero, sarebbe un colpo, da cui difficilmente il Presidente del Consiglio Andreotti potrebbe riprendersi. Il 4 ottobre, Falcone firma un mandato di cattura per “calunnia continuata” contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria, che in poco tempo spinge il pentito a ritrattare le sue dichiarazioni, scaricando ogni responsabilità sul suo compagno di cella: «Sono rimasto vittima della mia megalomania – confessa – mi sono lasciato indurre da Angelo Izzo a riferire dati dei quali non ero assolutamente a conoscenza». Falcone, quindi, inquisisce anche Izzo, il “boia del Circeo”, condannato all’ergastolo per stupro e omicidio. Angelo Izzo è un altro che sostiene di conoscere tutti i misteri italiani e in quel periodo accusò l’ex Nar Valerio Fioravanti di essere stato l’esecutore dell’omicidio Mattarella. Purtroppo Angelo Izzo negli anni a seguire verrà preso in considerazione da altri magistrati per le sue rivelazioni, che puntualmente finirono per dimostrarsi delle vere e proprie bufale.

RICORDI A RATE DEI PENTITI SU TUTTI I MISTERI D’ITALIA. Accade che nel corso del tempo ci siano pentiti, che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano, forse casualmente, con i teoremi giudiziari del momento. L’ultimo atto del pentitismo con i ricordi a rate e casualmente corrispondenti alle narrative vigenti c’è stato venerdì scorso. Il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha parlato per quattro ore davanti ai giudici di Caltanissetta per il processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che devono rispondere di calunnia aggravata, di aver avuto, in sostanza, un ruolo nella manipolazione e nella creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Carlo in realtà ha più o meno ribadito ciò che aveva raccontato nel 2014 durante il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia, dove si era ricordato di un particolare che mai aveva rivelato e cioè di aver ricevuto, mentre era detenuto, un emissario dei servizi segreti che lo mise a conoscenza di un piano per allontanare da Palermo Giovanni Falcone, quando era ancora all’ufficio istruzione. In compagnia dello spione ci sarebbe stata un’altra persona, che Di Carlo ha assicurato di aver successivamente riconosciuto in foto come Arnaldo La Barbera, lo stesso funzionario accusato del depistaggio. Solo che Di Carlo si è pentito nel 1996 e solo nel 2014 si era ricordato di questo particolare. La peculiarità di questo pentito è che sembra di ricordare molte cose soprattutto riguardanti il periodo di quando smise di far parte di Cosa Nostra. Affiliato nel maggio 1961 alla famiglia di Altofonte, svolge per quindici anni la mansione di soldato semplice, nel ’ 70 diventa poi consigliere e cinque anni dopo capo famiglia. Ma rimane a far parte di Cosa Nostra fino all’ 82. Ce lo ritroviamo poi in Inghilterra dove verrà condannato nel 1987 insieme a cinque complici per aver importato eroina e cannabis per un valore di 78 milioni di sterline pari a 180 miliardi di lire. Condannato duramente, Di Carlo rimase detenuto nel carcere di massima sicurezza di Full Sutton fino a quando chiese di essere rimpatriato, avvalendosi dell’accordo internazionale che consente ai detenuti di scontare le pene nei Paesi d’ origine. La sua intenzione di collaborare con la giustizia nel 1996 ha fatto sì che venisse chiesta per lui l’applicazione del trattato di Strasburgo, che prevede appunto la possibilità di continuare a scontare la pena nel paese d’ origine. Sembra però un pentito che è a conoscenza di tutti i misteri italiani. Dalla morte del banchiere Calvi, passando per la strage di Bologna fino a quella di Ustica. Ma non solo, parliamo del pentito che rispolverò la storia di Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato Sergio, dipinto come uomo d’onore della vecchia Cosa nostra della provincia di Trapani. Aveva ribadito storie già dette due decenni fa, ma le aveva ulteriormente specificate con i ricordi che gli erano nel frattempo venuti a galla. «Fandonie di un uomo che non sa nulla», aveva tuonato il legale dei Mattarella. C’è il caso del pentito Vincenzo Calcara, sconfessato da diversi tribunali. Lui si definisce il pentito di fiducia di Paolo Borsellino, raccontò che il giudice Antimafia lo fece uscire dal carcere, nonostante non si potesse fare, quindi contro la legge. Ha scritto libri, parlato di varie entità che governano il Paese e fu sentito come teste al processo sulla trattativa. Pochi giorni fa ha riportato l’ennesima condanna per le false accuse nei confronti di Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano.

PENTITI CHE OSCILLANO COME BRUSCA. In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo recentemente morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita». La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali».

«Così la ’ndrangheta riesce a capire dove ci nascondiamo noi pentiti». Tutte le falle nel sistema di protezione. Le parole di un pentito: «La migliore protezione è quella che ti fai da solo», scrive Antonio Crispino l'11 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera.  Il giorno dopo l’omicidio di Marcello Bruzzese - fratello di Girolamo, pentito di ’ndrangheta - il ministro Matteo Salvini dichiarò: «…questo signore da oltre due anni e mezzo aveva chiesto di uscire dal sistema di protezione». In realtà, se un collaboratore di giustizia chiede di uscire dal programma di protezione molto spesso è perché questo risulta inadeguato alla protezione stessa. Un collaboratore di giustizia riceve uno stipendio mensile di circa 900 euro oltre alla possibilità di capitalizzare il suo impegno con la giustizia; è una specie di trattamento di fine rapporto come incentivo per ricominciare una nuova vita. Può essere capitalizzato a due anni, cioè senza la necessità di presentare alcuna documentazione (in questo caso percepisce il contributo mensile di mantenimento per 24 mesi più un importo forfettario di diecimila euro) oppure nella misura massima se c’è un progetto di reinserimento sociale (vale a dire il contributo mensile moltiplicato 60 più diecimila euro). Sotto protezione possono finire anche i familiari (ci sono 4915 congiunti a fronte di 1277 collaboratori) e in tal caso vengono aggiunti circa duecento euro per ogni familiare. Difficile immaginare perché mai un pentito dovrebbe rinunciare a tutto questo. Se non perché le falle in questo sistema sono molteplici. Cominciamo proprio dal caso Bruzzese. Marcello Bruzzese viene assassinato il pomeriggio di Natale sotto casa sua in via Bovio 28 a Pesaro. Sul citofono c’era il nome del collaboratore, certo, ma non è quello l’unico errore. L’appartamento di via Bovio, 28 viene utilizzato dal Nucleo Operativo di Protezione come rifugio per collaboratori di giustizia da almeno vent’anni, sempre lo stesso. Si trova in una stradina secondaria, poco trafficata, dove il via vai di poliziotti dà parecchio nell’occhio. Infatti, ci dicono che in paese erano in molti a sapere della presenza di un pentito. E non da oggi e non solo in via Bovio. Di fronte al civico 28, poco più avanti, c’è un’osteria, «Da Sante». Ha una convenzione con le forze dell’ordine, per cui a pranzo e cena ha sempre qualche divisa come cliente. Non è un caso che i killer di Bruzzese abbiano aspettato la chiusura del suo ristorante per agire. Un dettaglio spiega bene quanto fosse poco sicuro quell’appartamento. Nel ristorante «Da Sante» in passato hanno lavorato come camerieri un collaboratore di giustizia e il figlio di un collaboratore di giustizia. Ad entrambi era stato assegnato lo stesso appartamento di Bruzzese. Di uno ci dà conferma lo stesso proprietario del locale: «Sì, è vero. Ho saputo dopo che era il figlio di un collaboratore, quando andò via». Dell’altro abbiamo notizia direttamente dalla moglie del collaboratore che, per questioni di sicurezza, chiameremo Anita. La rintracciamo in Germania. Nel 1999 ha abitato nella stessa casa successivamente assegnata a Bruzzese. «Mio marito - oggi ex marito - chiese a Sante un lavoro. Ci ha lavorato per poco, poi siamo stati trasferiti. Gli alloggi per i pentiti sono sempre gli stessi. Ad Aosta ci diedero una casa in piazza Chanoux. Prima di noi c’era stato un collaboratore che durante il periodo di copertura aveva messo su un traffico di stupefacenti. Ricordo che alla nostra porta bussavano i narcos, che evidentemente non aveva pagato, chiedendoci di saldare il conto». Teoricamente, Anita e il marito erano sotto protezione. Ancora più assurdo quello che capita a Maria, pentita di ‘ndrangheta. Da Rossano la trasferiscono in Toscana, a Lucca, con i suoi cinque figli, lontana dal clan che ha denunciato. Peccato che il proprietario dell’appartamento (che abitava al piano superiore) fosse del suo stesso paese, nipote di avvocati che - denuncia Maria ai magistrati - erano a libro paga della ‘ndrangheta. Nonostante tutto, il trasloco non avvenne subito. Il Servizio Centrale le fece sapere che da Roma non arrivavano i finanziamenti per pagare altri hotel. «Se vai nella provincia di Campobasso trovi mezza Crotone» ci dice un altro collaboratore calabrese. «I miei vicini di casa erano Lea Garofalo (testimone di giustizia, ndr), Felice Ferrazzo (capo della ‘ndrina Ferrazzo, ndr), altri con cui ero stato in carcere e, addirittura, rivali della mia famiglia. Per non considerare che quando sono stato trasferito a Termoli mi sono trovato i messaggeri della mia famiglia sotto casa: volevano che non facessi alcuni nomi». In realtà molti comuni non vogliono collaboratori sul loro territorio perché li considerano forieri di problemi e avanguardia dei clan di appartenenza. Al punto che la Commissione centrale per la protezione si è rivolta alle prefetture sollecitandole a «…meglio sensibilizzare i comuni nella ricerca e nell’offerta di posti disponibili da destinare alle categorie protette», come si legge nella relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione del 2017. Durante la collaborazione di Anita, lo stipendio le viene consegnato a mano. «Ogni mese vedevi questi agenti con la valigetta e la pistola nella fondina che entravano in casa. Davano nell’occhio e tutto il quartiere se ne accorgeva» ricorda Anita. Oggi lo stipendio del collaboratore viene accreditato su carte prepagate. L’anno scorso sono stati scoperti tre agenti del Viminale che dal 2009 al 2015 hanno sottratto somme (per oltre 500 mila euro) dalle carte dei collaboratori. «Sono carte utilizzabili solo per ritirare denaro al bancomat. Con i documenti di copertura che ti forniscono non puoi intestarti nemmeno una sim card per il telefono, figuriamoci un conto corrente» dice Luigi Bonanno, nome di copertura utilizzato quando era collaboratore di giustizia. Abita a pochi chilometri da Pesaro. Oggi è fuoriuscito dal programma ma ha ancora moglie e figli sotto protezione. L’altro grande baco, infatti, riguarda i documenti. La sezione Documentazione e Cambio generalità del Servizio centrale di protezione può creare documenti di identità, patenti di guida, tessere sanitarie e codici fiscali. Sono tutti documenti che - eccetto il caso in cui si effettui un cambio di generalità, e questo avviene solo in pochi casi - non hanno corrispondenza anagrafica. «Significa che se qualcuno ti controlla non troverà niente di aderente alla tua attuale situazione - spiega Bonanno -. Quando sono andato a iscrivere mio figlio alla scuola calcio mi hanno chiesto il certificato di nascita. Ma al Comune dove risiedevo sotto copertura non risultavo né sposato né con figli. E’ chiaro che poi gli impiegati comunali fanno una ricerca e scoprono chi sei realmente». Oggi si fa recapitare quello di cui ha bisogno presso la parrocchia di un sacerdote. Se deve ordinare qualcosa lo fa tramite lui. «Ho capito che la migliore protezione è quella che ti fai da solo. Provo a ragionare con la loro testa e cerco di prevenirli», rivela. Maria ha una figlia disabile e percepisce una pensione di invalidità. Nel momento in cui inizia a collaborare con i giudici viene trasferita da Rossano a Pistoia. «Hanno solo chiesto all’Inps di accreditarmi la pensione a Pistoia ma nell’ufficio di Rossano sapevano dove la ritiravo». E infatti succede che poco dopo si ritrova il marito (che aveva denunciato in quanto boss del clan Acri - Morfù) sotto casa che cerca di convincerla a ritrattare. Maria è la principale testimone di operazioni importanti come Stige e Stop, quelle che hanno svelato i traffici dalla Calabria alla Germania e che hanno coinvolto politici e imprenditori (consentendo lo scioglimento di due comuni). Oggi dice: «Ai processi non andrò più a testimoniare». Chi sia realmente Maria e perché è arrivata a questa conclusione lo vedremo nella seconda parte.

·         Caccia alle streghe. L’inquisizione dell’Antimafia moralizzatrice.

«Caro don Ciotti, sono un prete e non una guardia. Vado dai peccatori, anche dai boss». Lo scontro tra don Michele Crociata e il fondatore di Libera, scrive Davide Varì il 22 Febbraio 2019 su Il Dubbio. È guerra tra tonache in Sicilia. Da un lato quella di don Luigi Ciotti, artefice e guida di Libera, l’associazione che gestisce l’impero dei beni sequestrati alla mafia; dall’altro quella di don Michele Crociata, parroco in pensione di Castellammare del Golfo, ameno paesone in provincia di Trapani. La scintilla l’ha attizzata don Ciotti quando si è visto negare un teatro comunale per un incontro pubblico: «Se per tanto, troppo tempo la mafia ha potuto proliferare e radicarsi in maniera così perversa forse è anche grazie ai tanti don Michele Crociata». Un’accusa inaspettata e singolare visto che il povero don Crociata prega e lavora in Sicilia mentre il teatro negato è quello di Oderzo, piccolo e remoto borgo del Trevigiano. Ma evidentemente don Ciotti covava quello sfogo da troppo tempo. Fatto sta che il prete trapanese non solo non ha abbozzato ma, inforcate le lenti da presbite e impugnati mouse e tastiera, si è lanciato in un lungo e piccato post su Facebook. «Io, al posto di Ciotti, preferirei fare il prete invece di andare in giro a fare il politico», ha scritto infatti don Michele, al quale le falangi di Libera non perdonano l’amicizia con Mariano Saracino, un presunto boss locale – un boss minore per la verità – finito ai domiciliari con l’accusa di estorsione. Ma don Michele, bontà sua, non ha mai nascosto quella sua frequentazione e nel post ha deciso di rivendicarla: «Non sono mica un carabiniere, sono un prete. Unicuique suum. “A ciascuno il suo…”», ha concluso citando Sciascia. Insomma, il sacerdote siciliano è convinto che la cura delle anime “perdute” – già, soprattutto quelle perdute – sia il primo dovere di un prete: «Sapete perché incontro quella persona condannata? – ha infatti spiegato – Per indurlo a un ripensamento. Anche lui è un figlio di Dio. È una cosa normale. Se fossi un carabiniere è chiaro che agirei diversamente. E sta andando bene. Sono la frequenza e la qualità degli incontri che con il tempo possono indurre a un ripensamento o a una riflessione. È un lavoro molto lento e incerto». E don Michele è così convinto di quello che dice da difendere anche il collega che ha celebrato il funerale di Tommaso Spadaro, un padrino vero, il cosiddetto “re della Kalsa”, anche se lui preferiva presentarsi come il Gianni Agnelli di Palermo. «Negli ultimi anni – spiega infatti don Michele – questa persona aveva fatto un cammino spirituale quindi non vedo il motivo di non celebrarlo. Tutti siamo figli di Dio, anche quelli che commettono cose brutte e grosse». E in effetti, pur essendo considerato un irriducibile di Cosa nostra, Spadaro in carcere si era laureato in filosofia con 110 e lode e con una tesi su Gandhi e la non violenza. Fatto sta che Libera non ha mollato la presa, e di fronte alle repliche di don Michele ha rilanciato i sospetti. Ai discepoli di don Ciotti non piace infatti quel modo “troppo discreto” con cui il prete di Castellammare del Golfo si reca a casa del boss: «Don Michele – spiegano – sembra usare l’espressione ‘ con discrezione’ come sinonimo di ‘ prudentemente’, o ‘ senza dare troppo nell’occhio’, quasi ‘ a volersi muovere dietro le quinte’». Insomma, l’allusione di Libera, per quanto discreta e prudente, è fin troppo chiara: don Michele si muove nell’ombra e nel silenzio come fanno i mammasantissima. Ma lui proprio non ci sta: «Io non sono giudice del mio prossimo, quelli di Libera hanno una mentalità e una cultura di tipo giacobino e demonizzano tutti quelli che la pensano diversamente. Ciotti non fa nulla di brutto, di cattivo, ma io penso che un prete deve svolgere altro». E poi di nuovo l’attacco all’eccessiva intraprendenza politica di don Ciotti: «Noi ecclesiastici rispondiamo ai dettami della chiesa, la politica risponde al sentire comune. Un prete non può andare in giro per l’Italia facendo politica. Deve invece operare nella propria diocesi come cooperatore del suo vescovo. Ciò che ormai da molti anni don Ciotti non fa». In attesa che il buon Dio illumini il cammino dell’uno e l’altro, don Michele è tornato a casa del boss, perché lui, come direbbe Sciascia e come ha provato a spiegare a don Ciotti, è convinto che la politica sia tempo perso «e chi non se ne rende conto o è cieco o ci trova il suo interesse». Dunque, a ciascuno il suo…

Gratteri, le ‘ndrine dal buco della serratura. Tiziana Maiolo 24 Novembre 2019 su Il Riformista. “La ‘ndrangheta vista dal buco della serratura”. Sarebbe il titolo più indovinato per il libro che verrà presentato domani a Catanzaro, una delle tante strenne natalizie già pronte sugli scaffali reali e virtuali. Uno degli autori (con Antonio Nicaso) è di grande prestigio, Nicola Gratteri, professione magistrato, scrittore e mancato ministro di Giustizia del governo Renzi (grazie, Giorgio Napolitano). L’immagine che il procuratore più intervistato d’Italia dà oggi della ‘ndrangheta nel colloquio con Sette è stupefacente, e tutto sommato rassicurante. Innanzitutto perché ci comunica che i mafiosi non sparano più. Non hanno più bisogno di uccidere, dice il magistrato, perché vivono come noi, come noi si integrano, chattano sui social, vogliono godere la bella vita, fare soldi, conquistare il potere. Hanno tra loro anche vincoli massonici e cercano di aggiustare processi. Non fosse per quelle tonnellate di cocaina che acquistano in Colombia (a quanto pare a buon prezzo) per immetterle sul mercato europeo, gli uomini della ‘ndrangheta sembrerebbero quasi dei comuni uomini di potere, un po’ avventurieri, magari. Ma se studi bene i personaggi, dice l’esperto, soprattutto facendoti un po’ sociologo, un po’ psichiatra e anche un po’ parroco, ecco che scopri i piedi d’argilla del mostro mafioso. Perché questi uomini che si credono potenti e invincibili, ha capito l’alto magistrato, in realtà sono dei deboli, fragili e paranoici. Persino omosessuali, alcuni. Anche se le regole interne dell’associazione non lo potrebbero mai ammettere. Ecco perché, pur non essendo dei veri “pentiti”, in tanti collaborano. Perché sono troppo fragili psicologicamente per poter reggere il carcere. Non ci sono più i mafiosi di una volta, insomma, quelli che sapevano restare anche 40 anni in uno schifo di cella, magari al regime di 41 bis sopportando la detenzione con virile orgoglio. Davanti a questo singolare quadro di deboli piagnoni un po’ disturbati nel carattere viene da chiedersi in che modo poter attribuire a questi uomini le caratteristiche previste dal codice penale nella previsione dell’articolo 416 bis, cioè la loro forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento delle loro vittime. Per non parlare della violenza, che sempre si accompagna a questo tipo di controllo del territorio e della comunità. E ancora meno si capisce per quale motivo, come il dottor Gratteri dice in modo molto esplicito, nel nostro ordinamento dovrebbe permanere un istituto che contrasta con l’articolo 27 della Costituzione come l’ergastolo ostativo. Dalle mafie, afferma l’alto magistrato, si esce o da morti o perché si collabora. Confermando così l’ipocrisia di chi non si direbbe mai favorevole alla pena capitale, ma lo è in modo sotterraneo. Meglio la lenta tortura che piega la persona fi no a farla cedere e portarla al “pentimento” o la garrota subito? Bel dilemma. Resta da chiedersi infine, visto che non si uccide più, visto che ormai ci sono «meno sangue e più trame segrete», dove dovrebbero dirigersi le indagini e dove sta oggi il bubbone mafioso da colpire. Nella politica, va da sé. E il salto di qualità potrebbe consistere nel fatto che la mafia potrebbe oggi, specie in Calabria dove sono imminenti le elezioni regionali, volersi candidare direttamente, senza bisogno di intermediari. Perché, sostiene Gratteri, le istituzioni sono fragili, assuefatte al peggio e molto più permeabili che nel passato. E disponibili davanti a un boss che ha il volto e le abitudini di una persona ricca e potente, magari «sponsor o proprietario di una squadra di calcio». Dobbiamo sentir trillare qualche campanellino? Ma no, stiamo solo parlando di un libro. Chi si intitola, contrariamente a quel che pensavamo, La rete degli invisibili e che è edito da Mondadori.

Calabria, i candidati li sceglie Gratteri. Piero Sansonetti 5 Novembre 2019 su Il Riformista. La Calabria si prepara al voto per il rinnovo del Consiglio regionale e l’elezione del governatore. Voterà insieme all’Emilia, fine gennaio. È iniziata la battaglia politica per le candidature. La novità, quest’anno, è che la battaglia non si svolge nelle sedi dei partiti ma nelle stanze delle Procure. Le Procure hanno avocato a sé il compito di nominare i candidati. A dire la vera vera verità, non c’è nessuna battaglia. La Procura che comanda è una sola, quella di Catanzaro, e al suo interno non sono ammessi molti dissensi. Decide il Capo, il dottor Nicola Gratteri, opinionista molto noto, scrittore di libri di successo, presenza costante – e di solito senza alcun contraddittorio – in svariate trasmissioni televisive. Gratteri, da diverso tempo, ha preso di mira l’attuale governatore della Calabria, cioè Mario Oliverio, sessantacinquenne leader del Pd che viene dalla vecchia scuola comunista. Nasce addirittura con la Fgci (cioè i giovani comunisti) di D’Alema, anni Settanta. Lo ha preso di mira e lo colpisce coi mezzi che ha: avvisi di garanzia, richieste di arresto. Più di un anno fa ha chiesto al Gip che lo mettesse in prigione. Il Gip gli ha detto di no, perché – ha spiegato – non c’erano indizi sufficienti. E ha disposto il domicilio coatto. Qualche settimana dopo Gratteri ha chiesto di nuovo l’arresto. E il Gip di nuovo ha detto di no. Poi Oliverio ha fatto ricorso in Cassazione contro il domicilio coatto. Cosa gli ha risposto la Cassazione? Ha cancellato il domicilio coatto e ha parlato di “chiaro pregiudizio accusatorio”. Una bastonata per Gratteri: pregiudizio accusatorio è una accusa gravissima, per un Pm. Roba da stroncargli la carriera. Voi pensate che il processo a Oliverio si sia fermato? Macché: va avanti. E soprattutto va avanti il processo mediatico che Gratteri conduce parlando in pubblico di accuse che Gip e Cassazione hanno messo in discussione. Non è molto chiaro perché né il ministero né il Csm intervengano per fermarlo. Il Pd, cioè il partito di Oliverio, come ha reagito a questo attacco scatenato del procuratore di Catanzaro che, peraltro, accusa Oliverio di un reato commesso a Cosenza (avrebbe spinto per il rallentamento dei lavori su una piazza, per danneggiare Mario Occhiuto, sindaco di centrodestra)? Ha reagito decidendo il ritiro della candidatura di Oliverio, in omaggio a Gratteri. Il quale nel frattempo ha spedito gli avvisi di garanzia anche a Occhiuto (che sarebbe la vittima di Oliverio) per qualche altro reato commesso da sindaco. E la Lega si è anche lei accodata a Gratteri e ha detto a Forza Italia: niente Occhiuto. Così succede che i due candidati naturali a contendersi l’elezione a governatore della Calabria vengono abbandonati dai loro schieramenti. Oliverio ha deciso di correre lo stesso, per conto suo, ed è convinto di avere le possibilità di vincere. Occhiuto deve ancora decidere il da farsi. Intanto il procuratore Gratteri si frega le mani. È vero che le sue inchieste sui delitti calabresi non vanno molto lontano, però intanto la sua iniziativa politica viene premiata da netti successi. Probabilmente Occhiuto e Oliverio sono due dei personaggi più importanti della politica calabrese degli ultimi dieci anni. L’altro personaggio importante è Peppe Scopelliti, ma l’hanno messo in prigione.

Mafia a Milano, la conquista dei ristoranti. La Dda: «I boss investono nei locali alla moda per ampliare la propria rete con sportivi e personaggi famosi».  In città aprono due esercizi commerciali ogni tre giorni: dietro il boom l’ombra della criminalità organizzata, scrivono Antonio Castaldo e Cesare Giuzzi il 14 febbraio 2019 su CorriereTV. L’impero criminale si siede a tavola e investe, sempre di più, nel modo della ristorazione. Lo provano decine di inchieste della magistratura, i sequestri disposti come misura di prevenzione e, di recente, una nuova arma antimafia: la sospensione della Scia, l’equivalente della vecchia licenza. A Milano, motore economico del Paese, lo dimostra anche l’incredibile fioritura di nuovi locali, che in città sbocciano alla velocità di due inaugurazioni ogni tre giorni. Un ritmo che secondo gli inquirenti è accelerato dai milioni della criminalità organizzata. Una volta bar e ristoranti erano soltanto lavanderie per denaro sporco. Oggi per la mafia rappresentano anche la scintilla di uno scatto evolutivo, la proiezione verso nuovi affari e nuovi contatti. «I ristoranti alla moda servono per creare quella rete relazionale che arricchisce il patrimonio di un’associazione criminale con personaggi famosi, sportivi, nomi da spendere», spiega Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano. Il settore in città cresce del 6 per cento ogni anno (nel 2017 7.333 bar, gelaterie e ristoranti contro i 6.911 dell’anno precedente) e addirittura del 35 per cento rispetto al 2011 (dati Camera di Commercio). Per gli inquirenti, tra i tantissimi imprenditori onesti, si celano personaggi legati a vario titolo con il crimine organizzato. Che trasformano il frutto delle attività illegali in casse di riciclaggio, ma anche in vetrine del nuovo potere di relazione, l’antistato mafioso che si è fatto impresa. Per il critico gastronomico di ViviMIlano, Valerio Visintin, «almeno un ristorante su cinque ha avuto a che fare negli ultimi anni con organizzazioni mafiose». Attività su cui investire e con cui riciclare in tutta tranquillità: «Spesso i ristoratori che aprono le porte delle proprie società a questi personaggi non sanno neppure in quali mani si stanno mettendo. E quando lo scoprono, ormai è troppo tardi», aggiunge Visintin, il cui nome (ma non il volto) è conosciuto e temuto in tutti i ristoranti di Milano e dintorni. In città sono cinque i locali che sono stati chiusi negli ultimi mesi. Il caso più eclatante riguarda il ristorante gourmet Unico di via Achille Papa. In questo caso a pesare sono i rapporti tra uno dei proprietari, Massimiliano Ficarra e uomini della potente cosca Piromalli-Molé di Gioia Tauro (Reggio Calabria). Il locale ha riaperto i battenti dopo che il Tar ha accettato la richiesta di sospensiva avanzata dai legali. Ma si attende ancora una decisione nel merito. Dietro il provvedimento, non c’è nulla di penalmente rilevante (anche se a carico di Ficarra c’è un sequestro che deriva da un’altra indagine su questioni finanziarie), ciò che è in discussione sono i «requisiti morali» costati la revoca della «Scia» da parte del Comune di Milano dopo l’istruttoria della Dia e l’emissione dell’interdittiva Antimafia da parte del prefetto Luciana Lamorgese. Tutto si basa sulla sentenza 565 del 2017 del Consiglio di Stato che ha stabilito come gli accertamenti antimafia un tempo necessari solo in caso di appalti con la pubblica amministrazione vadano invece estesi a tutti i provvedimenti che prevedano un rapporto di qualsiasi tipo con organi dello Stato. Compresa l’emissione di una Scia che di fatto ha sostituito le vecchie licenze per i pubblici esercizi. Sono una cinquantina i provvedimenti sul tavolo del prefetto e ancora non firmati. Dopo «Unico» è scattata la chiusura per altri tre locali, tutti in qualche modo legati agli stessi «soci sospetti», ossia Francesco Palamara nipote dello storico boss di Africo in provincia di Reggio Calabria «Peppe ‘u tiradrittu», Aurelio Modaffari considerato vicino alla cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti e Davide Lombardo, coinvolto in una inchiesta sul narcotraffico e con un passato di frequentazioni con uomini della cosca Barbaro-Papalia. Si tratta del bar Gio & Cate café di viale Molino della Armi, della rosticceria notturna Ballarò di piazza 25 Aprile e del locale Dom di corso Como. Tutte vetrine nel centro di Milano e nel cuore della movida. È invece un strettissimo legame familiare ad aver portato ai primi di luglio alla chiusura del bar Pancaffé di via Lodovico il Moro, 159, lungo il Naviglio Grande. Il locale è infatti intestato alla moglie e alla figlia del boss della ‘ndrangheta Rocco Papalia, scarcerato un anno fa dopo 26 anni di carcere e oggi rinchiuso in una casa lavoro a Vasto (Chieti). L’ultima chiusura in ordine di tempo riguarda la pizzeria Frijenno Magnanno di via Benedetto Marcello, un locale molto noto in città, a causa dei presunti rapporti tra il marito della titolare e il clan Guida di Napoli. Circostanza che l’avvocato della famiglia smentisce decisamente, ma che tuttavia al momento ha indotto il Comune a procedere con la revoca della scia. Spostandoci da Milano, nella comunque vicinissima Buccinasco, lo scorso 30 gennaio è stato chiuso l’Angolo del caffè, che negli anni passati ospitò anche riunioni della famiglia Barbaro-Papalia. Il titolare, Giuseppe Violi, aveva cambiato l’insegna e il nome del locale, dichiarando di «non avere nulla a che fare con la ‘ndrangheta». Ma non è bastato, perché stando alle ricostruzioni dei carabinieri e dell’Antimafia, il bar ha continuato ad essere il ritrovo degli uomini della cosca. Il sistema dei controlli prende le mosse dalle inchieste penali, ma va a colpire anche le semplici «frequentazioni» o «contiguità» dei soci con ambienti mafiosi. Quindi senza la necessità che i titolari siano stati condannati o inquisiti per 416 bis, ossia il reato di associazione mafiosa. I locali garantiscono liquidità, visibilità e anche una sorta di controllo (o presenza) sul territorio. Senza pistole o violenza, in linea quindi con la strategia dell’inabissamento predicata dalla mafia al Nord.

Nella stragrande maggioranza dei casi gli investimenti della mafia vengono regolati come normali transazioni d’affari. Ma a volte il volto violento della criminalità emerge in tutta la sua pericolosità. I casi sono numerosi, ma pochi hanno il coraggio di raccontare. F. O. è un quarantenne milanese che oggi vive quasi da recluso, nel suo piccolo appartamento nella periferia nord di Milano. Aveva un bar, gli aveva dato il nome di un personaggio dei fumetti. Ma con i primi clienti ha dovuto fare i conti con gli emissari di un clan catanese. Cominciarono col pizzo, ma volevano il suo locale. «Mi chiesero 50mila euro, una cifra insostenibile». F. cominciò a nascondersi: «Fino a quando aggredirono mia moglie, la fermarono mentre passeggiava con i bambini, afferrandola per il collo. A quel punto decisi di denunciare tutto alla polizia». La violenza mafiosa si moltiplicò. Alle minacce si sommarono aggressioni e pestaggi. «Mi hanno sparato alle gambe, una volta mi hanno investito con l’auto, mi insultavano e minacciavano in continuazione, persino in tribunale». Lui però è andato per la sua strada, ha contribuito alla condanna dei suoi tre estorsori. «Ormai è passato qualche anno, eppure continuano a farsi sentire», dice mostrando i segni minacciosi comparsi su citofono e porta di casa. Ora è disoccupato, è difficile per una vittima di mafia trovare lavoro. Ma almeno spera che la persecuzione sia finalmente finita.

Quei ristoranti nel cuore di Roma non erano dei clan. I locali erano stati sequestrati quattro anni fa. Assolti i nove imputati, scrive Simona Musco il 15 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Quei ristoranti nel cuore di Roma non erano roba della ‘ ndrangheta. È quanto hanno stabilito quattro anni dopo il sequestro i giudici della quarta sezione penale del tribunale di Roma, che ieri hanno assolto i nove imputati accusati di intestazione fittizia di beni, perché «il fatto non sussiste». Una sentenza che ha dunque portato anche al dissequestro e alla restituzione ai proprietari dei tre ristoranti in via dei Pastini, zona Pantheon, meta di turisti da ogni dove: “Er Faciolaro”, “Rotonda” e “Barroccio”. Beni del valore di 10 milioni di euro, sequestrati nel 2015 su richiesta del pm Francesco Minisci nel corso di un’operazione della Dia sulle infiltrazioni della ‘ ndrangheta a Roma, e che per l’accusa erano tutti in mano ad un prestanome della ‘ ndrangheta, l’imprenditore calabrese Salvatore Lania. Il suo nome era già emerso nell’indagine che aveva portato al sequestro e alla successiva confisca del “Caffè de Paris” – finito al centro di un’indagine sulle infiltrazioni nella capitale della cosca calabrese Alvaro di Sinopoli nel luglio 2009 – per una vicenda legata ad un traffico di merce contraffatta, in un vorticoso giro che partiva dalla Cina e dal Vietnam, dove veniva lavorata, per poi arrivare in Calabria, al porto di Gioia Tauro. Da lì ripartiva alla volta di Roma, dove veniva stoccata e poi spedita nella Repubblica Ceca. Un processo che, nel luglio del 2014, si è chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati, ma che per Lania è andato avanti, sottotraccia: i riflettori dell’antimafia gli sono rimasti puntati addosso, fino all’arresto, quattro anni fa, con l’accusa d’intestazione fittizia. Arrivato a Roma nel 1999, Lania è partito da zero, facendo il pizzaiolo e il cameriere, una gavetta che lo ha portato però a conquistarsi un angolo importante al centro di Roma. Il ristorante “Er Faciolaro”, documentava l’inchiesta, è stato comprato per 300 mila euro, le mura per oltre due milioni, ‘ La Rotonda’ fu acquistato dai cinesi nel 2004. Operazioni costose dietro le quali, secondo l’accusa, ci sarebbero stati gli interessi della ‘ ndrangheta. Anche perché, fino al 2011, il reddito dichiarato era pari a zero. Lania – difeso dagli avvocati Irma Conti e Alessandro Cassiani – per gli inquirenti era «il dominus di tutta l’operazione, che – si legge nell’ordinanza – attraverso una serie di complesse vicende societarie e un reticolo di operazioni finanziarie, facendo ricorso a prestiti personali e a mutui ipotecari, utilizzando spesso denaro contante e con molteplici operazioni bancarie spesso illogiche, acquisiva beni mobili e immobili, aziende e società, intestandone in modo fittizio le quote di capitali sociali a soggetti prestanome, legati allo stesso da vincolo di parentela (come la moglie, Marilena Tersigni, ndr) o in quanto dipendenti dallo stesso ( come l’egiziano Abdel Meguid Amro e l’ucraina Mariya Danylchuck, difesi da Francesco Bianchi, ndr)» che nei suoi ristoranti facevano i camerieri. Salvatore Lania, scriveva ancora il gip Gaspare Sturzo, «nell’aprile 2012 attribuiva fittiziamente a Carmela Lania (sua sorella, ndr), Leo Versace (cognato, ndr) e Gianfranco Romeo (ritenuto socio occulto di Lania, tutti difesi dall’avvocato Giovanna Gallo, ndr) titolarità e gestione della società ‘ Ristorante Pizzeria Faciolaro”», mentre nel settembre 2013, «attribuiva fittiziamente» ad Amro e Danylchuck «titolarità e gestione della Suriaca srl e del ristorante Er Faciolaro». Una storia smentita, ora, dai giudici. A insospettire gli inquirenti erano state anche le tempistiche: Versace, Romeo e Lania hanno infatti acquisito le quote di gestione del ristorante “Er Faciolaro” durante il processo per la merce contraffatta, stesso periodo in cui Lania aveva acquisito la proprietà delle mure e della licenza di ristorazione dalla società “Fiorenza”, stipulando con la sorella e gli altri due soci un contratto d’affitto d’azienda, identico al pacchetto acquistato dai precedenti proprietari. Secondo la procura antimafia, però, quel contratto rappresenterebbe proprio il tentativo, da parte dell’imprenditore calabrese, di evitare misure di prevenzione durante il processo. Un’ipotesi portata avanti nonostante l’imprenditore, nello stesso periodo, sia rimasto titolare del ristorante “La Rotonda”, acquisendo, inoltre, le quote del “Barroccio”. Durante il processo per intestazione fittizia, l’avvocato Gallo ha inoltre documentato la provenienza dei soldi con i quali Versace, Romeo e Lania hanno acquistato le quote di gestione, poi cedute. E ora a dar loro ragione c’è una sentenza, le cui motivazioni verranno rese note nel giro di qualche mese. I beni, in condizioni finanziarie precarie dopo quattro anni di amministrazione giudiziaria, tornano ora ai proprietari «con ampia soddisfazione» degli avvocati Conti e Gallo – si legge in una nota – alla luce «dell’insussistenza dell’ipotesi accusatoria che è stata oggetto di attenzione mediatica».

«C’è mafia nel Comune? Forse. In ogni caso è meglio scioglierlo…». L’avvocatura dello Stato contro l’ex sindaco e gli ex assessori del Comune calabrese, scrive Simona Musco il 10 Febbraio 2019 su Il Dubbio.  «Qualsivoglia compagine amministrativa era destinata a risentire nello svolgimento delle proprie funzioni». Indipendentemente dal vincitore delle elezioni del 2013, a Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, la ‘ ndrangheta avrebbe avuto gioco facile e avrebbe allungato la sua lunga mano su ogni aspetto della vita amministrativa. Si racchiude in queste poche righe il succo della memoria difensiva dell’avvocatura dello Stato contro l’ex sindaco e gli ex assessori del Comune della Locride, decisi a far annullare lo scioglimento della loro amministrazione, decretato a novembre del 2017. Il passaggio è a pagina 24 della memoria, dove l’avvocato Tito Varrone cita la presenza vigile «di persone contigue ai due sodalizi di stampo mafioso» – gli Aquino e i Mazzaferro – che «trovava la sua logica spiegazione» nell’intenzione dei clan «di controllare chi si recava ai seggi e, più in generale, di inviare puntuali segnali all’elettorato in merito alle scelte da compiersi». Insomma, il classico controllo del territorio, sintomatico, secondo l’avvocatura dello Stato, «sia di possibili se non altamente probabili interferenze» da parte dei clan per «orientare l’andamento della competizione elettorale», sia «dell’asfissiante presenza della criminalità organizzata di cui qualsivoglia compagine amministrativa era destinata necessariamente a risentire nello svolgimento delle proprie funzioni». Insomma, a Marina di Gioiosa non sarebbe stato possibile avere un’amministrazione “pulita”, in nessun caso, anche se a vincere non fosse stato l’avvocato Domenico Vestito. Ma per Francesco Macrì, difensore degli ex amministratori, si tratterebbe di «una vera e propria teorica, secondo cui chi opera politicamente in territori in cui è stata accertata la presenza della criminalità mafiosa è destinato a subire inevitabilmente l’influenza e il condizionamento di tali forze negative afferma -. Tesi davvero insostenibile, vero e proprio determinismo. Sarebbe come dire che a Palermo, a Napoli, a Catania, ad Agrigento non è possibile amministrare senza essere inquinati o condizionati dai sodalizi criminosi presenti sui rispettivi territori». Affermazioni, aggiunge il legale, che denoterebbero «il marcato indirizzo pregiudiziale» alla base di procedimenti, che, invece, «meriterebbero serenità di analisi e di giudizio» e che rappresenta «non l’esigenza di ricercare verità e giustizia, quanto, piuttosto, di dipingere un quadro a tinte fosche, nel tentativo, maldestro, di dimostrare assiomi e provare teoremi». Era stata la stessa Commissione d’accesso, evidenzia ancora l’avvocato Macrì, a definire «dinamica e propulsiva» l’azione degli amministratori, sul cui conto, scriveva il prefetto, «nulla risulta». Ma a penalizzarli è stata soprattutto la partecipazione dell’ex assessore ai Lavori pubblici, Francesco Lupis, al sesto memorial in onore del figlio di Nicola Rocco Aquino, «esponente di spicco dell’organizzazione criminale», morto a 26 anni per una malattia. «È sin troppo evidente – scrive l’avvocatura – che nel momento in cui si è assunta una carica pubblica (..) si impone uno stile di vita tale da porre il singolo al di sopra di ogni sospetto». Quello era, dunque, un episodio sintomatico dell’esistenza di possibili contatti fra Lupis «e consorterie di stampo mafioso». Quale elemento «univoco, concreto e rilevante», si chiede però Macrì, darebbe ragione del «sospetto di tale collegamento?». E quale sarebbe il favore «nei confronti della criminalità» da parte di Lupis? Il legale parla di «enunciazioni prive di consistenza fattuale, e, quindi, giuridica», mentre la documentazione allegata al ricorso dimostrerebbe che «nei confronti della famiglia Aquino» l’amministrazione «ha mantenuto un atteggiamento di assoluto rigore e fermezza – afferma – Prova ne è la revoca, in tempi brevissimi, delle concessioni demaniali marittime» intestate proprio alla famiglia Aquino. Tra i temi affrontati anche gli affidamenti di appalti e lavori, sui quali, contesta Macrì, l’avvocatura giungerebbe a «valutazioni su atti inesistenti», tanto da dubitare «che possa trattarsi di refusi» determinati «da un disattento “copia e incolla”». Varrone cita, infatti, diversi appalti censurati dalla Commissione d’accesso, ma, evidenzia l’avvocato, l’unico appalto messo in discussione è quello relativo al muro del lungomare. «Paradossale, infine, l’enunciato secondo il quale la Commissione straordinaria, che attualmente gestisce il Comune di Marina di Gioiosa Ionica, sarebbe totalmente estranea agli aspetti amministrativi della vita dell’ente, che invece ricadrebbero tutti sotto la responsabilità del Rup conclude -. Per sciogliere le amministrazioni comunali tale distinzione non ha alcun peso e quindi le inefficienze della burocrazia ricadrebbero sempre anche sugli organi politici, mentre per difendere le commissioni prefettizie tale differenziazione risorge».

·         Romeo & Company. Sei meridionale? Sei Mafioso!

Caso Romeo. «Mio fratello in carcere come un boss. Ma è soltanto un penalista». Simona Musco l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. La denuncia del fratello, suo legale: «la procura ha inviato gli atti al tdl con sensibile ritardo rispetto ad altri. Per il giudice potrebbe reiterare il reato per via della sua professione. Ma dopo l’arresto si è subito autosospeso». Da gennaio scorso si trova in carcere, con l’accusa di concorso esterno. E nonostante gli altri soggetti indagati per lo stesso reato siano stati già rimessi in libertà, per l’avvocato Carlo Maria Romeo, 61enne di origini calabresi, le cose sono andate diversamente. A denunciare la situazione è il fratello del legale, Oreste Romeo, anche lui avvocato e difensore del professionista oggi in carcere a Bologna. Secondo cui, «l’uso sovrabbondante, disinvolto ed indiscriminato della custodia in carcere» sembrerebbe trovare un’aggravante nella «professione esercitata» e nella «provenienza geografica: sembra quasi che l’essere "calabresi" sia anche una condizione in grado di trasformare in portatori di chissà quale virus patogeno sul territorio nazionale» . La vicenda ha a che fare con l’operazione antimafia “Geenna”, che ha scoperchiato una presunta cellula ‘ndranghetista operante in Valle d’Aosta. In carcere, dal 23 gennaio scorso, ci sono presunti boss e affiliati e, assieme a loro, Romeo, accusato per vicende risalenti al 2011 e al 2016, rispetto alle quali si è sempre dichiarato estraneo. «Ma dalle accuse si difenderà in tribunale», afferma convinto Oreste Romeo. Che, invece, contesta la custodia cautelare in carcere, inspiegabile, a suo dire, soprattutto alla luce dell’iter che ha portato i coindagati ad ottenere i domiciliari. L’avvocato si è visto rigettare, infatti, tutte le richieste di scarcerazione presentate: secondo il giudice, pur non essendoci rischio di inquinamento probatorio, essendo le indagini già chiuse da un pezzo, rimane attuale la possibilità che Romeo reiteri il reato, per via dei suoi rapporti personali con altri indagati. Ovvero rapporti professionali, essendo difensore di tre persone attualmente in carcere, due, addirittura, reclusi per condanne definitive relative ad altre vicende giudiziarie. Un pericolo che per il giudice sussisterebbe nonostante Romeo, dopo l’arresto, si sia subito autosospeso dall’ordine degli avvocati. La stranezza più vistosa, spiega oggi Oreste Romeo, sta però nella disparità di trattamento riservata al fratello rispetto a Marco Sorbara, consigliere regionale valdostano, anche lui accusato di concorso esterno. I due sono infatti finiti in carcere lo stesso giorno e lo stesso giorno – il 27 maggio – si sono visti rigettare dalla Cassazione il ricorso contro l’ordinanza del tribunale del Riesame di Torino. E in questo iter parallelo, il 22 luglio si sono visti rigettare dal gip un’ulteriore istanza di modifica della misura in corso di esecuzione, nonostante, per Sorbara, il pm avesse anche dato parere favorevole alla sostituzione della custodia in carcere con quella ai domiciliari. Entrambi hanno dunque proposto appello, rinunciando alla sospensione feriale dei termini, dal primo al 31 agosto, con lo scopo di ottenere la fissazione dell’udienza il prima possibile. E qui, dunque, le strade fino a quel momento identiche dei due indagati si dividono. «Nei fatti è accaduto qualcosa di cui ancora non ci si riesce a spiegare la ragione – spiega Oreste Romeo, interpellato dal Dubbio -. La Procura ha sollecitamente inviato al TdL gli atti riguardanti la sola posizione di Sorbara, per il quale sarebbe stata fissata udienza camerale il 21 agosto ed il 24 agosto egli avrebbe potuto lasciare il carcere, essendogli stati concessi gli arresti domiciliari. Nonostante fosse indagato nello stesso procedimento di Sorbara, per Romeo la Procura ha invece inviato gli atti al TdL con sensibile ritardo rispetto al coindagato, fatto di per sé solo anomalo e grave, anche tenuto conto del fatto che i pm procedenti, nella data del 14 agosto 2019, hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari, il cui termine, peraltro, era abbondantemente scaduto quasi diciotto mesi prima, ossia il 24 febbraio 2018». L’udienza per la discussione dell’appello di Romeo è stata fissata il 18 ottobre e la comunicazione ai suoi difensori è arrivata solo il 5, tredici giorni prima. «Dunque – si chiede il suo difensore – può escludersi che la posizione dell’avvocato Romeo sia stata sottratta a quella del giudice naturale precostituito per legge per effetto del ritardo del pm nell’invio degli atti al tribunale della libertà? Perché la Procura ha operato un distinguo tra i due indagati nell’invio degli atti al tdl?». Domande, per il momento, senza risposta. Ma rimane qualche dato certo, intanto: il TdL di Torino, all’udienza del 18 ottobre, «ha visto la partecipazione, quale relatrice, della stessa giudice estensore dell’ordinanza del tribunale che a febbraio aveva disatteso la richiesta di Riesame». Dal giorno dell’arresto ad oggi, Carlo Maria Romeo ha perso 16 chili. Il suo è un nome notissimo nell’ambiente giudiziario torinese: da quando, negli anni ’90, si è trasferito in Piemonte, ha sempre difeso tutti i calabresi coinvolti in procedimenti di ’ ndrangheta a Torino, da Cartagine a Minotauro, da Colpo di coda a San Michele, fino a Big Bang. Ma non solo boss e gregari incorreggibili: Romeo ha pure consegnato all’autorità giudiziaria la scelta dissociativa operata da alcuni suoi assistiti ritenuti esponenti apicali della ndrangheta piemontese. Subito dopo l’arresto, «eseguito quando il termine di durata delle indagini era scaduto già da ben undici mesi», sottolinea il fratello, Romeo ha redatto due manoscritti – il primo durante gli iniziali 45 giorni di isolamento a Verbania – per prendere le distanze da qualsiasi contesto mafioso e per rivendicare, «educazione, formazione, cultura e storia familiare che lo collocano agli antipodi rispetto a qualsiasi organizzazione criminale». Ma non solo: il penalista ha anche formulato richiesta di incidente probatorio, finalizzata a sentire il collaboratore di giustizia in contraddittorio, iniziativa che ha «incontrato singolari motivi di diniego del gip legati allo stato del procedimento». La sua vicenda, denuncia ora il fratello, «è destinata a stimolare profonde riflessioni sul grave ed allarmante deficit di giustizia che comprime sino all’annichilimento diritti primari ed irrinunciabili».

·         La gogna antimafiosa.

Da liberoquotidiano.it il 13 dicembre 2019. È finita nel peggiore dei modi per Salvatore Giardina, il sindaco di Mezzojuso (Palermo) che lo scorso maggio, in diretta a Non è l'Arena, aveva dato del "farabutto" a Massimo Giletti finendo quasi alle mani con il conduttore del talk di La7, proprio nella piazza della cittadina siciliana tra gli schiamazzi del pubblico presente. La ministra dell'Interno Luciana Lamorgese ha infatti deciso di sciogliere il Consiglio comunale, mandando così a casa la giunta di Giardina, per il sospetto di infiltrazioni mafiose. Proprio l'accusa delle tre sorelle Napoli, che spesso ospiti di Giletti avevano denunciato le pressioni e i soprusi di chi cercava di obbligarle a vendere terreni di loro proprietà. Dietro le motivazioni tecniche di quella vicenda in apparenza privata, ha spiegato spesso Giletti, c'è "invece un malessere strutturale, non solo l'invasione delle vacche, cosa già di per sé grave. Un mondo inquietante, fatto di omertà e paura". Un'atmosfera che ha convinto poi la Lamorgese a decretare il fallimento della politica a Mezzojuso. Domenica sera, a Non è l'Arena, le sorelle Napoli commenteranno la vicenda con una nuova diretta dalla Sicilia.

Sciolto per mafia il Comune del sindaco che aveva aggredito Giletti. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Felice Cavallaro. La decisione del ministro Lamorgese. Il programma «Non è l’Arena» aveva dedicato al caso un’intera inchiesta a puntate. Fino allo scontro in diretta. Mezzojuso (Pa), Giletti: «Una tv che va fino in fondo, alla fine vince». Il sindaco s’era fatto affiancare come assessore anche da un generale dei carabinieri in pensione, ma non è bastato per scongiurare lo scioglimento del Consiglio comunale di Mezzojuso. Tutti a casa, giunta compresa, per il rischio di sospette infiltrazioni mafiose. Una decisione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che si trasforma in una vittoria per Marianna, Ina e Irene Napoli, le tre sorelle che con la madre Gina La Barbera combattono da anni contro i soprusi di chi voleva costringerle a vendere i terreni. E contro il sindaco Salvatore Giardina. Una storia da film in bianco e nero, una vicenda che sembra ricacciare la cronaca indietro di cinquant’anni fra i campi della provincia di Palermo, non lontano da Corleone, nelle terre da conquistare anche distruggendo i raccolti delle tre paladine con uno stuolo di vacche selvatiche lasciate scorrazzare sul seminato dopo aver divelto le recinzioni. Un racconto ben noto ai telespettatori di «Non è l’arena», la trasmissione de La7 condotta da Massimo Giletti, da due anni protagonista di una inchiesta a puntate segnata da una querela del sindaco che ha perso in tribunale e da una sequela di reciproche denunce per diffamazione fra sindaco e sorelle Napoli, a loro volta ingiustamente sospettate di una inventata vicinanza del padre morto da dieci anni alla mafia. Un contropiede adesso intercettato da una decisione che azzera la politica in questo paese dove proprio l’anno scorso furono arrestati per estorsione tre «picciotti» dei quali si è occupata anche la commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava, interessata pure alla partecipazione del sindaco al funerale di un boss mafioso. Circostanza al centro di un aspro confronto fra lo stesso Giardina e Giletti durante una diretta in trasferta nella turbolenta piazza di Mezzojuso. Un contraddittorio che stava per sfociare in uno scontro fisico. Sintomo di una tensione che va ben oltre il contesto delle vacche «selvatiche» lanciate sui terreni delle sorelle Napoli. Selvatiche ma non troppo, visto che alcune avevano i marchi del vicino Istituto zootecnico. C’era dell’altro, come ha poi insistito Giletti e come sembra confermare la decisone di sciogliere il consiglio comunale. Con il popolare conduttore da tempo convinto che la partita fosse molto più complicata di come era apparsa all’inizio: «C’era invece un malessere strutturale, non solo l’invasione delle vacche, cosa già di per sé grave. Un mondo inquietante, fatto di omertà e paura». Ma la speranza espressa l’anno scorso da Giletti «di avere scosso le coscienze delle persone oneste di Mezzojuso», s’era infranta davanti alla piazza vuota che l’inviato de La7 Pietro Lupo ha continuato a trovare in occasione di ogni collegamento. Incredulo l’ormai ex sindaco Giardina: «Voglio rassicurare i cittadini di Mezzojuso perché restino fiduciosi nelle Istituzioni, sicuro che il nostro ordinamento legislativo garantisce strumenti e rimedi adeguati a far valere le nostre ragioni nelle sedi opportune». Opposizione quindi annunciata, mentre mostrano soddisfazione le sorelle nel mirino dei «picciotti», come dice Irene Napoli: «Lo scioglimento costituisce un ulteriore riscontro su quanto noi abbiamo già denunciato e quanto noi abbiamo subito e che continuiamo ancora a subire». E questo lo ripeteranno con tutta probabilità domenica sera con una nuova diretta da Mezzojuso.

Massimo Giletti, a Mezzojuso applausi al sindaco che gli dà del "farabutto". E lui scende dal palco per chiedere spiegazioni. Il Fatto Quotidiano il 13 Maggio 2019. Tensione a Non è L’Arena (La7) durante la diretta della trasmissione nella piazza di Mezzojuso, il paese siciliano delle sorelle Napoli, che da 12 anni denunciano intimidazioni e minacce da parte della mafia dei pascoli. Sul palco è presente anche il sindaco del Comune in provincia di Palermo, Salvatore Giardina, che accusa le donne di non pagare e di percepire pensioni e stipendi da 4500 euro al mese. Il pubblico in piazza difende il primo cittadino e, tra urla e proteste, più volte interrompe il dibattito tra gli ospiti sul palco. A insorgere la prima volta è una delle sorelle Napoli: “Quando c’è stato Danilo Lupo (giornalista di Non è L’Arena, ndr) siete venuti in piazza? Vergogna! Fate schifo“. Successivamente viene mandato un filmato in cui il sindaco di Mezzojuso, ripreso di nascosto mentre parla con Nunzia De Girolamo, dà del "farabutto" a Giletti. Tra il pubblico si levano gli applausi e il giornalista decide di scendere dal palco per affrontare “de visu” i suoi detrattori. Dopo un fitto battibecco tra alcuni abitanti del paesino, Giletti chiede ripetutamente perché sarebbe per loro un farabutto e avrebbe raccontato “una storia non vera”. Ma non ottiene le risposte alle sue domande. E commenta: “E‘ la cultura mafiosa, è l’omertà che dovete combattere. Questa è verità“. Poi, rivolgendosi al sindaco, puntualizza: “Del termine ‘farabutto’ magari se ne assumerà la responsabilità in sede penale“.

Da Corriere.it il 13 maggio 2019. Momenti di tensione durante la puntata speciale di "Non è l’Arena", il programma condotto da Massimo Giletti su La7, straordinariamente in diretta dalla piazza di Mezzojuso, paesino in provincia di Palermo finito al centro delle cronache per il caso delle sorelle Napoli, minacciate dalla cosiddetta mafia dei pascoli. Sul palco Il conduttore viene accusato dal sindaco, Salvatore Giardina, di mistificare la realtà. I due si avvicinano pericolosamente con Giletti che chiede: "Mi mette le mani addosso?". "Non mi permetterei mai ma lei dovrebbe studiare prima di raccontare queste storie", replica il primo cittadino che poi abbandona il palco.

Non è l'Arena, rissa sfiorata tra Giletti e il sindaco di Mezzojuso. Momenti di tensione durante la puntata speciale di "Non è l’Arena", il programma condotto da Massimo Giletti su La7. Aurora Vigne, Lunedì 13/05/2019, su Il Giornale. Ci sono stati momenti di tensione durante la puntata speciale di Non è l’Arena. Il programma condotto da Massimo Giletti su La7 era in diretta dalla piazza di Mezzojuso, paesino in provincia di Palermo. Il Comune era finito al centro delle cronache per il caso delle sorelle Napoli, che da anni denunciano minacce e intimidazioni da parte della mafia dei pascoli nei loro terreni tra Corleone e Mezzojuso. Sul palco il conduttore è stato accusato dal sindaco, Salvatore Giardina, di mistificare la realtà. I due a un certo punti si sono avvicinati pericolosamente e Giletti ha chiesto: "Mi mette le mani addosso?". "Non mi permetterei mai ma lei dovrebbe studiare prima di raccontare queste storie", ha replicato subito il primo cittadino prima di abbandonare il palco. Ma non è la prima volta che tra i due è polemica. Anche a gennaio, infatti, i due si erano attaccati. Il primo cittadino aveva dichiarato che la trasmissione in onda su La7 ha "gravemente danneggiato l'immagine di un'intera collettività". "Ormai gli obiettivi di Giletti sono due: difendere le sorelle Napoli e massacrare mediaticamente il sindaco di Mezzojuso perché "non poteva non sapere e si è girato la testa dall’altra parte per 5 anni", aveva dichiarato con tono scocciato Salvatore Giardina.

Giletti e la rissa col sindaco:  «È stato lui a mettermi le  mani addosso. Grave che vada  ai funerali dei boss». Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019  da Alfio Sciacca su Corriere.it. «Diciamo che è stata una battaglia televisiva molto forte. Comunque la migliore lettura della serata sono le parole del sindaco di Troina che ha detto: “Io i boss mafiosi li accompagno in carcere, non al cimitero come ha fatto il sindaco di Mezzojuso Giardina”. Credo che questa sia la sintesi migliore per commentare quanto avvenuto in trasmissione. Testimonia che c’è un’altra Sicilia che non accetta passivamente. Come ci sono tre donne che a Mezzojuso si sono ribellate, c’è tanta altra gente che lotta contro la mafia. L’immagine della Sicilia non è certo quella che ha dato il sindaco Giardina ieri sera». Massimo Giletti rivede alla moviola la lunga diretta televisiva di «Non è l’Arena» dalla piazza principale di Mezzojuso (Palermo) e si sofferma sui continui scontri con il pubblico e, sopratutto, sul momento più caldo della serata, quando si è arrivati al contatto fisico con il sindaco Salvatore Giardina.

È stata abbastanza dura...

«Io credo che il coraggio dei giornalisti deve essere unito all’umiltà. Il cronista, e io sono un cronista, deve andare sui posti. Conoscere la realtà per avere una miglior valutazione delle sue sensazioni. Io ho comunque rispetto per le persone che mi hanno fischiato ed insultato. Perché ci hanno comunque messo la faccia. Poi spero possano trarre una lezione da tutta questa storia. Non mi spaventa certo la dialettica accesa, quella la metti in preventivo»

Ma con Giardina siete veramente arrivati ad una passo dallo scontro fisico?

«La verità è che il sindaco mi ha messo le mani addosso, mi ha colpito con una manata. Ma io non ho reagito. Io mi sono alzato perché c’era una delle sorelle che stava in mezzo e capivo che la situazione stava diventando critica. Allora l’ho guardato in faccia, lui non rispondeva alla mie domande e quindi c’è stato quel momento complicato. Può capitare, non è quello il problema. La cosa grave è quello che si dice. E quando lui dice che è andato ai funerali di don Cola (l’ex capomafia di Messojuso ndr) perché lui va ai funerali di tutti mi preoccupa, perché lui rappresenta le istituzioni».

Qual era il clima durante gli stacchi pubblicitari?

«Molto, molto teso. Devo ringraziare le forze dell’ordine che hanno fatto un grandissimo lavoro. Ripeto, le trasmissioni servono anche a scontrarsi, non è questo il problema. La cosa peggiore nella vicenda delle sorelle Napoli è la solitudine. A me chi era loro padre, che storia avesse non mi interessa più di tanto. Qui stiamo parlando di tre donne che, indipendente dal passato, hanno fatto una denuncia ai carabinieri e non hanno piegato la testa».

Comunque il sindaco ha dimostrato una dialettica e una capacità di argomentare non indifferente...

«È meglio avere un confronto con chi è capace. Il problema è quello che si dice. Quando sostiene che un colonnello dei carabinieri avrebbe detto che il padre delle sorelle Napoli era un capomafia, io vado a smentirlo con il documento vero, da cui si evince che si parla di un altro signor Napoli».

Ad un certo punto il sindaco ha abbandonato la trasmissione, su tutte le furie. Ci saranno ulteriori strascichi giudiziari?

«Un processo c’è già stato e sono stato assolto. Se vuole fare altre denunce faccia pure».

Comunque a tratti anche la piazza l’ha contestata platealmente...

«Io nella vita diffido delle piazze come concetto. Ricordo che Cristo è stato venduto al posto di Barabba. Ma ripeto, io preferisco una piazza che parla, grida, ti contesta ad una piazza silente. Io sono andato a Mezzojuso anche per dialogare con quella piazza, non mi sono certo tirato indietro».

Ci saranno altre dirette in piazza del sul programma o è stata un’esperienza unica?

«Ieri LA 7 ha dimostrato di essere una tv viva che fa servizio pubblico. Era dai tempi di Santoro che non si faceva una cosa del genere. Anche gli ascolti ci hanno premiato: abbiamo sfiorato il 7%. Penso che l’idea dei dirigenti de LA 7 sia di continuare su questa strada».

Tutto ciò la fidelizza ancora di più a LA7?

«È un bel percorso, vedremo il futuro»

Giletti e la rissa con il sindaco "Ecco cos'è successo a Mezzojuso". Il conduttore replica alle accuse del primo cittadino di Mezzojuso e racconta di una Sicilia che vuole dare un'immagine diversa di se stessa. Roberto Chifari, Mercoledì 15/05/2019, su Il Giornale. Massimo Giletti non ci sta alle accuse lanciate dal sindaco di Mezzojuso, Salvatore Giardina, e affida il suo pensiero al Giornale.it. Una contesa, tra il conduttore e il primo cittadino, che va avanti da mesi per la vicenda delle sorelle Napoli e che ha avuto l'ultimo epilogo dopo la puntata della trasmissione 'Non è l'Arena' andata in onda dalla piazza di Mezzojuso.

Riavvolgiamo il nastro. Cosa è successo l'altra sera?

"A me pare che si sia persa l'ennesima occasione. Io ho aperto la puntata, dalla bellissima piazza di Mezzojuso, dando la mia massima disponibilità ma quando mi accorgo che il sindaco di Mezzojuso afferma di andare alla tumulazione di Don Cola (l'ex capomafia di Mezzojuso, ndr). Per me non c'è più dialogo. La stima che io posso avere per una persona, seppur la pensa diversamente da me, non c'è più nel momento stesso in cui fa un'affermazione del genere. Credo che andare alla tumulazione dell'uomo che portava i pizzini di Provenzano, l'uomo che ha coperto la latitanza del boss corleonese sia un atto gravissimo. Provenzano non è uno qualunque. È l'uomo delle stragi, quando una persona riveste un ruolo istituzionale ed esterna un pensiero del genere, lì finisce il gioco e capisco tante cose".

Tipo?

"Ad esempio, capisco perché queste donne sono isolate. Se un sindaco di un paese non ha vergogna di dire che è andato alla tumulazione di Don Cola, vuol dire che di strada ce n'è tanta ancora da fare. La sintesi di quella sera l'ha detta il sindaco di Troina, Fabio Venezia, quando rivolgendosi ai cittadini di Mezzojuso dice: "Non parlare di mafia significa aiutare la mafia. L'omertà ha isolato persone che hanno poi perso la vita". Ecco se c'è un pregio della nostra trasmissione è quella di dare voce a tutti, ma anche quella di far vedere la bellezza di Mezzojuso con quelle due splendide chiese".

Qual è il messaggio che deve passare?

"Essere mafiosi è qualcosa di grave. Bisogna fare passare un messaggio diverso. Il pregio di quella serata è stata far vedere quella parte siciliana sana e sentire gli amici di Troina dire forte e chiaro: 'No alla mafia'. Il sindaco Venezia da quattro anni vive sotto scorta ed è riuscito a sconfiggere la mafia dei pascoli. Quando gli ho detto che Giardina, all'epoca assessore, andò alla tumulazione di don Cola La Barbera nonostante la Questura avesse vietato i funerali pubblici, lui ha risposto con una frase bellissima che sintetizza la serata: 'Io i mafiosi li accompagno dietro le sbarre e non al cimitero'. Ecco questa è la differenza".

Il sindaco contesta che la trasmissione ha fatto poco share. 

"Il sindaco dovrebbe informarsi meglio. Sfiorare il 7 per cento è un record per una trasmissione che è durata 4 ore 40 minuti parlando di mafia. Dovrebbe informarsi sull'analisi dei dati di ascolto. E potrei aggiungere anche un altro dato che fotografa la situazione attuale. Siamo stati la seconda televisione italiana per ascolti dopo la mezzanotte, con picchi dell'11 per cento. Segno che fare un'informazione di qualità, sul territorio e parlare alla gente di argomenti spinosi come la mafia: interessa perché la gente vuole sapere, vuole informarsi".

Giardina però, sostiene che lei abbia alterato la realtà.

"Io non mistifico nulla. Ho semplicemente mostrato al sindaco un atto notarile che attesta che il terreno è stato acquistato dal nonno delle tre sorelle nel 1923 mentre il sindaco parlava di acquisto più recente fatto dal padre delle tre donne, avvenuto negli anni in cui quei terreni erano sotto il controllo della mafia corleonese".

Eppure a Mezzojuso la tensione è palpabile. Non c'è il rischio che il paese abbia una sovraesposizione mediatica?

"Io quando ho fatto il primo collegamento con Mezzojuso ho teso la mano. Antonio di Pietro in trasmissione disse: 'Ma sindaco dove è stato in tutti questi anni?' Ed è vero, perché qualcuno ha sicuramente sbagliato. Io dal canto mio sono uno che fa il suo mestiere, cerca di approfondire, di conoscere la realtà e cerca di farlo nel miglior modo possibile".

Le sorelle Napoli adesso sembrano ancora più isolate.

"Queste donne lottano da anni per i propri diritti e come unico salvagente hanno i carabinieri. Non si può gettare fango su di loro dicendo che Salvatore Napoli (il padre, ndr) era un capo mafioso quando invece, come attesta la relazione del colonnello Obinu, il capo mafioso era un suo lontano cugino, Giovanni Napoli. Allora qualche domanda me la faccio. Mi domando ma che senso ha parlare del padre o del nonno? Ci sono tre donne che si sono rivolte ai carabinieri denunciando pressioni e intimidazioni fatte con metodi che fanno molto pensare alla mafia. E invece, di elogiarle per l'impegno civico, vengono isolate".

Adesso sulla storia delle sorelle Napoli c'è un libro che ne racconta le vicissitudini.

"Nel mio libro "Le Dannate" io non nascondo nulla, ma mi piace raccontare la Sicilia di queste tre donne. È la Sicilia che vuole voltare pagina. Le sorelle Napoli sono andate nel 2014 dai carabinieri e hanno denunciato le pressioni che hanno ricevuto. E questo voglio fare: raccontare quello che hanno fatto queste tre donne. La grande maggioranza dei siciliani è vicina a queste donne. Io dico solo che un paese dovrebbe unirsi e denunciare".

Dopo la lite con Giletti gli insulti su Wikipedia: "Sindaco di Mezzojuso cornutazzo mafioso". Durante l'ultima puntata della trasmissione, andata in onda proprio dalla piazza del paese dell'entroterra palermitano, tra il conduttore e Salvatore Giardina si è sfiorata la rissa. Qualche ora dopo qualcuno ha modificato la pagina dedicata al piccolo Comune. Palermo Today 13 maggio 2019. "Il sindaco Giardina e parte della popolazione sono dei grandissimi cornutazzi mafiosi". La frase choc non è comparsa su qualche muro di Mezzojuso, paese amministrato dal primo cittadino chiamato in causa, ma sulla pagina di Wikipedia, enciclopedia online gratuita e a contenuto libero, dedicata al piccolo comune. Solo ieri Salvatore Giardina è stato ospite di una puntata di Non è l'Arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti, andata in onda proprio dalla piazza del paese dell'entroterra palermitano. Una puntata dedicata quasi interamente al caso delle sorelle Napoli durante la quale il conduttore e il primo cittadino per poco non si picchiavano. Dopo avergli dato del farabutto a Giletti, Giardina ha rincarato la dose contro il conduttore - che da mesi ha preso le difese delle sorelle Napoli - affermando: "Lei è un falsificatore". La pagina Wikipedia di Mezzojuso risulta modificata l'ultima volta qualche minuto dopo le 17 di oggi. Non è possibile risalire all'autore della modifica ma quel che è certo è da che parte sta. La voce che descrive il Comune di poco più di duemila abitanti chiude infatti così: "Viva le sorelle Napoli, tutta la vita. Sindaco chiaramente colluso e figlio di una grandissima zoccola".

Irene, Gioacchina e Marianna Napoli sono proprietarie di un'azienda agricola con oltre 70 ettari di terreno tra Corleone e Mezzojuso dove coltivano cereali e foraggio. Hanno denunciato di aver subito minacce e intimidazioni mafiose per costringerle a cedere l'attività. Una storia che Giletti ha raccontato passo passo. Secondo il sindaco Giardina però non lo avrebbe fatto correttamente. "Prima di raccontare certe storie avrebbe dovuto studiare", ha tuonato ieri il primo cittadino rivolto a Massimo Giletti.

Il sindaco di Mezzojuso contro Giletti: "Non fa informazione". La vicenda delle sorelle Napoli, che da anni denunciano pressioni, intimidazioni e minacce per cedere alla mafia i terreni di loro proprietà. Per il primo cittadino Salvatore Giardina la trasmissione in onda su La7 ha "gravemente danneggiato l'immagine di un'intera collettività". Roberto Chifari, Lunedì 21/01/2019, su Il Giornale. Il sindaco di Mezzojuso (Palermo), Salvatore Giardina, non ci sta ad essere etichettato come colluso con la mafia e tuona contro la trasmissione di La7 Non è l'Arena condotta da Massimo Giletti. Il nodo della questione è legato alla querelle delle sorelle Irene, Anna e Gioacchina Napoli, che da anni denunciano minacce e intimidazioni da parte della mafia dei pascoli nei loro terreni tra Corleone e Mezzojuso. "Giletti continua ad accusarmi di avere girato la testa dall'altra parte per cinque anni - dice il primo cittadino - e il suo collaboratore Klaus Davi dice che voglio 'i voti della mafia' e per questo devo chiedere scusa. Quindi, secondo questa tesi, avrei deliberatamente scelto di ignorare le denunce delle sorelle Napoli e non ho fatto alcun atto di solidarietà in loro favore, agendo in tal modo per ottenere l'appoggio elettorale della mafia. Questo è il messaggio che è passato. Ma ci rendiamo conto della gravità di queste affermazioni?". L'episodio che h fatto saltare dalla sedia il primo cittadino di Mezzojuso risale a ieri sera, quando è andata in onda l'ennesima puntata sulle sorelle Napoli i cui terreni ricadono tra i comuni di Corleone e Mezzojuso. "Il signor Giletti non ha perso occasione per seguire il suo copione che mette in cattiva luce me e l’intera comunità di Mezzojuso - prosegue -. Sabato mattina ho tenuto una conferenza stampa dove ho spiegato punto per punto cosa abbiamo fatto per le sorelle Napoli e rispondevo ad ogni accusa formulatami nel corso delle sue trasmissioni. Il suo inviato Danilo Lupo era presente alla conferenza, ha preso la cartella stampa e ha registrato l’intero dibattito. La deontologia professionale dei giornalisti prevede che di una conferenza stampa si riporti al cittadino il pensiero di chi tiene quella conferenza. Poi, lo si può criticare o condividere. Invece “La 7” va e riporta quello che più le conviene per sostenere la sua tesi". L'accusa del sindaco Giardina è chiara. In fase di montaggio del servizio la conferenza stampa sarebbe stata stravolta e l'intervento del primo cittadino sarebbe stato tagliato. "Giletti ha mandato soltanto uno spezzone di tre minuti per dare spazio ad una domanda del suo inviato - dice Giardina -. E cioè mi è stato chiesto se volessi sconfessare o no la voce di un tizio che dice che tramite un non meglio precisato personaggio vicino all’amministrazione, e quindi a me, avrei fatto sapere a Salvatore Battaglia che se non si schiererà più in piazza a difesa delle sorelle Napoli gli avrei fatto avere un posto di lavoro in un’azienda del territorio". Un'accusa che il sindaco bolla come offensiva per il suo operato di amministratore comunale e che lede qualunque principio etico. "Ormai gli obiettivi di Giletti sono due: difendere le sorelle Napoli e massacrare mediaticamente il sindaco di Mezzojuso perché "non poteva non sapere e si è girato la testa dall’altra parte per 5 anni". Mentre prima c’era un solo bersaglio, i presunti estorti delle Napoli, che vanno cercati e finalmente presi e condannati dopo cinque anni di denunce, ora ci sono anche io e di conseguenza l’intera comunità che viene vista grazie ai suoi servizi giornalistici, come omertosa e collusa con la mafia. Con un danno di immagine per noi gravissimo sia per il paese che per i cittadini". Secondo il sindaco Giardina, da parte di Giletti c'è una conduzione faziosa, che "marcia su questi binari di distorsione della realtà". Una trasmissione che non fa bene ad una comunità che vuole scrollarsi di dosso un'etichetta. "Quando sono stato intervistato mi hanno sempre interrotto senza farmi concludere il discorso - conclude il sindaco -. Proprio per queste ragioni non scenderò in piazza per essere intervistato da Giletti, giornalista che nella sue trasmissioni ha lasciato trasparire in modo, sin troppo evidente, che io sia colluso con la mafia. Non si può parlare con uno che ingiustamente mi ha associato a queste nefandezze. Ma siamo fiduciosi che la realtà vera, e non quella che rappresenta Giletti, per quanto mi riguarda, prima o poi verrà fuori. Speriamo quando l’immagine di Mezzojuso non sarà definitivamente distrutta", conclude con l'amaro in bocca il primo cittadino del comune palermitano.

Le Sceneggiate in Diretta di Giletti, De Girolamo e Dalla Chiesa. Nicolo Gebbia su themisemetis.com il 13 Maggio 2019. L’avete vista la diretta dal mio paese? Qual è il vostro giudizio? Io voglio aiutarvi con qualche informazione di servizio, visto che ho deciso di riservare all’argomento, d’ora in poi, oltre che la recensione del libro del guitto appena lo avrò per le mani, solo le argomentazioni che esibirò in giudizio quando le querele di Salvatore Battaglia e delle sorelle Napoli mi ci dovessero portare. Per ora sono ancora in fervida attesa che mi vengano notificate. Posso testimoniare che Salvatore Giardina è un assiduo frequentatore di funerali, e spesso, quando ho preso appuntamento con lui, ho dovuto inserirmi, nella sua agenda, fra un’esequie e l’altra. Però poco dopo la fine della trasmissione, durante la notte mi ha telefonato un mio vecchio collaboratore, che era proprio specializzato nelle riprese clandestine dei matrimoni e funerali dei boss mafiosi, in cui noi carabinieri siamo da sempre particolarmente versati (occasioni liete e tristi recita dall’800 il nostro regolamento) e mi ha detto: Signor generale (scusatelo è un ben educato carabiniere vecchia scuola e sa che il titolo mi compete), io li ho digitalizzati tutti quelli che ho ripreso personalmente, ed ho l’archivio a casa. Così mi sono riguardato quello di La Barbera e le assicuro che Salvatore Giardina proprio non c’era” Allora ho chiamato il sindaco è gli ho chiesto – Ma sei sicuro che a quel funerale ci sei andato?- Lui mi ha risposto con molto candore che proprio non se lo ricordava, ma che in trasmissione aveva annuito perché non vedeva come potesse essere stato assente, visto che andava a tutti i funerali dei mezzjusari defunti in paese . Gli ho chiesto di ricontrollare bene nelle sue agende ed alla fine mi ha richiamato dicendomi che in effetti quel giorno , contemporaneamente al funerale, aveva a Ficuzza, suo paese natale, un importante incontro. Tanto vi dovevo e vi invito a rileggere la mia lettera aperta ad un figlio di Provenzano, pubblicata dal Fatto Quotidiano, in cui gli spiegavo perché , se il questore non li avesse vietati, sarei andato ai funerali del padre, torturato in carcere per timore che si pentisse, e ridotto ad un vegetale, da uno stato che nel farlo ha dimostrato un livello etico non dissimile da quello a suo tempo dimostrato dal Provenzano stragista . Circa il Trattamento Sanitario Obbligatorio a Salvatore Battaglia, i miei compaesani conoscono la verità, e li ringrazio per la moderazione dimostrata nei confronti di Giletti e della Di Girolamo. A Rita dalla Chiesa chiedo: ma nei decenni in Mediaset con Berlusconi non hai mai provato un momento di vergogna?

"Mafiosi" ai familiari del forestale. Condannati Giletti e la Rai. Il giudice ha disposto il risarcimento. Livesicilia.it, Giovedì 09 Maggio 2019. Aveva accusato un intero nucleo familiare di incensurati di essere componenti della pericolosa famiglia mafiosa dei Campanella, operante nella frazione monrealese di Pioppo. Accogliendo il ricorso dei difensori Salvino Caputo, Francesca Fucaloro, Anna Campanella e Rosaria Costantino, il giudice del Tribunale civile di Palermo Fabrizio Lo Forte, ha condannato in solido Massimo Giletti e il Direttore della Rai a risarcire le persone offese con la somma di 55 mila euro, oltre interessi legali e spese. Nel corso della trasmissione L'Arena del 3 aprile di tre anni fa, dedicata ai lavoratori forestali che in passato avevano riportato condanne, venne intervistato Giuseppe Campanella, operaio stagionale che oltre 20 anni fa aveva riportato una condanna per favoreggiamento. Nel corso della trasmissione il conduttore Giletti definì l'intera famiglia Campanella quale componente di una omonima famiglia mafiosa molto pericolosa operante nel territorio di Pioppo. I familiari del Campanella La Corte Giuseppa, Campanella Giovanna, Caterina, Luana e Trafficante Giuseppa, presentarono un esposto alla Procura della Repubblica di Roma per il reato di diffamazione e citarono in giudizio davanti il Tribunale civile di Palermo il conduttore Massimo Giletti e il direttore generale della RAI. A comprova della loro estraneità a ogni forma di collegamento alla mafia presentarono i certificati penali attestanti il fatto che erano incensurati. Giletti un mese dopo si scusò con i Campanella nel corso di una nuova trasmissione. I Campanella dimostrarono in giudizio con i testimoni il danno alla immagine subita anche alla luce della vasta eco che ebbe la trasmissione. Al termine della istruttoria il giudice Lo Forte ha ritenuto la responsabilità in solido del conduttore Giletti e della Direzione generale della Rai, ritenendo che la precisazione successiva non costituiva elemento esimente la responsabilità per avere diffamato gravemente persone incensurate ed estranee a collegamenti mafiosi. Intanto prosegue a Roma il procedimento penale presso la Procura della Repubblica per il reato di diffamazione a mezzo sistema televisivo. "Al di là della entità del risarcimento -  hanno affermato gli Avvocati Salvino Caputo e Francesca Fucaloro - la sentenza del Tribunale di Palermo rende giustizia ad un intero nucleo familiare definito mafioso per una scarsa informazione da parte del conduttore Giletti e per la mancata vigilanza da parte della Azienda Rai. Esempio di una informazione priva di qualsiasi preventivo riscontro. Adesso chiederemo alla Procura della Repubblica di Roma di verificare la esistenza di condotte penalmente rilevanti.

Massimo, a cui piace processare la Sicilia. Dalla sua Arena, Giletti non le manda a dire all'Isola. Giacomo Nisticò su buttanissima.it. Dice che non è telepopulista e che non ama la piazza, ma non smette di far esibire Rosario Crocetta che proprio nella sua Arena si è rivelato essere l’ultima paglietta prodotta dall’isola, la condanna della Sicilia al pittoresco. Invitato in studio, in collegamento video o al telefono, l’ex governatore messo a suo agio proprio da Massimo Giletti, ha perfino interpretato il punitore di se stesso, l’avvocato che recita la sua condanna: «Devo dirlo. La Sicilia ha un parlamento canaglia!». Ebbene, adesso che Crocetta è scomparso dalla scena (politica) e la regione sta addirittura cambiando grazie alle “sue” inchieste, è giunto forse il momento di parlare di Giletti, lo stregone che meglio di Benedetto Croce si è dato come missione quella di liberare l’isola dai tarantolati, dai diavoli perché lui, come ripete nelle interviste che rilascia, «ha un vero amore per quella terra». In realtà è cresciuto in Piemonte, a Trivero, in provincia di Biella e su una cosa Giletti ha ragione: ha sangue siciliano e quindi anche le corde. Siciliana era infatti Maria Bianca Bellia, nonna materna ma soprattutto donna che consumò d’amore lo scrittore Ernest Hemingway: «Era così innamorato che voleva sposarla». Più che un matrimonio, quello tra Giletti e la Sicilia, somiglia a un “contratto d’interesse”, la sapiente sceneggiatura di un conduttore che ha fatto dell’isola il suo business, la caccia alle streghe per “cucinare” gli ascolti. Formatosi con Giovanni Minoli, uomo di televisione composta, Giletti, lo dichiara lui per primo in un’intervista di questa settimana a Panorama, deve tutto a un siciliano che conosce i sapori e gli umori delle casalinghe. È Michele Guardì. «Da Guardì ho imparato a condurre in piedi ma devo dire che mi sento vicino a Michele Santoro. La mia scena cult rimane quella in cui brucia la maglia della mafia con Maurizio Costanzo». Eclissato il civismo di Santoro e chiuse per volere di Fedele Confalonieri le piazze populiste e posticce di Maurizio Belpietro e di Paolo Del Debbio, Giletti ha infatti compreso, in questi tempi dove si insegue il deputato, che la Sicilia con il suo antico parlamento era il vero Klondike televisivo, la sua corsa all’oro. Saccheggiando le inchieste prima di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo, portando in studio i cronisti siciliani dalla schiena dritta e indicandoli come esempio virtuoso da contrapporre ai consiglieri regionali trattati alla stregua di mascalzoni, Giletti è di fatto l’autore di un nuovo format a metà tra Pier Paolo Pasolini e Aldo Biscardi: “Il processo alla Sicilia”. Ogni domenica va in onda il vizio isolano: i dipendenti regionali che sono una moltitudine (ma la vera vittoria è sempre l’iperbole più efficace e stupefacente), i forestali, i disabili che smascherano gli assessori regionali, i vitalizi pagati alle vedove di politici appartenenti al partito monarchico… Giletti e la sua squadra di autori setacciano gli articoli dei quotidiani regionali da riproporre e amplificare portandoli come campioni di privilegi, esempi di ogni nefandezza civile dato che come ha detto, sempre nell’intervista, lui «si è formato sui testi di Norberto Bobbio». Eppure a rendere di successo la sua Arena, oggi diventata Non è L’arena, è stata la scientifica e geniale composizione degli ospiti: l’integerrimo Klaus Davi che si è perfino candidato in Calabria per sfidare i clan; Daniela Santanché che è donna di politica ma anche di impresa; Mario Giordano che si sa ormai essere il giornalista accademico in materia di vitalizi di Stato. Poi c’è Crocetta. Non c’è dubbio che sia stato l’ex governatore a rendere la compagnia insuperabile. Crocetta corrisponde nella commedia all’uomo che le prende sempre, il tontolone bastonato che fa bastonare un’intera popolazione. Passato dalla Rai a La7, denunciando l’epurazione, («Orfeo si è reso complice di un’operazione che non è servita neppure a lui»), Giletti piange e si commuove, («Mi immedesimo nelle storie della povera gente»), è mammone, («Torno sempre da mia madre che mi faceva pure le torte»), è sciupafemmine ma non sposato, («Faccio una vita di romitaggio»). Si racconta, anzi, lo ha detto il suo maestro Minoli, che Giletti sia parsimonioso un po’ come Alberto Sordi che di lui ebbe a dichiarare: «Ah Gilè, tu piaci perché parli alle mamme, alle zie, alle nonne». Da quest’anno è tornato in Sicilia a interessarsi della mafia dei pascoli e in particolar modo delle sorelle Napoli di Mezzojuso. Si è meritato da Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta, apprezzamenti, («Non poteva credere che la Rai mi lasciasse andare»); ha garantito che la povera dottoressa violentata durante il turno di guardia medica, in provincia di Catania, sarebbe tornata lavorare in una struttura protetta, («Ce l’abbiamo fatta»). Insomma, è l’uomo più temuto dai politici siciliani e c’è il rischio di vederlo scendere in politica, chissà se proprio in regione. Non ha mai escluso. Finora solo uno ha avuto il coraggio di frenare la sua bile anticasta. È stato Gianfranco Miccichè, uomo abituato alle arene e spettinato, nei pensieri, più di Giletti, al punto da chiudere la discussione così: «È tutta una stronzata».

Mezzojuso, conoscere per capire la verità. Antonino Schilizzi 16 Maggio 2019 su  themisemetis.com. Quella delle sorelle Napoli è una vicenda complessa che è difficile da capire se non si hanno le giuste chiavi di lettura.

Noi di Mezzojuso siamo una Comunità, per noi che siamo di parte è il posto più bello dell’universo e siamo capaci di fare una guerra contro tutti per difendere il nostro buon nome. Insomma, siamo l’ombelico del mondo. I parigini presero la Bastiglia nel 1789, noi, nel nostro piccolo, nel 1563, duecento anni prima dei francesi, assaltammo il Castello perché angherie e soprusi non li sopportiamo. (Per chi vuole conoscere l’argomento, si rimanda all’articolo pubblicato su questo sito dal titolo: pillole di storia locale..). Da cinque secoli abbiamo una classe media, fatta di piccoli proprietari terrieri, artigiani, notai e chierici. Di chierici ne abbiamo avuti talmente tanti che si erano organizzati in due Comuni, una latina e una greca, cooperative ante litteram di sacerdoti. Delle nostre bellezze artistiche, architettoniche e paesaggistiche non possiamo nemmeno accennarne per mancanza di spazio e di tempo. Ma diciamo soltanto, che dopo Venezia, possediamo il più ricco patrimonio iconografico.

Siamo democratici. A Mezzojuso dopo il risultato elettorale delle amministrative piangiamo. Chi di gioia e chi di dolore. Siamo abituati a partecipare, e tutti partecipiamo in modo diretto ad ogni elezione che conta, e per noi conta soprattutto il Comune, perché lo sentiamo e lo vediamo da vicino. Se mi è consentita l’allegoria, abbiamo aggiunto al contrasto e all’emulazione tra greci e latini, l’impegno a stare da una parte o dall’altra ad ogni rinnovo dell’amministrazione comunale. Le parentele contano e pesano ma non in modo assoluto, perché la nostra storia è piena di dissidi familiari per questioni elettorali, ed si rinnovano ad ogni elezione amministrativa.

Siamo solidali. Nel 1990 accogliemmo ottantadue albanesi fuggiti dalla dittatura comunista. Comune, parrocchie, istituti religiosi, associazioni culturali e ricreative, tutto il nostro tessuto sociale si prodigò nel dare una sistemazione ai rifugiati, e tutto ciò senza i (ghiotti) contributi governativi di oggi. E potremmo aggiungere tanti altri esempi di solidarietà e accoglienza.

Protagonisti del Risorgimento. La fallita impresa di Carlo Pisacane  viene ricordata per la poesia “La spigolatrice di Sapri” … Eran trecento erano giovani e forti e sono morti…  Altrettanti miei compaesani parteciparono alla rivoluzione antiborbonica di Palermo del 1848 con in testa Salvatore Maddi , che fu ucciso assieme ad altri, mentre numerosi altri ancora furono incatenati e condannati ai lavori forzati. I Dottori Dario Battaglia, Rosario Schirò e Rosario Gebbia di Mezzojuso prestarono assistenza medica  a tutti i feriti in un ospedale da campo da loro stessi allestito. Mezzojuso, in quegli anni, dai rapporti di Polizia, era considerato, a ragione, un covo di Carbonari. Lo stesso Francesco Bentivegna, martire del Risorgimento, nativo ed abitante a Corleone, catturato a Palermo, venne appositamente fucilato davanti all’odierno municipio di Mezzojuso per dare un ammonimento ai carbonari locali. Michelangelo Barone di Mezzojuso è una delle 13 vittime del 1860 , ricordata nell’omonima piazza cittadina Quando poi sbarca Garibaldi, Mezzojuso fornisce uomini e mezzi.

Siamo colti. La categoria di lavoratori di Mezzojuso più numerosa, a tempo pieno, è quella degli operatori scolastici. Non c’è famiglia che non abbia almeno un insegnante. Vi sono interi nuclei familiari in cui tutti i componenti insegnano a scuola. Maestri ed insegnanti di lettere sono talmente tanti che li esportiamo in tutta la penisola. Un vecchio detto recita: allevatori a Cefalà, artigiani a Villafrati, professori  a Mezzojuso.

Eppure tutta l’Italia è ora convinta che noi di Mezzojuso siamo omertosi, arretrati, mafiosi. Odiati dal popolo dei social, che di noi non sa niente e purtroppo non vorrà saperne niente, desideriamo fare comunque, di seguito, alcune considerazioni per i pochi che avranno la voglia e la pazienza di leggerci. Ho detto più volte che nella vicenda delle Sorelle Napoli abbiamo sbagliato tutti, e quindi anche noi di Mezzojuso; registi, attori protagonisti e non, sceneggiatori, produttori, autori, sicurezza, microfonisti, truccatori, spettatori e non, tutti quelli che in un modo o nell’altro si sono interessati o non interessati alla questione in argomento a partire dalla prima puntata della trasmissione Non è l’Arena de La7 condotta da Massimo Giletti. Debbo confessare che nel tempo che sono stato in trasmissione, alla mia sinistra sentivo una grande sofferenza, tanta tenerezza. Noi siciliani diciamo piatusi, (pietosi) ma il termine ha una accezione più larga. Commentando con Salvatore Giardina mi confessò: pure a me. “Anna da piccola era abbonazzata”, (bonacciona) mi disse mia moglie qualche tempo fa. Del suo ricordo mi fido. Acide, false, cattive, maligne, antipatiche, asociali. I dispregiativi che corrono sono innumerevoli. Ciò non può che dispiacerci. Mezzojuso ha parlato con le Sorelle (uso la maiuscola volutamente) per televisione; se prima c’era un fosso adesso si è creato un baratro. Di chi è la colpa? Di Giletti dice la gente di Mezzojuso; dei caproni di Mezzojuso dicono le Sorelle Napoli; dei mafiosi di Mezzojuso dice il resto dell’Italia. Io ho preso subito a cuore queste donne e non li abbandonerò dice Massimo Giletti. Vedremo. La trasmissione dalla piazza principale di Mezzojuso pare che non sia andata bene per lo share, si è sfiorata la rissa, ed è quanto dire. Poteva andare peggio. Si! Poteva andare peggio, in tutti i sensi. Immaginiamo per un attimo che il Sindaco avesse deciso di non andare in trasmissione, non ci sarebbe stato il pubblico, non ci sarebbe stata nessuna attrattiva a vedere la puntata da parte degli spettatori televisivi. Del resto ebbi a dire a Danilo Lupo: ma chi vuoi che ci sia la domenica in tarda serata nella piazza di Mezzojuso? Nemmeno a piazza Navona, domenica sera d’inverno, trovi qualcuno. Credetemi, la mafia non c’entra un  bel nulla! Anche perché noi di Mezzojuso veniamo da una storia in cui la mafia, al massimo, è un odore sgradevole. Per quello che mi è dato sapere, a Mezzojuso, non è mai esistita l’ala stragista, tuttavia annacamenti (ondeggiamenti, un modo di camminare) e ragionamenti fanno parte di una subcultura minoritaria che in qualche modo ancora esiste e resiste. Durante una pausa pubblicitaria della trasmissione di domenica sera a Mezzojuso, il giornalista Palazzolo mi ribadì quello che aveva detto in trasmissione: il tesoro dei La Barbera non è mai stato trovato, perché? Come mai? Non gli risposi. Mio padre non era un uomo di grandissima cultura, però leggeva ogni giorno La Repubblica. L’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari era, per lui, un appuntamento imperdibile, e mi chiedeva a pranzo se l’avevo letto, tanto per parlare con me. Articoli di grande respiro, editoriali interessantissimi, giornalismo di altri tempi. Non me ne voglia Palazzolo, ma credo che lui faccia riferimento ai La Barbera, famiglia mafiosa degli anni ’60 di Palermo che non hanno niente a che fare con i La Barbera di Mezzojuso. Semplice omonimia, un abbaglio giornalistico. Giova ricordare che il cognome La Barbera è il più diffuso di Mezzojuso e le categorie sociali sono molteplici: allevatori, artigiani, avvocati, insegnanti, medici ecc. Nel mio intervento in trasmissione non dovevo dire che il Sindaco non sa comunicare, mi pento di averlo detto. Dovevo entrare in studio con Pietrangelo Buttafuoco e invece mi hanno introdotto alla fine. Ho fatto quello che ho potuto fare. Tante altre considerazioni avrei da fare, da non finire più. Certo, la trasmissione di domenica poteva andare diversamente. Personalmente ho sperato che si svolgesse secondo un copione condiviso dal Conduttore e dal Sindaco, secondo me non si sono fidati l’uno dell’altro ed è andata in scena una resa dei conti in cui tutti siamo usciti con le ossa rotte. Massimo Giletti forte della sua esperienza e della sua bravura ha fatto una sottovalutazione del Sindaco Giardina, e non ha nemmeno considerato che potesse avere un pubblico totalmente, o quasi, ostile. Del resto il piano di sicurezza prevedeva un pubblico di massimo 630 persone, da fuori dovevano arrivare i sostenitori, che aggiunti a quelli di Mezzojuso, dovevano costituire la maggioranza a sostegno delle Sorelle Napoli. Niente di tutto questo. Ma chi era quel pubblico? La pancia di Mezzojuso! Che applaude l’imprenditore palermitano Andrea Piraino che si ribella alla mafia del pizzo e caccia gli estorsori, e contesta le Sorelle Napoli. La partecipazione di Salvatore Giardina al funerale di Nicola La Barbera vietato in forma pubblica della Questura assume una valenza pirandelliana. Il Conduttore Giletti chiede al Sindaco Giardina come mai partecipò a quel funerale vietato dalla Questura ed il Sindaco rispose che essendo cristiano lui partecipava e partecipa a tutti i funerali. Apriti cielo. La trasmissione a questo punto diventa incandescente e finirà con l’abbandono dello studio da parte del Sindaco. Cosa c’entra Pirandello? Salvatore Giardina al funerale di Don Cola non ci andò.

Sindaco Mezzojuso contro le Sorelle Napoli: "Le persone non volevano venire a trebbiare da voi perchè non pagate nessuno. La 7 12 maggio 2019. Sul palco speciale di Non è L'Arena, al centro della piazza di Mezzojuso prosegue lo scontro tra il sindaco e le sorelle Napoli, accusate di non pagare e di percepire pensioni e stipendi per 4.500 euro.

“Così infangano la nostra terra, loro non sono vittime di mafia”. Il paese - Anche la giunta contro le sorelle. Giuseppe Lo Bianco 25 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Nessuno di quei terreni è di proprietà delle sorelle Napoli – attacca il presidente dell’associazione Governo del popolo, Francesco Carbone –: hanno realizzato un lago abusivo su una trazzera regia, di proprietà del demanio, e con una misurazione illegale la Forestale gli ha regalato 15 ettari di terreno demaniale. Nel 2001 il padre, indicato come […]

‎Francesco Carbone‎ a Nicola Porro 26 aprile2019 alle ore 10:38 su Facebook. Il mio articolo sull'articolo del Fatto Quotidiano...

Francesco Carbone 25 aprile alle ore 06:31 su Facebook. Da notare le differenze...Ecco l'articolo sul Fatto Quotidiano dove "fatalità" viene tagliato dalla redazione la parte più importante dell'articolo che aveva scritto Giuseppe Lo Bianco. Il paradosso che ha dato fuoco alle polveri il 19 gennaio scorso è del generale dei carabinieri in pensione Nicolò Gebbia, oggi assessore del comune di Mezzojuso: ‘’Figlie di un uomo indicato come capomafia le sorelle Napoli sono indicate come vittime della mafia. Anche ai figli di Provenzano, che sono incensurati e si lamentavano del padre, bisogna dare i fondi della Regione per i parenti delle vittime’’. Più volte ospiti di Massimo Giletti nella trasmissione Non è l’Arena, le sorelle Irene, Ina e Anna Napoli sono attese il 12 maggio prossimo alla prova del fuoco: da mesi, nel salotto di Giletti, denunciano di essere vittime della mafia del pascoli, che vuole impadronirsi dei loro 74 ettari di terreno nel territorio di Corleone intimidendole con l’invasione di mucche e bovini che distruggono le recinzioni provocando danni, ma prima l’archiviazione di un gip che ha accertato ‘’l’infondatezza della notizia di reato’’ e poi le parole del generale Gebbia, secondo cui il padre, capo mafia di Mezzojuso, garantiva la latitanza di Provenzano, rischiano di ribaltare la prospettiva offerta dalla trasmissione di Giletti, che ha più volte accusato i cittadini di Mezzojuso di omertà per non avere offerto solidarietà alle sorelle Napoli. Il 12 maggio, infatti, le tre sorelle saranno probabilmente chiamate a ribattere in tv all’esito degli accertamenti svolti dall’associazione “Governo del popolo”, composta da giuristi, avvocati, ex magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, che spulciando negli archivi di tribunali, catasto, ente di sviluppo agricolo, assessorato all’agricoltura, e Riscossione Sicilia ha denunciato un contesto di furbizie ed escamotage delle tre sorelle (e una montagna di illeciti di funzionari della Regione), prima per impadronirsi illecitamente di beni dello Stato, evitando di pagare tasse, e poi per ottenere vantaggi e provvidenze sotto l’ombrello, costruito ad hoc, di vittime di Cosa Nostra. ‘’Nessuno dei terreni è di loro proprietà – dice il Presidente dell’associazione, Francesco Carbone – hanno realizzato un lago abusivo su una trazzera regia, di proprietà del demanio, e con una misurazione illegale la Forestale gli ha ‘regalato’ almeno 15 ettari di terreno demaniale. Nel 2001 il padre, indicato come il capomafia del paese, aveva chiesto ai giudici l’usucapione dei terreni, ovviamente negata, per essere stato per 60 anni ‘’nel pacifico e indisturbato possesso del fondo in contrada Guddiemi di Corleone’’. ‘’Nessuno – chiede Carbone - si è accorto che nel 2001, nella zona in cui Provenzano era latitante (e li veniva cercato dai carabinieri), il capomafia del paese stava cercando di impadronirsi legalmente di un feudo di terreni prevalentemente pubblici che aveva gestito, nell’indifferenza di chi doveva controllare, per 60 anni?’’. Tutti particolari denunciati alla procura di Termini Imerese da 30 cittadini di Mezzojuso che per scrollarsi di dosso l’accusa di omertà hanno accettato di andare in procura con il pullman messo a loro disposizione dell’associazione Governo del Popolo, che si è rivolta anche alla procura di Caltanissetta per denunciare l’inerzia degli uffici, regionali e statali, di fronte alle cartelle esattoriali non pagate, ai mutui bancari non onorati, alle acrobazie contrattuali con l’Ismea: “grazie allo status di vittime della mafia – conclude Carbone – sono riuscite ad ottenere persino la sospensione dei pagamenti dalla procura di Termini Imerese, ma abbiamo pronte altre integrazioni documentali da portare in procura a Caltanissetta. Mi sento di potere dire che per loro la ricreazione è finita, e lo dirò anche il 12 maggio in trasmissione da Giletti, se questa volta, dopo tutti i rifiuti opposti, deciderà di ascoltarmi”.

SORELLE NAPOLI NON HANNO TERRENI A MEZZOJUSO. TRIBUNALE RIESAME: SCARCERATI I TRE PRESUNTI ESTORTORI PER MANCANZA DI INDIZI DI COLPEVOLEZZA.  Ennapress il 2 Aprile 2019 

TANTILLO NON LE HA MAI MINACCIATE. LE SORELLE SI SONO APPROPRIATE DELLA TRAZZERA REGIA, HANNO COSTRUITO UN LAGO ILLEGITTIMO E NON HANNO MAI PAGATO MUTUI E CARTELLE ESATTORIALI. Dopo neppure un anno di attività dall’inaugurazione l’Associazione Governo del Popolo APS, che per statuto persegue l’applicazione dei principi di “Legalità” e “Giustizia” previsti e regolati dalla Nostra Carta Costituzionale e dalla CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), si è schierata in prima fila per denunciare l’eclatante soap opera delle “sorelle Napoli contro la mafia”. Il Presidente Carbone deciso nel non voler accettare quanto propinato dai media di LA7 (così scrive il Pubblico Ministero nel decreto di citazione a giudizio, “non vi è chi non veda” riportandosi alle dichiarazioni rese in TV), ha accertato la verità con l’ausilio del popolo di Mezzojuso, distrutto nell’orgoglio e terrorizzato dalle ritorsioni mediatiche ed istituzionali (anche con grave danno economico), certo della tentata raggiro per approdare ai fondi antimafia riservato alle vere vittime di mafia. L’associazione ha, quindi, accertato e denunciato alle autorità competenti che non vi sono terreni delle sorelle Napoli nel territorio di Mezzojuso, non comprendendone l’accanimento mediatico della trasmissione televisiva “Non è l’Arena” di LA7 condotta dal Dr. Giletti contro il Comune di Mezzojuso; inoltre con sopralluoghi l’Associazione ha evidenziato gravi irregolarità sui terreni delle Napoli – giammai accertata dalla Procura – tra cui l’appropriazione di gran parte della Trazzera regia di proprietà demaniale, la costruzione illegittima di un lago sulla trazzera regia, l’appropriazione e/o detenzione di terreno demaniale recintato finanche a spesa dell’Assessorato regionale Agricoltura e Foresta; il mancato pagamento di mutui e cartelle esattoriali delle Napoli mai richiesto dagli Enti preposti, mai neppure chiesta la restituzione del terreno acquistato da Irene Napoli da I.S.M.E.A. (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), sebbene per contratto dopo solo due rate impagate poteva essere chiesta la risoluzione di diritto, precisando altresì che una delle Napoli è funzionaria dell’Assessorato regionale Agricoltura e Foresta. Nonostante i tanti esposti e denunce/querele depositati dapprima in Procura a Termini Imerese, e poi a Caltanissetta, a tutt’oggi ancora non sono state oscurate e/o sottratte dalla rete internet le registrazione di LA7, anzi la trasmissione continua a rappresentarle quali vittime di Mafia, nonostante i fatti e, non da ultimo, la sentenza del Tribunale del Riesame in merito alla scarcerazione dei tre presunti estortori denunciati dalle Napoli, nega l’esistenza non di prove ma finanche degli indizi di colpevolezza del “concorso morale e materiale .. a cedere la proprietà o la gestione della loro azienda agricola.. con reiterate violenze e minacce”. Ebbene il Giudice del Riesame, ricostruendo i fatti, ha rilevato che il Sig. Tantillo, dopo l’aneddoto della sassaiola del 1998, mai “…si sarebbe reso protagonista di episodi di minaccia nei loro confronti o avrebbe palesato loro, in maniera più o meno esplicita, un interesse all’acquisizione delle loro proprietà”, né evidenzia un collegamento tra gli indagati (“assenza di qualsiasi contatto tra i coindagati per lo stesso fatto”- cfr. sentenza riesame ). Pertanto la procedura di incarcerazione applicata dal Pubblico Ministero e dal G.I.P. nei confronti degli indagati (incarcerati da prima di Natale e per tutte le feste natalizie, senza poter neppure vedere i familiari) non è stata posta in essere a norma di legge.

Mezzojuso: sorelle Napoli, gen. Gebbia assessore? Siamo senza parole. Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2018. "Sono senza parole. Siamo tutte e tre senza parole". Così, Irene Napoli, una delle tre sorelle imprenditrici di Mezzojuso (Palermo), commenta la scelta del sindaco del piccolo comune di nominare assessore alla Cultura l'ex generale Nicolò Gebbia, querelato nei giorni scorsi dalle tre donne per diffamazione. "Non so cosa dire, mi creda - dice Irene Napoli all'Adnkronos - Non so cosa più pensare. Io e le mie sorelle Ina e Marianna, con nostra madre, non sappiamo cosa dire. Questo fatto si commenta da solo...". Nei giorni scorsi le sorelle Napoli, attraverso il loro legale, Giorgio Bisagna, avevano denunciato un clima di delegittimazione nei loro confronti. "Trovo veramente inquietante questo stillicidio di veline, di anonimi con l'obiettivo di delegittimare le mie assistite attraverso documento solo parziali che riguardano il padre, morto nel 2006. Mi sembra di esser tornati negli anni Sessanta. Il clima è esattamente lo stesso. Con veline usate come strumento politico. Tutto questo perché queste signore hanno denunciato e grazie alle loro denunce ci sono indagini in corso. Hanno avuto il riconoscimento di status di vittime della mafia e in questo momento vengono accusate di avere avuto un padre mafiose. Sono solo calunnie, come accertato da una sentenza nel lontano 1974", aveva detto l'avvocato Giorgio Bisagna, il legale delle sorelle Irene, Gioacchina e Marianna Napoli, le tre imprenditrici agricole di Mezzojuso (Palermo) al centro di polemiche. Il legale e le tre sorelle, nel corso di un incontro coni i giornalisti, aveva annunciato in quell'occasione la presentazione di una querela contro due persone, con l'accusa di diffamazione aggravata nei confronti delle tre sorelle. Uno dei due è proprio il generale Gebbia, mentre l'altro sarebbe il sindaco di Mezzojuso Salvatore Giardina. "Ho notato che appena il livello si alza un pochino subito parte l'attacco nei confronti del padre - aveva detto l'avvocato Bisagna - e viene chiesto pubblicamente che le sorelle si dissocino dalle presunte condotte mafiose del padre".

Le Sorelle Napoli e la famiglia Gebbia. Nicolo Gebbia su  themisemetis.com. 20 Dicembre 2018. Finalmente l’ho vista! Parlo della trasmissione televisiva in cui Giletti ospita le sorelle Napoli e da’ ampio spazio al loro cahier de doleances. Ho visto anche la sinpatetica indignazione di Rita della Chiesa ed Antonio Di Pietro. Insomma mi sono fatto una full immersion di televisione spazzatura. Avevo giurato a me stesso che non avrei più contribuito allo share della gentildonna austroungarica (è così che ama definirsi Lilli Gruber) che interrompe in continuazione gli ospiti non allineati al suo main stream. Myrta Merlino l’avevo cancellata quella volta che aveva ospitato Andrea Romano che inveiva contro Putin assassino di Sergej Skripal, mentre quest’ultimo, guarito, veniva dimesso dall’ospedale. Ma Giletti me lo ero risparmiato. Antipatia viscerale la mia, lo ammetto e non cerco di giustificarla. Ed invece, pur inconsapevole, sono stato chiamato in causa. Una mia testimonianza in tribunale del 10 dicembre scorso, registrata e ritrasmessa da Radio Radicale, è stata utilizzata contro le sorelle nella querelle che le vede contrapposte ai compaesani di Mezzojuso, colpevoli di non volere coltivare le loro terre “in nero”, di volere riportare a 35 metri la larghezza della “trazzera regia” che le attraversa, ristretta arbitrariamente a 5 metri, e di volere il ripristino dello stato dei luoghi con il prosciugamento del lago artificiale realizzato abusivamente. Cosa ho detto in quella causa? Che il metropolita ortodosso di Sarajevo, nell’estate del 2002, mi aveva rivelato confidenzialmente uno dei rifugi prediletti di Bernardo Provenzano: il monastero dei monaci di rito ortodosso di Mezzojuso. Aggiungendo che tale sistemazione era favorita dal capomafia locale, un certo Napoli, perché, vecchio e senza eredi maschi, considerava la presenza di Provenzano valido supporto della sua autorità, erosa dalla età anagrafica e dall’ impossibilità di farsi coadiuvare dalle sue tre figlie femmine. Chi avrà la pazienza di ascoltare le altre tre ore di testimonianza che seguono le affermazioni sopra citate, potrà constatare che dichiaro più volte che il procuratore Grasso ed il mio collega Gianmarco Sottili mi impedirono di verificare la fondatezza della confidenza fattami, e per arrivare alla cattura di Provenzano intrapresi tutt’altra pista, che condusse all’identificazione del suo infermiere, quando l’indagine fu da Grasso affidata al ROS di Subranni e Mori, e subito abbandonata. Quattro anni dopo, quando Provenzano fu catturato dalla Polizia, quell’infermiere fu condannato a dodici anni solo grazie alle indagini intraprese da me. Quel  Napoli indicatomi dal metropolita era il padre delle sorelle così care a Giletti? Non lo so. Però ieri ho appreso che il generale Della Chiesa nel  1969 lo aveva proposto per la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno fuori dalla Sicilia. Chi fu che respinse la proposta perché insufficientemente motivata e perché il Napoli risultava incensurato? Mio zio, il fratello minore di mio padre, Giuseppe Gebbia, allora presidente della sezione misure di sorveglianza del Tribunale di Palermo. Care sorelle Napoli, tenetene conto prima di farmi additare dal vostro avvocato come “propalatore della macchina del fango”. E concludo facendovi una proposta: assumetemi come fattore, e vi prometto che, ingaggiando dei braccianti agricoli per il cui lavoro saranno regolarmente pagati i contributi previdenziali, riporterò la trazzera regia ai suoi 35 metri di larghezza, così da consentire la transumanza delle greggi, prosciugherò il lago e riporterò tutto nella perfetta legalità prima che la distratta Procura di Termini Imerese se ne accorga. A te Rita rivolgo un cordiale saluto. Ti ricordi  di me? A Palermo fummo entrambi bocciati al ginnasio. Io proseguii perché mio padre sosteneva che il Gebbia che non avesse frequentato il liceo classico doveva ancora nascere. Tuo padre, più pragmatico, ti iscrisse all’istituto tecnico ed incaricò il capitano Placido Russo di seguirti ed andare ai colloqui dei professori in loco parentis, finché li convinse che meritavi la maturità. Poi sposasti il tenente Cirese, quel simpatico elicotterista che pretendeva gli prestassi la mia barchetta a vela per una passeggiata nel golfo di Mondello con te  e vostra figlia. Al mio diniego (sapevo che non era capace di governarla), se ne fece prestare una del mio circolo, il Lauria, con la quale scuffiaste tutti e tre proprio al centro del golfo. L’indomani tuo padre telefonò al mio per lamentare la mia scortesia. Non si aspettava di essere mandato a quel paese da un ufficiale più anziano di lui. Mi scuso ora per allora, ma noi Gebbia del ramo militare siamo fatti così, un po’ rozzi. E quindi avrei dovuto andare d’accordo con Antonio Di Pietro, quando giungemmo entrambi al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1986, lui in primavera ed io in autunno. Ma oltre che rozzi, noi Gebbia militari siamo anche corretti ed i miei due mentori dentro il palazzo, i marescialli Muzzu e Gianfaldone, mi avevano raccontato di quella splendida Mercedes con la matricola così pasticciata che la Motorizzazione si rifiutava di reimmatricolarla, dopo che era stata rubata e poi ritrovata. Mi avevano detto che Di Pietro aveva chiesto all’assicurazione che ne era proprietaria di svenderla alla sua fidanzata. Fu questa la ragione per cui tante volte mi lasciai scivolare addosso il tu che lui mi offriva ed infine capì che non lo gradivo. Caro dottor Di Pietro, la prossima volta che legge in televisione una sentenza, lo faccia per intero, altrimenti, come nel caso dei presunti danneggiatori dei terreni di proprietà delle sorelle Napoli, una sentenza di assoluzione viene intesa esattamente al contrario. Concludo con un’ulteriore precisazione circa quanto confidatomi dal Metropolita di Sarajevo: quel Napoli di cui mi parlò era inteso col soprannome che gli aveva appioppato Luciano Liggio: “Diavolo Bianco”. Può essere utile a chiarirne l’identità oltre ogni ragionevole dubbio? Io ricordo che dopo aver ucciso il colonnello Russo, Leoluca Bagarella ed il suo commando si rifugiarono a Mezzojuso, ospiti del “diavolo bianco” e, per ricambiare l’ospitalità, un paio di giorni dopo, in contrada Lacca consumarono l’omicidio La Gattuta. Questa è storia della mafia, non opinioni.

·         Paolo Giambruno. «Non era un prestanome del boss, va riabilitato». Ma lui ormai è morto…

Paolo Giambruno. «Non era un prestanome del boss, va riabilitato». Ma lui ormai è morto…La storia del veterinario palermitano Paolo Giambruno. Nessun contributo dell’ex dirigente dell’Asp alla criminalità organizzata. Ma per dimostrarlo ci sono voluti 9 anni. L’avvocato Livreri: «Le conversazioni decisive non erano state trascritte» Simona Musco il 31 Maggio 2019 su Il Dubbio. Paolo Giambruno non era un prestanome dei boss, non c’erano contiguità con ambienti mafiosi e nessun collaboratore di giustizia ha mai sentito parlare di lui. Eppure per nove anni è rimasto su di lui il terribile sospetto che fosse una testa di legno di Salvatore Cataldo, considerato imprenditore mafioso di Carini, in provincia di Palermo. Un dubbio spazzato via lo scorso 29 maggio, ma troppo tardi, perché intanto Giambruno, ex dirigente della Asp, lo scorso 3 agosto è morto. A riabilitarlo la decisione della sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo, che ha annullato il sequestro ordinato nel 2015, rigettando la richiesta di confisca e disponendo la restituzione di conti, immobili e quote delle srl Penta Engineering immobiliare, della Unomar, della Marina di Carini e della Nautimed alla moglie Dorotea Careri e ai figli Mario e Marcello. Secondo i giudici, circa «l’ipotesi di pericolosità di Giambruno quale indiziato di appartenere al sodalizio mafioso, appare evidente che, alla luce del materiale probatorio, non vi sia traccia di alcuna condizione, oltre alla spregiudicata inclinazione di Giambruno a intrattenere numerose relazioni imprenditoriali ed economiche, non si registrano particolari contiguità con ambienti mafiosi». Insomma, non c’erano prove su quell’asserita contiguità che lo aveva portato a perdere beni e lavoro. «Si rammenta che nessuno dei collaboratori di giustizia sentiti scrivono infatti i giudici – ha dichiarato di conoscere Giambruno». La proposta di portargli via tutto definitivamente, dunque, «si rivela infondata». Una conclusione alla quale i giudici sono arrivati analizzando alcune conversazioni «intercettate ma trascritte solo su iniziativa della difesa, dunque inizialmente non portate all’attenzione del Tribunale». Ma anche seguendo la scia dei soldi: «non vi sono flussi di denaro», dicono i giudici, tra Giambruno e Cataldo «ingiustificati e spiegabili solo con l’ipotesi di una fittizia intestazione», così come «non emerge nemmeno un rapporto di sudditanza o sottoposizione in favore del Cataldo». Il quadro complessivo, in altri termini, «è enormemente distante da quello che ci si sarebbe attesi di trovare in presenza di un’intestazione fittizia».

Insomma: Giambruno non era pericoloso, non poteva sapere della mafiosità di Cataldo, almeno non prima del 2008, anno in cui il primo collaboratore di giustizia parla di lui, facendolo finire a processo proprio nel 2010, non si registrano forme di contiguità con ambienti mafiosi e «men che mai tracce di un possibile contributo all’associazione come tale». Eppure l’accusa di essere un prestanome gli costò l’obbligo di soggiorno, la rimozione dall’incarico di capo di dipartimento e il sequestro di tutti i beni, dai conti bancari agli yacht di lusso. Fino alla fine, l’ex direttore del Dipartimento di prevenzione veterinario dell’Asp di Palermo ( poi sospeso dal direttore generale), nonché ex presidente dell’Ordine dei medici veterinari, si era dichiarato innocente.

La vicenda ha inizio nel 2010, spiega al Dubbio Daniele Livreri, avvocato della famiglia Giambruno, con la denuncia di un collega del veterinario. Una genesi «parecchio singolare» : il quadro di riferimento ha a che fare con reati contro la pubblica amministrazione e Giambruno, nel 2016, viene anche rinviato a giudizio con l’accusa di aver consentito dei controlli di favore a diversi commercianti. Ma da quella segnalazione, nel corso delle indagini, emerge un contatto sociale «alla luce del sole» con Salvatore Cataldo, soggetto in odor di mafia. «La Digos – spiega Livreri – ritenne che Giambruno, anche dopo le indagini che hanno coinvolto Cataldo, avesse mantenuto un rapporto occulto con lui, con un’intestazione fittizia. Giambruno era socio, assieme ad un terzo soggetto, di Cataldo, che venne fatto uscire dalla società. Un’alienazione che, secondo la procura, era però una finzione». Nel corso del procedimento, però, gli avvocati di Giambruno si accorgono di quelle intercettazioni non trascritte e decidono di farlo autonomamente. E hanno ragione, perché il tribunale accorderà a quei dialoghi un significato fondamentale. «Salvatore Cataldo era già in carcere quando Giambruno e Giuseppe Cataldo, figlio di Salvatore, vennero intercettati – spiega Libreri – Da quel dialogo, uno dei tanti, emerse il disinteresse di Giuseppe Cataldo, se non nella misura in cui aveva effettuato dei lavori su degli immobili. L’unica cosa che gli interessava era esser pagato per quei lavori: di come venissero venduti gli immobili e a quanto non gli importava». Ma non solo: «Perché intestare fittiziamente una società piccola quando Salvatore Cataldo ne aveva una più grossa, che fino alla fine è rimasta nella sua disponibilità? Nessuna. Le conversazioni smentiscono la ricorrenza di un’ipotesi di intestazione fittizia» . Quelle intercettazioni, scrivono i giudici nelle 89 pagine con cui hanno motivato il dissequestro, «erano dirimenti per dimostrare che tra Giambruno e Cataldo, già condannato per mafia, c’era sì un rapporto societario, ma alla luce del sole. Per quanto deprecabile possa apparire l’atteggiamento spregiudicato assunto da Paolo Giambruno – non solo per il palese svolgimento di attività imprenditoriali nonostante il ruolo di pubblico funzionario, ma anche nell’intrattenere rapporti economici ed imprenditoriali con il boss Cataldo – ciò non rivela pure che Giambruno si sia prestato a svolgere le funzioni di prestanome di Salvatore Cataldo».

·         I clan uccisero sua sorella ma lo Stato le nega i soldi.

I clan uccisero sua sorella ma lo Stato le nega i soldi: «Ha parenti ’ndranghetisti». La donna fece condannare i killer. “Ma ha parlato troppo tardi”. Per la Prefettura di Crotone non si sarebbe mai dissociata dal fratello e dal padre, vicini alle cosche. Ma i due sono morti da anni, uccisi nella terribile guerra tra clan. Simona Musco il 4 giugno 2019 su Il Dubbio. Ha testimoniato contro gli assassini di sua sorella Lea, costituendosi parte civile al processo. Ha raccontato quella storia in giro per l’Italia, invitando alla ribellione contro la ‘ ndrangheta. Ma troppo tardi, secondo la Prefettura di Crotone, che ha deciso di negare nuovamente a Marisa Garofalo il risarcimento stabilito dai giudici che hanno condannato all’ergastolo gli assassini di sua sorella: 75mila euro, di cui 50mila a lei e 25mila alla madre ormai morta. Proprio mentre uno degli assassini – Vito Cosco – scrive in carcere una lettera con la quale si dichiara pentito del suo gesto, pur negando di aver partecipato all’omicidio e ammettendo il solo occultamento del cadavere, Ferdinando Guida, capo dell’ufficio territoriale del Governo a Crotone, ha respinto il ricorso contro la decisione già presa a dicembre del 2017 dal Comitato per il Fondo di rotazione. Con una motivazione paradossale: «Sono risultati elementi pregiudizievoli ostativi nei confronti della signora Garofalo Marisa per la stretta contiguità della famiglia originaria dell’istante alla criminalità organizzata operante in Petilia Policastro, nella quale peraltro l’istante ha continuato a vivere senza essersi dissociata». Insomma, a macchiare il curriculum di Marisa – la cui fedina penale è totalmente immacolata – sono le parentele sbagliate, dalle quali, secondo la Prefettura, non avrebbe mai realmente preso le distanze. Ma quei legami, di fatto, sono stati spezzati anni prima che sua sorella Lea venisse uccisa: un padre ammazzato nel 1975 e un fratello fatto fuori trent’anni più tardi, entrambi caduti nella guerra tra cosche. L’unica superstite è proprio Marisa, da sempre estranea alla criminalità e per la quale «il vincolo di parentela finisce per essere una mera accidentalità», scriveva nel suo ricorso l’avvocato Roberto D’Ippolito. Marisa, assieme alla nipote Denise, figlia di Lea, è la testimone chiave del processo che ha permesso di condannare gli assassini della testimone di giustizia, sulla cui testa pendeva una sentenza di morte sin dal 2000. Una sentenza concretizzatasi nove anni dopo, quando Carlo Cosco, ex marito di Lea, assieme al fratello e altri membri del suo gruppo criminale la rapirono a Monza, con l’obiettivo di farsi raccontare cosa aveva detto agli inquirenti, per poi ucciderla e scioglierne i resti nell’acido. Sono state dunque le parole di Marisa, costituitasi parte civile al processo, a far sì che per la sorella Lea arrivasse giustizia. Una testimonianza che, poi, ha continuato a rendere in giro per l’Italia, raccontando il sacrificio di Lea e l’importanza di dire no alla criminalità organizzata. Uno sforzo che, come ha raccontato ieri il Quotidiano del Sud, a quanto pare non basta. Il Prefetto Guida si è richiamato al «tenore letterale» dell’articolo 15 della legge 122/ 16 e all’articolo 2 quinquìes della legge 186/ 2008: Marisa Garofalo non meriterebbe quel risarcimento in quanto «la condotta dissociativa dal fenomeno mafioso, anche attraverso la costituzione di parte civile, si è manifestata solo successivamente al tragico evento». Sottolineando, però, «l’impatto» che un provvedimento negativo rischierebbe di avere sulla «politica della collaborazione», data anche «la notevole rilevanza mediatica delle vicende riconducibili alla famiglia Garofalo, dopo il brutale assassinio di Lea». Ma non solo: il Prefetto ha anche fatto riferimento ad una «campagna di stampa ostile e dissacratoria» nei confronti delle istituzioni dopo il primo diniego, «che presumibilmente non mancherebbe anche in questa occasione». Insomma: pensateci bene, altrimenti ci attaccheranno. L’altro elemento valorizzato negativamente dal Prefetto è quella telefonata tra due affiliati alla cosca di Petilia Policastro, Salvatore Comberiati e Vincenzo Carvelli, finita nell’inchiesta “Tabula Rasa” nel 2014. «Comberiati Salvatore precisava a seguito del rifiuto del programma di protezione da parte di Garofalo Lea, Miletta Santina e Garofalo Marisa, rispettivamente madre e sorella di Garofalo Lea, si rivolsero all’esponente della “locale di Petilia Policastro” onde propiziarne il ritorno nel borgo natio, al riparo da eventuali ritorsioni. Le donne però dissimularono lo stato di “pentita” di Garofalo Lea, altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino. Comberati Salvatore narrava di aver ottenuto, a tal fine, le rassicurazioni dei fratelli Cosco». Insomma, secondo la Prefettura, «piuttosto che invocare la protezione da parte delle istituzioni, si affidò alla ‘ ndrangheta». Ma la verità, secondo quanto spiegato dall’avvocato D’Ippolito, è diversa. Lea era allora esasperata per come veniva trattata dallo stesso Stato a cui chiedeva protezione, ma anche per il concreto pericolo che correva nonostante la tutela: l’ex marito era infatti venuto a sapere, tramite un carabiniere infedele, quale fosse la località protetta in cui si rifugiava. Molto allarmata, decise allora di uscire dal programma per tornare a Petilia, chiedendo a Marisa di intercedere per poter tornare in sicurezza a casa. Santina e Marisa si rivolsero dunque ad un esponente della locale di Petilia Policastro per consentirle di rientrare senza ritorsioni. Quella richiesta di “permesso” era dunque il sintomo della condizione di intimidazione rispetto a Carlo Cosco e sodali. Ma secondo i carabinieri, le due donne avrebbero nascosto il suo stato di testimone di giustizia, «altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino». E quello fu l’unico contatto con la criminalità da parte di Marisa. «C’è una legge del cuore – scrive l’avvocato D’Ippolito nelle controdeduzioni inviate al Ministero – per cui nessuno può vietare a una sorella di aiutare la propria sorella, che vive la minaccia, l’abbandono, la solitudine». L’impegno attivo di Marisa nella lotta alla criminalità «deve trovare un riconoscimento e un incoraggiamento. Lo Stato – conclude D’Ippolito – deve sostenere anche Marisa se vuole debellare il fenomeno della ‘ndrangheta alla radice».

·         Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.

Processi mediatici e miracoli dell’antimafia. Davide Varì il 26 Novembre 2019 su Il Dubbio. A distanza di 8 anni, si scopre che la sindaca non aveva nulla a che fare con i clan della ’ndrangheta. «Soldi al clan in cambio di voti: arrestata la sindaca Girasole». È uno dei tanti titoli – a dire il vero neanche il più duro – che la mattina del 4 dicembre 2013 campeggiava sui giornali di mezza Italia. Vere e proprie sentenze decise a mezzo stampa che condannavano senza appello la sindaca di Isola Capo Rizzuto. E gli stessi giornali che fino al giorno prima avevano onorato il coraggio della sindaca antimafia, 24 ore dopo erano lì a celebrarne il funerale politico con gran dispiegamento di intercettazioni fornite gentilmente dalla procura. Perché per l’antimafia da parata quella che “si costerna e s’indigna” ( cit. Fabrizio De Andrè) – non c’è nulla di più gustoso che infierire su un eroe finito nella lista dei “cattivi”. E quel 4 dicembre era toccato alla sindaca Girasole. Ma oggi, a distanza di 8 anni, si scopre che la sindaca non aveva nulla a che fare con i clan della ’ ndrangheta e che quell’inchiesta, pompata per giorni da giornali e tv, era «del tutto infondata». Di più: dalle famigerate intercettazioni, vendute come prova definitiva della sua colpevolezza, «non può desumersi la fondatezza dell’ipotesi accusatoria». E si può star certi che l’antimafia di regime non imparerà nulla da questa storia e tornerà a condannare e infliggere pene senza neanche il bisogno di un’udienza preliminare.

Sei anni per la verità, «La sindaca Girasole non era amica dei clan». Simona Musco il 26 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’odissea dell’ex prima cittadina di Isola Capo Rizzuto. La donna fu accusata di aver aiutato la ’ ndrangheta in cambio di voti, ma per I giudici non c’è alcuna prova che dimostri l’accordo collusivo. Se c’è una certezza, sei anni dopo l’arresto choc dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, è che di prove di un accordo collusivo tra l’icona antimafia e il clan Arena non c’è traccia. E, ancora di più, che quella donna che si era messa in testa di combattere contro la potente cosca del suo paese era stata lasciata sola dallo Stato, che ha affidato a lei il compito di prendere decisioni rimaste colpevolmente in sospeso, anche col rischio di fare un favore ai mafiosi. Sono conclusioni pesanti quelle a cui sono arrivati i giudici d’appello di Catanzaro, che hanno confermato l’assoluzione stabilita in primo grado per la Girasole. L’accusa, per una che per anni è stata simbolo della lotta alla bramosia delle cosche calabresi, era pesantissima: che per conquistare quella fascia tricolore avesse stretto un accordo con la cosca, chiedendo voti in cambio di favori. Favori che si sarebbero concretizzati soltanto due anni dopo quel voto, attraverso un’attività amministrativa «apparentemente lecita e sapientemente guidata, diretta in realtà ad assicurare alla cosca Arena non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati a Nicola Arena, quanto la loro coltivazione a finocchio e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, attraverso l’omessa frangizollatura del prodotto e la predisposizione di un bando per la raccolta». Ma tutto ciò, per i giudici, non è vero. Sbattuta come un mostro in prima pagina, costretta agli arresti in carcere e poi ai domiciliari per un totale di 168 giorni, la Girasole, oggi, può amaramente gridare vittoria. Perché i giudici, nonostante le insistenze della Procura antimafia, che hanno ribadito la convinzione di avere a che fare con una finta paladina della giustizia, hanno sancito la mancanza di una qualsiasi prova a conferma di quel patto scellerato. Così come mancano le pressioni sugli elettori, mentre, di contro, gli Arena tentavano in ogni modo di far cadere l’amministrazione Girasole, ammettendo anche, in un’intercettazione, di non aver raccolto voti per quella donna più volte apostrofata in malo modo. Un’accusa infondata, dunque, in un processo dal quale, semmai, emerge «l’immobilismo colpevole degli organi periferici dello Stato». Ovvero, su tutti, della Prefettura, che di quegli atti che avrebbero spodestato i clan dai terreni confiscati se ne sarebbe lavata le mani. Nelle 82 pagine che motivano la sentenza del 27 maggio scorso, i giudici sono “spietati”: dalle intercettazioni, dicono, non emerge «la prova certa del sinallagma corruttivo», mancando «elementi sufficienti a dimostrare che gli Arena si fossero spesi nel 2008 per l’elezione della Girasole e di seguito l’esistenza di un comportamento della Girasole in favore degli Arena». Anzi, le intercettazioni «appaiono poco significative per la ricostruzione dei fatti nei termini ritenuti dall’accusa», rappresentando piuttosto «elementi contrari». Come, ad esempio, la conversazione 658 del 6 novembre 2010, nella quale «si nega espressamente la raccolta di voti». Impossibile, per i giudici, ipotizzare che gli Arena fossero a conoscenza prima del tempo del bando per la raccolta dei finocchi coltivati sul terreno loro confiscato, come ipotizzato dalla Dda: nelle conversazioni, infatti, i riferimenti sono ad una lettera e ad un non meglio specificato bando della Prefettura, «poco comprensibile», al punto di non consentire «di imputare al sindaco alcuno specifico comportamento». Quello dei giudici appare come un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della Procura, che «non è riuscita a provare in che termini e quanto sia stato rilevante il riferito appoggio elettorale» e a portare in aula «proprio la prova dell’accordo collusivo». Tutte le intercettazioni sono riferite al 2010, due anni dopo l’elezione del sindaco Girasole, che risaliva al 2008: manca, dunque, la dimostrazione che sin da quell’anno ci fosse stato un patto «preciso e non meramente generico su future ipotetiche utilità» derivanti dalla vendita dei finocchi, che per realizzarsi richiedevano, comunque una serie di atti e provvedimenti «che non erano comunque all’epoca nelle disponibilità del sindaco». L’appoggio elettorale del clan rappresenta «una mera ipotesi» senza riscontro, in quanto «nessun elemento diretto a carico o dotato di adeguata concludenza è stato fornito al riguardo». Insomma: non ci sono prove. Così come «non vi è chiara descrizione di una condotta di intimidazione nei confronti degli elettori: si tratta di un fatto presente solo nella contestazione formale». Ma non solo. L’iter che ha condotto ad abbandonare le operazioni di distruzione dei finocchi «è stato determinato per un verso dalla mancata assunzione di responsabilità di alcuni degli organi preposti e per altro verso dal dichiarato scopo di perseguire l’obiettivo di spossessare comunque definitivamente» i proprietari delle terre loro in uso. Un procedimento «sostanzialmente gestito dalla Prefettura», mentre al Comune «era delegata la funzione di tipo tecnico operativo». Insomma, dal 2008 al 2010 Girasole non aveva avuto alcun potere, mentre Agenzia del Demanio, Agenzia per i beni confiscati e Prefettura, che fino ad allora avevano avuto la disponibilità legale degli immobili, «non avevano posto in atto concreti comportamenti volti a privare dei terreni la famiglia Arena». Le istituzioni avevano lasciato il Comune da solo e al sindaco non è rimasto che tentare di accelerare l’iter formalizzando un bando – «legittimo» per la raccolta, decisione presa «proprio in conseguenza di tale mancata assunzione di responsabilità, ottenendo, con l’unico mezzo che a quel punto si era rivelato possibile, il risultato che comunque le altre istituzioni fortemente chiedevano, cioè quella di consegnare i terreni liberi del raccolto».

Girasole, annullata l’incandidabilità. «Dai giudici palese contraddizione». Simona Musco il 7 Novembre 2019 su Il Dubbio. La Cassazione dà ragione all’ex sindaca calabrese. Da icona antimafia all’accusa di voto di scambio: l’ex primo cittadino di Isola Capo Rizzuto è stata assolta due volte ma altrettante è stata giudicata impresentabile. Ora è necessario un nuovo giudizio. Un ragionamento incomprensibile, «un caso pressoché scolastico di ragionamento contraddittorio» o, meglio, «di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili». Sono queste le parole con le quali i giudici della Cassazione hanno annullato con rinvio la sentenza di incadidabilità di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, da sei anni alle prese con la sua battaglia con la giustizia. Perché dopo essere stata per una vita un’icona antimafia, si è vista marchiare a fuoco sul curriculum il più terribile dei sospetti: essere al servizio dei clan della sua terra, quelli che per anni, stando alle cronache, avrebbero tentato di farla fuori e che, invece, per la Dda, sarebbero stati i suoi principali sponsor. Un sospetto culminato nel 2013 con l’arresto, passando 16 giorni in carcere e 168 ai domiciliari, salvo, poi, essere assolta due volte per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste. Ma nonostante questo, per ben due volte, tribunale e Corte d’Appello l’hanno definita incandidabile. E questo senza che il suo nome comparisse nella richiesta del ministero dell’Interno. «Non posso accettare quella sentenza – aveva spiegato qualche mese fa – e non perché voglia ricandidarmi, ma perché non mi si addebita nulla in quella richiesta di incadidabilità. Ciò che ho fatto in cinque anni è stato duro e impopolare e se lo scopo era concludere un’esperienza amministrativa farlo in questo modo è inaccettabile». La Cassazione, ora, le dà ragione, perché nel decretare la sua incandidabilità la Corte d’Appello non ha spiegato alcunché. La conclusione, afferma la Suprema Corte, «non si accorda con le premesse» da cui i giudici del secondo grado erano partiti. E la premessa era identica all’argomentazione di Girasole: la Corte si dice, infatti, certa, «che al fine di dichiarare l’incandidabilità degli amministratori travolti dallo scioglimento» occorre che, «legge alla mano, il loro nominativo figuri nella proposta inoltrata a questo fine dal ministro dell’Interno al Tribunale competente». Ma nel chiudere il cerchio del sillogismo, «la Corte d’Appello opera un’imprevedibile inversione – scrive la Cassazione – confermando la dichiarazione di incandidabilità della Girasole», pur riconoscendo che il suo nome «nella proposta e neppure nei documenti finitimi era stato indicato». Contraddittorietà che non trova, nel resto della motivazione, alcuna chiarificazione, secondo i giudici, che hanno rispedito dunque indietro gli atti per un nuovo giudizio. Quel che emerge dalle aule di tribunale, per ora, dà dunque sempre ragione a Girasole. L’ex sindaca, difesa dall’avvocato Marcello Bombardiere, non sarebbe stata ammanicata con la ‘ ndrangheta, anzi: quella cosca che per la Dda le aveva spianato la strada verso il Comune, in realtà, nutriva un odio feroce per lei. Per l’antimafia l’ex primo cittadino avrebbe «ricevuto il sostegno elettorale della famiglia Arena» e quella condotta votata alla legalità sarebbe stata mera apparenza, sostenuta da quella celebrazione mediatica che, assieme alle numerose intimidazioni subite, aveva fatto di lei un’eroina. Tutto falso, per la procura. Ma non per i giudici, secondo cui ad essere «infondata» è proprio la tesi della Dda: Girasole, come emerso dalle intercettazioni, era considerata dal clan una nemica e la procura, sviluppando la propria tesi d’accusa, avrebbe commesso «errori grossolani». Tanto che nei piani di boss e gregari c’era tutt’altro che la volontà di farne un proprio punto di riferimento nel palazzo comunale: le intercettazioni, talvolta anche travisate, «rivelano una macchinazione degli Arena, uno strata-gemma per farla cadere ( proprio perché contrariati dall’azione politica della Girasole)». Il percorso che l’aveva portata all’incandidabilità seguiva lo stesso ragionamento tracciato dalla procura: per il tribunale prima e per la Corte d’Appello poi, era chiara la continuità tra l’ultima amministrazione in carica, guidata da Gianluca Bruno, a maggioranza centrodestra, sciolta per infiltrazioni mafiose ( per lui l’incandidabilità è stata invece confermata), e la gestione di Girasole, ex Pd, rieletta con la carica di consigliere. Eppure, per i giudici che l’hanno assolta, il reato di corruzione elettorale «si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi, quelli offerti dalla pubblica accusa e a prescindere da quelli contrari offerti dalla difesa, inconsistenti se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria» . Girasole, ora, torna a sperare. «La Cassazione ha accertato quello che diciamo dall’inizio: che non c’è uno straccio di atto che dimostri quello che ha sostenuto la commissione d’accesso – commenta al Dubbio -. Commissione che ho querelato e ora sono in attesa della decisione del giudice. Dopo aver lavorato cinque anni, facendo scelte molto difficili in questo territorio, sentirsi tirata in ballo anche con l’incandidabilità è stato un ulteriore atto d’ingiustizia. Le due sentenze di assoluzione hanno dimostrato chiaramente che nessun atto ha favorito la cosca – aggiunge -, quindi credo che a questo punto si possa chiarire definitivamente che la mia attività amministrativa è stata di contrasto al clan e non il contrario. Questa decisione mi lascia sperare che non tutto è perduto in questa Calabria e che giustizia può essere fatta. Certo, il percorso è duro e in alcuni momenti inaccettabile, perché le accuse sono davvero infamanti, soprattutto per chi ha fatto delle scelte nette e che per questo ha subito quello che ha subito. Mi sono messa contro un potere molto forte, tutti lo sapevano. Ma nella relazione della commissione d’accesso non si distingue tra gli atti della mia amministrazione e quelli dell’amministrazione successiva. Sono stata dichiarata incandidabile senza che mi fosse attribuita la responsabilità di alcun atto. E questo è assolutamente inaccettabile».

Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia accusata di collusione coi clan.  L’odissea giudiziaria di Carolina Girasole. Simona Musco il 29 Maggio 2019 su Il Dubbio. Una vita da icona antimafia. Poi il capovolgimento di fronte, il sospetto, da brividi, che tutto quel successo mediatico, pure le intimidazioni, fossero frutto proprio di un accordo con i clan. Il processo e, poi, l’assoluzione. Non una, ma due volte. Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, sullo Ionio calabrese, non era ammanicata con la ‘ndrangheta. Anzi, quella ‘ndrangheta che per la Dda le aveva spianato la strada verso il Comune, in realtà, la odiava tanto. Lunedì, alle 17.30, il giudice Giancarlo Bianchi, presidente del collegio giudicante, lo ha chiarito dopo tre anni di processo, confermando in pieno l’assoluzione di primo grado, pronunciata il 22 settembre 2015. Assolta da tutti i reati per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste, il massimo possibile, così come il marito Franco Pugliese, per l’accusa questuante di voti dal sapore mafioso. I due avevano passato 168 giorni agli arresti domiciliari, a partire dal 19 dicembre 2013, e tra un’assoluzione e l’altra sono passate pure due sentenze di incandidabilità. La Dda ha sostenuto con fermezza la sua tesi, portandola due volte in aula. Girasole, secondo l’antimafia, avrebbe «ricevuto il sostegno elettorale della famiglia Arena», teorema costruito ascoltando in cuffia gli uomini del clan che sostenevano di aver raccolto voti «facendo favori ai cristiani». E per l’accusa, la condotta votata alla legalità mantenuta dal sindaco era mera apparenza, sostenuta da quella celebrazione mediatica che, assieme alle numerose intimidazioni subite, aveva fatto di lei un’eroina. Quella tesi, secondo la prima sentenza d’assoluzione, era «infondata»: Girasole, come emerso dalle intercettazioni, era considerata dal clan un’acerrima nemica. I giudici avevano evidenziato anche errori grossolani compiuti durante le indagini, come nel caso della conversazione in cui «l’accoscato» Pasquale Arena parla non di mille “voti” ( come trascritto nei brogliacci) «ma di “350” volte in cui si sarebbe adoperato, sostenendo la candidatura per l’elezione non della Girasole, ma di altro personaggio politico». Una sentenza che non piacque al pm Domenico Guarascio, che nel suo atto d’appello parlò di prove ignorate, travisate e sminuite. E a ciò si era aggiunta la decisione dei giudici di decretare l’incandidabilità dell’ex sindaco. Carolina Girasole, però, non solo non avrebbe mai fatto nessun accordo con gli Arena, ma la sua politica amministrativa li avrebbe combattuti. Il reato di corruzione elettorale, scrivevano i giudici, «si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi inconsistenti se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria». Le intercettazioni, anzi, «rivelano una macchinazione degli Arena, uno stratagemma per farla cadere». «È una liberazione», esulta oggi Girasole. Sono stati «5 anni e mezzo di incubo, un calvario durissimo, con accuse infamanti e in contrasto con quella che era la mia attività amministrativa». Un’accusa che in questi anni l’ex sindaco, assistita dagli avvocati Mario e Marcello Bombardiere, ha cercato di smentire mettendo ordine agli atti, trovando quelli che mancavano, facendo trascrivere le intercettazioni in maniera corretta. «Da una parte – spiega al Dubbio – c’era la sicurezza di non aver fatto niente, anzi, di aver agito contro la ‘ ndrangheta, ritrovandomi, però, in quella situazione. Dall’altra c’era la paura, perché anche se era tutto molto chiaro la procura continuava ad accusarmi. Fino alla sentenza di primo grado sono stata tranquilla, pensavo di aver chiarito tutto. Invece c’è stato l’appello, un ulteriore incubo, perché l’ho vissuto come un accanimento». Da questi lunghi anni Girasole e suo marito ne escono «provati», confusi. Anche perché, dice, «chi fa un accordo con le cosche non può, poi, fare gli atti amministrativi che ho fatto da sindaco. Nessuno sarebbe così folle. La procura ha parlato di travisamento delle prove, ma evidentemente non eravamo noi a non aver capito bene». L’altra battaglia da portare avanti, ora, è quella contro l’incandidabilità, per la quale pende un ricorso in Cassazione. «Non posso accettare quella sentenza – spiega – e non perché voglia ricandidarmi, ma perché non mi si addebita nulla in quella richiesta. Si parla, molto vagamente, di disordine amministrativo e viene disconosciuto tutto ciò che ho fatto sui beni confiscati, sull’abusivismo edilizio e su tutto il resto. Ciò che ho fatto in 5 anni è stato duro e impopolare e se lo scopo era concludere un’esperienza amministrativa farlo in questo modo è inaccettabile». Di quel percorso – «molto lungo, complicato e bello» – rimangono i beni confiscati, le associazioni, la presenza di Libera sul territorio. «Ma il percorso è stato interrotto», commenta amaramente. E poi c’è la querela contro la commissione d’accesso che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione. «Di quella non si sa nulla – spiega – L’ho fatto perché mi si addebitano cose di cui non ho assoluta responsabilità e vengono dette cose false». Ora non rimane che aspettare. E provare a riprendersi una vita che, per 5 anni, è rimasta in pausa. «Cercherò di ritrovare la serenità per vivere in pace con la mia famiglia. Mi difenderò ancora e probabilmente scriverò un libro». E l’antimafia? «Ci credo ancora – conclude – Ma c’è chi la utilizza come bandiera per pubblicità o interessi. Quello che ci distingue sono gli atti, non i convegni o le parole. Non mi ero candidata per diventare un’eroina, ma lungo quel percorso mi sono trovata a scontrarmi con interessi privati che erano quelli della cosca. E ho fatto una scelta».

·         Le vittime dell’antimafia: Cosimo Commiso.

Commisso, un pasticcio in cui hanno perso tutti: stato di diritto e giustizia. L’uomo scarcerato dopo 26 anni di carcere, scrive Ilario Ammendolia il 22 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Conosco la vicenda dell’ex ergastolano Cosimo Commisso solo attraverso il suo memoriale pubblicato sulla testata online “Urla dal silenzio”. So bene che nell’immaginario collettivo, e non solo, egli è considerato il “capo” della ndrangheta di Siderno – la più agguerrita ed “istituzionalizzata” della Locride – e che in quanto tale avrebbe guidato il suo esercito contro la “sedizione dei Costa” in una guerra con qualche centinaio tra morti e feriti. Venti anni fa è stato condannato all’ergastolo; dopo 26 anni di carcere è stato assolto «per non aver commesso il fatto». La “grande stampa” ed il mondo istituzionale hanno ignorato la notizia per non fare i conti con la realtà. Noi non possiamo tacere anche se non avrei nulla da dire se non che la “Giustizia” pretende che un uomo paghi per i propri crimini ma solo per quelli che ha realmente commesso. E tocca allo “Stato” dimostrare, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la sua colpevolezza. Può piacere o meno ma è lo Stato di diritto che dovrebbe tutelare ognuno di noi e che fornisce alla “Giustizia” tutti gli strumenti legali per estirpare la ’ ndrangheta dal territorio calabrese. Una necessità improcrastinabile ed i cittadini pagano le tasse perché questa lotta venga finalmente vinta! Ma perché ciò avvenga lo “Stato” avrebbe avuto (ed ha) il dovere di provare la propria superiorità etica e politica, dimostrando a tutti ( anche ai criminali) che la Repubblica non mette in piedi processi sommari ne falsifica le prove e che gli uomini dello “Stato” hanno solo una stella polare: la Legge. Nel “caso Commisso”, proprio perché l’imputato è considerato un “capo” ndrangheta, il processo a suo carico avrebbe dovuto essere severo, rigoroso, inflessibile ma soprattutto giusto e supportato da prove certe anzi blindate. E non lo è stato! Ed infatti dopo 26 anni è crollato come un castello di carta. Ed è un fatto oggettivamente grave. Grave sia nel caso in cui un colpevole sia sfuggito alla giustizia ma ancora di più quando un tribunale, dopo 26 anni, stabilisce che l’imputato era innocente. In casi come questo si trasforma il presunto colpevole in sicura vittima e non è di questo che avremmo bisogno. Serve per combattere la ndrangheta? Assolutamente no! Lo dimostra il fatto che dei tanti delitti che si sono consumati nella Locride ed in Calabria nell’ 80% dei casi non sappiamo l’autore. Nello stesso tempo l’opinione pubblica calabrese viene informata da una soffiata al Fatto che ben 15 magistrati calabresi sono iscritti nel registro degli indagati. Cosa nasconda tale notizia non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi di pura lotta per il potere, di guerra preventiva, di studiata delegittimazione del “nemico”, di contrasto alla criminalità ma di sicuro non è una lotta per la tutela dei cittadini. Ed infatti: solo in Calabria (ed in Catalogna) abbiamo un presidente della Regione – (che può piacere o meno) - ma che resta confinato senza alcuna sentenza di condanna. Solo in Calabria i generali “governano” e rendono il loro omaggio simbolico negli uffici della Dda. Solo in Calabria un sindaco è bandito dal proprio paese senza alcun processo. Solo in Calabria (ed in Burundi) si possono sciogliere 110 consigli comunali regolarmente eletti. E tutte queste cose messe insieme mi fanno dire che non si sconfigge la ndrangheta se non smantellando l’elefantiaco, costoso quanto inutile e nocivo apparato repressivo che è stato messo in piedi e che marcia nella direzione sbagliata ed i fatti lo dimostrano aldilà di ogni dubbio. Personalmente non godo e non brindo quando le persone stanno in carcere ma ne comprendo la necessità nei casi in cui si dimostri che la carcerazione è strettamente necessaria per tutelare la società e prevenire altri delitti. In molti casi la galera serve però non per contrastare il crimine ma per formare e tacitare un’opinione pubblica rancorosa, rabbiosa, vendicativa che invoca la forca; anche se coloro che oggi applaudono saranno le vittime di domani. Il “popolo” costruisce le forche ed è il “popolo” ad essere impiccato. Cosimo Commisso, guadagna la libertà nello stesso giorno in cui Cesare Battisti, probabile autore di gravi tragedie e sopravvissuto fisicamente alla stagione del terrorismo, è arrivato a Roma a scontare la sua pena. I due ministri che, sfidando il ridicolo, sono andati ad accoglierlo a Ciampino si guardano bene dal venire in Calabria per constatare il dramma della “legalità” che affoga nella malagiustizia mentre perde la battaglia contro la criminalità. Ne comprendo le ragioni: in Calabria ci sarebbe tanto da riflettere e lavorare ed, iniziando dai vertici, tanto ma tanto da cambiare. A Ciampino basta solo recitare.

·         Così il Governo gestisce i testimoni di giustizia.

Dal Sisde dei misteri alla corte dei 5Stelle. Così il governo gestisce i testimoni di giustizia. Capo dei servizi segreti di Messina all'epoca delle stragi di mafia è tra i collaboratori del sottosegretario Gaetti. Il doppio ruolo del grillino nell'indagine parlamentare sulla morte del medico che avrebbe visitato Provenzano, scrive Fabrizio Gatti il 22 gennaio 2019 su "L'Espresso". I vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio forse lo sanno già. Il sottosegretario all'Interno per il Movimento 5Stelle, Luigi Gaetti, 59 anni, è assistito personalmente dall'ex capocentro del Sisde di Messina: all'epoca delle stragi di mafia tra il 1992 e il 1993 era il funzionario responsabile dei servizi segreti civili nella provincia orientale della Sicilia. Gaetti è invece l'uomo del cambiamento che pochi giorni fa in commissione Affari costituzionali, rispondendo sull'aggressione a due giornalisti dell'Espresso, ha sdoganato il titolo di “martiri fascisti” e la ricostituzione dell'organizzazione estremistica “Avanguardia nazionale”. Non sappiamo se lo stretto collaboratore del sottosegretario 5Stelle sia ancora in contatto con i servizi: certi rapporti dello Stato non sono pubblici e, tra l'altro, una norma protegge l'anonimato degli 007. Al ministero dell'Interno, però, è noto che l'ex capocentro Sisde, dopo Messina, ha lavorato anni nel Servizio centrale per la protezione di pentiti e testimoni di giustizia e oggi collabora con il governo di Giuseppe Conte. Il sottosegretario Gaetti ha infatti la delega all'Antimafia ed è presidente della “Commissione centrale per la definizione e l'applicazione delle speciali misure di protezione”. Un ruolo delicatissimo: dall'identità e dal luogo d'origine delle persone che lo Stato tutela è possibile intuire la direzione delle indagini in corso. Il Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, oggi rinominato Aisi) in quegli anni in Sicilia non può certo essere ricordato per il suo eroismo: nei mesi tra il 1992 e il 1993, gli 007 non sono riusciti a prevenire e a sventare il massacro dei due principali magistrati antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e di almeno diciannove cittadini, tra familiari, agenti di scorta, ignari testimoni e due bambine, uccisi negli attentati che hanno colpito Palermo, Roma, Firenze e Milano. Mentre uno dei dirigenti centrali di allora arrestato il 24 dicembre 1992, il funzionario di polizia Bruno Contrada, è stato riconosciuto colpevole in via definitiva nel 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa (sentenza per la quale la Corte di Cassazione nel 2017 ha dichiarato la condanna «ineseguibile e improduttiva di effetti penali», poiché il fatto non era previsto come reato all'epoca delle condotte contestate). Da nessuna inchiesta risulta comunque che l'ex capocentro messinese, oggi collaboratore del governo, abbia violato la legge. Sono piuttosto alcuni suoi uomini a occuparsi delle indagini più delicate. Anche il sottosegretario Gaetti, ex consigliere comunale della Lega in provincia di Mantova e oggi fervente seguace di Beppe Grillo, ha avuto un ruolo come medico legale in uno dei misteri che l'Italia ha ereditato: la morte di Attilio Manca, originario di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, ucciso in casa da due iniezioni di eroina a 35 anni l'11 febbraio 2004 a Viterbo, dove lavorava come urologo per l'ospedale Belcolle. Il 21 febbraio 2018, come vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura e come relatore, Gaetti ha firmato la relazione di minoranza secondo la quale il dottor Manca è stato assassinato con due dosi di droga dopo aver riconosciuto durante una visita il boss Bernardo Provenzano, allora latitante. Una versione sostenuta da alcuni collaboratori. Uno in particolare, al quale nella relazione parlamentare il futuro sottosegretario riconosce piena attendibilità: Carmelo D'Amico, ex leader del gruppo di fuoco della potente famiglia mafiosa di Barcellona, per anni nascondiglio dei latitanti di Cosa nostra. Sentito dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, gli viene chiesto ciò che sa di Rosario Pio Cattafi, 67 anni, un ex estremista di destra, riconosciuto definitivamente colpevole di associazione mafiosa fino al 1993 e tuttora in attesa del giudizio di rinvio per il periodo 1993-2000, come ha ordinato la Corte di Cassazione. Sempre Cattafi è stato recentemente denunciato dai figli del procuratore di Torino, Bruno Caccia, come presunto mandante dell'omicidio del loro papà avvenuto nel 1983. Caccia stava cominciando a indagare sul riciclaggio del capitale della mafia nei casinò al Nord: il procedimento è in attesa della decisione del giudice per le indagini preliminari, dopo la richiesta di archiviazione della Procura di Milano e la netta opposizione dei familiari del magistrato.

La risposta di Carmelo D'amico sulla morte dell'urologo a Viterbo è agghiacciante. Ed è riassunta nella relazione parlamentare di cui Gaetti era relatore: il collaboratore «ha dichiarato che Attilio Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese Corda Fratres, era stato coinvolto nelle cure dell'allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato con la subdola messinscena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell'aspetto e la provenienza calabrese». Gaetti e la minoranza della Commissione antimafia suggeriscono anche il nome su cui indagare: l'ex poliziotto Giovanni Aiello, morto a 71 anni il 21 agosto 2017, «che si era occupato, insieme con altri delitti, anche dell'uccisione dell'urologo barcellonese...». I ruoli di Cattafi, del misterioso generale, del suo circolo e di Aiello non sono mai stati approfonditi, né sono mai stati indagati per la morte dell'urologo. Le Procure di Viterbo e Roma, nei procedimenti di loro competenza, hanno invece chiesto e ottenuto l'archiviazione delle inchieste per omicidio: hanno creduto a un gruppo di coetanei di Barcellona, alcuni di loro vicini ad ambienti mafiosi, che hanno descritto Attilio Manca come un accanito eroinomane. Ricostruzione decisamente smentita dalla sua compagna, dai genitori, da amici e colleghi di sala operatoria (che non hanno mai notato segni di iniezioni) e dall'eccellente curriculum professionale del medico, il primo in Italia a operare il tumore alla prostata in laparoscopia. La maggioranza della Commissione parlamentare antimafia si è ovviamente allineata alla versione ribadita dalle decisioni della magistratura. E in questo ha potuto contare su un parere medico-legale che colloca alle 00.30 dell'11 febbraio 2004 la morte dell'urologo: orario che esclude la possibilità di interventi esterni da parte di uno o più assassini. Chi ha prodotto il parere che smentisce il collaboratore citato da Gaetti e indirettamente assolve la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto? Lo rivela una nota in fondo alla relazione di maggioranza presentata dall'allora presidente Rosy Bindi: «Il vicepresidente della Commissione, senatore Gaetti, in qualità di esperto anatomo-patologo».

·         Sciascia e il florido mercato dell’antimafia.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Sciascia e il florido mercato dell’antimafia. Alberto Cisterna l'11 gennaio 2017 su Il Dubbio. Trenta anni sono molti. ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla Mafia sembra il moto di pochi giri. E ancora oggi va chiarito il senso delle parole dello scrittore. Come Sciascia aveva immaginato, è stata la società civile a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Trenta anni sono molti. Ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla mafia sembra il moto di pochi giri. Tra le parole che Sciascia adoperò nel suo celebre articolo sui “Professionisti dell’antimafia” sarebbe difficile trovare (ancora oggi) un punto di equilibrio condiviso, una convergenza che vada oltre l’immensa stima verso l’intellettuale e il sommesso tributo a chi parve la vittima più immediata di quelle parole, ossia Paolo Borsellino. La morte sua e di Falcone, di fatto, sono suonate come un sigillo sul “torto” di Sciascia, sull’errore tante volte rinfacciatogli per quella posizione. La falce mafiosa ha giocato uno scherzo terribile al genio di Racalmuto, facendolo apparire un antagonista di colui che, invece, lo amava profondamente (Falcone) e, addirittura, lo annoverava tra i suoi maestri (Borsellino). In questi giorni Felice Cavallaro e altri hanno ricostruito con chiarezza il clima di 30 anni or sono. Le scuse, le incomprensioni, i riavvicinamenti tra i protagonisti della querelle sono stati rievocati con precisione, ma quelle parole restano un materiale incandescente, difficile da manipolare. Sciascia evocava il rischio che, in nome di una professionalità così difficile da misurare e valutare, si consumassero ingiustizie, si aprisse la strada alla discrezionalità più sfrenata. In un settore, come quello della lotta alla mafia, in cui peraltro era e resta decisivo l’approccio dei media, la mediazione tra carte processuali e pagine dei giornali. Una cristalleria, fragile e incline alle crisi di nervi ancora oggi. C’è da chiedersi per quale ragione. La prima, sopra ogni altra, è che le mafie dopo trent’anni non sono state ancora battute. Sono all’angolo, in enorme difficoltà, sbrindellate in molte articolazioni, ma non sono ancora state sconfitte. Abbiamo la legislazione più severa del mondo, la migliore polizia giudiziaria, una parte importante della magistratura interamente votata a questa battaglia eppure non se ne viene a capo. La cosa più sconfortante è, soprattutto, che nessuno si senta in dovere di fornire un’indicazione, di dare una scadenza, di indicare un evento che possa servire da punto di verifica. Si combatte e basta in un’emergenza senza fine. Una gigantesca guerra di trincea in cui si lotta per vette, per colli o per radure che, una volta prese, non hanno alcun significato decisivo. Sono ormai centinaia le conferenze stampa in cui si annunciano sequestri, catture di boss e arresti salutati con toni roboanti e che, poi, si rivelano solo l’ennesima tappa di un’Anabasi infinita e sconsolata. La seconda, di ragione, che rende ancora scivolose le parole di Sciascia e arduo un ragionamento pacato, riposa nel mondo in cui la politica si è organizzata per combattere la mafia. Centrale in questa visione era il mito della società civile che doveva sostenere la prima linea delle toghe e delle polizie con la forza della propria innocente purezza. Un mito che Sciascia aveva spezzato con le sue parole, suonate come un j’accuse lanciato proprio contro chi doveva essere solo sostenuto e tutelato. Però, come l’intellettuale siciliano aveva immaginato, è stata la società civile – quella cioè che le mafie tiene in vita con la sua domanda di illegalità – a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Se le parole di Sciascia fossero oggi messe al centro di una discussione serena, si capirebbe che i «professionisti dell’antimafia» di cui occuparsi non sono (i pochissimi) magistrati o poliziotti che fanno carriera solo per la professionalità e l’impegno profuso sul fronte delle cosche. Lo sguardo dovrebbe volgersi a quel mondo in cui (esclusa Libera e pochi altri) vivono e operano gruppi della società civile con lo sguardo volto alle cordate di “combattenti” da promuovere mediaticamente e la mano tesa alle casse pubbliche di una politica che considera l’obolo all’antimafia sostanzialmente alla stessa stregua di una mazzetta alla mafia.

·         Il Proibizionismo agevola la mafia.

Maria Scopece per formiche.net  il 19 dicembre 2019. New York mette al bando le sigarette elettroniche aromatizzate. Il sindaco Bill de Blasio ha firmato una norma che ne vieta la vendita dal prossimo luglio 2020, chi contravverrà al divieto sarà sanzionato con una multa da 1.000 dollari. La norma si è fatta urgente perché le sigarette elettroniche stanno spopolando tra i più giovani proprio per la piacevolezza del gusto conferito attraverso l’aromatizzazione. L’idea del sindaco della Grande Mela è quella di tutelare in questo modo la salute dei più giovani. Lo scorso 13 dicembre la rivista Science ha pubblicato un editoriale proprio dedicato alla diffusione delle sigarette elettroniche, soprattutto tra i più giovani. La domanda dalla quale parte la rivista scientifica è se le ecig possano essere un valido aiuto per contenere il consumo di sigarette tradizionali e tabacco da combustione o siano, invece, la via d’ingresso più semplice per i ragazzi nel mondo del tabagismo. Oltre a questo, Amy Fairchild, Cheryl Healton, James Curran, David Abrams, Ronald Bayer, gli autori dell’editoriale si domandano se gli interventi della politica americana per limitare la fruizione delle ecig possano essere realmente efficaci. Quest’estate i centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) hanno evidenziato numerosi casi di lesioni respiratorie gravi e talvolta fatali tra i fumatori di sigarette elettroniche. Al 4 dicembre 2019, il Cdc ha riportato 2291 casi di malattie serie e 48 decessi. Il Cdc e la Food and Drug Administration (Fda) degli Stati Uniti hanno individuato nella vitamina E acetato, un additivo presente nei liquidi utilizzati per “svapare”, i responsabili di questa epidemia di malattie polmonari. La risposta della politica non si è fatta attendere: il Massachusetts ha vietato la vendita al dettaglio e la vendita online di tutte le ecig fino a gennaio 2020, San Francisco le vieterà all’inizio del 2020, il Michigan ha vietato tutti i prodotti aromatizzati tranne quello al gusto tabacco. Persino la Casa Bianca ha fatto dichiarazioni pubbliche sul tema avanzando l’ipotesi di vietare le aromatizzazioni delle sigarette, e dunque far decrescere l’appeal tra i più giovani. L’approccio frettoloso e proibizionista non convince del tutto gli editorialisti di Science perché l’effetto di sostituzione, tra sigarette tradizionali e sigarette elettroniche, potrebbe se non altro limitare i danni causati dal fumo di sigarette. “L’azione politica – scrive Science – ha conseguenze per coloro che non hanno mai fumato, in particolare i giovani. Ha anche implicazioni per i fumatori attuali e futuri”. Secondo le stime degli scienziati nel prossimo secolo oltre 1 miliardo di fumatori morirà prematuramente in tutto il mondo, nel 2019 saranno oltre 8 milioni di persone a morire a causa del fumo delle sigarette. Secondo stime riportate dalla prestigiosa rivista una sostituzione quasi completa tra sigarette elettroniche e sigarette tradizionali potrebbe salvare circa 1,6 milioni di persone solo negli Usa e “regalare” 20,8 milioni di anni di vita dignitosa a chi eviterebbe di ammalarsi. L’Institute of Medicine degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto del 2015 in cui indicava che le restrizioni all’età di 21 anni sulla vendite di sigarette avrebbero ridotto i tassi di fumo negli adolescenti e salvato vite umane. Ogni giorno oltre 2500 adolescenti statunitensi iniziano a fumare e circa 1300 adulti statunitensi muoiono prematuramente, 16 milioni di persone negli Usa soffrono di malattie legate al fumo come cancro, enfisema e altre malattie polmonari croniche debilitanti. Le cifre sono ancora più allarmanti per il futuro: 5,6 milioni di giovani statunitensi moriranno a causa del fumo, alimentando la pipeline di 35 milioni di fumatori adulti negli Stati Uniti, più della metà dei quali moriranno prematuramente, nonostante gli sforzi per prevenire l’assunzione di tutti i giovani. Sedici milioni di persone negli Stati Uniti soffrono di malattie legate al fumo come cancro, enfisema, malattia polmonare cronica ostruttiva e altre malattie croniche debilitanti. Science indica, dunque, due strade: da un lato il contrasto agli aromi che aumentano l’appeal delle sigarette tradizionali, dall’altro l’implementazione di un sistema di monitoraggio dei prodotti utilizzati per le sigarette elettroniche. “Le sfide dello svapo di nicotina richiedono anche un rigoroso sistema di sorveglianza che potrebbe rilevare tempestivamente eventuali inconvenienti – si legge nell’editoriale – simile alla sorveglianza post-vendita dei farmaci. La sorveglianza continua è il modo migliore per rilevare danni in una situazione in cui non possono esserci dati certi”.

CONCLUSIONI. In conclusione nello studio si osserva che le stime più conservative indicano che se svapare nicotina rimpiazzasse efficacemente la maggioranza del fumo di sigaretta nei prossimi 10 anni, si eviterebbero 1,6 milioni di morti premature e 20,8 milioni di anni di vita regolati per qualità, nei soli USA. Il beneficio maggiore si avrebbe proprio nei giovani. A livello mondiale, più di 8 milioni di fumatori morirà prematuramente a causa del fumo di sigaretta (e non per la sola nicotina) soltanto nel 2019. Il beneficio potenziale di questa modalità di fornitura della nicotina (regolamentata, innovativa, senza combustione) potrebbe avere un enorme impatto positivo a livello globale. Le evidenze scientifiche indurrebbero dunque a sconsigliare l’adozione di azioni meramente proibizioniste dettate da allarmismi e volte a limitare tout court l’accesso e il ricorso alle e-cig da parte dei fumatori. Tali azioni infatti rischiano di sviare una tendenza che può invece accelerare la fine dell’uso delle sigarette, ad oggi responsabili del decesso di circa un miliardo di persone entro il secolo corrente.

Droga. Cassazione shock: coltivare cannabis in casa non è (più) reato. Viviana Daloiso giovedì 26 dicembre 2019 su Avvenire. La sentenza depositata lo scorso 19 dicembre, proprio mentre in Parlamento infuriava la polemica sulla legalizzazione della “cannabis light”, poi bocciata. I giudici: «Attività di coltivazione minime». «È reato vendere i prodotti derivanti da “cannabis light”» tuonava la Cassazione a Sezioni unite lo scorso luglio, vietando di fatto la vendita dei prodotti ottenuti dalla canapa e commercializzati nei cannabis shop. Fa specie scoprire che nei giorni precedenti al Natale, proprio mentre in Parlamento infuriava la polemica sull'emendamento inserito all'ultimo momento dal Movimento 5 stelle per legalizzare la cosiddetta “cannabis light”, la Cassazione a sezioni unite prendeva una decisione epocale sulla cannabis normale: ovvero che coltivarla in casa propria, per farne uso personale, non è reato. O meglio, non lo è più, visto che la Corte costituzionale in passato è intervenuta più volte sul tema, sposando una linea rigorosa, poi seguita da tutta la giurisprudenza: ovvero che la coltivazione di cannabis è sempre reato, a prescindere dal numero di piantine e dal principio attivo ritrovato dalle autorità e anche se la coltivazione avviene per uso personale. Perché? Semplice: «La condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti - sostenevano i giudici - può valutarsi come “pericolosa”, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio». Ora invece - anche se per avere un quadro più chiaro bisognerà attendere le motivazione della sentenza, depositata il 19 dicembre - cambia tutto: «Il reato di coltivazione di stupefacente - si legge nella massima provvisoria emessa dalla Corte - è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente». E fin qui tutto bene. «Devono però ritenersi escluse - ecco il punto dirompente della pronuncia -, in quanto non riconducibile all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate i via esclusiva all'uso personale del coltivatore». In sostanza chi coltiva per consumare da sé non compie più reato. Viene propugnata così la tesi per cui il bene giuridico della salute pubblica non viene in alcun modo pregiudicato o messo in pericolo dal singolo assuntore di marijuana che decide di procurarsela da sé, coltivandola. La sentenza si abbatte come una scure sul dibattito in corso nel Paese sulla legalizzazione della cannabis, aprendo di fatto una nuova breccia culturale nel processo di “normalizzazione” di questa sostanza. Che una droga è a tutti gli effetti, è pericolosa per la salute e il cui consumo - lo ha certificato lo Stato, appena qualche settimana fa, nella Relazione del Dipartimento delle politiche antidroga al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze - è in drammatico aumento: la cannabis è la sostanza più diffusa in assoluto, con un terzo dei ragazzini che l’hanno consumata almeno una volta, 150mila fra questi questi a rischio e un’“iniziazione” scesa ai 15 anni. Numeri i cui effetti, per altro, si misurano sulla strada a ogni nuovo incidente (e omicidio) stradale), proprio come quello di Gaia e Camilla che ha scosso il Paese in queste ore. «La cannabis crea dipendenza, è dannosa e il parlare in modo inadeguato di “uso ricreativo” (così come di “uso domestico”, ndr)abbassa la percezione della sua pericolosità» hanno ricordato compatte le comunità di recupero a proposito del dibattito in Aula sulla cannabis light, ammonendo lo Stato «a non fare soldi sulla pelle dei giovani». E proprio allo Stato le comunità chiedono una riforma del testo unico sulle dipendenze, fermo a trent'anni fa mentre in Italia ogni giorno si registra una vittima di droga. Immediate le reazioni politiche, a cominciare proprio da quelle dei 5 Stelle, che tornano alla carica sulla legalizzazione: «Oggi si mette fine alla stortura tutta italiana di una legge che consegnava il mercato monopolista delle droghe leggere nelle mani della mafia. Adesso è arrivato il momento che il legislatore si svegli» il commento del parlamentare Matteo Mantero, tra i firmatari dell'emendamento sulla “cannabis light” bocciato in Aula. «Leggeremo con attenzione la sentenza della Cassazione in materia di coltivazione della cannabis nelle abitazioni. La stessa Cassazione aveva recentemente emesso sentenze ben diverse, che hanno stroncato il commercio della cosiddetta cannabis light. Quindi bisognerà capire bene cosa è stato scritto» ha commentato il senatore Maurizio Gasparri di Forza Italia.

Coltivare cannabis in casa non è più reato. La Legge per Tutti 27 Dicembre 2019. Una nuove sentenza della Cassazione a sezioni unite stabilisce che la coltivazione in casa non è reato se il prodotto è destinato all’uso personale.

Coltivare la cannabis in casa non costituirà più reato, purché ciò avvenga in minime quantità. Lo ha stabilito una decisione delle sezioni unite penali della Cassazione, anticipata stasera con un lancio dalla nostra agenzia stampa Adnkronos. Per la prima volta si è sentenziato  che “non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica” e “per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante ed il modesto quantitativo di prodotto ricavabile appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. In sostanza il principio che emerge è chiaro: d’ora in poi chi coltiva per sé non compie più reato. Viene sostenuta così la tesi per cui il bene giuridico della salute pubblica – messo in pericolo, secondo la tesi tradizionale, dall’incremento della sostanza stupefacente ottenuto attraverso la coltivazione – non viene pregiudicato o messo in pericolo dal singolo assuntore di marijuana che decide di coltivarsi per se’ qualche piantina. L’importante è che le modalità della coltivazione facciano ritenere che essa avviene esclusivamente per uso personale e non per fini di spaccio: così assumono rilievo il numero di piantine, che deve essere minimo, così come deve essere piccolo il quantitativo di prodotto ricavabile, e non devono esserci “ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”. Nell’informazione provvisoria resa dopo l’udienza del 19 dicembre si precisa poi anche che il reato di coltivazione di stupefacente è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, «essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente». I kit per la coltivazione dei semi di cannabis sul balcone di casa sono ormai assai diffusi, venduti anche on line su siti specializzati di internet; ma finora si incorreva in rischi di commissione di reato, e a livello giuridico non c’era mai stata un’apertura così importante è chiara in questa direzione. Anzi, la Cassazione – contro alcune isolate sentenze di merito – aveva sinora sempre sostenuto che la coltivazione costituisse reato, a prescindere dal numero di piantine e dal quantitativo di sostanza ottenibile. Dopo questa decisione, che è stata sin da subito commentata come un evento epocale, per Giovanni D’Agata, presidente dello ”Sportello dei Diritti”, è giunto il momento che il legislatore prenda una posizione definitiva sulla legalizzazione o meno della cannabis e dei suoi derivati. Intanto si attende che la Corte depositi le motivazioni di questa sentenza; le espressioni che abbiamo riportato sono tratte dalla massima provvisoria. La decisione delle Sezioni unite, intervenuta su un caso di coltivazione di 2 piante di marijuana (una alta 1 metro con 18 rami, l’altra alta 1,15 metri con 20 rami) pone fine a un contrasto interno alla stessa Cassazione e alle Sezioni semplici. Secondo un primo orientamento per potere fare scattare il reato previsto dall’articolo 28 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990) non è sufficiente la semplice coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, ha raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è necessario verificare se questa attività è in concreto idonea a compromettere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato. Secondo un altro orientamento, invece, la capacità offensiva della condotta di coltivazione consiste nella sua idoneità a produrre la sostanze per il consumo. Secondo questa linea interpretativa, non ha importanza la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la semplice conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza drogante.

Cannabis, Cassazione: “Non è reato coltivare piante in casa se poche e per uso personale”. Mantero (M5s): “Ora politica agisca”. Se il fine non è lo spaccio e non si pregiudica la salute pubblica, coltivare marijuana in piccole quantità è legale. Il pronunciamento delle Sezioni Unite nell'udienza del 19 dicembre scorso. La sentenza, con le relative motivazioni, deve essere ancora depositata. Il senatore M5s: "Ancora una volta la giurisprudenza fa le veci di un legislatore vigliacco". Il Fatto Quotidiano il 26 dicembre 2019. Coltivare la cannabis in casa, se le piante sono poche e per uso personale, non è reato. Lo hanno sancito le Sezioni unite penali della Cassazione nell’udienza del 19 dicembre scorso, chiamata a esprimersi su un ricorso presentato il 21 ottobre. La sentenza, con le relative motivazioni, deve essere ancora depositata: intanto però il massimo organo della Corte, che fa giurisprudenza, ha deliberato che non costituiscono reato “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Tradotto: se il fine non è lo spaccio ma il solo uso personale e non si pregiudica la salute pubblica, coltivare marijuana in piccole quantità è legale. Già nel 2011 la Corte di Cassazione in una sentenza aveva stabilito che una sola pianta di cannabis non può essere considerata ‘offensiva’ dato che “non è idonea a porre in pericolo il bene della salute pubblica o della sicurezza pubblica” e quindi è legale. D’altro canto però, la Consulta, più volte intervenuta sull’argomento, ha nel tempo dettato una linea chiara: coltivare piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è sempre reato, a prescindere da quantità e destinazione d’uso. Per ultima c’è la sentenza del n. 109/2016 che stabilisce come “non viola la Costituzione la fattispecie incriminatrice della coltivazione di cannabis per uso personale“. I kit per la coltivazione dei semi di cannabis sul balcone di casa sono ormai assai diffusi, venduti anche on line su siti specializzati di internet, ma si incorreva in rischi da un punto di vista legale, finora a livello giuridico non c’era mai stata un’apertura vera in questa direzione. Dopo questa decisione, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è giunto il momento che il legislatore prenda una posizione definitiva sulla legalizzazione o meno della cannabis e dei suo derivati. “Ancora una volta la giurisprudenza fa le veci di un legislatore vigliacco. La Cassazione ha aperto la strada, ora tocca a noi“, commenta il senatore M5s Matteo Mantero su Fb. “Fino a questa storica sentenza comprare cannabis dallo spacciatore, alimentando la criminalità e mettendo a rischio la propria salute con prodotti dubbi, non costituiva reato penale, mentre coltivare alcune piante sul proprio balcone per uso personale poteva costare il carcere“. Ora, prosegue Mantero, “si mette fine alla stortura tutta italiana di una legge che consegnava il mercato monopolista delle droghe leggere nelle mani della mafia. Adesso è arrivato il momento che il legislatore si svegli, la smetta di sottrarsi al proprio dovete e si decida ad affrontare questi temi ‘scivolosi’ o ‘divisivi’, qualsiasi cosa vogliano dire questi aggettivi”, scrive ancora Mantero. Che poi conclude: “La mia proposta per regolamentare l’auto produzione è già depositata da inizio legislatura, può essere un punto di partenza. Diamoci da fare”.

Il pronunciamento delle sezioni unite penali. Le Sezioni unite penali della Cassazione era chiamato a decidere su un ricorso che chiedeva se “ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza”. Gli ermellini hanno sancito che il reato “è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza”. Basta quindi che la pianta sia conforme a produrre sostanza stupefacente perché sia illegale. Ma devono appunto ritenersi escluse, “in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

Coltivazione cannabis. Non e' reato per due piantine. Cassazione. Aduc il 10 febbraio 2016. Troppo poche due piantine di hashish per dire che l’imputato, sorpreso nella coltivazione sul proprio terrazzo, aveva intenzione di estrarre la sostanza stupefacente per venderla a terzi. La condotta è praticamente inoffensiva per gli altri; viene confermato l’assenza di reato stante l’uso personale. È quanto chiarito dalla Cassazione con una sentenza, la 5254/16. È ormai un principio consolidatosi in giurisprudenza quello secondo cui, in tema di sostanze stupefacenti (cannabis e hashish innanzitutto), la coltivazione diretta di piante piccole o di numero ridotto esclude la possibilità di parlare di reato. La “piantagione domestica”, se rivolta a estrarre una minima parte di principio attivo, non è un attentato alla salute pubblica. Protagonisti della vicenda sono due imputati, condannati in secondo grado per produzione, spaccio e detenzione di stupefacenti per aver coltivato a casa loro, in un armadio trasformato in serra, due piante di canapa indiana. Secondo la Corte territoriale, essendo irrilevante la destinazione della sostanza se a uso personale o meno, afferma che la condotta sia sempre punibile sul presupposto della “soglia drogante” del prodotto. La Cassazione, di tutt’altro avviso, ritiene che la sentenza di appello vada annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. La quantità modesta di droga conferma che si tratta di un prodotto destinato al consumo personale dei due imputati. La distinzione che opera la giurisprudenza è quella tra il reato di coltivazione e quello di detenzione dello stupefacente:

– quanto al reato di coltivazione, esso non può essere “direttamente ricollegato all’uso personale ed è punito di per sé in ragione del carattere di aumento della disponibilità e della possibilità di ulteriore diffusione”;

– quanto invece alla detenzione essa è condotta strettamente collegata alla successiva destinazione della sostanza ed è qualificata da tale destinazione: pertanto è punibile solo quando è destinata all’uso di terzi. Se destinata, invece, all’uso personale, è prevista solo una sanzione amministrativa.

È la destinazione della sostanza stupefacente a decretare l’esistenza o meno del reato: non basta il semplice pericolo, ma è necessario che la condotta sia in concreto offensiva.

Pertanto, tutte quelle condotte che dimostrino una levità tale da essere irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione, allora si può parlare di inoffensività e di assenza del reato. Resta ferma, come detto, la sanzione amministrativa.

La Cassazione, in sintesi, sostiene che l’aver coltivato due piantine, “senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta pericolosa e quindi offensiva per la collettività.

Depositata la sentenza delle Sezioni Unite sulla rilevanza penale della commercializzazione di prodotti derivati dalla Cannabis Sativa light. Articolo scritto da Redazione Giurisprudenza Penale l'11 Luglio 2019. Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 luglio 2019 (ud. 30 maggio 2019), n, 30475. Presidente Carcano, Relatore Montagni. Come avevamo anticipato, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se le condotte di coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art. 1 comma 2 della legge 242 del 2016 e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L. rientrino o meno, e se si, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità delle predette legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa». Con sentenza n. 30475, depositata il 10 luglio 2019, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «la commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività».

Stupefacenti, Sezioni Unite: è reato vendere cannabis light. Per la Cassazione (sentenza n. 30475/2019) le tutele previste riguardano esclusivamente gli agricoltori. Simone Marani, Professionista - Avvocato, il 19/07/2019 su altalex.com. E' reato commercializzare i derivati della cannabis come le inflorescenze a meno che non siano privi di efficacia drogante. E' quanto emerge dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del 10 luglio 2019, n. 30475 (scarica il testo in calce).

Il quesito. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite era: “Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 241 e, in particolare, la commercializzazione di canapa sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa”.

Gli orientamenti giurisprudenziali. Sul tema si fronteggiano due orientamenti giurisprudenziali contrapposti, un primo tendente a escludere che la legge del 2016 consenta la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L (Cass. pen., Sez. III, 10 gennaio 2019, n. 17387; Cass. pen., Sez. IV, 19 settembre 2018, n. 57703; Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737) ed un altro il quale, dalla liceità della coltivazione della cannabis sativa L, ai sensi della legge del 2016, fa discendere la liceità anche della commercializzazione dei derivati quali foglie e inflorescenze, purché contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6% (Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920). Vi è, poi, un terzo orientamento, intermedio, che sostiene la liceità dei prodotti derivati dalla coltivazione di canapa consentita dalla novella del 2016, purché gli stessi presentino una percentuale di THC non superiore allo 0,2 % (Cass. pen., Sez. III, 7 dicembre 2018, n. 10809). La nuova soluzione digitale nata per rendere il tuo lavoro ancora più efficiente e produttivo. Il futuro al servizio di avvocati, magistrati, giuristi d'impresa, notai.

La decisione delle Sezioni unite. Secondo le Sezioni Unite, la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell'ambito dell'art. 73, commi 1 e 4 T.U. Stup. Detta fattispecie, infatti, incrimina, oltre la coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la raffinazione, la vendita, l'offerta o la messa in vendita, la cessione o la ricezione a qualsiasi titolo, la distribuzione, il commercio, l'acquisto, l'esportazione, l'importazione, il trasporto, il fatto di procurare ad altri, l'invio, il passaggio o la spedizione in transito e la consegna per qualsiasi scopo o comunque illecita detenzione al dì fuori dell'ipotesi di uso personale, delle sostanze stupefacenti di cui alla tabella II, dell'art. 14 T.U. Stup. Il range di tolleranza in cui non sussiste rilievo penale, ovvero la percentuale tra lo 0,2 e lo 0,6%, vale solo per scriminare l'agricoltore quando durante la maturazione la coltura impiegata in modo lecito finisca per superare i valori soglia indicati dalla normativa. La normativa considera lecita solo l'attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, secondo quanto disposto dall'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del 13 giugno 2002 del Consiglio Europeo, consentendo un utilizzo per finalità alimentare, di cosmesi, di bioedilizia e per la bonifica di siti inquinati.

Cannabis light, la norma che liberalizza produzione e vendita (con thc sotto 0,5%). Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. La nota arriva da Matteo Mantero, senatore del Movimento 5 Stelle, tra gli ispiratori della misura insieme a Mollame, Mantero, Sbrollini, De Petris, Cirinnà e Nugnes. «È stata un’opera di convincimento di quasi due settimane e ci sono volute 15 ore di fila, ma alla fine, grazie al lavoro svolto insieme al collega e amico Francesco Mollame, abbiamo approvato uno dei nostri emendamenti sulla canapa industriale», scrive sui social. Si tratta della norma meno «ambizioso», come sottolinea Mantero, che riguarda «principalmente la biomassa», ma che comunque «modifica le legge sulla canapa consentendo di commercializzare i fiori e soprattutto modifica il testo unico per gli stupefacenti stabilendo una volta per tutte che sotto lo 0,5% di thc la canapa non si può considerare sostanza stupefacente». Il Thc è il tetraidrocannabinolo, uno dei principi attivi della cannabis. La norma apre così alla libera produzione e vendita negli shop che vendono cannabis light. «Non è il punto di arrivo, anzi solo quello di partenza, ma oggi - conclude Mantero - abbiamo dato la prima spallata all’assurdo muro di pregiudizio, che ancora circonda questa pianta. I canapicoltori e negozianti italiani potranno lavorare un po’ più tranquilli». La nuova norma, prevede anche una tassazione di 0,4 euro per grammo sul prodotto finito. Finora produttori e negozianti correva il rischio legato ai controlli sulla quantità di principio attivo thc presente nella pianta, il che poteva aprire a contenziosi su sequestri da parte delle forze dell’ordine e procedimenti penali. Secondo la Cassazione, inoltre, vendere la canapa «leggera» in certi casi può costituire reato ma allo stesso tempo invitava il legislatore a una riforma del testo unico che regola la materia. La quantità massima di thc per la cannabis light deve essere tassativamente inferiore allo 0,5%. Finora invece questa percentuale variava tra lo 0,2 e lo 0,5% a seconda del prodotto. L’emendamento aggiunge che oltre alla coltivazione (già prevista dalla legge 242 del 2016) della canapa e possibile anche la vendita.

M.N.D.L. per “la Repubblica” il 15 dicembre 2019. Un negozio su due ha già chiuso e altri si preparano a smobilitare le vetrine. Adesso che la cannabis light è tornata "legale", dopo l' emendamento dei Cinquestelle approvato in legge di Bilancio, il mercato della canapa fa i conti con la campagna di sequestri e inchieste dell' ultimo anno. Soprattutto a partire dalla complicata sentenza della Cassazione del 30 maggio 2019 che aveva di fatto vietato la vendita della cannabis light. Un colpo che aveva messo in ginocchio l' intera filiera, a partire dalla coltivazione della canapa, circa duemila aziende agricole, diventate oggi meno di mille. «E su oltre duemila "growshop", oggi ne restano il 40 per cento in meno, ma di certo un altro 10 per cento chiuderà entro la fine dell' anno», ammette Luca Marola, fondatore di "Easyjoint", azienda che gestisce cento punti vendita di cannabis light. «I sequestri a tappeto, che non hanno mai rilevato illeciti se non amministrativi, la campagna di demonizzazione lanciata da Salvini, hanno creato il deserto dentro i nostri negozi. Proprio perché la nostra clientela - dice Marola - è fatta di persone tranquille e adulte che non volevano certo essere coinvolte in situazioni a rischio». Insomma uno sboom. Figlio anche di una crescita tumultuosa di botteghe con la foglia di marijuana disegnata fuori. E dell' altrettanto veloce espansione delle aziende agricole di coltivazione di canapa, duemila soltanto quelle nate tra il 2017 e il 2018. «L' importanza di questo emendamento. aggiunge Marola - è non solo aver fissato con chiarezza il livello di tetraidrocannabinolo al di sotto del quale la cannabis è legale, ma anche di aver cambiato il testo unico sulle droghe. Sul quale dovrà essere precisato che con quella concentrazione di Thc, la cannabis non si può ritenere uno stupefacente». Adesso, come è probabile, il business ripartirà, la domanda c' è, cresce. Perché la canapa in tutte le sue varianti, nel 2018, prima dello stop seguito alle campagne di sequestri e alla sentenza della Cassazione, aveva fatto muovere un mercato stimato in 150 milioni di euro, con circa diecimila persone impiegate nel settore. Non solo. Proprio la coltivazione della canapa ha fatto riaccendere l'interesse verso la terra e l'agricoltura da parte di gruppi di giovani, che hanno fondato aziende e cooperative. «Nessun negozio è stato chiuso perché le forze dell' ordine hanno trovato cannabis diversa da quella legale. A Parma - racconta Luca Marola - gestisco da 18 anni un negozio che vende canapa, un negozio dichiaratamente antiproibizionista. E a ogni nuovo adetto che assumo spiego che noi dobbiamo essere perfetti, dentro la legalità, proprio perché ciò che facciamo ha un valore non soltanto commerciale ma anche sociale». E soprattutto che esistono sostanze e sostanze. Infatti, dice Marola, «è stata la legge Fini-Giovanardi, che ha fatto saltare la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, a portarci al disastro attuale del policonsumo di droghe da parte dei giovanissimi».

Manovra, la Casellati manda in fumo la cannabis light. Redazione de Il Riformista il 17 Dicembre 2019. Stop tra le polemiche alla cosiddetta “cannabis light”. La norma che ne autorizzava la commercializzazione ieri è stata stralciata dal maxiemendamento presentato dal governo alla legge di bilancio perché la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’ha dichiarata inammissibile per “estraneità alla materia”. A chiedere il vaglio di ammissibilità è stata la Lega, che aveva annunciato battaglia dopo l’approvazione in commissione Bilancio dell’emendamento dei Cinque stelle che stabiliva che la canapa industriale con un contenuto di Thc non superiore allo 0,5% non fosse più considerata come una sostanza stupefacente. L’annuncio dello stralcio è accolto dagli applausi del centrodestra e in Aula scoppia la bagarre. I 5s chiedono alla presidente di dimostrare che la scelta non sia frutto della «pressione della sua parte politica», ma Casellati replica: è una «decisione meramente tecnica». E un ringraziamento “tecnico” le arriva da Matteo Salvini «per aver evitato la vergogna dello Stato spacciatore». Giorgia Meloni rivendica lo stop all’emendamento come una vittoria di Fratelli d’Italia. Ma per il grillino Mattia Mantero, firmatario della norma, l’esultanza delle opposizioni dimostra la loro «estrema ignoranza in materia» perché l’emendamento «non riguarda la droga ma va ad incidere sugli agricoltori»: «In Italia ci sono 3mila aziende che coltivano la canapa, che non delocalizzano, e che danno da lavorare a 12mila persone. Quindi l’applauso che le opposizioni hanno fatto in aula, lo hanno fatto in faccia agli agricoltori italiani», accusa. «L’emendamento avrebbe colmato un vuoto normativo e regolamentato un settore che, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione di giugno scorso, non ha più norme chiare e definite», scrive sui social il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, precisando di rispettare l’autonomia della presidente del Senato, ma di essere “amareggiato”. A difesa di Casellati si schiera Forza Italia: per il portavoce Giorgio Mulè la sua decisione è «tecnicamente ineccepibile». I parlamentari dell’intergruppo per la legalizzazione della cannabis, invece, la giudicano «gravissima perché l’emendamento era assolutamente attinente alla materia del bilancio, rispondendo alle esigenze finanziarie e produttive di un settore che coinvolge migliaia di produttori e di lavoratori». E il radicale Riccardo Magi, deputato di +Europa, punta il dito contro la debolezza di governo e maggioranza «per nulla coesi nel difendere una norma che avrebbe dato certezza a un mercato legale e in espansione che occupa migliaia di persone» e annuncia che ripresenterà l’emendamento alla Camera.

Cannabis light, stop alla legalizzazione: “Emendamento è inammissibile”. Le Iene il 16 dicembre 2019. Lo ha deciso la presidente del Senato Elisabetta Casellati: secondo lei l’emendamento presentato da Pd, M5s e Leu è estraneo alla legge di bilancio, in cui era stato inserito. Sfuma così al fotofinish la vittoria di chi chiede a gran voce la legalizzazione della cannabis light. Ancora uno stop per la cannabis light: quando il traguardo della legalizzazione sembrava a un passo, la doccia fredda arriva al Senato. L’emendamento, che tra le altre cose prevedeva che la canapa industriale con un contenuto di thc non superiore allo 0,5% non venisse più considerata come una sostanza stupefacente, è stato giudicato “inammissibile” dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati perché estrano alla materia della legge di bilancio in discussione in Aula. Il testo è stato così stralciato dal maxiemendamento presentato dal governo. La decisione di Elisabetta Casellati ha causato una dura reazione da parte della maggioranza. Alberto Airola del M5s ha accusato la presidente di aver preso una “decisione politica”. Esulta invece Matteo Salvini: “Ringrazio la presidente a nome di tutte le comunità di recupero d'Italia. Evitata la vergogna dello Stato spacciatore”. Un nuovo passo indietro insomma, dopo che soli pochi giorni fa la vittoria sembrava quasi ottenuta. La scorsa settimana infatti era stato ì approvato l’emendamento alla legge di bilancio per regolamentare la commercializzazione di prodotti a base di canapa, che abbiano un contenuto di thc inferiore allo 0,5%. Il testo era stato presentato da parlamentari di Pd, M5s e Leu. “Abbiamo vinto”, aveva detto a Iene.it Luca Marola, fondatore di Easyjoint. Vittoria (per adesso) sfumata al fotofinish. Ma siamo sicuri che la battaglia per sostenere un settore che dà lavoro a oltre diecimila persona non finirà certo.

Mauro Pizzin per ilsole24ore.com il 12 dicembre 2019. È contrario all’ordine pubblico, e quindi non registrabile dall’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo) come marchio Ue, un segno che evoca la marijuana. Lo ha stabilito il Tribunale dell’Unione europea con la sentenza (appellabile) nella causa T-683/18, pur riconoscendo che sotto una certa soglia di tetraidrocannabinolo (Thc) la canapa non è considerata sostanza stupefacente.

Gli elementi contestati. La vicenda era nata in seguito al ricorso di un cittadino italiano che aveva presentato all’Euipo una domanda di registrazione di un marchio contenente sullo sfondo la rappresentazione stilizzata della foglia di cannabis, simbolo della marijuana, accompagnata dalle parole Cannabis Store Amsterdam, respinta perchè il segno è stato ritenuto contrario all'ordine pubblico.

Le valutazioni dei giudici. Nel respingere il ricorso, il Tribunale ha dichiarato che l'Euipo ha correttamente ritenuto che la rappresentazione stilizzata della foglia di cannabis costituisse il simbolo mediatico della marijuana e che la parola «amsterdam» facesse riferimento al fatto che nella città di Amsterdam sono presenti punti vendita di tale sostanza stupefacente derivata dalla cannabis, in ragione della tolleranza, a determinate condizioni, della sua commercializzazione nei Paesi Bassi. Peraltro, l'indicazione della parola «store», che solitamente significa «boutique» o «negozio», ha come effetto che il pubblico potrebbe aspettarsi che i prodotti e i servizi commercializzati con tale segno corrispondano a quelli offerti da un negozio di sostanze stupefacenti.

Il concetto giuridico. Nel dispositivo della sentenza il Tribunale si è anche soffermato sul concetto di «ordine pubblico», osservando che, anche se, attualmente, la questione della legalizzazione della cannabis a fini terapeutici o anche ricreativi è oggetto di dibattito in numerosi Stati membri, allo stato attuale del diritto il suo consumo e il suo utilizzo oltre una certa soglia rimangono illegali nella maggior parte degli Stati membri. In questi ultimi, quindi, la lotta alla diffusione della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis risponde ad un obiettivo di sanità pubblica, volto a combatterne gli effetti nocivi. Il regime applicabile al consumo e all'utilizzo di detta sostanza rientra dunque nella nozione di «ordine pubblico».

La percezione del pubblico. In questo contesto, tenuto conto di tale interesse fondamentale, secondo il Tribunale il fatto che il segno in questione sarà percepito dal pubblico di riferimento come un'indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contengono sostanze stupefacenti, illegali in diversi Stati membri, è sufficiente per concludere che detto marchio è contrario all'ordine pubblico.

Pd e M5s a sostegno della cannabis light? Roberto Burioni mette in guardia: "Occhio, può essere pericolosa". Costanza Cavalli su Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. Probabilmente è un dibattito che non finirà mai, ma intanto registriamo che l' ultima moda presso il governo, cioè Pd e Cinquestelle, è che la cannabis light non sarebbe considerabile una droga: perché la percentuale di tetraidrocannabinolo (Thc) sarebbe inferiore allo 0,5% e quindi la sostanza non avrebbe effetti stupefacenti. Ovviamente la questione è un campanile con almeno due campane: e quella che suonano i giallorossi sostiene che la cannabis light non sarebbe diversa da una forte camomilla e molto meno potente di un sonnifero, che paragonare la cannabis light alla marijuana sarebbe come comparare i semi di papavero da cucina all' oppio, e che la marijuana usata per scopi ricreativi (legalmente venduta in alcuni Stati) ha circa quaranta volte il Thc che sarebbe consentito in Italia. Abbiamo detto "moda" perché a confutare le certezze dei partiti di governo (quelli che dovrebbero tutelarci) esiste un' analisi alternativa, più approfondita, spiegata da Antonello Bonci, neurologo e neuropsicofarmacologo, professore alla Johns Hopkins, già Direttore scientifico del National Institute on Drug Abuse.

EFFETTI OPPOSTI. Lo scienziato è citato in un tweet dal professor Roberto Burioni: «Cannabis: attenti perché in alcune situazioni può essere pericolosa (come l' alcol peraltro)», commenta il professore del San Raffaele, e allega il saggio di Bonci sugli effetti della cannabis. «Intanto è un errore fare riferimento solo al Thc», spiega lo scienziato, «perché il composto che ha ricevuto l' attenzione maggiore per i potenziali usi medici e ricreativi è il cannabidiolo, il Cbd. I due composti, il Thc e il Cbd, sortiscono effetti molto diversi sul cervello, in certi casi anche opposti». «Il Thc», approfondisce il professore, «agisce attivando i recettori dei cannabinoidi che aumentano il rilascio di dopamina e serotonina, ovvero le molecole del piacere e della felicità. Si ritiene che questi effetti siano alla base dell' euforia, del piacere e del rilassamento. Tuttavia, l' eccesso di una cosa buona può avere effetti opposti: il Thc, infatti, può anche causare uno stato di ansia, paranoia e persino psicosi». Al contrario, continua lo scienziato, «il Cbd blocca i recettori dei cannabidinoidi, e contrasta gli effetti negativi del Thc, come ansia e sedazione». La cannabis viene consumata ogni anno da più di 147 milioni di persone al mondo, ovvero il 2,5% della popolazione mondiale; e nel 2018, in Europa, ne hanno fatto uso 24 milioni di adulti, il 33,1% dei quali vive in Italia - soprattutto giovani tra i 15 e 34 anni - Paese che si colloca al terzo posto dopo la Francia (41,4%) e la Danimarca (38,4%). Eppure, i consumatori non ne sanno quasi nulla: «Alcuni possono sviluppare dipendenza o disturbo da uso di cannabis», avverte Bonci nel saggio, «Questa sindrome colpisce il 4-8% degli adulti, e la dipendenza da cannabis può interessare fino al 9% dei consumatori». Pur facendo le debite differenze, come avviene con nicotina, eroina e cocaina, la cannabis produce assuefazione: si tende ad aumentarne il consumo, cresce il desiderio di farne uso, si sviluppa una tolleranza «in cui il soggetto consuma quantità sempre maggiori di cannabis per ottenere gli effetti psicoattivi desiderati». Ugualmente alle altre dipendenze, inoltre, «circa il 50% dei consumatori cronici di cannabis manifesta sintomi di astinenza alla riduzione o alla cessazione del consumo, sintomi che includono ansia, depressione, disturbi del sonno, problemi gastrointestinali, calo dell' appetito. I consumatori di alte dosi di cannabis e quelli cronici rischiano di sviluppare una sindrome più grave, chiamata sindrome da iperemesi da cannabis, associata a dolori addominali, nausea e vomito».

I DANNI. Le persone più a rischio? Adolescenti e donne in gravidanza. I primi perché il loro cervello si sta ancora sviluppando, «le regioni corticali frontali, che controllano la motivazione, il pensiero e altre funzioni cognitive vitali, sono in crescita». L' uso di cannabis durante questo periodo di sviluppo, quindi, «può modificare in modo permanente la struttura e le dimensioni del cervello, cambiare la qualità e quantità delle connessioni cerebrali, e ridurre il flusso sanguigno verso molte regioni del cervello. Questi cambiamenti possono portare a una riduzione delle abilità cognitive, riduzione della memoria, dell' attenzione e delle capacità decisionali in età adulta». Le seconde perché la cannabis «danneggia gravemente il feto»: il Thc attraversa la barriera placentare, spiega il professore, «l' esposizione alla cannabis durante lo sviluppo fetale pertanto causa a lungo termine conseguenze negative importanti, con un impatto sullo sviluppo neurocomportamentale del bambino fino all' adolescenza. Alterate funzioni motorie, disturbi del sonno, disturbi della memoria, e aggressività sono alcuni tra i sintomi più importanti». Occhio, infine, agli ingredienti che vengono nascosti nei prodotti a base di cannabis: «Oltre a dosaggi inaccurati e alla presenza di riempitivi tossici, molti prodotti a base di cannabis non regolamentati contengono pericolosi cannabinoidi sintetici, che sono fino a mille volte più potenti del Thc o del Cbd e sono correlati a effetti collaterali pericolosi (a volte mortali), come convulsioni, edema cerebrale, tachicardia e arresto cardiaco, nausea e vomito, danno renale e ideazioni suicidarie». Costanza Cavalli

Chi vuole incantarci sulla marijuana. Alessandro Sallusti, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati ha dichiarato inammissibile l'emendamento alla manovra finanziaria che dava il via libera alla vendita della cannabis light, altrimenti detta «spinello leggero». La droga di Stato è quindi rinviata a data da destinarsi (speriamo mai) e questo ha suscitato l'ira dei suoi sponsor, il primo dei quali è il grillino Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, che è arrivato a chiedere le dimissioni della Casellati. Brescia, che alla faccia del cognome è barese purosangue, fino ad oggi aveva lasciato qualche traccia della sua esistenza in quanto convinto sostenitore delle Ong sbarca immigrati, del movimento dei gretini, della legge sullo Ius Soli e per il suo odio nei confronti dell'informazione (propose, anche in quel caso senza successo, l'abolizione del finanziamento pubblico all'editoria). Ma, a parte lo «spinelli&immigrati sì, giornali no», chi è questo signore? Nel suo curriculum si legge che è laureato in pedagogia, il che dovrebbe fare presumere una certa competenza in questioni educative. Solo che le sue esperienze lasciano perplessi. Avrebbe lavorato - si legge - sei mesi in Polonia, otto in Australia (da dove sarebbe scappato «perché disgustato dal consumismo») e «pochi mesi in Italia» prima di approdare in Parlamento. Il conto è presto fatto: Brescia, oggi giunto a 37 anni, ha lavorato in vita, bene che vada, non più di un anno e mezzo, week end e feste comandate comprese (per di più non si capisce a fare che cosa e con chi). A occhio, quindi, non parliamo di un accademico né di uno scienziato. Non sappiamo neppure da dove gli arrivi questa passione per la cannabis, su che studi fondi le sue teorie. A me - senza alcun riferimento a persone esistenti - viene in mente la battuta di un comico americano, Lenny Bruce: «La marijuana sarà legale grazie ai molti studenti di legge e di sociologia che fumano erba e che un giorno diventeranno deputati e la legalizzeranno in modo da proteggere se stessi». Se Brescia non si offende, io più che la marijuana continuerei a coltivare il dubbio sulla non pericolosità di questa simpatica fogliolina, leggera o pesante che sia. Fior di educatori con esperienza superiore ai 18 mesi tra Polonia, Australia e Bari la pensano come noi. E come la Casellati, che non sarà esperta di medicina, ma neppure tanto ingenua da cadere in questa spudorata trappola grillo-piddina.

Alessandro Sallusti commenta il suo curriculum, il M5s Giuseppe Brescia lo querela: "Mi vuole screditare". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Scontro a distanza tra Alessandro Sallusti e il grillino Giuseppe Brescia dopo l'editoriale del direttore de Il Giornale sulla  cannabis. "In poche righe il direttore, già condannato per diffamazione", sbotta su Facebook il Cinque stelle, "concentra tutto il peggio di una parte del 'giornalismo' italiano. Un misto di menzogne, insulti e disinformazione per screditare l'avversario e compiacere il padrone politico". E ancora, attacca il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera: "Non mi preoccupano gli insulti alla mia persona e le bugie sul mio curriculum, il direttore ne risponderà in tribunale. Ciò che davvero mi sconcerta è la disinformazione sul tema della canapa industriale, la cannabis light (che lui traduce in 'spinello leggero')". Sallusti nel suo editoriale aveva scritto su di lui: "Fino ad oggi aveva lasciato qualche traccia della sua esistenza in quanto convinto sostenitore delle Ong sbarca immigrati, del movimento dei gretini, della legge sullo Ius Soli e per il suo odio nei confronti dell'informazione (propose, anche in quel caso senza successo, l'abolizione del finanziamento pubblico all' editoria)". E ancora, sul suo curriculum: "Le sue esperienze lasciano perplessi. Avrebbe lavorato sei mesi in Polonia, otto in Australia (da dove sarebbe scappato «perché disgustato dal consumismo») e «pochi mesi in Italia» prima di approdare in Parlamento. Il conto è presto fatto: Brescia, oggi giunto a 37 anni, ha lavorato in vita, bene che vada, non più di un anno e mezzo, week end e feste comandate comprese (per di più non si capisce a fare che cosa e con chi). A occhio, quindi, non parliamo di un accademico né di uno scienziato". 

Manovra, stop alla cannabis light. Airola (5S) «È golpe», La Russa: «Drogato». Il Dubbio il 17 dicembre 2019. Manovra la maggioranza chiede la fiducia. La presidente del Senato dichiara inammissibile la norma. I grillini: «scelta politica». Stralciata anche la Tobin tax. La bolgia è esplosa non appena la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ha dichiarato inammissibile la liberalizzazione della vendita della canapa industriale con un principio di Thc (tetraidcrocannabinolo) non superiore allo 0,5 per cento, presente nel maxiemendamento. A quel punto il governo, grillini in testa, gridavano “al golpe”, mentre l’onorevole Ignazio La Russa dava del drogato al povero senatore Airola, che proprio in quel momento provava a spiegare il danno prodotto da questa proibizione in termini di posti di lavoro. «Sei un drogato!», insisteva La Russa. Ma l’attenzione di Airola era tutta rivolta verso la presidente del Senato colpevole, a suo dire, di aver attuato una «decisione politica». Il tutto mentre la presidente Casellati provava a spiegare che la sua era una decisione esclusivamente tecnica: «Quello sulla è un tipo di intervento che non è tecnicamente possibile inserire in un comma della Legge di Bilancio – come prescritto dalla Corte Costituzionale – perchè “disciplina in maniera del tutto innovativ” un intero settore dell’ordinamento», spiegavano poi da Palazzo Madama. «Un intervento di questo tipo – aggiungevano le stesse fonti – si può fare solo attraverso un apposito disegno di legge. E infatti in Aula il Presidente Casellati, così come si può riscontrare nel resoconto della seduta, ha invitato la maggioranza a utilizzare questo tipo di strumento legislativo, se il provvedimento viene ritenuto così importante». Tutta politica la reazione di Matteo Salvini che infatti commentava: «Ringrazio la presidente a nome di tutte le comunità di recupero d’Italia.

Evitata la vergogna dello Stato spacciatore». Stralciati dalla manovra, insieme ad altri provvedimenti minori, anche altri due provvedimenti: la Tobin Tax sulle transazione finanziarie online e lo slittamento da luglio 2020 al primo gennaio 2022 della fine del mercato tutelato per l’energia.

Buffagni: “Salvini e Meloni facciano test antidroga”. Jacopo Bongini il 17/12/2019 su Notizie.it. Continuano le polemiche in merito all’emendamento sulla cannabis light, stralciato dalla manovra economica del governo e riesumato questa volta dal viceministro allo Sviluppo Economico Stefano Buffagni durante un’intervista alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora. L’esponente del M5s ha infatti criticato i principali oppositori dell’emendamento, tra cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni che hanno esplicitamente parlato di stato spacciatore, avanzando la proposta di far eseguire il test antidroga a tutti i parlamentari.

Buffagni sulla cannabis light. Nel corso del suo intervento nel programma di Radio Rai, Buffagni ha puntato il dito sulla presunta ipocrisia di alcuni parlamentari; che attaccherebbero la briga in pubblico per poi farne tranquillamente uso nel loro privato: “Visto che si sta creando un problema grosso come una casa sulla cannabis light e si parla di stato spacciatore, siccome storicamente c‘è sempre la percezione o l’idea che qualche parlamentare faccia uso di sostanze anche un po’ più dannose per la salute, credo sia utile fare un po’ di test e renderli pubblici”. Il viceministro pentastellato chiama in causa direttamente i leader di Fratelli d’Italia e della Lega, cioè coloro che più di tutti si sono scagliati contro l’ipotesi di regolamentazione della cannabis light: “Sono certo che nessuno avrà nulla da nascondere. Perché ho citato Salvini e Meloni? Sono le forze di opposizione più dure, credo sia fondamentale si parta da loro visto che hanno fatto uno show. Mi sembra doveroso ci mettano la faccia, e il test, per primi”.

Il messaggio sui social. Buffagni è poi ritornato sul tema anche sul proprio profilo Facebook, dove ha chiarito la sua opinione in merito alla regolarizzazione del settore della cannabis light, accusando allo stesso tempo Salvini e Meloni di comportarsi da puritani: “Io credo che mettere delle regole chiare sulla vendita di cannabis light possa solo fare bene a un settore che potenzialmente può creare tantissimi posti di lavoro e togliere mercato alle mafie! Ma visto che Salvini e Meloni fanno i puritani sfido loro e tutti i parlamentari a fare il test anti-droga, non solo sulla cannabis light! Così vediamo se si parla seriamente o è solo propaganda elettorale”.

“FACCIAMO I TEST ANTIDROGA IN PARLAMENTO”. Dagospia il 17 dicembre 2019. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1. Stefano Buffagni, viceministro dello Sviluppo ed esponente M5S, ha proposto un test antidroga per tutti i parlamentari. Per quale motivo? “Visto che si sta creando un grande problema sulla cannabis light e storicamente si ha sempre la percezione che qualche parlamentare faccia uso di sostanze dannose per la salute credo possa possa esser utile fare dei test e renderli pubblici”, ha spiegato Buffagni oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Lei ha dei dubbi o dei sospetti? “Dei dubbi sicuramente, dei sospetti non mi permetterei mai”. Quale tipo di test antidroga farebbe? “Il più duro, sono disponibile a qualunque test purché si verifichi tutto, anche droghe più pesanti, come la cocaina, quella di certo sì”. C'è qualche suo collega che crede possa far uso di cocaina? “Mi auguro che non sia così e sono certo che nessuno avrà nulla da nascondere nel sottoporsi al test”. Perché ha citato Salvini e Meloni parlando del test antidroga? “Perché oggi - ha detto Buffagni a Rai Radio1 - sono le due forze di opposizione più dure e credo sia fondamentale che si parta da loro. Nessuna accusa o altro, sia chiaro”. Quando bisognerebbe farlo questo test? “Mi auguro già a gennaio, ma temo che sarà un tema che resterà sottotraccia. Vediamo chi si renderà disponibile...”

Droga in Parlamento: trovate tracce di cocaina nei bagni della Camera. Il test eseguito da un cronista su alcuni residui rinvenuti nei servizi maschili prima di un voto, scrive Sabato 06/05/2017 "Il Giornale". Tracce di cocaina nei bagni di Montecitorio. Il Fatto Quotidiano sceglie uno scoop stupefacente per lanciare il suo nuovo inserto mensile, Millennium, diretto da Peter Gomez, mandando un suo giornalista, Thomas Mackinson, armato di telecamera e salviette impregnate di reagente capace di rilevare tracce di cocaina. Mackinson è entrato nei bagni dell'atrio della Camera dei Deputati (comunque non riservati all'uso esclusivo dei parlamentari) lo scorso 29 marzo, giorno di votazioni, ha controllato un po' di mensole a inizio giornata senza rilevare nulla e poi è tornato qualche ora dopo, immortalando con la telecamera le salviette che si tingevano di blu, ossia reagivano positivamente. Scoop stupefacente, appunto, ma che non deve stupire. L'accostamento tra droghe e Palazzo non è certo una novità. Successe in Gran Bretagna, alla Camera dei Comuni, con il Sunday Times a fare i test che imbarazzarono i parlamentari britannici poco prima del nuovo millennio. Poi arrivò il bis in Germania, al Bundestag, dove i cronisti di una tv trovarono 22 bagni su 28 positivi alla cocaina. In Italia tra i primi a lanciare l'allarme fu Ramon Mantovani nel 2001: l'allora responsabile esteri di Rifondazione denunciò l'uso di spinelli e cocaina da parte dei suoi colleghi. Il botto arrivò un lustro più tardi quando - era il 2006 - le Iene tirarono un brutto scherzo a decine di parlamentari, intervistati e «tamponati» da una truccatrice che, in realtà, prelevava campioni dalla fronte degli ignari onorevoli. Su cinquanta, ben 16 risultarono positivi, dodici alla cannabis e quattro alla cocaina. Il parlamento si divise tra scandalizzati per il risultato (come Alessandra Mussolini che chiese al programma di Italia1 di rivelare i nomi dei positivi) e irritati dal test galeotto, come Luigi Lusi, Pierferdinando Casini e Italo Bocchino, che annunciò querela e chiese il sequestro immediato dei campioni raccolti «illegalmente».

Poi arrivò il test volontario promosso nel novembre 2009 da Carlo Giovanardi, sottosegretario alle politiche antidroga. Lo fecero in 232, molti preferirono restare anonimi. E tra questi, anche il parlamentare che risultò positivo alla cocaina. «Non so chi sia. Non ho la più pallida idea, se è senatore o deputato, se è uomo o donna. Il risultato del test è segreto», sospirò Giovanardi. Per non saper né leggere né scrivere, quando il M5s propose di fare verifiche antidroga sui parlamentari, nell'agosto 2015, i deputati bocciarono l'ordine del giorno. Che prevedeva «controlli ambientali periodici» in diversi luoghi, tra cui i bagni di Montecitorio, ora di nuovo accusati dal Fatto di essere covi di onorevoli fattoni. Ma anche su Palazzo Madama ci sono sospetti. Nel 2015 Lucio Barani di Ala, intervistato da Libero, sui senatori che «pippavano» disse: «Ce ne sono tanti. Riconosco le pupille di chi sniffa».

Cocaina in Parlamento, la Camera precisa e MillenniuM risponde. I politici? Molti si difendono, pochi accusano. Il portavoce della Boldrini scrive una lettera al Direttore del mensile: "In quei bagni accedono anche esterni autorizzati, commessi, la tesi che sia stato un parlamentare è infondata". La replica: "Lo abbiamo scritto e per questo abbiamo concentrato le prove nelle ore di minima presenza di esterni e massima di deputati". Prime reazioni politiche tra difese d'ufficio e accuse, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 maggio 2017. La Camera precisa, la polemica continua ma i politici si difendono. “Caro Gomez, l’articolo del vostro magazine Millennium intitolato "La Camera se la tira. Tracce di cocaina nel bagno dei deputati" merita una precisazione”. Inizia così la lettera di Stefano Menichini, capo ufficio stampa della Camera dei Deputati, che risponde al servizio di MillenniuM che ha rilevato la presenza di cocaina nei bagni di Montecitorio. “A prescindere dal tono dell’articolo, denigratorio verso l’istituzione, e dalla veridicità e attendibilità dell’analisi effettuata, la cosa che va precisata è che i servizi igienici in questione non sono affatto “dei deputati” e tanto meno “inaccessibili agli esterni”, come scrive il giornalista che evidentemente della Camera conosce poco. All’opposto, chi conosce Montecitorio sa che quei bagni sono frequentati, oltre che dai deputati, dai giornalisti, dai dipendenti, dagli addetti dei servizi esterni e da qualsiasi cittadino sia ammesso, a qualsiasi titolo, all’interno del palazzo. La tesi esposta dall’articolo appare perciò quanto meno infondata”. Poche righe cui l’autore del pezzo Thomas Mackinson risponde: “Caro Stefano, sono molto sicuro di quello che ho visto, scritto e documentato. Proprio perché ai servizi igienici appena fuori dall’aula possono accedere anche commessi e persone esterne autorizzate abbiamo concentrato le verifiche quando il tasso di esterni era prossimo allo zero e quello dei deputati più elevato. L’Italia intera è sollevata di sapere, nonostante i precedenti non depongano a favore, che l’Ufficio Stampa della Camera è poco allarmato della cocaina in Parlamento e molto che si possa pensare che a usarla siano i deputati. In effetti potrebbe farlo anche un ospite-pusher che accede liberamente all’istituzione senza controlli, un commesso che la serve con particolare gaiezza o magari – perché no – un bimbo di una scolaresca in visita, che alle otto di sera non avevano di meglio da fare”.

Le reazioni: dalla M5S Ciprini a Giovanardi. Mentre in rete la notizia, ripresa anche da altri giornali, continua a tenere banco, tra sdegno e ilarità sono arrivate le prime reazioni politiche. “Ora mi spiego perché per due volte l’aula ha bocciato gli ordini del giorno con i quali chiedevo di sottoporre a controlli antidroga i parlamentari, così come viene imposto ad altre categorie di cittadini”, dice Tiziana Ciprini dei Cinque Stelle. “Il ritrovamento di tracce di cocaina nel bagno maschile dei deputati, appena fuori dall’aula di Montecitorio, rivelato dal FQ MillenniuM, è un fatto di una gravità inaudita”, scrive in una nota l’onorevole di Forza Italia, Fabrizio Di Stefano. “Non solo si potrebbero ravvisare dei comportamenti illeciti da parte del consumatore ma si tratta di una palese violazione di un inderogabile dovere civico e morale dei parlamentari: dare il buon esempio. E comunque, sapere che qualcuno possa legiferare non in piena lucidità fisica e mentale rappresenta un alto fattore di rischio per la qualità legislativa. Quando negli anni scorsi scoppiò una polemica simile mi sottoposi senza indugio all’esame tossicologico, sono disponibile a ripetere la prova e invito tutti i miei colleghi a farlo. È in gioco la dignità dell’Istituzione”. Pippo Civati se la ride. L’estate scorsa, quando la Camera decise di non liberalizzare la cannabis, consegnò a Twitter la frase più corrosiva, che ora il segretario di Possibile non può farsi scappare: “630 cocainomani bocciano la cannabis”. E oggi al Giornale precisa: “Chiedere la legalizzazione della cannabis non significa certo tirare di coca. Io non l’ho mai fatto, a una canna preferisco un boccale di birra. Hanno trovato tracce di cocaina nel bagno della Camera? Non mi sorprende, ma il dato rilevante è che ancora una volta di più questo episodio sottolinea l’ipocrisia di alcuni esponenti politici. Abbiamo sempre sostenuto che al lavoro uno non può andare sballato; ovviamente il discorso vale per chi guida un bus e per chi siede a Montecitorio o Palazzo Madama”. Carlo Giovanardi prende la cosa con uno spirito diverso. Il senatore sempre in prima fila nella lotta contro le droghe attacca: “Ora sto al Senato, va bene, ma sono stato vicepresidente della Camera, conosco bene quell’Aula e anche quei bagni. Forse non è stato scritto che in quei bagni può entrare un po’ chiunque”. 

Cinquanta onorevoli sono stati sottoposti, a loro insaputa, al "drug wipe". Quattro positivi alla cocaina, 12 alla cannabis. Dubbi sulla veridicità dei risultati. Le Iene: "Un deputato su 3 usa droghe". Bocchino querela: "Sequestro subito" Capezzone: "Lo dico da sempre...". Casini: "Pessima trovata pubblicitaria". Mussolini: "Adesso dicano se c'è il parlamentare pusher", scrive "La Repubblica" il 9 ottobre 2006. Droga in parlamento? Il test sui deputati effettuato, con uno stratagemma, dalle Iene, innesca una miccia politica. Con il radicale Daniele Capezzone che commenta caustico: "Io l'ho sempre detto...", Alessandra Mussolini che pretende i nomi dei consumatori. E Italo Bocchino, deputato di Alleanza nazionale, che - attraverso un legale - chiede il sequestro immediato del campione raccolto illegalmente e la distruzione dello stesso in sede processuale. In serata arriva lo strale di Pierferdinando Casini (Udc) che liquida lo scoop come una "pessima trovata pubblicitaria". Piero Fassino invece la butta sull'ironia: "Può darsi - dice il segretario Ds - che così si faccia più in fretta a cambiare la legge Fini sulle tossicodipendenze". Il test, eseguito su 50 deputati a loro insaputa e i cui risultati verranno presentati nella prima puntata della nuova serie del programma (domani sera alle 21 su Italia 1), potrebbe creare non poco imbarazzo nei palazzi della politica: un onorevole su tre fa uso di stupefacenti, prevalentemente cannabis, ma anche cocaina. Questo il dato: il 32% degli intervistati è risultato positivo: di questo il 24% (12 persone) alla cannabis, e l'8% (4 persone) alla cocaina. L'esame è il drug wipe, un tampone frontale che, spiega Davide Parenti, capo autore delle Iene, "ha una percentuale di infallibilità del 100%". In realtà il tossicologo Piergiorgio Zuccaro, direttore dell'Osservatorio Fumo, alcol e droga dell'Istituto superiore di sanità, definisce il drug wipe un test "serio e scientificamente valido, ma non sufficiente da solo a confermare la positività all'uso di droghe. Normalmente se il drug-wipe è negativo il risultato è confermato come tale, ma se è invece positivo è necessaria la conferma ulteriore di laboratorio, dal momento che possono verificarsi dei falsi positivi". I deputati sono stati avvicinati con la scusa di un'intervista. Poi, una finta truccatrice, si accorgeva che la fronte dell'intervistato era "troppo lucida" e tamponava. In realtà l'ignaro si era sottoposto, senza saperlo, al test che svela se si è fatto uso di stupefacenti nelle ultime 36 ore. "Il test - spiega sempre Parenti - è infallibile al 100% se si sono assunte sostanze stupefacenti nelle ultime 36 ore. Il che vuole dire che basta averne fatto uso più di due giorni prima per risultare negativi. L'errore, piuttosto, può essere fatto per difetto: può succedere che il test non rilevi chi ha fatto uso di cannabis coca o altro ma non che risulti positivo se qualcuno è pulito". Nel servizio-inchiesta non si riconosceranno i deputati sottoposti al test: "Noi stessi non sappiamo chi, dei 50 testati, sono i 'positivi'. Per noi la parte interessante non è la violazione, ma il dato percentuale". Ed è proprio sull'anonimato che punta il dito la battagliera Mussolini: "Vogliamo sapere chi tra i rappresentanti del popolo usa droga, come e da chi la compra ma soprattutto se la vende: ci manca solo l'onorevole 'pusher'". E tanto per far capire che non scherza la leader di Azione Sociale ha già attivato una petizione online sul sito del partito da presentare ai presidenti delle Camere. Su posizioni totalmente opposte Luigi Lusi, della Margherita, che chiede alla Iene di ripensarci e non mandare in onda "un'inchiesta 'alterata', perchè, stando alle anticipazioni, si baserebbe non solo su metodi da verificare, ma farebbe acqua da tutte le parti sia dal punto di vista dei diritti, sia della privacy e non ultimo dell'attendibilità medica, dando un messaggio distorto e falsato ai giovani che rappresentano proprio il pubblico principale di questa trasmissione". Anche Lusi, come Mussolini, chiede a Bertinotti e Marini un intervento, ma di segno inverso, ovvero a tutela dei parlamentari. Sullo scoop delle Iene interviene anche il ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero che non si stupisce di fronte a "quella che è una voce popolare sul consumo delle sostanze da parte di molti parlamentari". Ferrero chiede quindi "al mondo politico di riflettere in modo più laico sulla materia". Ospiti di Porta a Porta Casini e Fassino se la giocano in modo diverso. Durissimo il leader dell'Udc: "Questa cosa mi sembra una pessima trovata pubblicitaria. L'attendibilità di questo specie di esperimento pseudo-scientifico è equivalente allo zero". Fassino invece spiega ironicamente che, magari, la trasmissione aiuterà il Parlamento a fare una nuova legge sulla droga. Tranchant il giudizio del verde Paolo Cento che se la prende con i moralisti: "Non sorprende affatto l'ipocrisia di una parte del mondo politico che vota leggi liberticide, e poi sniffa cocaina". Più scanzonato Capezzone: "Leggo dello stratagemma usato da 'Le Iene', cui vanno i miei complimenti. Dal canto mio, ho sempre detto che, se un cane poliziotto entrasse in alcuni luoghi della 'politica ufficiale', prima gli andrebbe in tilt il naso e poi si arrenderebbe...". E Carlo Giovanardi, l'ex ministro "padre" della recente legge sulla droga, chiede ironicamente che l'esame sia esteso anche al Senato: "Se le Iene vogliono dire che anche in Parlamento c'è chi consuma cocaina - afferma Giovanardi - scoprono l'acqua calda". Per concludere, con una pesante allusione: "Basta andare a vedere tra i senatori a vita...". Intanto Italo Bocchino ha dato mandato all'avvocato Leone Zettieri di adire alle vie legali nei confronti della trasmissione 'Le Iene': "Pur non avendo nulla da nascondere - spiega - ed essendo tra i deputati risultati negativi alla prova tossicologica, ritengo gravissimo dal punto di vista penale l'invadenza di chi pur di fare audience è oggi illegittimamente in possesso del Dna di 50 parlamentari". Anche Tommaso Pellegrino, dei Verdi, ammette di essere "tra i parlamentari che si sono sottoposti al test delle 'Iene'", ma di "non fare uso di droga e quindi di essere disponibile a sottopormi anche ad altri test". Ciò detto spera che "l'inchiesta promossa dal programma possa rappresentare un'occasione di dibattito, anche parlamentare, contro l'ipocrisia del proibizionismo, che ha prodotto solo danni". 

Alle Iene droga tra i parlamentari. Il garante blocca il servizio, scrive il 10 ottobre 2006 "La Repubblica". Il garante per la Privacy ferma le Iene. L'Authority blocca il contestato servizio del programma di Italia 1 sul test antidroga a 50 deputati, che sarebbe dovuto andare in onda questa sera. In base alle indiscrezioni fatte trapelare dagli autori della trasmissione, il test, eseguito all'insaputa dei parlamentari, avrebbe dato esiti clamorosi, con ben 16 casi di positività all'uso di stupefacenti. Lo stop del Garante è legato alla "raccolta illecita di dati di natura sensibile in quanto attinenti allo stato di salute" che sarebbe stata effettuata nel servizio. Il provvedimento cautelativo dispone, con effetto immediato, "il blocco dell'ulteriore trattamento, in qualunque forma, di ogni dato di natura personale raccolto e trattato nel caso in esame, consistente in informazioni, immagini e risultanze di test". Nel caso poi le Iene non cambiassero la programmazione il Garante partirà con le sanzioni. Di fronte allo stop, le Iene cedono. Il contestato servizio non va in onda. Al suo posto, un altro reportage, che racconta come si svolge il test e cosa avrebbe detto il filmato bloccato. "Tutti i parlamentari sarebbero apparsi irriconoscibili, perfino alle loro famiglie - spiegano i conduttori, Luca e Paolo - da anni realizziamo servizi in cui tuteliamo la privacy di tutti, anche dei ladri di motorino. Avremmo fatto lo stesso per i nostri politici". Diversa l'opinione del Garante. "Non è possibile - spiega Mauro Paissan, componente dell'Authority - travolgere le persone in nome del diritto di cronaca. Il nostro ruolo è quello di trovare il punto di equilibrio fra libertà di stampa, di satira in questo caso, e il diritto del singolo cittadino ad essere tutelato nei suoi valori fondamentali come la propria dignità, la propria riservatezza e la propria identità". Le Iene, comunque, non si arrendono. E a riprova dell'importanza dell'argomento, mandano in onda anche un altro servizio sui test antidroga: compiuti, questa volta, sui frequentatori di una discoteca, con identiche garanzie - rispetto al filmato censurato - per coprire l'identità delle persone sottoposte ad esame. Risultato: il 50 per cemtp dei 40 sottoposti all'analisi è risultato positivo alla cocaina. "La prossima settimana faremo il possibile per farvi vedere anche i nostri parlamentari", dicono subito dopo, da studio, Paolo e Luca. L'annuncio del servizio delle Iene, fatto alla vigilia della prima puntata della nuova serie del programma, aveva subito scatenato polemiche fortissime. L'esame condotto è il cosiddetto drug wipe, un tampone frontale che secondo Davide Parenti, capo autore delle Iene, "ha una percentuale di infallibilità del 100%". I deputati sono stati avvicinati con la scusa di un'intervista. Poi una finta truccatrice si accorgeva che la fronte dell'intervistato era "troppo lucida" e tamponava. In realtà, l'ignaro si sottoponeva, senza saperlo, al test che svela se si è fatto uso di stupefacenti nelle ultime 36 ore. Drastica la reazione del leghista Roberto Calderoli che chiede di sospendere i senatori "che assumono sostanze stupefacenti o abusano dell'alcol". Per il Codacons, invece, "l'indagine viola i più sacri principi della privacy. Chi assicura infatti che le prove, raccolte in modo illegale e con un furbo espediente, siano state distrutte e che quindi sia impossibile risalire ai singoli soggetti risultati positivi al test?". Ironico il ministro per la Famiglia, Rosy Bindi: "Alle Iene sono imbroglioni, ma se i miei colleghi non facessero uso di droghe, non si vedrebbe". Mentre il segretario dei Radicali italiani Daniele Capezzone chiede di "dissequestrare le Iene. La privacy vale, ma la libertà di informazione vale anche di più. Dico no alla censura". Mentre Ignazio La Russa di an lancia una proposta ai colleghi parlamentari: "Invito i 50 'tamponati a firmare la liberatoria per far sapere se è vero che hanno assunto sostanze stupefacenti, Abbiamo il coraggio delle loro azioni". 

Droga in Parlamento: le Iene condannate anche in Cassazione, scrive Fabio Mascagna giovedì 12 giugno 2008 su Blogo (Il Messaggero). Alla fine "Le Iene" sono state definitivamente condannate anche in Cassazione per aver danneggiato "l'immagine pubblica e l'onorabilità" di deputati e senatori dato che "tutti i parlamentari potevano essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti". Il che significa: potete tranquillamente denunciare fatti e comportamenti di chiunque, ma non toccate il palazzo. Il famoso servizio, che vi riproponiamo nel video qui sopra, mirava a rendere noto verso i cittadini il comportamento dei nostri parlamentari in tema di droga: su 50 deputati e 16 senatori sottoposti al "test-tampone" ben 16 erano risultati positivi a cannabis e cocaina. La Camera dei deputati è composta di 630 membri, mentre il Senato di 315. Fatevi due conti insomma. Secondo la Cassazione i campioni biologici "sono stati carpiti con un comportamento ingannevole e fraudolento". Come se un deputato cocainomane potesse mai dare un qualche tipo di assenso o autorizzazione. Gli autori de "Le Iene" - Davide Parenti e Matteo Viviani - erano stati condannati il 16 ottobre del 2007 dal gip del Tribunale di Roma per il reato previsto dall'art. 167 d.lvo 196/2003 (Codice della Privacy - Trattamento illecito di dati) a 5 mesi e 10 giorni di reclusione (convertiti poi in pena pecuniaria) nonostante avessero assicurato il totale anonimato sui campioni organici prelevati. Adesso invece arriva la conferma della condanna da parte della Corte Suprema della Cassazione, III sezione penale con la sentenza 23086. L’informazione evidenziata che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faceva indebito uso di droghe [...] in tale situazione, tutti i parlamentari potevano essere indiscriminatamente insospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera, nonché l'istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica e onorabilità. Un interessante stralcio della sentenza: secondo questa sentenza è stato il servizio de "Le Iene" a portare nocumento all'immagine pubblica dell'istituzione parlamentare e non invece il fatto che gran parte di loro faccia uso di sostanze stupefacenti.

Salvini o è ignorante o in mala fede, sulla canapa solo fake news. Monica Cirinnà il 21 Dicembre 2019 su Il Riformista. La strumentalizzazione che da destra si fa della coltivazione e della commercializzazione della canapa sativa (cioè non contenente principio attivo stupefacente) è una totale distorsione della realtà giuridica, scientifica, medica ed economico-produttiva. Va detto molto chiaramente – infatti e prima di tutto – che la canapa prodotta e venduta legalmente in Italia nulla ha a che fare con le sostanze stupefacenti. Che non è stata operata negli anni alcuna modifica alla legge sulle droghe, che sono e restano illegali. Che la regolamentazione del settore, avvenuta con la legge n. 242/2016, è un provvedimento che ha a che fare con l’agricoltura e null’altro. Da queste verità bisogna partire se si vuole parlare di canapa. Non introducendo bugie e mistificazioni che utilizzano – del tutto impropriamente – la parola “droga”. La canapa sativa non è una droga! Punto. O si parte da qui, o si finisce inevitabilmente fuori strada. Ma perché allora tanto discutere su un qualcosa che, alla prova dei fatti, è ben diverso da come viene raccontata dai megafoni della destra? Perché ancora una volta c’è chi pensa soltanto alla becera propaganda, per di più basata su fake-news, invece di aiutare il tessuto imprenditoriale del nostro Paese a crescere e a rafforzarsi. In occasione della discussione sulla manovra di bilancio, ho dovuto ascoltare, appena pochi giorni fa, Matteo Salvini nell’Aula del Senato parlare addirittura di “droga di Stato”. Un intervento che ha dimostrato tutta l’ignoranza del soggetto sulla materia. O/e la sua assoluta malafede. Uno schiaffo a coloro che faticosamente, con grande passione e con notevoli investimenti, anche in innovazione tecnologica, fanno impresa nell’agricoltura. Perché è proprio questo – e soltanto questo – il tema. Stiamo parlando di una realtà con circa 10mila addetti, 1500 aziende attive e un fatturato annuo di 150 milioni di euro. Aziende agricole di piccole e medie dimensioni, oltre a piccole attività commerciali – per lo più gestite da giovani – che hanno dato nuovo vigore – oltre ad aver creato lavoro – a una produzione storica e tradizionale di tante zone del nostro Paese. La canapa è, infatti, utilizzata da sempre per i tessuti e ora – sempre più e lecitamente – per un’infinità di prodotti, dalla bioedilizia alla creazione di nuovi materiali, fino all’utilizzo in cucina. Tutto questo sfruttando soltanto le sue fibre. Dalle proprietà fitoterapiche della canapa si ricavano, poi, prodotti che si basano sul cannabidiolo, un principio che ha proprietà rilassanti, anticonvulsivanti, antidistoniche, antiossidanti, antinfiammatorie. «E quindi? Dov’è il problema?», si chiederà qualcuno. Semplice: non c’è! A corto di argomenti e con una fame quotidiana di propaganda, la destra solleva periodicamente il polverone sulla canapa prendendo a pretesto lo 0,5%: cioè quella percentuale legale di Thc (tetraidrocannabinolo, il principio psicoattivo) che non deve essere superata nella canapa industriale. Un limite fissato per legge, che tutela i produttori e i consumatori con prodotti sicuramente privi di effetti stupefacenti. Tanto per capire di cosa stiamo parlando: la cannabis terapeutica, prodotta in maniera controllata dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico dell’Esercito di Firenze, ha un contenuto di Thc compreso tra il 13 e il 20%. La marijuana illegale ha concentrazioni di thc che raggiungono anche il 30%. La canapa industriale, come detto, non può andare oltre lo 0,5%. Ripeto: 0,5%. Solo questo basterebbe a dimostrare quanto sia ridicolo e antiscientifico parlare, quindi, di “droga libera” e delle mille altre trovate propagandistiche volte – questo sì – a drogare un tema che ha, invece, a che fare soltanto con parole come agricoltura, impresa, innovazione, occupazione e lavoro giovanile. Continuerò con il Pd e con le varie sensibilità che ho trovato anche nel M5S – a iniziare dal senatore Mantero che ha presentato l’emendamento alla manovra, da me convintamente sottoscritto, poi falcidiato dalla presidente Casellati – a combattere perché nel nostro Paese possano continuare a crescere un’agricoltura avanzata e il relativo indotto. Un’agricoltura sostenibile che porti nuova ricchezza e lavoro nelle nostre campagne. Un’agricoltura che riavvicini i giovani alla natura rendendola anche fonte di reddito.

Federcanapa condanna le pressioni contro l’emendamento sulla canapa: “Risponde al vuoto normativo”. Redazione de Il Riformista il 15 Dicembre 2019. Sull’emendamento sulla cannabis appena approvato dalla Commissione Bilancio del Senato è scoppiata una polemica da parte di chi si oppone strenuamente. Ma Federcanapa non ci sta e denuncia l’inammissibilità delle pressioni di parlamentari e media che “stanno facendo pressione perché si renda inammissibile l’emendamento sulla canapa”. La Federazione della canapa italiana, nata per dare voce e supporto tecnico-scientifico alle molteplici iniziative in atto in tutte le Regioni italiane e costituire una rappresentanza autorevole nei confronti del Governo, delle amministrazioni regionali e degli altri settori industriali, in una nota, fa presente che quell’emendamento risponde proprio al vuoto normativo denunciato mesi fa dalla stessa sentenza dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, introducendo un’importante regolamentazione del settore e un limite chiaro di THC per distinguere ciò che è canapa industriale e ciò che è droga. “Peraltro – scrive nella nota – l’emendamento appare correttamente inquadrato nella legge di bilancio in quanto rispondente non solo alle esigenze finanziarie dello Stato ma soprattutto a quelle produttive e industriali”. “Abbiamo finalmente l’occasione di affermare un modello italiano esportabile in altri Paesi anziché subire il predominio delle aziende americane, cinesi e di altri paesi europei. Annullare l’emendamento significherebbe riportare l’intero settore della canapa italiana nel caos delle interpretazioni difformi che hanno contrassegnato l’ultimo anno e mezzo. La certezza del diritto è condizione fondamentale per consentire il decollo di un settore industriale con enormi potenzialità e rendere il Paese attrattivo per gli investitori stranierei in un mercato che oltretutto risponde pienamente agli indirizzi della green economy. Ricordiamo che stiamo parlando di canapa industriale non di stupefacenti”.

Droga, il pugno di ferro è solo un autogol. Alessio Scandurra il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando siamo arrabbiati a volte alziamo la voce. Talvolta battiamo pure i pugni sul tavolo e di norma la lucidità della nostra argomentazione non ne guadagna. Nei fatti, se la discussione non ne risente, alla fine, quando avremo analizzato tutti gli argomenti sul tavolo, quelli gridati a voce più alta non risulteranno solo per quello i migliori, e in effetti non era per quello che avevamo alzato la voce. L’abbiamo fatto per la tensione, per paura di non essere ascoltati. Per debolezza. È paradossale ma il diritto penale ha una vita simile alle nostre arrabbiature. Questo delicato meccanismo pensato per affrontare nel modo più accorto possibile i fatti più gravi, le controversie che riguardano i temi più delicati per le nostre comunità, viene invocato a gran voce ogni volta che abbiamo una crisi che non sappiamo come affrontare. Di fronte a problemi complessi, che richiedono soluzioni articolate ed equilibrate, è invece facile invocare pene sempre più alte per chi individuiamo come responsabile. La domanda di diritto penale in questi casi è segno di debolezza, del non sapere affrontare un problema al livello della sua stessa complessità. E questa è la storia della lotta alla droga. Stiamo parlando di una delle più importanti industrie del pianeta, sostenuta da attori economici, prevalentemente criminali, che in quanto tali non sono sottoposti a nessuna regola e a nessuno scrupolo in questo particolare mercato. Un fenomeno globale e opaco che condiziona governi e intere economie, ma di cui tutti vediamo soprattutto l’anello finale, lo spacciatore di strada che contratta con il suo cliente. La nostra ansia e incapacità di affrontare quel fenomeno globale, la nostra debolezza, è la misura della severità con cui ci vorremmo abbattere sul suo anello finale. In questa chiave va letta la richiesta di pene sempre più severe per gli spacciatori e in questo quadro è da inquadrare anche la recente dichiarazione del ministro dell’Interno Lamorgese: «Nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell’inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio». Dobbiamo essere onesti. Decenni di politiche proibizioniste ci consentono di prevedere, ormai senza più margine di errore, che la cosa non servirà assolutamente a nulla. Non calerà il traffico, non caleranno i consumi, non migliorerà l’aspetto delle nostre strade, non andrà via la nostra paura. Smetteranno di accusarci di essere lassisti con gli spacciatori? Probabilmente nemmeno questo, visto che l’accusa non ha nessun fondamento di realtà e dunque può sempre essere reiterata. In Italia, dati alla mano uno dei Paesi più sicuri d’Europa, secondo un’indagine Istat per il 38,2% degli italiani la paura della criminalità influenza molto o abbastanza le nostre abitudini, ed il 46,4% dei cittadini sono poco o per niente soddisfatti del lavoro svolto dalle forze dell’ordine. Tutto questo lo sappiamo perfettamente, eppure la richiesta di pene più severe per gli spacciatori, e non solo per loro, torna periodicamente ad affacciarsi. Eppure oggi in Italia oltre un terzo dei detenuti, più di 20mila persone, è in carcere per violazione della legge sulle droghe e quasi 180mila sono in attesa di un giudizio per la stessa ragione, ingolfando i tribunali e il lavoro della polizia. Una spesa colossale e totalmente inutile visto l’andamento dei consumi, che resta indifferente alle politiche penali anche più severe. Ma c’è un’altra cosa che in fondo sappiamo perfettamente. Sappiamo che solo la legalizzazione restituirebbe più sicurezza ai cittadini, eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa colpire il narcotraffico, sfoltire il carico di lavoro dei tribunali e quello delle forze di polizia. Significa togliere introiti alla criminalità organizzata e assicurarne all’erario, risparmiando peraltro le cifre colossali attualmente destinate alla repressione. E significa migliorare la vita dei consumatori grazie alla presenza di sostanze controllate e al non ingresso nel circuito penale e penitenziario. Anche l’allora Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, si era espresso a favore della legalizzazione della cannabis e nel 2015 la proposta di legge in materia presentata dall’intergruppo parlamentare guidato da Benedetto Della Vedova aveva raccolto l’adesione di ben 218 parlamentari. Avevano firmato esponenti del Pd, del M5s, di Sel e del gruppo Misto. Sappiamo dunque esattamente cosa fare, ma non abbiamo la forza per farlo. Mentre la debolezza ci spinge di nuovo ad alzare la voce e a battere i pugni sul tavolo.

Da agi.it il 19 dicembre 2019. Ha causato molte discussioni la decisione del 16 dicembre della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati (Fi), di ritenere inammissibile il sub-emendamento alla legge di Bilancio che legalizzava la cosiddetta “cannabis light”. Il subemendamento era stato approvato in commissione Bilancio. Vediamo per prima cosa le posizioni dei vari partiti.

Il contesto politico. Le opposizioni di centrodestra – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – hanno esultato per questa decisione di Casellati che, come dichiarato ad esempio da Salvini, ha bloccato «la vergognosa norma sulla coltivazione e la distribuzione di “droga di Stato”. No allo Stato spacciatore». Diametralmente opposta la reazione delle forze di governo: il M5s e il Pd hanno accusato la presidente del Senato di aver preso una decisione politica non imparziale e che danneggia un settore economico rilevante già esistente, mentre le opposizioni avrebbero diffuso bugie, in quanto la cannabis light non sarebbe una droga. Andiamo quindi a vedere se ha senso parlare di “droga” in riferimento alla cannabis light.

Che cosa dicono le norme. L’emendamento in questione, firmato da diversi senatori del M5s, definisce la cannabis light per esclusione. Prevede infatti che nel testo unico in materia di stupefacenti (d.P.R. 309/1990) la cannabis che debba essere considerata una sostanza stupefacente sia solo quella «con una percentuale di tetraidrocannabinolo (Thc) superiore allo 0,5 per cento». Al di sotto di quella soglia di concentrazione della sostanza psicoattiva (il Thc), la cannabis è considerata “light” e dunque non stupefacente. Questo emendamento rimediava ai difetti delle precedenti leggi che avevano consentito la nascita e la diffusione in Italia del commercio di cannabis light. I difetti erano infatti stati notati dalla Cassazione in una sentenza recente (n. 30475 del 10 luglio 2019), che non era però intervenuta direttamente sulla legge. Dopo la sentenza, queste attività possono comunque continuare, anche se con una costante incertezza: non c’è infatti un limite di Thc rigido e stabilito per legge (ad esempio, lo 0,5 per cento massimo) e quindi spetta al giudice stabilire in concreto, di volta in volta, la «efficacia drogante» dei prodotti commercializzati. Vista la bocciatura dell’emendamento, la situazione è rimasta dunque questa. Ma, al di là del testo normativo, la previsione che la cannabis con meno dello 0,5 per cento di Thc non sia una droga ha fondamento?

Che cosa dicono i fatti. La risposta è “sì”, con una concentrazione inferiore allo 0,5 per cento di Thc la cannabis light non ha veri effetti stupefacenti. Lo ha di recente confermato in un’intervista a Repubblica Federica Pollastro, fitochimica, ricercatrice di Scienze del Farmaco all’università di Novara e una delle maggiori esperte italiane nello studio della cannabis. Secondo Pollastro, la cannabis light non è diversa da una forte camomilla ed è molto meno potente di un sonnifero. Negli Stati Uniti, riporta la testata scientifica americana livescience.com, se la concentrazione di Thc è inferiore allo 0,5 per cento si parla di “canapa” (hemp) e non di “marijuana”, e con “canapa” si intende una fibra tessile che «non è usata a scopo ricreativo, né potrebbe esserlo». La marijuana che dà effetti stupefacenti, infatti, ha una concentrazione di Thc nettamente superiore. Ad esempio, secondo una ricerca accademica americana sulla cannabis legale nello Stato di Washington – che è cannabis destinata all’uso ricreativo ed è dunque una droga (leggera) a tutti gli effetti – il quantitativo di Thc presente nella merce venduta nello Stato oscilla tra il 17,7% e il 23,2%. Dunque tra le 35 e le 46 volte di più di quanto non sia presente nella cannabis light.

L’esperimento. Possiamo poi citare anche un esperimento, condotto da Giovanni Serpelloni, direttore dell’Uoc Dipendenze di Verona, e presentato alla comunità di San Patrignano, proprio sulla possibilità di trasformare la cannabis light in una sostanza stupefacente. Secondo Serpelloni, che insieme ai responsabili di San Patrignano ha una posizione fortemente contraria alla cannabis legale, con un estrattore a butano sarebbe possibile «con 20-30 grammi di prodotto grezzo (...) arrivare ad estrarre un concentrato resinoso di circa 25 milligrammi di principio attivo». Cioè per arrivare a un 2,5% di Thc si devono acquistare 20-30 grammi di cannabis light. Praticamente per fumare uno spinello molto leggero si dovrebbero spendere centinaia e centinaia di euro.

E i semi di papavero? La cannabis light sta alla marijuana, si può dire, come i semi di papavero usati in cucina stanno all’oppio: questi semi vengono venduti senza problemi perché, in base alle regole europee, contengono una quantità risibile di alcaloidi (la sostanza psicotropa), ma se qualcuno cercasse di estrarre e concentrare questi semi, otterrebbe una vera e propria droga, oltretutto con possibili effetti letali. E, come abbiamo scritto in passato, un discorso simile si potrebbe fare anche con la caffeina del caffè, con la teofillina del té, o con la teobromina presente nel cioccolato. Insomma, è vero che raffinando grandi quantità di questi prodotti – con un costo economico ampiamente superiore a quello richiesto per comprare droga illegalmente – si possono ottenere sostanze stupefacenti, ma questo non li rende di per sé delle droghe.

Conclusione. La cannabis light non è una droga. La quantità di Thc massima consentita, lo 0,5 per cento, è ampiamente insufficiente a dare effetti stupefacenti. La marijuana usata per scopi ricreativi – e legalmente venduta in alcuni Paesi stranieri – ha circa il 20 per cento di Thc, quaranta volte tanto. Il limite dello 0,5 per cento di Thc viene poi usato, ad esempio negli Usa, proprio per distinguere la canapa – intesa come sostanza non stupefacente – dalla marijuana.

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

LA GUERRA ALLA CANAPA E IL POLITICALLY CORRECT DI DESTRA. Dimitri Buffa il 3 giugno 2019 su opinione.it. Il politically correct è un’invenzione della sinistra. Ma da tempo a destra viene scimmiottato. Basta cambiare di segno alcuni tabù e il gioco è fatto. La sinistra ha il buonismo, la destra il proibizionismo sulla droga e il punizionismo degli stili di vita. E questo è il primo parallelo che salta agli occhi. In entrambi i casi si tratta di cose stupide e poco pratiche. Dire “accogliamoli tutti” è altrettanto velleitario che dire “facciamo la guerra alla canapa”. Anche quella senza effetti stupefacenti. Ebbene, i rampanti nuovi “capitani” di questa destra che legittimamente aspira al governo della nazione Italia, perché non prendono esempio dai loro omologhi olandesi, come Geert Wilders, anche loro militanti anti islam e anti immigrazione selvaggia, ma tutt’altro che irragionevoli proibizionisti sulla canapa, light o hard che sia? Si parla dello “stato spacciatore”, ma perché si concentra questa furia proibizionista su un prodotto come la canapa che, con o senza il thc, rimane uno dei prodotti più innocui in natura alla faccia dei finti studi di alcuni scienziati politicizzati che dai tempi della Fini-Giovanardi sparano balle col cannone per dimostrare l’indimostrabile? Non esiste in natura la possibilità di avere effetti letali per ingestione o inalazione di cannabis. Mentre si può entrare in coma etilico alla seconda bottiglia di vodka, per arrivare a una dose letale di thc bisognerebbe mangiarsi in una botta sola qualche etto di resina di hashish. Ed esistono maniere più comode per suicidarsi. Ma al di là dell’effetto dopante, la canapa light dei negozi adesso di moda per la criminalizzazione propagandistica, semplicemente vendono un prodotto senza alcuna attività dopante. Lo stato spacciatore che vende alcool, sigarette e psicofarmaci perché dovrebbe menare scandalo se permettesse la vendita della cannabis con il thc e tanto più quella senza? Questo proibizionismo tutto centrato sulla canapa ricorda i primordi del proibizionismo degli anni ’30 in America. Guidato dalla mafia italo americana. Quando legavano il consumo da parte dei negri alla violenza sulle donne bianche nei manifesti che imbrattavano la New York di Fiorello La Guardia. Avevano appena perso la gallina dalle uova d’oro dell’alcool proibito   su qualche altro consumo di massa occorreva puntare. E si badi bene che la scelta cadde sulla canapa proprio perché la fumavano tutti. Già negli anni ’30. Nel mondo c’è un intero continente di assuntori di erba e hashish (le statistiche parlano di 300 milioni di persone) e con quelli la mafia fa i soldi. Tutto sommato eroina e cocaina al consumo di massa non sono mai arrivate. Non a quei numeri comunque. E i numeri che ogni anno la Direzione nazionale antimafia fornisce confermano questo assunto. Anche se con la cocaina un enorme sforzo criminale in questo senso  è stato fatto dalla fine degli anni ’70 in poi. Parlare come fa Salvini sulla canapa è anche fuorviante e pericoloso. Il messaggio che ogni droga è uguale tende a livellare tutto verso il consumo più pericoloso delle droghe pesanti. La propaganda è perniciosa e si rivolta sempre contro chi cavalca queste bugie. Da ultimo la parabola di Gianfranco Fini - che voleva mettere in carcere chi si faceva le canne e che rischia di finirci lui per riciclaggio insieme a questo signor Corallo il cui padre in America viene segnalato come uno dei boss del settore narco traffico - è molto significativa. Insomma si può essere di destra, per legge e ordine, senza necessariamente avventurarsi con le sirene del punizionismo moralista su sesso, droga e rock ‘n’ roll. I consumatori di canapa indiana, leggera o hard che sia, non sono tutti tribù di “zecche” dei centri sociali o apostoli dell’“accogliamoli tutti”. Ce ne sono milioni pure di destra. Così come ci sono centinaia di migliaia di omosessuali che votano Salvini. Perché allora regalare questa gente a una scialba a e opportunista sinistra che cavalca tutto quello in cui non crede pur di raccattare voti? Infine sulla cannabis light va fatta un’ulteriore riflessione, in attesa di conoscere le motivazioni di questa sentenza che molto probabilmente non cambierà nulla al di là di come è stata venduta  dai servili mass media della tv pubblica del “neo sovranismo de noantri” (si dice che il commercio non può continuare nel dispositivo “a meno che la sostanza non abbia effetti droganti”, cioè esattamente come è oggi, ndr):  se un ragazzo oggi spinto dagli amici va in giro a cercare cannabis non light ne trova quanta ne vuole anche sotto casa, visto che il mercato è capillare e incontenibile. Se invece si accontentasse della trasgressione “dethcizzata” dei negozi di cannabis light non sarebbe meglio? Quelli che non possono bere il caffè da sempre si bevono il decaffeinato, non è la stessa cosa? O si pensa di fare una cosa intelligente iniziando la battaglia contro l’alcoolismo vietando le birre analcoliche?

Il problema della destra con la canapa è solo una idiozia ideologica, un tabù, un politically correct all’incontrario. Si è rimasti col cervello infantilista all’epoca in cui i compagni si facevano gli spinelli e portavano i capelli lunghi e li si odiava per questo. E l’infantilismo della politica sembra non evolvere mai verso la razionalità.

Cannabis, Meloni si dice allibita dalla sentenza della Cassazione. Vincenzo Pinto il 28.12.2019 su it.sputniknews.com. Per la Meloni, che ha espresso la propria solidarietà alle associazioni che si occupano del recupero delle vittime della dipendenza dalle droghe, la decisione dei giudici potrebbe avere effetti devastanti. Continuano ad arrivare le reazioni degli esponenti di spicco del mondo politico in seguito alla storica sentenza della Cassazione, che di fatto ammette la coltivazione della cannabis in quantità moderate e per uso personale. Non si lascia attendere il feedback di Giorgia Meloni che, in un'intervista si è scagliata contro la decisione dei giudici togati, ribadendo il no di FdI a quello che è stato definito "spaccio di Stato": "Ci lascia allibiti la sentenza della Cassazione che legalizza la coltivazione domestica della cannabis. Il messaggio che viene lanciato, soprattutto ai più giovani, è devastante e rischia di avere pesanti ripercussioni sulla società italiana, che già vive una drammatica emergenza droga", ha tuonato la Meloni. La leader di FdI ha poi espresso la propria solidarietà circa le "preoccupazioni espresse dalle comunità terapeutiche, dagli operatori del servizio pubblico e dalle associazioni", affermando che il suo partito continuerà "al loro fianco la battaglia per una vita libera da ogni droga e dipendenza". Ieri anche la Comunità di San Patrignano  aveva mosso delle forti critiche alla sentenza della Cassazione sulla cannabis, esprimendo preoccupazione sul messaggio lanciato ai minori di una cannabis innocua e che in piccole dosi può essere assunta senza ulteriori rischi. Duro sul verdetto dei giudici anche Carlo Giovanardi, da sempre in prima linea nella lotta alla legalizzazione delle droghe leggere, il quale ha sottolineato che un tale precedente creerà solo confusione tra gli agenti delle forze dell'ordine.

Cannabis, scontro dopo la sentenza Bonino soddisfatta Gasparri: «Follia». Il Dubbio il 28 dicembre 2019. La sentenza della Cassazione secondo cui non è più reato la coltivazione domestica della cannabis in minime quantità divide la politica italiana. Sentenza importante, secondo alcuni, una follia, per altri. La sentenza della Cassazione secondo cui non è più reato la coltivazione domestica della cannabis in minime quantità divide la politica italiana. Ad esultare per la decisione del Palazzaccio è sicuramente Emma Bonino, di + Europa, secondo cui si tratta di una sentenza «importante perché ha rotto un tabù. Spero sia un primo passo per far ragionare le persone al di là degli stereotipi». Il pronunciamento dei giudici «è il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno» e di «tutta la famiglia radicale. Questo dimostra – ha concluso la senatrice – anche la nostra capacità di tenuta e resistenza contro venti e maree. So che i frutti a volte arrivano un po’ lentamente ma non è questa una motivazione per dismettere». Di tutt’altro avviso, invece, il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. «La prima legge che approverà il centrodestra quando sarà al governo, e ciò avverrà presto, sarà una nuova normativa contro la coltivazione e lo spaccio delle sostanze stupefacenti», ha dichiarato, aggiungendo che «bisogna intensificare l’attività di prevenzione e di recupero, per combattere la diffusione delle tossicodipendenze». Quanto alla sentenza, «ovviamente bisognerà leggere le motivazioni della sentenza che contraddice, apparentemente, decisioni precedenti prese dalla stessa Cassazione, evidentemente in preda ad uno stato confusionale. Personalmente mi trovo a disagio nel vivere nello stesso quartiere dove si trova la Cassazione. Girerò alla larga da questa gente» mentre «le sventurate decisioni della Cassazione non aprono la strada a niente, anzi favoriranno delle decisioni di saggezza e di tutela della salute pubblica che la Cassazione non tiene in alcuna considerazione».

Critico anche Antonio Affinita, direttore generale del Moige, Movimento Italiano Genitori. «Come genitori vogliamo sottolineare il messaggio devastante che arriva ai giovani: con la legalizzazione della coltivazione domestica si avrà certamente un aumento dei consumi ed un calo di percezione della pericolosità di questa droga. Condividiamo l’appello aggiunge – da parte delle Comunità di recupero relativo al dibattito sulle droghe, per cui “La cannabis crea dipendenza, è dannosa e il parlare in modo inadeguato di “uso ricreativo” abbassa la percezione della sua pericolosità».

Da open.online.it il 29 dicembre 2019. «Tutti quelli che hanno infilzato il cognato con un serramanico hanno iniziato tagliando il filetto con un coltello da cucina. Cosa ne pensate della sentenza della cassazione sulla libera vendita dei coltelli da cucina?», replica il virologo. L’ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani (Forza Italia), ha criticato aspramente la sentenza della Corte di Cassazione del 19 dicembre. «Lancia un messaggio negativo ai giovani, come se fosse fosse lecito e giusto farsi sempre una canna», ha detto in un videomessaggio affidato ai social. La sentenza ha stabilito la liceità della condotta di chi coltiva cannabis, all’interno della propria abitazione, in quantità limitate coerenti con l’uso personale. «Tutti coloro che fanno uso di cocaina, eroina e acidi hanno cominciato facendosi una canna», ha detto Tajani, otto giorni dopo la sentenza. Il 29 dicembre Roberto Burioni ha replicato con sarcasmo al tweet del politico: «Tutti quelli che hanno infilzato il cognato con un serramanico hanno iniziato tagliando il filetto con un coltello da cucina. Cosa ne pensate della sentenza della cassazione sulla libera vendita dei coltelli da cucina?», ha commentato il virologo. Prima di Burioni era stato l’attore Luca Bizzarri a ironizzare su Tajani, proponendo il suo stesso ragionamento per un altro tipo di sostanza: «Ha ragione. Oltretutto la maggior parte degli alcolisti (che sono tanti, più dei drogati) hanno cominciato con un bicchiere di vino. Quando un invito a non bere vino? Quando una proposta per il divieto di coltivare le vigne?».

In mancanza di meglio, la politica litiga sulla cannabis, dopo la sentenza della Cassazione. Redazione open.online il 27 dicembre 2019. La decisione della Cassazione ha risvegliato la politica dal torpore delle feste natalizie. La più dura contro la sentenza delle sezioni unite della Cassazione sulla libera coltivazione di cannabis è stata la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che si è detta «allibita», perché il messaggio che «viene lanciato soprattutto ai più giovani è devastante e rischia di aere pesanti ripercussioni sulla società italiana, che già vive una drammatica emergenza droga». La levata di scudi anima il centrodestra e la società civile da sempre schierata su posizioni proibizioniste. Con la manovra economica ormai varata, la politica, in particolare le opposizioni, si deve accontentare di spaccarsi sul tema della cannabis, visto che il fulmine delle dimissioni da ministro di Lorenzo Fioramonti sembrano ormai una partita tutta interna al M5s. Preoccupato per i giovani è anche l’ex presidente del Parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani, che ricorda il suo impegno di volontariato nella comunità per tossicodipendenti In Dialogo a Trivigliano, vicino Fiuggi: «Parlando con genitori, giovani e meno giovani, ho saputo che tutti coloro che fanno uso di cocaina e acidi hanno cominciato con una canna». Dalla Lega Fedriga lancia il sospetto che la sentenza della Cassazione sia solo un primo passo «che di fatto vogliono arrivare alla droga libera». La sentenza ridà voce a Emma Bonino, che rivendica uno delle battaglie storiche per i radicali: «È il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno». Per la Bonino «si è rotto un tabu, è un primo passo per poter ragionare oltre i cliché e gli stereotipi». Tra le forze di governo, sono i grillini a esultare più degli altri, con Pd e Italia viva quasi silenti, probabilmente più preoccupati a non urtare la sensibilità dell’elettorato meno giovane. Esulta per esempio il senatore Ciampolillo, considerato tra i ribelli del Movimento, che parla chiaro e tondo di «Vittoria» con un attacco frontale anche per il premier Giuseppe Conte , perché finalmente la magistratura «ha recepito questo legittimo bisogno della società italiana. I politici, invece – dice Ciampolillo – troppo occupati a spartirsi poltrone e potere, non hanno mai voluto ascoltare, consentendo così che tanti ragazzi finissero nelle mani della delinquenza e delle forze dell’ordine. Politici codardi e ignavi! Conte non è stato da meno! Vergogna!».

Cannabis, Meloni sulla fiera di Milano: “Ignobile propaganda alla droga”. Le Iene il 26 aprile 2019. Giorgia Meloni attacca l’International cannabis expo che si terrà i primi di maggio a Milano, con lo slogan “Io non sono droga”. Con Matteo Viviani ci siamo occupati proprio della cannabis light, che nel nostro paese si può vendere e comprare. “Io non sono droga”. È questo lo slogan dell’International cannabis expo, che si terrà a Milano i primi di maggio e che ha fatto tanto arrabbiare Giorgia Meloni. La presidente di Fratelli d’Italia ha chiesto non solo di far rimuovere i cartelloni sparsi per la città con questa didascalia e una grande foglia di cannabis disegnata, ma sta anche facendo di tutto per bloccare l’evento. “Chiedo al ministro dell’Interno e al Comune di Milano di fermare la manifestazione. Il messaggio che la pubblicizza è devastante e la manifestazione in sé una ignobile propaganda alla droga libera”. La cannabis light attorno a cui ruota l’evento, in realtà, è legale nel nostro paese. Lo ha stabilito definitivamente una sentenza della Cassazione del febbraio scorso, che ha sancito la liceità della vendita della cannabis light e l'uso dei prodotti derivati. La legge 242 del 2016 entrata in vigore il 14 gennaio 2017 fa del resto già chiarezza: la cannabis sativa si può coltivare senza autorizzazione se il suo contenuto di Thc è inferiore allo 0,2%. Tra lo 0,2 e lo 0,6, chi la coltiva non ha comunque alcuna responsabilità. “Abbiamo organizzato questo evento per far conoscere la canapa, una pianta che ha capacità di ogni genere: terapeutico e industriale, alimentare, cosmetico”, ha risposto a Giorgia Meloni Marco Russo, uno degli organizzatori del festival, noto anche come “4.20 Hemp fest”. “Non è giusto che si pensi soltanto all’aspetto legato alla droga”, conclude. Ma la Meloni non la pensa così: “Non è altro che un’ignobile propaganda per la liberalizzazione della droga”. In realtà, gli usi della cannabis light sono molti e spesso, appunto, terapeutici, come vi abbiamo raccontato nel servizio di Matteo Viviani dedicato proprio alla produzione e vendita di cannabis in Italia. La Iena, nel servizio che vedete qui sopra, intervista due imprenditori della cannabis light, un business, secondo loro, destinato a crescere e creare ricchezza. E alla fine c'è pure la ricetta del decotto del professor Paolo Poli, presidente della Società Scientifica di Ricerca sulla Cannabis.

La coerenza dei proibizionisti: Giorgia Meloni si fa finanziare da una multinazionale della cannabis. Redazione di dolcevitaonline.it l'1 Luglio 2019. Tra i finanziatori ufficiali di Giorgia Meloni, leader del partito sovranista e proibizionista Fratelli d’Italia, c’è anche l’azionista di una multinazionale che è dentro al business della cannabis legale canadese. La cifra versata nelle casse del movimento politico non è di poco conto: 200mila euro. A riportare i fatti è un comunicato emesso dal movimento politico +Europa, che ha ricordato come un’inchiesta del settimanale L’Espresso abbia messo in luce come: “Il contributo di gran lunga più generoso al partito è arrivato da nomi che riconducono a una multinazionale made in Usa: messi insieme Ylenjia Lucaselli, Daniel Hager e la Hc Consulting Srl hanno infatti regalato al piccolo partito nazionalista 200 mila euro. Hager e Lucaselli sono marito e moglie. La famiglia di Hager è azionista della Southern Glazer’s Wine and Spirits, la più grande azienda statunitense della distribuzione di vini e alcolici (secondo stime di Forbes nel 2016 ha fatturato 16,5 miliardi di dollari e distribuito 60 milioni di bottiglie di vino italiane negli States)”. Il fatto è che la Southern Glazer’s Wine and Spirits, si è buttata a capofitto anche nel grande businness della marijuana, diventando il distributore esclusivo della cannabis prodotta dall’azienda canadese Aphria Inc per la quale si occupa di “fornire la copertura distributiva di prodotti a base di cannabis in tutti i punti vendita del Canada”. Un bel colpo alla coerenza per il partito che più di tutti rappresenta il proibizionismo in Italia, non c’è che dire. Solo pochi giorni fa i militanti di Fratelli d’Italia hanno manifestato per chiedere la chiusura dei cannabis shop, ed a questo scopo hanno anche presentato una proposta di legge in Parlamento. Certo, si sa che – come dicevano gli antichi – pecunia non olet, tuttavia di certo la Meloni avrà qualcosa da spiegare ai propri militanti e non sarebbe male se gliene chiedesse conto qualcuno tra i “giornalisti” che conducono i salotti televisivi che quotidianamente ospitano i suoi sproloqui politici.

Cannabis, Salvini: "Macché coltivarla a casa, la droga fa male". Il leader della Lega contrario alla sentenza della Cassazione che ha dato il via libera alla coltivazione domestica della cannabis. Pina Francone, Venerdì 27/12/2019, su Il Giornale. È di ieri la notizia che le sezioni penali unite della Corte di Cassazione hanno statuito che la coltivazione per uso domestico e personali della cannabis non è considerabile alla stregua di un reato. Insomma, una sentenza importante, che non poteva certo passare inosservata. E così, infatti, non è stato. E le polemiche si sono sprecate, anche nel giorno di Santo Stefano. Ciò detto, gli ermellini hanno comunque puntualizzato come il reato di coltivazione di sostanza stupefacente "è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente". Tra le tante voci che si sono levate per criticare la decisione dei giudici, anche quella autorevole della Comunità di San Patrignano, impegnatissima nella lotta contro la tossicodipendenza. In una nota, ecco la presa di posizione della comunità di recupero da dipendenze: "Esprimiamo la nostra più viva preoccupazione per le eventuali conseguenze che, da questa decisione, si potrebbero riverberare negativamente sul nostro sistema sociale". Una decisione che, scrivono, "inciderà negativamente sull'educazione dei minori che cresceranno, sempre di più, nella convinzione che l'utilizzo di cannabis sia innocuo e socialmente condiviso nello strisciante e progressivo percorso verso la legalizzazione che da anni è ormai in corso nel nostro Paese...". Nelle ultime ore, anche il segretario della Lega Matteo Salvini ha voluto commentare – e criticare – la sentenza della Corte di Cassazione. "La droga fa male, altro che coltivarsela in casa o comprarla in negozio, e anche le due ragazze morte a Roma ne sono la drammatica conferma. La Lega combatterà lo spaccio e la diffusione della droga sempre e ovunque", è stata a tal proposito la dichiarazione del capo politico del Carroccio, da sempre contrario a qualsiasi liberalizzazione. Al leader leghista ha fatto eco . con parole altrettanto dure - il governatore (leghista= del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga: "A questi piccoli passaggi che di fatto vogliono arrivare alla droga libera, sono contrario. Non lo dico io, ma tutti i centri di recupero che ci sono e che si sono dichiarati contrarissimi all'impostazione che ha dato il governo. La nostra non è un'impostazione ideologica, ma pratica. I grillini e il Partito Democratico hanno un'impostazione ideologica sulla cannabis".

Pietro Genovese, Senaldi: i tossici uccidono al volante e lo Stato liberalizza la droga. Libero Quotidiano il 28 Dicembre 2019. Questo governo è davvero strano. Sostiene di fare di tutto per il nostro bene e di agire solo per tutelare la nostra salute. Per questo ha imposto la tassa sulle bibite, quella sulla plastica e quella sulle auto aziendali, e sempre mosso da nobili intenti ha dichiarato guerra al diesel, anche ai modelli che inquinano meno delle vetture a benzina e di alcune verdi. Tuttavia ha cercato in ogni modo di far passare la liberalizzazione delle droghe leggere, inserendola di soppiatto nella legge finanziaria e facendo fuoco e fiamme quando la presidente del Senato, Casellati, ha depennato il provvedimento allucinante e allucinogeno, sostenendo che non c' entrasse nulla con i conti dello Stato. I due atteggiamenti della maggioranza giallorossa sono solo apparentemente in contraddizione, perché in realtà essi rientrano nel medesimo disegno: fare cassa attingendo in qualsiasi modo possibile alle tasche dei contribuenti vestendo i balzelli con un abito ideologico. Così la Coca Cola e il diesel vengono gravati di imposte con la scusa della salute e la cannabis è resa legale in nome della libertà personale e della lotta allo spaccio ma lo scopo del governo è più banalmente fare soldi anche sul commercio di canapa.

LE STATISTICHE. La questione è tornata di attualità dopo l' incidente dello scorso settimana in cui a Roma hanno perso la vita due sedicenni, che hanno attraversato la strada quando e dove non dovevano e sono state travolte da Pietro, il figlio ventenne del famosissimo regista Paolo Genovese, autore di film di straordinario successo sui vizi e le bassezze della nostra società. Il ragazzo era stato fermato per droga nel 2017, 2018 e 2019 e gli era stata restituita la patente, sospesa per ragioni legate al consumo di stupefacenti, solo poco tempo fa. I test della Polizia hanno rilevato che il giovane al momento della tragedia era in condizioni alterate e forse anche per questo non è riuscito a frenare in tempo, come invece ha fatto il guidatore che lo precedeva, sobrio e lucido. Ogni anno muoiono investiti oltre 1500 pedoni, ciclisti o motociclisti e almeno altrettante persone perdono la vita a bordo di un' auto. L' incidente stradale è la prima ragione di morte tra i giovani. Intorno ai vent' anni, da sola, fa più vittime di tutte le altre cause messe insieme. Spesso dietro le tragedie ci sono alcol e droga. Qualche anno fa, quando venne introdotto il reato di omicidio stradale e vennero mandate sulle strade le pattuglie, a controllare, il numero di decessi si ridusse in maniera importante. Oggi la politica ha lasciato perdere e i morti sono tornati a crescere. In compenso, per quattro soldi, i giallorossi pensano bene di legalizzare la cannabis.

COSE DA FARE. Se davvero la politica avesse a cuore la salute dei propri sudditi - perché a questo ormai siamo ridotti - ci sarebbero molte cose da fare. Attualmente chi si mette alla guida ebbro o drogato rischia sulla carta la sospensione della patente per un anno e una ammenda da 1.500 e 6.000 euro, ma il più delle volte se la cava con una multa di 532 euro. Per riavere la licenza di guida in caso di ritiro per tasso alcolemico elevato, bastano un colloquio con il Dipartimento della Prevenzione e un programma terapeutico. Piccole cose. Eppure ci sarebbero molti provvedimenti a costo zero per cercare di arginare le stragi, come la sospensione per cinque anni o il ritiro definitivo della patente a chiunque sia trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Non c' è speranza che simili provvedimenti siano non dico varati ma almeno discussi. Il governo giallorosso ha per la vita dei cittadini lo stesso rispetto che ha per le loro tasche: zero. Supertasse alle auto di grossa cilindrata, perché portano denaro, ma meno volanti sul territorio, perché costano. E poi strade costellate di buche, illuminazione scarsa e segnaletica evanescente: è stato calcolato dall' Associazione Strade Sicure che farci viaggiare più sicuri costerebbe 42 miliardi. Più semplice legalizzare la cannabis per un governo in crisi d' astinenza da quattrini facili. Specie se dai giudici arriva un assist come quello della sentenza della Cassazione, resa nota ieri, secondo cui non è reato coltivare marijuana in casa propria, benché sia poca e l' attività non abbia carattere imprenditoriale ma si svolga in forma domestica e con tecniche rudimentali. Pietro Senaldi

Pannella, non è reato coltivare cannabis. Rita Bernardini il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. La notizia, bellissima, ci giunge nelle ore in cui in casa radicale abbiamo il cuore straziato per la scomparsa di un militante storico come Lucio Bertè. Proprio stamattina ricordavo la disobbedienza civile (cessione gratuita di hashish) che insieme facemmo in Piazza della Scala a Milano ben 22 anni fa. Fummo assolti a distanza di due anni, insieme a Marco Pannella, “per non aver commesso il fatto”. Decine di disobbedienze civili per le cessioni di hashish o per le coltivazioni di cannabis finite in modo diverso a seconda della città in cui venivano organizzate o, addirittura, a seconda del collegio giudicante del medesimo tribunale a cui venivano assegnate: stesse condotte, ma sentenze diverse; insomma, il caos giurisprudenziale. Oggi, finalmente, le sezioni unite della Cassazione mettono un po’ d’ordine e, ancora una volta, questa ragionevolezza non giunge dal Governo o dal Parlamento, ma dalle giurisdizioni superiori. E, ancora una volta, Marco Pannella ha avuto ragione quando ha suggerito, già molti anni fa, di adire alla Corte Edu, alla Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione fino al Comitato dei diritti Umani dell’ONU per battere l’inerzia del legislatore, laddove siano violati diritti umani fondamentali. Ricordo quando in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ho cercato di far comprendere ai miei colleghi parlamentari l’incongruenza della legge che punisce penalmente chi coltiva marijuana per uso personale, mentre esclude dalla sanzione penale chi – sempre per uso personale – si rifornisce al mercato illegale, cioè quello gestito dalla criminalità più o meno organizzata. Non ci fu niente da fare! La proposta di legge fu accantonata. Del resto, nemmeno i ripetuti pronunciamenti a favore della legalizzazione della cannabis da parte della Direzione Nazionale Antimafia sono serviti a smuovere le diverse maggioranze che si sono succedute nelle ultime legislature: tutti a riempirsi la bocca di “lotta alla mafia”, ma nessuno capace di fare la cosa che veramente darebbe un colpo micidiale alle cosche mafiose e ai cartelli dei narcotrafficanti: la regolamentazione della produzione, della commercializzazione e dell’uso delle sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis. Le sentenza della Cassazione è storica perché abbatte un muro che sembrava impossibile scalfire: quello per il quale chi coltivava per sé qualche piantina di marijuana metteva in pericolo il bene giuridico della salute pubblica perché aumentava la provvista in circolazione di materia prima e quindi si creavano potenzialmente più’ occasioni di spaccio di droga. Questo tabù è caduto, ma attenzione, non stiamo parlando ancora di legalizzazione; per arrivarci, occorre che il legislatore prenda coscienza e allontani da sé quelle ipocrisie che lo hanno paralizzato fino ad oggi lasciando colpevolmente in balia del mercato criminale almeno 5 milioni di consumatori solo in Italia, intasando tribunali e galere, distogliendo le forze dell’ordine da interventi più significativi che quelli di dare la caccia alle piantine coltivate sul terrazzo. Le riviste scientifiche più importanti del mondo ci dicono che l’alcol è molto più pericoloso della cannabis se prendiamo come parametri danno fisico, dipendenza e danno sociale. Uno studio condotto nel 2018 da David Nutt dell’Università di Bristol, pubblicato sulla prestigiosa rivista “The Lancet” ha stilato la classifica della 20 droghe più pericolose mettendo ai primi due posti Eroina e Cocaina, al quinto posto l’alcol e all’undicesimo la cannabis. Pur essendo molto più dannoso della cannabis, in Italia è possibile coltivare la vite e produrre vino “senza autorizzazione”, l’importante è che si tratti di uso proprio, dei propri familiari e dei propri ospiti e a condizione che i prodotti non siano oggetto di alcuna attività di vendita. Io mi auguro che questa sentenza abbia abbattuto un altro tabù, quello dell’ignoranza generata dell’ostracismo dei media nei confronti di qualsiasi ipotesi di legalizzazione: “Il proibizionismo – diceva Pannella più di vent’anni fa – ha necessità vitale del flagello dell’ignoranza”. Questo spiraglio di luce che si intravede lo dedico a lui, a Lucio Bertè, a Laura Arconti (anche lei ci ha lasciato in questo 2019), e a tutti i nonviolenti disobbedienti del Partito Radicale, a cominciare dai malati come Andrea Trisciuoglio, che devono ancora “sbattersi” per consentire a tutti coloro che ne traggono beneficio per la loro patologia di potersi curare con la cannabis.

Marco De Risi per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 23 dicembre 2019. Una nuova droga sta prendendo piede fra i giovanissimi a Roma. E' una sostanza in cristalli (chiamata anche Shaboo) che viene fumata e che produce effetti otto volte superiori a quelli della cocaina. Sono stati i poliziotti del commissariato Monte Mario a individuare il fenomeno. Inizialmente nei controlli antidroga gli agenti hanno trovato, in tre mesi, quasi 20 minori in possesso dei cristalli e sono stati segnalati alla Prefettura. Un numero altissimo, considerano gli investigatori, che evidenzia come questa droga stia prendendo piede fra studenti di 14, 15 e 16 anni. Ecco che gli agenti, proprio per contrastare il fenomeno, hanno già arrestato, in poco tempo, alcuni spacciatori romani trovati in possesso della droga che, a prima vista, sembra del sale grosso. Ma a cosa si deve l'aumento di questa sostanza sintetica nei giovani? Gli investigatori combattono questo tipo di acido da anni quando i cristalli erano molto marginali nel mercato. Originariamente lo Shaboo era esclusivo appannaggio della comunità filippina. Nel giro di poco il traffico dei cristalli è passato in mano a trafficanti cinesi per poi approdare a spacciatori italiani. Ecco, quindi, che gli investigatori, proprio nei controlli antidroga, hanno trovato molti minorenni con in tasca i cristalli proibiti. I controlli sono stati effettuati lungo le fermate della metro o delle ferrovie (come la stazione di Appiano) oppure nei punti di ritrovo come piazza Socrate ed anche in alcune sale giochi. L'allarme nasce dalla natura della droga sintetica. Può produrre effetti irreversibili sul cervello dell'assuntore colpendone il sistema nervoso. È molto costosa: un grammo arriva ad essere spacciato per 300 euro. Ma il costo iniziale verrebbe riassorbito da un uso prolungato: un cristallo può essere usato più volte e produce degli effetti che arrivano a prolungarsi per 16 ore. La droga sintetica si fuma spesso in gruppo con una bottiglietta dove si mette un po' d'acqua e poi si applica il cristallo al posto del tappo. Una bomba di acido che può avere effetti devastanti sulla salute. I poliziotti hanno appurato che i ragazzi fanno una colletta da 10, 20 euro, l'uno e così ottengono il cristallo di droga che poi consumano in comitiva. Gli agenti del commissariato Monte Mario hanno subito alzato l'attenzione su questo fenomeno dedicandogli dei servizi mirati. In pochi giorni quattro spacciatori romani sono stati arrestati con quasi mezzo chilo di sostanza.

Sara Cariglia per “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2019. Sono fallaci tanto quanto l'estasi che generano in chi si avvicina alla loro iper-seduzione. Rispondono a un mirabolante desiderio di emozione, disincanto e rincanto. Promettono di comprare l' oblio a bordo di una sfavillante carrozza da gala inflazionata da insostenibile leggerezza. Neppure il salutismo ha saputo metterle in discussione. Così, in caso di défaillance, la magic portion è ancora una volta la presenza più costante nella cambusa del landò di coloro che alimentano il mercato dello sballo. Ma con una differenza: se ieri la rimessa era provvista di hashish, eroina, cocaina ed ecstasy, oggi è equipaggiata da molecole stupefacenti all' ultimo grido: «Si chiamano Nuove Sostanze Psicoattive (NSP), stanno facendo stragi sul mercato, sono sintetiche, molto pericolose e fino a 1.000 volte più potenti dell' eroina» fa sapere il professor Carlo Locatelli, direttore e fondatore del Centro Antiveleni e Centro Nazionale di Informazione Tossicologica dell' Istituto Maugeri di Pavia, nonché consulente dello Stato per i casi di terrorismo chimico. A distribuirle ci pensano prevalentemente le moderne e virtuali cattedrali del consumo, diventate vere e proprie mete di pellegrinaggio: «Il negozio dello spacciatore al momento è anzitutto la rete, angelo e diavolo insieme. Lì tutto è veloce, a portata di clic e di mano, considerato che le nuove droghe arrivano principalmente per posta. Il giro d' affari italiano è di circa 40 miliardi annui, ma è forse questo il costo della salute?» dice Locatelli, altresì coordinatore per gli aspetti clinico-tossicologici del Sistema Nazionale di allerta rapida per le sostanze d' abuso del Dipartimento delle politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri.

Quali sono le principali sostanze d' abuso al mondo?

«Secondo l' Organizzazione mondiale della sanità (OMS), in prima linea c'è l' alcol etilico, che pur essendo giuridicamente legale è da considerarsi una droga a tutti gli effetti. Seguono poi il tabagismo e la marijuana: la ricerca ci dice che il 98 per cento delle persone almeno una volta nella vita ha fumato "erba". Per quanto riguarda le Nuove Sostanze Psicoattive si posizionano, invece, al quarto posto. Vengono poi cocaina ed eroina».

Che differenza c' è tra le nuove e le vecchie droghe?

«Le nuove sono circa un migliaio. Rispetto alle tradizionali sono molto più numerose e di gran lunga più potenti. Il rapporto è da 4 o 5 a 1.000 volte. I quadri clinici ci parlano di pazienti allucinati, deliranti, violenti e incontrollabili. Non è un caso che buona parte dei ricoveri abbia luogo nei reparti di rianimazione e psichiatria».

Le più in voga?

«A far parlare di sé sono soprattutto i cannabinoidi e gli oppioidi sintetici, ma anche le ketamine e i catinoni. Se una persona desidera sperimentare gli effetti della cocaina probabilmente li ricercherà nei catinoni. La cosiddetta droga del cannibale rientra certamente in questa categoria, così soprannominata poiché in grado di scatenare forme di pseudo-cannibalismo. Se ne fa particolarmente uso nei chemsex al fine di ottimizzare la prestazione sessuale».

Nei party chemsex, per facilitare e prolungare il sesso, si ricorre anche alla droga da stupro?

«Generalmente sì. La droga da stupro, infatti, pur essendo principalmente utilizzata per favorire la violenza sessuale -facendo cadere facilmente e rapidamente i freni inibitori - è sicuramente fra le più in auge anche nei chemsex. Le due molecole più comuni sono il GHB (Gamma-idrossibutirrato, nota come ecstasy liquida) e il GBL. Quando utilizzate per abusi sessuali, possono essere disciolte in acqua o in bibite e somministrate alla vittima senza il suo consenso. Causano amnesia, quindi la malcapitata una volta rinsavita potrebbe aver prevedibilmente dimenticato che cosa è accaduto nelle ore precedenti. Nei chemsex, invece, l' assunzione è consapevole».

Qual è lo stupefacente che vince su tutti?

«È la ketamina, una molecola ampiamente utilizzata come farmaco. Conosciuta per i suoi effetti anestetici e analgesici, a dosi e in quantitativi diversi, viene però impiegata anche come sostanza d' abuso. Generalmente determina stati psichedelici, allucinazioni ed euforia, questo spiega perché circoli a dosi massicce nei festini o nei ritrovi di gruppo, dove essendo inodore e insapore si presta a essere perfettamente miscelata con ogni genere di bevanda. Purtroppo se ne sottovaluta la pericolosità, ma può essere letale e mandare in coma».

Parliamo di tendenze.

«Mentre nel Nord Europa c' è sempre stata la piaga dell' alcol e delle anfetamine, nel Sud quella da cocaina. Per intenderci: se Italia, Spagna e Inghilterra sono il trionfo della "coca", Svezia Norvegia e Finlandia sono il trionfo delle anfetamine e, in parte, anche dei nuovi oppioidi».

Quali i danni irreversibili?

«Disturbi psicotici al di sopra di tutto. Ma mentre le vecchie sostanze d' abuso portavano bene o male a psicosi almeno in parte reversibili, le nuove, sono la causa di esordi psicotici che sembrano inguaribili. Altri fattori di rischio sono overdose e dipendenza (anche se gli anni di osservazione sono ancora pochi per confermarlo). A seconda dei casi si potrebbe incappare ulteriormente in danni permanenti sia a livello del sistema cardiovascolare sia di quello nervoso centrale (morte dei neuroni), così come del rene e del fegato. Non per tutte sono ancora noti gli effetti dannosi. Quel che è certo, comunque, è che le droghe sintetiche seppur in quantità minime sono in grado di provocare avvelenamenti mortali».

Chi le acquista?

«La tipologia dei consumatori è diversificata. La nostra casistica, per esempio, parte dai sedici anni. È l' età più critica. Gli adolescenti, di solito, dopo aver fatto esperienza con alcol, sigarette e marijuana, shiftano su altro. I dati europei ci dicono che l' 8 per cento dei giovani adulti di età compresa tra i 16 e i 24 anni ha provato le nuove sostanze psicoattive. Così, se in Italia metà della casistica si riferisce a questa fascia d' età (tre su quattro sono maschi), l' altra mezza parte è di norma personificata dagli over 30. Purtroppo ad avvicinarsi a questa pericolosa realtà sono però anche ragazzini tra i 10 e i 15 anni (3 per cento)».

Perché questa caccia disperata alle emozioni?

«Non sono né uno psicoterapeuta né uno psichiatra, di conseguenza risposto da intesivista e tossicologo clinico quale sono. Dico che le droghe vengono assunte per avere una vita performante, per stare svegli più a lungo, o ancora per accrescere il divertimento ad una festa tra amici o in discoteca. Insomma, inebriando il sistema nervoso ingannano dando l' impressione di poter fare cento "operazioni" in un minuto anziché in un' ora. Chi è sotto il loro effetto si sente avvolto da un' energia notevole e da forte desiderio di socializzare. C'è un guaio però, il consumatore a molecole così potenti non è evidentemente preparato: dal 2011 a oggi i casi per i quali ci hanno chiesto consulenza sono stati circa 18mila».

Da dove arrivano le droghe moderne?

«Provengono prevalentemente da Cina e India. Sono realizzate sia da aziende chimiche e farmaceutiche sia da laboratori clandestini che hanno sede specialmente nel Nord Europa. In Italia non ne sono ancora stati trovati».

Sono a buon mercato?

«Certo, sono molto cheap, costano poco più di uno spinello».

A proposito di spinelli, tra le nuove sostanze illecite rientrano anche i cannabinoidi sintetici. Si dice vadano a rimpiazzare la classica "canna". Verità o menzogna? «È opinione comune pensare che i cannabinoidi - Spice o K2 - per via del loro nome sostituiscano il classico spinello. Niente di più sbagliato. Il loro effetto, infatti, è centinaia di volte più potente della marijuana; ricorda quello della cocaina e il consumatore ne prende atto solo una volta "saggiati" gli effetti».

Fumare cannabinoidi mette a rischio di morte?

«Certamente! Si muore di avvelenamenti, di stroke ischemici, di problemi di coagulazione, di complicazioni renali o di psicosi acute, che spingono a compiere gesti insulsi».

Si può morire di marijuana?

«Anche per un solo spinello. Arresto cardiaco e aritmia i potenziali moventi del decesso. La marijuana è una droga e come tale non va sottovalutata. Iniziata a fumare precocemente, per esempio, abbassa il QI (quoziente intellettivo). A lungo andare provoca invece un inesorabile decadimento dei neuroni. Ma non è tutto: l'"erba" modifica altresì la normale maturazione di un adolescente, influendo sia sulla personalità sia sulla capacità decisionale; riduce inoltre l' apprendimento scolastico, la capacità di controllo, di giudizio e la stima del pericolo. Anche gli attacchi di panico sono strettamente correlati all' uso di marijuana. È l' uso frequente o quotidiano a lasciare il segno».

Le leggi attuali sono sufficienti?

«Assolutamente no, tant' è che il mercato dello sballo è un fenomeno del tutto incontrollabile e incontrollato. Lo assicura la stessa agenzia dell' Unione Europea che ha sede a Lisbona e fornisce dati sul problema della droga in Europa. Trattandosi, infatti, di sostanze non tabellate e dunque di libero commercio, cioè ancora al di fuori dal mercato illecito, generano una falsa e diffusa percezione di innocuità. L'aggravante poi è che le Nuove Sostanze Psicoattive passano inosservate ai vari drug-test (test antidroga). Insomma, la medicina ha sempre studiato tutte le molecole, cercando di trovarne usi terapeutici anche per quelle molecole che poi sono risultate essere solo sostanze illegali e d' abuso (per esempio cocaina, ecstasy), e molte delle NSP sono state inizialmente brevettate come potenziali farmaci senza poi però riuscire a essere fruite in campo medico per l' elevata tossicità: non tutto si può utilizzare come farmaco».

Psicofarmaci da sballo: ecco come funziona il mercato illegale. Le Iene il 5 dicembre 2019. “Adesso le benzodiazepine sono alla portata di tutti”. Andrea ci racconta come ha iniziato a usare psicofarmaci con la cocaina senza aver mai avuto una ricetta medica. Abbiamo documentato la facilità con cui si può trovare lo Xanax nelle strade di Roma. “Quando stai in mezzo alle benzodiazepine, quando è tanti anni che ne fai uso, in quel momento non vedi nulla”. Le benzodiazepine sono una classe di psicofarmaci che vengono solitamente utilizzati per curare stati mentali gravi come ansia o insonnia. Sono farmaci legali che devono però essere assunti solo su prescrizione medica. Nel servizio di Gaetano Pecoraro di martedì 3 dicembre vi abbiamo raccontato l’uso e l’abuso degli psicofarmaci, parlando con alcune persone che avevano iniziato a prenderli per curare patologie mentali e hanno poi sviluppato una vera e propria dipendenza. Nel servizio che vedete qui sopra approfondiamo un altro aspetto degli psicofarmaci e in particolare delle benzodiazepine: il mercato illegale di questi farmaci legali. “È il mercato grigio”, spiega Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, l’Agenzia nazionale per la tossicodipendenza della Croce Rossa Italiana. “La benzodiazepina viene spesso usata per sconvolgersi, per entrare in uno stato sognante”, sostiene Barra. Proprio come ci racconta il nostro intervistato, che chiameremo Andrea, che ha iniziato a fare uso di benzodiazepine per scopi tutt'altro che terapeutici. “All’inizio le prendevo per smorzare la cocaina. Dopo poco tempo ho fatto assuefazione e ho sentito che mi servivano. Perciò ho iniziato a prenderle nella normalità, senza cocaina. Le Roipnol le ho conosciute molto giovane, avevo 14 anni”. Il Roipnol è appunto uno psicofarmaco appartenente alla famiglia delle benzodiazepine che serve per curare, ad esempio, l'insonnia grave. “Andava di moda quarant’anni fa”, spiega Barra. “Adesso ci sono lo Xanax e il Rivotril, ma è solo una questione di moda. Il problema resta lo stesso: allontanarsi dalla realtà”. “All’inizio di questi farmaci ne prendevo due, tre al giorno”, racconta Andrea, che ora, ci dice, “è 28 mesi che non tocco più nulla”. Ma aveva sviluppato una vera e propria dipendenza da benzodiazepine. “Dopo qualche mese ho cominciato a prenderne dieci, quindici al giorno. Senza non stavo bene con me stesso: mi sudavano le mani, non potevo dormire. Andavo in astinenza, ero arrivato al punto addirittura che non le ingerivo più, me le facevo sciogliere in bocca”. E tutto questo, racconta Andrea, senza aver mai avuto una prescrizione medica. “Ne giravano tante di ricette, bastava che qualcuno riuscisse a fregare un ricettario mentre si trovava dal medico e poi le scrivevamo noi”. E che la falsificazione di ricette sia un problema reale ve lo mostriamo andando nei pressi della stazione Termini a Roma. Qui, nel tentativo di procurarci dello Xanax senza prescrizione, troviamo un ragazzo che non solo ci vende la sua ricetta originale, ma ci spiega anche come falsificarla. “Vai in tipografia, prendi i fogli bianchi, le ricette sono 15 per 20. Vai da ***”, e fa il nome di una tipografia di Roma. “Ti fai fare un timbro falso come ho fatto io: dottor, che ne so, Amilcare Rossi. Una volta che hai il timbro con lo stampino metti timbro qui, timbro qua e scrivi un nome inventato, Ugo Rossi. Io dalle ricette che facevo sai quanti soldi ci guadagnavo…”. Anche perché “lo Xanax va di moda, se lo pigliano tutti”. “Adesso è alla portata di tutti”, conferma Andrea. “Mi è capitato anche di vedere ragazzetti di 13 anni, 14 anni che a Trastevere prendevano la scatola del Rivotril”. Così ci siamo fatti un giro anche noi nel cuore di Roma. Trovare chi potesse procurarci lo Xanax si è rivelato davvero facile. “Lo Xanax, ce l’avete?”, chiede il nostro complice a un gruppo di persone visibilmente non lucide. “Sì, quanto te ne serve?”, risponde uno di loro. Proponiamo cinque euro. Ma la nostra proposta, evidentemente troppo bassa per loro, non viene accolta bene e non ci danno retta. Ma basta spostarsi di poco e troviamo un altro ragazzo che può aiutarci. “Lo Xanax sono 15 o 20 euro a scatola”, ci dice. Chiudiamo e 15 e gli diciamo che torneremo con i soldi. “Io te li porto tutti staccati”, dice riferendosi alle pasticche. “Perché sennò mi mandano in galera”. 

 (ANSA il 23 ottobre 2019) - E' la cocaina la droga più consumata in Europa occidentale e del sud (Svizzera, Inghilterra, Belgio, Olanda, Spagna, Italia) e in Sud America. Lo dicono i risultati di uno studio condotto dallo Score network, rete di gruppi di ricerca europei nata nel 2010 sotto la guida dell'Istituto Mario Negri e dell'Istituto norvegese (Niva), con il supporto dello European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction (Emcdda), l'agenzia Europea che si occupa di tossicodipendenze. Lo studio, pubblicato oggi sulla rivista Addiction, ha utilizzato il metodo messo a punto dal Mario Negri nel 2005, che consiste nell'analisi delle sostanze rilasciate con le urine e ritrovate nelle acque reflue urbane e nella successiva stima dei consumi nella popolazione. Con questo metodo sono stati misurati, dal 2011 al 2017, i consumi di cocaina, amfetamina, metamfetamina ed ecstasy in 120 città di 37 paesi di Europa, Usa, Canada, Sud America e Australia, con più di 60 milioni di persone coinvolte. Quanto all'Italia, dove il monitoraggio è stato effettuato principalmente a Milano, "la cocaina - spiega Sara Castiglioni, Capo dell'Unità di Biomarker Ambientali del Dipartimento Ambiente e Salute del 'Mario Negri' - è risultata la sostanza più utilizzata tra quelle analizzate, con consumi minori di metamfetamina ed ecstasy e pressoché nulli di amfetamina. Milano - precisa Castiglioni - presenta consumi di cocaina che possiamo definire medi, simili a quelli di Parigi e Copenaghen, inferiori a quelli di Zurigo, Anversa, Londra e Barcellona. In particolare, il trend di consumo di cocaina a Milano è rimasto stabile dal 2011 al 2015 ma è aumentato nel 2016-2017. Analoghe rilevazioni a Gorizia, Bologna, Bari, Potenza e Palermo sono state effettuate solo nel 2017 e confermano i risultati di Milano". Secondo i risultati, la metamfetamina, sebbene con consumi più contenuti rispetto alla cocaina, è la droga prevalente in alcuni paesi dell'est Europa (Repubblica Ceca, Slovacchia e Germania dell'est) e ha consumi molto elevati e in crescita in Usa, Canada e soprattutto Australia; l'amfetamina è utilizzata in prevalenza in Belgio, Olanda, Germania e alcuni paesi Scandinavi (es. Finlandia); l'ecstasy non prevale in nessun paese analizzato ma i consumi risultano in crescita in quasi tutte le città studiate.

Alice Mattei per “Business Insider Italia” il 28 novembre 2019. E alla fine le rotte della droga sono arrivate anche in Africa. Denunciarlo, anche se è cosa nota da tempo, è l’Economist, che riporta come da qui, e in particolare, da stati poverissimi come la Guinea Bissau, che i signori della droga hanno preso a far passare la loro merce, diretta all’Europa. Per avere una dimensione del fenomeno, il giornale cita un enorme sequestro di droga avvenuto lo scorso primo settembre: in un modesto bungalow fuori dalla città di Canchungo in Guinea-Bissau, nascosta dietro un muro falso, la polizia giudiziaria bissau-guineana ha trovato 1.660 kg di cocaina. In altre due case vicine, ha trovato altri 250 kg di droghe. Le indagini hanno portato all’arresto di una dozzina di persone, tra cui tre colombiani e un messicano, e hanno sequestrato 18 auto e un motoscafo. Le droghe erano destinate al Mali e all’Europa. Per la maggior parte degli osservatori la sorpresa non è stata che una grande spedizione di droghe stava attraversando il paese, ma che la polizia l’ha fermato. In Guinea-Bissau, un piccolo e povero stato africano ad ovest di appena 1,9 milioni di persone, in cui oltre il 90% delle esportazioni formali sono anacardi, cocaina il contrabbando è stato un enorme business almeno dal 2005. Si stima che ogni anno a Bissau, la capitale, transitino almeno dieci tonnellate di cocaina. Il che significa, a prezzi di strada, più del PIL dell’intero paese.

Italia ed Europa sommerse dalla cocaina. Questa è la vera invasione, altro che migranti. Centinaia di tonnellate di polvere bianca sbarcate nei porti della Ue, da Anversa e Rotterdam fino a Genova e Livorno. È il mercato unico della droga. Ecco le nuove rotte dei narcos. Destinazione: le nostre città.  Ma la politica tace. Vittorio Malagutti e Francesca Sironi l'8 novembre 2019 su L'Espresso. Belin, mi dice: guarda che arriva anche il nostro carico il primo di novembre... cinque borse da 25... 125 chili in tutto... capisci com’è?». Massimo è nervoso: va bene gestire un ordine. Ma due, e per committenti diversi poi, è troppo. Troppo lavoro illegale, troppe richieste di sbarcare cocaina. La storia di Massimo, operaio portuale di Genova, dipendente di una grande società di servizi, subissato da offerte da parte dei trafficanti di droga, racconta alla perfezione il boom del business della droga in Europa. La merce è troppa. È questa la vera, grande invasione che arriva dal mare. Mentre la politica e l’opinione pubblica si concentrano sugli sbarchi dei migranti, i carichi di cocaina bloccati nelle dogane del Vecchio Continente hanno fatto segnare un aumento senza precedenti: quest’anno il conto complessivo potrebbe sfiorare le 200 tonnellate, contro le 150 del 2018. Nei soli porti italiani, dal primo gennaio al 31 ottobre, ne sono state sequestrate più di cinque tonnellate. Il 168 per cento in più rispetto al 2018. Sono dati della Direzione centrale antidroga che L’Espresso può anticipare nell’ambito di un’inchiesta del consorzio giornalistico Eic (European Investigative Collaborations) sulle nuove rotte della cocaina verso l’Europa. A Genova, il 14 ottobre, un’operazione coordinata dalla procura antimafia ha portato all’arresto di un gruppo di trafficanti attivo fra Liguria, Calabria, Colombia e Ecuador. Si erano rivolti a Massimo, il camallo genovese, per far uscire dai docks 125 chili di merce che arrivava dal Cile. Il gruppo criminale vantava una struttura sperimentata e ben organizzata, buoni rapporti con le famiglie “di giù”, certezza nei pagamenti. Purtroppo per loro, però, nel frattempo Massimo era già stato ingaggiato da un’altra banda di narcos, questa volta albanesi, per uno sbarco dalla stessa nave, la Carolina Star. Il cargo attracca il 2 novembre del 2017. Mentre sposta i primi 77 chili per gli emissari del boss, il portuale corrotto viene però fermato dalla Guardia di Finanza. Il secondo carico resta così nella stiva, e la banda italiana viene costretta a cambiare rotta. Punta su Gioia Tauro, ma a metà ottobre di quest’anno scattano le manette anche per loro. Questa vicenda dimostra una volta di più che ormai le organizzazioni criminali, a cominciare dalle cosche calabresi, sono in grado di giocare su più tavoli, di gestire le spedizioni di cocaina su porti diversi a seconda delle esigenze del momento. I carichi provenienti dal Sud America vengono così suddivisi fra tutte le principali destinazioni del continente: Rotterdam, Anversa, Valencia, Livorno, oltre a Genova. Diversificare i punti di sbarco serve a ridurre i rischi. Nord o sud Europa poco importa, alla fine. Perché la capacità delle mafie di infiltrarsi negli scali marittimi conosce pochi limiti. Gerrit Groenheide era un cinquantenne, da decenni impiegato alle dogane di Rotterdam. Insieme alla sua squadra aveva un compito cruciale: vigilare sui 20mila container scaricati ogni giorno nell’enorme hub olandese, segnalando, in base a specifiche categorie di rischio, quelli sospetti. Se diceva “arancio”, il carico avrebbe potuto essere ispezionato. Se segnava “bianco” passava liscio. Era la porta dell’inferno o del paradiso per ogni trafficante internazionale di droga. Fra il 2012 e il 2015, Gerrit ha guadagnato 250mila euro per aver lasciato transitare cocaina. In bianco. Il business non dorme mai. E così il numero, e il peso, dei sequestri non fa che aumentare. 15 gennaio 2019: la Guardia di Finanza di Livorno blocca 644 chili di cocaina in transito verso Madrid. 23 gennaio: a Genova vengono trovate due tonnellate di droga su un container diretto dalla Colombia a Barcellona. 26 giugno 2019: l’agenzia delle Dogane statunitense confisca a Philadelphia un carico di 20 tonnellate di cocaina stipata su un cargo. Venti tonnellate. 2 agosto 2019: le autorità tedesche estraggono 221 borsoni neri ammassati in un container spedito da Montevideo. Portano 4.200 pacchetti di droga. Valore commerciale: più di un miliardo di euro. È un fiume in piena. Uno tsunami di polvere bianca che invade il ricco mercato europeo dello spaccio. E la marea non accenna a calare, come segnala Kevin Scully, che da Bruxelles dirige le operazioni dell’antidroga americana, la Dea, nel Vecchio Continente. «Tutto fa pensare che nel 2019 l’import di cocaina farà segnare un nuovo record», dice Scully. D’altronde, il business dello sballo va alla grande, come confermano tutte le ricerche più aggiornate. Da Roma a Berlino, da Zurigo a Parigi e Londra il consumo di droga è in continua crescita e aumentano di conseguenza anche gli affari delle organizzazioni criminali. Su scala globale la torta vale ricavi per almeno 300 miliardi di euro l’anno per una produzione complessiva di circa 2 mila tonnellate. Questi numeri vanno presi con beneficio d’inventario, perché, ovviamente, in materia non esistono statistiche precise. Forze di polizia e analisti sono però concordi nel ritenere che mai in passato s’era vista tanta coca in circolazione. Gli schemi elaborati dalle centrali d’intelligence internazionali trovano conferma indiretta nella realtà della cronaca quotidiana, che vede moltiplicarsi i reati legati allo spaccio e al consumo. Tutto scorre sottotraccia, fino a quando un delitto da prima pagina non scuote un’opinione pubblica altrimenti indifferente o rassegnata. È successo a Roma, per ben tre volte negli ultimi mesi. A fine luglio l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Poi, un paio di settimane dopo, l’esecuzione dell’ex capo ultrà laziale Fabrizio Piscicelli. E quindi, il 23 ottobre, l’assassinio del giovane Luca Sacchi. Tre vicende, in buona parte dai contorni ancora oscuri, legate tra loro da un unico filo rosso: il traffico di cocaina sulla ricca piazza di spaccio della capitale. Il 18 settembre, mille chilometri più a Nord, un killer ha freddato l’avvocato Dirk Wiersum e così anche una città come Amsterdam ha scoperto all’improvviso di trovarsi in prima linea sul fronte della guerra per il controllo del business della droga. Nella pacifica Olanda non era mai successo che un legale venisse assassinato per vicende legate a un processo. Wiersum difendeva Nabil Bakkali, origini marocchine, che aveva deciso di fare i nomi dei suoi complici in un traffico internazionale di droga. Il messaggio dei narcos è arrivato forte e chiaro. Nessuno può permettersi di rompere la regola deIl’omertà. In gioco ci sono i profitti miliardari del più importante centro logistico europeo della cocaina, l’hub in cui vengono smistati i carichi in arrivo dall’America del Sud. La merce viene presa in consegna nel porto di Rotterdam o in quello di Anversa, nel vicino Belgio. A occuparsi del trasporto e della distribuzione in Europa sono organizzazioni a struttura e geometria variabile, in cui si trovano a collaborare, a volte solo per un singolo affare, mafie di diversa origine. C’è la ndrangheta calabrese, che ha propri rappresentanti anche sui luoghi di produzione con il compito di gestire il trasporto oltre Atlantico insieme ai narcos colombiani e messicani. E poi albanesi, marocchini, serbi, turchi. Non importa la nazionalità. Il mercato, e il potenziale guadagno, è così grande che c’è spazio per tutti. «Rivalità e conflitti vengono messi da parte perché l’obiettivo comune è uno soltanto: far soldi», spiega Manolo Tersago, direttore delle squadre antidroga della polizia federale belga. Lo scenario delle alleanze tra i diversi gruppi criminali è in continuo movimento e diventa di conseguenza molto più difficile per gli investigatori ricostruire chi tira le fila dei traffici. Secondo i calcoli di Europol, l’agenzia di coordinamento delle polizie dei paesi Ue, nel 2018 hanno preso la via dell’Europa 700 tonnellate di cocaina, la metà circa di quanto è stato piazzato negli Usa. La maggior parte della polvere bianca, circa i due terzi del totale, arriva dalla Colombia, dove la pace, cioè la fine dell’instabilità politica dovuta alla guerra civile con le Farc, ha paradossalmente dato una mano ai narcos, che ora controllano oltre 200 mila ettari di terra, cifra mai raggiunta in passato. I prezzi all’ingrosso nel Vecchio Continente sono superiori anche del doppio a quelli correnti sull’altra sponda dell’Atlantico. Questo spiega perché negli ultimi anni è aumentato il traffico verso porti come Anversa, Rotterdam e Algeciras, in Spagna. «Qui la droga viene venduta fino a 38-40 mila euro al chilo», spiega una fonte del Citco, la divisione contro il crimine organizzato del ministero degli Interni di Madrid. Se si considera che il costo di produzione non raggiunge i mille euro al chilo e che al dettaglio le dosi vengono vendute a un prezzo di almeno 50 euro al grammo, non è difficile immaginare perché il traffico di coca sia diventato di gran lunga la principale attività di organizzazioni criminali come la ’ndrangheta, che grazie alla sua potenza di fuoco finanziaria, almeno 50 miliardi di ricavi annui, si è imposta come l’interlocutore più affidabile dei narcos sudamericani. Nelle carte dell’Operazione Pollino, chiusa nel dicembre scorso dalla polizia italiana insieme ai colleghi di Belgio, Germania, Olanda e alla Dea statunitense, si trova un’ulteriore conferma dell’espansione globale delle cosche calabresi, capaci di creare teste di ponte stabili in America Latina e anche nei principali snodi del traffico nel cuore del Vecchio Continente. Le famiglie Pelle-Vottari, Romeo e Giorgi, tutte originarie di San Luca, erano così in grado di coordinare l’importazione di tonnellate di droga nei porti di Anversa e Rotterdam. Il baricentro degli affari delle ’ndrine si è infatti spostato verso nord. Gioia Tauro, un tempo principale approdo dei carichi di polvere bianca confezionati sull’altra sponda dell’Atlantico, ha perso peso nella mappa del narcotraffico. «Ormai i gruppi criminali sono fluidi e ben organizzati. E l’Europa è un mercato unico, anche per la cocaina», spiega Giuseppe Cucchiara, direttore centrale dei servizi antidroga della polizia. «La ’ndrangheta», dice Cucchiara, «può quindi indifferentemente ritenere utile ricevere una partita in Belgio o a Livorno, a seconda di diversi interessi. La destinazione e l’obiettivo sono gli stessi: l’Europa». La politica delle alleanze con altre bande di trafficanti, affidata ai rappresentanti delle cosche oltreconfine, serve a gestire ogni aspetto del business, dalla consegna dei carichi al trasporto, fino alla distribuzione nelle piazze di spaccio. In un terminal delle dimensioni di quello di Anversa, dove ogni anno transitano oltre 11 milioni di container (circa 30 mila al giorno) diventa più facile aggirare i controlli e prelevare la droga nascosta tra le tonnellate di merce che arriva quotidianamente nello scalo belga. Gli interessi del business legale, che punta ad aumentare i profitti semplificando al massimo le procedure di sbarco, finiscono paradossalmente per agevolare il lavoro dei trafficanti di droga. Troppi controlli intralciano gli affari delle grandi aziende della logistica. I mercati globali vanno di fretta. Tutto va consegnato ovunque nel mondo alla massima velocità possibile. Cocaina compresa. 

Solo legalizzare le droghe leggere fermerà i clan. Roma da oltre un decennio è diventata l'hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. Cosa Nostra, 'ndrangheta e camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. Se l'omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Roberto Saviano il 27 ottobre 2019 su La Repubblica. E' il sangue e solo il sangue che genera attenzione, che pretende azione (per qualche giorno almeno). È una drammatica e sempiterna regola, inviolata sino a ora. Solo il sangue è la madre di tutte le comprensioni: fin quando non lo vedi a terra la mafia non c'è, fin quando non senti lo sparo non percepisci pericolo, se non si innescano le faide non esiste il problema. Il sangue non si può nascondere e quando scorre cosa accade? Accade che si ridimensiona la vicenda. Con l'omicidio Sacchi il sangue a Roma è tornato a scorrere ma c'è un automatismo innato che si genera sempre dinanzi alle tragedie, cercare elementi per allontanarle da sé. Incidente stradale? Beh, ma guidava ubriaco. Cancro? Grande fumatore. Un ragazzo sparato alla nuca? Beh, ma vedrai che qualcosa non torna. È tutto normale, un modo per sentirsi al riparo, per potersi dire che non capiterà a chi si comporta bene, un meccanismo che le istituzioni spesso usano come ansiolitico per calmare la legittima apprensione, quella che pretende che tutto cambi. Avviene per non dirvi la più semplice delle verità: siamo tutti esposti, nessuno è al sicuro. Roma non ha i morti di Caracas, non è lontanamente paragonabile a San Salvador o Lagos, ma Roma deve smetterla di sentirsi diversa dall'essere una città mangiata dalla corruzione e occupata dai poteri criminali. Prima si rende conto di essere una Capitale mafiosa, prima può forse pensare di trasformarsi. Roma non è Gotham City? Molto peggio. Perché Gotham sapeva d'essere Gotham, perché riconosceva il male in Joker e Pinguino ma soprattutto Gotham aveva Batman che su Roma non è Bruce Wayne ma Franco Fiorito "er Batman". Roma è luogo di riciclaggio privilegiato degli investimenti del narcotraffico da più di un decennio: elenchi sterminati di ristoranti, pub e gelaterie sequestrati alle cosche. Infinite speculazioni edilizie. Tutti spesso derubricati a fatti episodici, laterali alla vita della città quando ne sono l'essenza stessa, il sistema linfatico dell'economia. Dinanzi a un omicidio come quello dei Colli Albani si usano sempre le solite immagini. La metafora cinofila: "Cani sciolti". Oppure quella equina: "Cavalli pazzi". Sovente: "Lupi solitari". Fesserie. Sono un esercito pronto ad affiliarsi, microcellule pronte al salto organizzativo e che nella parte maggiore dei casi non ci riescono perché finiscono ammazzati, arrestati o nel delirio sanguinario sparano alla nuca come se fosse uno spintone. Non c'è limite alla corsa per trovare spazio di guadagno. Roma da oltre un decennio è diventata l'hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. La prova più eclatante è già nel 2014 quando in una sola operazione (una sola!) i carabinieri sequestrarono 578 chili di coca che avrebbero reso 24 milioni di dosi ossia 1.300 milioni di euro. Da lì in poi potrei fare un elenco infinito, passando per i 200 chili scovati nell'agosto scorso. Percentuali di sequestro minime rispetto a un flusso perenne e continuo. Immaginate questa massa di denaro in una metropoli dove il turismo garantisce che case, ristoranti e locali siano pieni e quindi pronti per riciclare. Roma si racconta compiaciuta con i turisti che leccano i gelati e i selfie ai Fori Imperiali con i gladiatori. Ma è solo una scenografia. È invece la metropoli dove trovare lavoro senza essere protetto da un politico è quasi impossibile, dove un piccolo imprenditore per farsi pagare si deve rivolgere a bande che recuperano i crediti. In questa Roma ogni pistola è un'occasione per provare a farcela. Ancora pensate che siano le serie tv a ispirare i violenti? Quanta colpevole ingenuità, le serie raccontano il reale volto di ciò che accade e chi lo vive ci si specchia direttamente. Roma è stata storicamente città aperta: Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. La gestione negli anni si è evoluta: i clan meridionali hanno subappaltato il controllo del territorio e in questo spazio è nata un'organizzazione autonoma. Mafia Capitale la Cassazione non la definisce mafia, tutto questo è fisiologico perché ad oggi è solo su base etnica il riconoscimento penale del crimine organizzato: sembra assurdo ma è così (con la sola eccezione della Mala del Brenta). La battaglia per il riconoscimento di un'organizzazione mafiosa è infinita: l'introduzione del reato è del 1982 (mentre Cosa Nostra esisteva già da un secolo) e la parola 'ndrangheta è entrata nel Codice Penale solo nel 2010 (esisteva da più di 120 anni). Ci vorrà tempo perché tutti comprendano il volto di ciò che è nato nel ventre di Roma, superando gli stereotipi che ancora cercano coppole e lupare. Questa battaglia però non si deve fermare. E non può essere delegata alla magistratura. Deve essere l'ossessione della società civile - se ancora esiste - perché spesso per gran parte della politica (quando non complice) è solo un tema da risolvere con le manette. Nulla di più fallace. Le prigioni da sole non hanno mai sconfitto nessuna mafia. Trasformare le regole che rendono Roma una città a vocazione mafiosa sarebbe invece l'unico atto determinante. Se l'omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Sottrarre questo mercato immenso al crimine è l'unico modo per dimezzarne profitti e potere: ogni altra strada sarà effimera, perché retate e condanne apriranno vuoti nelle reti di spaccio che una leva sempre più giovane sarà felice di colmare. Non sarà facile per una politica che si nutre di tweet prendere questa decisione. Ma bisogna imporre il tema nel dibattito pubblico. E costringere da subito ad affrontare i nodi del riciclaggio e dell'investimento mafioso che distruggono ogni libera iniziativa. Altrimenti Roma rimarrà una città corrotta sin nel midollo, dove l'unico modo per salvarsi è starne lontani.

Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 24 ottobre 2019. Abbiamo sempre immaginato la fine del mondo come un evento esterno: guerra atomica, poli che si squagliano, meteoriti giganti... E se invece arrivasse con una gigantesca overdose di cocaina? A giudicare dal ciclone promozionale, la “neve” deve avere sviluppato, per motivi di competizione con l'eroina, pasticche MDNA e superalcolici, un senso delle pubbliche relazioni abnorme, capillare, da multinazionale della pubblicità. Per imprenditori, politici, finanzieri, calciatori di serie A e B che dovrebbero quantomeno temere i controlli antidoping, uno sniffo vale uno spritz al Campari. Per i personaggi dello spettacolo (di serie A e di serie B) che non potrebbero permettersi di far scivolare la propria immagine su una pista di polvere bianca, una “striscia” vale sì e no un caffè macchiato. I pusher fidati sono divenuti a loro volta invitati d'onore per feste e salotti. Commessi, pizzicagnoli, impiegati statali, benzinai, casalinghe inquiete e no, contro il logorio della vita moderna pippano tutti allegramente. La cocaina ha perso perfino il suo valore di diabolico status symbol: qualche settimana fa un prete è andato in overdose mentre accompagnava in gita a Cremona alcuni ragazzi dell’istituto Don Bosco di Alassio. Molto cocainica è l’autobiografia di Elton John, appena pubblicata dalla Mondadori. La perla in polvere è quando racconta di una party nel giardino di casa sua: la nostra popstar era così alterata dalla cocaina da scambiare Bob Dylan per il giardiniere! Del resto si può fare la storia dei Beatles cambiando stupefacente. Una canzone come "Got to Get You Into My Life’’ si rifà alla marijuana. "Day Tripper’’ è sugli acidi. E "Lucy in the Sky with Diamond’’, è una lode all'Lsd. L’uso di varie sostanze come mezzo per aumentare la creatività artistica ha una lunga storia. Alcune sculture ritrovate in America Centrale fanno ritenere che già nel 1500 a.C. l’uso di funghi allucinogeni da parte dell’artista era considerato un mezzo per ricevere una ispirazione divina. Dopo di che, il diluvio. Da "Confessioni di un mangiatore d'oppio" di Thomas De Quincey, ai "Paradisi artificiali" di Baudelaire, alla benzedrina di ‘’Sulla strada” per Jack Kerouac. Ci sono delle pagine di Proust dove lui racconta talmente bene, talmente a lungo la preparazione, l’uso, gli effetti della cocaina, che lascia pensare che ne facesse uso abbondante. Probabilmente la psicanalisi deve la sua fondazione, almeno in parte, alla passione di Sigmund Freud per la coca, che ai tempi era un medicinale che si poteva acquistare liberamente, seppur a caro prezzo, in farmacia. Nel 1884, Freud scrisse un libro, "Über Coca’’, nel quale descriveva "l'eccitazione meravigliosa" della prima ingestione, una "esilarante e duratura euforia". Secondo molti saggisti, se c'è una persona a cui imputare l'ascesa della cocaina a droga ricreativa, quella persona è Freud. Lo scrittore Aldous Huxley ha persino sostenuto che l’arte del ventesimo secolo sarà ricordata per l’impatto e le conseguenze che su di essa hanno avuto i farmaci allucinogeni. "Non so tollerare la vita", scrive Gabriele d'Annunzio, "se non esaltata da un leggero delirio". Il Vate di Pescara definiva la coca il suo ''piatto freddo'' preferito, quello che divorava prima delle orge. Hashish, oppio, Lsd, eroina, cocaina, alcol, hanno scritto, suonato, recitato, e Sting osserva: “Non dico che bisogna assumere droga per diventare artisti, ma non si può non considerare il lavoro dei Beatles, che nel periodo in cui prendevano Lsd hanno fatto album grandiosi. O di Miles Davis, che ai tempi in cui faceva uso di eroina ha prodotto la sua musica più straordinaria”. Creatività e droga, facce della stessa medaglia? Risponde Patty Pravo: ‘’La droga è un fatto personale. Certe volte non si può rifiutare, se non altro per cortesia". Meno diplomatico il compianto Robin Williams: "La cocaina è il modo in cui Dio ti avvisa che stai guadagnando troppo".

Giampiero Mughini, la verità scandalosa sulla droga nello spettacolo: "Cosa succede davvero nelle feste vip". Libero Quotidiano il 3 Maggio 2019. Giampiero Mughini torna a parlare del fenomeno droga alle pagine del Quotidiano Nazione e per farlo riparte dalle dichiarazioni su Desirèe Mariottini, la 16 enne violentata e uccisa in una borgata romana di cui disse che non avrebbe potuto non fare quella fine dato il "reame di droga" in cui viveva. Riguardo al modo in cui quelle dichiarazioni furono lapidate Mughini piuttosto che tornare indietro incalza e dichiara "si trattava di una povera ragazza che aveva dalla sua solo la giovinezza e finì preda del primo delinquente" ma questa volta va più a fondo e, al fatto di cronaca, affianca una riflessione su una piaga sempre più grave a cui non viene dedicato spazio: "È un argomento su cui la coltre dell’ipocrisia è molto spessa", e aggiunge "si fa finta che questi consumatori non ci siano". Parlando di come il fenomeno sia dilagante in Italia e di quanto oramai sia sdoganato l'uso di cocaina e canne nelle feste dei vip Mughini dichiara: "Nel mondo dello spettacolo sono più quelli che si fanno di quelli che non si fanno". Quanto alla possibile realizzazione di una campagna anti-droga (in Italia manca da 8 anni) il giornalista ironizza sul fatto che non gli viene in mente nessun possibile testimonial anti-droga tra i famosi e aggiunge: "Qui ci troviamo di fronte a una piaga particolare, perché i tossicodipendenti da quelle sostanza fanno dipendere la loro vita. In questo senso, diciamo la verità, gli spot non servono a nulla".

"La droga è ovunque ma vince l’ipocrisia". Mughini e il muro del silenzio. "Fenomeno interclassista. Nello spettacolo dilaga". Marcella Cocchi il 3 maggio 2019 Quotidiano.net. Giampiero Mughini sfiorò il tabù quando di Desirée Mariottini, la 16 enne violentata e uccisa in una borgata romana, disse che non avrebbe potuto non fare quella fine dato il "reame di droga" in cui viveva. Ma ancora oggi "a me pare di aver detto una ovvietà assoluta", si infervora lo scrittore. Solo che ci sono argomenti che a toccarli resta scottata l’intera società.

Mughini, lei chiamò in causa l’ambiente e fu ‘lapidato’, sommerso di critiche. Perché? 

"Ma sa, gli analfabeti sono talmente numerosi... il reame di droga è una cosa che esiste e ha leggi proprie. Nel caso specifico, si trattava di una povera ragazza che aveva dalla sua solo la giovinezza e finì preda del primo delinquente".

L’impressione è che lei abbia detto qualcosa che non si vuole sentir dire. La droga è un tabù?

"Sì, è un argomento su cui la coltre dell’ipocrisia è molto spessa. Perché parlarne vorrebbe dire accettarne la complessità e la non risolvibilità. E allora si finisce sempre lì: proibizionismo o antiproibizionismo? Invece l’argomento è molto più delicato". 

Perché si parla di spaccio e non del fatto che ci sono 8 milioni di italiani che fanno uso di droga? 

"Giusto, questo è il punto. Si fa finta che questi consumatori non ci siano e possano essere redenti, ma non so da chi".

Oltre all’aumento di casi tra i giovani, l’inchiesta del Qn ha mostrato che sempre di più è diffusa tra professionisti di ambienti tutt’altro che degradati. 

"Infatti il reame della droga è interclassista". 

Lo sa che l’ultima campagna anti droga risale a 8 anni fa? Pochi grandi nomi si sono spesi per la causa.

"Qui ci troviamo di fronte a una piaga particolare, perché i tossicodipendenti da quelle sostanza fanno dipendere la loro vita. In questo senso, diciamo la verità, gli spot non servono a nulla".

Come si può pensare che se ne parli se alle feste vip è diffusa la cocaina e le canne sono sdoganate? 

"È molto difficile. La normativa intellettuale corrente è poco attrezzata a parlarne. Penso che nel mondo dello spettacolo siano più quelli che ‘fanno’ di quelli che non fanno. Dappertutto sono violate le norme dei nostri nonni, perché la modernità si è portata appresso una tensione che è insopportabile. I patrimoni intellettuali che guidarono le generazioni non ci sono più e un ragazzo si trova da solo con l’interrogativo: consumo la quinta birra o no?".

C’è un certo giustificazionismo?

"Io penso che bisogna capire perché questo accade. Rimproverare quelli che lo fanno non serve a niente. Ecco, 5 anni fa io per esempio entrai in depressione e conobbi la dipendenza da antidepressivo: solo in quel caso posso dire di aver colto cosa può essere il morso della droga: l’uso di quella pillola era la maniglia cui mi aggrappavo per sopravvivere. E poi, le anfetamine sono una droga? Ne faceva uso Sartre, per esempio". 

Appunto, Baudelaire, la droga e i letterati, gli intellettuali. Il tormento di Serge Gainsbourg... C’è questo alone affascinante che circonda le droghe…

"Ma si può distinguere nell’arte di Gainsbourg quello che prendeva in più da quello che prendeva in meno? Non so dire se è affascinante, fatto sta che a 60 anni lui era un rudere". 

Perfino i Beatles giocavano con le parole con ‘Lucky in the sky with diamonds’, Lsd. 

"Guardi, senza la droga non ci sarebbe stato il rock". 

Poi adesso c’è il trap.

"Sì, io però non ne so nulla". 

Lei frequenta salotti, ambienti sia vip sia intellettuali, mi può dire se si parla di droga?

"Io? Ma che, scherza? Nessuno di questo ambiente ne accenna". 

E in passato com’era invece, nel ‘68 per esempio? 

"Secondo me l’offensiva della droga è venuta dopo, con il ‘77, con l’ambiente del Dams di Bologna di allora. Pazienza veniva da lì. Prima eravamo permeati dai sistemi ideali. In questo caso le cazzate inaudite in cui credevamo servivano da corazza. Per brodo di coltura della droga bisogna comunque intendere qualcosa che riguardi l’essere nel suo insieme, la sua fragilità, da dove si viene, il modo in cui l’uomo si situa nelle giornate del moderno, dove ci sono stress, disperazione, solitudine, impotenza di vari tipi". 

Le viene in mente un testimonial ideale anti-droga?

"No... lo potrei fare io". 

Droga, +30% di consumatori nel mondo. I dati italiani Regione per Regione. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 su Corriere.it da Domenico Affinito e Milena Gabanelli. Il nostro Paese è ai primi posti in Europa. Crescono per il secondo anno consecutivo le morti per overdose. Gli oppiodi sono i responsabili dei due terzi dei decessi totali del 2017. Sono usati da 53,4 milioni di persone (+56% rispetto al 2016), 11 milioni delle quali se li iniettano. Tra queste ultime 1,4 milioni vivono con l’HIV e 5,6 milioni con l’epatite C. I rischi di contagio sono particolarmente alti nelle carceri dei Paesi sottosviluppati, spesso altamente permeabili all’ingresso di stupefacenti, e dove continua lo scambio di siringhe. L’Afghanistan resta il primo produttore al mondo di oppio e derivati con 263.000 ettari, anche se si registra un calo del 17% dei terreni coltivati a papavero. Nonostante questo, e nonostante la grave siccità, nel 2018 il Paese asiatico ha prodotto 6.400 tonnellate di oppio. L’82% del totale mondiale. Il 2017 è stato un anno di record per quanto riguarda i sequestri: oppio (+5% rispetto al 2016), eroina +13%, morfina +33%.La produzione di polvere bianca, che si concentra nella regione andino-amazzonica, ha battuto nel 2017 tutti i record con una stima di 1.976 tonnellate, più 25% rispetto al 2016. Ed è cresciuta del 50% negli ultimi dieci anni. Un boom dovuto soprattutto all’aumento della domanda in Nord America ed Europa, sostenuta da un surplus di produzione in Colombia (che da sola fa il 70% del totale). Grazie all’accordo di pace concluso nel 2016 tra governo e le Farc, infatti, i campi di coca hanno si sono estesi ai territori precedentemente controllati dai guerriglieri (+17%). Il rapporto Unodc stima che nel 2017 circa 18,1 milioni di persone, tra i 15 e i 64 anni, hanno fatto uso di cocaina. Sono però aumentati anche i sequestri. Dal 2014 al 2017: +95,7%.La droga più diffusa, comunque, rimane la cannabis, che viene prodotta in 159 paesi, ma soprattutto in Maghreb, Medioriente e Balcani meridionali. È usata da 188 milioni di persone. Il mercato più grande al mondo sono gli Stati Uniti, dove si sta cercando di combatterne il traffico anche attraverso la legalizzazione. I produttori illegali hanno cercato a loro volta di contrastare la legalizzazione aumentando il principio attivo fino a cinque volte. Sta di fatto che Il numero di consumatori negli Stati Uniti è aumentato del 60% dal 2007 al 2017, anno in cui i sequestri di cannabis sul suolo statunitense hanno rappresentato il 21% del totale.Sul fronte delle droghe sintetiche, continuano a essere individuate nuove sostanze psicoattive per un totale di 892 a fine dicembre 2018. In dieci anni il quantitativo sequestrato nel mondo di metanfetamina, una delle sostanze sintetiche più diffuse, è aumentato dell’800% nella zona del sudest asiatico. Grandi consumatori di metanfetamine sono i nordamericani: ne fa uso il 2,1% della popolazione compresa tra 15 e 64 anni.Un dato preoccupante è l’aumento costante della potenza delle droghe: cannabis con più Thc, ma soprattutto cocaina ed eroina con maggiori gradi di purezza. Lo dimostrano le analisi sui sequestri, che sono in aumento anno per anno. In dieci anni in Europa è stato sequestrato il 2% in più di eroina e oppiodi, il 137% in più di cocaina e il 15% in meno di cannabis. Nel Nordamerica l’eroina e gli oppiodi sequestrati sono stati il 359% in più, la cocaina il 66%, la cannabis il 40% in meno. Secondo Unodc le polizie hanno posto meno attenzione al traffico di cannabis, concentrando gli sforzi sulle droghe più pesanti.Rispetto al resto d’Europa e Usa in Italia i dati sono ribaltati. In dieci anni nel nostro Paese si è sequestrato il 53% in meno di eroina l’1,33% in meno di cocaina e il 194% in più di cannabis. Ma nel 2018 si sono registrati alcuni cambi di tendenza: più 59,52% di eroina sequestrata, più 37,31% di droghe sintetiche, il 93,93% di piante di cannabis e il 318,5% di hashish. Continuano invece a calare i volumi della cocaina (-11,70%), mai così in basso dal 2004, e di marijuana (-58,01%). Le regioni nelle quali avvengono i maggiori numeri di sequestri sono Sicilia seguita da Puglia, Campania, Lazio, Lombardia, Calabria, Toscana e Liguria. I cali più vistosi in percentuale, invece, in Molise, Emilia Romagna, Abruzzo, Marche e in Trentino Alto Adige.Nel 2017 il 22% degli italiani tra i 15 e i 64 anni hanno fatto uso di droghe almeno una volta. Siamo i terzi più consumatori d’Europa, a parimerito con l’Olanda, dopo Repubblica Ceca e Francia. Al 31 dicembre 2018 le strutture sanitarie avevano in cura 15.754 persone, mentre quelle segnalate per detenzione a uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope sono state 39.278, l’11% dei quali minorenni. Dati sostanzialmente stabili rispetto al 2017 (la crescita si aggira sull’1%). L’età media dei segnalati è di 24 anni, le classi di età con maggiore incidenza sono quelle tra i 18 anni e i 20 anni e quella oltre i 30 anni. Crescono per il secondo anno consecutivo le morti per overdose che, nel 2018, sono state 334, 38 in più rispetto al 2017 (+12,84%). Metà di loro hanno perso la vita a causa degli oppiacei, eroina in primis. Dal 1973, anno in cui hanno avuto inizio le rilevazioni in Italia, ad oggi hanno perso la vita 25.405 persone. In Italia la droga sequestrata da forze dell’ordine viene tenuta in deposito, sorvegliato dalla polizia giudiziaria, per una decina di giorni, cioè il tempo necessario alle perizie e al prelievo di piccoli campioni per uso processuale. Quindi il giudice ne ordina la distruzione, che avviene in inceneritori appositamente predisposti, alla presenza del giudice, degli avvocati, della polizia giudiziaria e, in caso ne facciano richiesta, anche degli imputati, dei loro familiari e dei giornalisti. Tutte le confezioni di droga che vanno nell’inceneritore sono controllate per verificare che il contenuto non sia stato sostituito. Se uno degli addetti all’operazione sottraesse una parte della droga sequestrata e venisse scoperto, verrebbe processato per peculato e non per spaccio. Una procedura «blindata», ma in tanti Paesi le forze di polizia sono corrotte e conniventi e molta della droga sequestrata torna in circolo. Le transazioni di droga avvengono anche in rete. Nell’open web, attraverso siti appositi (molti dei quali ubicati in server situati in Olanda, Nord Europa o Europa dell’Est), ma soprattutto nel darkweb, la parte «oscura» della rete alla quale si accede con sistemi di connessione anonima e criptata. I pagamenti avvengono con carta di credito o attraverso cripto-monete. Un e-commerce illegale che permette la crescita di una nuova imprenditorialità criminale «fai da te» nell’ambito del traffico di droga. Una modalità di diffusione particolarmente difficile da contrastare e da punire, poiché vendita e acquisto avvengono senza contatti diretti: posta aerea ed elevato grado di riservatezza sul contenuto.

Luigi Mascheroni per Il Giornale il 6 settembre 2019. Messico-Calabria, dal produttore al distributore, passando per Venezia, fermata: Lido. E il carico è la merce più usata, trafficata, desiderata del nostro tempo. Produzione al 90% italiana (Cattleya e Sky), cast e ambizioni internazionali (è un prodotto a livello di Narcos), regia spettacolare di Stefano Sollina, il quale tocca una nuova tappa del suo personalissimo viaggio dentro l'universo del crimine, tra Romanzo, televisione (Gomorra) e cinema (Soldato). Ecco la nuova serie tv ZeroZeroZero, di cui due puntate su otto previste, in onda nel 2020 su SkyAtlantic, sono state presentate ieri al festival di Venezia. Ispirata al romanzo di Roberto Saviano (una copia fu trovata anche nel covo di «El Chapo» Guzmán...), la serie porta lo stesso titolo del libro (come per Gomorra, e anche la squadra artistica e produttiva è la stessa) ma ha una diversa scrittura, cui hanno messo pesantemente mano gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Mauricio Katz. L'itinerario geografico-finanziario della coca («Il motore dell'economia globale», come dice la star irlandese Gabriel Byrne, uno dei protagonisti di ZeroZeroZero accanto a Dane DeHaan e Andrea Riseborough) l'ha riassunto Saviano ieri, qui a Venezia: la cocaina si compra in Colombia a 2mila euro al chilo, in Messico a 20, negli Usa a 27, in Italia a 54mila euro al chilo, in Inghilterra a 70, in Spagna a 75... Tagliandola e rivendendola, con 10mila euro di cocaina pura diventi milionario. È la merce più facilmente vendibile, in assoluto, l'unica materia comparabile col petrolio. Ma che rende molto di più. «La legalizzazione - ha risposto lo scrittore a chi gli chiedeva come si possa interrompere il flusso - chiuderebbe i pozzi delle grandi organizzazioni criminali. E la cosa stravolgerebbe l'economia mondiale». Budget oltre il triplo Zero («I costi non si rivelano mai, non sta bene. Io di solito li divido per livelli: poco, molto, moltissimo. ZeroZeroZero invece di più», ha scherzato Riccardo Pozzi di Cattleya, facendo intuire gli enormi investimenti produttivi), una preparazione di due anni, location in tre continenti (tra il Senegal e l'Aspromonte), un viaggio (la storia è quella di una nave portacontainer che trasporta un carico di cocaina dal Messico alla Calabria) e una ossessione. Che non è il denaro, ma il Potere. I boss della 'ndrangheta vivono in capanne, dentro un buco, sotto terra. Non sanno neppure a quanto arrivi la loro ricchezza, e non gli interessa. A loro interessa comandare e tramandare il dominio dentro la famiglia, il resto non è importate. L'uomo d'onore sa che potrà perdere tutto, perché il Potere si paga. Con la solitudine, l'odio, il carcere, la morte. Cosa che ZeroZeroZero, serie di fiction ma altamente realistica, mette in scena molto bene. E se il Potere è il fine (e la religione un alibi consolatorio: santini, preghiere e processioni sono sempre un elemento sicuro della sceneggiatura), il mezzo è la cocaina. In codice: ZeroZeroZero. «Se adesso io le do un sacchetto di diamanti, anche se sono veri, non riuscirebbe a realizzare un profitto. Se invece le do un sacchetto di coca - ha cercato di spiegare Saviano a una giornalista straniera - prima di uscire dal Palazzo del cinema lei l'ha già venduta. Perché tutti la vogliono». Ed eccoci al punto. «Mentre l'eroina ti disattiva, la cocaina ti attiva col mondo. Ci si riempie di coca perché oggi è tutto una merda: la usano i medici, i tassisti, gli operai, i camionisti...» (Saviano). «E anche chi non la usa, ha la sua vita influenzata dal traffico della droga e dai ricavi enormi» (Sollima). La ricetta è la stessa di Gomorra (tesi forse semplicistica, ma sullo schermo funziona): la cocaina come attivatore del turbo-capitalismo occidentale e il narcotraffico come la sua anima. L'anima della serie, va detto, è la messa in scena di Sollima. E forse ZeroZeroZero è persino meglio di Soldado (a cui deve molto visivamente). Tutto molto americano. Ma scritto, sceneggiato e girato da italiani. I quali - poiché le mafie più antiche del mondo sono le nostre, con regole copiate da tutti i clan criminali del pianeta - hanno il privilegio, diciamo così, di uno sguardo speciale sull'argomento.

(ANSA il 6 settembre 2019) - "Legalizzare la cocaina come lotta alle mafie è una soluzione da 'dilettanti di criminologia'. Usiamo le parole di Paolo Borsellino per rispondere all'ipotesi ventilata ieri da Roberto Saviano". San Patrignano, la comunità di recupero dalle dipendenze fondata da Vincenzo Muccioli sulle colline riminesi, replica così alle parole dello scrittore, ieri al festival di Venezia. "Una dichiarazione - dice Antonio Boschini, responsabile terapeutico della Comunità - che ci fa male perché queste parole non fanno altro che alimentare quel clima di normalizzazione dell'uso di sostanze che si respira sempre più forte nel nostro Paese. Significa minimizzare la sua pericolosità, mettendo ancor più in difficoltà, se possibile, le famiglie e tutte quelle comunità che ogni giorno lottano per il recupero e la prevenzione fra i giovani". A Sanpa "pare assurdo che per una persona del livello di Saviano sia necessaria un'affermazione del genere per promuovere un suo prodotto". Legalizzare la vendita di cocaina "significherebbe solo aumentarne il consumo e per rendersene conto è sufficiente pensare a quanto è avvenuto con il gioco d'azzardo, con schiere di ludopatici che oggi non sanno a chi chiedere aiuto. Il problema è già abbastanza grande così, non ci si metta anche Saviano ad aggravare la situazione".

Valeria Pini per “Salute - la Repubblica”l'8 ottobre 2019. Pasticche per rimanere su di giri e ballare tutta la notte. Si comprano ovunque, nelle discoteche o su internet. E piacciono sempre di più ai ragazzini fra i 15 e i 19 anni che le consumano senza sapere cosa siano. Così una bravata con gli amici può creare danni. Sono le nuove sostanze psicoattive che cambiano in continuazione nome e composizione. Per questo diventa sempre più difficile individuarne gli effetti. Nel suo ultimo report, l' European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction ha censito oltre 730 nuove sostanze di abuso sintetiche nel 2019. Decine di nomi emersi dal nulla in pochi mesi. Sono cannabinoidi sintetici, stimolanti, derivati degli oppioidi e benzodiazepine sintetiche. «Il trend di consumo tra i giovani è in costante aumento, soprattutto per quanto riguarda i cannabinoidi sintetici, conosciuti in gergo come "spice". Ora il mercato europeo, non ancora quello italiano, sta andando verso un consumo maggiore dei derivati sintetici degli oppioidi, in particolare del fentanyl e delle benzodiazepine sintetiche», spiega il professor Mario Maj, direttore del Dipartimento di Psichiatria dell' Università Vanvitelli di Napoli. Nei pronto soccorso italiani aumenta il numero di ragazzi in cura per abuso di queste "pasticche da sballo". A lanciare l' allarme sono stati gli esperti riuniti al Congresso della Società italiana di Psichiatria Biologica, che si è tenuto a Napoli. Un problema emerso anche da uno studio, pubblicato su Brain Sciences. Nel Regno Unito il numero di teenager con una diagnosi di avvelenamento per l' uso di queste sostanze è salito del 40% dal 2007. «Nel nostro paese, il consumo delle nuove sostanze sintetiche è quasi doppio nei maschi, ma più precoce nelle ragazze. I sintomi che seguono all' assunzione acuta - aggiunge Maj - sono diversi a seconda del tipo di sostanza. Nel caso dei cannabinoidi sintetici, più usate nel nostro paese, si ha un effetto iniziale di euforia e rilassamento, con allucinazioni, non si controllano gli impulsi, ci possono essere attacchi di panico, pensiero disorganizzato. Un genitore difficilmente si trova ad osservare questi effetti acuti dell' assunzione. Accade, però, che il ragazzo rientri a casa in uno stato di confusione mentale o di agitazione. Vanno osservate le abitudini del figlio, se c' è riduzione del rendimento scolastico, marcata irritabilità, irrequietezza, aggressività, sottrazione di soldi». I casi di intossicazione acuta sono più frequenti alla prima assunzione. E a volte il giovane può compiere gesti autolesivi. I sintomi comuni: nausea, vomito, difficoltà di respirazione, aumento della frequenza cardiaca e crisi ipertensive. Che fare se si sospetta che il proprio figlio usi droghe? «I genitori dovrebbero parlare con lui e valutare le conoscenze e le opinioni dell' adolescente su queste sostanze. La comunicazione dovrebbe essere chiara e diretta, senza giudizi, ma fornendo informazioni sui rischi. Andrebbe chiesto al ragazzo che tipo di sostanza ha assunto. Vanno capite le motivazioni: se l' assunzione è avvenuta durante una festa, se gli è stata proposta dagli amici o se egli aveva "solo" la curiosità di provare». È utile interagire con altri genitori che si trovano nella stessa situazione. Molto spesso i genitori percepiscono un senso di colpa ed evitano di parlare con gli altri, ma questo rafforza l' isolamento e non è di aiuto nel percorso di recupero. «È possibile interrompere l' abuso di queste sostanze - conclude Maj - rivolgendosi al personale sanitario dei servizi per le dipendenze e intraprendere un percorso di cura. Dopo la fase critica, esistono molti interventi per recuperare un ragazzo. Fra i più efficaci, c' è la terapia motivazionale. Punta a supportare il paziente durante l' astinenza dall' uso della sostanza».

Carlo Bellieni per “Avvenire” il 6 dicembre 2019. Forse qualcuno si stupirà, ma legalizzare la cannabis è controproducente: uno studio recente riporta proprio che dal 2016, anno della legalizzazione negli Usa, il consumo e le patologie legate alla cannabis sono aumentati di circa un terzo. Questo dato ci obbliga a valutare in generale i dogmi che ancora esistono sulla innocuità della cannabis, e qui vediamo di raccontarli in dettaglio secondo le evidenze scientifiche appropriate. Crollano i miti della cannabis cosiddetta 'medicinale'. La scienza ci mostra dati importanti: la cannabis e i suoi derivati sono utili solo per pochissime patologie e meno efficaci di altri trattamenti; e come se non bastasse, pare non siano innocui nemmeno come 'medicine'. Come vediamo, tra il dire e il fare c' è di mezzo... il dimostrare! Infatti i derivati della cannabis interferiscono con l' enzima carbossilesterasi, utile per il normale metabolismo umano, e con il noto coenzima P 450 che regola il metabolismo dei farmaci. Questi studi riportati sul Journal of Clinical Pharmacology di agosto e sulla rivista Drug Metabolism and Disposition di maggio, mettono la famosa pulce nell' orecchio sull' utilità dei derivati della cannabis. «Segni di un futuro luminoso o un vaso di pandora?» si domandava infatti di recente un' importante rivista medica. Insomma i derivati della cannabis sono trattamenti di secondo livello rispetto ad altri più efficaci e applicabili forse solo nei casi di vomito e spasmi da sclerosi multipla. Abbiamo evitato apposta di usare il termine 'farmaci' per i derivati della cannabis, seguendo quanto deciso dalla Food and Drug Administration Usa. Anche perché, come spiega la rivista International Journal on Drug Policy, medicalizzare la cannabis, cioè darle una patente che al momento non merita, porta una perdita dell' idea che è pericolosa per la salute quando assunta per fini di sballo. E i rischi di questa banalizzazione si vedono: i casi di esposizione pediatrica alla cannabis sono aumentati in Massachusetts dopo la legalizzazione della marijuana medica nel 2012, nonostante l' uso di scatole a prova di bambino e etichette di avvertimento; e uno studio pubblicato sul Jama dell' agosto 2019 fornisce ulteriori prove che suggeriscono che la legalizzazione della cannabis medica può essere associata ad un aumento dei casi di esposizione alla cannabis tra i bambini molto piccoli e un aumento dei ricoveri ospedalieri per colpa della cannabis. Ma crollano anche i miti dei derivati "alimentari" della cannabis (biscotti ecc): le prove disponibili indica- no che l' uso di questi prodotti da banco può causare danni significativi in assenza di norme chiare in merito al dosaggio e alla somministrazione. Il Thc (tetraidrocannabinolo), il principale principio attivo, viene metabolizzato ampiamente per via orale, portando alla sintesi di una quantità molto maggiore di sostanza tossica rispetto a quella che si forma generalmente dopo il fumo. Il metabolita tossico 11-OH-Thc è psicofarmacologicamente attivo e può sommare i suoi effetti psicotropi con quelli del Thc per produrre un effetto psicotropico più grave sul sistema nervoso centrale. Questi sono dati disponibili a tutti sulla rivista "Clinical Pharmacology" e quindi si capisce la logica del documento della Corte di Cassazione italiana che vieta la vendita di quei prodotti della cannabis che possono essere assunti per via orale (biscotti, caramelle), indipendentemente dal contenuto di Thc: seria decisione, perché anche se il contenuto di sostanza stupefacente è basso nel singolo biscotto, nulla vieterebbe che invece di uno qualunque soggetto ne mangi dieci. Infine crollano i miti sulla depenalizzazione della cannabis che farebbe diminuire rischi e consumi; i dati sono contrastanti e certo mostrano che la legalizzazione non ha prodotto crisi nel mondo del consumo di droga laddove è stata attuata: i dati a 4 anni dalla depenalizzazione a Seattle e a Denver così sono descritti: «La prevalenza dell'uso da parte dei giovani non è aumentata, ma le loro preoccupazioni nei confronti del rischio di usare la marijuana sono diminuiti e l'uso da parte degli adulti è aumentato. La potenza dei prodotti di marijuana continua ad aumentare, così come la percentuale di conducenti che risultano positivi per l' uso del farmaco. I dati provenienti da Denver mostrano un aumento dei ricoveri ospedalieri, delle visite al pronto soccorso e delle chiamate ai centri antiveleni. I dati provenienti dalla zona di Seattle mostrano simili riduzioni delle ammissioni al trattamento e del coinvolgimento della polizia, ma hanno anche aumentato la prevalenza di un uso più frequente». Come se non bastasse, nel British Journal of Obstetrics and Gynecology  risuona ad agosto l' allarme per l' incremento di consumo di cannabis dopo la depenalizzazione in Colorado: in particolare la rivista si sofferma sui danni subiti da parte delle giovani donne incinte, confuse dal messaggio scorretto che fare uno spinello le farebbe sentire meno i sensi di vomito in gravidanza, ma che poi ritrovano tragicamente le conseguenze nefaste sul feto dell' assunzione della droga. A questo punto chiunque si sarà domandato perché ancora qualcuno spinga per depenalizzare la cannabis o per diffonderne l' uso medico o alimentare. Visti i fallimenti suddetti resta incomprensibile, e l'ipotesi più sensata resta quella di fare "pubblicità parallela" al prodotto in sé per fini ideologici. La pubblicità parallela induce l' idea che la cannabis sia cosa innocua e salutare dato che è anche usata come medicina o come dessert e questo ne cambia purtroppo la percezione da sostanza pericolosa a oggetto di comune consumo magari curativo di qualcosa. Resta il fatto che la cannabis fumata fa oltremodo male: riporta la rivista Current Drug Abuse Review : «In molte comunità, la cannabis è percepita come una droga a basso rischio, portando a pressioni politiche per depenalizzarne l' uso. L'uso acuto e cronico di cannabis ha dimostrato di essere dannoso per diversi aspetti della salute psicologica e fisica, come stati d' umore, esiti psichiatrici, neurocognizione, guida e salute generale. Inoltre, la cannabis crea dipendenza e gli effetti negativi dell' astinenza possono portare a un uso regolare. Questi a loro volta hanno ripercussioni negative sulla spesa pubblica per la sicurezza e la salute». Purtroppo sappiamo bene che i battages pubblicitari occulti, gli ammiccamenti dei Vip hanno presa sulla razionalità dei soggetti fragili come gli adolescenti. Molta più presa delle spiegazioni e dei dati della scienza. Per questo vediamo in futuro una vittoria della moda letale sulla ragione; a meno che chi dovrebbe farlo capisca come le banalizzazioni e le mode stanno creando - nell' indifferenza e nella fredda ironia - una strage.

Giovani e dipendenze. Un mercato troppo libero. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanna Maria Fagnani. Una indagine del Moige sulle trasgressioni degli adolescenti inchioda il mondo degli adulti. Alcol, fumo, droga e pornografia sono alla loro portata. Mancano i controlli. Alcol, sigarette, cannabis light. Pornografia e videogiochi estremamente violenti. E ancora, scommesse e gioco d’azzardo. Troppo spesso, i minori si addentrano in «mondi» che, per legge, dovrebbero essere loro preclusi. I divieti di vendita di questi prodotti, infatti, restano tali solo sulla carta. Nella realtà, per gli adolescenti non è un problema procurarsi alcol e fumo, accedere a scommesse e giochi con vincite in denaro. E, ancora più semplice è usare il web per trovare contenuti pornografici o acquistare videogiochi consigliati a un pubblico adulto. A gennaio, un dettagliatissimo report realizzato dal Moige (Movimento italiano genitori) ha acceso i riflettori su questa situazione. A quasi un anno di distanza, le reazioni da parte delle istituzioni e dalle filiere di questi prodotti, sono rimaste piuttosto tenui. Ma qualcosa comincia a muoversi. L’indagine, intitolata «Venduti ai minori» e consultabile sul sito moige.it, è stata curata da Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta dell’Università Europea di Roma e ha preso in esame un campione di 1388 ragazzi, fra gli 11 e i 17 anni, residenti in tutta Italia: l’età della trasgressione per antonomasia e che trova negli adulti un valido aiuto. Partiamo dall’alcol: nei casi presi in esame, due volte su tre, il rivenditore - al bar, in negozio o in discoteca - non ha controllato l’età del cliente e, nella metà dei casi, lo ha servito anche se era già alticcio. Non stupisce quindi il dato, diffuso dall’Istituto Superiore della Sanità, secondo cui, nel 2018, il 43 per cento dei 15enni e il 37 per cento delle 15enni ha provato il binge drinking, la cosiddetta «abbuffata alcolica». Inoltre, per procurarsi le sigarette, il 40 per cento dei giovani si è rivolto in tabaccheria, dove la richiesta di un documento è avvenuta solo nel 38 per cento dei casi. La situazione si aggrava nel caso della cannabis light: in sette shop su dieci non erano presenti cartelli di divieto di vendita ai minorenni e, nel 72 per cento dei casi, il commerciante non ha chiesto l’età al cliente. Invece, nel 68 per cento dei casi, gli ha venduto il prodotto pur sapendo che non aveva 18 anni. È poi un gioco da ragazzi procurarsi i contenuti pornografici gratuitamente: il 95 per cento degli adolescenti lo fa navigando con il cellulare. D’altronde, secondo il dossier, solo il 24 per cento dei ragazzi avevano un filtro di parental control. E, per quanto riguarda i videogiochi, nei negozi, due volte su tre, alla richiesta di acquisto i rivenditori non hanno obiettato che non veniva superata l’età minima consigliata. Che senso ha, per un genitore, vietare al figlio di bere alcolici e se poi il barista sotto casa glieli serve senza problemi? Come difenderlo da contenuti turbanti, se poi sul web addirittura abbondano i tutorial per ottenerli gratis? E come evitare che sia ingannato da informazioni non mediate dagli adulti, che spesso sono fuorvianti e pericolose?Basta un esempio: il 7,5 per cento dei minori intervistati ritiene che la cannabis non abbia nessun tipo di effetto sulla salute e sullo sviluppo. Il Moige chiede filiere «sicure» anche per questi prodotti. «C’è una grande irresponsabilità nella tutela dei minori, da parte di chi svolge attività professionali in questi campi, a partire dalla vendita. La sfida su cui ci stiamo concentrando - sottolinea il direttore generale del Moige, Antonio Affinita - è proprio centrare l’attenzione delle istituzioni sul ruolo responsabile degli adulti e della filiera produttiva, perché il problema non potrà essere affrontato efficacemente, finché le filiere stesse non metteranno a punto sistemi concreti e reali, per governare il comportamento dei loro venditori». Un comportamento irresponsabile che prolifica, perché i controlli delle forze dell’ordine non riescono a prevenirlo, su una rete di distribuzione così capillare. Dopo la pubblicazione del report, sono stati avviati tavoli di confronto fra il Moige e i rappresentanti di alcune filiere, tra cui i monopoli e il gioco online. «Quelli più distanti da noi, al momento, anche perché divisi in tante categorie, sono i distributori di alcol e cannabis. E pochissima attenzione - conclude Affinita - abbiamo avuto anche dai produttori di videogiochi e dai provider di pornografia. L’intento del dossier non è criminalizzare. Noi chiediamo responsabilità e una legislazione unitaria sul tema: vorremmo, ad esempio, che si arrivasse alla definizione di prodotti inadatti ai minorenni e su questo ci stiamo confrontando con i vertici della bicamerale dell’infanzia».

Rory Cappelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 ottobre 2019. Quando negli anni Settanta nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco, e cioè che l'Italia sarebbe stata inondata di droga e che più di una generazione si sarebbe ritrovata decimata da una guerra senza dichiarazioni, loro, a Villa Maraini si erano già attrezzati. E oggi che l'Italia ancora non sa cosa sta per succedere, proprio Villa Maraini sta proponendo dei protocolli per la lotta a quella piaga che non si rimargina mai. Una piaga che negli Stati Uniti sta diventando insanabile con 72 mila morti all' anno negli ultimi tre anni (le armi, il grande problema di cui tutti discettano, di morti ogni anno ne fa, per dire, 36 mila). Soprattutto a causa della cosiddetta eroina sintetica, il fentanyl, che viene prescritta dai medici e di cui si abusa in maniera indiscriminata data anche la facilità con cui la si può procurare. «Il fentanyl è un analgesico narcotico, parente stretto dei derivati dell' oppio. I fentanili possono essere dalle 100 alle 500 volte più potenti dell' eroina e questo dà la misura del rischio crescente di overdose da fentanyl», come ha detto il fondatore di Villa Maraini, Massimo Barra. Un esempio per tutti, i due fratelli belgi trovati morti all' inizio di ottobre in un hotel di Firenze. Una droga che in America causa circa 60mila vittime l' anno. Una droga che sta sbarcando prepotentemente anche in Italia e che proprio a Roma ha fatto le sue prime vittime. Ieri a Villa Maraini si è tenuto un convegno, The Rome Consensus 2.0 for a humanitaria drug policy, che ha visto la partecipazione di esperti delle Nazioni Unite ( Unodc), dagli Usa (C4-Recovery e Ptacc) ed inglesi (Icaad), con la cooperazione di esponenti del Movimento di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Il tossicomane oggi subisce una politica repressiva che lo incarcera, lo punisce, spesso lo fa morire. L' obiettivo è quello di «modificare l' attitudine dei governi rispetto alla catastrofe umanitaria mondiale della droga». Per esempio con la "pre-arrest deflection", una pratica che consente alle forze dell' ordine di indirizzare il tossicodipendente invece che in carcere verso strutture di cura, come sta accadendo in America. Secondo i dati, negli Stati Uniti si è rivelato un potente mezzo di prevenzione della violenza ( della polizia contro i drogati), ma anche un modo per impedire i decessi.  Gli agenti sono formati per intervenire in caso di overdose con il Naloxone, salvando vite in strada. Minore anche il costo per lo Stato grazie allo svuotamento delle carceri: in Italia ad esempio, secondo i dati del Ministero dell' Interno, il 34% dei detenuti è in cella per reati legati alle sostanze, esclusi i grandi narcotrafficanti. Un' azione umanitaria, dunque, che ora necessita del supporto del governo. Per evitare che la strage ora in atto per le strade americane arrivi fino qui.

Michele Bocci per “il Venerdì di Repubblica” il 24 novembre 2019. Uno l'hanno trovato con il computer sulla pancia, l' altro sembrava riposare su un fianco. Li ha uccisi l'Ossicodone. Lentamente e silenziosamente, fermando le loro vite di ventenni. Era il 29 settembre. I due ragazzi, belgi, alloggiavano in un hotel nel centro di Firenze con i genitori. Pareva che dormissero pacificamente: la "classica" scena calmissima di morte per overdose da farmaci oppioidi. Avevano preso decine di pastiglie. Lo spaccio e il traffico di eroina o cocaina non c'entrava niente, e dovremo abituarci: nel grande mare del mercato nero della droga ormai galleggiano i medicinali. Usati non per curarsi, ma per tagliare gli stupefacenti, o per essere assunti direttamente e in sufficiente quantità da produrre effetti tossici. La potenza del Fentanyl e degli altri derivati sintetici dell' oppio, come appunto l' Ossicodone, è nota da tempo a chi traffica e confeziona l' eroina da vendere in strada. Secondo l' Istituto Superiore di Sanità, potrebbe esserci proprio questa molecola dietro i tanti casi di overdose che ogni anno si registrano in Italia senza che si venga mai a sapere da quale sostanza siano stati causati: davanti alla siringa e al laccio emostatico si conclude che è overdose, e però non si approfondisce con analisi specifiche sulle vittime. Dunque, niente numeri certi. «Ma siamo sicuri che il Fentanyl e i fentanili, derivati da quella molecola» spiega Roberta Pacifici dell' Iss, «sono utilizzati anche come sostanze di taglio». E dire che sono molecole piuttosto "antiche". Gli oppiodi sono entrati nel mercato americano alla fine degli anni 50. «Il Fentanyl fu messo in commercio con l' idea che si fosse trovato qualcosa di meglio, e con minori effetti collaterali, dei soliti antidolorifici», spiega Luigi Cervo, responsabile della Psicofarmacologia sperimentale all'istituto Mario Negri di Milano. C'è voluto tempo per capire che la situazione negli Stati Uniti era fuori controllo. Oggi negli Usa l' overdose accidentale da oppioidi è la quinta causa di morte, prima degli incidenti stradali. Si stima che dal 1999 al 2018 le morti provocate dall' abuso di queste sostanze siano state circa 400 mila (la media più recente è di 45 mila all' anno). Un' ecatombe, della quale l' industria farmaceutica è chiamata a rispondere: la Johnson&Johnson ha pagato una multa di 572 milioni di dollari per avere alimentato, con le sue pratiche di marketing, il consumo di questi medicinali. E crescono le cause dei consumatori contro Big Pharm.

Poche ricette, pochi furti. Ma una buona notizia in questa storia c'è. Stati Uniti e Italia sono al momento due mondi distanti. «In America» dice Pacifici, «i problemi sono nati dall' uso sbagliato di questi medicinali, dalle prescrizioni inappropriate». Oltreoceano i medici, spesso poco o male informati, per anni hanno stilato ricette su ricette con facilità. Motivo per cui molte persone, trovandosi a maneggiare prodotti farmaceutici potentissimi per trattare dolori banali e comuni, sono finite nella spirale della dipendenza. Diverso il discorso in Italia: qui le ricette staccate non sono molte. E del resto, come si dice sempre, la terapia del dolore - fondamentale per i malati terminali, per chi ha sofferenze croniche o post operatorie importanti - è troppo poco sviluppata. I numeri di Aifa (Agenzia italiana del farmaco) dicono che si consumano ogni giorno 1,9 dosi di cosiddetti oppiodi maggiori, più potenti, e 2,8 dosi di oppiodi minori. Il primo dato è in leggero aumento (nel 2013 era 1,6), il secondo in diminuzione (nel 2013 era 3,1). Per farsi un' idea, le dosi giornaliere (ogni mille abitanti) di antibiotici sono 18 e quelle degli anti ulcera 79. «Nel cervello c' è un sistema che tenta di alleviare gli stati di sofferenza e che ricrea anche una sorta di estasi naturale. Ce ne accorgiamo quando abbiamo corso per due ore o abbiamo avuto un rapporto sessuale: il nostro organismo rilascia endorfine che agiscono su certi recettori» spiega Cervo. «I derivati dell' oppio, naturali, semisintetici come l' eroina o sintetici come i fentanili, attivano quei recettori producendo stati di piacere e di estasi». I farmaci vanno gestiti con molta cautela e prescritti solo a chi ne ha davvero bisogno. Fentanyl e Ossicodone attivano recettori diversi. Il primo è molto più potente e in Italia non è disponibile in farmacia, dove si trovano solo cerotti a base di questo principio attivo. Diversa la situazione nelle farmacie ospedaliere. «Alla base della commercializzazione c' era l' idea che fosse un prodotto più efficace e con meno effetti collaterali della morfina» sottolinea ancora Cervo. «Gli informatori sono andati in giro per tutta l' America per convincere i medici. Ed è successo quello che è successo. Si tratta di una sostanza potentissima, cento volte di più della morfina. Senza considerare che ancora non sappiamo quanta ne occorra per diventare letale. Magari bastano pochi granelli». L' Aifa conferma che i furti di questi prodotti nelle farmacie - ospedaliere e non - non sono molti. Il problema è che le vendite ruotano intorno al mercato nero della droga, in piazza o su internet. E proprio qui si sono rifornite le due persone uccise da overdose di Fentanyl - una nel 2017, l'altra nel 2018. Sono gli unici casi classificati, per cui raccontano solo un pezzo della storia. «Abbiamo lanciato diverse allerta europee sul Fentanyl» conclude Roberta Pacifici. «E sono state sequestrate partite in entrata nel nostro Paese». L'Iss ha inviato al ministero dell' Interno un elenco di fentanili, molecole con struttura simile a quella dei medicinali realizzate in laboratori clandestini, perché vengano inseriti tra gli stupefacenti da ricercare nei casi di overdose. Ad allarmare c'è un ulteriore terribile dettaglio: con questi medicinali, l' eroina di qualità non serve più. «Gli stupefacenti vengono tagliati sempre meno con sostanze neutre» spiega Pacifici. «Si preferisce usare quelle attive come benzodiazepine, ansiolitici e appunto oppioidi. Se uso il Fentanyl, magari trovato sul mercato nero a prezzo ridotto, non ho bisogno di eroina perfetta. Sarà il medicinale a procurare l' effetto». E se nemmeno i farmacologi ne conoscono bene la potenza, figurarsi i pusher e i consumatori.

Fentanyl: la droga killer arriva in Italia. E la 'ndrangheta fa affari d'oro. Alessandro Barcella su Le Iene l'11 settembre 2019. Cento volte più potente dell’eroina, il farmaco – droga Fentanyl sta iniziando a uccidere anche da noi, mentre nel mondo i morti sono già 400mila. Il mercato, ci spiegano gli esperti della Direzione investigativa antimafia, fa gola ai clan mafiosi, soprattutto alla ‘ndrangheta. Una droga sintetica 100 volte più potente dell’eroina. Un killer silenzioso, nato come farmaco, che solo nei Stati Uniti negli ultimi 5 anni ha ucciso almeno 200mila persone. Un nemico pubblico che anche in Italia, tra il 2016 e il 2017, ha fatto aumentare le morti per overdose del 9,7%: per la prima volta dopo 15 anni consecutivi di calo. Noi de Le Iene abbiamo lanciato l’allarme per primi anche per il nostro Paese tre anni fa, con il servizio che vedete qui sopra sulla “via dell’Est”, in particolare in Estonia. Stiamo parlando del Fentanyl, un oppiaceo utilizzato in medicina come antidolorifico che è diventato una potentissima e letale droga da sballo. La dose mortale? Due milligrammi appena, cioè un granello. Basta toccarlo o inalarlo: è così potente che le forze dell’ordine, quando effettuano i sequestri, indossano tute ermetiche e maschere.  “È molto poca, ma funziona, io la inietto”, dice a Marco Maisano un ragazzo incontrato in un parco in Estonia. L’effetto dura mezz’ora e c’è chi si fa la dose anche cinque o sei volte al giorno. Incontriamo poi Viktor, che il Fentanyl lo fuma: “Non è il massimo, però funziona. Non mi piace bucarmi perché mi vengono tutte le ferite”. Tutti trovano nel Fentanyl, un motivo per evadere anche dalle migliori realtà: “È molto potente e ti senti come un bimbo circondato da cose leggere. Se riuscissi a smettere, otterrei tutto quello che voglio per le mie capacità”, dice Viktor. Per lui, fidanzato, la droga viene anche prima dei rapporti sessuali: “Ti causa un’erezione molto debole. Non ci importa di fare sesso. Tra il Fentanyl e una bella donna non abbiamo dubbi”. Le stragi del Fentanyl non colpiscono solo gli strati più poveri ed emarginati della popolazione. La morte  del cantante Prince nel 2016 ne è la prova più clamorosa. Recentemente questa droga è tornato alla ribalta dei media, perché sarebbe stato responsabile della morte il 23 agosto scorso a New York del famoso chef italiano di Cipriani, Andrea Zamperoni. Se allarghiamo il discorso dell’allarme Fentanyl a livello globale, i dati dei decessi sono quelli di una guerra: 400mila morti negli ultimi 20 anni, con quasi 2 milioni di persone che ne sono diventate dipendenti. Da un lato c’è l’allarme dunque, tanto che il presidente Usa Donald Trump l’ha definita “un’emergenza nazionale” mentre un tribunale dell’Oklahoma ha condannato la Johnson & Johnson, produttrice storica di oppioidi, a pagare 572 milioni di dollari per aver sottovalutato i rischi e spinto i medici alle prescrizioni. Dall’altro, come in tutti i mercati del genere, c’è l’opportunità di business, enorme. Basti pensare che da 1 kg di polvere di fentanyl, che si paga attorno ai 10mila euro, è possibile ricavare un milione di pillole, vendute a 20 dollari l’una….Di Fentanyl parliamo in esclusiva con la Divisione analisi del I Reparto “Investigazioni Preventive” della Dia, la Direzione investigativa antimafia. “Le aree geografiche di maggiore consumo sono il Nord America (Canada e Stati Uniti) e il Nord Europa (Scandinavia e Repubbliche Baltiche). La diffusione è stata agevolata negli anni passati, in alcuni Paesi, da criteri di somministrazione pubblica troppo ‘leggeri’. In questo momento il traffico si sviluppa parallelamente al mercato legale, dove la si reperisce attraverso ricette rubate o falsificate, furti in strutture sanitarie e attraverso il web. Di solito il Fentanyl viene acquistato in piccolissime quantità”. Piccole quantità che però possono essere sfruttate dai “chimici” delle organizzazioni criminali. E se poi la sostanza viene ulteriormente sintetizzata, se ne possono ottenere altre, come per esempio il carfentanil, a sua volta 100 volte più potente del fentanyl. Una bomba inquietante, insomma. E come allora questo business può non far gola alle organizzazioni criminali, ‘ndrangheta calabrese in primis? Quegli stessi clan calabresi, soprattutto della zona della Locride e della costa tirrenica, che già detengono di fatto il monopolio del traffico internazionale della cocaina, avendo messo in piedi patti di ferro con i cartelli messicani e colombiani della droga. Un monopolio confermato a Iene.it dalla DIA: “La ’ndrangheta, oramai da circa venti anni, rappresenta uno dei principali player del traffico di cocaina avendo acquisito e poi consolidato, nel corso degli anni, grande affidabilità nei confronti dei principali produttori e trafficanti sud e centro americani. Un’affidabilità che è stata mantenuta nonostante le evoluzioni dello scenario in Colombia, dai cartelli alle formazioni paramilitari, e la globalizzazione dei mercati. Oltre al settore del traffico della cocaina, la mafia calabrese ha rivolto la propria attenzione anche alla produzione di marijuana facilitata dalle condizioni climatiche e geografiche di alcune zone della Calabria”. Accanto a questo business “tradizionali”, dicevamo, è in ascesa l’interesse dei clan calabresi per la nuova droga sintetica. È lo stesso procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a confermarlo, in un’intervista rilasciata qualche giorno fa a La Stampa: “I consumatori sono soprattutto giovani studenti universitari dei campus americani e a questa domanda sempre più alta la ’ndrangheta si rivolge perché non può permettersi di immaginare che chi chiede il Fentanyl si rivolga altrove”. Anche attraverso le consegne dal web il Fentanyl è già  nelle nostre strade. E ha iniziato la sua strage silenziosa. La prima vittima italiana è stata un 39enne di Milano, che aveva comprato la potente droga sul web. Sembrava una “normale” overdose, ma nel corpo non c’era traccia di eroina. Poi è stato scoperto un analogo del Fentanyl. Al momento girano 22 sostanze simili. Alcune di esse riconducono al famigerato boschetto della droga di Rogoredo (dove si sta vivendo una vera e propria emergenza anche in queste ore). Ma chi vuole sballarsi non si accontenta mai ed ecco allora che nascono i cocktail micidiali, tra cui quello del Fentanyl mischiato allo Xanax, un altro medicinale che crea dipendenza di cui vi abbiamo parlato qui su Iene.it mostrandovi quanto sia facile reperirlo in Italia senza ricetta medica. A confermare ulteriormente la diffusione del Fentanyl in Italia è anche il dato che emerge dal rapporto annuale 2019 della Dcsa, la Direzione centrale per i servizi antidroga del Ministero dell’Interno:  “Nel 2018 si è registrato un +37,31% nel sequestro di droghe sintetiche già confezionate in dosi, e la metà dei casi di morte per overdose è da attribuirsi agli oppiacei”. Il report lancia anche un preoccupante allarme: “È ipotizzabile che, a partire dai prossimi anni, il dispositivo di contrasto dovrà fare i conti con questo fenomeno e con le sue insidiose modalità di implementazione dell’offerta: ordini telematici e transazioni via web che utilizzano per recapitare lo stupefacente il vorticoso circuito delle spedizioni postali che, negli ultimi anni, grazie all’ecommerce, ha raggiunto numeri particolarmente elevati”. Insomma occhi apertissimi sul questo killer silenzioso, talmente diffuso che lo stesso prossimo film di Carlo Verdone, nelle sale a febbraio, “Si vive una volta sola” ne parlerà.

Effetto Fentanyl. Sono migliaia i morti causati da questa nuova droga che sta arrivando anche in Italia. Medici e forze dell'ordine lanciano l'allarme. Giorgio Sturlese Tosi il 12 settembre 2019 su Panorama. La telefonata dal Canada era urgente. Il pacco era già in viaggio. A verbali e scartoffie burocratiche avrebbero pensato in seguito. Per prima cosa occorreva intercettare quella busta in transito all’aeroporto di Malpensa. Lo scorso febbraio gli uomini della Direzione centrale dei servizi antidroga, del Nas dei carabinieri e della polizia aeroportuale sono entrati in azione a tempo di record. Nel deposito dello scalo varesino hanno sequestrato la busta, si sono finti corrieri e l’hanno recapitata a destinazione, a casa di un 53enne pregiudicato di Alba. Le manette sono scattate mentre l’uomo, sulla porta, stava firmando la ricevuta di avvenuta consegna. Il pacchetto conteneva poco più di mezzo grammo di una sostanza, una nuova droga, che avrebbe potuto provocare decine di morti. Quello di Alba è stato il primo sequestro in Italia di un derivato del fentanyl, l’oppioide sintetico che negli Stati Uniti ha già provocato decine di migliaia di morti tra i tossicodipendenti. Altri sequestri sono stati eseguiti dai carabinieri nel 2019: la droga proveniva dal Canada e dalla Polonia. Ma gli investigatori sono preoccupati per l’interesse al mercato illegale degli oppioidi delle famiglie ’ndranghetiste canadesi, in stretto contatto con quelle italiane. Il fentanyl e i suoi derivati sono potenti antidolorifici di sintesi chimica. Oppioidi artificiali utilizzati in medicina per le terapie del dolore nei pazienti oncologici terminali o come anestetici in operazioni chirurgiche. Potenti fino a cento volte più della morfina e mille volte più dell’eroina, hanno invaso il mercato illegale del Nord America diventando un’emergenza nazionale. Il presidente Donald Trump, lo scorso 23 agosto, ha scritto su Twitter che il fentanyl proveniente dalla Cina (il principale produttore mondiale della sostanza) causa negli Usa 100 mila morti all’anno. Tra loro il cantante Prince, l’attore Philip Seymour Hoffman e, il 18 agosto scorso, il cuoco italiano di Cipriani Dolci a New York, Andrea Zamperoni. Negli Usa, dove l’approccio alla terapia del dolore prevede l’impiego massiccio di oppioidi (in Europa invece ricorriamo agli antinfiammatori), migliaia di pazienti si sono trasformati in tossicodipendenti. Il Tribunale dell’Oklahoma ha condannato Johnson & Johnson al pagamento di 572 milioni di dollari. Un precedente che potrebbe influenzare le altre 2 mila cause intentate contro i colossi farmaceutici e che, secondo stime americane, potrebbe costare a Big Pharma 100 miliardi di dollari in risarcimenti. Il «paziente zero», in Italia, è stato un 39enne di Desenzano, morto nel 2017. C’è voluto oltre un anno per accertare la presenza del fentanyl nel suo sangue: le analisi sono costose e i laboratori attrezzati in Italia solo una trentina. L’ultima relazione al Parlamento della Dcsa cita solo due morti accertate per overdose da fentanyl. Ma le statistiche non dicono la verità. La dottoressa Simona Pichini, ricercatore responsabile del laboratorio del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto Superiore di Sanità ne è certa: «Esiste un mercato illegale di almeno 30 derivati del fentanyl, sintetizzati nei laboratori clandestini da “drug designer” che modificano continuamente la molecola della sostanza. L’istituto invia gli aggiornamenti che riesce a scoprire a forze dell’ordine, pronto soccorsi, comunità terapeutiche e agli istituti di medicina legale ma in Italia mancano i dati sulla diffusione reale di queste sostanze e una conoscenza del fenomeno». Panorama ha interpellato esponenti delle forze di polizia che lavorano da anni in contesti di degrado e spaccio in alcune città italiane. Tutti hanno dichiarato, in effetti, di non aver mai sequestrato fentanyl né di aver mai chiesto ai rispettivi laboratori di cercarlo tra le sostanze sequestrate. Nemmeno in caso di overdose. Il fentanyl, insomma, già circola nelle nostre piazze, come dimostrano i sequestri più recenti, ma nessuno lo cerca. Spesso mixato all’eroina, è molto più potente e costa meno. Pochi granelli bastano a provocare un’overdose: la paralisi dei muscoli respiratori e collasso cardiaco. Oppioidi come il fentanyl non sono poi così complicati da reperire. Lo ha dimostrato un’operazione dei carabinieri di Cosenza dello scorso anno. La segnalazione era partita da una madre che aveva scoperto la dipendenza da antidolorifici del figlio. Un’organizzazione criminale utilizzava ricettari rubati negli ospedali o in studi medici per acquistare in farmacia cerotti antidolorifici a base di fentanyl, che venivano poi spacciati, a frazioni o interi, al prezzo di 50 euro. Sempre nel Cosentino, già nel 2016, i carabinieri avevano denunciato sei medici di base che prescrivevano a clienti tossicodipendenti farmaci contro il dolore a base di fentanyl per malati terminali di cancro, tra l’altro a carico del Sistema sanitario nazionale, pur essendo a conoscenza che quelle compresse venivano assunte come succedanee dell’eroina. Il maggiore canale di approvvigionamento dei derivati del fentanyl, però, è il dark web, la parte oscura di internet. E proprio sul mercato illegale della rete si concentrano gli sforzi della Direzione centrale per i servizi antidroga, del Dipartimento della pubblica sicurezza. Il colonnello della Guardia di finanza Alessandro Cavalli, a capo della divisione che si occupa di sostanze psicoattive e droghe sintetiche, parla di una realtà sfuggevole ai controlli e ammette che in Italia non ne abbiamo una percezione reale. Anche perché, al momento, il traffico internazionale di queste sostanze non è gestito dalle vecchie mafie, ancorate al monopolio delle droghe tradizionali, ma da associazioni criminali fluide che collaborano tra loro, dai chimici indiani alla mafia cinese ai cartelli messicani. «Noi però non siamo impreparati» afferma Cavalli. «Addestriamo il personale a trattare farmaci pericolosi come i derivati del fentanyl, abbiamo una sezione dedicata alle investigazioni sul web che collabora con i Paesi stranieri e abbiamo varato un progetto con corrieri e spedizionieri privati. In Italia, ogni mese, transitano 2 milioni di pacchi, impossibile controllarli tutti. Col nostro protocollo però possiamo intercettare quelli sospetti e sottoporli a esame con uno scanner o ispezionarlo con gli sniffer, piccole fibre ottiche che sbirciano il contenuto senza alterare la confezione. Per fare tutto questo puntiamo anche sulla collaborazione del settore privato delle spedizioni». Il problema è anche culturale. Per Pichini il fenomeno è sottovalutato dalle autorità giudiziarie: «Le procure dovrebbero essere più attente e richiedere esami dettagliati in laboratori attrezzati, che sono solo una trentina in tutta Italia. Invece in genere l’autopsia per una morte da overdose si accontenta di concludere che è stata provocata da eroina». Che però potrebbe essere stata confezionata con altri oppioidi più potenti. «In Italia non c’è ancora un’emergenza» conclude la dottoressa «ma le notizi che arrivano dall’estero, Europa compresa, sono allarmanti».

Venezia 76, Saviano: "ZeroZeroZero non è una serie sul narcotraffico ma sul potere". Chiara Ugolini il 05 settembre 2019 su La Repubblica. Lo scrittore alla Mostra per presentare due episodi del progetto tv tratto dal suo libro-inchiesta diretto da Stefano Sollima, già regista di "Gomorra - La serie". "Per capire di cosa stiamo parlando occorre fare un breve riassunto. La cocaina la compri in Colombia a 2000 dollari al chilo, in Messico arriva a costare 15mila, negli Stati Uniti 27mila, in Italia 54mila, in Inghilterra 70mila. Con 10mila dollari di cocaina pura diventi milionario, da un chilo ne ottieni 3 o persino 4, sono 3000 dosi con un ricavo di 200mila euro oppure di più se tagliata col calcio per i cani, come avviene in certe periferie. Stiamo parlando dell'unica materia comparabile al petrolio. Se oggi io le do un sacchetto di coca, prima di uscire dal palazzo del cinema l'ha già venduta, se le do un sacchetto di diamanti, anche se sono veri non riesce a disfarsene. Con il mio libro e con questa serie ci interessava fare non un racconto sul narcotraffico ma sul potere e sull'economia del nostro tempo". Roberto Saviano snocciola cifre e passaggi che stanno dietro all'immensa globalizzazione della cocaina, quando incontra la stampa in occasione della presentazione a Venezia fuori concorso di ZeroZeroZero, la nuova serie tv firmata da Stefano Sollima e in onda su Sky nel 2020. La serie, tratta dal libro di Saviano con la sceneggiatura di Leonardo Fasoli e Maurizio Katz e un cast internazionale che comprende attori, provenienti da tre continenti che parlano sei lingue diverse come Andrea Riseborough, Dane DeHaam, Gabriel Byrne, Harold Torres, Giuseppe De Domenico, Adriano Chiaramida, Francesco Colella e Tcheky Karyo, segue il percorso di un carico di cocaina in tutte le tappe del suo viaggio, toccando realtà e personaggi molto diversi, la famiglia di boss calabresi che l'aspetta in Italia, gli armatori americani che fanno da intermediari con i trafficanti messicani, la polizia. Gli sceneggiatori Fasoli e Katz con lo showrunner Stefano Sollima hanno realizzato "un grosso lavoro di ricerca, due anni di investigazione, per capire come funzionavano tutti i meccanismi. Il libro di Roberto è stato un'immensa fonte di documenti, da lì siamo partiti per andare a toccare con mano, annusare, vedere questo processo in Africa, in Usa, in Messico - spiega Fasoli - abbiamo intervistato giornalisti, forze dell'ordine, portuali prima di immaginare i personaggi che avrebbero incarnato la nostra storia". "Siamo stati anche in Senegal - aggiunge Katz -  abbiamo deciso di raccontare come ogni personaggio, dalla famiglia americana a quella calabrese ai soldati messicani, alla fine si senta isolato e completamente perso in un mondo di cocaina". "Per noi era interessante affrontare il tema del narcotraffico che abbiamo già raccontato - dice Sollima, regista di Gomorra e di Soldado -  da un'angolazione nuova, che è quella del mondo globale colpito dal traffico di coca indipendentemente se le persone ne fanno uso oppure no. In realtà anche se non consumi cocaina la tua vita è continuamente toccata dal traffico: quello che indossi, la banca dove hai il conto corrente tutto può essere coinvolto dal fenomeno". È quello che gli sceneggiatori chiamano "effetto farfalla". "Perché la cocaina è la regina in assoluto? Ci si riempie di coca perché la vita è una merda - dice Saviano - la vita in questa fase storica è pesantissima: sei sempre brutto, povero, grasso. Chi è che consuma droga? Gli operai edili, i camionisti, i tassisti. I governi stanno ignorando tutto questo. La legalizzazione potrebbe interrompere la massa di guadagni infiniti ma cambierebbe l'economia, chiuderebbe i pozzi di petrolio delle organizzazioni criminali che attraversano però il mondo legale. D'altronde è stato chiarito che la crisi economica del 2014 è stata superata grazie alla liquidità del narcotraffico". 

Usa, dove la marijuana è legale crollano le vittime per overdose. Il Dubbio il 9 Agosto 2019. Meno 20% di decessi nell’ultimo anno per l’uso di oppiacei come il fentanyl e la stessa eroina che solo nel 2017 hanno ucciso oltre 47mila persone. Laddove negli Stati Uniti la cannabis ricreativa è legale si è registrata almeno una riduzione del 20% dei decessi per overdose da oppioidi. Lo dice uno studio pubblicato ieri. Gli oppiacei hanno ucciso 47.600 persone nel 2017 negli Stati Uniti, secondo i Centers for Disease Control ( CDC). Anno in cui l’epidemia fu dichiarata «emergenza sanitaria pubblica» dal presidente Donald Trump. La marijuana, legale in 34 Stati e a Washington per uso terapeutico, è ricreativa in dieci di questi Stati, così come nella capitale degli Stati Uniti ( e in gennaio in Illinois). Confrontando i tassi di decessi per overdose prima e dopo la legalizzazione e tra gli Stati nelle diverse fasi del processo di legalizzazione, gli autori di questo studio pubblicato sulla rivista Economic Inquiry hanno determinato un effetto causale «molto forte» nel calo di mortalità correlata agli oppiacei. Questo calo è tra il 20 e il 35%, secondo la loro analisi econometrica, con un effetto pronunciato per i decessi causati dal consumo di oppiacei come il fentanil, la droga più letale negli Stati Uniti. Tutti gli Stati sono colpiti dall’ascesa dell’epidemia di oppiacei, dice Nathan Chan, economista dell’Università di Amherst e autore principale dello studio. «E’ solo che quegli Stati che hanno legalizzato non sono influenzati negativamente come quelli proibizionisti».

Tasse alte, depositi pieni (e contrabbando florido) Il flop dell’«erba» legale. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Depositi zeppi di foglie di cannabis raccolte dai campi e invendute. Un mercato legale che non cresce come previsto mentre quello clandestino continua a prosperare. L’allarme marijuana parte dal Canada, il primo Paese che, un anno fa, ha legalizzato coltivazione, trasformazione e consumo di questa sostanza tanto a livello federale quanto nei singoli Stati. Ma le cose non vanno meglio negli Stati Uniti dove il consumo di marijuana è ormai legale in 11 Stati, dalla California alla capitale, Washington, mentre la sua assunzione come terapia medica è autorizzato in gran parte del Paese (33 Stati): il business del futuro nel quale centinaia di imprese avevano investito ingenti capitali si sta rivelando un flop. Nell’ultimo anno i maggiori gruppi che avevano investito in questo settore hanno perso i due terzi del loro valore. La battuta è facile: 35 miliardi di dollari andati in fumo. Eppure l’accettazione sociale della marijuana cresce, mentre le barriere legali si riducono: in Canada sono cadute del tutto mentre negli Usa commercio e consumo restano un reato a livello federale. Ma in Congresso la Camera ha appena votato (in commissione e presto andrà in aula) la legalizzazione. Al Senato, dove c’è una maggioranza repubblicana e il leader, Mitch McConnell, si oppone, alcuni parlamentari conservatori sembrano disposti a votare, su questo, coi democratici. Del resto i sondaggi (da Gallup al Pew) sono concordi nell’indicare che oltre i due terzi degli americani sono favorevoli alla liberalizzazione. E, tra questi, anche una maggioranza (55 per cento) di elettori repubblicani. Perché, allora, questo quadro fallimentare del mercato? Gli ottimisti sostengono che ci vuole tempo per trovare il giusto equilibrio: in America gli entusiasmi iniziali hanno prodotto una bolla di investimenti eccessivi che ora sta scoppiando. In Canada, che ha immensi territori agricoli e una popolazione molto limitata, la coltivazione di cannabis è cresciuta esponenzialmente mentre le strutture di trasformazione e distribuzione sono rimaste asfittiche: metà dei 560 negozi autorizzati sono in una provincia poco popolata, l’Alberta, mentre Quebec e Ontario, dove vivono due terzi dei canadesi, hanno appena 45 negozi. Ma non è solo un problema di speculazioni finanziarie o di ritardi amministrativi nelle concessioni. Tanto in Canada quanto negli Stati Uniti il principale fallimento riguarda quella che era stata la principale motivazione alla base della campagna per la legalizzazione: eliminare il mercato nero. Spazzare via un intero settore dell’economia criminale creando al tempo stesso un nuovo settore economico legale che produce lavoro ed entrate fiscali. Non è andata così: tanto in Canada quanto negli Usa la marijuana illegale continua a prevalere su quella che transita per i canali regolari. In sostanza il racket della droga si è dimostrato abile e reattivo nell’abbassare i costi del suo prodotto importato illegalmente, mentre la decriminalizzazione ha ridotto i rischi (una cosa è essere accusati di contrabbando ben altra essere incriminati per spaccio di sostanze potenzialmente mortali). Oggi molti gruppi criminali creano centrali direttamente negli Usa e in Canada anziché appoggiarsi su strutture intermedie in Messico. Gli Stati che hanno legalizzato la cannabis, poi, hanno deciso di applicare un’elevata tassazione come per altre attività «viziose», dal fumo al gioco d’azzardo. Risultato: negozi costretti a pagare molto per la loro licenza e che vendono un prodotto legale altamente tassato devono imporre prezzi che a volte sono addirittura un multiplo di quelli del mercato nero. Spiegano gli stessi cittadini intervistati dai sondaggisti: «Abbiamo detto sì alla legalizzazione della marijuana, ma non abbiamo detto da chi vogliamo comprarla e qual è un prezzo accettabile».

·         La nuova vita dei beni confiscati alla mafia tra business, propaganda e fondi Ue.

Trapani, arrestato amministratore giudiziario. “Si è appropriato di soldi sequestrati ai boss”. Ai domiciliari il commercialista palermitano Lipani. In cella il figlio del boss Agate e la moglie, avrebbero continuato a gestire parte dei beni di famiglia. Salvo Palazzolo il 14 ottobre 2019 su La Repubblica. Maurizio Lipani è considerato uno dei più validi amministratori giudiziari di beni sequestrati e confiscati ai boss, ma stamattina gli investigatori della Dia di Trapani gli hanno notificato un’ordinanza che lo manda agli arresti domiciliari, con una contestazione pesante mossa dalla procura diretta da Francesco Lo Voi. Il commercialista palermitano è accusato di essersi intascato soldi provenienti da due aziende ittiche sequestrate al boss trapanese Mariano Agate, uno dei fedelissimi di Totò Riina. Circa 355 mila euro. Due le ipotesi di reato contestate dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Alessia Sinatra, Gianluca De Leo e Francesca Dessì: peculato e autoriciclaggio. E in carcere sono finiti anche il figlio del capomafia deceduto nel 2013, Epifanio Agate e la moglie Rachele Francaviglia, avrebbero continuato a gestire parte del patrimonio, costituito da alcuni immobili e società. Insomma, l’ennesimo pasticcio attorno ai beni sequestrati e confiscati. I primi, sotto la gestione delle sezioni Misure di prevenzione dei tribunali. Gli altri, dell’Agenzia beni confiscati. Sono gli organismi che dovrebbero vigilare sull’operato degli amministratori giudiziari nominati. Dopo lo scandalo Saguto, che ha portato alla radiazione dalla magistratura della giudice palermitana, nomine e procedure sembravano passate attraverso criteri più rigidi. Ma le indagini del sezione Dia di Trapani, guidata dal tenente colonnello Rocco Lopane, hanno svelato un giro di soldi che non doveva affatto esserci. Probabilmente, è il sospetto di chi indaga, non solo attorno al patrimonio sequestrato agli Agate, ma anche in altre amministrazioni giudiziarie che Lipari gestiva a Palermo e a Reggio Calabria. Intanto, il gip ha disposto nei confronti del professionista un sequestro di beni per 350 mila euro, l'equivalente di quanto sottratto alle casse dello Stato.

La nuova vita dei beni confiscati alla camorra: ecco come si possono spendere i fondi Ue. Sara Ficocelli il 3 ottobre 2019 su La Repubblica. A Casal Di Principe, su 22 beni confiscati alla criminalità organizzata, 17 sono stati valorizzati grazie a finanziamenti pubblici per 7,8 milioni di euro, di cui 4,5 provenienti da fondi europei. Abbiamo visitato la cittadina campana in occasione della quinta edizione della Summer School Ucsi. Uu via vai di giovani provenienti da tutt’Europa tra le pareti che hanno assistito a crimini efferati. Fondi europei al posto dei capitali sporchi della criminalità organizzata. Le ville della camorra trasformate in scuole, ostelli, luoghi di cura. Succede a Casal di Principe, dove – su 22 beni confiscati alla criminalità organizzata - 17 sono stati valorizzati grazie a finanziamenti pubblici per 7,8 milioni di euro, di cui 4,5 provenienti da fondi europei. Perché la mafia si combatte, oltre e dopo le inchieste giudiziarie, anche sullo stesso terreno su cui prospera: l’economia. Nella provincia di Caserta, stando agli ultimi rapporti della Camera di Commercio, l'economia criminale vale il 30% dell'economia ufficiale, Il fenomeno non è solo locale, se è vero che la criminalità organizzata in Italia fa registrare circa 150 miliardi di euro di ricavi e ha utili per oltre 100 miliardi (Fonte: Sole24Ore). Per capire cosa stanno facendo in questo senso l'Italia e l'Europa siamo andati a Casal Di Principe in occasione della quinta edizione della Summer School Ucsi, la scuola di giornalismo investigativo dedicata nel 2019 al fenomeno delle economie criminali e all'evoluzione delle organizzazioni mafiose. Nella cornice della cosiddetta "Villa Scarface", bene confiscato al fratello del capoclan dei Casalesi, Walter Schiavone, attualmente in gestione all'ASL Caserta che all'interno ha realizzato un Centro diurno per la salute mentale, alcuni dei protagonisti della lotta alla mafia in Italia, dal sindaco di Casal di Principe Renato Natale all'ex magistrato e politico Pietro Grasso, dal presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, al comandante della Dia, il generale Giuseppe Governale, hanno spiegato quanto fare sistema e valorizzare i beni confiscati abbia rappresentato negli ultimi anni una strategia vincente per lo Stato e i cittadini, e quanto sia importante tenere in vita le imprese coinvolte anche per tutelare persone che altrimenti perderebbero il lavoro, senza avere nessuna colpa, a seguito della confisca. E' questo il solco all'interno del quale si muove da anni l'Unione Europea, impegnata per la riqualificazione dei beni confiscati a mafia e camorra in Italia in base a una strategia che punta a risollevare, in questo modo, tutto il Mezzogiorno. Dei beni confiscati che si trovano a Casal di Principe, cinque vengono amministrati dal comune, mentre i restanti 17 sono affidati al Consorzio Agrorinasce Agenzia per l'innovazione, lo sviluppo e la sicurezza del territorio. Agrorinasce, Agenzia per l'innovazione, lo sviluppo e la sicurezza del territorio, è una società consortile con capitale interamente pubblico costituita da 6 Comuni (Casal di Principe, Casapesenna, S. Cipriano d'Aversa, Villa Literno, S. Marcellino e S. Maria La Fossa) e nata nel 1998 per rafforzare la legalità in un'area ad alta densità criminale, nella cornice di un'ampia strategia nella lotta alle mafie messa in campo dal Ministero dell'Interno: conta 157 beni confiscati alla camorra interessati da azioni di recupero ad uso sociale e pubblico; 69 immobili; 300 ettari di terreno agricolo; circa 30 realtà che operano nel terzo settore; oltre 200 addetti impiegati in numerosi settori agricoli, sociali e produttivi. "La nostra realtà - dice Giovanni Allucci, amministratore di Agrorinasce - nasce grazie a uomini dello Stato che avevano sposato la via della prevenzione accanto a quella della repressione, come l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e il prefetto Luigi De Sena e magistrati come Franco Roberti. Siamo stati i primi ad aprire ai giornalisti i beni confiscati alla camorra, proprio con l'obiettivo di mostrare a tutti cosa volesse dire occuparsi di questo tipo di beni. La villa in cui si tiene la Summer School è stata sequestrata nel '94, confiscata nel '98 e solo nel marzo 2019, dopo oltre 20 anni, è rinata come Centro di salute mentale. I processi di riqualificazione vanno snelliti e velocizzati, bisogna collaborare ed agire in maniera sinergica, altrimenti diventa molto difficile restituire alla società i beni confiscati alla malavita". "Grazie all'impegno del Consorzio, oggi Casal di Principe rappresenta un modello nazionale per il riuso dei beni liberati dalle mafie. Se partiamo da questo territorio e da questi risultati, possiamo contrastare le mafie anche nel resto del Paese", spiega il direttore della Summer School Ucsi, Luigi Ferraiuolo. Tra i beni gestiti da Agrorinasce, una realtà interessante recuperata con i fondi europei c'è l'ostello Il Paguro, un centro di ospitalità e aggregazione giovanile che sorge a Casapesenna (Caserta) in un bene confiscato alla camorra e recuperato con fondi europei, un tempo appartenuto al boss Alfredo Zara, affiliato al clan dei casalesi. Qui oggi, grazie al lavoro dell'associazione Giosef, giovani provenienti da tutti i Paesi Ue possono convivere, condividere e cooperare, e impegnarsi in percorsi di cittadinanza europea che vanno dall'attività culturale, al volontariato, alla formazione professionale. Le pareti che per anni hanno assistito a crimini di ogni tipo oggi ospitano il primo ostello ideato e realizzato per ospitare scambi europei. Anche il Centro di educazione e documentazione ambientale Pio La Torre, recuperato sempre grazie ai fondi europei (la sigla è PON Sicurezza), è una realtà nata sulle ceneri della camorra, in una masseria confiscata a Francesco Schiavone Sandokan a S. Maria La Fossa (CE), località Ferrandelle. Il Centro è un punto di riferimento e di incontro per insegnanti, studenti e operatori ambientali e organizza - mettendo a disposizione materiale e tecnologia di ogni tipo - attività rivolte ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, agli studenti universitari, agli studiosi e a tutte le persone interessate alle scienze naturali. Il bene forse più rappresentativo da un punto di vista simbolico è forse proprio "Villa Scarface", oggi Centro sportivo riabilitativo per disabili, gestito dalla ASL di Caserta, dove quest'anno è stata organizzata la Summer School. Nel 2003 è stata data in concessione al Consorzio Agrorinasce e il progetto, realizzato in collaborazione con l'Università "L. Vanvitelli" e l’amministrazione locale,  si è concluso nel dicembre 2018 grazie a un finanziamento europeo di circa 1,7 milioni. Stando ai dati dell'Agenzia per la coesione territoriale, disponibili sul portale OpenCoesione, grazie al contributo delle politiche di coesione 2007-2013, sul fronte del recupero dei beni confiscati sono stati realizzati oltre 200 interventi per un costo complessivo che supera i 130 milioni di euro: progetti che vanno dalla ristrutturazione e riqualificazione di immobili confiscati fino al supporto istituzionale nella loro gestione, passando per azioni che riguardano l'educazione alla legalità e l'inclusione sociale, nelle regioni incluse nell’obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia). Nell'ambito del ciclo di programmazione 2014-2020 il budget specifico ammonta a circa 168 milioni ed è finanziato con risorse a carico del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e del Fondo Sociale Europeo (FSE). Gli interventi rientrano nella cornice della Strategia nazionale di valorizzazione dei beni confiscati attraverso le politiche di coesione che è entrata in piena operatività a marzo 2019. In Campania la politica di coesione, europea e nazionale, ha finanziato nel ciclo 2007-2013 ben 38 progetti per un costo totale di circa 35 milioni di euro. Nel ciclo 2014-2020, le risorse europee previste per la valorizzazione dei beni confiscati superano i 43 milioni. Il progetto è realizzato con il contributo della Commissione Europea. Dei contenuti editoriali sono ideatori e responsabili gli autori degli articoli. La Commissione non può essere ritenuta responsabile per qualsivoglia uso fatto delle informazioni e opinioni riportate.

·         La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

Don Ciotti, una vita (sotto scorta) contro le mafie e la droga. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Gian Paolo Orbezzano su Corriere.it. C’è la Torino buona dei santi operai (Bosco, Cafasso, Allamano...) contro diavoletti e spiritelli utili per sedute medianiche acchiappagonzi e finte messe nere, del miracoloso Cottolengo contro la pubblicizzata beneficenza pelosa dei riccastri, del Sermig pro migranti contro il razzismo residuo (questi terroni...) o rinascente. E del Gruppo Abele (dal 1965, primo nome Gioventù Impegnata) con oltre cinquanta attività diciamo di servizio, ergo contro gli ipocriti dell’assistenza, del bla-bla-bla del dire tanto senza fare nulla. Abele come quel buono che si sa, con il cattivo Caino che diceva «sono forse io il custode di mio fratello?», fondatore ancorché non ancora «don» Luigi Ciotti (Pieve di Cadore, 10 settembre 1945), famiglia operaia, all’inizio degli Anni 50 emigrata a Torino per lavoro, prima residenza il capannone del cantiere dove il padre di Luigi lavorava come muratore. Devo passare alla prima persona, spero un bel po’ singolare. Il giovane giornalista sportivo che incontra il giovane seminarista, e nasce un’amicizia forte che sta per compiere il mezzo secolo. Il giornalista che ha la prima figlia e la seconda e ha don Ciotti cioè l’amico Luigi o Gigi che gli manda in casa a fare da perfette baby sitter le ragazze strappate alla strada, alla prostituzione. Il battesimo, padrino don Ciotti, del terzo figlio del giornalista officiato in un capannone industriale fra giovani che hanno lasciato la droga, cantano, brindano con vino rosso delle vigne di Bersellini allenatore del Torino. Forse è per tutto questo che posso fare a don Luigi Ciotti, adesso più noto in Italia come fondatore di Libera (1995) contro le mafie, un’intervista magari un po’ diversa da quella quasi rituale del giornalista arrembante con e se del caso contro il personaggio celebre.

La prima domanda è preoccupata: ti voglio un bene pieno di riconoscenza e mi preoccupa la tua salute. Che ne è delle minacce di morte che accompagnano il tuo lavoro per Libera? Ti so scortatissimo, e una volta mi mettesti a parte di un piano circostanziato e terribile...

«Sono tenuto a non rendere pubblico questo risvolto del mio impegno. Posso dire che nel corso degli anni c’è stata una escalation grave ed allarmante, culminata con l’ordine di uccidermi emesso dal boss di Cosa Nostra Totò Riina, intercettato in carcere. Parlo di escalation, perché già negli anni Settanta il Gruppo Abele, impegnato anche contro le mafie della droga, riceveva minacce».

Accetteresti una carica politica?

«Me l’hanno offerta alcune volte: mai avuto dubbi a rifiutare. Politica è per un cristiano mettersi al servizio del bene comune, diretta conseguenza del servizio a Dio. Paolo VI definì la politica come “la più alta ed esigente forma di carità”. Per questo nel mio piccolo ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra, riconoscendo il volto di Cristo nei tanti “poveri cristi” incontrati nel mio cammino. Papa Francesco ha detto che la religione non esiste solo per preparare le anime al Cielo».

Cosa pensi delle Madonne e dei rosari di Salvini?

«Una bestemmia, un sacrilegio, un uso della religione offensivo, totalmente inaccettabile. Chi si professa credente e poi respinge i “poveri cristi” chiudendo porti e costruendo muri, calpesta lo spirito e l’essenza del Vangelo. Oltre che della Costituzione».

Tu, come Sandro Ciotti, celebre radiocronista, siete del Cadore: per nascita tu, per avi lui. Là c’era nel Medioevo una compagna di mercenari privi di anagrafe, per chiamarli dicevano «ehi tu» che in dialetto veneto fa «ciò ti». Da qui compagnia dei Ciò-ti, dei Ciotti, e il vostro cognome. Una premonizione? La vocazione religiosa è una chiamata...

«Vocazione più che scegliere è essere scelti, strumenti di un disegno nel quale riconosciamo la nostra essenza. La mia la comprese il cardinale Pellegrino che, facendomi sacerdote, mi affidò come parrocchia la strada, dove Terra e Cielo spesso s’incontrano e si abbracciano».

Abbiamo un amico comune, Gianfranco Caselli, grande magistrato. Tu blando tifoso juventino assisteresti a un derby strizzato fra noi due supergranata?

«Ero ragazzo quando, inizio anni Sessanta, ho messo piede in uno stadio. Poche volte e stop. Penso che lo sport tutto e il calcio in particolare dovrebbero essere ripensati alla base, in funzione del loro valore sociale e del loro enorme potenziale educativo. Invece troppo spesso gli stadi diventano luoghi non di sport ma di insulti, di aggressione e persino d’infiltrazione mafiosa».

Liberalizzazione delle droghe leggere. A che punto siamo?

«È un tema delicato che non ammette semplificazioni. Occorre porsi il problema della domanda, non solo quello dell’offerta. Senza contare che le droghe sono già di fatto liberalizzate: il mercato è “affare” delle mafie, in concorso o lotta fra loro, secondo appunto logiche di mercato. Bisogna puntare su educazione, cultura, lavoro. Il problema della droga è quello di una società frantumata, diseguale, che deruba il futuro delle persone, ridotte a strumenti di profitto. E c’è poi una droga di cui nessuno parla, ma che produce effetti non meno devastanti: la droga del potere».

Te ne offro una dose teorica: hai a disposizione un atto di potere, e cosa fai?

«Niente. Non credo nel potere e dunque meno che mai nel potere assoluto. Credo nel costruire le cose insieme, nel noi. Bisogna liberarsi dall’io, che nel potere trova uno strumento di affermazione e di distruzione, ponendosi al di fuori ed al di sopra della vita. La vita non è in funzione dell’io, ma l’io della vita».

Guido Ceronetti scriveva che i torinesi, e tu ormai lo sei, fanno cose anche buone ma a condizione che non si sappia, per paura, nobile ma comoda, di dare disturbo. Io sono amico di Giampiero Boniperti, gloria juventina: lo dicono avaro, è generosissimo, guai se lo si sa.

«Si può vivere la propria ricchezza come un mezzo e non un fine. Come uno strumento per limitare diseguaglianze e ingiustizie sociali. Insomma è possibile non avere problemi economici ed essere generosi. Come Giampiero Boniperti».

Per non finire col calcio, come spesso a Torino accade: don Ciotti sa che io so che tanti anni fa una malattia era planata su di lui, eravamo preoccupati, lui ringrazia i medici, ma io dico che chi crede ai miracoli è autorizzato a pensarci su. D’altronde è un miracolo Libera nel Paese della supermafia, è un miracolo ormai «lungo» il Gruppo Abele, che è case, comunità, servizi di accoglienza, società editrice (due riviste, tanti libri), progetti in Africa e una sede in una vecchia fabbrica ristrutturata offerta da Gianni Agnelli, che apprezzò assai la vicinanza di don Ciotti al suo povero figlio suicida Edoardo, «fragile e profondo» secondo il sacerdote.

Libera, da gestione beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio". Nando Dalla Chiesa: "Non è vero". Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su Il Fatto Quotidiano. L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia.

Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica.

Gli uomini d’oro – Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss.

Una holding da 5 milioni – In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca. “Non so a che titolo Maresca abbia detto queste cose: holding dell’antimafia? Non esiste. Da anni si dice che l’antimafia si spacca ma invece il movimento antimafia scoppia di salute. Anche il dato che Libera occupi militarmente uno spazio in monopolio non corrisponde al vero”, dice Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera. “Si fa un gran parlare di finanziamenti che in certi casi sono davvero ridicoli, si parla di grandi numeri ma quanti dipendenti fissi ha davvero Libera?- continua il sociologo –  La verità è che mentre il movimento antimafia continua  a crescere nelle scuole è scoppiata questa "moda" di sparare sul mondo dell’antimafia, su Libera negli ultimi tempi, un copione già ampiamente visto negli anni ’80, purtroppo”.

L’Antimafia indaga sull’antimafia – “Libera per la gestione dei beni confiscati non riceve contributi pubblici. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”, ha invece spiegato lo stesso Don Ciotti alla commissione Antimafia. Il nodo fondamentale, manco a dirlo, è rappresentato dai beni confiscati a Cosa nostra, quel tesoro da trenta miliardi che Libera, in effetti, non gestisce direttamente (se non in qualche caso): è un fatto, però, che una grossa fetta della ricchezza sottratta ai boss mafiosi è assegnata a cooperative e associazioni che fanno tutte parte della galassia di don Ciotti. E sono le stesse associazioni e coop che quindi vincono i bandi, presentano progetti e ricevono finanziamenti per gestire quei beni. L’ultimo esempio? Il Pon Sicurezza da 1,4 milioni di euro per migliorare la gestione dei beni vinto dal Consorzio Sviluppo e legalità, che raggruppa alcune cooperative antimafia della provincia di Palermo. È a questo che riferiva Maresca nel suo j’accuse? E non sarebbe stato a questo punto il caso di sentire anche il pm a Palazzo San Macuto? Da dicembre, infatti, i parlamentari dell’Antimafia sono impegnati in un’indagine quasi paradossale: approfondire limiti e contraddizioni del vasto insieme che negli ultimi anni si è auto posizionato in prima fila nella lotta per la legalità. Come dire che se il 2015 passerà alla storia come l’annus horribilis dell’antimafia il 2016 potrebbe essere invece l’anno zero di quello stesso mondo che negli ultimi dodici mesi è finito divorato da indagini, veleni e polemiche al vetriolo.

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. L’Inkiesta il 13 maggio 2016. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici. I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia».

Campi da calcetto per combattere le mafie. Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti.

La gestione “allegra” dei soldi. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».

Beni confiscati, gioie e dolori. L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia.

L’antimafia della mafia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

·         Il Business delle costituzioni di parte civile. Sicilia: l'associazione dei furbetti dell'anti mafia.

Matteo Salvini e la lotta alla mafia: tante parole, ma poi danneggia le vittime. Il ministero dell'Interno emana una circolare che sconfessa la legge che fino ad oggi prevedeva la liquidazione diretta agli avvocati. Così le vittime vengono lasciate sole, senza alcun sostegno legale. Un disincentivo che porta a non costituirsi parte civile. Lirio Abbate il 26 agosto 2019 su L'Espresso. Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ha parlato fino adesso di lotta alla mafia prendendo come esempi solo la confisca di beni ai mafiosi che sono stati effettuati da magistrati e investigatori applicando leggi del passato e misure di prevenzioni pensate prima ancora che il leader della Lega arrivasse al Viminale. Lui ha raccolto i frutti di questa grande macchina istituzionale che ogni giorno è impegnata a contrastare la criminalità organizzata applicando leggi e norme. Le parole di Salvini però contrastano da alcuni mesi con le azioni che sta facendo nel Palazzo. Infatti, ha portato avanti una circolare che di fatto è un disincentivo a denunciare e quindi a far costituire le nuove vittime del racket delle estorsioni nei processi che potrebbero aprirsi nei confronti dei loro aguzzini, come denuncia a L'Espresso l'associazione AddioPizzo. Così, mentre Salvini dice a parole di fare la lotta alla mafia, praticamente, e in silenzio, mette in campo la burocrazia che ostacolerà l'aiuto alle vittime degli estorsori mafiosi. Tutto questo alla vigilia dell'anniversario dell'uccisione dell'imprenditore Libero Grassi, simbolo di chi non si è arreso alle richieste di Cosa nostra. Oggi ci sono decine di casi di processi con centinai di imputati che si sono conclusi con pesanti condanne, grazie soprattutto alla coraggiosa testimonianza delle vittime accompagnate in aula dalle associazioni antiracket, in cui i giudici nelle loro sentenze hanno riconosciuto le spese legali sostenute dagli avvocati, ma il Viminale da adesso non riconosce più questo diritto alle spese processuali per i dibattimenti che si sono già conclusi. Una legge fino adesso prevedeva questa liquidazione diretta agli avvocati. Ma Salvini fa dire di no, che le vittime devono essere di fatto lasciate sole, senza alcun sostegno legale, come invece avveniva fino adesso in cui i giudici che liquidavano in sentenza le spese ai legali. Questo è un disincentivo che porta le nuove vittime a non costituirsi parte civile, perché dispendioso economicamente per il singolo commerciante o imprenditore. E questa politica di Salvini conduce anche i cittadini a non essere determinati contro il fenomeno del racket. Quindi, ci si chiede, quella del ministro Salvini che lotta alla mafia è? A parole? Come quella che si vedeva stampata in grandi spazi pubblicitari a Palermo durante una campagna promozionale pagata dal governo regionale di Totò Cuffaro in cui diceva che “la mafia fa schifo?”, per poi vedere lo stesso Cuffaro finire definitivamente condannato per aver avvantaggiato Cosa nostra? Sono le facce di uno stesso personaggio che non possono esistere quando si tratta di contrastare le mafie, che non sono solo la banda di zingari dei Casamonica, ma anche quella legata alla politica come l'associazione mafiosa capeggiata a Roma da Massimo Carminati (Salvini non lo ha mai nominato nei suoi comizi e non ha mai puntato il dito contro di lui e la sua gang che controlla ancora gran parte di Roma) o altri personaggi criminali che vanno a braccetto con parlamentari della Lega, il partito di cui è leader il responsabile del Viminale. La lotta alla mafia non può essere di facciata come fanno alcuni politici, perché così la si rafforza, deve invece essere di sostanza e coerenza. Salvini ne prenda atto e stia dalla parte delle vittime e non dei carnefici.

C'è una circolare del ministero dell'Interno che sta minando la lotta alla mafia. L'associazione AddioPizzo lancia l'allarme: una decisione del Viminale riduce l'assistenza alle vittime. Associazione Addiopizzo il 26 agosto 2019 su L'Espresso. A ventotto anni dal suo assassinio, Libero Grassi avrebbe a fianco centinaia di commercianti e imprenditori che si sono liberati dagli estorsori e che oggi proseguono il loro lavoro, pur tra mille difficoltà congiunturali. In questo percorso pensiamo di aver contribuito a creare una valida alternativa oltre quella, per tanto tempo ineluttabile, di tacere e pagare le estorsioni. Sono infatti centinaia le vittime che in questi anni il nostro movimento di cittadini, nato a Palermo dal basso, ha accompagnato a denunciare nel loro percorso di liberazione compiuto grazie al lavoro prezioso di forze dell'ordine e magistrati. Nonostante oggi ci sia chi continua a pagare e in certe circostanze a negare anche l’evidenza, crediamo, come del resto ribadito dal Questore di Palermo, che in questo frangente storico rispetto agli anni bui in cui fu ucciso Libero Grassi, il fenomeno non colpisca più la maggior parte degli operatori economici della città di Palermo. Avere consapevolezza di tutto questo è necessario per uscire da quella che a nostro avviso è diventata in talune circostanze un’anacronistica logica spettacolare e drammatizzante, con cui spesso si vivono e si rappresentano mediaticamente alcune storie di denuncia. Tuttavia ci sono aree della città di Palermo e della provincia nelle quali ancora permangono paura e diffidenza, specie in contesti fortemente colpiti da povertà e disagio economico, sociale e culturale. Tutto ciò non può che rendere più difficili processi di affrancamento dal fenomeno estorsivo, da Cosa nostra e dall’illegalità diffusa, che in certe quartieri sono l’unico ammortizzatore sociale in grado di assicurare sopravvivenza. E inchieste come quelle sulle truffe alle assicurazioni, che hanno coinvolto decine di persone che si sono lasciate spaccare le ossa pur di racimolare un po’ di denaro, sono la conferma di tali drammatiche condizioni economiche e sociali. Quello di Palermo è un contesto che seppure per certi versi sia cambiato in meglio, vede diritti fondamentali come quelli al lavoro, alla casa, alla salute e all’istruzione, diventare progressivamente un miraggio per tanti, troppi. Ad una sempre più incisiva e costante repressione portata avanti dai magistrati e dalle forze dell’ordine, non seguono vigorose politiche sociali e del lavoro. Per di più, recentemente, nella lotta alla mafia e nel sostegno alle vittime giungono segnali gravi e preoccupanti, nel silenzio di molti. Com’è noto, infatti, la legge n. 512 del 1999 assicura alle vittime di reati di tipo mafioso il risarcimento dei danni, nonché le spese legali per la loro costituzione e difesa nel processo penale. La ratio della legge era chiara a tutti: garantire alle vittime un supporto processuale gratuito per stimolare la denuncia di condizionamenti mafiosi e di fenomeni estorsivi. Bene, un nuovo orientamento amministrativo sta minando le basi e il senso autentico di una legge, considerata un baluardo normativo nella lotta alla mafia e nell’attività di assistenza alla vittime: nei mesi scorsi, con una circolare ministeriale (ufficio vittime di mafie) è stato dato un colpo di spugna all'attività di supporto processuale svolta dagli avvocati che hanno assistito negli ultimi anni e in molti processi decine di vittime di mafia ed estorsione. A molte di esse, infatti, non saranno più riconosciute dallo Stato le spese legali, così come invece è previsto dalla legge sopra menzionata e benché tali spese siano state stabilite da giudici in sentenze emesse da tribunali di questo paese. Per questo riteniamo che chi governa debba porre immediatamente rimedio a tale grave fatto. Diversamente in occasione di anniversari come l'ormai prossima ricorrenza dell'assassinio di Libero Grassi, sarebbe più coerente tacere e risparmiarsi prese di posizione che, stando cosi le cose, risultano sterili e prive di significato.

Sicilia: l'associazione dei furbetti dell'anti mafia. Le Iene il 29 aprile 2019. Filippo Roma è andato in Sicilia, a Marsala, dove un’associazione antiracket, il cui scopo principale dovrebbe essere incoraggiare e accompagnare le vittime di racket a denunciare il pizzo, sembrerebbe pensare a tutt’altro. Siamo in Sicilia, a Marsala. Qui, un’associazione antimafia e antiracket sembrerebbe aver trasformato la lotta alla mafia in una vera e propria attività economica. Stiamo parlando dell’associazione “La verità vive”, coordinata dall’avvocato Giuseppe Gandolfo, che dovrebbe avere come scopo principale quello di incoraggiare e accompagnare i commercianti e gli imprenditori vittime di racket a denunciare il pizzo. Ma sembra esserci un problema. La società infatti cerca di si costituirsi costantemente parte civile in tutti processi per mafia in Italia. “Chiaramente avendo subito un danno, la parte civile può chiedere soldi”, racconta a Filippo Roma il giornalista Giacomo Di Girolamo. E sembrano essere proprio questi a interessare l’avvocato Gandolfo e la sua associazione. “Io ho avuto accesso ai bilanci dell’associazione dal quale si evince che loro spendono gran parte dei loro bilanci per pagare servizi del professionista”, spiega Di Girolamo. E chi è il professionista? Ma lo stesso Gandolfo! Questa attività di costituzione di parte civile è talmente estesa che Manfredi Borsellino, figlio di Paolo Borsellino, ha "diffidato l’associazione antiracket dal continuare a utilizzare indebitamente il nome di nostro padre”. Perché si chiamava appunto “Associazione antimafia Paolo Borsellino”. Ma a Gandolfo viene un’altra idea e propone come presidente Piera Aiello, testimone di giustizia. Filippo Roma va dall’avvocato Gandolfo, che candidamente ci dice: “Mi rendo conto che uno si pone il dubbio”. E quando gli facciamo notare l’entità dei bilanci, si lamenta pure delle tasse! La Iena va quindi da Piera Aiello, che qualche mese fa si è dimessa da presidente dell’associazione: “Io non ho mai avuto una lira. Ho dato le dimissioni: siccome non faceva nulla sono uscita”. 

·         Il Business dei sequestri preventivi infondati. La Storia dei Cavallotti.

Ecco le intercettazioni che imbarazzano l'antimafia di Palermo. Le Iene il 9 dicembre 2019. Nella nuova puntata dell’inchiesta di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli sulla “mafia dell’antimafia” vi raccontiamo delle indagini che hanno messo sotto accusa alcune attività dell’’antimafia di Palermo. La donna che sentite parlare all’inizio del servizio di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli è Silvana Saguto, oggi radiata definitivamente dalla magistratura nonché ex presidente della sezione Misure di prevenzione antimafia del tribunale di Palermo. L’uomo invece è l’avvocato Cappellano Seminara, uno degli amministratori giudiziari più conosciuti del capoluogo siciliano. A quei tempi lavorava proprio per il tribunale guidato dalla giudice Saguto. Sono le 8.49 del mattino del 15 maggio del 2015: la sera precedente è andato in onda un servizio de Le Iene che parla proprio del tribunale Misure di prevenzione di Palermo, della sua presunta malagestione e dei rapporti professionalmente poco chiari che la giudice avrebbe avuto con l’avvocato Seminara. La telefonata parte dal telefonino di Silvana Saguto, che vuole confrontarsi con il suo uomo di fiducia che sembra furioso per quello che è andato in onda. Potete sentire la conversazione nel servizio in testa a questo articolo. Oggi il giudice, l’avvocato e altre 13 persone sono state rinviate a giudizio dal tribunale di Caltanissetta con accuse che vanno, a vario titolo, dall’abuso d’ufficio, al falso materiale, alla corruzione fino all’associazione a delinquere. Il processo, per l’importanza delle persone imputate, sembra poter essere clamoroso anche se vi ricordiamo comunque che tutte le persone coinvolte sono innocenti fino a prova contraria. Al di là delle sentenze, che prima o poi arriveranno, questa storia sembra però poter mettere in dubbio la credibilità di alcune attività di una istituzione importante nella lotta alla mafia. In questo servizio iniziamo a ripercorre la strada che ha portato alla sbarra l’antimafia di Palermo. Nel servizio che potete vedere qui sopra potete ascoltare le voci dei più importanti indagati, intercettati per mesi dalla Guardia di finanza. Lo facciamo ripartendo proprio da quel servizio del maggio del 2015, che potete rivedere cliccando qui. In quell’occasione abbiamo incontrato Pino Maniaci, un giornalista siciliano che della lotta alla mafia ha fatto la sua vita e la sua croce: è infatti anche lui sotto processo, come ricostruito nel servizio che potete vedere qui sopra. Aveva denunciato quello che di strano sembra stesse accadendo all’ombra delle misure di prevenzione. “I beni tolti ai presunti mafiosi vengono amministrati da amministratori giudiziari che riescono a svuotare un patrimonio di miliardi di euro che dovrebbero tornare alla collettività e che invece diventa quella che noi abbiamo definito ‘la mafia dell’antimafia’”, ci aveva detto. Nell’occhio del ciclone erano finiti proprio gli amministratori giudiziari, cioè quei professionisti nominati dal tribunale che hanno il compito di gestire temporaneamente le aziende poste sotto sequestro a chi è sospettato di essere in odore di mafia. “Palermo gestisce più del 40% di tutti i sequestri nazionali”, ci aveva detto Maniaci. Un patrimonio apparentemente enorme: “Parliamo di 30 miliardi di euro nelle mani di pochi”. Una coincidenza che aveva fatto alzare l’attenzione proprio su quei pochi. “Abbiamo amministratori giudiziari con incarichi di decine di aziende con centinaia di persone, con decine di aziende satellite. Tutte a uno”, denunciava Maniaci. A quei tempi, comunque, quella pratica non era vietata dalla legge. Oltre alle aziende affidate a poche persone, e ai compensi che queste ricevevano, si poneva però il problema del destino di queste aziende: come potete vedere nel servizio, attraverso alcune storie, abbiamo raccontato di tante imprese che sotto le gestioni degli amministratori giudiziari non ce la fanno e vengono chiuse trasformando quelli che prima erano dei veri e propri imperi in scatole vuote, lasciando per strada senza un lavoro decine di migliaia di persone. All’epoca comunque la dottoressa Saguto negava che sotto la gestione degli amministratori giudiziari ci fossero numeri allarmanti di aziende fallite. Tra gli amministratori giudiziari più nominati dalla sezione del tribunale Misure di prevenzione presieduta da Silvana Saguto c’era Cappellano Seminara, definito più volte dalla stampa il “re degli amministratori giudiziari” e che oggi è uno degli indagati chiave nel processo di Caltanissetta. Matteo Viviani era andato a parlare proprio con lui qualche mese prima che fosse iscritto nel registro degli indagati, come potete vedere qui sopra. A quei tempi, comunque, è possibile che noi non fossimo gli unici ad avere qualche dubbio sui rapporti tra i due e la mole di aziende date in gestione a Seminara: già da qualche mese gli uomini della Guardia di finanza di Palermo stavano intercettando i cellulari del cosiddetto “cerchio magico” intorno a Silvana Saguto. Il giorno dopo il servizio, Silvana Saguto riceve la telefonata di un altro personaggio chiave nell’inchiesta di Caltanissetta: Carmelo Provenzano, professore universitario, coauditore in alcune misure di prevenzione del tribunale presieduto dalla dottoressa Saguto e attualmente indagato dalla procura di Caltanissetta per associazione a delinquere, corruzione, falso ideologico e materiale. Nel servizio di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli potete riascoltare alcune delle intercettazioni telefoniche che riguardano la dottoressa Saguto, l’avvocato Cappellano Seminara, il professor Carmelo Provenzano. I tre sembrano discutere di quale potrebbe essere la migliore reazione possibile al servizio de Le Iene e le opinioni appaiono divergenti. A questo punto sembra entrare in gioco il mondo istituzionale che ruota intorno alla Saguto. Tra le prime a muovere un apparente passo in sua difesa c’è Francesca Cannizzo, ex prefetto di Palermo, buona amica della giudice e attualmente indagata per concussione nel processo di Caltanissetta. Una donna con una posizione istituzionale rilevante che la portava ad avere ottimi contatti e che, stando alle intercettazioni che potete ascoltare nel servizio, sembra non fosse d’accordo nel fare esporre in prima persona la Saguto con la stampa. L’ex prefetto sembra che proponga alla Saguto una “rete di protezione”, che leggendo le carte sembra che abbia coinvolto il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca, che in quegli anni lavora alla direzione investigativa antimafia di Palermo e che oggi è indagato a Caltanissetta per corruzione e atti d’ufficio.  A questo punto la rete di protezione intorno alla Saguto sembra interessare anche la stampa, come potete vedere nel servizio qui sopra, ed escono alcuni articoli che sembrano difendere la giudice. Matteo Viviani è riuscito a incontrare l’ex capo scorta della giudice Saguto, colui che per dodici lunghi anni è rimasto accanto a lei in ogni momento. Nella prossima puntata vi faremo sentire le sue parole.    

Processo all'Antimafia, il cerchio magico intorno a Silvana Saguto. Le Iene il 20 dicembre 2019. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano a occuparsi della Sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo e della sua presidente: Silvana Saguto. Nel servizio che vedrete nella puntata di domenica 22 dicembre si ricostruiscono i “tentacoli” del cosiddetto “cerchio magico” che secondo la procura di Caltanissetta sarebbe gravitato intorno alla giudice. “Quando il tribunale mi condannerà lei avrà modo di dispiacersi, se non mi dovesse condannare lei dovrebbe solo pensare a scusarsi”. A parlare con Matteo Viviani è Silvana Saguto, l’ex presidente della Sezione Misure di Prevenzione antimafia del tribunale di Palermo. Della sua storia e del processo a suo carico al tribunale di Caltanissetta noi de Le Iene ci siamo occupati diverse volte, come potete vedere nei servizi qui sotto. Adesso con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tentiamo di ricostruire quelli che sembrano essere i “tentacoli” del cerchio magico che, secondo la procura nissena, sarebbe gravitato intorno alla ex giudice.

 “Dopo le indagini su Silvana Saguto, il sogno è diventato un incubo”. Le Iene l'11 dicembre 2019. Per 12 anni Achille De Martino è stato il capo scorta dell’ex magistrato Silvana Saguto, oggi sotto processo e radiata definitivamente dalla magistratura. Nel nuovo capitolo dell’inchiesta di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli ecco cosa dice chi la seguiva ogni giorno. “È svanito tutto e da sogno è diventato incubo purtroppo”. A parlare è Achille De Martino, che per 12 anni è stato l’angelo custode come scorta del magistrato Silvana Saguto, l’ex presidente delle sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Oggi la Saguto è sotto processo con altre 14 persone tra parenti, colleghi e amici accusate a vario titolo di aver gestito, amministrato e sfruttato i sequestri di prevenzione antimafia a fini personali traendone profitti e favori. Achille, capo scorta degli agenti che proteggevano il magistrato, è stato un testimone chiave nel processo. Personaggio fondamentale per ricostruire alcuni aspetti molto importanti riguardanti proprio la giudice Saguto e il suo stile di vita. In questo capitolo dell’inchiesta di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli siamo riusciti a incontrarlo e a registrare di nascosto le sue dichiarazioni. A prescindere dai reati che sono imputati alle persone di cui vi parliamo, questa vicenda è importante perché pone dei grossi interrogativi sulla morale e sull’etica che chi ricopre ruoli istituzionali di grande importanza, come quello di amministrare la giustizia di beni sequestrati preventivamente a persone accusate di reati di mafia, dovrebbe seguire. “Lei ha sempre corso parecchi rischi”, ci dice subito Achille. “Noi scortavamo un’icona antimafia ed eravamo felici di questa cosa”. “Quando è uscita la prima trasmissione in cui tu hai parlato di lei, di suo marito e dell’avvocato Cappellano, qualche giorno dopo uscì la notizia”. La notizia è quella che la mafia avrebbe voluto uccidere la magistrata. Parlando di questa notizia, la Saguto, al telefono con un amico, diceva: “Il Colonello Nasca ha detto che ha parlato con uno che farà l’articolo su "S Sicilia" e su "Live Sicilia". Perché siccome c’era stato quel servizio de Le Iene un po’ diffamatorio, qualcuno dei militari miei amici dicevano: "Ristabiliamo l’ordine, che lei è tanto brava"”. Achille ha vissuto in prima persona tutta la storia dal momento che lui e la sua squadra si occupavano della sicurezza della giudice. Proprio Achille sostiene però che quel pericolo sarebbe risalito a un bel po’ di tempo prima rispetto agli articoli: “A un anno e mezzo prima”, specifica il capo scorta. “Non si è inventata niente, diciamo che l’ha posticipato”. E, parlando della quotidianità della vita della Saguto, Achille ci racconta aspetti particolari, che diventeranno fondamentali nelle indagini: “C’era questa presenza costante nella sua vita privata che era l’avvocato Cappellano”. Riguardo al rapporto tra la giudice e Cappellano Seminara afferma che c’era “una corsia preferenziale rispetto agli altri”. È proprio questo rapporto tra la Saguto e Cappellano che la procura ha cercato di approfondire nelle indagini. La Procura di Caltanissetta parlerà di un “rapporto di somministrazione corruttiva”. Si legge: “Silvana Saguto nominava Seminara come amministratore giudiziario, liquidando acconti e compensi sproporzionati”. A sua volta, Cappellano “coinvolgeva il marito della Saguto attraverso incarichi, lontani da Palermo, corrispondendo, su conti intestati anche alla Saguto, compensi spropositati, anticipazioni e duplicazioni di pagamenti”. Pagamenti che, sempre secondo i finanzieri, sarebbero stati “il prezzo della corruzione”. Cappellano Seminara però non sarebbe stato l’unico professionista con una “corsia preferenziale”. Ci sarebbe anche Carmelo Provenzano, professore universitario di economia aziendale e coadiutore in alcune misure di prevenzione del Tribunale presieduto dalla Saguto. Stando alle ricostruzioni della polizia tributaria, solo 3 persone, tra la moglie del professore, “suo fratello, suo nipote, il nipote di suo fratello, la cognata, il cognato il cugino e il cugino di sua moglie” e il professore stesso in due anni (dal 2013 al 2015) “avrebbero ricevuto compensi lordi per 671 mila 464 euro virgola 44”. Soldi che, sempre secondo le carte dell’accusa, sarebbero stati autorizzati “dalla sola Presidente Saguto”. “Accadeva spesso che si incontravano a casa con il professore Provenzano”, continua Achille. Provenzano sembra aver fatto di tutto per ingraziarsi la Giudice. La procura di Caltanissetta ha ipotizzato una lunga serie di scambi reciproci di favori trai quali “la consegna di varie cassette di frutta e verdura provenienti dal mercato ortofrutticolo sotto amministrazione giudiziaria nel quale Provenzano era coadiutore”. Dal canto suo, la Saguto, secondo la polizia tributaria, “autorizzava gli incarichi e le istanze di liquidazione dei compensi, limitandosi a sottoscrivere”. Lo stile di vita della giudice non è passato inosservato alla Guardia di finanza, tanto che a maggio del 2015 fotografa la situazione economica di quel nucleo familiare trovando una situazione davvero particolare. La Saguto guadagnava il suo stipendio da magistrato che si aggirava attorno ai 5.500 euro netti mensili, mentre “la principale fonte di reddito del marito risultano essere i compensi corrisposti direttamente o indirettamente proprio da Cappellano Seminara che in 10 anni ammonterebbero a 1,2 milioni di euro”. Achille ci racconta che dopo l’avviso di garanzia, lo stile di vita della Saguto sarebbe cambiato radicalmente: “Non frequentava più negozi o ristoranti importanti. Il parrucchiere l’ha cambiato. Il figlio che aveva una casa in affitto l’ha dovuta lasciare. La vita di prima era lontana”. E con essa anche l’abuso, che, sempre secondo le carte della procura, la Saguto avrebbe fatto proprio della scorta e dei suoi uomini, a cui avrebbe richiesto di fare le commissioni più disparate. “Achille posso non uscire se lei mi compra i dolci da Costa”, dice la Saguto in una telefonata al capo scorta. “Per noi meno esce meglio è”, ci spiega Achille. Ma sembra che ci fossero delle esagerazioni ogni tanto, come andare a prendere la fidanzata del figlio, cosa che emerge da una telefonata. O passare a prendere un’amica per andare poi a cena tutti insieme. “È svanito tutto e da sogno è diventato incubo purtroppo”, conclude Achille.  “Io non ci volevo credere perché avevo preso undici anni della mia vita professionale, che avevo dato a una persona a cui tenevo veramente. Ho fatto delle rinunce per lei che non potete immaginare. Io veramente credevo che lei fosse una paladina antimafia, cosa che penso ancora. Perché le cose contro la mafia lei le ha fatte. Poi stabilirà il processo, non noi, se veramente è colpevole dei fatti che le vengono imputati. Però chiaramente se c’è un processo in piedi qualche cosa ci sarà probabilmente”. 

L'Antimafia di Palermo a processo: I tentacoli del cerchio magico intorno a Silvana Saguto. Le Iene il 23 dicembre 2019. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano a occuparsi della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo e della sua presidente: Silvana Saguto. Nel servizio si ricostruiscono i “tentacoli” del cosiddetto “cerchio magico” che secondo la procura di Caltanissetta sarebbe gravitato intorno alla giudice. “Quando il tribunale mi condannerà lei avrà modo di dispiacersi, se non mi dovesse condannare lei dovrebbe solo pensare a scusarsi”. A parlare con Matteo Viviani è Silvana Saguto, l’ex presidente della Sezione Misure di Prevenzione antimafia del tribunale di Palermo. Della sua storia e del processo a suo carico al tribunale di Caltanissetta noi de Le Iene ci siamo occupati diverse volte, come potete vedere nei servizi in fondo a questo articolo. Adesso con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tentiamo di ricostruire quelli che sembrano essere i “tentacoli” del cerchio magico che, secondo la procura nissena, sarebbe gravitato intorno alla ex giudice. “È crollato un intero sistema”, ci dice la giornalista dell'AdnKronos Elvira Terranova. “Questo famoso ‘cerchio magico’ faceva parte di un sistema molto più grande, perché riguardava moltissimi magistrati e persone a loro legate”. Una rete fittissima che per anni, secondo la procura, si sarebbe scambiata favori traendo presunti vantaggi più o meno consistenti dagli incarichi assegnati nei sequestri di prevenzione che arrivavano dal tribunale guidato dalla Saguto. Quali sono gli indizi che hanno spinto la procura di Caltanissetta a indagare sulla sezione presieduta dalla giudice? Esisteva davvero il cerchio magico intorno alla Saguto? E se sì, cosa avrebbero fatto i suoi componenti per finire a processo? Questa storia inizia quasi per caso: “L’indagine nasce nel 2015”, ci ricorda Elvira Terranova. “La procura di Caltanissetta stava facendo un’inchiesta su una concessionaria di auto a Gela. A un certo punto spunta fuori un’intercettazione in cui si parla di una ipotesi di una estorsione”. L’indagine all’inizio non ha nulla a che vedere con Silvana Saguto: si stava infatti indagando su una sorta di tangente che sarebbe stata richiesta dal responsabile di una concessionaria per ogni auto venduta. Approfondendo le indagini gli inquirenti identificano la concessionaria nella ‘Nuova sport car’, “una grossa concessionaria di auto della famiglia Rappa”, spiega Terranova. “In quell’istante però è sotto amministrazione giudiziaria perché era stata sequestrata”. La concessionaria faceva parte di un patrimonio, stimato in oltre 800 milioni di euro e oggi quasi interamente restituito ai legittimi proprietari, che era stato sequestrato nel marzo del 2014 proprio dal Tribunale presieduto da Silvana Saguto. Questi beni erano stati affidati a un giovane avvocato di Palermo, Walter Virga, figlio dell’ex membro del Consiglio superiore della magistratura Tommaso Virga. Quest’ultimo è stato inizialmente coinvolto nell’inchiesta di Caltanissetta con l’accusa di abuso d’ufficio ed è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. Questo triangolo di amicizie intorno all’amministrazione giudiziaria di cui faceva parte la Nuova sport car sembra non convincere gli inquirenti, che continuano a intercettare gli uffici di Walter Virga. “Vengono fuori una serie di rapporti che vengono considerati anomali”, ci dice Elvira Terranova. Ad esempio quello con Mariangela Pantò, oggi imputata e fidanzata con uno dei figli di Silvana Saguto e coinvolta nelle attività dello studio di Virga. È indagando su questi rapporti che sembrano emergere i primi indizi che porteranno poi l’Antimafia di Palermo a processo. A fine maggio del 2015 il servizio su Cappellano Seminara, e stando alle intercettazioni quelli che oggi sono gli imputati più importanti del processo a Caltanissetta sembrano essere nervosi. Apparentemente il primo passo falso lo fa proprio Walter Virga, che discute al telefono con il padre dei rapporti con la nuora della Saguto: “Si chiude, si chiude”, gli consiglia il papà. Il giovane avvocato accetta il consiglio e chiude subito quella collaborazione. A quel punto Mariangela Pantò chiama la giudice, che sembra essere su tutte le furie: “Lui la pagherà carissima questa cosa, per quello che mi riguarda”, dice la Saguto al telefono. Anche Walter Virga si sfoga, parlando con i colleghi dello studio: “Lei fa parte di un sistema… ma parliamoci chiaro, perché era Provenzano a prendere gli incarichi?”, dice mentre la Guardia di finanza sta ascoltando tutto. Il giovane avvocato parla di un sistema e tira in ballo una persona di cui vi abbiamo parlato nei precedenti servizi: il professor Carmelo Provenzano, uomo di fiducia della Saguto. Walter Virga ci va giù pesante: “Provenzano prende gli incarichi perché il figlio (della Saguto, ndr) aveva il problema delle materie che doveva passare…”. Il professore infatti a quei tempi non lavorava solo nelle amministrazioni giudiziarie, ma stava anche aiutando il figlio della Saguto a laurearsi. Nelle sue parole Virga sembra implicare che fosse quello il suo mezzo di scambio con la giudice. “Noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla. Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”. Per Virga sembra che avere in studio la nuora di Silvana Saguto sia come pagare una sorte di pizzo. Una idea, ovviamente da dimostrare, che sembra essere condivisa anche dai suoi soci: “La chiamavamo ‘La Tassa’”. Ovviamente tra il giovane Virga e la giudice Saguto in quel momento c’era tensione, e la tensione potrebbe portare a dire cose esagerate. Matteo Viviani è andato a parlare con Claudia Rosini, magistrato con un lungo curriculum di lotta alla criminalità organizzata e in quel periodo collega di Silvana Saguto alle Misure preventive. “La Saguto era una icona della lotta alla mafia”, ci dice. Quella immagine però inizia a essere messa in discussione dagli attacchi provenienti da Telejato e Pino Maniaci, che iniziarono a mettere in discussione i rapporti tra Mariangela Pantò e lo studio Virga. “Non era una campagna basata su suggestioni”, ricorda il magistrato Claudia Rosini. “Erano precisi, si facevano nomi e cognomi, si parlava insistentemente dell’avvocato Seminara”. Nonostante questo sembra che la reazione negli uffici del Tribunale fosse quasi nulla. “Nessuno diceva una parola, non c’era una risposta”, ci dice Rosini. “C’era un clima di sospetto”. Con il passare del tempo escono sempre più notizie e la questione inizia ad assumere una dimensione nazionale. Il silenzio del Tribunale però sembrava continuare imperterrito. La Saguto parlava di quegli attacchi, per esempio al telefono con il figlio. È l’8 luglio del 2015, la nuora della giudice è già stata allontanata dallo studio di Virga. Dopo aver spiegato la situazione, aggiunge: “Io non gliela posso passare. Come gliela faccio pagare, non si deve presentare non si deve far vedere. Non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. La Saguto ovviamente era sotto pressione e la sua reazione potrebbe essere dovuta alla sorpresa di essersi sentita "abbandonata" dal figlio di un collega a cui lei stessa aveva affidato patrimoni enormi. Al telefono con Cappellano Seminara, comunque, sembra la giudice non avesse una grande stima di Walter Virga. È a questo punto che i finanzieri, ascoltando le conversazioni che avvengono nello studio della Saguto, inquadrano un altro rapporto particolare: quello con il tenente colonnello Rosolino Nasca della Dia, con il quale si sfoga dopo il licenziamento della nuora: “Lui si spaventa se Le Iene gli fanno un agguato, con quello che abbiamo fatto per lui”, dice la giudice all’ufficiale. Lui risponde: “Un incapace, una cosa inutile, una mezza sega”, dice di Walter Virga. Il tenente colonnello dice di essere intervenuto più volte nelle amministrazioni giudiziarie gestite da Virga.  I due a questo punto cambiano completamente discorso e Nasca informa la Saguto di aver concluso le indagini su un grosso patrimonio che la Dia, la Divisione investigativa antimafia, sospetta essere di provenienza illecita. Sta quindi preparando le carte per il sequestro di prevenzione da proporle. “Io vorrei farlo l’1 o il 2 luglio, va bene”, dice l’ufficiale alla giudice. “Perfetto, lo faccio”, replica lei. Sebbene sia normale che Dia e Misure di prevenzione collaborino, secondo gli inquirenti il rapporto tra il tenente colonnello Nasca e la giudice Saguto sarebbe andato ben oltre. “Un rapporto corruttivo”. “Nasca chiede alla Saguto di nominare un suo amico per una amministrazione giudiziaria molto importante”, ci ricorda la giornalista Elvira Terranova. “In cambio la giudice avrebbe potuto inserire in maniera occulta il marito e la nuora”. Una trattativa documentata passo dopo passo partendo da un discorso ambiguo fatto dal tenente colonnello dentro l’ufficio della Saguto. “Tuo marito non c’entrerà per niente, ok?”, dice Nasca alla giudice. “Tranquilla e ti dico io come fare. Non comparirà da nessuna parte”. Il presunto patto sarebbe stato questo: se lei avesse nominato come amministratore giudiziario chi le veniva suggerito, il marito e la nuora avrebbero potuto lavorare in quel sequestro senza figurare ufficialmente. “Le promesse di Nasca erano serie e Silvana Saguto lo sapeva bene”, scrive la Finanza. E il giorno dopo la conversazione tra i due, l’amico del tenente colonnello si presenta dalla giudice. Il dottor Giuseppe Rizzo, che non è imputato nel processo di Caltanissetta, secondo la Finanza era “uno strumento inconsapevole o non del tutto consapevole nelle mani del funzionario della Dia. Il loro rapporto era quello tra servo e padrone”. Alla fine il dottor Rizzo riceve l’incarico dalla Saguto. Dalla conversazione tra i due, che potete ascoltare nel servizio qui sopra, sembra però che la giudice non sappia molto di cosa stia per essere affidato in amministrazione. Dopo Rizzo torna nell’ufficio della Saguto l’ufficiale della Dia che sembra prometterle di sistemare in futuro anche un figlio della giudice, Francesco. Dieci giorni dopo la presunta trattativa tra la giudice Saguto e il tenente colonnello Nasca, l’8 luglio del 2015, viene annunciato il sequestro che è uno dei più grandi della storia italiana: un patrimonio stimato in 1,6 miliardi di euro. Il giorno dopo il sequestro, però, la giudice non sembra entusiasta dell’incarico appena conferito: parlando con Cappellano Seminara chiama il dottor Rizzo “un cretino”. “È nessuno, io gli dovrò organizzare il lavoro”, dice la Saguto. Il sequestro record attira sul Tribunale un’attenzione mediatica enorme, e la Saguto sembra in qualche modo preoccupata di questo. Così sembra decidere di fare un passo indietro rispetto al presunto accordo stretto con Nasca: “Quella cosa per adesso non si deve fare”, dice la giudice all’ufficiale, riferendosi al presunto lavoro occulto del marito all’interno dell’amministrazione giudiziaria. Nasca a questo punto sembra concordare con lei. Resta così in sospeso la questione dell’amministratore Rizzo, di cui la Saguto come abbiamo visto sembra non nutrire una grande stima. È a questo punto che ricompare il personaggio di Carmelo Provenzano, professore, uomo di fiducia della Saguto e che oggi è imputato per associazione a delinquere, corruzione, falso ideologico e materiale. “Rizzo è una nomina folle”, dice la giudice a Provenzano. “Due sono le cose, o si dimette o si dimette di fatto, nel senso che si prende alcune società e sta di là, ma non mi deve fare più niente, io non devo vedere istanze firmate da lui”. Il professore a questo punto si propone: “Se per te va bene mi prendo la direzione strategica e la consulenza di là”, dice alla giudice che accetta di buon grado. La Saguto, nonostante l’apparente contrarietà di alcuni giudici della sezione, qualche giorno dopo richiama il professore facendogli scegliere il ruolo da ricoprire. A questo punto, secondo i finanzieri, Provenzano sarebbe diventato per la Saguto “una fonte di approvvigionamento da cui drenare risorse economiche” e a cui poter raccomandare assunzioni, come quella della cugina di Cappellano Seminara o di un amico del figlio Elio. Non solo, quello tra i due sarebbe stato un rapporto di scambi di favore reciproco. Il professore, in circa due anni e mezzo, avrebbe ottenuto liquidazioni dirette a lui o ai suoi familiari per un valore di quasi 700 mila euro. Carmelo Provenzano, nelle amministrazioni giudiziarie in cui veniva inserito, avrebbe a sua volta fatto assumere con l’avvallo della giudice Saguto, che si sarebbe limitata a sottoscrivere le nomine, anche: due nipoti, il cognato, la cognata, suo cugino, sua moglie, suo fratello e i due cugini di sua moglie. Gente che, secondo l’accusa, sarebbe stata pagata con i soldi delle amministrazioni giudiziarie per incarichi che spesso si rivelavano schermi vuoti di contenuto idonei esclusivamente a giustificare esborsi di denaro pur in assenza delle prestazioni. C’è una cosa che ancora non vi abbiamo raccontato: “Secondo l’accusa Carmelo Provenzano avrebbe ricevuto delle amministrazioni giudiziarie ma avrebbe anche fatto la tesi di laurea del figlio di Silvana Saguto”, ricorda la giornalista Elvira Terranova. Tesi della quale Provenzano avrebbe terminato la stesura pochi giorni prima di ricevere la nomina di coauditore nel sequestro miliardario. Sia la giudice che il professore hanno negato a processo che questo sia mai avvenuto, anche se alcune conversazioni che potete ascoltare nel servizio qui sopra sembrano mostrare una differente versione dei fatti. “Il problema è che tutto questo veniva considerato normale”, ci dice Elvira Terranova. “In aula la Saguto punta su questo, lei dice: ‘non era vietato, funzionava così e non ero l’unica a farlo’”. Infatti poco tempo fa la ormai ex giudice ha spiazzato tutti con le sue dichiarazioni spontanee in aula. “Io ho portato questo librettino, perché tutti noi giudici avevamo una scatoletta dove c’erano i bigliettini dei vari amministratori che si proponevano e venivano proposti”, ha detto Silvana Saguto. Ma non solo: “Su ogni bigliettino, per quasi tutti c’è scritto chi me li ha segnalati”. Poi aggiunge: “Io credo che tutti noi nominiamo periti o consulenti sulla base della fiducia, non certo sulla base di un elenco che vada, chessò, in ordine alfabetico o in relazione alle competenze”. “Non c’era una legge che lo vietasse”, chiarisce Elvira Terranova. “Adesso le cose sono cambiate”. L’esempio perfetto di questo sistema descritto dalla Saguto è rappresentabile tramite una serie di intercettazioni tra la giudice e l’allora prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, anche lei oggi imputata. Potete ascoltare gli scambi tra le due nel servizio qui sopra. A questo punto Matteo Viviani va a parlare con Silvana Saguto. Prima però, vi dobbiamo raccontare di un’ultima intercettazione. La giudice sta parlando con un suo collega e di punto in bianco dice: “Conosco tutto, tutto quello che è stato. Io lo so chi glieli intesta i beni a Brusca perché io Brusca so tutto quello che faceva”. La Saguto sembra riferirsi a Giovanni Brusca, membro di rilievo di Cosa nostra condannato per oltre un centinaio di omicidi tra cui quello di Giovanni Falcone. Stando a quanto sembra intendere la giudice, Brusca nonostante sia in galera avrebbe ancora un patrimonio che non gli è stato sequestrato e di cui lei saprebbe molte cose. “Quindi appena Brusca sgarra e io trovo un bene intestato a un suo parente io già so che è suo”, dice la Saguto. Queste informazioni però, sempre stando a quello che lei dice, per non rischiare se le vorrebbe tenere per sé. “Io non è che mi voglio fare sparare. Non lo posso andare a dire al sostituto procuratore ‘Brusca c’ha mezza Piana (degli Albanesi) e gli avete sequestrato una cosa sola’”. E anche l’allora prefetto Francesca Cannizzo sembrerebbe essere d’accordo con lei: “Il prefetto mi ha detto ‘ma tu proprio per forza ti devi far sparare?’. Quindi che cosa ce ne dobbiamo fare di Brusca?”. Chiaramente ci auguriamo che queste frasi siano frutto di una ‘sparata’, perché immaginare un magistrato antimafia che terrebbe nascoste informazioni utili a far sequestrare i beni di un boss pluriomicida sarebbe inaccettabile. “Io il processo lo faccio in Tribunale. Se avrò voglia di parlare con Le Iene ve lo farò sapere”, ha detto Silvana Saguto a Matteo Viviani. “Esiste anche per i giudici la presunzione di innocenza”. Sulle frasi su Giovanni Brusca ha detto alla Iena di aver “mandato gli atti alla Procura per queste cose. Questo era ironico”. E noi ovviamente speriamo che sia davvero così. Di questa faccenda però ne parla anche in un’altra telefonata, con Cappellano Seminara: “Io per esempio so un sacco di cose che riguardano Brusca a Piana (degli Albanesi). Tu mi credi che io non gliele vado a raccontare perché questi fanno uscire che l’ho detto io, sicuramente. Sta finendo la pena, altri due giorni e questo va girando e per giunta si è tenuto il patrimonio. È sicuro che se io gli vado a dire: ‘guarda questo negozio è suo, questa cosa è sua, questa casa è sua’ quelli glielo andranno a dire. Siccome io ne ho pochi di nemici mi manca Brusca che sa che io gli vado a dire le cose e gliele vado a fare pigliare, ammesso che le piglino! Perché certo, Brusca non è uno "così", è uno brutto che ce l’ha con me in maniera proprio dichiarata, peraltro. Come io ce l’ho con lui in maniera dichiarata perché non posso tollerare quello che ha fatto e com’è trattato. Io mi tengo quello che so e basta, tanto ne ha tante cose Brusca quelle altre quattro in più che c’ho io di Piana (degli Albanesi) pazienza… Mi tengo quello che mi tengo, sono stanca però”. “Questo era ironico”, risponde Silvana Saguto a Matteo Viviani. E ripetiamo, noi ci auguriamo che sia davvero così. Sulla laurea del figlio, invece, la ormai ex giudice nega categoricamente che Provenzano gli abbia fatto avere il titolo. Secondo lei il professore avrebbe però pagato la festa come regalo al figlio. Poi aggiunge: “Ma lei se l’è chiesto il perché quelli che avrebbero ricevuto i cosiddetti ‘favori’ da me non sono imputati? Io tre volte sono stata giudicata da un Tribunale e sono stata assolta. Mi sono comportata meglio di come dovevo comportarmi”. “I fatti che mi vengono contestati non sono veri, sono frutto della travisazione e delle omissioni che ha fatto la Finanza per ottenere di far finire un’era alle Misure di prevenzione che aveva portato fino al sequestro dell’Eni”.

Antimafia sotto accusa, Pietro Cavallotti contro la Saguto: “Ci hai tolto tutto”. Le iene il 16 dicembre 2019. Dopo il servizio di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli sul presunto sistema che ruotava intorno all’ex presidentessa della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, arriva lo sfogo su Facebook di una delle persone che si è vista togliere e distruggere l’azienda. “Ci hai tolto tutto: l’azienda, il lavoro, la casa e la libertà”. È questo il duro j’accuse che Pietro Cavallotti, uno degli imprenditori che ha visto la sua azienda sequestrata per presunti legami con la mafia, ha rivolto a Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. “Nonostante la nostra innocenza fosse scolpita in una sentenza passata in giudicato, hai ritenuto che tutto il nostro patrimonio fosse il frutto di un reato che non esiste. Poi, siccome non eri contenta, hai colpito anche noi figli che stavamo provando con il duro lavoro a riprendere in mano le redini del nostro futuro dopo che tu avevi distrutto il passato della nostra famiglia”. Lo sfogo di Pietro Cavallotti su Facebook, che potete leggere integralmente cliccando qui, arriva a pochi giorni dal servizio di Mattteo Viviani e Riccardo Spagnoli in cui abbiamo continuato a ricostruire la storia del presunto sistema che avrebbe ruotato intorno alla giudice. Silvana Saguto è oggi sotto processo con altre 14 persone tra parenti, colleghi e amici accusate a vario titolo di aver gestito, amministrato e sfruttato i sequestri di prevenzione antimafia a fini personali traendone profitti e favori (ricordiamo ovviamente che per tutti vale la presunzione d’innocenza). Noi de Le Iene vi abbiamo parlato in alcuni servizi precedenti della storia della famiglia Cavallotti. Tutto inizia negli anni ’90 quando l’azienda da loro creata va a gonfie vele. Con oltre 300 operai e un fatturato di 20 miliardi di lire l’attività si occupa della costruzione e manutenzione di impianti a metano. Proprio quando tutto sembra vada alla grande, i tre imprenditori Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti vengono arrestati. “Avevo 18 anni quando sono venuti verso le tre di notte con le pistole dentro la casa”, dice uno dei figli. Le accuse nel 10 novembre 1998 sono concorso in associazione mafiosa e turbativa d’asta, insomma: fare affari con Cosa Nostra. Tanto che un anno dopo si muove anche la sezione di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. L’azienda viene sequestrata e affidata a un amministratore giudiziario, una sorta di manager che dovrebbe gestire nella maniera migliore possibile il patrimonio sequestrato fino alla chiusura del processo. Il processo penale si conclude dopo 12 anni con l’assoluzione definitiva dei tre: “Non risulta l’appartenenza organica di Cavallotti Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito all’associazione mafiosa Cosa Nostra”. C’è però anche un secondo processo, quello delle misure di prevenzione antimafia che procede con esiti completamente differenti. Il calvario di questa famiglia dura per 16 anni. In tutti questi anni le loro aziende sono sotto nelle mani dello Stato e con il tempo si riducono a un cumulo di macerie. Nel 2015 la sezione misure di prevenzione decide di confiscare definitivamente l’azienda. La storia non finisce però qua. Nel 2006 i figli della famiglia Cavallotti, Pietro, Margherita, Giuseppe e tre ragazzi di nome Vito, si rimboccano le maniche e decidono di costituire una società che si occupa di quello che in famiglia sanno fare meglio: manutenzione delle reti di distribuzione di gas metano, fino ad arrivare a 1,7 milioni euro di capitale. Il destino si ripete anche nel caso dei figli. Il 23 dicembre 2011 arriva il sequestro emesso sempre dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto. “Prima fatturavano quasi un milione di euro al mese”, ci aveva raccontato Pietro Cavallotti prima dello sfogo su Facebook. Oggi sono rimasti oltre 8 milioni di euro di debiti da pagare. E le immagini delle condizioni dell’azienda dopo che è stata dissequestrata, come vedete nel servizio qui sopra, purtroppo parlano da sole.

"Quel giudice ci ha tolto tutto", la lettera sfogo dell'imprenditore Cavallotti. La lunga lettera di Pietro Cavallotti a Silvana Saguto. Cavallotti è uno dei figli degli imprenditori edili di Belmonte Mezzagno il cui patrimonio è stato sottoposto a sequestro. Uno sfogo per raccontare gli ultimi vent'anni cercando di difendere l'azienda di famiglia e la storia di una famiglia vittima del sistema che ruotava intorno all'ex magistrato. Roberto Chifari, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale.  "Io qualcosa da dirti ce l’avrei", inizia così la lunga lettera che l'imprenditore Pietro Cavallotti ha scritto all'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto. Cavallotti è uno dei figli degli imprenditori edili di Belmonte Mezzagno il cui patrimonio è stato sottoposto a sequestro. Una lunga vicenda giudiziaria che si intreccia con quella del cerchio magico di Silvana Saguto. L'ex magistrato oggi è sotto processo a Caltanissetta. Lei è stata radiata dalla magistratura, i beni sono ritornati ai proprietari ma adesso ci sono solo debiti. "Ti ho visto per la prima volta in Tribunale. Avevamo udienza alle 9:00 e sei arrivata solo alle 12:00. Ti facevi avanti circondata dalle tue guardie del corpo con il trucco ben fatto e il capello curato nei minimi particolari - scrive Cavallotti -.Dai tuoi occhi usciva il fuoco dell’arroganza e della superbia. Eri il giudice supremo e tutti gli altri non contavano un cazzo, erano solo carne da macello, numeri da usare per la propaganda dei sequestri e delle confische alla “mafia”, patrimoni da spolpare e opportunità di lavoro per i raccomandati".

"Ti scocciava venire alle udienze", racconta Cavallotti che ricostruisce passo dopo passo quei mesi infernali cercando di difendersi dalla accuse e tentando di salvaguardare l'intero patrimonio familiare. "Nel momento stesso del sequestro, avevi già deciso di confiscare tutto. Le perizie e i processi servivano solo per prendere tempo e portare avanti il più possibile la mangiatoia. Quando prendevano la parola gli avvocati per spiegare le ragioni dei propri assistiti, facevi i disegnini su un pezzo di carta. Trattavi gli avvocati come se fossero collusi con i loro clienti. Forse eri temuta perché, con una semplice parola, avresti potuto segnare la fine della loro carriera, almeno al Tribunale di Palermo. Gli imprenditori mafiosi non erano quelli condannati per mafia. Erano coloro che in Sicilia riuscivano a creare lavoro e ricchezza. Tutti questi dovevano essere perseguitati, i loro beni spartiti a persone senza alcuna esperienza o competenza specifica. I lavoratori erano quantomeno complici e meritavano di essere licenziati e sostituiti con le persone di comprovata fiducia. Era inammissibile per te che dei lavoratori umili con la terza media diventassero imprenditori di successo. La giustificazione non poteva che essere la mafia. Voi, invece, con tre lauree e altrettanti master avete distrutto tutto. Noi con l'umiltà, il lavoro e il rispetto degli altri avevamo creato".

Una vicenda intricata che ha inizio nel 1998, anno in cui i fratelli Cavallotti furono arrestati, nell'ambito dell'operazione Grande Oriente, per poi essere assolti. "Ci hai tolto tutto: l’azienda, il lavoro, la casa e la libertà. Nonostante la nostra innocenza fosse scolpita in una sentenza passata in giudicato, hai ritenuto che tutto il nostro patrimonio fosse il frutto di un reato che non esiste. Poi, siccome non eri contenta, hai colpito anche noi figli che stavamo provando con il duro lavoro a riprendere in mano le redini del nostro futuro dopo che tu avevi distrutto il passato della nostra famiglia. E, siccome, attraverso di noi eravate arrivati fino all’Italgas, per salvare la vostra credibilità, avevate deciso di confiscare la nostra azienda, senza neanche avere letto la perizia che voi stessi avevate disposto".

Cavallotti ricostruisce la vicenda giudiziaria che ha travolto come una slavina la famiglia facendo nomi e cognomi di chi avrebbe distrutto a picconate la sua azienda. "Insieme a Licata, ti eri messa d’accordo con il Pubblico Ministero per fare acquisire le “prove” che avrebbero portato alla nostra confisca. Non era questo il tuo compito. Dovevi giudicare con imparzialità e, invece, ti sei messa d’accordo con una delle parti per fottere l’altra. Ti difendi dicendo che non eri sola a fare i sequestri o a dare gli incarichi. Vero. Chi erano gli altri? Fabio Licata, già condannato in primo grado, lo stesso che spiegava nei convegni che le indagini si fanno dopo il sequestro? Lorenzo Chiaramonte, lo stesso che vi segnalava il compagno (o l’amante) al quale il collegio da te presieduto dava gli incarichi di amministratore giudiziario? Fortuna che vi hanno fermati! Chi è venuto dopo di voi ha letto le carte e ci ha consegnato i debiti fatti dall’amministratore giudiziario che tu e i tuoi colleghi avevate nominato e assecondato in tutte le sue scelte sciagurate". Cavallotti prosegue nel racconto e il nastro viene riavvolto agli ultimi anni, quando la Saguto da giudice passa ad essere imputato. "La seconda volta ti ho vista al Tribunale di Caltanissetta, non più nella veste di Dio in terra ma, dopo essere caduta dal Cielo, semplicemente come imputato. Il capello e il trucco erano sempre impeccabili. Schiumavi rabbia come un leone ferito. Non ti rendevi conto di essere tu sotto accusa e ti comportavi come quando eri a capo della Sezione, fino addirittura ad intimidire velatamente e attaccare il Pubblico Ministero che ti accusava. Questa volta ti sei accorta di me e hai fatto finta di niente. Tu non stai provando neanche lontanamente la sofferenza che voi avete fatto provare a tante famiglie. Tu hai la garanzia di un giudice imparziale, non sei stata privata della libertà personale in attesa di un processo penale in cui vale la presunzione di innocenza". Lo sfogo arriva qualche giorno dopo la messa in onda della seconda puntata delle Iene sul sistema Saguto. "I nostri padri, senza prove, sono stati arrestati e, dopo due anni e mezzo, scarcerati con una pacca sulle spalle. L’assoluzione definitiva sarebbe arrivata solo 12 anni dopo. Per gli stessi fatti li avete crocifissi in un processo farsa in cui vale la presunzione di colpevolezza e, prima di quel processo, gli avete tolto ogni mezzo di sostentamento. Dopo 11 anni, avete confiscato tutto, pur di non ammettere di esservi sbagliati", prosegue nel racconto Cavallotti.

Il cerchio magico della Saguto era - come hanno ricostruito i magistrati - un sistema abbastanza rodato sulla presunta gestione illecita dei beni confiscati alla mafia. "Spendevate 15 mila euro al mese, fra ristoranti, vestiti alla moda e villa a Mondello per il figlioletto. Avevi una ricca vita sociale e in udienza andavi avendo sempre cura di non fare troppo presto perché tanto la gente poteva aspettare. La vostra principale fonte di reddito erano le amministrazioni giudiziarie. Tuo marito prendeva incarichi ad affidamento diretto perché era una persona affidabile. Noi alle 6 eravamo in cantiere a buttare il sangue e il sudore insieme agli operai sotto il sole oppure al gelo, si risparmiava per rientrare nei conti, si mangiava un pezzo di pane sul marciapiede o sopra i mezzi d’opera e la sera eravamo a tal punto stanchi che non potevamo fare altro che andare a letto, talvolta senza neanche mangiare. I lavori si prendevano, quando capitava, solo dietro gara di appalto, senza raccomandazioni e nel rispetto della legalità. Altro che festini e uscite con gli amici. Per noi non c'erano fragole con la panna, dolcetti da Costa, uscite con le amiche sull'auto blindata o aperitivi pomeridiani con il Prefetto. C'era solo la polvere e la terra del cantiere e la responsabilità di portare avanti un lavoro con tutte le difficoltà del mondo, per rispettare le scadenze del committente, per onorare gli impegni coi fornitori, per la nostra sopravvivenza e per quella dei nostri collaboratori. I tuoi figli facevano la bella vita, spendevano a destra e a sinistra. E noi, appena finita la scuola, fin da piccoli andavamo a uscire la terra dal fosso e queste erano le nostre vacanze perché c'era bisogno di lavorare. Così si capisce il valore dei soldi e dei sacrifici.Ma di tutte queste cose voi che cosa ne sapete?", si domanda con amarezza l'imprenditore che ha voluto rendere pubblica la sua vicenda personale.

L'ultimo sfogo è sulla situazione attuale, sulle difficoltà e sulle rinunce di questi ultimi anni per poter riuscire a chiudere i conti. "Ora, dopo 60 anni di lavoro, ci ritroviamo senza una casa e siamo ridotti a fare i conti dei contributi versati per capire se i padri hanno il diritto di andare in pensione. Quale mafia hai combattuto? Sapevi dove la mafia vera aveva nascosto i beni e, per paura, noi sei intervenuta. Meglio colpire il Cavallotti di turno che tanto mafioso non è e che non si potrà mai rivalere con la violenza. Tu sei madre, moglie e figlia. Come hai potuto infliggere tutte queste sofferenze a centinaia di figli, di mamme e di mogli? Ti vedo ora in televisione, invecchiata di almeno dieci anni, con il volto sciupato, sofferente e trascurato. Sei diventata il parafulmine. Attaccano te per difendere un sistema che non hai creato tu e al quale la stampa ha dato il tuo nome solo per nascondere una verità sconcertante che potrebbe rimettere in discussione trent’anni di misure di prevenzione. Le persone che venivano da te a chiederti i favori ti hanno rinnegata. Ti chiamavano "regina" e ti trattavano come tale. E, come quando cadono i peggiori regimi, tutti coloro che prima ne avevano tratto vantaggio, si dileguano. Eppure, nonostante tutto, non provo nessuna soddisfazione o piacere. Provo solo compassione. Tu potrai vincere tutti i processi ma hai già perso qualcosa di più importante, qualcosa che, forse, non hai mai avuto: il rispetto della dignità inviolabile delle persone. Per quanto mi riguarda, noi abbiamo vinto come uomini nella misura in cui non ci siamo mai arresi, nella misura in cui abbiamo trovato la forza di rialzarci e di non mollare dopo che voi ci avevate spezzato le gambe. Continueremo a difenderci e, se i giudici italiani non avranno il coraggio di ammettere gli errori commessi, lo farà la Corte Europea. Quando questo avverrà – perché avverrà – sarà una grande gioia per tutti coloro che credono nella giustizia senza vederla e una immensa vergogna per quello Stato sordo e cieco che continua a coprire gli abusi commessi da qualcuno nel nome della lotta alla mafia", conclude amaramente l'imprenditore.

Il Sequestro di prevenzione. Quando anche l'antimafia distrugge vite e aziende. Le iene il 27 novembre 2019. Vi abbiamo parlato più volte delle possibili distorsioni delle misure di prevenzioni antimafia. Con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli affrontiamo il paradosso giudiziario che ha distrutto due generazioni della famiglia Cavallotti e i negozi dei fratelli Niceta. Anche l’antimafia distrugge vite? Torniamo a parlare con Pietro Cavallotti, una nostra vecchia conoscenza di un nostro servizio, quando assisteva allo sfogo di suo zio Vincenzo: “Mi hanno rovinato la vita. A me e ai miei figli. Mi hanno rovinato perché ho un lavoro. Per quale motivo mi chiedo io? Noi non abbiamo mai avuto rapporti con la mafia. Noi siamo vittime delle mafia, degli amministratori, della malagiustizia”. Oggi aggiungiamo con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli un altro tassello al paradosso giudiziario che ruota intorno a questa famiglia da oltre 25 anni e che è la migliore dimostrazione di come una legislazione sacrosanta, pensata per combattere la mafia, possa fallire. Tutto inizia negli anni ’90 quando l’azienda creata dalla famiglia Cavallotti va a gonfie vele. Con oltre 300 operai e un fatturato di 20 miliardi di lire, la Comest srl si occupa della costruzione e manutenzione di impianti a metano. Proprio quando tutto sembra vada alla grande, i tre imprenditori Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti vengono arrestati. “Avevo 18 anni quando sono venuti verso le tre di notte con le pistole dentro la casa”, dice uno dei figli. Le accuse nel 10 novembre 1998 sono concorso in associazione mafiosa e turbativa d’asta, insomma: fare affari con Cosa Nostra. Tanto che un anno dopo si muove anche la sezione di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. L’azienda viene sequestrata e affidata a un amministratore giudiziario, una sorta di manager che dovrebbe gestire nella maniera migliore possibile il patrimonio sequestrato fino alla chiusura del processo. Il processo penale si conclude dopo 12 anni con l’assoluzione definitiva dei tre: “Non risulta l’appartenenza organica di Cavallotti Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito all’associazione mafiosa Cosa Nostra”. Il secondo processo è quello delle misure di prevenzione antimafia che procede con esiti completamente differenti. Il calvario di questa famiglia dura per 16 anni. E per tutti questi anni le loro aziende sono sotto nelle mani dello Stato e con il tempo si riducono a un cumulo di carcasse e macerie. La svolta definitiva è nel 2015 quando la sezione misure di prevenzione decide di confiscare definitivamente l’azienda. La storia non finisce qua. Nel 2006 i figli della famiglia Cavallotti, Pietro, Margherita, Giuseppe e tre ragazzi di nome Vito, si rimboccano le maniche e decidono di costituire una società che si occupa di quello che in famiglia sanno fare meglio: manutenzione delle reti di distribuzione di gas metano, fino ad arrivare a 1,7 milione euro di capitale. Il destino sembra ripetersi anche nel caso dei figli. Il 23 dicembre 2011 arriva il sequestro emesso sempre dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto, di cui vi abbiamo parlato in un altro servizio di Matteo Viviani. Radiata dalla magistratura, Silvana Saguto è sotto processo proprio per la gestione dei beni sequestrati con 79 capi d’accusa. A prendere in mano la società dei Cavallotti junior è l’avvocato Andrea Aiello, nominato dal Tribunale. “Andava benissimo, era in piena crescita, con 150 dipendenti”, dicono i ragazzi. Ne parliamo con Vincenzo Paturzo, curatore fallimentare del Tribunale di Milano specializzato in analisi di bilancio: “Ce ne fossero di aziende così…”. Poi arriva l’amministrazione giudiziaria: “In 24 mesi l’azienda ha avuto una perdita di 6 milioni”. Un dipendente parla di condizioni pietose dei loro alloggi in quel periodo: “Eravamo senza luce, siamo finiti all’ospedale… insomma degli schiavi”. Un altro parla della mancanza di cibo e di condizioni disumane. Alcuni sarebbero finiti in piena disperazione perché non riuscivano a mandare i figli a scuola per la mancanza dei pagamenti. Anche molti fornitori non sarebbero stati pagati. “In un anno ho ricevuto 1.100 euro” dice un dipendente, un altro aspetta ancora “circa 20mila euro di stipendio”, uno si è addirittura tagliato le vene per protesta. E sono solo alcuni esempi. L’amministratore giudiziario Andrea Aiello contesta però la ricostruzione. Di fatto l’azienda però va in liquidazione.  Secondo Vincenzo Paturzo, il 31 dicembre 2012 l’azienda “è in situazione fallimentare”. Secondo i bilanci depositati, nel 2017 risultano 9 e 700 mila euro di debiti. I figli dei Cavallotti presentano un esposto. Il pubblico ministero che avrebbe dovuto indagare sui presunti reati commessi da Andrea Aiello durante l’amministrazione giudiziaria dell’azienda dei Cavallotti junior è però lo stesso che rappresentava anche l’accusa nei loro confronti. La Guardia di Finanza individua dei possibili reati fallimentari di Aiello. Il pm chiede lo stesso l’archiviazione, ma il gip non ci sta e dà 90 giorni al pm per svolgere le indagini chieste dai Cavallotti. Finalmente dopo 8 anni di processo, quest’anno il Tribunale dissequestra la società: “La mafia non c’entra”. “Prima fatturavano quasi un milione di euro al mese”, ci racconta Pietro Cavallotti. Oggi sono rimasti oltre 8 milioni di euro di debiti da pagare. E le immagini delle condizioni dell’azienda dopo che è stata dissequestrata, come vedete nel servizio qui sopra, purtroppo parlano da sole. Quello dei Cavallotti non è purtroppo l’unico caso: i fratelli Massimo, Piero e Olimpia Niceta avevano uno dei più grandi negozi di Palermo della catena che per 100 anni ha rappresentato un punto di riferimento per la moda italiana. Anche questo lo troviamo oggi in condizioni disastrose. “Eravamo arrivati a 25 milioni di euro all’anno e avevamo 100 dipendenti”, dice uno dei fratelli. Chi sarebbe stato a distruggere tutto? Lo Stato. Il sospetto degli inquirenti nel 2009 era che i fratelli fossero prestanome per uno dei loro negozi di alcuni parenti del superboss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. L’ipotesi crolla e tutto viene archiviato nel giro di un anno e mezzo senza nemmeno andare a processo. La sorpresa, come nel caso di Cavallotti, arriva dalle misure di prevenzione: due e pure diverse! Una dal Tribunale di Trapani che decide di sequestrare il punto vendita, l’altra dalla sezione di Palermo, presieduta sempre da Silvana Saguto, che decide di sequestrare addirittura l’intero patrimonio dei Niceta. Perché “i Niceta sono da sempre legati alla mafia”. La misura si basa però sugli elementi dell’avviso di garanzia di un’indagine che è già stata archiviata. Da un giorno all’altro, i tre fratelli perdono tutto. Cosa porta la successiva amministrazione giudiziaria di 5 anni? “Una parte della merce è stata venduta nel fallimento, il resto l’hanno abbandonata nel negozio”, dice uno dei soci. “Ti leva da un momento all’altro tutto quello che hai e che sei. Ti lascia sostanzialmente in mutande. Ti chiedono le carte di credito, soldi che hai in tasca, tutto”. A prendere in mano l’amministrazione giudiziaria del patrimonio dei Liceta è l’avvocato Aulo Gigante, oggi a processo con l’accusa di corruzione assieme a Silvana Saguto. “Di un patrimonio di 50 milioni di euro sono rimasti solo 4-5 milioni di debiti tra affitti, contributi, tasse, fornitori non pagati”. In questo caso le aziende sono già fallite prima del processo. “È importante che lo Stato raccolga le nostre storie non perché ci vogliamo lamentare, ma perché vogliamo rappresentare ciò che succede all’ombra di una misura di prevenzione”.

Caso Cavallotti, aziende distrutte dai giudici, la Procura rinuncia a indagare. Errico Novi il 16 Agosto 2019 su Il Dubbio. Caso Cavallotti il pm di Palermo chiede l’archiviazione per l’amministratore. La famiglia siciliana di imprenditori, spogliata di tutti I beni nonostante l’assoluzione dall’accusa di mafia, denunciò I presunti abusi del manager scelto dal tribunale. C’è un sorprendente incrocio tra un fatto tragico, che ha colpito milioni di italiani, e una meno nota, ma pure terribile, vicenda di malagiustizia. Nadia Toffa, inviata delle Iene scomparsa due giorni fa, si era interessata alle assurdità inflitte alla famiglia Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, assolti da ogni accusa di mafia eppure spogliati di tutti i loro beni dallo Stato.

IL CASO. Proprio nel giorno in cui ci ha lasciati la coraggiosa giornalista, la Procura del capoluogo siciliano ha chiesto al gip di coprire con il velo definitivo dell’archiviazione le indagini sulle presunte malversazioni contestate, dai Cavallotti, a uno degli amministratori giudiziari che hanno gestito, e indebitato, le loro aziende, Andrea Modica de Mohac. Il professionista siciliano era stato intervistato proprio da un altro inviato delle Iene, Matteo Viviani. Il quale nel dicembre del 2017 gli chiese di rispondere alle accuse di abuso d’ufficio e false fatturazioni mossegli dai Cavallotti, e ottenne la seguente risposta: «Era tutto autorizzato dal giudice…». È un’informazione decisiva. E indispensabile per comprendere la sconcerto suscitato, dalla richiesta d’archiviazione, in Pietro Cavallotti, che nella seconda generazione della famiglia di imprenditori è divenuto il regista delle tenaci strategie processuali studiate per avere giustizia.

SENZA SPERANZE. Dice Pietro: «Il nostro timore è che, con la fine delle indagini sull’amministratore Modica de Mohac, cada ogni speranza di verificare se vi siano state, appunto, anche responsabilità da parte del Tribunale. In particolare, se ad autorizzare condotte manageriali devastanti, e additate come sospette dalla Guardia di Finanza, sia effettivamente stata la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta negli anni in questione, dal 2006 al 2012, anche da Silvana Saguto». Si tratta della magistrata sotto processo a Caltanissetta con alcune decine di capi d’imputazione relativi proprio agli incarichi affidati a diversi professionisti per gestire le aziende sequestrate dal suo ufficio. Colpisce, in effetti, il contrasto fra la rassegnata resa dei pm palermitani e la durezza delle accuse ipotizzate nelle loro relazioni investigative dagli uomini della Dia di Palermo, guidati all’epoca dal colonnello Riccardo Scuto. Ipotesi che confermavano in gran parte i sospetti formulati innanzitutto nell’esposto presentato alla Procura, nel 2014, da Salvatore Vito Cavallotti, zio di Pietro.

LA DENUNCIA DELLA FAMIGLIA. Con quella denuncia, la famiglia di imprenditori segnalava, per esempio, fatturazioni acquisite dalla Comest, una delle aziende di famiglia amministrate giudiziariamente da Modica de Mohac, e provenienti da ditte, come la “D’Arrigo” di Borgetto, di cui era amministratore lo stesso professionista. Così come venivano denunciati i rapporti instaurati con la “Mirto inerti”: rapporti in cui, negli accertamenti successivamente condotti, gli investigatori della Direzione antimafia riscontrarono anomalie che facevano «trasparire con ogni probabilità un artifizio, mirante a sanare, in epoca successiva, le incongruenze della contabilità interna».

L’INCHIESTA GIORNALISTICA. Nella stessa relazione veniva citato anche un articolo di un combattivo giornale on line, I siciliani giovani, e in proposito, gli investigatori guidati dal colonnello Scuto scrivevano: «Appare non completamente priva di fondamento la tesi giornalistica che paventava successivi aggiustamenti contabili realizzati a seguito di una denuncia presentata dai fratelli Cavallotti, che lamentavano la svendita a prezzi irrisori dei mezzi delle loro società». È in virtù di tali elementi che gli investigatori sollecitano la Procura di Palermo ad acquisire i carteggi tra l’amministratore giudiziario e il Tribunale. Richiesta avanzata dai pm, ma mai evasa. Un silenzio, sui possibili addebiti riconducibili alla stessa sezione Misure di prevenzione, che secondo Pietro Cavallotti «è perfettamente intonato con i successivi provvedimenti di confisca delle nostre aziende. Da una parte la negazione dei carteggi tra de Mohac e i giudici impedisce di accertare eventuali illeciti dello stesso Tribunale che, per la loro maggiore gravità, spazzerebbero via anche l’ostacolo della prescrizione, in modo da consentire a noi di agire contro amministratori e magistrati per essere risarciti. Dall’altra», nota Cavallotti, «la confisca, che continuiamo a chiedere, senza esito, di revocare, ci impedisce di acquisire documenti che da soli potrebbero consentirci verifiche contabili più penetranti, ma la stessa confisca ci priva, soprattutto, della legittimazione giuridica ad agire civilmente». Passano gli anni, resta l’ingiustizia subita dagli imprenditori di Belmonte, e resta anche l’impossibilità di rivalersi almeno sul piano civile nei confronti di chi ha lasciato che una delle più grandi imprese nazionali nella distribuzione del gas si riducesse in polvere. Una beffa che pare prolungarsi senza fine.

Sequestro per mafia ingiusto, il giudice lo dice 8 anni dopo. Restituiti i beni alla famiglia Cavallotti. Con 6 milioni di debiti, dopo 8 anni e i disastri dell’era Saguto. Errico Novi l'8 Maggio 2019 su Il Dubbio. Pietro Cavallotti ha la tempra del maestro zen. Ha 29 anni e porta una croce: la sua famiglia è stata accusata di mafia e si è vista portare via tutto. Le imprese e persino le abitazioni. Pietro ha iniziato, quando era ancora ragazzino, a studiare. Diritto, ovviamente. Ha studiato tanto che oggi forse si fa prima ad andare da lui che all’università, se si vuol capire come funzionano le misure di prevenzione antimafia. Lui, figlio di imprenditori palermitani, aveva una motivazione straordinaria: ottenere giustizia per sé, suoi fratelli, suo padre. L’ha avuta. Con otto anni di ritardo, ma l’ha avuta. Certo la giustizia può assumere fattezze paradossali. E sono quelle disvelatesi allo sguardo fermo e tenace di Pietro: l’altro ieri la sezione “Misure di prevenzione” di Palermo ha accolto il ricorso di Pietro Cavallotti e dei suoi fratelli e ha così revocato il sequestro di parte delle aziende di famiglia. Dopo otto anni di attesa e con un dettaglio che rende tutto surreale: oggi le aziende sono ridotte in polvere. Euroimpianti plus, la più importante delle ditte restituite due giorni fa dai giudici agli imprenditori originari, ora ha sul groppone qualcosa come 6 milioni di euro di debiti. Accumulati uno ad uno dall’amministratore giudiziario. Una beffa, per usare una definizione ipocrita. Maturata negli anni che temporalmente, e non solo, coincidono con quelli in cui a presiedere la sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo è stata Silvana Saguto. La magistrata oggi sotto processo a Caltanissetta per corruzione, abuso d’ufficio e associazione a delinquere, reati tutti connessi proprio al modo in cui gestiva i sequestri e l’assegnazione degli incarichi agli amministratori giudiziari.

QUEL PG CHE DISSE “QUESTI SONO VITTIME”. Se si vuole capire la follia, l’enormità del caso Cavallotti, si deve tornare al processo di prevenzione celebrato negli anni scorsi a carico di altre aziende di famiglia, appartenute a Gaetano Cavallotti, padre di Pietro, e ai suoi fratelli. «Siamo nel 2013, al secondo grado di giudizio del cosiddetto processo di prevenzione», ricorda il 29enne di Belmonte — e servirebbe un intero numero di giornale per illuminare un profano sugli esoterismi del doppio binario, che vede appunto abbinato al processo penale vero e proprio un altro procedimento, di “prevenzione” appunto, privo di garanzie e spesso destinato a protrarsi nonostante l’assoluzione dalle accuse di mafia. «In udienza fu il pg Florestano Cristodaro a dire “dobbiamo restituire l’azienda e tutti gli altri beni alla famiglia Cavallotti, queste persone sono vittime dei mafiosi, non colluse”. Ancora: “Dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo, quando lo Stato sbaglia”. Ci commuovemmo tutti fino alle lacrime. Ma non servì. La Corte d’appello confermò la confisca, divenuta definitiva nel 2016». Vittime, ecco: e da dove nasce la ferocia dello Stato nei confronti di questa famiglia palermitana di imprenditori, attiva nel settore del gas? Dal combinato disposto fra indizi inconsistenti e una gestione delle misure di prevenzione oggi messa sotto accusa dai giudici di Caltanissetta. Il padre di Pietro e i suoi fratelli erano stati addirittura arrestati, nel 1998. Accusa: concorso esterno in associazione mafiosa. Alla fine saranno assolti. La sentenza d’appello bis, del 2010, stabilisce che erano appunto vittime e non collusi con la mafia. Ma già l’anno dopo l’arresto, nel 1999, la competente sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo aveva avviato il processo di prevenzione e sequestrato le aziende della prima generazione dei Cavallotti. Come avvenuto ad altri imprenditori siciliani martorizzati dalla giustizia, l’assoluzione nel processo vero e proprio, quello penale, non basta a far cadere le restrizioni sui beni. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dal concorso esterno, si conclude dopo qualcosa come 12 anni il primo grado del procedimento parallelo: il sequestro è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. In particolare la “corte Saguto” cita la corrispondenza di due superboss: Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Il primo fa riferimento al pizzo da imporre per i lavori di metanizzazione in due comuni del Palermitano, Agira e Centuripe. Pizzo imposto ai Cavallotti, che quindi sono vittime. E invece, per Saguto e il suo collegio ( ora interamente sotto processo a Caltanissetta), si tratterebbe di un indizio di pericolosità. Brusca scrive in un pizzino che si deve affrontare la “messa a posto” dell’impresa Cavallotti, impegnata a portare il metano a Monreale. Nel gergo criminale “mettere a posto” significa mettere in regola con l’esazione del pizzo. Saguto lo ignora. Interpreta la frase come prova non delle vessazioni mafiose subite dai Cavallotti, ma di una premura paterna del capomafia. E appunto, a ottobre 2011 emette il decreto di confisca di primo grado nei confronti del padre di Pietro.

L’AMMINISTRATORE CHE PAGA SOLO SE STESSO. Alla vigilia di Natale dello stesso anno, sempre la ex presidente delle “Misure di prevenzione” di Palermo fa scattare altre restrizioni, stavolta nei confronti delle aziende dei figli, inizialmente dei fratelli di Pietro. Nomina un amministratore giudiziario, Andrea Aiello. Il quale adotta un meccanismo replicato varie volte da professionisti incaricati da Saguto: individua altre aziende secondo lui riconducibili ai pericolosissimi Cavallotti, quelle dei cugini di Pietro. Sono ditte di costruzioni, anch’esse restituite, due giorni fa, alla famiglia di imprenditori da un Tribunale che intanto ha cambiato presidente. Ma ciò che conta è che Aiello, nel 2014, ottiene l’amministrazione giudiziaria anche di questi altri asset. Continua così ad attribuirsi compensi straordinari, grazie a una strategia semplicissima: non paga i fornitori. Ecco perché la famiglia Cavallotti, strenuamente difesa in questi anni dal Partito radicale, ha riavuto una Eurompianti gravata da 6 milioni di debiti. Giustizia, sì. Ma col retrogusto marcio della beffa.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dopo l’espropriazione proletari dei beni, tocca all’espropriazione proletaria dei figli. Li togliessero a tutti i mafiosi, anche a quelli che credono di non esserlo.

·         Non si possono vedere nemmeno da morti.

Il tribunale revoca l’ok alla visita, lui muore e la famiglia non lo vede. Rosario Allegra, uno dei cognati di Matteo Messina Denaro, era al 41 bis dal 5 maggio. L’avvocato Michele Capano, di Radicali italiani: «impediscono anche che i familiari si raccolgano nel pianto vicino al cadavere: sono punti di non ritorno nell’imbarbarimento del sistema detentivo» Damiano Aliprandi il 15 giugno 2019 su Il Dubbio. Era in imminente pericolo di vita al regime duro del carcere di Terni, per questo subito ricoverato d’urgenza all’ospedale, sempre in regime di 41 bis. I familiari sono riusciti ad ottenere un permesso speciale dal tribunale di Marsala per poterlo andare a trovare un’ora al giorno. Ma non hanno fatto in tempo a vederlo vivo. Dopo una nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, infatti, il tribunale ha fatto dietrofront, ripristinando il colloquio di un’ora al mese. Parliamo di Rosario Allegra, uno dei cognati del super latitante Matteo Messina Denaro – arrestato ad aprile dell’anno scorso – e ristretto al 41 bis, in custodia cautelare, dal 5 maggio scorso. Il detenuto, come detto, versava – così scrivono i medici – «in gravissime condizioni di salute irreversibile» e così il suo avvocato aveva presentato, il giorno dopo il ricovero, avvenuto il 23 maggio, istanza di revoca della misura o di autorizzazione almeno ad una visita – ulteriore rispetto a quella prevista per il mese successivo a norma di legge -, affinché incontrasse la moglie e i figli. Il motivo della richiesta era l’imminente pericolo di vita. Il Tribunale di Marsala ha rigettato la richiesta di revoca della misura ma, visto che nel frattempo il detenuto iniziava a versare in condizioni terminali e si trovava in ospedale in stato praticamente di incoscienza, ha autorizzato la moglie e i due figli al colloquio di un’ora al giorno per vederlo in via straordinaria. Nell’occasione il Tribunale ha osservato che, se è vero che i detenuti in 41 bis possono usufruire di un solo colloquio al mese, è vera anche la previsione che, in caso di eccezionali circostanze, sia consentito di prolungare la durata del colloquio per i congiunti e conviventi. Pertanto, ritenendo la veridicità del pericolo di vita, evidenziato dalle risultanze degli atti medici prodotti dalla difesa, il Tribunale di Marsala, in un’articolata e motivata ordinanza completa di richiami normativi all’ipotesi della eccezionalità, ha applicato la norma che consente il prolungamento dei colloqui almeno fino al mutamento dell’eccezionale urgenza e dell’imminente pericolo di vita. Per questo, il Tribunale ha autorizzato i colloqui supplementari giornalieri ai figli e alla moglie nel luogo di degenza. Questo è accaduto il 6 giugno scorso, dietro istanza del difensore. Lo stesso giorno il Dap scrive però una nota al Tribunale di Marsala e lo invita a rivisitare il provvedimento, segnalando che il ministro aveva già autorizzato un colloquio visivo «viste le gravi condizioni di salute, in cui versava». Il tribunale di Marsala il 7 giugno ha recepito la nota e “melius re perpensa” ha revocato l’ordinanza del precedente 6 giugno, nella parte in cui aveva autorizzato per un’ora al giorno i colloqui con la moglie e i figli. Il tutto accade dietro la deduzione di un’attesa valutazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulla effettiva ricorrenza dell’ipotesi dell’imminente pericolo di vita. Ciò, anche se il paziente era in effetti “in imminente pericolo di vita”, come si evinceva dalle carte mediche, ed anche se necessitava di “supporto per tutte le funzionalità” secondo il bollettino clinico del 2 giugno dell’Azienda Ospedaliera di Terni – in possesso anche dell’Amministrazione del carcere. In soldoni, nel giro di poche ore il tribunale ha revocato l’autorizzazione, prima concessa ai congiunti prossimi, di vedere un’ora al giorno il detenuto. Giovedì mattina, Rosario Allegra è morto e, almeno fino al pomeriggio i suoi figli – incensurati – non hanno potuto vederlo. Tutto questo – con tanto di documentazione – lo denuncia a Il Dubbio l’avvocato Michele Capano, componente del Comitato di Radicali Italiani. «A parte la chiara e vergognosa sudditanza del potere giudiziario a quello esecutivo che il carteggio prova – spiega Capano -, è una questione che testimonia del degrado nella magistratura ben più che le vicende di Palamara & company: la prova di disumanità di una Repubblica che – dopo non avere consentito gli estremi conforti al moribondo – ha anche “trattenuto” la salma, evidentemente per non meglio precisate operazioni da compiere». Continua l’attivista dei Radicali Italiani: «In questa maniera impediscono anche che i familiari si raccolgano nel pianto vicino al cadavere: sono punti di non ritorno nell’imbarbarimento del sistema detentivo». E conclude: «Così viene meno ogni credibilità istituzionale nella lotta alla mafia e si guadagna consenso alla mafia».

·         Un Domicilio per tutti.

Un Domicilio per tutti. Lorenzo Bagnoli, Matteo Civillini e Gianluca Paolucci per la Stampa il 9 dicembre 2019. #29 Leaks è il progetto che parte dall' esame dei dati di Formations House, società inglese che si occupa di costituire aziende per conto terzi. Sui dati, ottenuti dal gruppo di attivisti Ddos, ha lavorato un consorzio di giornalisti coordinato da Occrp (Organized crime and corruption reporting project) e Finance Uncovered. Una palazzina elegante nel cuore di Londra è la sede delle attività degli eredi del «capo dei capi» della Mafia, di un faccendiere legato ai clan della Camorra e dei «colletti bianchi» coinvolti in una maxinchiesta sulla 'Ndrangheta. L' indirizzo, 29 Harley Street, è anche lo stesso utilizzato da politici corrotti di mezzo mondo, criminali comuni, aziende statali di paesi sotto embargo. È la sede di Formations House, l' entità che ha permesso di aprire oltre 400 mila società in15 anni. Via internet, da qualunque parte del mondo, con poche domande e nessuna formalità. La vicenda di Formations House è già emersa in Gran Bretagna. Ma solo oggi, grazie a questo leak, è possibile svelare l' ampiezza degli affari e la caratura dei personaggi coinvolti.

Pubblicità sul giornale. L' 11 ottobre del 2008, sul Giornale di Sicilia esce un annuncio pubblicitario: «Divorzio lampo (40 giorni)». Rimanda a uno «Studio legale internazionale» che si chiama T&T Corporation e promette procedure rapidissime per divorzi consensuali, da effettuarsi in Spagna. L' annuncio insospettisce la Guardia di finanza, che fa partire una serie di verifiche. Si scopre così che la T&T Corporation fa capo ad alcuni familiari di Totò Riina. E ha la sede in una bella palazzina del centro di Londra, al numero 29 di Harley Street. Quando nel 2007 Maria Concetta Riina - figlia di Salvatore - e suo marito Antonino Ciavarello decidono di avviare la T&T Corporation, scelgono Formations House semplicemente perché all' epoca era in testa ai risultati delle ricerche su internet per la costituzione di società all' estero. Ciavarello sostiene di essere una vittima: «Io ho sempre lavorato in vita mia, è vero ho sposato "la figlia di", ma mi stanno torturando per questo». Ma nonostante Ciavarello venga già coinvolto in indagini patrimoniali nel 2012, anche per il secondo tentativo di ricostruire la propria rete societaria - nel 2015 - Maria Concetta e Antonino si rivolgono a Formations House. La nuova società si chiama Corleone Caffè Trading e resta attiva un anno e mezzo. La Riina dice oggi che è rimasta solo un' idea e non ha movimentato nulla. Fino all' agosto scorso era invece formalmente operativa la Business Bank Italy Ltd, che si presentava come una società di «Servizi finanziari per l' investitore globale». Con un capitale sociale di dieci milioni di sterline e sede ovviamente al 29 di Harley Street. Tra gli amministratori che si sono dati il cambio in undici anni di vita spicca un nome su tutti: Antonio Righi, 55enne napoletano ritenuto riciclatore di punta del clan camorristico Contini e condannato a 16 anni e 10 mesi nel 2017. Nella City, Righi avrebbe trovato una comoda sponda per allargare i suoi affari. Nonostante i precedenti per traffico di droga e ricettazione risalenti ai primi anni 2000, Righi - detto Tonino o' biondo - non ha problemi lavorare con Formations House. La Camorra nel pallone La Carrefur Ltd, ad esempio, prende vita nel 2007 con Righi tra i suoi azionisti. Pochi mesi dopo la Carrefur è il veicolo acquista l' FC Sopron, all' epoca militante nella seria A ungherese. Da neo-presidente Righi rilascia interviste roboanti, ma il sogno dura poco: la federazione ungherese squalifica la squadra per mancati pagamenti ai dipendenti e al fisco. Righi ci riprova l' anno dopo, usando la Finance & Mortgages Limited per cercare di acquisire il controllo del Modena Calcio. Però le garanzie finanziarie non convincono e l' affare salta. E sempre a Righi è associato il caso forse più clamoroso, già emerso sulla stampa britannica, che dimostra come Formations House fosse un «porto sicuro» per qualunque tipo di attività. Il suo nome figura nelle carte della Magnolia Fundaction Uk Limited, gestita - accanto a persone reali - da «Ottavio detto Il Ladro di Galline». Come «secretary» è iscritta la «Banda Bassotti Company» con sede in Via Dei 40 Ladroni, Ali Babbà. Senza che nessuno battesse ciglio né a Formation House né al registro imprese britannico. Tra i clienti italiani di Formations House c' era anche l' avvocato padovano Andrea Vianello, coinvolto nella maxi-operazione «Gambling» che nel 2015 ha svelato gli affari della 'Ndrangheta nel gioco d' azzardo online. Considerato dalla procura il consulente legale del gruppo criminale, Vianello ha patteggiato 2 anni per gioco d' azzardo e associazione a delinquere (caduti invece i reati di mafia e riciclaggio). In questo modo, gli vengono restituiti beni e società sequestrati durante le indagini. L' avvocato padovano avrebbe in particolare aperto le porte dei paradisi fiscali, facilitando la creazione di società nella Isole Vergini Britanniche. Grazie alle email contenute nel leak si scopre che è stata proprio Formations House a contribuire alle attività di Vianello. La vicenda che spicca è quella della Elledi Immobiliary Ltd, citata nelle carte dell' inchiesta Gambling. Tra le email del leak c'è la richiesta per ottenere una nuova carta di credito sul conto che la Elledi aveva acceso presso la First Bank of Middle East. Una banca registrata in Tanzania, ma che il grosso dei suoi affari li faceva a Cipro, dove è stata accusata di finanziare gruppi terroristici e organizzazioni criminali.

·         Liberi di scegliere.

Liberi di scegliere: tutto sul film tv con Alessandro Preziosi. Ispirato alle iniziative del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, va in onda su Rai 1 martedì 22 gennaio. Nel cast ci sono Nicole Grimaudo e Carmine Buschini, scrive Francesco Canino il 22 gennaio 2019 su Panorama. Racconta uno spaccato di vita vera - quella che vede intrecciarsi le storie delle giovani leve della 'ndrangheta a quella degli uomini di Stato che tendono loro la mano per aiutarli a realizzare un futuro diverso - Liberi di scegliere, il flm tv di Rai 1 con Alessandro Preziosi, Nicole Grimaudo e Carmine Buschini, in onda martedì 22 gennaio. Ecco tutto quello che c'è sa sapere. È una sfida impegnativa quella che deve affrontare Alessandro Preziosi, il protagonista di Liberi di scegliere, il film tv drammatico scritto da Monica Zapelli, sceneggiatrice e scrittrice, autrice tra gli altri de I cento passi. L'attore questa volta si cala nel ruolo di Marco Lo Bianco, un giudice del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria che ha un sogno: strappare i ragazzi alla ‘ndrangheta. Il film è ispirato dall’iniziativa del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria - in particolare all’esperienza del giudice Roberto Di Bella, che dal 2012 punta su provvedimenti che prevedono la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale - e racconta un percorso alternativo al carcere che ha l’obiettivo di fornire ai giovani delle cosche malavitose la possibilità di una crescita sociale e culturale in luoghi e contesti lontani da quelli di provenienza.

La trama del film evento di Rai 1. Quando il giudice Lo Bianco incontra Domenico (Carmine Buschini), ultimo componente di una cosca, ma anche fratello minore di un ragazzo che ha inutilmente arrestato anni prima, decide che è arrivato il momento di dire basta: con un provvedimento senza precedenti, dispone l’allontanamento del ragazzo dalla Calabria e il decadimento della responsabilità genitoriale non solo per il padre latitante, ma anche per la madre. A quel punto Lo Bianco e i suoi assistenti saranno costretti a fare i conti con i codici e i sentimenti delle famiglie criminali, mentre Domenico e sua sorella Teresa (Federica Sabatini) impareranno che esiste anche uno Stato che tende la mano e aiuta i ragazzi a sognare un futuro diverso, in cui poter essere liberi di scegliere. Così i ragazzi vengono sottratti al loro destino, che quasi certamente li avrebbe portati a seguire le orme dei padri e offrendo loro la possibilità di conoscere un altro modo di vivere.

Il cast di Liberi di scegliere. Nel cast di Liberi di scegliere c'è anche Carmine Buschini, attore amato dai giovanissimi, che incontra nuovamente il regista Giacomo Campiotti, il quale lo aveva diretto nella serie Braccialetti Rossi. "Questa volta interpreta un personaggio diverso. Abbiamo lavorato sulle emozioni, ma questa volta represse e nascoste, anche a se stesso", spiega Campiotti. Nicole Grimaudo è invece la madre di Domenico, intrappolata in una prigione di rimozioni. Francesco Colella è Antonio, che da capofamiglia premuroso si trasforma in pericoloso assassino, mentre Alessandro Preziosi sarà un giudice antieroe. "Con lui abbiamo lavorato in sottrazione, costruendo un magistrato, schivo, umile, emotivamente partecipe del destino dei ragazzi e delle loro famiglie, ma sempre nel rispetto del suo ruolo istituzionale. Proprio come il Giudice Di Bella", aggiunge il regista.

Liberi di Scegliere: la storia vera di Roberto Di Bella che ha ispirato il personaggio di Marco Lo Bianco, scrive il 21 gennaio 2019 Costanza Mauro su pianetadonna.it. Chi è Roberto Di Bella, il giudice che ha ispirato il personaggio interpretato da Marco Lo Bianco nel film Rai per la TV Liberi di Scegliere. Se avete visto o state vedendo il film per la tv in onda su Rai 1 Liberi di scegliere, di certo sarete rimasti colpiti dall'incredibile storia del giudice Marco Lo Bianco. Ad interpretare Marco Lo Bianco è un bravissimo Alessandro Preziosi, ciò che però forse vi sfugge è che questo personaggio è ispirato a una persona vera: Roberto Di Bella. Ma chi è Roberto Di Bella? E' il Presidente del Tribunale Minorile di Reggio Calabria e ha il grande merito di aver cambiato radicalmente l'approccio nei confronti dei figli delle famiglie mafiose appartenenti all'ndgrangheta, trovando una strategia che permettesse loro di svincolarsi da un destino segnato che li vorrebbe eredi dei padri all'interno della complicata gerarchia delle cosche.

La vera storia di Roberto Di Bella. Roberto Di Bella ha poco più di 50 anni, 30 dei quali li ha trascorsi nei tribunali, tentando non solo di applicare le leggi, ma anche di costruire un futuro diverso per coloro che potevano ancora sfuggire alla presa dell'ndrangheta. Di Bella ha lavorato a Reggio Calabria e, dopo una parentesi messinese, è ritornato nella città che aveva lasciato per ricoprire il ruolo di Presidente del Tribunale Minorile nel 2011. Nel corso degli anni di lavoro, Di Bella ha avuto modo di verificare un dato allarmante: a distanza di un decennio, i cognomi che saltavano fuori nel corso dei processi degli anni 2000 erano gli stessi degli anni '90. Perché? Perché le famiglie mafiose erano sempre le stesse e le generazioni più giovani raccoglievano i testimoni dei padri, la loro eredità criminale e spesso finivano per condividerne anche il destino processuale. Tanti ragazzi, anche molto giovani, imboccavano una strada pericolosa e finivano inevitabilmente nelle mani della giustizia o peggio. Agli occhi del giudice Roberto Di Bella divenne quindi evidente la necessità di intervenire affinché a questi ragazzi senza colpa potessero scegliere di avere un destino diverso. Come fare? Allontanandoli dall'ambiente in cui sono cresciuti, limitando o in alcuni casi facendo decadere del tutto la responsabilità genitoriale, sarebbe stato possibile offrire a questi giovani una visione diversa del mondo e della propria vita. Questa è stata una vera e propria rivoluzione, portata avanti naturalmente non dal solo Di Bella, ma anche dai suoi collaboratori di concerto con la Procura della Repubblica per i Minorenni, con la Procura Antimafia e anche, in alcuni casi, con l'associazione Libera che fa capo a Don Ciotti, che sostiene il progetto soprattutto per quanto riguarda i percorsi di formazione. Il diverso approccio sta dando molti frutti, prima di tutto perché per molti giovani ha davvero rappresentato l'alternativa che gli ha permesso di sganciarsi da un mondo di violenza, e poi perché anche diverse madri, spinte dall'esempio e dall'amore per i figli, stanno cominciando seguirli in questo percorso.

LIBERI DI SCEGLIERE, ECCO QUAL È LA VERA STORIA. La figura del personaggio interpretato da Alessandro Preziosi è ispirata al lavoro di un magistrato reale: Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per minorenni di Reggio Calabria, scrive Elisa Chiari su Famiglia Cristiana il 21/01/2019. Dietro il film per la Tv Liberi di scegliere, regia di Giacomo Campiotti, in onda su Raiuno il 22 gennaio, e dietro il protagonista Marco Lo Bianco, interpretato da Alessandro Preziosi, c’è una storia vera: quella del magistrato Roberto Di Bella, messinese d’origine, un’intera carriera dedicata alla giustizia dei minori, in prevalenza a Reggio Calabria con una parentesi a Messina, dal 2011 presidente del Tribunale per minorenni di Reggio Calabria. In magistratura dal 1991, 55 anni, ha ripetutamente spiegato in occasioni pubbliche che: «la 'ndragheta si eredita, esiste il rischio non virtuale, che in particolari contesti e in particolari famiglie, l’educazione si traduca in educazione criminale». Un fatto di cui ha preso atto, in modo diretto, quando, nella sua lunga esperienza sul territorio, si è trovato in condizioni di giudicare i figli di minorenni che aveva giudicato vent’anni prima, cosa che si spiega anche con il fatto notorio che la ‘ndrangheta si fonda sul legame di sangue, familiare, a differenza di cosa nostra dove prevale il vincolo del mandamento. Quel passaggio di fascicoli, e di processi, di padre in figlio sulla sua scrivania, ha portato Di Bella a interrogarsi su come prevenire il fenomeno dell’ereditarietà criminale, a domandarsi come agire per tempo per evitare che ai figli seguano i nipoti. La riflessione ha portato, da qualche anno, a una valutazione: quanto e fino a quando il rischio di un destino criminale ineluttabile, che troppe volte si conclude con il carcere o con la morte, può comprimere la libertà di un bambino fino a comprometterne la crescita psico-fisica? Quanto, in determinate circostanze, un’educazione siffatta può andare contro il migliore interesse del minore fino a giustificare un intervento legale di temporaneo allontanamento dalla famiglia, come avviene nei maltrattamenti, dovendo bilanciare il diritto di crescere ed essere educati nella famiglia d’origine con il diritto a preservare l’integrità psicofisica del ragazzo?

La risposta che si sono dati al Tribunale per Minorenni di Reggio Calabria, è che, in qualche ben determinata situazione, da valutare caso per caso, questa condizione si possa verificare. Il risultato è un orientamento giurisprudenziale che si va consolidando, tradotto, negli ultimi sette-otto anni, in una settantina di provvedimenti di allontanamento temporaneo di ragazzi in prevalenza tra i 15 e il 17 anni, o poco più giovani. Il dottor Di Bella lo ha più volte spiegato così relazionando della questione in pubblico: «Non accade mai di allontanare un minore soltanto perché nato nel contesto di una famiglia mafiosa», ma, caso per caso, «viene valutato il caso concreto, intervenendo laddove il metodo educativo mafioso determini un concreto pregiudizio per il concreto sviluppo psicofisico dei minori. Casi di questo genere sono avvenuti quando da intercettazioni o testimonianze è emerso un coinvolgimento dei minori nell’uso di armi o nei traffici di droga, o quando si è verificata la commissione da parte di ragazzi di una serie di reati sintomatici di una escalation della carriera criminosa e il genitore non è intervenuto in nessun modo per contenerli. Oppure si interviene «quando vi sia la necessità di tutelare l’integrità fisica dei ragazzi nelle situazioni di faida» o ancora quando «c’è il rischio che i figli di un collaboratori e soprattutto collaboratrici di giustizia vengano usati come merce di ricatto nei confronti di chi in famiglia abbia collaborato con lo stato».

La base su cui si agisce ovviamente è normativa: gli articoli 2, 30 e 31 della Costituzione, l’art. 330 del codice civile. («Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti (educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni ndr) o abusa dei relativi poteri) con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare» e, sul piano del diritto internazionale, la Convenzione sui diritti del fanciullo siglata a New York nel 1989. Facile prevedere che l’intervenire in questo modo, per provare a dare a dei ragazzi, prima che sia troppo tardi, l’occasione di sperimentare o modello educativo e di vita diversa, cosa che spiega il nome dato al progetto “liberi di scegliere” che coinvolge per l’’80 per cento ragazzi che hanno già commesso reati e che si avvale della collaborazione di psicologi e di associazioni come Libera, non sia un modo di farsi degli amici. E infatti non mancano le minacce e il presidente Di Bella vive da anni sotto protezione, ma è anche vero, che per sua stessa ammissione, non sono mancati episodi di ringraziamento da parte di madri e, persino, di padri in carcere.

«Si cerca di far passare l’idea che la violenza genera sofferenza un messaggio che stanno recependo soprattutto le madri. E’ vero che ci sono madri irriducibili, ma ce ne sono altre desiderano un riscatto dal contesto criminale di cui sono prigioniere per salvare i figli e per sé stesse. Spesso sono “vedove bianche”, hanno il marito in carcere e temono che il figlio finisca allo stesso modo. Capita che vengano a chiederci di nascosto dalla famiglia di allontanare i ragazzi». Reggio Calabria è, al momento, l’unica sede di Tribunale per minorenni, che pur senza alcun automatismo, ha messo a sistema questo percorso, comunque delicato e complesso, che ha genera un dibattito costruttivo tra gli addetti ai lavori per l’invasività e che pone problemi complessi anche in relazione al compimento della maggiore età, quando i ragazzi escono dalla competenza del Tribunale per minorenni.

Il tv movie “Liberi di scegliere” in onda in prima serata su Rai Uno il prossimo 22 gennaio racconta il primo caso di "allontanamento" di un minore da una famiglia di 'ndrangheta, che è sintesi dei tanti che si sono succeduti nella realtà. Una realtà fatta di decine di bambini cresciuti a pane e mafia, scrive gazzettadelsud.it il 18 gennaio 2019. Luigi (solo il nome è di fantasia) aveva 9 anni quando il padre lo portava sulla spiaggia per farlo esercitare a sparare, aveva solo 9 anni quando andava ai summit di ‘ndrangheta, assisteva all’arrivo di ingenti carichi di droga e gli veniva raccomandato «Tu devi imparare a tagliare la polvere». Per salvare Luigi da un futuro già scritto è partita dallo Stretto una battaglia che cammina sulle orme di giudici che hanno sacrificato la loro vita contro le mafie.

“Vorrei che quel bambino vivesse da cittadino libero in un mondo migliore”.

“Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.

Sono frasi di Rocco Chinnici e Paolo Borsellino, idee che hanno trovato concretezza nel coraggio illuminato di un magistrato messinese, Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, che forte di un’esperienza ultraventennale, ha tracciato una strada per cercare di spezzare quel lascito mafioso che si tramanda di padre in figlio soprattutto in Calabria, allontanando i ragazzi da famiglie che li educano al crimine organizzato o semplicemente alla cultura mafiosa. Il racconto del primo provvedimento di "allontanamento" farà tappa sul piccolo schermo, ma dietro la fiction ospitata dalla Rai c'è una realtà fatta di oltre un centinaio di ragazzi che il magistrato messinese ha processato per reati gravissimi che vanno dall’associazione mafiosa all’omicidio, minori che spesso portavano uno dei 144 cognomi della “Santa” e che sono finiti alla sbarra per anche per estorsioni, rapine, armi, droga o per aver coperto e agevolato latitanze di boss in Aspromonte. Un trend che Di Bella ha provato ad invertire. Dopo sei anni dall’adozione del primo provvedimento su richiesta della Procura della Repubblica dei Minorenni, sono stati circa 60 i ragazzi inseriti in un programma di recupero, una quarantina quelli trasferiti temporaneamente in altre regioni tra cui Sicilia, Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte e Sardegna. Irrisorio il numero di recidivi, mentre più della metà, non appena tornati a casa, hanno chiesto di essere nuovamente trasferiti in un altro luogo.

E il resto?

«Quelli che rimangono in Calabria – racconta il presidente Di Bella – ci chiedono di essere aiutati a trovare un lavoro o a iscriversi all’università».

Gli ultimi “allontanamenti” sono stati siglati la scorsa settimana, ma cosa l'ha spinta a iniziare ad allontanarli?

«In questi anni – racconta il magistrato – ho conosciuto minori addestrati alle armi in tenera età, allevati ad usare la forza, la sopraffazione e la vendetta, ragazzi coinvolti nella scomparsa o nell’omicidio delle madri “colpevoli” di non essere rimaste fedeli a mariti al 41 bis».

E’ per questo che Di Bella ha deciso di interrompere una spirale che è culturale, ancor prima che criminale. Attualmente sono circa 15 i minori allontanati dalle famiglie d’origine, sono guidati alla scoperta della loro vera identità grazie all’opera incredibile degli Uffici del Servizio Sociale per i Minorenni di Messina e Reggio Calabria, di Don Ciotti ed Enza Rando, di tutti i volontari di Libera e dell’Unicef. Questo film ricalca quasi fedelmente la realtà, una realtà che affonda le radici nella sua città d'origine...

«La prima “culla” è stata Messina – racconta Di Bella – l’Ussm ha permesso di consolidare una rete che si è andata via via espandendo. Ha reso tutto molto più semplice l’aver riavuto al mio fianco Maria Baronello o la direttrice dell’Ussm di Reggio Calabria Giuseppina Garreffa. Grazie a loro, ad operatori e psicologi, si è cercato di far scoprire ai ragazzi di mafia che esiste un mondo diverso dove la violenza – spiega Di Bella - non è lo strumento principe, dove i fidanzamenti o matrimoni non si impongono a sugello di sodalizi criminali e dove il carcere non è un attestato di professionalità».

Un ruolo cruciale e sempre più decisivo, nelle storie di minori “strappati” alle mafie lo hanno avuto le madri.

«Superata una prima fase di contrapposizione aspra – spiega il presidente Di Bella -  prevale quasi sempre la speranza di sottrarre i figli a un destino che non hanno la forza di contrastare da sole».

Dopo i primi adottati dal Tribunale per i Minorenni di Reggio, gli "allontanamenti" sono stati applicati anche in altre città d’Italia, non solo a Catanzaro, ma anche a Napoli e Catania. E se in Calabria ci sono le ‘ndrine, in Sicilia l’albero genealogico della mafia si costruisce per paesi e quartieri?

«In qualunque posto se un genitore educa al crimine, sta andando contro la legge – conclude Di Bella - il problema è che manca una specifica copertura normativa, servono risorse per formare professionisti, operatori e famiglie affidatarie, serve anche dare lavoro a chi ha scelto di cambiare vita».

Serve fare sentire, ancora più forte, che lo Stato c’è.

Anche i figli della ‘ndrangheta so’ pezzi a cuore della giustizia. Intervista con Roberto Di Bella, Presidente del tribunale per i minori di Reggio Calabria, scrive il 29 Settembre 2017 lavocedinewyork.com. Quante probabilità ha un ragazzo, figlio o nipote, di un appartenente all'ndrangheta, di essere inserito nella cosca mafiosa o comunque di diventare un delinquente? Cosa può fare lo stato per impedirlo? Risponde il magistrato Roberto Di Bella: "Quello che io vedo, lavorando da 25 anni al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, è la continuità generazionale..."

Il Giudice Roberto Di Bella, 53 anni, è in magistratura da quasi 30 anni, e si è occupato quasi sempre di giustizia minorile. Dal 1993 a Reggio Calabria, è stato 5 anni a Messina e poi è ritornato nella città calabrese, dal 2011 è presidente del Tribunale per i Minorenni nel capoluogo reggino, quindi con competenza in materia minorile su tutta la provincia. Insieme ai suoi colleghi sta cercando di sottrarre nuove leve alla criminalità organizzata calabrese. Come? Allontanando “i figli di ‘ndrangheta” dalle loro famiglie di origine, cercando di dare un futuro sereno e normale a ragazzi destinati a diventare boss. In questa conversazione ci ha spiegato il perché e quali sono gli strumenti che applicano.

Dottore Di Bella lei è in magistratura da quasi 30 anni, e in pratica, si è occupato quasi sempre giustizia minorile. Dal 1993 a Reggio, è stato 5 anni a Messina e poi è ritornato Reggio, dal 2011 è presidente del Tribunale per i Minorenni nel capoluogo reggino, che tipo di reati vengono commessi dai minori nelle due regioni? C’è differenza tra violazioni?

“In Calabria vengono commessi reati molto gravi. Negli anni abbiamo avuto diversi casi di omicidi, detenzione e porto di armi; abbiamo giudicato minori che hanno commesso estorsioni o che hanno favorito la latitanza di esponenti ndranghetistici. Altri coinvolti a pieno titolo nelle dinamiche delle faide e associative.  Questo accade perché la ‘ndrangheta ha una struttura su base familiare e allora c’è spesso una continuità all’interno della stessa famiglia. Quello che io vedo, lavorando ormai quasi da 25 anni al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, è la continuità generazionale. Avendo un lungo periodo di esperienza professionale sempre nello stesso posto, ho avuto la possibilità di avere uno sguardo privilegiato sul mondo minorile della provincia reggina e ho notato che adesso mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni 90. Tutti con lo stesso cognome, tutti appartenenti alle famiglie storiche del territorio, più o meno con gli stessi reati, e questo rappresenta una conferma che c’è una ereditarietà. C’è una trasmissione di cultura ndranghetistica da padre in figlio, e ciò viene dimostrato anche dal dato oggettivo che da 70/80 anni ci sono le stesse famiglie sul territorio. Questo è possibile soltanto se c’è questa trasmissione di valori negativi all’interno di esse. In Calabria emerge in modo netto”.

Allora quante probabilità ha un ragazzo, un parente o un nipote, anche in linea collaterale, discendente da una famiglia mafiosa, di essere inserito nella cosca o comunque di diventare un delinquente? Ad esempio il figlio della sorella di un boss, che pur non ha lo stesso cognome del capo famiglia, quante possibilità ha di essere inserito nella cosca e diventare delinquente?

“Non so darle una percentuale, ma la probabilità è alta, altissima. Perché se vivi in quelle famiglie respiri sempre quell’aria, quella cultura ed è anche difficile poterne uscire. Al momento, i dati di fatto dicono proprio questo: che è molto difficile starne fuori. Perciò bisogna puntare molto sull’educazione. Noi, come Tribunale per i Minorenni, possiamo intervenire quando già ci sono situazioni patologiche. Il problema è questo, bisogna invece puntare sull’educazione e sulla scuola. Ed è quest’ultima istituzione che deve fare di più. Adesso ci sono dei segnali di progresso nell’ambito educativo, ma negli anni passati non sempre è stato così. Bisogna investire di più sull’educazione, sul tempo pieno a scuola. Bisognerebbe, già dalle elementari, far stare i bambini il più possibile in classe ed avere Insegnanti preparati, capaci anche di affrontare le tematiche della legalità e del contrasto alla ‘ndrangheta. Certamente con gradualità ma bisogna affrontarle. Ma nella provincia, in certi territori, ciò non sempre è avvenuto. Tra il 2006 e il 2007 ci fu la faida familiare di San Luca, che poi sfociò nella strage Duisburg. In quei mesi, le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per timore di ritorsioni. Ma lo abbiamo saputo dopo, solo nel corso del processo, 6/7 anni dopo, perché c’erano diversi minorenni coinvolti anche in quella vicenda.  E lo abbiamo saputo solo grazie alle testimonianze dei Carabinieri, non certo dalla scuola. Da questa non era arrivata alcuna segnalazione che riguardasse la dispersione scolastica di quei ragazzi. Qualcosa non ha funzionato, eppure le assenze in quel contesto particolare andavano segnalate, c’era una situazione di pericolo e, comunque, di disagio; e penso che chi lavorava in quei contesti all’epoca sapeva perfettamente quello che stava accadendo. Poi quel paesino è piccolo, i cognomi sono sempre quelli. Quindi gli Insegnanti potevano avere cognizione dei motivi. Se non c’è una collaborazione da parte della scuola e delle altre agenzie educative alternative alla famiglia, i nostri interventi li possiamo fare solo successivamente, su situazioni patologiche”.

Noi notiamo che in alcune realtà, nonostante la scuola sia presente con vari progetti sulla legalità in classe, sembra che tutto ciò non venga recepito dai ragazzi che comunque vivono all’interno di un certo tipo di famiglia la quale rende complessa la recezione di determinati valori sani.  Le faccio un esempio. Parlando con una rappresentante delle Forze dell’Ordine, che presta servizio nella zona jonica calabrese, e spesso si reca nelle classi per parlare con i ragazzi, questa ci disse “Noi possiamo fare tutte le lezioni sulla legalità che desideriamo ma ci sono ragazzini che a 10/11 anni tornano a casa e vedono il loro padre, o fratello, che a fine cena, o pranzo, si nasconde in un bunker, allora questi avranno oggettivamente quella visione, per loro la normalità sarà quella”.

"Bisogna però contrastarla questa visione. Per questo dico che serve una scuola a tempo pieno già a partire dalle elementari e cominciare ad affrontare queste tematiche già in piccola età. Il vero problema è che non c’è una preparazione specifica. L’educazione alla legalità non può essere lasciata soltanto ai Magistrati, ai Carabinieri o altri del settore, ma va fatta da Insegnanti preparati, con programmi strutturati sulle esigenze specifiche del territorio. E l’approccio coi giovani deve essere chiaro; bisogna far comprendere quello che è la criminalità organizzata, delle sofferenze che provoca, di ciò che è giusto e di tutto ciò che non lo è. Bisogna cominciare a fare controinformazione in un certo senso, ma già da piccoli e con gli Insegnanti, perché il magistrato può incontrare i ragazzi una volta ogni tanto, mentre l’Insegnante è sempre presente in classe, è un punto di riferimento e non è una presenza sporadica. Bisognerebbe, anche, mandare nelle scuole le vittime di mafia e/o i parenti delle vittime, a raccontare le loro storie, la loro sofferenza e il tutto andrebbe accompagnato con la visione di film che abbiano un impatto emotivo sui ragazzi. A me è capitato, ad esempio, di ascoltare in un dibattito Tiberio Bentivoglio, l’Imprenditore calabrese che si è ribellato al pizzo. Ha fatto un racconto della sua vita, delle sofferenze sue e dei suoi familiari, veramente toccante; ha narrato di quando hanno cercato di ucciderlo, di come gli sparavano e sentiva i colpi addosso e di altre cose terribili; e questo va raccontato ai ragazzi. Devono sapere quello che accade”.

Molti dei punti che lei cita, per i programmi didattici, esistono già nelle linee di indirizzo del Ministro Fioroni (2007), e riguardano l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia. Punti che sono stati studiati ed elaborati proprio dal Professore Guidotto, presidente dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso. E noi abbiamo seguito queste linee guida e le abbiamo riportate nel progetto scolastico sulla legalità che abbiamo studiato con l’Osservatorio e con il gruppo “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino.” E lo stiamo proponendo in alcune scuole italiane, dove è stato adottato con entusiasmo, specie in meridione e in zone ad alta pervasività mafiosa. Con Insegnanti che preparano preventivamente questi ragazzi, con la visione di film o con lettura di saggi in classe. E poi visite guidate in certi luoghi e incontri in classe con persone che hanno vissuto, o vivono, la criminalità sulla propria pelle. Ma è una goccia nel mare perché, allo stesso tempo, a noi risulta che molti docenti e dirigenti hanno trascurato, o ignorato, del tutto queste linee di indirizzo nella parte riguardante proprio l’educazione alla legalità sulla lotta alla mafia. Secondo lei perché c’è questa omissione generalizzata nella scuola?

“Questo non glielo so dire. Ma i programmi scolastici – soprattutto quelli afferenti all’educazione civica – devono essere strutturati in base alle problematiche specifiche del territorio in cui vengono adottati. E poi, soprattutto, le scuole dovrebbero collaborare di più con la magistratura minorile. Da quando sono tornato a Reggio Calabria nel 2011, ho notato che le scuole non comunicano le situazioni di disagio dei ragazzi appartenenti a determinati contesti. A noi, in questi anni, sono arrivate solo due–tre segnalazioni di condotte irregolari agite da minori appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta; e per giunta, una di queste segnalazioni l’ha fatta la moglie di un magistrato. Quindi le scuole non segnalano le condotte irregolari. Questi minori, che appartengono alle famiglie di ‘ndrangheta, e vengono arrestati a 16-17 anni per vari reati, fino a quell’età, e prima dell’arresto, andavano a scuola. E’ possibile che non vi era nessun segnale di disagio o di irregolarità della condotta? Questo ci stupisce molto, ci sorprende che non arrivi nessuna segnalazione dalla scuola, che come agenzia educativa dovrebbe portare alla nostra attenzione questi casi. Adesso abbiamo siglato un protocollo in Prefettura in cui chiediamo espressamente ai dirigenti scolastici di fare le dovute segnalazioni, anche con riunioni. Devono segnalare tutte le situazioni di disagio di cui sono a conoscenza. Non solo dal punto di vista penale ma anche da quello legittimante l’adozione di provvedimenti civili, ovvero quando ci sono situazioni che rivelano sintomi di un malessere familiare. Altra cosa, molto importante, sarebbe la presenza nelle scuole di determinati contesti di uno sportello psicologico e di uno psicologo, non del luogo, che sia in grado di cogliere segnali di disagio dei ragazzi e aiutarli.  Occorre poi fare cultura. Servono centri di aggregazione sociale come i “punti luce” creati da Save the Children, che organizza attività culturali, di sostegno allo studio e ricreative nei contesti più a rischio. Esistono realtà– come quella di S. Luca – tristemente famose in Europa in cui solo adesso si sta cominciando a focalizzare l’attenzione e considerare il grave problema culturale.  Che deve essere risolto con la predisposizione di servizi socio-sanitari adeguati al territorio, con la creazione di centri di aggregazione culturale e sportiva. Con insegnanti e dirigenti scolastici capaci di ampliare gli orizzonti culturali dei ragazzi, così come lo è stata la prof.ssa Cacciatore”.

Infatti per molto tempo il fenomeno ‘ndrangheta è stato sottovalutato ma non solo in Calabria. Lei prima accennava alla strage di Duisburg. In Germania già da 40 anni c’è la presenza della criminalità organizzata calabrese. Ci sono intercettazioni, già di fine anni 80, inizio 90, in cui si evinceva che le cosche di Gioiosa Jonica invitavano i propri emissari in Germania, subito dopo la caduta del muro, a comprare interi quartieri della Berlino Est appena liberata. In pratica, la ‘ndrangheta con le sue ramificazioni estere non era stata considerata un problema. Fin quando è rimasta sotterranea, fin quando non ha compiuto stragi. A Duisburg c’era anche un minore di San Luca tra le vittime. Secondo lei perché il problema ‘ndrangheta è stato così sottovalutato?

“È stato sottovalutato. E’ un problema soprattutto culturale oltre che criminale, di cui noi giudici minorili ci rendiamo conto da anni.  E’ un problema culturale perché questi ragazzi non conoscono altri tipi di orizzonti; credono che la strada della ‘ndrangheta sia l’unica possibile. Non sanno che esiste un’alternativa perché loro, al di là del loro paese e della famiglia, non riescono a vedere. Quindi serve un’infiltrazione di cultura ed è quello che sta alla base del nostro orientamento giurisprudenziale, che nei casi estremi comporta provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale”.

Parafrasando il termine latino dello ius sanguinis, che riguardava la cittadinanza romana acquisita per nascita, potremmo dire che l’appartenenza alla famiglia di ‘ndrangheta dà il diritto a diventare un boss in futuro.  E questo dato ereditario è una delle principali differenze che si nota con Cosa Nostra siciliana. Ora le chiediamo se le è mai capitato che all’interno di qualche famiglia ci sia stato un minore che avesse il desiderio di uscirne anche collaborando.

"Collaborazione è un termine forte; però abbiamo incontrato ragazzi e ragazze che ci hanno detto che avevano paura di essere arrestati, che erano stressati dalle continue perquisizioni, dai lutti, dalle carcerazioni dei loro familiari, dalla paura di finire in quel contesto. E quando abbiamo avuto questa comunicazione li abbiamo allontanati ed aiutati ad andare via. E’ accaduto soprattutto con le ragazze, che avevano un forte desiderio di emancipazione”.

Ma come avete fatto ad avere questa comunicazione? Come l’avete appreso?

“Nel corso di procedimenti già in corso, penali o anche civili. Stavamo monitorando delle situazioni familiari ed è capitato. Posso aggiungere che i risultati migliori li stiamo ottenendo con le ragazze, perché andando via riacquistano la loro condizione di libertà.  Perché la ‘ndrangheta si impone anche sulle scelte più intime, come può essere un fidanzamento, un matrimonio, sugli affetti e sulle relazioni in generale.  La mafia calabrese condiziona la vita di questi giovani che rinascono quando vanno via; con i provvedimenti di allontanamento, adottati caso per caso nelle situazioni di concreto pregiudizio, restituiamo loro la libertà di scegliere e la dignità. E’ accaduto che i ragazzi quando compiono 18 anni cercano aiuto per restare fuori; alcune ragazze addirittura non vogliono più avere contatti con i familiari. Alla base di tutto c’è la mancanza della libertà e una condizione di forte sofferenza.  I risultati fino ad adesso sono andati al di là di quelle che erano le nostre aspettative. Con i ragazzi abbiamo bisogno però di percorsi un po’ più lunghi mentre la maggior parte delle ragazze, superata la prima fase di adattamento, non vogliono più tornare in quell’ambiente. Chiaramente non possiamo allontanare tutti, bisognerebbe creare le condizioni anche in Calabria per evitare gli allontanamenti dalla regione. I nostri provvedimenti in alcuni casi, quelli più estremi, comportano gli allontanamenti. In altri stiamo provando a lavorare anche qui con associazioni come Libera per creare dei percorsi rieducativi, ove sia possibile”.

È capitato che qualche ragazzo dopo essere stato allontanato, e poi reinserito nella famiglia, abbia preso percorsi sbagliati?

“Per reati di mafia no! Soltanto un ragazzo della ionica, dopo essere rientrato a casa, ha avuto un Daspo, il divieto di avvicinamento allo stadio. Al momento per reati di mafia, di quelli che sono rientrati, nessuno è ricaduto in quella spirale. In ogni caso è ancora presto per fare una valutazione, per comprendere ciò che siamo riusciti a instillare. Comunque, abbiamo avuto situazioni in cui c’erano tre o quattro fratelli, i primi giudicati negli anni 90/2000 che avevano commesso reati gravissimi, e si trovano ancora in carcere, mentre quelli più piccoli che noi abbiamo trattato, raggiunta la maggiore età, stanno seguendo percorsi diversi. Tutti i ragazzi di cui ci siamo occupati dimostrano di avere talenti e potenzialità compressi dal deleterio ambito di provenienza. Stiamo provando ad ampliare gli orizzonti di questi ragazzi. Molti di loro sono già rassegnati a quella che è una vita di ‘ndrangheta e anche le relazioni degli Psicologi sono terribili perché si evince un‘enorme sofferenza. Questi giovani hanno grossi problemi: incubi notturni, angoscia per loro e per i familiari, alcuni sognano scene cruente o situazioni in cui devono attivarsi per salvare se stessi o un familiare da un pericolo incombente. C’è una grandissima sofferenza all’interno delle famiglie di ndrangheta e i ragazzi sono le prime vittime delle scelte scellerate dei genitori”.

Tutto questo però non trapela all’esterno. Molta gente legge di questi paesini, di cui si parla tanto sui giornali, come luoghi in cui vi sono addirittura matrimoni in grande stile, quasi da favola, ma che poi nella realtà dei fatti sono combinati, quindi non certamente da sogno anzi provocano sofferenze enormi specie nel futuro delle donne.

“I provvedimenti de potestate del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria stanno intercettando quasi un bisogno sociale. Ovvero la sofferenza di molti ragazzi e delle loro madri. Molte di loro, quando capiscono che la logica dei provvedimenti non è punitiva ma di tutela, non si oppongono più. Stiamo trovando un grosso aggancio, per portare fuori questi ragazzi, proprio nelle madri. Nel 90% delle situazioni che abbiamo affrontato sono le madri che, dopo aver superato una prima fase di stupore e rabbia, in cui si oppongono, fanno reclami, vanno in appello e altro, collaborano con noi.  Noi cerchiamo di colloquiare e dialogare con queste persone, verbalizzando o meno.  Le chiamiamo e cerchiamo di farle ragionare. Ad esempio chiedendo loro: “Ma lei cosa vuole fare? Non ha già sofferto tanto con suo marito e anche coi suoi figli? Le resta questo ultimo ragazzino, vorrebbe andare a trovarlo in carcere? Ci aiuti lei che è il perno della sua famiglia, lei può darci una mano a salvare suo figlio.” E quindi cerchiamo di spiegarglielo, glielo diciamo chiaramente. La funzione del Tribunale per i Minorenni è anche questa”.

Come reagiscono gli altri membri della famiglia? Quando apprendono che la madre sta collaborando con voi, e magari il marito è al 41 bis, qual è la reazione degli altri membri della famiglia?

“In alcuni casi, queste signore, iniziano percorsi di collaborazione con la giustizia quindi sono in regime protetto.  Altre invece le aiutiamo ad andare via con dei provvedimenti di decadenza, o limitazione, della responsabilità genitoriale. In sostanza noi allontaniamo i bambini, o i ragazzi, perché ci sono le condizioni di pericolo, poi diciamo “Il padre è in carcere, la madre, se vuole, può seguirli”. A quel punto le madri decidono di seguirli e quindi diamo di fatto una copertura, con il nostro provvedimento, alla signora che può andare con i figli. In questo caso attiviamo il volontariato: Libera, Don Ciotti con l’avvocato Enza Rando, che sono i nostri punti di riferimento. Dunque, queste signore vanno via, e noi le aiutiamo a trovare una sistemazione al nord, ad avere un autonomia, a lavorare, ad avere una vita diversa. Di fatto si allontanano perché sono obbligate dal nostro provvedimento e, quindi, anche davanti alla famiglia hanno una giustificazione; una copertura importante perchè non sono collaboratrici ma di fatto si dissociano e accettano i percorsi che noi offriamo loro”.

Ma c’è una normativa che viene applicata? Perché, genericamente, quando parliamo di dissociazione si fa riferimento alla legge degli anni 80 sulla dissociazione dal terrorismo.

“No, non c’è nessuna normativa sulla dissociazione, sono provvedimenti civili adottati ai sensi degli articoli 330 e seguenti del codice civile. La normativa sulla dissociazione non esiste. Per questo ci affidiamo solo al volontariato. Noi diciamo che i ragazzi vanno allontanati perché ci sono concrete situazioni di pericolo: ad esempio nei casi di indottrinamento mafioso, quando hanno commesso dei reati sintomatici di una progressione criminosa o quando c’è un rischio ambientale molto elevato. In determinate situazioni estreme siamo costretti ad allontanarli per salvaguardarne l’integrità psico-fisica o per evitare che siano coinvolti in vicende criminali dagli adulti di riferimento. La madre, se vuole, può andare via con loro. E il provvedimento autorizza le madri a seguire i figli”.

Queste donne e questi ragazzi sono della zona ionica della Calabria?

“Sì, nella zona ionica ci sono molti di questi casi. Ma anche della zona tirrenica e di Reggio Calabria. È accaduto anche con mogli di boss potentissimi dai nomi importanti. Molte di loro sono delle vedove bianche; di fatto sono donne di 30-40 anni con figli anche piccoli. Con il marito all’ergastolo è come se fossero delle vedove. La famiglia le “imprigiona”, non possono avere altre relazioni: pertanto, i nostri provvedimenti offrono delle possibilità di riscatto, non solo per i figli ma anche per loro. Molte di esse hanno desiderio di una vita normale, di rifarsi una vita anche affettiva, ma di fatto nella famiglia da cui provengono è impossibile; non verrebbe loro mai permesso. Nella realtà, nel loro paese di origine, possono solo occuparsi dei loro figli, accompagnargli a scuola o fare la spesa ma non possono assolutamente avere altre frequentazioni. Conducono una vita ristretta come fossero prigioniere, per cui l’allontanamento permette di vivere normalmente come non hanno mai vissuto”.

Ma in base alla normativa vigente queste donne, con marito all’ergastolo, potrebbe chiedere, ed ottenere, la separazione.

“Sì, la potrebbero chiedere. Ma quante sono quelle che hanno il coraggio di farlo? E in ogni caso è difficile che nei loro paesi possano allacciare delle nuove relazioni. Con un marito boss rischierebbero la vita. Per loro non è neanche pensabile poter avere nuovi legami affettivi. Trovare il coraggio di separarsi non è facile”.

Diceva il dottore Pietro Grasso, a proposito di questi provvedimenti del Tribunale dei minori, che i sentimenti familiari non si possono togliere con sentenza.

“Ma noi non eliminiamo i sentimenti, anzi coinvolgiamo le madri e cerchiamo anche di coinvolgere i genitori detenuti. E comunque, i nostri sono provvedimenti temporanei perché cessano quando i ragazzi compiono 18 anni. Noi non vogliamo intervenire sui sentimenti, noi vorremmo far capire a questi ragazzi che devono continuare a voler bene ai loro genitori ma possono scegliere strade diverse; non è necessario che per affetto diventino delinquenti a tutti i costi”.

C’è qualche episodio particolare dove siano stati i genitori a chiedervi di aiutare i propri figli, magari perchè questi avevano commesso qualche reato particolare, o perchè si erano accorti che stavano prendendo delle strade criminali? Oppure degli episodi in cui siano stati proprio i ragazzi che abbiano chiesto aiuto direttamente per andare via?

“Sì, è capitato. Più volte abbiamo allontanato i ragazzi su richiesta loro o dei genitori”.

Lei è a conoscenza, se ci sono stati, di episodi simili a quelli avvenuti in Cosa Nostra siciliana che riguardino bambini, tipo la storia del piccolo Giuseppe Di Matteo?

“Situazioni di pressioni su minori ne abbiamo avute; infatti anche questo è un altro settore in cui stiamo intervenendo. Abbiamo un circuito comunicativo con le procure antimafia e interveniamo subito in questi casi, affidando immediatamente i minori al genitore che è sotto protezione, quando ne ricorrono le condizioni”.

Quindi viene subito allontanato il bambino dal genitore che non è sotto protezione?

“Quando ci sono le condizioni, quando inizia la protezione, noi interveniamo subito se ci sono segnalate situazioni di pregiudizio per il minore dalle forze dell’ordine o dalla Procura della Repubblica che propone il regime di protezione al genitore”.

Noi ci siamo sempre chiesti perché, all’epoca, il piccolo Giuseppe Di Matteo non fu subito allontanato dalla famiglia e portato al sicuro visto che il padre stava collaborando.

“Quella è una vicenda che io non conosco e su cui non posso esprimere giudizi. Noi a Reggio Calabria abbiamo un protocollo di intesa, siglato il 21 marzo del 2013, con le procure del distretto della Corte di Appello, che prevede un circuito comunicativo tra uffici giudiziari diversi proprio in relazione a questo tipo di problematiche. Adesso c’è una sensibilità diversa. Dopo la vicenda di Maria Concetta Cacciola, che è servita a prendere consapevolezza dei problemi relativi a certe situazioni, si è compreso che vi è la necessità di intervenire immediatamente.  Per cui i figli vengono affidati al collaboratore che è sotto protezione. Quando si tratta di madri che iniziano il percorso, e vanno via, e chiedono di avere i figli, lo facciamo subito, e li affidiamo a loro, se ne ricorrono le condizioni”.

E se fosse il contrario? Cioè, se fosse il padre a collaborare, come fu il caso dell’epoca con Santo di Matteo, e se la madre si opponesse all’allontanamento dei figli?

“È capitato anche questo, e siamo intervenuti. Ci siamo accorti che la condizione dei ragazzi era a rischio di ritorsioni. Chiaramente ci devono essere specifiche indicazioni che provengono dalla Procura o dai Carabinieri; e in questi casi abbiamo subito deciso di allontanare i ragazzi e affidarli al padre. A quel punto è accaduto che le mogli, le quali inizialmente erano rimaste in Calabria, pur di non perdere i figli hanno accettato di entrare nel programma di protezione”.

Qualche mese fa c’è stato il suicidio di Maria Rita Lo Giudice figlia di Giovanni Lo Giudice, che è in carcere per associazione mafiosa, e nipote del collaborante Nino Lo Giudice. Questa ragazza aveva seguito un percorso di studi brillante in Economia, quasi a volersi distaccare dall’ambiente in cui aveva vissuto; ma quanto pesa sulla società civile questo suicidio?

“Bisogna capire innanzitutto quali sono le motivazioni che hanno portato al suicidio. Io ho seguito la vicenda sui giornali e non so di più. Però se la motivazione è proprio quella, è una circostanza gravissima che deve far riflettere. Bisognerebbe aiutare questi ragazzi che vogliono affrancarsi da quell’ambiente e sostenerli con tutti gli strumenti possibili”.

Si è mai occupato di casi di bullismo? E se sì, le problematiche di questi ragazzi erano riconducibili anche a problematiche familiari con possibilità di adottare misure come l’allontanamento dalla famiglia?

“Sì, bullismo legato alla mentalità mafiosa è capitato frequentemente. Questi ragazzi iniziano a commettere piccoli reati per affermare la leadership tra i coetanei, facendo valere il cognome, picchiandoli. E’ una prima forma di affermazione della loro personalità. E quando i genitori non intervengono, o addirittura condividono questa condotta, noi interveniamo. L’obiettivo dei nostri provvedimenti è quello di tutelare i ragazzi e, nel contempo, operare le necessarie infiltrazioni culturali per renderli liberi di scegliere il loro destino e affrancarsi dalle orme parentali. Ultimamente, a Reggio Calabria, nel luglio di quest’anno, abbiamo siglato un importante protocollo di intesa con i ministri della Giustizia, dell’Interno e il presidente della regione Calabria, che si chiama “Liberi di scegliere”. L’obiettivo è quello di creare dei veri e propri pool educativi antimafia, con professionisti (assistenti sociali, psicologi, educatori, famiglie affidatarie) formati appositamente, che siano in grado di accompagnare passo dopo passo gli sfortunati ragazzi delle ‘ndrine sino al raggiungimento di un’autonomia esistenziale e lavorativa, in un’ottica di affrancamento dalla cultura criminale. La giustizia minorile ha potenzialità enormi nella prevenzione del disagio minorile e nel contrasto ai sistemi criminali strutturati su base familiare, o locale, come la ndrangheta. Bisogna quindi affinare il campo. Il dato importante è che il nostro orientamento giurisprudenziale, che all’inizio è stato molto disapprovato e giudicato male con critiche prevenute (formulate senza conoscerne i retroscena culturali e i contenuti dei provvedimenti), è stato seguito anche da altri tribunali per i minorenni. L’accordo quadro “Liberi di scegliere” sostanzia una copertura governativa al nostro orientamento giurisprudenziale, proponendosi di costruire delle reti di supporto. E’ un notevole passo in avanti”.

Dottore, c’è un episodio particolare avvenuto con un minore che a lei è rimasto particolarmente impresso?

“C’è uno che ricordo in particolar modo. Riguarda un ragazzino di 11/12 anni che abbiamo inserito in una comunità su richiesta della madre, che temeva per il figlio attratto dalla ndrangheta e dalle armi. Ci ha chiesto di inserirlo in una struttura comunitaria e noi l’abbiamo fatto. Quando la madre è andata a prenderlo, perché il bambino doveva ricevere la prima comunione, e quindi dovevano andare a comprare il vestito per la cerimonia, ha detto: “Ma quale comunione?? Comprami un fucile per sparare al giudice che mi ha messo in comunità.” Io ho chiamato questo ragazzino e ho parlato con lui, e devo dire che dopo un anno un anno e mezzo ha fatto un buon percorso; aiutato dalla madre sta facendo molti progressi”.

Come l’ha presa il padre in questo caso?

“Il padre ha compreso, tra l’altro non è un pregiudicato ma lo sono tutti i parenti della madre e costoro esercitavano sul ragazzino una fascinazione. Noi stiamo lavorando con l’aiuto della madre stessa e i risultati al momento sono molto positivi. Anche se c’è molto da fare ancora perché non è una cosa molto normale che un bambino di 10-11 anni sia attratto dalle armi e conosca i nomi e il funzionamento dei fucili”.

Nelle ‘ndrine, essendoci il senso della famiglia molto forte, l’allontanamento di un figlio è visto quasi come quasi un oltraggio. Un Giudice che applica determinate misure, non sarà molto simpatico ai boss che certamente non gradiranno questo tipo di misura.

“Certamente non gradiscono. Però qualcuno ci ha risposto. In particolare abbiamo avuto una lettera di un boss che è detenuto al 41 bis, ci ha ringraziato. Chiaramente si tratta di una persona che è in condizione di sofferenza perché la carcerazione prostra, soprattutto quando si tratta di un regime carcerario del genere. E ci ha ringraziato dicendo che è d’accordo su questo percorso per i figli perché lui non ha avuto questa possibilità; in quanto, se l’avesse avuta, forse, non si troverebbe lì dove sta. Quello che noi stiamo cercando di fare è provare a interloquire anche con queste persone. Stiamo cercando di spiegare quelle che sono le finalità e le motivazioni dei provvedimenti; l’obiettivo è provare innanzitutto a stemperare l’impatto emotivo iniziale cercando di spiegare per quale motivo adottiamo questi provvedimenti. L’altro obiettivo è quello di provare a cooptare i genitori detenuti nei processi educativi dei figli, facendo leva sui sentimenti genitoriali che tutti hanno anche se a volte questi sentimenti sono sopiti o distorti. Per adesso solo una persona ci ha dato un riscontro positivo”.

Cos’è il coraggio di un giudice?

“Noi facciamo il nostro dovere, applichiamo la legge, ma soprattutto penso che in Calabria, di fronte a tanta sofferenza, non si può restare indifferenti. Vediamo il dolore dei ragazzi e spesso, anche direttamente, quello delle loro madri. La molla che ci fa andare avanti, che ci motiva, è proprio questa sofferenza e il desiderio di aiutarli a trovare un loro percorso. Spesso questi giovani hanno desideri nascosti che sono compressi dalla tradizione e dall’ideologia mafiosa. Penso che far venire fuori questi desideri, aiutare i ragazzi a realizzare le loro aspirazioni e ad esprimere le loro potenzialità, sia una cosa bellissima. Hanno tanti talenti enormi che vengono compressi dalla cultura e dalla mentalità mafiosa. Questo per noi è la cosa più bella, ed è ciò che ci motiva e ci dà molte soddisfazioni. Sono le motivazioni professionali e umane che ci spingono, che in questo delicato settore di giurisdizione devono andare di pari passo”.

Napoli. Minacciato su facebook il giornalista e politico Borrelli, scrive il 16 dicembre 2018 la Redazione di caserta24ore.altervista.org. Baby gang, deriva senza precedenti. Verdi: dati del Garante dei detenuti conferma che maggior parte dei figli di criminali e camorristi seguono le orme dei genitori. I piccoli criminali gestiscono diverse pagine FB che inneggiano ai clan e alla violenza. “Gli ultimi dati elencati dal Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, relativi alle baby gang parlano di oltre 5mila minorenni fermati nella nostra regione. Un numero allarmante che non ha precedenti, nei confronti del quale occorre intervenire in modo radicale e tempestivo”. Lo ha dichiarato il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli con il conduttore radiofonico Gianni Simioli. “La stragrande maggioranza di loro – proseguono Borrelli e Simioli – sono figli di appartenenti a clan camorristici e criminali incalliti e oltre a delinquere, animano e gestiscono pagine Facebook che inneggiano ai clan e alla violenza. Si fanno ritrarre armati di pistole e fucili mitragliatori con inaccettabile spavalderia. La stessa con la quale continuano a minacciare pesantemente chi, come noi, ha chiesto la chiusura di queste pagine vergognose. Anche oggi sono arrivate intimidazioni pesanti nei nostri confronti, sempre attraverso queste pagine, con frasi come “dovete fare tutti la fine che Totò Riina ha fatto fare agli altri”. “Prosegue intanto la raccolta firme per chiedere di togliere la genitorialità ai camorristi – conclude il consigliere dei Verdi – unica vera soluzione per sottrarre linfa vitale alle organizzazioni malavitose. Solo allontanandoli dalle famiglie di origine potranno salvarsi da un destino già segnato fatto di violenza, criminalità e prevaricazioni. Il nostro obiettivo è raggiungere quota 10mila firme dopo di che pretenderemo che il Parlamento si sbrighi a legiferare in tal senso. La necessità di questa norma è ormai stata sottolineata dal Consiglio superiore della Magistratura, dai vertici delle forze dell’ordine, da tanti esponenti del mondo politico e delle professioni. Davvero non capiamo cosa ostacoli ancora una presa di posizione decisa da parte del legislatore al quale suggeriamo altresì di prevedere che al compimento del 18esimi anno, questi ragazzi ricevano una borsa di studio che gli permetta di proseguire gli studi. A patto di non avere contatti con la famiglia stessa, pena la revoca della borsa di studio con eventuale rimborso della stessa”.

MAFIA, COMMISSIONE CSM, VIA I FIGLI AI COMPONENTI DEI CLAN, scrive il 27 ottobre 2017 strill. Via i figli minorenni ai componenti di clan mafiosi, che li indottrinano rendendoli partecipi dei loro affari illeciti. La sollecitazione al legislatore a mettere mano al codice penale, introducendo la pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale per i condannati per i reati associativi di tipo mafioso, quando coinvolgono i loro figli, viene dal Consiglio superiore della magistratura. E’ contenuta in una risoluzione messa a punto dalla Sesta Commissione e che martedì prossimo sarà discussa dal plenum di Palazzo dei marescialli. Tra i destinatari, i presidenti di Senato e Camera, la Commissione parlamentare antimafia e il ministro della Giustizia. La delibera prende le mosse dalle esperienze dei tribunali per i minorenni del Sud (in testa Reggio Calabria, Napoli e Catania), che di fronte a famiglie mafiose che inseriscono sin da piccoli i loro figli nelle dinamiche criminali dei clan, hanno adottato provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale, e hanno allontanato i minori da quell’ambiente ad alto rischio per il loro sviluppo psico-fisico, affidandoli a strutture poste al di fuori della regione di provenienza. Una linea che il Csm condivide, ritenendo le famiglie mafiose “maltrattanti” per i loro figli al pari di quelle dove c’è un genitore tossicodipendente o che usa violenza fisica: provvedimenti di decadenza genitoriale sono un’extrema ratio, scrivono i consiglieri, ma possono diventare indispensabili per “proteggere il minore dal pregiudizio che gli deriva dalla violazione del suo diritto a essere educato nel rispetto dei principi costituzionali e dei valori della civile convivenza”. Palazzo dei marescialli sollecita il potenziamento degli strumenti a disposizione dei giudici minorili e sottolinea la necessità che i provvedimenti che incidono sulla potestà genitoriale siano accompagnati da prescrizioni e progetti di recupero che – almeno in prima battuta- coinvolgano l’intero nucleo familiare.

·         Le madri coraggio. Sfuggire ai clan.

Sfuggire ai clan. Quelle madri coraggio che salvano i figli allontanandoli dai padri boss. Bambini destinati a diventare i padrini di domani vengono sottratti alla tradizione di famiglia. Grazie all'intervento e alla forza delle loro mamme. Che con l’aiuto del tribunale sfidano l’arroganza dei mariti al 41 bis. Ecco le loro storie. Giovanni Tizian su L'Espresso l'8 agosto 2019.

Lorenza non è ancora maggiorenne, ma è già adulta: costretta a fare i conti con un padre padrone, affiliato a Cosa nostra, in Lombardia. Monica, invece, è madre di due bambini di 12 anni e ha fatto di tutto per strapparli al destino certo di capi clan in Calabria. Poi c’è Giorgio: rischiava di diventare manovalanza dei padrini, è stato testimone oculare di un omicidio di ’ndrangheta e porta sul corpo le ferite della lupara. Bambini, ragazzi, donne, età diverse, latitudini del Paese differenti. Uniti nella ricerca di una vita normale, nulla di più. Tutti salvati dai giudici minorili. Il tribunale per i minori di Milano nel caso di Lorenza, quello di Reggio Calabria per Monica e Giorgio. Uffici giudiziari poco conosciuti che lontano dai riflettori, e nel disinteresse dei ministri che dovrebbero occuparsi di lotta alle mafie, provano a offrire una via d’uscita ai figli dei mafiosi. Il tribunale calabrese lo fa in maniera sistematica dal 2012. Il giudice Roberto Di Bella insieme alla sua piccola squadra ha firmato un protocollo che indica la via da seguire fuori dal recinto della mera repressione giudiziaria. Ma è un atto solitario, che resta locale e che avrebbe bisogno di essere istituzionalizzato con una legge ad hoc che stanzi anche più risorse per servizi sociali e assistenza alle famiglie che vogliono recidere i legami di mafia. A oggi sono 60 i provvedimenti firmati dal giudice Di Bella di allontanamento dei ragazzi dai nuclei di ’ndrangheta. La formula tecnica è «decadenza della responsabilità genitoriale». E può colpire uno o entrambi i genitori a seconda del contesto. Il tribunale interviene sulla base di evidenze certe di maltrattamento psicologico: bambini costretti a sparare, obbligati a fare le vedette, a trafficare cocaina. Ai più scettici un’azione così decisa potrà richiamare alla mente i fatti di Bibbiano, dei bambini tolti alle famiglie e dati in affido ad altre. Nulla di più fuorviante. E mentre la politica strumentalizza i fatti di accaduti in Emilia, resta indifferente al modello vincente di prevenzione antimafia inventato da un giudice schivo e allergico ai palcoscenici. Di Bella in questi anni ha subito qualunque tipo di attacco senza mai indietreggiare. Lo hanno accusato di confiscare i figli dei boss, di usare metodi da dittatura sudamericana e di causare traumi irreparabili ai minori. Gli slogan a effetto dei critici si sgonfiano di fronte alla realtà toccata con mano dal giudice e da chi conosce a fondo le dinamiche familiari dell’organizzazione mafiosa calabrese fondata sui vincoli di sangue. Qui l’erede del capo si sceglie tra le mura domestiche, non per strada pescando tra la carne da macello pronta a entrare nella “famiglia”. Per questo i bambini maschi fin da piccoli subiscono un indottrinamento costante. Imbottiti di codici di comportamento, di regole criminali dalle quali difficilmente riescono a liberarsi senza l’aiuto di qualcuno.

IL BOSS È SALVO. La pedagogia mafiosa è lo strumento con cui si allevano i padrini di domani. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha provato a sovvertire la regola del destino ineluttabile. Dei 60 casi trattati che equivalgono almeno ad 80 minori (in un nucleo familiare c’è spesso più di un figlio), la maggior parte ha avuto un lieto fine. Che vuol dire soprattutto adolescenti che hanno ripreso gli studi con diligenza, possono coltivare interessi che prima non gli erano concessi, vanno al cinema, al teatro, immaginano il loro futuro con un lavoro onesto. In molti casi, poi, l’allontanamento ha prodotto una reazione a catena. Molte madri hanno chiesto al giudice di dare loro una seconda possibilità insieme ai figli. Con l’aiuto del tribunale e sfidando l’arroganza dei mariti al 41 bis hanno raggiunto i pargoli lontano dalla Calabria. Fuori dai contesti della famiglia di ’ndrangheta hanno ricominciato una nuova vita, in una casa vera, rinunciando alla reggia dei loro feudi. Anche qualche marito che ha giurato fedeltà alla ’ndrina ha compiuto un passo impensabile fino a qualche anno fa. Come un importante boss della provincia di Reggio Calabria: dopo aver scontato 23 anni di carcere ha contattato il giudice Di Bella, che in passato aveva allontanato i figli e la moglie. «Giudice», ha esordito il capo clan, «ho scontato più della metà della mia vita in galera, non posso più sopportare il peso di una vita così». Ha chiesto così di potersi ricongiungere con la famiglia andata via dalla Calabria. Una crepa, non l’unica, nel monolite di omertà qual è la mafia calabrese. Ne è consapevole anche lo stesso boss, che al magistrato ha confidato: «Vedrà che appena si sparge la voce, molti detenuti faranno la mia stessa scelta». La resa dello ’ndranghetista risale a due mesi fa. Il tribunale si è mosso subito cogliendo il potenziale devastante della scelta di rottura col passato. L’uomo ha già trovato un lavoro. E non ha mai smesso di amare sua moglie, la prima grande accusatrice che con le sue dichiarazioni rilasciate ai magistrati aveva contribuito alla sua condanna.

IL BAMBINO E LA LUPARA. Il riscatto in Calabria vale doppio. In una terra in cui i diritti essenziali sono ridotti a brandelli. Per esempio i servizi sociali. Nelle zone più dense di ’ndrine della Locride, lato Jonico del reggino, gli assistenti sociali e gli educatori sono spesso un miraggio. E molte situazioni di devianza pre-mafiosa sfuggono ai radar di scuole e comuni. Questo vuoto intermedio garantisce alla ’ndrangheta di avere un bacino di giovani leve pronte a prendersi il potere nel momento in cui i senatori delle cosche muoiono o finiscono in cella per molti anni. L’unico sostegno concreto per questi ragazzi arriva proprio dal tribunale dei minori e della rete di associazioni che hanno siglato il protocollo “Liberi di scegliere”, tra queste Libera e Unicef. Uno degli ultimi ragazzi a essere salvato è un adolescente di un paesino dell’Aspromonte. Il ragazzo, che chiameremo Giorgio, si trovava in campagna con Fabio Giuseppe Gioffrè, detto “Siberia” «ritenuto esponente di vertice dell’omonima cosca». Il 21 luglio dello scorso anno due killer a volto coperto fanno irruzione nel terreno di proprietà di Gioffrè e lo uccidono a colpi di lupara. Giorgio non ha fatto in tempo a scappare, è rimasto ferito al braccio e al torace. «Ha ancora i pallini dei colpi nel corpo, ma sta meglio», ci spiega chi ha seguito le indagini. Il giovane è così diventato un testimone chiave dell’inchiesta. Il giudice Di Bella lo ha seguito da vicino, oggi vive protetto fuori dalla Calabria ed è uno dei giovani salvati dal protocollo “Liberi di scegliere”. Dopo qualche tempo lo hanno raggiunto anche i genitori. Nel frattempo ha pure testimoniato contro i killer, senza esitazioni. Ma è un bambino che dovrà convivere per sempre con il trauma impresso sulla carne dai macellai delle ’ndrine.

VIA PER SEMPRE. Neppure le ferite di Monica si cicatrizzeranno presto. Porta nell’anima i segni dell’arroganza mafiosa. Monica non è il suo vero nome. Non può apparire, ha scelto di togliere i piccoli eredi al boss recluso al 41 bis. Lo ha fatto accettando ogni tipo di rischio. Al suo fianco Di Bella e l’associazione Libera. Monica è stata anche in carcere. E neppure la sua scelta di portare via i figli lontano dal clan le ha garantito la clemenza della Corte. Dopo aver portato i due gemelli in una famiglia affidataria della rete di Libera, il giudice della Cassazione ha reso definitiva la condanna. Ha salutato i figli con le lacrime agli occhi e poi è partita per consegnarsi, consapevole che una volta uscita sarebbe iniziata davvero la sua nuova vita. «Sono stati anni terribili», racconta Monica, «perché ho dovuto condividere tutto quel tempo con altre detenute che invece continuavano a seguire i codici criminali». Poi una bella notizia: l’avvocato Enza Rando ottiene la scarcerazione e l’affidamento in prova ai servizi sociali. La data è simbolica in questa storia dove le donne hanno un ruolo decisivo. Monica lascia il carcere il giorno della festa della donna, l’8 marzo 2019. Ma per comprendere fino in fondo il coraggio di Monica è utile tornare indietro di qualche anno. Al giorno in cui lei e i bambini lasciano per sempre Reggio Calabria. «Ho lasciato la città in cui vivevo il 26 luglio 2016», ricorda Monica. «Alle sei di mattina è arrivata a prendermi la polizia per portarmi in aeroporto. All’epoca vivevo da mia suocera, perché l’abitazione in cui abitavo con il mio ex era stata confiscata. La casa era vuota, erano tutti in carcere, e così mi ero trasferita lì con i miei figli». Si è innamorata del boss nel 2006, hanno avuto due figli. L’atteggiamento amorevole del capo muta repentinamente: «Ha voluto che smettessi di lavorare, mi diceva che non era necessario. E in effetti di soldi ne giravano molti, ma lui era molto tirchio. Gli avevo chiesto da dove venisse quel denaro, ma mi rispondeva “conta e non fare domande”». Prepotente. Arrogante. Violento. Si drogava molto. «Una volta mi ha anche picchiata quando gli ho urlato: “Drogato”. Non mi permetteva neppure di lavorare. Quando ho iniziato a informarmi per un lavoro in giro, tra i suoi amici, spiegando che ne avevo bisogno per mantenere i bambini, ottenevo alcune risposte evasive, altre, invece, più sincere: “la moglie di Nico vuol fare le pulizie? Ma siete pazza?”. In quel luogo era una richiesta folle e mio marito l’avrebbe vissuta come un’offesa. La donna deve stare muta, diceva mio cognato. Una volta mi ha detto: se non stai buona, ti ammazzo... a pensarci bene mi avevano reso una serva». Sembra trascorso un secolo, invece sono passati solo pochi anni. Monica adesso pensa solo ai suoi due piccoli che stanno crescendo lontani dall’influenza del padre. Frequentano la scuola, vanno al mare, studiano, corrono per le strade di una ignota e ordinata cittadina del Nord Italia. Vivono la normalità che in passato gli era stata negata nel nome del clan. «La mia scelta è maturata pensando al loro futuro. Così, quando il giudice del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria mi ha convocata per un colloquio, ho capito cosa dovevo fare. Lì, in quella saletta dove il giudice Di Bella mi attendeva, è diventato tutto più chiaro. Fuggire, rifugiarmi, tutelare chi amavo più della mia stessa vita». Così Monica e i suoi bambini lasciano la Calabria. «All’inizio, ai miei figli, ho spiegato che ci saremmo allontanati per cercare un lavoro fuori. Credevano che loro padre fosse in carcere per non aver pagato delle multe. Ma alla fine, dopo qualche mese, ho spiegato loro la verità: “Vostro padre è dentro per associazione mafiosa”. La loro risposta continua a farmi sorridere: “Ma cos’è, una cosa tipo il clan?”. Ho dovuto spiegare che anch’io ero stata in galera. Ma gli ho detto di stare tranquilli, perché la mamma non ha mai fatto male a nessuno. È solo che a volte le persone non percepiscono in che guai si stanno per cacciare. Per molto tempo non hanno mai chiesto del padre. Adesso, però, da un po’ vogliono informazioni su di lui. Avvertono l’esigenza di sentirlo. Una volta al mese vanno in carcere a trovarlo, non hanno molta voglia ma io faccio il possibile perché accada. Non cerco vendetta». Qualche tempo fa il boss ha scritto una lettera diversa dal solito. Concordava con lei sul fatto che per i piccoli è necessaria una vita migliore della sua. La testardaggine di Monica è riuscita a scalfire ciò che decenni di repressione non sono riusciti nemmeno a scheggiare.

IL PRIMO CASO AL NORD. Come Monica, anche Lorenza ha visto la mafia in faccia ogni giorno. Non in un paesino della Sicilia o della Calabria, ma in un ricco comune della Lombardia. Qui ha vissuto quotidianamente a contatto con il boss. Non per scelta, è suo padre. Lei è una piccola donna, che ha perso l’innocenza molto presto. Costretta a osservare inerme le violenze fisiche subite dalla madre, ostaggio del padre padrone affiliato a Cosa nostra. Da quasi un anno Lorenza e la mamma vivono in un luogo sicuro, segreto, protetto dagli occhi indiscreti della mafia di Gela. Sono testimoni di giustizia, perché hanno denunciato le violenze fisiche e psicologiche subite. Finto onore e violenza. L’alfa e l’omega del codice non scritto delle cosche. Dal Sud al Nord. E così il tribunale dei minorenni di Milano ha applicato il metodo di Reggio Calabria: allontanare i figli dai padrini per offrire loro un’opportunità di vita libera dal ricatto criminale. È il primo caso al Nord. L’Espresso è in grado di raccontarlo pur con tutte le cautele del caso vista la giovanissima età della ragazza, che abbiamo chiamato appunto Lorenza. Negli atti dell’indagine, che vede il padre indagato per reati gravi di violenza sulla madre, emerge un quadro di machismo e prepotenza. Insieme a lui sono coinvolti altri parenti dell’affiliato a Cosa nostra, contribuivano al controllo totale sulla vita della donna. Che cosa ha dovuto subire Lorenza? Ha visto picchiare la madre: schiaffi, pugni e persino con una bottiglia di vetro sul collo. Alla mamma di Lorenza veniva impedito di uscire liberamente. Anche solo per farsi un giro, prendersi un caffè o sbirgare una commissione doveva essere accompagnata dal marito o dalle sorelle del boss. Hanno persino attaccato una tenda scura davanti al balcone: per essere certi che i vicini non la vedessero. L’hanno obbligata a vivere al buio, con le tapparelle perennemente chiuse. Lorenza ha assistito all’umiliazione della madre. Una sera il padre l’ha presa a calci e pugni. La sua colpa? Aver salutato un ex compagno di scuola. Scene che sembrano di altri mondi, da medioevo. E invece questa è una storia dei nostri tempi, che si svolge in un paesone della Lombardia. Tra fabbriche, uffici e ospedali all’avanguardia.

·         Mafie, viaggio tra i figli del clan: ecco la “generazione paranza” da strappare alla criminalità.

«Così la ‘Ndrangheta arruola  i bambini soldato». Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 su Corriere.it da Amalia De Simone. Armi in mano prima dei dieci anni, visite ai macelli a vedere squartare gli animali: il racconto di un collaboratore di giustizia. Il tribunale dei minori di Reggio: 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie per 70 minor. Aveva meno di dieci anni quando gli misero in mano una pistola. Se lo ricorda perché le dita erano piccole, l’arma pesante e nel tentativo di scarrellare si fece male al pollice. E’ Luigi Bonaventura, un collaboratore di giustizia che ha preso parte a decine di processi. Ha terminato il suo programma di produzione mentre la sua famiglia è ancora sotto la tutela dello Stato. Lui è stato un bambino soldato della ‘ndrangheta. «Si cresce in famiglie che ti inculcano la subcultura mafiosa con padri e zii che ti indottrinano al culto della famiglia ‘ndranghetista. Cominciano portandoti le armi in casa, insegnandoti a pulirle, a maneggiarle, a caricarle e magari ti fanno ripetere il “giochino”. Poi ti fanno vedere i fucili da assalto e tu che sei piccolo ne rimani affascinato. Assisti a perquisizioni, agli arresti, ti insegnano a disprezzare le forze dell’ordine. Sono tutte cose che alla fine, da bambino, ti condizionano e ti segnano la vita». Bonaventura ricorda anche che veniva spesso portato al macello dove gli insegnavano a squartare gli animali ad avere confidenza con il sangue. «All’epoca io queste cose non le capivo, poi da grande ho compreso che era un modo per farmi prendere dimestichezza con la morte». Bonaventura racconta che queste pratiche aiutano quando si commette il primo omicidio: «Fino al momento che spari non senti niente». Ancora oggi il clan praticano l’educazione criminale nei confronti dei bambini come dimostrano due recenti indagini in Piemonte e in Calabria. Per esempio nelle intercettazioni tratte dagli atti della direzione distrettuale antimafia di Torino, sfociata nelle operazioni «Criminal Consulting» e «Pugno di ferro» dell’ottobre 2019, si sente un uomo che dialoga con dei ragazzini e li invita a sentirsi orgogliosi di appartenere alla ‘ndrangheta. Oppure negli atti di un’inchiesta del settembre 2019 della procura di Reggio Calabria in cui un boss della piana di gioia Tauro addestra il figlio di otto anni al crimine. Nell’ordinanza si legge che il figlio minorenne di uno degli indagati non solo si rivelava consapevole dell’attività svolta dei genitori coinvolti in un commercio di stupefacenti, ma vi partecipava anche suscitando l’ammirazione del padre che osservava orgogliosamente che un giorno «gli avrebbe fatto le scarpe». Il trafficante di droga parlava tranquillamente con il figlio delle dosi e di armi istruendolo anche su come venivano risolti i contrasti con i fornitori internazionali. «Che facevano ? una guerra succedeva qua - diceva - avevano Kalashnikov tutto così lo potevi ammazzare lo sotterravi e non sapeva niente nessuno invece i colombiani venivano qua e sai che facevano? il macello». Il presidente del tribunale di minori di Reggio Calabria Roberto di Bella dopo aver visto per anni bambini utilizzati nel trasporto di droga e di armi o nella cura dei latitanti ha cominciato a sperimentare provvedimenti di allontanamento dei minori dalle famiglie di ndrangheta. Provvedimenti che ovviamente valutano situazioni caso per caso. Ad oggi il tribunale dei minori di Reggio Calabria ha adottato 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie nei confronti di 70 minorenni. Al momento 30 nuclei familiari hanno abbandonato la Calabria dissociandosi dalle logiche criminali. «Mi ricordo di un ragazzino coinvolto a pieno titolo dell’attività della sua famiglia e che era costretto a trasportare armi da guerra e ad assistere al taglio delle dosi di droga. Ora il padre in carcere ed il ragazzino in un’altra località ed è finalmente libero, libero di studiare, di muoversi, di essere, ora che è più grande , un adolescente normale». Di Bella ha portato questa sua esperienza in un libro di recente pubblicazione «Liberi di scegliere», dove racconta le storie di questi ragazzi, i loro traumi e i loro sogni. «Anche noi collaboratori di giustizia in qualche modo abbiamo portato via i nostri figli dai tentacoli dei clan. Loro fanno una vita di sacrifici, che non hanno scelto, rischiando la vita per gli errori che noi abbiamo commesso e subendo una serie di disfunzioni e difficoltà». Spiega Bonaventura che grazie anche al sostegno di sua moglie ha fondato l’associazione sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia e sta creando una ong per difendere i minori che crescono negli ambienti mafiosi “Stop mafia’s children soldiers”. «Noi togliamo i nostri figli dalle origini per portarli in un ambiente migliore - spiega Giovanni Sollazzo, tesoriere del comitato sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia - in quanto nelle nostra terra potrebbero diventare possibile manovalanza della criminalità organizzata. Quindi li sradichiamo da quel territorio e li portiamo in un territorio sano ma in un certo senso anche a loro ostile, perché vengono esposti a molti pericoli e a molte discriminazioni: dobbiamo insegnargli a dire le bugie perché non possono dire il papà che lavoro fa, non possono dire da dove vengono né dove abitano, non possiamo avere il nome sul citofono di casa e a scuola sono facilmente individuabili. Per questo ci sarebbe bisogno di maggiore attenzione da parte del legislatore nei confronti dei familiari dei collaboratori e dei testimoni di giustizia perché possano avere una vita normale». Spesso però i ragazzini raggiungono una maturità ed una sensibilità a volte inaspettata: «Era la festa del papà – racconta Luigi Bonaventura - e ricevetti una lettera dai miei figli. C’erano scritte tante cose belle mi ringraziavano per le cose che riuscivo a dargli, per i regali e per l’affetto. Sembrava una lettera ordinaria di bambini normali. Invece alla fine c’era la sorpresa, perché nelle ultime righe scrissero: papà grazie soprattutto perché non ci hai condotto verso il percorso di una vita criminale ».

Mafie, viaggio tra i figli del clan: ecco la “generazione paranza” da strappare alla criminalità. Da Forcella a Reggio Calabria - Nascere qui spesso diventa una condanna preventiva, non solo per il cognome che si porta. Togliere i figli ai boss basterà per spezzare la malapianta? Scrive Maddalena Oliva il 17 Settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il sangue è sangue, dicono da queste parti. E il sangue si mastica, ma non si sputa. Pure quando fa male ingoiare. “Io in carcere da mio padre non ci volevo andare. Non era per lui. Mia madre mi diceva: ‘Vieni, ti devo portare’. E io niente. Ero piccolo, 5 anni. Ogni volta iniziavo a vomitare”, racconta A. A. è nato e cresciuto a Forcella, a due passi dai Decumani e dalla via dei presepi, in quel quartiere che prima fu il Regno di Lovegino Giuliano e poi dei suoi nipoti: quei Giuliano che, insieme alla paranza dei fratelli Sibillo, hanno terrorizzato il centro di Napoli e ispirato la penna di Roberto Saviano. A. da anni non abita più nel ventre molle della città, ultima tra le grandi ad avere la periferia in pancia, A. vive a migliaia di chilometri di distanza. “A casa siamo cresciuti solo con mammà, papà stava chiuso. Non è una novità di oggi per me pensare che il carcere faccia schifo. Una persona, per stare là dentro, non ha valore. Non ha carattere. Non ha la testa di dire: voglio vivere bene, voglio far crescere i miei figli come si deve anziché come rifiuti. Perché a Napoli già si cresce sbandati… i ragazzi, le madri, li prendono e li buttano in strada. L’ho capito meglio da quando sono lontano. Per me mio figlio deve crescere come dio comanda. Purtroppo io ho una famiglia in cui quasi tutti hanno precedenti. Forse sono l’unico che si salva, insieme a un fratello di mio padre. Per il resto, anche le donne da noi sono pregiudicate. Forse, restando a Napoli, cercavo la morte. Ora mi sento invece che sto cambiando perché sto iniziando a vedere la luce, davanti agli occhi. A Napoli vedevo solo buio perché frequentavo sempre il male. Immagino che la mia vita sarebbe stata molto diversa se fossi nato altrove. Immagino… però può darsi che sarebbe anche stata uguale, ma almeno non avrei dovuto frequentare persone che non andavano bene per me”. Liberi di scegliere chi essere, chi diventare. Senza avere il destino segnato, solo perché si è nati con un determinato cognome, o in un determinato quartiere. Allontanare i minori da contesti familiari mafiosi, fino a togliere o limitare la responsabilità genitoriale, è una delle questioni più dibattute, e non solo all’interno della magistratura che si sta interrogando sul tema, grazie ai provvedimenti apripista adottati negli ultimi anni dai tribunali dei minori di Reggio Calabria e di Napoli. Il presidente del Tribunale per i minori del capoluogo reggino Roberto Di Bella – che indossa la toga da 30 anni, più o meno quanti ha dedicato alla giustizia minorile – è convinto che la ’ndrangheta si erediti: “Sono a Reggio dal ’93. In tutti questi anni abbiamo trattato più di 100 procedimenti relativi a minori per reati di criminalità organizzata, e più di 50 processi per omicidio e tentato omicidio: oggi mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ’90 più o meno per gli stessi reati. Tutti con lo stesso cognome. E il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare, e che invece abbiamo abbandonato”. La malapianta trae prima di tutto linfa dal sangue. Ma se usciamo dalla Calabria, e allarghiamo lo sguardo? I minori coinvolti in episodi criminali, spiega Gemma Tuccillo, a capo del Dipartimento per la giustizia minorile, dal punto di vista delle biografie presentano tratti convergenti: “Sono, nei profili più gravi, contigui alla criminalità organizzata per ragioni di appartenenza familiare, o per la provenienza da quartieri ad alta densità mafiosa. Più in generale, sono minori che vivono in zone periferiche e degradate, inseriti in contesti familiari segnati da disgregazione o da gravi forme di disagio affettivo, economico o abitativo”. Qualche dato su tutti, solo guardando alla Campania: il 22% dei minori vive in condizioni di povertà relativa; 1 su 3 abbandona prematuramente la scuola; 7 bambini su 10 non sono mai andati a teatro o a visitare mostre; 7 bambini su 10 non hanno mai fatto sport. Ecco perché, secondo molti, “la diffusione dei comportamenti criminali, quando investe ampie fasce di popolazione giovanile come a Napoli e nel Sud, è innanzitutto un immane problema sociale e politico”, sottolinea Nicola Quatrano, giudice, ora in pensione, che tra tanti processi seguiti nella lunga carriera a Napoli si è occupato della paranza dei bambini. Per lui, la misura dell’allontanamento dei figli risponde a un’impostazione repressiva e sanzionatoria non tanto verso i tipi di reato quanto verso il contesto, la famiglia da cui si è nati. “Una ‘sanzione’ aggiuntiva per quella che io chiamo ‘la criminalità della plebe’. Bisogna invece affrontare la questione con maggiore, e migliore, attenzione. Perché se è indubbio che crescere in un ambiente criminale può generare criminalità, è altrettanto vero che pure la deprivazione degli affetti familiari potrebbe provocare il medesimo risultato. Senza contare che non è affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattato onesto, piuttosto che un delinquente psichicamente equilibrato”. “Se ci provano a toccarmi i figli, acca scoppia ’na guerra nuclear’”. Grazia ha quattro figli maschi. Due sono detenuti a “Poggi Poggi”, il carcere di Poggioreale a Napoli: uno con un ergastolo – il grande, 23 anni – e l’altro con una condanna a 14 anni da scontare. “Avessi fatto quattro femmine! Mi sarei coricata con meno pensieri…” e, mentre parla, i suoi grandi occhi azzurri sorridono, perché, come ama ripetere, nonostante tutto “più scuro della mezzanotte non può venire”. Grazia lava le scale tre volte alla settimana, venti euro al giorno quando va bene e lavora, e ha cresciuto quattro figli da sola – divenuta mamma a 16 anni – perché il marito era in carcere. “E ci è rimasto fino a quando non si sono fatti grandi i figli. Non siamo cattivi noi. È Napoli, è la città, che ti fa diventare cattivo. Però io non me ne andrei mai da casa mia. E non lascerei mai i miei figli andare lontano. Vivo per andarli a trovare in carcere, quella volta alla settimana. Io dico allo Stato: io a fare la mamma ci ho provato. Ho sbagliato. Giusto? Ma tu Stato che fai? Mi uccidi la vita, se mi togli un figlio. Uccidi la vita pure a lui”. I risultati dei primi provvedimenti di allontanamento dei minori presi da Di Bella, a Reggio Calabria, raccontano altro. Così come anche le prime lettere che arrivano, non più solo dalle madri ma anche dai padri, in carcere, detenuti al 41bis. “Sono d’accordo con lei – scrive un boss a Di Bella – solo allontanandolo da questo ambiente, il mio bambino avrà un futuro migliore. Se avessi avuto io le stesse possibilità forse non sarei dove sono ora. Decida lei e stia tranquillo. Non farei mai più qualcosa che possa influire o danneggiare la vita di mio figlio”. “Questo ci dà speranza”, dice il procuratore. Spezzare i vincoli sacri del legame familiare sembra essere l’unico modo, per questi ragazzi, per aspirare a una vita diversa. Poi puoi scegliere, una volta compiuti i 18 anni, se tornare. Molti, specie le ragazze, non lo fanno. Di Bella lo chiama “Erasmus della legalità”. Entri in un mondo diverso. Torni a scuola, hai la possibilità di lavorare. Anche se i primi giorni, quelli del distacco, sono difficilissimi. Ma, in caso di genitori che manifestino segni di ravvedimento, si fa di tutto per mantenere i rapporti, anche se c’è di mezzo il carcere. Tu minore sei seguito passo passo da psicologi e da operatori qualificati come Libera, con Vincenza Randoe il suo prezioso aiuto. Proprio lei, che fu avvocato di Lea Garofalo e poi di sua figlia Denise. Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza. E per evitarlo bisogna avere lo sguardo ampio. Quando entrano in campo magistrati come Di Bella o, a Napoli, Maria De Luzenbergher, è perché la situazione è già patologicamente endemica. Se in alcune zone del Paese la cultura del malaffare è diffusa e le famiglie sono sempre le stesse, vuol dire che la scuola ha fallito. “Non abbiamo ricevuto segnalazioni dalle scuole sulla dispersione dei ragazzi nemmeno durante la faida di San Luca, quando – abbiamo scoperto solo durante il processo – le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per paura di ritorsioni”. È proprio il sistema che sembra non reggere: sul piano culturale, sociale, economico. Basti pensare che su 97 comuni della provincia di Reggio Calabria, più dell’80% non ha servizi sociali. E anche nell’area di Napoli non va meglio: un assistente sociale ogni 5.600 abitanti. Ma per questo dovrebbe esserci la politica, dicono i magistrati. La sospensione o la perdita della responsabilità genitoriale è nel contratto di governo Lega-5 Stelle. Non è prevista per camorristi o ’ndranghetisti: solo per i rom.

Erano figli "privilegiati" di mafia, scrive Lucia Rotondi, Avvocato-Esperta di diritto di famiglia e minorile, su huffingtonpost.it il 21/03/2018.  Quell'allontanamento dalla loro famiglia di origine che gli salva la vita. Lui si chiama Giuseppe, ma tutti lo conoscono come "Pinuzzo", e così sa apporre la sua firma: Pinuzzo M. E' nato a Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo 12 anni fa. Da quando è venuto al mondo la mamma, Maria, lo ha sempre chiamato "Pinuzzo mio" quasi a volerlo tenere stretto a sé il più possibile, solo come una mamma può e sa fare. Hanno condiviso i loro respiri fino a quando Pinuzzo aveva 7 anni, fino a quando Maria è stata brutalmente uccisa da un colpo di pistola mentre attendeva che il figlio uscisse da scuola: il tempo di salutare la mamma ed ecco che si accascia a terra, esanime. Pronuncia le sue ultime parole: Pinuzzo mio. Qualcuno ha detto che è stato un errore, altri che era prevedibile. L'unico dato certo è che da allora Pinuzzo non ha più sua mamma ed è rimasto solo, perché neppure il papà c'è. Maria ha lottato contro tutti affinché quel suo figlio, l'unico, potesse diventare un uomo diverso dal padre che, pure ha tanto amato, che potesse studiare almeno fino alle scuole superiori, sognava di andarsene un giorno a Roma, abbandonando tutto e tutti, ma non ce l'ha fatta. Pinuzzo, da quel momento si aggrappa al padre, cerca in lui quel modello umano per vendicare sua madre. Anche se suo padre in realtà, fisicamente non c'è in casa. Però lui sa che suo papà è forte, conosce persone potenti che possono dominare il mondo, sconfiggere i deboli e "quelli che non servono". E anche suo nonno Tore è cosi, e pure suo zio Santino. Ne ha sempre sentito parlare e lo vede, a tratti, quando torna dalle "vacanze". Pinuzzo ha festeggiato i suoi compleanni ricevendo come regalo la torta con la panna preparata dalla mamma Maria, spegnendo le candeline senza rendersi conto di cosa fosse poter esprimere un desiderio. Da quando la mamma non c'è più ha imparato altri giochi, ancora più divertenti: rubare, dire parolacce, inveire contro l'insegnante quei rari giorni che non va via da scuola. E riceve tanti regali quando riesce a portare a termine un compito che gli ha dato magari lo zio (uno scippo), che lo portano a pensare che in fondo è bello diventare adulti. Pinuzzo è uno dei tanti bambini figli della mafia, della n'drangheta, che trascorre le giornate ad immaginare dove e come rubare, che si diverte ad armeggiare utilizzando pistole vere, che sente discorsi dei grandi, che non spegne le candeline il giorno del suo compleanno ma che riceve soldi, veri, e tanti. Uno dei tanti bambini che fanno parte di quel fenomeno crescente e pericoloso che ha raggiunto limiti oramai insopportabili e che ha spinto il Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria ad assumere provvedimenti apparentemente drastici. Ovvero ad allontanare i bambini dalle famiglie d'origine affinché possano essere rieducati, salvati e porre fine al pregiudizio di cui sono ignare vittime. I bambini figli di boss, mafiosi, latitanti continuando a vivere nel loro habitat d'origine, non possono non trasformarsi che in cloni dei componenti della famiglia. Sono spesso le stesse madri a chiedere aiuto, per cercare di salvare almeno loro, per se stesse purtroppo non vedono speranze. Per qualsiasi genitore, essere privato del proprio figlio è sicuramente traumatico, per un bambino è anche peggio, anche se il genitore è un mafioso. I bambini, infatti, non hanno parametri di riferimento rispetto a quello che comunemente viene definito buono o cattivo genitore: per loro la mamma ed il papà sono unici e perfetti senza riserve. Ma la decisione di portarli via, in strutture protette, lontano dal mondo losco che per loro costituisce una sana normalità, è una decisione oramai divenuta inevitabile. In seguito alle direttive del Tribunale di Reggio Calabria, il primo ad assumere provvedimenti così forti determinando le modalità ed i casi di allontanamento, si auspica che possano essere ridimensionati i danni, forse in alcuni casi addirittura permanenti. Il problema principale, quando viene stabilito che i bambini debbano essere allontanati, è il punto oscuro che rimane sulla reale possibilità di rieducazione. L'intervento da parte dell'autorità giudiziaria deve essere tempestivo, prima il bambino viene allontanato e forse prima viene recuperato e reimmesso in una società ove potrà diventare prima che un cittadino, un uomo. Ovvio che una decisione così forte è parametrata alla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti (tra i quali, in primis, la conservazione del rapporto con la propria famiglia d'origine) rispetto al pregiudizio che ne deriva in caso di permanenza. Pertanto, nel caso di allontanamento coatto, superata la prima fase in cui si tende a mantenere, mediante interventi ad hoc, il rapporto con i genitori biologici, nel caso di fallimento o situazioni particolarmente gravi, non si può prescindere da un provvedimento ablativo e quindi di decadenza della responsabilità genitoriale.

Ma come si giunge, nella pratica, ad un provvedimento di allontanamento? Solitamente scaturisce da una cognizione apparentemente sommaria, della situazione familiare che arriva in Tribunale a seguito della commissione di un reato. In prima battuta poco rilevante, ma che rappresenta la spia di una strada oramai avviata. L'inerzia della famiglia d'origine rispetto al fatto censurato, il contesto socio culturale, i carichi pendenti e quindi lo spessore criminale di genitori e parenti costituiscono elementi che vengono opportunamente valutati dall'autorità interessata. La fascia d'età che interessa questi bambini, è spesso quella compresa tra i 13 ed i 16 anni. Quindi, ci si trova davanti a un minore che ha una personalità ben formata, spesso deviata per le condizioni sociali ai quali sono costretti a vivere. In questi casi, il primo passo da compiere da parte delle autorità competenti è l'allontanamento e accolto in una struttura organizzata ad hoc, preferibilmente in un'area geografica diversa, con la immediata, seppur ancora temporanea, sospensione della responsabilità genitoriale e l'affidamento al Servizio Sociale. Ciò vuol, dire che sarà quest'ultimo ad intraprendere le decisioni nell'interesse il minore (mediche, scolastiche ecc...) Non va sottovalutata la circostanza che solitamente il livello d'istruzione di questi minori è lacunoso, non tutti hanno proseguito neppure la scuola dell'obbligo. Prima di avviare qualsiasi percorso educativo, anzi, rieducativo, è necessario trasmettere ai ragazzi l'interesse alla partecipazione, all'ascolto, a raggiungere un obiettivo scolastico. Magistrati, avvocati, operatori del diritto, servizi sociali, psicologi, e oramai l'uomo della strada, sono perfettamente consapevoli del trauma che ciò può comportare. Ma la necessità di tutela del minore, in tutte le sue forme, non può esimersi dal considerare che non solo si diventa genitori, ma occorre essere genitore. Ed è quanto, purtroppo, non accade in quei contesti sociali in cui il ruolo educativo del genitore biologico viene meno, per forza di cose, in cui la povertà educativa prende il sopravvento e deve essere arginata. Le famiglie dei clan seguono sistemi ancora arcaici e rigidi. Il primogenito è destinato a portare avanti gli interessi della famiglia (intesa anche quella dell'organizzazione mafiosa o criminale), mentre la femmina educata e costretta ad unirsi in matrimonio con uno del clan. La carcerazione costituisce una reale possibilità. Sta tutto nei programmi di famiglia. Se un bambino cresce nel sopruso, utilizzerà il sopruso per farsi valere, se non conosce i valori della lealtà, dell'onestà, del rispetto, non potrà farli propri. Bisogna anche considerare un altro aspetto, un ulteriore rischio anche se forse ancora non si possono fare pronostici vista la recente applicazione di tale modalità d'intervento. Ci si chiede sulla efficacia di questo sistema e quali solo le probabilità che il minore, rieducato, non riprenda la strada precedentemente abbandonata. L'allontanamento coatto dei minori termina, di fatto, con il raggiungimento della maggiore età, e allora essi saranno liberi di scegliere se tornare a casa o proseguire per il nuovo cammino. Probabilmente tali reazioni sono direttamente collegate al tempismo con il quale si riesce a sradicare il minore da una situazione precaria, anzi, deviante. Forse più si riesce ad intervenire precocemente, maggiori saranno le possibilità di recupero. L'incertezza di questa modalità, che per il momento si rivela quella più efficace, non trova conforto nella certezza della tutela da parte dello stato. Il diritto di rimanere all'interno di tali strutture, infatti, è soggetto al limite del raggiungimento della maggiore età: da tale momento lo Stato non risulta in grado di proseguire oltre. A meno che, ovviamente - ma si tratta di casi ancora più gravi- si è giunti nel frattempo ad una decadenza della responsabilità genitoriale con conseguente dichiarazione di adottabilità. In tal caso, forse, paradossalmente il minore potrà contare su una reale assiduità educativa.

In ogni caso, a prescindere da tale incertezze, non si può rimanere spettatori nella creazione di" babyboss". E se il genitore è latitante? In quel caso, è possibile intervenire perché il disinteresse mostrato dal genitore assente costituisce un messaggio trasmesso al figlio, quello della latitanza appunto. Togliere un minore a mamma mafia, intervenire in suo aiuto, può contribuire alla sua crescita e prendere consapevolezza di quei valori che le organizzazioni mafiose non hanno. Lucia Rotondi

Il Csm: "Togliere i figli ai boss". Favorevole chi ci è già passato. Luigi Giuliano era membro della più potente cosca di Napoli. Ora sta coi giudici: magari fosse successo a me, scrive Simone Di Meo, Domenica 29/10/2017, su "Il Giornale". «Magari lo avessero fatto anche con me. Magari mi avessero allontanato dalla famiglia. Mi sarei risparmiato la galera e quell'inutile e velenoso senso di onnipotenza che mi portava, poco più che quindicenne, a girare armato per Forcella e a riscuotere i saluti impauriti delle persone».

Il rischio è crescere dei nemici dello Stato. Luigi Giuliano jr si chiama come lo zio, «'o rre» della camorra partenopea. E ha fatto parte della più potente famiglia malavitosa degli anni Ottanta in Campania. Quella di cui era amico Diego Armando Maradona ai tempi del Napoli scudettato. Oggi, Luigi Giuliano jr è un uomo tranquillo che, dopo aver pagato i debiti con la giustizia, approva senza remore il progetto di legge, suggerito dal Csm, di togliere i figli agli affiliati alla criminalità mafiosa. «E non solo a loro spiega al Giornale ma anche a chi spaccia la droga, a chi vive di illegalità. Un bimbo che subisce la violenza di vedere i genitori che preparano le bustine di cocaina in cucina, nel giro di qualche anno, vorrà imitarli. E diventerà a sua volta un dispensatore di morte». La risoluzione, messa a punto dalla sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura, martedì prossimo sarà discussa dal plenum di Palazzo dei marescialli e prende le mosse dalle esperienze dei tribunali per i minorenni del Sud (in testa Reggio Calabria, Napoli e Catania), che di fronte a famiglie mafiose che inseriscono sin da piccoli i loro figli nelle dinamiche criminali dei clan, hanno adottato provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale, allontanando i minori da quell'ambiente ad alto rischio per il loro sviluppo psico-fisico e affidandoli a strutture poste al di fuori della regione di provenienza. Una scelta complessa e non priva di rischi, peraltro. Un anno e mezzo fa, infatti, un latitante di una cosca dell'area nord di Napoli imbracciò il kalashnikov, spalleggiato da una mezza dozzina di complici, e nella notte sparò un centinaio di proiettili contro la caserma dei carabinieri di Secondigliano. Colpevoli, ai suoi occhi, di aver sottratto i figli piccoli alla compagna, rimasta senza lavoro. Una linea dura che il Csm condivide, ritenendo le famiglie mafiose «maltrattanti» per i loro figli al pari di quelle dove c'è un genitore tossicodipendente o che usa violenza fisica: provvedimenti di decadenza genitoriale sono un'extrema ratio, scrivono i consiglieri, ma possono diventare indispensabili per «proteggere il minore dal pregiudizio che gli deriva dalla violazione del suo diritto a essere educato nel rispetto dei principi costituzionali e dei valori della civile convivenza». «Bisogna però capire una cosa ha sottolineato ancora Luigi Giuliano jr . Non basta togliere i figli ai malavitosi. È necessario poi seguirli, dar loro una educazione, offrirgli l'occasione di sviluppare una vita improntata alla legalità e al bene». L'esperienza di suo padre Nunzio Giuliano, dissociatosi dal clan e ammazzato il 21 marzo 2005 da killer rimasti ignoti, è illuminante. «Andammo a vivere lontano da Forcella - ha continuato -. Ma quando lui fu ingiustamente arrestato, disse ai giudici di salvare i suoi due figli, di tenerli lontani dal rione. Non fu ascoltato. Così, io tornai dai miei zii e feci apprendistato di malavita scoprendo la cocaina e la violenza. Mio fratello invece morì di overdose poco dopo». Quando Nunzio Giuliano uscii dalla prigione, era già troppo tardi. «Crescendo, il suo esempio mi ha però salvato la vita conclude. Se quei magistrati gli avessero prestato attenzione, tanti orrori non sarebbero stati mai commessi. E io avrei avuto un'altra esistenza».

La storia di Mariarca, nipote del boss amico di Riina e compagna di Emanuele Sibillo, scrive il 15 maggio 2018 Voce di Napoli. E’ la 22enne protagonista del documentario sulla vita del compagno Emanuele Sibillo, il babyboss della “paranza dei bimbi” ucciso a 19 anni nel centro di Napoli il 2 luglio 2015. Mariarca Savarese racconta il periodo vissuto al fianco di uno degli elementi apicali del cartello composto dalle famiglie Giuliano-Sibillo-Brunetti-Amirante che in quel periodo dichiarò apertamente guerra ai Mazzarella e ai suoi alleati: dai Caldarelli delle Case Nuove ai Del Prete presenti a Forcella agli Esposito-Genidoni del Rione Sanità. Mariarca tiene però a precisare che anche lei viene da una famiglia “importante”. Originaria del Rione Sanità, il suo è un cognome pesante nel panorama criminale napoletano. Lo zio “Totore”, che quando apprende della relazione con Sibillo chiarisce subito le cose con la nipote (“Lo devi sempre rispettare, anche se si va 20-30 anni di carcere”), è Salvatore Savarese, boss dell’omonimo clan del Rione Sanità che ha la sua roccaforte in via dei Cristallini.

LO ZIO BOSS – Detto “il Padrino” probabilmente perché acquistò punti nelle classifiche criminali dopo aver trascorso l’ora d’aria in regime di carcere duro con il capo dei capi Totò Riina, è cresciuto sotto la guida dell’ex boss del Rione Sanità Giuseppe Misso, detto ‘o Nasone’, oggi collaboratore di giustizia. Oggi Savarese ha 63enne ed è sottoposto alla libertà vigilata (dalle 21 alle 7 non può allontanarsi dal proprio domicilio e non può, ovviamente, frequentare pregiudicati). E’ tornato in libertà da circa due anni dopo essere stato arrestato l’ultima volta in vico Zurolo a Forcella. Era il 3 dicembre del 2013 e “il Padrino” venne sorpreso durante un summit con diversi elementi delle famiglie che dichiararono guerra ai Mazzarella. Anche allora era in regime di libertà vigilata e finì in carcere proprio per averli violati.

ALLEANZE E TRADIMENTI – Savarese è in carcere quando scoppia la guerra tra la “paranza” e i Mazzarella, suoi storici alleati durante la lunga militanza del clan Misso. Nonostante nel summit in vico Zuroli fosse stato sorpreso con affiliati vicini a Emanuele Sibillo, quando torna in libertà, nel 2015, decide di allearsi con i Sequino del Rione Sanità il cui boss Salvatore Sequino, 44 anni, venne arrestato nell’ottobre del 2015 nel blitz che portò dietro le sbarre i “Capelloni” dei Buonerba, quelli che di fatto uccisero Sibillo.

LA VITA PRIVATA – Oltre agli intrecci e ai codici d’onore, quasi mai rispettati, nel documentario prodotto da Repubblica, Sky e 42° Parallelo, viene raccontata anche la vita privata di Emanuele Sibillo. E’ la compagna Mariarca a rivelare, attraverso foto e video, gli aspetti nascosti di un giovane ragazzo che aveva deciso di intraprendere la strada criminale già all’età di 15 anni. “L’aspetto del compagno, quello più intimo – spiega in un’intervista a Vice.com Diana Ligorio, autrice insieme a Conchita Sannino del documentario “ES17– Dio non manderà nessuno a salvarci”. Sibillo “era una persona molto affettuosa e molto fisica, lo si percepisce da come scherza con Mariarka”. Insomma, chiosa l’autrice, “in questi video c’è sicuramente l’aspetto più privato, quello che ci fa entrare in una relazione di profondità con lui”.

LE DISCOTECHE – Mariarca racconta che “a un certo punto ho pregato che facessero più in fretta le guardie a capire dove era latitante. Io ho sperato che Emanuele finisse dentro, ma non l’ho mai detto, non avrei potuto”. La 22enne, che quando Sibillo venne ucciso aspettava il secondo figlio (era al quinto mese di gravidanza), racconta poi “l’aspetto giocherellone” e la loro vita in casa con il primo figlio, nato nel 2014. “Tornava dalla strada verso le sei del mattino e si metteva a letto. Si svegliava verso le tre o le quattro del pomeriggio; si faceva la zuppa di latte con le gocciole o i pan di stelle e prendeva il telecomando: Uomini e Donne, i tronisti, la De Filippi dal letto. Una volta a settimana, ci vedevamo anche Gomorra, era forte. Poi la sera spesso andavamo a ballare”. Nei locali di Pozzuoli e di Chiaia la paranza arrivava anche alle 4 del mattino ma “trovavamo sempre il nostro privé libero perché i buttafuori allontanavano chi c’era in quel momento.

Napoli: i temi dei ragazzi detenuti a Nisida "giusto togliere i figli ai boss", scrive Daniela De Crescenzo su Il Mattino il 18 settembre 2018. "Meglio soffrire io che mio figlio": a sorpresa, interrogati sulla possibilità di allontanare i figli dai boss i ragazzi dell'istituto penale di Nisida si dichiarano in gran maggioranza favorevoli a un provvedimento estremo. Lo ha spiegato Maria Franco, insegnante dei giovani detenuti, in un lungo post del suo blog, Conchigliette, riprendendo un dibattito di cui è stata protagonista sul giornale calabrese Zoomsud intorno alla scelta del Tribunale dei minori di Reggio Calabria di sottrarre i figli agli 'ndranghetisti nei casi in cui la decisione rappresenti l'extrema ratio. Un'idea rilanciata recentemente dal Csm, il Consiglio superiore della magistratura che ha voluto tenere a Napoli una seduta monotematica dedicata proprio ai giovani a rischio. Dice la professoressa: "Ho portato in classe alcuni commenti a un fatto di cronaca: le intercettazioni che mostravano alcuni bambini e ragazzini al lavoro nel commercio di droga di un clan. Alcuni di questi commenti richiamavano alla necessità di prolungare l'orario scolastico e di promuovere interventi sociali nei quartieri più a rischio. Ho chiesto ai ragazzi e alle ragazze se questi tentativi avrebbero potuto produrre il risultato di sottrarre ad un futuro illegale quei ragazzi e la risposta, unanime, è stata: no. Né più scuola, né più sport, né più teatro, né più verde possono bastare, mi hanno risposto. E allora? - ho chiesto io - L'unica è mandarli lontano da qui, ma da piccoli piccoli". Piccoli piccoli, prima che la loro vita possa essere rovinata. Piccoli piccoli, cioè in tempo per imparare a muoversi in un mondo diverso da quello dei propri genitori. Un mondo normale. L'insegnante allora ha chiesto ai ragazzi di rispondere per iscritto a tre domande: che cosa pensate della scelta dei magistrati reggini? Con questa scelta, i ragazzi cresceranno meglio? Come reagireste voi se qualcuno volesse allontanarvi dalle vostre famiglie? "Alla prima domanda, tutti hanno risposto che la scelta è giusta - spiega Maria Franco - Risposta confermata dalla seconda, in cui hanno sostenuto che certamente i ragazzi avranno una vita migliore". Tutto cambia con la terza domanda, più personale. "Molti hanno sostenuto l'allontanamento dai genitori e soprattutto dalla madre è ipotesi da non fare neppure per scherzo, farebbero il diavolo a quattro e non l'accetterebbero mai. Ma qualcuno ha detto che, se i genitori decidessero così, allora se ne andrebbero sereni, convinti che sarebbe la scelta giusta per il loro futuro e qualche altro ha detto che avrebbe certo sofferto molto, ma si sarebbe abituato e avrebbe finito col vivere meglio. E più d'uno, guardandosi non come figlio bensì come padre, ha detto che, con la morte nel cuore, sarebbe disponibile a lasciare andare via suo figlio, proprio per evitare che i suoi errori potessero ricadergli addosso". "Meglio soffrire io che mio figlio". A condizione che "lui mi vorrà sempre bene e mai mi odierà". In aula, quindi, si verifica un'incredibile rovesciamento di fronte. Aggiunge l'insegnante: "Ho non pochi dubbi, che l'allontanamento dalle loro famiglie dei figli di 'ndranghetisti, mafiosi e camorristi, possa essere una scelta di carattere generale, ovvero non limitata a casi specifichi". Ma gli allievi sono sul fronte opposto. Uno spiega che lontano da casa "sicuramente avremmo una vita migliore, potremmo cambiare strada e avverare i desideri perché non costretti a seguire le orme dei padri". E i boss? Rinunciando ai figli fanno una buona scelta perché così assicureranno loro un'esistenza normale. Cambiare restando nel proprio ambiente, sostengono tutti, è praticamente impossibile perché "Se frequenti compagnie sbagliate prima o poi sbagli anche tu". Non solo. "Se cresci con un padre in carcere porti rancore e alla fine magari fai cose simili alle sue". Un altro entra nel dettaglio e scrive: "Il dottor Di Bella ha fatto la scelta migliore perché ha regalato una nuova vita a quei ragazzi". Una nuova vita perché scrive un altro: "Nella nostra o si muore o si va in carcere". Sì, perché in questo maledetto Paese c'è chi ha diciotto anni e nessun futuro davanti: lo sa, lo scrive, ma nulla cambia.

L’operatore di strada: “Togliere i bambini ai genitori criminali è un grosso errore”. Dopo la proposta del pg di Napoli: “Serve lavoro, non militarizzazione”. L’impegno. L’associazione di Bruno Mazza cerca di strappare bambini alla strada in zone disagiate offrendo loro gioco, sport e, per i più grandi, corsi per un lavoro, scrive il 29/01/2017 Michela Tamburrino su La Stampa.  Suona come uno schiaffo in faccia la dichiarazione del procuratore generale di Napoli. Almeno alle orecchie di Bruno Mazza, un padre suicida, 11 anni di carcere e oggi attivo nell’associazione «Un’infanzia da vivere» che, nell’hinterland napoletano, aiuta i bambini in difficoltà com’era lui. In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Castel Capuano, il pg Luigi Riello ha sostenuto che per recuperare i giovani inseriti fin da piccoli in un contesto criminale bisogna considerare l’ipotesi «di sottrarre i minori alle famiglie in cui li si induce e insegna a delinquere, previa limitazione della potestà genitoriale se padre e madre sono incapaci di indirizzare il figlio al rispetto delle regole e a tutelarlo».

Una dichiarazione di buon senso, no?

«Assolutamente no. In questo modo si andrebbe ad aggiungere orrore a orrore. Ed è pazzesco pensare che la soluzione invece sarebbe molto più semplice di quanto invece non si pensi».

E quale sarebbe questa soluzione? E perché non sarebbe stata attuata?

«Spesso le soluzioni più semplici contrastano con gli interessi economici di chi lucra lasciando la situazione inalterata. Mi lasci prima spiegare qualcosa di me che forse può chiarire».

Mi dica.

«Avevo 14 anni quando mio padre è morto suicida. Abitavo in una zona di Caivano, Parco Verde, sorta dopo il terremoto del 1980, con case parcheggio che sarebbero dovute durare il tempo del riassestamento. Da 35 anni non sono mai state sostituite. Io avevo problematiche legate alla mio vissuto e non ero il solo. La scuola allontanò me e i miei compagni perché eravamo rumorosi. Eravamo quattordici amici, dodici sono morti, nessuno ci insegnava la legalità».

Allora è giusto togliere i bambini a queste situazioni di degrado.

«Al Parco Verde siamo 8000 abitanti, solo il 3% vive nell’illegalità da più di vent’anni. l’11% lo fa per fame, per mancanza di alternative. Il 35% di disoccupati e il 20% che delinque. Perché non si interviene offrendo lavoro? Quanto costa militarizzare un quartiere? Perché non spendere gli stessi soldi per dare occupazione e aprire scuole in grado di preparare i giovani al lavoro?».

Perché secondo lei?

«Perché non conviene, perché il sistema legalità ha bisogno del sistema illegalità. La mia detenzione costa cara al contribuente e garantisce più poliziotti, più divise, più commissioni, più armi e c’è di più».

Che cosa?

«Le guerre dei clan si fanno per la droga. Ma la droga, quella che rende, eroina e cocaina, non si produce a Napoli. Arriva dall’America del Nord e del Sud. Quante dogane farà? Al minimo tre. Possibile che non si riesca a fermare prima che sbarchi? Perché non controllano le frontiere? Invece no, non conviene. Tanto a Napoli ci si arrangia da cinquecento anni. Altro che strappare i bambini alle famiglie difficili, incentiviamole invece a non delinquere con il lavoro. Togliere la potestà genitoriale equivale a dare il colpo finale, così perdono tutto, sono condannati a vita».

Lei con la sua associazione che cosa fa?

«L’associazione nasce nel 2008, io ero uscito dal carcere da poco e vedevo i bambini fare le stesse cose che facevo io alla loro età. Da noi a 4 anni ne dimostri 7. A 7, 14. Non hai giochi, non hai nulla per esercitare il tuo diritto all’infanzia. Abbiamo creato un centro sportivo che mancava da 30 anni, in posti strappati alle piazze di spaccio, abbiamo formato dei laboratori culinari per entrare nel mondo del lavoro. Ci siamo costituiti cooperativa sociale per la manutenzione del verde e siamo impegnati in un protocollo di risanamento nella Terra dei fuochi».

Aiuti alle famiglie e poi?

«Soprattutto una scuola che sappia essere accogliente anche con chi ha problemi».

Togliere i figli ai mafiosi? Cose da Stato totalitario. Massimo Fini Il fatto Quotidiano, 22 marzo 2014. Michele Emiliano, sindaco di Bari, ha proposto di sottrarre ai genitori mafiosi i loro figli «perchè i mafiosi non possono essere custodi di valori positivi». Credo che neanche Pol Pot sia arrivato a tanto. Questo è lo Stato etico, contro cui i liberali si sono sempre battuti e che gli pseudoliberali di oggi tentano ad ogni momento di reintrodurre, che vuole imporre con la forza i propri valori a cittadini non più tali, ma diventati sudditi. E' lo Stato fascista, nazista, sovietico, cambogiano. Un concetto come quello espresso dal sindaco di Bari, sia pur con le migliori intenzioni (ma si sa che l'Inferno è lastricato di buone intenzioni), non dovrebbe esistere in una liberaldemocrazia. Premetto che se c'è un mondo che mi fa orrore è quello mafioso. Non perchè è criminale -di criminali in giro ce ne sono a carrettate- ma perchè fa moralmente schifo. Il mafioso mette nell'acido il bambino sequestrato e poi la sera si commuove ascoltando 'My way' di Frank Sinatra. Bisogna essere almeno all'altezza delle proprie cattive azioni. Preferisco i nazisti. Sono più coerenti nella loro crudeltà. La proposta del sindaco di Bari è pericolosa perchè, come ogni volta che si sfonda un principio, si sa dove si comincia ma non dove si va a finire. Si comincia con i figli dei mafiosi, si continua con i figli di soggetti considerati 'viziosi' (cocainomani, alcolisti, ludo dipendenti, eccetera) e si finisce col sottrarre i figli «alle famiglie povere che hanno problemi educativi» come si esprime lo stesso Emiliano (cosa che peraltro è già successa come se la povera gente fosse più incapace di educare i propri figli delle madri delle 'parioline' che spingevano le loro 'bambine' a prostituirsi). La mafia si combatte innanzitutto con la repressione. L'unico a provarci seriamente fu il fascismo che, col prefetto Mori, la sbaraccò. Perchè un regime forte non tollera al proprio interno altri poteri forti (è lo stesso motivo per cui Saddam Hussein non ne voleva sapere di avere Bin Laden fra i piedi). Purtroppo pur di sconfiggere il fascismo gli americani si servirono della mafia siciliana che, in un paio di giorni, gli aprì l'isola come una scatola di sardine. E queste cose si pagano. Da allora la debole democrazia italiana ha dovuto avere rapporti con la mafia. Non solo Andreotti, contro cui si accanisce Marco Travaglio, ma proprio tutti i politici compreso l'integerrimo La Malfa (quello vero, Ugo) attraverso il suo uomo in Sicilia, Gunnella. L'altro modo per combattere la mafia è culturale. Ma qui sta il punto. La mafia di oggi ci fa particolarmente orrore perchè ammazza bambini e donne e ha perso anche i suoi antichi codici. Ma la malavita, si tratti di mafia, di camorra, di criminalità finanziaria, non è che il riflesso malato della società civile. E una società senza dignità e senza onore, qual'è, in tutti i settori, la nostra, non può che produrre una malavita senza dignità e senza onore. Il sindaco Michele Emiliano ritorni in sè. O saremo costretti, poichè parla di genitori «incapaci di essere custodi di valori positivi per i figli», a sottrarre a Silvio Berlusconi la partia potestà su Pier Silvio, Marina, Barbara e il famoso nipotino, lasciandogli solo Dudù (ma anche i cani possono essere influenzati dalle cattive compagnie). Massimo Fini Il fatto Quotidiano, 22 marzo 2014.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La mafia in Parlamento. Il caporalato col portaborse.

La mafia in Parlamento. Forse per questo stanno tutti zitti (tranne Fdi). Francesco Storace lunedì 11 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Una settimana fa scoprivamo la mafia in Parlamento. C’era entrata grazie ad un contratto da 50 (cinquanta…) euro al mese sottoscritto dall’onorevole Giuseppina Occhionero con un assistente parlamentare di nome Antonello Nicosia (nella foto). Costui sta in carcere per associazione mafiosa, lei sta (ancora) alla Camera. Ma nessuno (tranne Fratelli d’Italia), le chiede di andarsene al più presto da Montecitorio. Peggio: nessuno, ad eccezione del partito di Giorgia Meloni, le chiede conto di quel che emerge dalle carte della magistratura. No, non è (ancora) indagata. Ma la assoluta inadeguatezza dell’onorevole – ricordate quel “ci faccia il piacere” di Toto’? – non sembra meritare censura dai suoi colleghi. Sulla mafia Renzi e Fico stanno in silenzio. Tace il partito di elezione, Leu. Silenzio tombale dal partito di (recente) reclutamento, Italia Viva. Matteo Renzi – al pari della Boschi fuggita da una richiesta di intervista del Secolo – non pronuncia una sillaba su un caso che probabilmente lo imbarazza non poco. Cambia canale Nicola Zingaretti le rare volte che vede la Occhionero in televisione. È stupefacente e un po’ vigliacco l’atteggiamento  dei Cinquestelle. Di Maio fa finta di nulla ed è vergognoso. Si sono nascosti tutti.

Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2019. Uno scandalo italiano, in diretta a Fuori dal Coro su Rete 4. "Ho attraversato 3 legislature": a parlare è una ex portaborse del Parlamento che rivela il lato oscuro degli onorevoli. Contratti di facciata, pagamenti in nero, collaboratrici e collaboratori fatti passare direttamente come colf per frodare il Fisco e aggirare le leggi dello Stato. Un cortocircuito, dato che tutto questo succede tra Camera e Senato, nei Palazzi che dovrebbero garantire il rispetto delle regole e l'onore, appunto, della Repubblica. La testimonianza fornita a viso scoperto da una ex collaboratrice di vari onorevoli a Fuori dal coro è sconcertante: "Se penso a tutto quello che ho dovuto fare... Mi hanno chiesto di passare lo straccio in casa loro o di mandare sms alle loro amanti". Il conduttore Mario Giordano assiste sbigottito in studio: anche questo, purtroppo, è il Parlamento italiano.

Caso Nicosia e Antimafia: Giuseppina Occhionero parla ma chiede il segreto. Le Iene il 20 novembre 2019. Con Ismaele La Vardera vi abbiamo raccontato il caso dell’assistente parlamentare della deputata di Italia Viva Occhionero, Antonello Nicosia, che avrebbe usato il suo ruolo per fare da postino ai mafiosi all’ergastolo. La deputata, ascoltata in Commissione Antimafia, chiede adesso che la sua udienza non venga resa pubblica. La deputata Giuseppina Occhionero, ascoltata in commissione Antimafia sul ruolo del suo ex assistente parlamentare Antonello Nicosia, ha chiesto di secretare il suo intervento. "Se sono qui è perché da parte mia c'è la massima disponibilità a collaborare con voi. Essendoci però delle indagini preliminari in corso, credo che capiate la mia esigenza di voler secretare l'intera audizione affinché possa parlare liberamente di tutto ciò che so e rispondere alle vostre domande". Questa la richiesta della deputata, di cui ci ha parlato Ismaele La Vardera nel servizio che potete rivedere qui sopra. Antonello Nicosia, ex assistente parlamentare della deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero, avrebbe utilizzato il ruolo per entrare in carcere e fare da “postino” ai mafiosi all’ergastolo, favorendo alcuni boss vicini al capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Nicosia, che si è scoperto essere stato anche condannato in via definitiva a 10 anni per traffico di stupefacenti, invece di aiutare il boss Accursio Dimino nel reinserimento nel mondo del lavoro, avrebbe progettato con lui estorsioni, danneggiamenti e l’omicidio di un imprenditore di Sciacca. Si è poi scoperto anche un altro dettaglio inquietante del rapporto di lavoro tra Antonello Nicosia e la deputata Occhionero: l’uomo avrebbe percepito uno “stipendio” ufficiale di appena 50 euro al mese, a fronte di una quota di 3mila euro stanziata proprio per pagare i portaborse. Uno scandalo nello scandalo, che rilancia il dibattito sullo sfruttamento di questi collaboratori da parte dei nostri parlamentari (di cui abbiamo parlato anche nel servizio di Filippo Roma, che trovate cliccando qui). Solo qualche giorno fa abbiamo pubblicato in questo articolo i dati sconfortanti raccolti dal giornalista di Repubblica Sergio Rizzo: nel 2018 al Senato risultavano attivi appena 44 contratti co.co.co, 43 consulenze con partita iva e 11 “prestazioni occasionali”, a fronte di un numero di senatori pari a 315. Gli altri assistenti parlamentari, dunque, sono tutti completamente in nero?

Assistenti parlamentari in nero: ecco i numeri della vergogna. Le Iene il il 18 novembre 2019. Sergio Rizzo, citando il caso del portaborse della deputata Occhionero, racconta i numeri dello sfruttamento in parlamento ai danni dei collaboratori, spesso pagati in nero e un decimo della cifra stanziata per loro. E poi c’è chi, come Federica Brocchetti di cui vi aveva parlato due anni fa Filippo Roma, lavorava addirittura gratis. Senza contratti e con retribuzioni in nero, quando hanno la fortuna di essere pagati. È durissima la vita dei portaborse dei parlamentari italiani, come vi abbiamo già raccontato nel 2017 con la storia di Federica Brocchetti. È Sergio Rizzo, in un articolo su Repubblica, a dare le dimensioni del fenomeno, riportando i numeri imbarazzanti del lavoro dei collaboratori al servizio dei nostri deputati e senatori. La teoria vuole che a ogni parlamentare siano attribuiti tra i 3600 e i 4100 euro al mese da destinare allo stipendio dei propri portaborse, che dovrebbero essere assunti con un contratto regolare. Ma quando dalla teoria passiamo alla pratica emerge una realtà completamente diversa: nel 2018 al senato risultavano attivi appena 44 contratti co.co.co, 43 consulenze con partita iva e 11 “prestazioni occasionali”. Ma i senatori non erano 315? Ciò che significa questo dato è presto detto: centinaia di migliaia di euro, assegnati per i portaborse, rimangono nella contabilità dei parlamentari, e possono così “scomparire” nelle pieghe dei compensi da non rendicontare. Cioè in nero. E dire che la politica aveva anche provato a fare due conti: il taglio dei vitalizi ai parlamentari avrebbe consentito un risparmio di 44 milioni di euro, e se anche solo il 20% di questa cifra fosse stata destinata ai contratti dei portaborse, lo sfruttamento sarebbe di colpo terminato. È l’ennesima vicenda tutta italiana , perché in Europa la storia è molto diversa. Il parlamento europeo infatti destina oltre 21mila euro per ogni collaboratore, che viene contrattualizzato (e dunque controllato) direttamente dall’amministrazione centrale. Basta davvero poco, se c’è la volontà di farlo. Ma il treno dell’Italia viaggia completamente su un altro binario, e il caso di Federica Brocchetti lo dimostra. Per un anno e mezzo ha lavorato in nero come assistente parlamentare dell’onorevole Caruso, addirittura senza percepire nessuna pagamento. Al posto suo invece, come assistente, risultava il figlio di un sottosegretario, che però non veniva mai in ufficio. Dopo avervi raccontato, nel 2017, che su 683 collaboratori parlamentari al lavoro, appena 54 avevano un contratto, ecco che il problema è tornato agli onori della cronaca. Ce l’ha raccontato Ismaele La Vardera, parlando della vicenda di Antonello Nicosia, ex assistente parlamentare della deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero (nel servizio che potete rivedere sopra). Per gli inquirenti Nicosia avrebbe utilizzato il ruolo da assistente parlamentare per entrare in carcere e fare da “postino” ai mafiosi all’ergastolo, favorendo alcuni boss vicini al capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Quello che è emerso poi, al di là della delicata vicenda processuale, è che Nicosia veniva retribuito dalla deputata con uno “stipendio” mensile di 50 euro! Avete capito bene, 50 euro a fronte di una quota stanziata per lui di oltre 3000 euro. Sergio Rizzo, che nel suo lungo articolo cita la nostra inchiesta su Nicosia, conclude raccontando un dettaglio che se non fosse scandaloso parrebbe anche comico: la camera ha appena bandito un concorso per assumere 30 nuovi consiglieri parlamentari. Ma se prima dessimo dignità agli assistenti che già esistono?

La renziana fa caporalato col portaborse. Lo pagava appena cinquanta euro al mese. Occhionero svela ai pm lo stipendio del collaboratore indagato per mafia. Fabrizio Boschi, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale.  Lo scandalo di Antonello Nicosia, l'assistente parlamentare della deputata Giuseppina Occhionero, eletta con Liberi e Uguali e passata con l'Italia Viva di Matteo Renzi, che usava, secondo gli inquirenti, a suo piacimento il tesserino da collaboratore per fare da tramite tra i mafiosi in cella e quelli fuori, grazie alla possibilità di poter accedere alle carceri, ha riportato alla luce una vecchia vergogna: quella dei cosiddetti «portaborse». Il loro nome corretto sarebbe collaboratori o assistenti parlamentari, ma in Italia sono da sempre meglio conosciuti con il termine di portaborse, figura che ha anche ispirato un film di Daniele Luchetti. Una volta in più emergono i retroscena ripugnanti della nostra classe politica che non finisce mai di stupirci, in negativo. Occhionero ha raccontato ai magistrati che il contratto da lei stipulato con il suo ex collaboratore prevedeva una retribuzione di, udite, udite, 50 euro al mese. Sufficiente però per ottenere il tesserino da assistente parlamentare che, a parte consentirgli di circolare liberamente in Transatlantico e in tutti gli uffici del Parlamento, di usufruire delle mense con pasti a prezzi ridicoli, anche di entrare nelle carceri di massima sicurezza per tenere rapporti, dicono le intercettazioni, con i boss mafiosi detenuti al 41 bis. Sergio Rizzo su Repubblica (ri)spiega che in Italia i contratti vengono gestiti personalmente da deputati e senatori, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi dove sono le amministrazioni a fare i contratti e a pagare gli stipendi. Le amministrazioni di Montecitorio e Palazzo Madama, invece, sono sollevate da ogni responsabilità contrattuale, come pure da ogni controllo. Un'inchiesta de Le Iene del 2007 scoprì che su 683 collaboratori parlamentari appena 54 avevano un regolare contratto. Ma dopo 12 anni nulla è cambiato. Per farti dare il tesserino alla Camera è sufficiente che il deputato fornisca il tuo nome agli uffici, senza specificare contratti o somme. Al Senato, invece, è stato fissato recentemente un limite minimo di 375 euro al mese. Lordi ovviamente. I pochissimi portaborse fortunati, in mano a parlamentari onesti, che hanno un regolare contratto di lavoro, guadagnano circa 1.200 euro al mese, mentre per tutti gli altri la media va dai 500 agli 800 euro, la maggior parte in nero. Poi ci sono quelli a gratis, che gli onorevoli chiamano i «volontari». Un vero e proprio caporalato nel luogo dove si fanno le leggi. Scandaloso. Eppure ogni deputato riceve una somma che dovrebbe servire proprio per pagare i portaborse: 3.690 euro al mese. E ogni senatore 4.180. Ben 22mila e 25mila euro all'anno esentasse per un totale di 8 milioni al Senato e 14 alla Camera che finiscono, nella maggior parte dei casi, nelle tasche dei parlamentari (o dei loro partiti). Come quello che anni fa licenziò il proprio collaboratore perché disse che con quella somma doveva pagarci il mutuo di casa. Vabbè, siamo in Italia dai.

Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 18 novembre 2019. C'è un buco nero, da sempre, nel Parlamento italiano. Una falla che nessuno, finora, ha però voluto colmare. Ma dopo il caso clamoroso di Antonello Nicosia, l'assistente parlamentare che entrava in carcere con il tesserino della Camera per tenere rapporti, dicono le intercettazioni, con i boss mafiosi detenuti al 41 bis, questa storia rischia di deflagrare già nei prossimi giorni al Senato durante la discussione sul bilancio interno. Dove si prepara una battaglia a colpi di ordini del giorno. La deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero ha raccontato ai magistrati che le chiedevano chiarimenti, secondo quanto riferisce il giornale online agrigentino Grandangolo, che il regolare contratto da lei stipulato con l' ormai ex collaboratore Nicosia prevedeva una retribuzione di 50 euro al mese. Per quanto possa sembrare incredibile, cinquanta euro sono dunque sufficienti per avere un tesserino che consente che di circolare liberamente negli uffici del parlamento e magari fare una capatina nelle carceri di massima sicurezza. Senza alcun controllo. Possibile? Proprio così. Gli incarichi ai collaboratori sono strettamente fiduciari, com' è giusto che sia. Ma in Italia i contratti sono gestiti personalmente dai deputati e dai senatori, contrariamente a quanto avviene altrove. A Strasburgo, per esempio, gli europarlamentari nominano all' inizio del mandato i propri collaboratori ma è poi l' amministrazione che fa i contratti e paga gli stipendi. Con tutte le garanzie del caso, ovvio. Da noi, invece, deputati e senatori provvedono direttamente anche a retribuire gli assistenti, ma senza alcun obbligo particolare. E le amministrazioni di Montecitorio e Palazzo Madama sono sollevate da qualunque tipo di responsabilità contrattuale come pure da ogni controllo. Per avere il tesserino alla Camera è sufficiente depositare un contratto almeno annuale: di qualunque importo, come sta a dimostrare il caso Nicosia. Al Senato invece è stato fissato per regolamento un limite minimo di 375 euro al mese. Lordi, s' intende. Ed è chiaro che in condizioni del genere si possono produrre situazioni di ogni tipo. La storia è vecchia. Nel 2007 le Iene scoprirono che su 683 collaboratori parlamentari appena 54 avevano un regolare contratto. Ma da allora è cambiato poco o nulla. Basta dire che alla fine della legislatura spirata nel 2018 si contavano soltanto al Senato, oltre a 44 contratti co.co.co. (una formula abolita ormai da anni), 43 consulenze con partita Iva e 11 non meglio precisate "prestazioni occasionali". Mentre a una domanda di Report a proposito del numero dei collaboratori ufficialmente registrati alla Camera il presidente Roberto Fico ha risposto qualche mese fa: «Circa 400». Solo quattrocento per 630 deputati? Certo, c' è anche un partito, la Lega di Matteo Salvini, i cui parlamentari fanno addirittura a meno di collaboratori personali. Ma di tutto questo non ne può non risentire la stessa attività del Parlamento. Un deputato che non ha uno staff adeguato non farà bene il proprio lavoro. Per questa ragione il parlamento britannico stanzia per i collaboratori di ogni eletto l' equivalente di 14 mila euro e quello tedesco 15.798. L' Europarlamento addirittura 21.209: da cinque a sei volte le somme assegnate ai nostri deputati e senatori. Però la verità è che questo nostro sistema apparentemente meno dispendioso, libera un sacco di risorse soprattutto per i partiti sempre più poveri. E proprio a scapito della qualità del lavoro parlamentare, evidentemente sempre meno importante. Per pagare i collaboratori ogni deputato può contare su 3.690 euro al mese, che salgono a 4.180 per i senatori. Ma solo metà della somma va rendicontata. Ne consegue che ogni deputato e senatore dispone rispettivamente di 22 mila e 25 mila euro l' anno esentasse, di cui non deve giustificare l'utilizzo, magari pronti per essere girati al partito: beneficiando in più di una detrazione del 26 per cento. Non sono pochi soldi. Parliamo di 8 milioni al Senato e 14 alla Camera pronti a evaporare. Ecco spiegato perché nessuno ha mai voluto mettere mano a uno stato di cose semplicemente scandaloso per il parlamento, che dovrebbe essere il tempio della legalità. «Oggi esistiamo solo come tesserini da autorizzare, non abbiamo statuto professionale, né una voce di bilancio autonoma. Ma neppure un codice di condotta, ed è inaccettabile », denuncia José De Falco, il presidente dell' associazione dei collaboratori. Ma nessun effetto hanno avuto, finora, i propositi di Fico espressi in diversi incontri proprio con i rappresentanti di quell' associazione. Né le pressioni di alcuni parlamentari, come Riccardo Magi di +Europa, che si è visto bocciare ripetutamente, l' ultima volta pochi giorni fa, gli ordini del giorno presentati per approdare a una situazione più civile. I costi sono la scusa dietro a cui il palazzo si è sempre nascosto. Nel 2018 il collegio dei questori aveva calcolato che la Camera avrebbe dovuto sopportare un costo fra 6 e 8 milioni l' anno se avesse avuto l' incombenza di gestire direttamente, ma sempre con quei denari oggi assegnati ai parlamentari, contratti regolari con retribuzioni fino a 1.500 euro netti al mese. Troppo, era stata la conclusione. Troppo, per un bilancio di 943 milioni l' anno e 450 milioni spesi fra stipendi e pensioni del personale. Troppo. Eppure il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari avrebbe fatto risparmiare (Fico dixit) 44 milioni l' anno: se è così, meno del 20 per cento di quella somma basterebbe per mettere in regola qualche centinaio di ragazzi e tenere il parlamento al riparo da altri casi come quello di Nicosia. E non si può fare a meno di notare che mentre c' è chi annaspa nel precariato, la Camera dove si è appena deciso di ridurre da 630 a 400 i deputati ha deciso di bandire un concorso per assumere 30 nuovi consiglieri parlamentari.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 20 novembre 2019. Un portaborse da 50 euro al mese. Ha qualcosa di molto inquietante la vicenda di Antonello Nicosia, l' assistente parlamentare che per quella cifra (un caffè al giorno senza brioche) aveva ottenuto il badge per entrare alla Camera dei deputati e accompagnava la sua datrice di lavoro, la parlamentare molisana Giuseppina Occhionero (Italia viva), in visita nelle carceri di tutta Italia. Non senza conseguenze, almeno a stare a leggere le intercettazioni dei pm di Palermo, che il 4 novembre scorso hanno arrestato Nicosia per associazione mafiosa accusandolo di intrattenere rapporti, durante queste ispezioni, con i boss detenuti al 41 bis. Riguardo a quei 50 euro al mese non è meno allarmante la posizione di chi glieli ha dati per quattro mesi, vale a dire la deputata renziana, che non è indagata, ma oggi dovrà rispondere alle domande della commissione Antimafia, convocata per un' audizione al termine dell' assemblea plenaria con lo scopo di fare chiarezza sul suo rapporto con Nicosia, sulla sua leggerezza nel soppesarne il curriculum - era stato condannato a dieci anni per traffico di stupefacenti -, sulle iniziative intraprese in sede parlamentare per verificare se siano state in qualche modo ispirate dal collaboratore. Questo perché la Occhionero nei mesi scorsi è stata puntuale e rigorosa nel presentare interrogazioni sulle condizioni della vita carceraria facendo riferimento anche alla prigione di Trapani, luogo chiave di tutta l' inchiesta. Infatti, secondo i magistrati, proprio lì Nicosia avrebbe avuto contatti con i mafiosi detenuti. «Consulente giuridico psicopedagogico», sta scritto nel curriculum di Nicosia. E secondo quanto la Occhionero avrebbe detto ai magistrati (riportato dal quotidiano online di Agrigento, Grandangolo), lo retribuiva 50 euro al mese da contratto nonostante esercitasse quel delicatissimo ruolo di supporto. Ma non è solo questo; lui dirige l' Osservatorio internazionale dei diritti umani onlus, è componente del comitato nazionale dei Radicali italiani e nel periodo di collaborazione con la parlamentare annunciava ispezioni nelle carceri italiane. Di fronte a una realtà così professionalmente debordante e a un compenso così irrisorio, la posizione della Occhionero si fa delicata soprattutto dal punto di vista politico. Le risposte che darà oggi a Palazzo San Macuto davanti al presidente Nicola Morra (Movimento 5 stelle) e all' Antimafia, convocata su richiesta di Fratelli d'Italia, avranno sicura rilevanza nel definire il perimetro istituzionale del suo comportamento. In ossequio alla trasparenza, l' audizione sarà trasmessa sulla webtv della Camera. Finora la parlamentare molisana ha mostrato sorpresa, si è dichiarata estranea all' intera faccenda, ha preso le distanze da Nicosia, ha dato di sé l' immagine della vittima un po' sbadata. In sintesi ha accreditato la classica tesi secondo cui il portaborse si muoveva in carcere (fili, trame, pizzini) a sua insaputa. Ma oggi quei 50 euro di paga rendono ancora più sorprendente lo scandalo e ancora più nebulosa la sua veste. Le domande che circondano questa storia sono numerose. Perché Occhionero aveva ritenuto così marginale il ruolo del suo collaboratore da attribuirgli un simile compenso? Perché, al contrario, Nicosia aveva una funzione strategica nel delicato lavoro di supporto al tema carcerario per così poco? Perché lei visitava le carceri sempre con lui al fianco? Dopo un' interrogazione parlamentare della deputata (ex Leu passata a Italia viva) sulle condizioni del carcere di Agrigento, quell' assistente dal compenso insignificante aveva il potere di commentare: «Il ministro ha risposto con estrema superficialità». Neanche fosse il portavoce ufficiale. E allora che ruolo aveva? Lei non ha mai intuito nulla? Se sì, perché non l' ha mai denunciato? Ieri La Repubblica, prendendo spunto dal caso, ha scoperchiato la botola del grigio sottobosco degli assistenti parlamentari, collaboratori fiduciari gestiti direttamente dagli onorevoli, al contrario di ciò che avviene per esempio in Europa dove è l' amministrazione a censirli, retribuirli e quindi verificarne in teoria la rettitudine. Ma qui il problema non è regolamentare e neppure sindacale. Qui c' è un portaborse arrestato per mafia e, paradossalmente, ci sono 50 euro di troppo al mese. In questi casi gli incarichi di supporto o sono gratuiti (se animati da amicizia o stima reciproca che vanno oltre un mero contratto) oppure recano un giusto tornaconto economico all' incaricato di turno in cambio di competenza e professionalità. Se l' incaricato è contento di essere pagato con un caffè al giorno, può essere che il vero compenso non sia quello.

·         Lo strano caso dei braccianti.

Lo strano caso dei braccianti. Gli extracomunitari che lavorano nell'agricoltura sono in forte aumento; ma non mancano assunzioni fasulle e truffe gestite dalla criminalità. Fabio Amendolara il 17 ottobre 2019 su Panorama. ai così tanti immigrati nei campi». Il tema lo ha lanciato l’associazione di categoria dell’agricoltura Coldiretti. E lo ha certificato il ministero del Lavoro, con i propri dati, contenuti nel consueto rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro italiano. Si calcola che nell’ultimo anno i braccianti agricoli dipendenti extracomunitari siano stati 195.434, pari al 18,2 per cento del totale. Ci sono regioni, come la Liguria in cui le percentuali superano il 40. Ma anche in Lazio e Umbria il numero di lavoratori immigrati nei campi supera un terzo del totale. E, ovviamente, al trend positivo dei contratti corrisponde il trend del welfare: la disoccupazione agricola, che viene corrisposta per un numero di giornate pari a quelle lavorate. Esempio: se il contratto certifica che si è lavorato per cento giorni, il bracciante ha diritto a cento giorni di disoccupazione. Ma c’è un limite massimo: 365 giornate. Per un anno di contratto c’è un anno di assistenza statale. All’impennata delle assunzioni corrisponde, però, anche un altro dato: sono aumentati i furbetti. Con un contratto da bracciante si riesce a ottenere il permesso di soggiorno e, per questo motivo, in molti sono anche disposti a pagare. Tanto, poi, con l’indennità di disoccupazione si recupera qualche migliaio di euro. Per gli stranieri, quindi, è un investimento. E in svariati casi nei campi non ci mettono neanche piede, come dimostrano le inchieste giudiziarie che, qua e là per l’Italia, la Guardia di finanza da tempo mette a segno con risultati impressionanti. Nella mappa dei lavoratori extracomunitari disegnata dalla Direzione generale per le politiche d’integrazione il Nord Est assorbe la fetta maggiore di contratti: il 27,4 per cento. Il Sud si attesta sul 24,6 per cento e nel Centro c’è un 21,1 per cento di lavoratori immigrati. La retribuzione media annua nel 2018 dei lavoratori extracomunitari è di 7.110 euro. Ciò significa che, in base alle regole del welfare, dal momento del licenziamento l’immigrato che, sulla carta, risulta aver incassato 7.110 euro nell’anno precedente, riceverà il 40 per cento di quell’importo, ossia, calcolatrice alla mano, 2.844 euro. All’incirca, nella maggior parte dei casi, il costo pagato ai criminali dell’assistenza che aiutano gli immigrati a ricevere il permesso di soggiorno. Se si va di poco indietro nel tempo e si osservano i dati del triennio 2016-2018, si registra un aumento del numero degli operai agricoli dipendenti extracomunitari pari al 13,8 per cento, mentre il corrispondente dato sul totale è aumentato appena dell’3,8. Quindi crescono in modo esponenziale solo i contratti per gli extracomunitari. E, così, ultimo dato disponibile, per l’anno 2017 gli stranieri beneficiari di disoccupazione agricola sono stati 85.835, pari al 15,8 per cento del totale. La percentuale di crescita degli assegni di disoccupazione, coincidenza inquietante, corrisponde quasi alla percentuale di aumento dei contratti. Agli investigatori della finanza sono bastate poche verifiche per scoprire che a Brindisi, per esempio, molte attestazioni d’impiego di lavoratori dipendenti in realtà erano false. I militari, alla fine, hanno accertato circa 150 casi e sono scattate le denunce. Ragusa, invece, è l’epicentro siciliano. A luglio dalla Finanza di Pozzallo è partita un’operazione di polizia giudiziaria per un’ingente truffa all’Inps e per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Nell’«Operazione Mercurio», a Ispica,  si è scoperto che il titolare di una ditta nel settore della vendita all’ingrosso di ortofrutta aveva messo a punto un meccanismo grazie a cui venivano ingaggiava fittiziamente centinaia di braccianti. C’erano così i presupposti per far ottenere agli assunti la disoccupazione, assegni familiari e altre indennità previste dal welfare. I contratti erano inoltre un titolo per vedersi riconosciuto o rinnovare il permesso di soggiorno, o per poter accedere ai ricongiungimenti familiari. Ovvio che l’operazione aveva un prezzo che gli stranieri erano costretti a pagare. L’imprenditore non risultava né proprietario né locatario di fondi agricoli: aveva creato una ditta che, per la Camera di commercio, era attiva «nel settore della raccolta del frutto pendente» (si tratta di aziende che non hanno terreni, ma forniscono il servizio di raccolta a chi invece li possiede). Con questo escamotage si era assicurato tutti i vantaggi contributivi riservati ai produttori agricoli. In azienda gli investigatori hanno scoperto che i contratti erano fasulli e nella contabilità del lavoro nei campi figuravano fatture di operazioni inesistenti per 400 mila euro. Addirittura c’erano stranieri che risultavano assunti e al lavoro nei campi mentre, hanno accertato i finanzieri, si trovavano all’estero. In alcuni casi avevano già ottenuto l’indennità di disoccupazione e stavano contemporaneamente lavorando in nero in altri Paesi: tornavano in Italia solo il tempo necessario a incassare l’assegno dell’ente previdenziale. Per le Fiamme gialle è stato  sorprendente trovare un extracomunitario agli arresti domiciliari mentre risultava a raccogliere ortaggi nelle campagne. Gli indagati sono 113. Qualche giorno dopo è partita un’altra operazione, stavolta a Ragusa. Analizzando i dati, i finanzieri si erano accorti di un’evidente sproporzione tra le giornate di lavoro che gli imprenditori segnalavano ogni mese all’Inps e quelle risultanti dalle statistiche regionali. È quindi emerso che, grazie a un consulente del lavoro compiacente, a fronte di 2 mila giornate richieste per le operazioni alle colture, era stata dichiarata all’istituto previdenziale l’assunzione di circa 400 operai a tempo determinato. E il totale delle giornate di lavoro denunciate, per tutto sommato pochi ettari di terra, è risultato strabiliante: 16.852 giornate. A Locri, in Calabria, ad aprile, l’Ufficio di vigilanza ispettiva dell’Inps e i finanzieri del Gruppo Locri hanno scoperto ben 31 aziende agricole che falsificavano contratti a braccianti stranieri e non. Almeno un migliaio di casi. Il danno all’erario è stato stimato in 5 milioni di euro. E ancora: lo scorso marzo sono stati i carabineri di Salerno a scoprire un’altra cricca che sfruttava i braccianti e truffava l’Inps nella piana del Sele, zona di raccolta di ortaggi e pomodori. I carabinieri hanno definito lo sfruttamento dei lavoratori agricoli stranieri solo «l’ultimo anello si una catena di reati di grave allarme sociale». Il gruppo praticava una «sistematica violazione del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, nonché condotte di riduzione in schiavitù, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro». In quest’occasione è stata decisiva la documentazione per il rilascio di permessi di soggiorno stagionali per motivi di lavoro, nell’ambito del Decreto flussi dalla Presidenza del consiglio. Ogni migrante, in cambio dell’assunzione, era disposto a versare all’organizzazione somme variabili fra i 5 mila e i 12 mila euro. Una piccola parte tornava loro con l’assegno dell’Inps. Per gli ideatori della truffa, invece, un affare da 6 milioni di euro. 

Caporalato al Nord, cambia il padrone ma gli schiavi sono sempre gli stessi. Sfruttamento, condizioni da miseria, ricatti; dove i braccianti sopravvivono a stipendi da fame stipati come bestie da soma in una ex caserma del Comune. Viaggio tra i migranti di Saluzzo. Lorem Ipsum, Lorem Ipsum è un collettivo di giovani giornalisti, il 18 ottobre 2019 su L'Espresso. Il peccato originale è una mela. Rotolata fin qui dall’Australia, o forse lasciata scivolare da un dio dispettoso per ingarbugliare le stagioni. È ancora estate, nonostante il mese, i colori delle foglie gialle e arancioni, nonostante il vento tagliente, la pioggia, il ghiaccio, la neve. È ancora estate: è tempo di raccolta. Un eterno agosto che aggiunge un'altra tappa a questo Giro d’Italia, e nuove maglie, gialle e arancioni: sono il nuovo rosa. Saluzzo, provincia di Cuneo, anno 2019, stagione chissà. Se la mela che vi guarda dalla tavola è di origine italiana, potrebbe venire da qui. Siamo in Piemonte, uno dei più grandi punti di raccolta di frutta dell’intero Paese: 12mila ettari coltivati, oltre 4500 aziende attive. Qui tutti sanno come si coglie una mela, sempre con il medesimo gesto, quello della lampadina, che nel linguaggio italiano dei gesti significa pazzia, oppure furto, o anche solitudine, se lo fai stringendo le dita. Sì, chi qui lo ripete, dall’alba al tramonto, rischia di impazzire, derubato di ogni dignità, lasciato solo, in una battaglia persa. «Partiamo tutti i giorni all’alba in bicicletta, facciamo molti chilometri prima di arrivare al nostro campo, poi stiamo lì a raccogliere fino a sera, e ritorniamo a Guantanamo», così hanno ribattezzato il centro in cui stanno stipati a centinaia. Mamadou in effetti è tutto arancione, anche i pantaloni, è fluorescente dalla testa ai piedi e qualcuno scherzando lo chiama il Pompiere. Ma per queste dritte strade che tagliano le coltivazioni sconfinate, è meglio stare attenti e rendersi il più possibile evidenti. Anche se per quanto sfrecci con la fretta del Nord, è difficile non vedere queste colonne umane di ciclisti che ogni mattina ricominciano la gara, senza vincitori. Non immigrati, ma migranti. Perché da quando sono arrivati non hanno mai smesso di pedalare, da Rosarno a Saluzzo, inseguiti da un clima bastardo. È l’esercito dei cosiddetti “braccianti”, ma muovono un sacco anche le gambe. Arrivano qui d’estate per coltivare pesche, mele, kiwi e, da qualche tempo, piccoli frutti, prevalentemente mirtilli. E ogni volta che qualcuno si inventa una nuova varietà più resistente, la stagione si allunga. Così oggi si raccoglie anche fino a novembre, quando a queste latitudini nevica. Per Coldiretti «i raccoglitori di frutta in Provincia di Cuneo sono poco meno di 10.000, tra italiani e stranieri, di cui 4.000 di origine africana». E poi aggiunge: «Il loro lavoro, di tipo stagionale, è indispensabile per il Made in Cuneo della frutta che, senza il contributo di migliaia di lavoratori stranieri, sarebbe a rischio». «Il loro lavoro di tipo stagionale» è in realtà un tour che inizia d’inverno al Sud, la tappa di Rosarno è quella delle arance e dei mandarini, poi passa nel Cuneese, d’estate, per le pesche e le mele, ma la stagione si allunga. E per qualcuno nelle Langhe c’è la vendemmia per vini che verranno venduti fino a 50 euro a bottiglia, mentre il bracciante, quando gli va bene, ne prende meno di un decimo l’ora. E si ricomincia, senza mai finire. «Che ti devo dire? La vita non è facile, ma almeno qua non mi ammazzano», ecco l’impeccabile sintesi di Max. Come il nome che si dà: se gli chiedi quello completo aspetta che sbarri gli occhi e poi ti ripete “Max”. Vent’anni, gambiano, cuffiette agli orecchi, al collo una medaglietta della sua Africa e il cappello rosso sempre in testa. Dice che non se lo toglie mai, neanche per dormire. Non se l’è tolto neanche la notte dei fuochi d’artificio per la festa patronale di San Chiaffredo, men che mai le cuffiette collegate al telefono teso a riprendere lo spettacolo pirotecnico. Come lui tutti, smartphone alla mano, sono collegati con le famiglie per mostrargli che belle feste si fanno in Italia. I saluzzesi in realtà si tengono a debita distanza da loro, ma che importa, un motivo per festeggiare lo trovano lo stesso. “Ciao Salvini!”, “Italia 1, Salvini 0”, e giù esplosioni di fuochi e risate. E immortalano quei disegni artificiali mentre con artificio nascondono quello che c’è alle spalle. Letteralmente. Si chiama PAS, ovvero Prima Accoglienza Stagionali, ovvero Guantanamo. Un campo recintato, con una caserma convertita in dormitorio per contenere l’ondata di stagionali. Ma trabocca, e appena fuori dal PAS c’è anche un campeggio di fortuna, le tende strette l’una all’altra: è il Foro Boario. «Sempre meglio qui che a Rosarno – dice Max – là per qualsiasi cosa devi chiedere il permesso alla criminalità». Dentro però sono organizzati. Due grossi specchi sono l’arredamento senza stanza di due barbieri concorrenti: la sera c’è spesso fila e tante teste da sistemare. Poi c’è il sarto per rammendare i vestiti usurati dal lavoro, il bibitaio per chi vuole concedersi il lusso di una bevanda fresca, persino uno sciamano, per chi vuole controllare se il suo futuro sta migliorando. E poi c’è Sissoko, copricapo bianco e ossa troppo rotte per stare ancora sui campi: qualsiasi cosa puoi immaginare lui può vendertela, o almeno così dice, e offre addirittura uno strano intruglio per notti focose. Ma qui di donne non ce ne sono. «Quando rientrano la sera, tutti i negozi sono chiusi. Si sono organizzati così, con un grande spirito di comunità», spiega Fabio Chiappello, educatore della cooperativa Armonia che ha in gestione la struttura. Loro sanno che le condizioni non sono adeguate, ma almeno è qualcosa. Nella caserma c’è spazio a malapena per camminare tra i 368 posti per dormire, letti a castello naturalmente. Nel piazzale c’è qualche container con dentro le docce e i bagni, pochissimi, spesso intasati, perché qui vengono per lavarsi e per i propri bisogni almeno altre 350 persone da fuori dal PAS. L’ex caserma è stata ristrutturata nel 2018 dal Comune di Saluzzo, con il contributo della Regione Piemonte. L’acqua, il gas e gli altri servizi vengono coperti dalle donazioni volontarie delle aziende e da una quota fissa, 20 euro al mese, versata da ogni migrante. Gli ospiti sono solo maschi, la maggior parte under 35 e originari dell’Africa subsahariana. Quasi tutti musulmani, si radunano nel piazzale del dormitorio, dove hanno allestito un’area per la preghiera con i tappeti rivolti alla Mecca, e ai cessi del PAS. Pregano tra i vestiti messi ad asciugare a terra, perché sui fili non c’è spazio per tutti. Eccole qua le ruote dell’economia agricola del Saluzzese, ma nessuno vuole concedergli in affitto la propria casa. E comunque, in molti non potrebbero permettersela. «Prima gli imprenditori erano obbligati per legge a trovare un tetto ai lavoratori stagionali - dice il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni - Ora che non è più così si è generato il caos: immaginate cosa significhi per una cittadina di 17mila abitanti l’arrivo di mille persone che non sanno dove andare a dormire la sera». Un’impasse che negli anni ha spinto i braccianti a occupare strutture dismesse, poi smantellate. L’area del Foro Boario, fuori dal centro, era diventata l’unico rifugio possibile per centinaia di persone. Una baraccopoli di tendoni, teli di plastica e materiali di fortuna, sprovvista di acqua e ogni altro servizio. Così è nato il PAS, da un Tavolo di lavoro tra i rappresentanti di diverse istituzioni locali, sindacati e terzo settore. Ma non è sufficiente. E ancora oggi in molti si trovano a dormire fuori, lungo il vialone del Foro Boario, nelle tende fornite da Caritas, Cgil e Cisl. «Noi ce la mettiamo tutta ma da soli non ne usciamo vivi, non possiamo stare con l’ansia che appena piove per più di un giorno la situazione degeneri», si sfoga il primo cittadino, evocando quanto successo lo scorso luglio, quando dopo due giorni di pioggia incessante, un corteo di migranti ha bloccato il traffico nelle strade del centro per rivendicare a gran voce il diritto a una sistemazione degna. C’è anche però chi preferisce dormire per strada piuttosto che in uno stanzone da condividere con altre centinaia di persone. Issa, lo chiamano Il Ciclista, ogni anno allestisce un’officina arrangiata davanti alla sua tenda: qui è il medico di un migliaio di biciclette, il mezzo fondamentale attorno a cui tutto gira, indispensabile per raggiungere i frutteti, e lui è capace di resuscitare ogni ferro vecchio. Ciascuna ruota gli ricorda la sua famiglia in Gambia, dove aveva un’officina insieme ai suoi fratelli. A Saluzzo adesso lavora nei campi il minimo per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. E proprio questo pezzo di carta è allo stesso tempo scopo e cappio al collo dei migranti: basta un giorno in meno e non hai più diritto di stare in Italia. E non contano quelli che hai effettivamente lavorato, ma solo quelli che figurano. «Magari lavori 26 giorni al mese, ma nella busta paga ne risultano 13, che fai? Ti ribelli e passi per il rompicoglioni di turno così poi nessuno ti prende più a lavorare?», cosa rispondere al Ciclista? Issa è solo uno dei tanti a denunciare il sistema del lavoro “grigio” ormai consolidato in molte aziende del Saluzzese: finti contratti che sulla carta rispettano i parametri degli accordi sindacali locali, ma nella realtà mascherano orari di lavoro molto più lunghi per retribuzioni da fame. «Lo sfruttamento avviene quando il datore di lavoro deve dichiarare il numero di giornate di lavoro svolte dal bracciante: qui non abbiamo mai visto una busta paga in cui fossero segnate tutte», racconta Virginia Sabbatini, operatrice legale del Progetto Presidio, avviato nel 2014 dalla Caritas di Saluzzo. «In media nei campi si lavora tra le nove e le dieci ore al giorno, contro un massimo di sei previsto dal contratto». Ma da Coldiretti negano che esista uno sfruttamento diffuso della manodopera e puntano il dito contro i “comportamenti pesantemente sleali lungo la filiera frutticola”, che impongono ai produttori saluzzesi “tempi di pagamento lunghissimi e prezzi in caduta libera, insufficienti persino a coprire i costi di produzione”. Da qui, secondo la maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell'agricoltura italiana, il rischio che il comparto subisca “infiltrazioni da parte di soggetti che sfruttano la drammatica situazione”, con titolari di cooperative non ben identificate che si presentano nelle aziende frutticole offrendo manodopera a basso costo. Insomma il problema, per Coldiretti, viene dall’esterno, dai “caporali che rischiano di insinuarsi nel nostro territorio”, terra invece di “imprenditori onesti”. «Nel 2010 ho partecipato alla grande rivolta dei braccianti scoppiata a Rosarno, ma ho capito che è inutile - sostiene Issa - se ti ribelli al padrone puoi vincere una causa in tribunale, ma perdi per sempre il tuo lavoro». E quando nel profondo Nord, come nel Cuneese, le prestazioni vengono regolate da un contratto, denunciare i “padroni” diventa ancora più difficile. Su tutto prevale la certezza che senza un lavoro verrebbe negata automaticamente la possibilità di soggiornare in Italia. Senza contare che il contratto lavorativo spesso non basta. Mamadou, il Pompiere, ha trent’anni e viene dal Mali, il suo piatto preferito è la pizza, Margherita. Mentre entra nella questura di Cuneo ha con sé una grande pila di fogli e un bel sorriso. Quando esce, dopo pochissimo, non parla. Seduto in auto, piega il capo in avanti e con i polpastrelli fa pressione sulla fronte. Gli occhi chiusi. Non parla. Lui non ha la forza neanche di dirlo: per la quinta volta gli è stato detto di tornare all’ambasciata del Mali a Roma per chiedere, sapendo che non l’avrà, una copia del suo passaporto. “Passaaapooortooo!”, gli ha urlato ripetutamente in faccia il funzionario di Cuneo. Come se fosse una sua dimenticanza. Niente passaporto, niente rinnovo. Non importa per quante ore al giorno ti spacchi la schiena a quattro euro l’ora. Ma nell’attesa si deve tornare a cercare di riposare per una nuova giornata di lavoro. Anche Mamadou è ospite del PAS: «Siamo in troppi lì dentro, non riusciamo a dormire». A pochi chilometri dal dormitorio, c’è anche un’altra struttura, per i più fortunati. Una casa su due piani nei pressi del cimitero, lì sono “solo” in quaranta. A gestirla c’è sempre Fabio Chiappello: “Questa struttura è destinata a chi ha un contratto più a lunga scadenza - spiega - Ma non può bastare, ogni Comune dovrebbe averne una”. Eppure, solo altre tre cittadine oltre a Saluzzo hanno aderito al progetto “Accoglienza diffusa”, che prevede la messa a disposizione dei braccianti di strutture demaniali come questa. E l’emergenza abitativa è destinata a peggiorare. I lavoratori di origine africana aumentano di anno in anno: nel 2016 erano il 30% degli stagionali, l’anno successivo il 34, nel 2018 il 43. E intanto si allunga il periodo della raccolta con mele, una varietà australiana, che maturano anche fino a dicembre. «Più migranti e più a lungo, senza alcun aiuto dalle istituzioni: è la tempesta perfetta», dice il Sindaco, parlando di una piaga che è anche la principale economia del territorio. Iniziano ad arrivare a Saluzzo da maggio e sul sellino vanno di azienda in azienda a chiedere di lavorare per la stagione. È una gara a chi arriva prima. «Il problema è che in questo territorio ci sono 7000 aziende e nessuno spirito di cooperazione: manca un sistema centrale di distribuzione della manodopera», lamenta ancora Calderoni. Ma non ci sono solo lo sfruttamento e l’emergenza abitativa. Anche qui è arrivato il caporalato, seppure in una veste più ripulita: qui si tratta di erogatori di servizi, finanche sindacali. Come nel caso di Momo, un africano che, secondo la Procura di Cuneo, veniva pagato dai suoi connazionali per ottenere un posto in alcune aziende agricole. Ma anche dagli stessi imprenditori per un servizio di mediazione che facesse tenere la bocca chiusa ai braccianti sulle condizioni contrattuali. “Era un amico, poi è finito in questa brutta storia e si è fatto sei mesi di custodia cautelare in carcere. Penso abbia pagato anche per colpe non sue”, sostiene Lele Odiardo, da anni impegnato sul territorio con il Comitato Antirazzista di Saluzzo. Dieci anni fa, lui e la sua associazione erano stati i primi a rompere il silenzio sullo sfruttamento dei migranti, oggi sono ancora ritenuti troppo radicali dai più. Anche la Caritas è attiva da tempo per contrastare il fenomeno e dal 2016 ha avviato il progetto Saluzzo Migrante: uno sportello di ascolto, supporto e contrasto allo sfruttamento lavorativo. Due anni fa la sede è stata spostata nel centro di Saluzzo, nel tentativo di tenere viva l’attenzione dei cittadini sulle problematiche dei migranti. Qui, molti di loro arrivano la mattina e con una piccola cauzione prendono in prestito una bici, per poi restituirla la sera. Alessandro Armando, responsabile del progetto, lo definisce un antenato del “bike sharing”, visto che esiste ormai da dieci anni: «All’inizio non capivamo perché le prime richieste dei lavoratori fossero una coperta e una bici - racconta - Ora sappiamo che la bicicletta è lo strumento principale per fare le due azioni che motivano le persone a venire qui: la ricerca di un lavoro e lo svolgerlo nel momento in cui lo trovano». Oltre al presidio fisso è a disposizione dei lavoratori un ambulatorio medico e un punto di assistenza legale, oltre che una doccia calda, per chi non avesse trovato posto altrove. Qui è un viavai di persone e di scarpe sporche di terra, che il mercoledì si mettono in fila per la “Boutique du Monde”, una stanza adibita a emporio che distribuisce abiti, scarpe e generi alimentari. Accanto c’è un’altra stanza, in cui è stata arrangiata una cappella interreligiosa. Ci sono i tappeti per pregare, c’è un’icona della Madonna e una del continente africano. C’è una croce con sopra scritto “misericordia” e qualcuno ci ha messo sopra una casacca arancione catarifrangente. È l’ultima e la prima tappa di questo eterno Giro d’Italia, una via Crucis da percorrere a pedalate, su e giù per lo Stivale.

·         118 & Company. Quando il volontariato diventa caporalato.

Volontari, i rimborsi spese senza scontrini: una retribuzione mascherata? Un articolo del nuovo codice del Terzo settore prevede il rimborso spese ai volontari senza giustificativi, fino a 150 euro mensili. Una semplificazione per i piccoli acquisti, o una breccia nel principio della gratuità, che presta il fianco a forme di lavoro nero mascherato? Parlano protagonisti e osservatori del non profit. Ida Cappiello su La Repubblica il 21 agosto 2017. Pagheremo i volontari? Il nuovo Codice del Terzo Settore, pubblicato il 2 agosto in Gazzetta ufficiale, introduce all’art. 17 la possibilità di rimborsare ai volontari le piccole spese - fino a 150 euro mensili - senza allegare i giustificativi, presentando un’autocertificazione sotto propria responsabilità. Una norma controversa, proposta dall’Auser, la “corazzata” del volontariato creata dai pensionati CGIL, e discussa accanitamente tra gli attori del non profit durante il lungo iter del Codice. Non piace a molti, infatti, l’idea che il volontario possa ricevere somme di denaro, sia pure piccole, senza documentazione. Si teme una breccia nel principio della gratuità.

I favorevoli: è solo una semplificazione. Niente di tutto questo, secondo il presidente dell’Auser Enzo Costa, che si è battuto personalmente per farla inserire nel decreto. “Guardiamo bene che cosa dice la norma. Dopo aver chiarito che i rimborsi forfettari sono sempre esclusi, prevede una semplificazione: per piccoli importi, fino a 10 euro al giorno e 150 al mese, il volontario può autocertificare la spesa, senza dover fotocopiare scontrini da un euro per il caffè o biglietti da due euro dell’autobus. Mi pare un fatto di puro buonsenso”. Tra l’altro, l’associazione deve stabilire in anticipo quali spese possono essere rimborsate con l’autocertificazione, e il volontario deve specificare che cosa ha acquistato, anche se non allega gli scontrini. “Quindi non si tratta di rimborsi forfettari, come tanti erroneamente li definiscono”. E se la possibilità del pranzo gratis attirasse nel volontariato persone prive di motivazione ideale? Costa risponde anche su questo. “E se anche fosse così per qualcuno? Se aiutasse a coinvolgere nell’impegno civile studenti, anziani, migranti? La persona comincia a partecipare, a uscire dal suo guscio. In Auser abbiamo fatto progetti per i giovani che prevedevano incentivi, e quando sono finiti, tantissimi sono rimasti a fare i volontari, perché la motivazione è nata strada facendo”. Chi sono i volontari italiani? Quasi sette milioni di persone, di cui quattro stanno all’interno di organizzazioni (per approfondire, potete leggere il nostro articolo del gennaio 2017). Ma la maggioranza sono adulti e anziani, con alto livello di istruzione. Dunque è  necessario coinvolgere le nuove generazioni e le persone meno impegnate nella comunità: per loro, il volontariato diventerebbe anche uno strumento di partecipazione civile e un modo per coinvolgersi.

I contrari: così si apre al lavoro nero legalizzato. Secondo i contrari alla norma del Codice, il problema vero sta nel rischio che venga  mascherato da volontariato il lavoro da parte non di associazioni che hanno una storia e un’etica, ma da sedicenti non profit che nascondono attività con fine di lucro. Non dimentichiamo che i rimborsi di cui stiamo parlando saranno quasi certamente esenti da imposta, che la fame di lavoro è spaventosa e che l’evasione fiscale in Italia è quasi una virtù. Facciamo l’ipotesi di due realtà collegate, ad esempi un’associazione e una cooperativa sociale: casi molto frequenti in Italia. “Il cosiddetto volontario lavora per tutte e due le organizzazioni, di comune accordo, magari nella stessa sede e con le stesse mansioni. Incassa 300 euro al mese di rimborsi senza giustificativi e nessuno paga le tasse. Poi aggiunge un terzo lavoretto in un’altra organizzazione. Arriviamo a 450. Quante persone oggi si butterebbero su un lavoro da 450 euro al mese, magari part time, esentasse e senza bisogno per l’organizzazione di pagare la ritenuta d’acconto? Il rischio è concreto, inutile negarlo” argomenta Carlo Mazzini, noto consulente del Terzo settore. “Non solo. C’è il rischio che i critici del non profit possano attaccarsi a questa possibilità per sostenere la tesi “tanto sono tutti uguali”. Patriarca: "Attenzione alla responsabilità". Poco convinto anche se più cauto Edoardo Patriarca, deputato PD e presidente del Centro Nazionale Volontariato. “E’ vero che tenere gli scontrini del caffè o il biglietto del tram diventa un peso, per tanti anziani ad esempio, che fanno moltissimo volontariato. Anche per l’ente, il controllo dei giustificativi è oneroso e di solito costoso, perché spetta agli impiegati contabili. Attenzione però alla responsabilità: nei decreti ricade tutta sul volontario, mentre secondo me sarebbe dovuta ricadere sulle organizzazioni. Spero che le non profit si avvalgano di questa semplificazione con misura, solo nel caso che il volontario sostenga davvero spese piccolissime e molto frequenti. Per il resto, valga il principio della gratuità”.

I neutrali: può essere utile, ma attiviamo i controlli. Molto prudente la posizione dei CSV, i Centri di servizio per il volontariato, che tra l’altro sono essi stessi oggetto di una profonda riforma all’interno dello stesso Codice. “Il tema del rimborso spese forfettario ai volontari è stato uno dei punti più dibattuti nell’iter della riforma, nonostante siano in gioco somme molto contenute” dice il presidente di CSVnet, Stefano Tabò. “Ricordiamoci, però, che la pratica dell’autocertificazione, e lo stesso rimborso spese, non sono obbligatori e, pur se previsti dalla norma, non creano alcun diritto per i volontari, essendo lasciata ogni decisione alla singola organizzazione. Detto questo, non si diffonda una visione incentrata sulla sfiducia nei confronti di chi utilizzerà il meccanismo del rimborso forfettario. Sappiamo che nei rimborsi spese lo spazio per il grigio, finanche dell’illecito, esiste da sempre, ovunque e comunque, a prescindere dall’autocertificazione. Teniamo comunque gli occhi aperti e vigileremo”. Dibattito acceso nel Foruma del Terzo Settore. Infine, il Forum del Terzo settore, la rete più rappresentativa del non profit italiano, che aggrega 81 reti di associazioni per un totale di 100mila sedi locali. All’interno del Forum il dibattito è stato acceso, ammette la portavoce, Claudia Fiaschi. “Le preoccupazioni non sono mancate, soprattutto sotto il profilo ideale, nel senso di indebolire il principio della gratuità assoluta del volontariato” dice Fiaschi. “Però si tratta in effetti di una semplificazione utile, non solo per il volontario ma anche per l’organizzazione, che attraverso l’autocertificazione riduce di molto il lavoro amministrativo, che spesso è un costo. Le truffe sono sempre possibili, ma è anche vero che il Codice del Terzo settore non si limita a semplificare procedure, ma introduce anche nuovi requisiti di trasparenza e un sistema di controlli molto più penetrante. E’ su quel fronte che bisognerà lavorare”.

Lavoro nero a bordo delle ambulanze. I volontari sulle ambulanze sono in realtà lavoratori in nero: multa da 200mila euro alla pubblica assistenza. Smascherata dalla trasmissione tv. Davide Petrizzelli su Torino Today il 30 aprile 2019. I volontari a bordo delle ambulanze erano in realtà lavoratori stipendiati in nero. È quanto ha accertato la guardia di finanza di Susa dopo un servizio della trasmissione Nemo di Rai 2 andato in onda il 4 maggio 2017 sulla pubblica assistenza Croce Bianca Valsusina di via Formazione Stellina a San Giuliano di Susa. I militari hanno inflitto al presidente dell'associazione una maxi-multa da 214mila euro ritenendo che, come mostrava il servizio televisivo, di volontariato tra i 32 soccorritori in carico vi fosse ben poco ma che si trattasse piuttosto di lavoro dipendente vero e proprio, in cui gli stipendi venivano erogati in buoni pasto e rimborsi spese (30 euro al giorno, rivelava il servizio, che per alcuni poteva significare uno stipendio di circa 700 euro mensili). "Vere e proprie attività lucrative, quelle riscontate dagli investigatori delle Fiamme Gialle, sicuramente non indirizzate al perseguimento delle finalità di carattere sociale a cui l’ente è preposto", dicono i finanzieri. Le trasgressioni contestate alle norme del settore no-profit sono numerose e si sono protratte, secondo gli investigatori, almeno dal 2013. Contestata anche l'evasione contributiva, previdenziale e assicurativa.

Caos 118: lavoratori a nero con la divisa da volontari. Iene, fatevi un giro in Puglia. Antonio Loconte l'11 Aprile 2016 su bari.ilquotidianoitaliano.com. Il servizio andato in onda ieri nella puntata delle Iene è solo la parte più evidente di un sistema che continua a proliferare soprattutto grazie alla “distrazione” degli enti pubblici. La notte scorsa abbiamo ricevuto decine e decine di messaggi con il link al pezzo della nota trasmissione di Italia Uno. Il servizio è stato girato raccogliendo le denunce di alcuni volontari appartenenti a diverse associazioni romane di volontariato che gestiscono le postazioni del 118 in convenzione con l’Ares. Per gli operatori volontari nessuna tutela: malattie, ferie, tredicesima, indennità di rischio, assegni familiari, assicurazione, a fronte di turni di lavoro massacranti, anche di 48 ore e per 25 giorni al mese. Altro che volontariato. In Puglia la situazione non è diversa, per certi versi anche peggiore. Lo abbiamo dimostrando raccontandovi, ininterrottamente per più di tre anni, ciò che succede all’interno di decine di associazioni e più in generale all’interno del sistema di emergenza urgenza (La testimonianza allegata al pezzo è del 16 gennaio 2013. È solo una degli oltre 500 articoli e video pubblicati in questo periodo). Al netto degli opinabili spot propagandistici sull’eccellenza del sistema, si continua come si è sempre fatto: ignorando. Per aver preteso risposte siamo stati minacciati di morte, denigrati, querelati, anche a livello nazionale in seguito a un nostro intervento (un focus sulla Puglia) nell’inchiesta giornalistica condotta da L’Espresso. Abbiamo raccontato che le onlus in realtà sono aziende, spesso a gestione familiare, in cui si aggirano sistematicamente le leggi e i controlli. L’aspetto più preoccupante evidenziato anche dalle Iene nel pezzo andato in onda ieri. Quado vai a interrogare chi decide e assegna, però, cadono tutti dal pero: Non so, non è possibile, siamo rigorosi, porto subito le carte alla Guardia di Finanza. Sapeste quante migliaia di carte sul tema hanno i finanzieri pugliesi. La convenzione con le associazioni di volontariato baresi, che si scannano tra loro, è stata prorogata di altri tre mesi. Non solo. È stato pubblicato anche il nuovo bando per la riassegnazione delle postazioni del 118 ai “volontari”. Stessa solfa, nessuna novità. Un irritante copia e incolla, che ha tutta l’aria di essere un insulto all’intelligenza di chi mette in gioco la propria vita ogni sacrosanto giorno. In mezzo, dal 2001 ad oggi, ci sono state un centinaio di promesse pre elettorali per l’internalizzazione del servizio, arresti e scarcerazioni, atti intimidatori, indagini della Finanza (una recentissima sull’abuso degli straordinari per alcuni operatori, mentre altri fanno la fame), processi, scivoloni istituzionali, dietrofront di ogni tipo. In tutti questi anni ai posti di comando si sono alternati assessori regionali, direttori di Asl, coordinatori del 118, dirigenti. Tante “rivoluzioni” per far rimanere tutto com’è sempre stato, perché costa meno, perché è più facile scaricare responsabilità, illudere gli operatori e rendere il sistema più permeabile. Siamo davvero sicuri che si voglia fare sul serio? Che si voglia eliminare la corruzione dalla Sanità? E il sistema di emergenza urgenza non è forse uno degli aspetti più importanti del sistema sanitario? Sì, perché come detto anche dalle Iene, di sistema si tratta. Lo sanno pure le pietre come funziona, ma fino a quando è possibile meglio tenere tutto sotto silenzio, fino alla prossima promessa. Sì, perché una riflessione nasce spontanea: se tutto questo schifo fosse stato denunciato a carico di un imprenditore privato e non a danno di un pezzo dello Stato, probabilmente le reazioni e l’accanimento sarebbero stati diversi. Fortunatamente in tutta la Puglia ci sono tanti professionisti a bordo delle ambulanze. L’unica vera eccellenza di questo sistema.

Rivoluzione 118, crolla l’impero delle associazioni-aziende pugliesi: il volontariato è morto nel 2002. Antonio Loconte su bari.ilquotidianoitaliano.com il 5 Ago 2018. La neo istituita Agenzia regionale dell’emergenza e urgenza (Areu) ha scatenato l’ennesima reazione a comando di alcune associazioni di volontariato, che in Puglia dal 2002 gestiscono le postazioni del servizio 118. Piangono certi presidenti. Dicono che il volontariato in questo modo muore, nascondendo che di gratuito nella bolgia del 118 non c’è più niente da ormai 16 anni. Sono morti e sepolti i tempi in cui dopo il lavoro ci si iscriveva per passione a questa o quella associazione, si compravano a proprie spese le divise e quando mancava la benzina per l’ambulanza i volontari, quelli veri, facevano la colletta per riempire il serbatoio. Attenzione, per ora dell’Areu si sa poco e niente a parte i proclami e le linee guida, ma una cosa è certa: le associazioni-aziende verrebbe spazzate via. In questo modo, forse, si riuscirà a capire se davvero esiste ancora il volontariato autentico. Sì, perché già il fatto che una onlus assuma 4 dipendenti, pagati grazie ai soldi passati dalla Asl, è una grossa anomalia. Certi presidenti, vecchi e nuovi, vedono franare il terreno sotto i piedi; la possibilità di ricattare nel modo peggiore ragazzi volenterosi, padri di famiglia, donne sole che hanno bisogno del pane quotidiano. Abbiamo raccontato più volte della madre di tutte le lamentele: “I soldi che passa la Asl ogni mese sono pochi per la gestione della postazione”. Facendo due conti in tasca si capisce meglio come le cose non stiano proprio in questi termini. Non entriamo nello specifico, ci vorrebbe un commercialista. Per via dei rimborsi diretti alla sola gestione dell’ambulanza, il mezzo viene interamente ammortizzato, generando anche non pochi guadagni fino alla sua “rottamazione”. Le virgolette sono d’obbligo, perché per rottamazione non ci riferiamo all’ultimo viaggio verso lo sfascia carrozze, ma all’impiego del mezzo di soccorso usato nel 118 nei servizi secondari delle associazioni, come i trasporti di infermi e malati, a loro volta capaci di generare altri incassi. Insomma, la Asl vede e provvede. La benzina? I rimborsi sono ben al di sopra del consumo chilometrico. Abbiamo letto che a detta di qualcuno i dipendenti sono il cancro delle associazioni. Eppure, nessuno si lamenta quando si intasca una parte dello specifico rimborso Asl, evitando di far fare loro turni notturni o addirittura di farli lavorare il sabato e la domenica. In alcuni casi, poi, si permette di raggiungere un banco ore mensile capace di evaporare col tempo nel corso dell’anno. Ma veniamo al nocciolo della questione: i volontari. Nessuno ormai sale a bordo di un’ambulanza per passione. È diventato un lavoro nero a tutti gli effetti, finora avallato colpevolmente da Asl e Regione. Uomini e donne, spesso col coltello alla gola per necessità, vengono rimborsati con buoni pasto e benzina, ma anche “regolarmente” pagati. I volontari guidano l’ambulanza pur essendoci i dipendenti, tanto per fare un esempio. In passato abbiamo denunciato come a quei volontari, oggi elemento insostituibile per cui si piangono lacrime di coccodrillo, si è fatta pagare la divisa e in alcuni casi persino la formazione, nonostante la Asl erogasse altri rimborsi specifici. Insomma, se l’Agenzia è un modo per accorpare, per esempio la centrale operativa e il coordinamento del servizio; rendere migliori le condizioni di queste persone sfruttate da anni, azzerando i privilegi di alcuni pensionati, dopolavoristi e vari lacché, ma soprattutto se sarà capace di rendere più efficiente il servizio ai cittadini, sia benedetta. Nessuna generalizzazione, s’intende, ma non si può continuare a nascondersi dietro un dito. A Bari, all’incrocio tra viale Orazio Flacco, Papa Pio XXII e Giovanni XXII, c’è Vitino dei fazzolettini, prodotto efficace per asciugare lacrime tardive. In questa storia non si salva nessuno, né gli approfittatori storici né chi è rimasto a guardare per comodità.

Quando il volontariato diventa lavoro nero. Alice Martina Garavaglia il 26/03/2017 per antrodichirone su falsivolontari.it. “La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo,ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale (…)”

– Legge-quadro sul volontariato, art. 1 Tutti rispettano e ammirano chi svolge un’attività di volontariato, di qualsiasi tipo. A volte ci si chiede se si può contribuire personalmente. Qualcuno lo farà, magari spinto da amici e conoscenti, incuriosito o semplicemente desideroso di “fare gruppo”. In Italia in effetti i numeri sono rilevanti: ci sono quasi 7 milioni di volontari, di cui 4 agiscono in entità organizzate, mentre spiccano per l’importanza cruciale della loro azione quelle che operano in ambito sanitario: queste sono al terzo posto in Italia per numero, il 16% del totale (dati ISTAT 2013). Al primo posto figurano le associazioni con finalità religiose (23%) e al secondo quelle con finalità ricreative e culturali (17%). Vi sono poi anche associazioni che si occupano di sport, ambiente, istruzione e dei più disparati settori.

Cosa dice la legge. In passato si è atteso a lungo che il mondo del volontariato ricevesse una disciplina normativa adeguata. La legge-quadro sul volontariato (legge n. 266 dell’11 Agosto 1991) ha dettato finalmente le norme da seguire nel settore e ha tentato di risolvere l’annosa questione del lavoro volontario che, in quanto fenomeno sociale di notevole portata,è sottoposto a un rischio serio di sfruttamento. Inoltre, è attualmente in attesa di attuazione una legge delega al Governo sul terzo settore (L. 106/2016) che interesserà perlopiù l’aspetto fiscale delle ONLUS. Tornando alla legge del 1991 l’art. 2, al primo comma, dà una definizione di “attività di volontariato”: si tratta di quella attività prestata “in modo personale, spontaneo e gratuito”. Si continua poi precisando che l’organizzazione di cui il volontario fa parte non deve avere fini di lucro, neanche indiretto, ma solo fini di solidarietà. Al comma 2, si legge che l’attività del volontario “non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”. Si apre però alla possibilità di un rimborso delle spese “effettivamente sostenute per l’attività prestata”, entro limiti stabiliti dalle associazioni stesse. Pensiamo ad esempio al viaggio del volontario da casa sua alla sede operativa, alla benzina, all’eventuale pedaggio autostradale. Ma non solo: possiamo aggiungere l’acquisto della divisa, degli scarponcini antinfortunistici e così via. Insomma, è ben possibile comprendere l’inserimento di una tale disposizione, considerata la gratuità del lavoro prestato e il tempo speso dal volontario. Si tratta tuttavia di una norma che si presta ad essere sfruttata da chi ha invece ben altre esigenze.

Uno scandalo nazionale. Su questo argomento ha fatto recentemente scalpore un servizio andato in onda il 10 aprile 2016 sul canale televisivo Italia1, per il noto programma Le Iene, che denunciava l’esistenza di intere organizzazioni di volontariato fittizie operanti in ambito sanitario, che perseguono indirettamente fini di lucro e occupano quasi del tutto lavoratori in nero, mascherati da volontari. Queste organizzazioni si occupano di soccorso, un settore che in Italia è quasi totalmente affidato al volontariato, ma per cui la legge non impedisce di assumere regolarmente dipendenti, nel caso ve ne sia necessità. L’articolo 3, comma 4, della legge-quadro infatti stabilisce che “le organizzazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento”. Tuttavia, per evitare i costi derivanti dal lavoro dipendente regolare, molte ONLUS hanno escogitato l’escamotage di reclutare e formare persone che risultano come volontari, salvo poi instaurare con essi un rapporto di lavoro de facto. Fanno infatti firmare a questi supposti volontari una dichiarazione scritta in cui attestano di ricevere un rimborso spese, ma poi li trattano come veri e propri dipendenti, e in alcuni casi assegnano loro turni giornalieri da 10 ore o più: con qualunque termine si definisca questo rapporto, certamente non è volontariato. Non lo è perché non è gratuito, non lo è perché viene fatto per fini molto lontani da quelli di solidarietà propugnati dalla legge-quadro del 1991, e non lo è anche perché una persona che svolge questa attività, con queste modalità, sarà sempre impossibilitata ad avere un “vero” lavoro, un lavoro regolare. Tanto più che i soldi utilizzati per pagare questi rimborsi spese sono pubblici, ossia sono quelli con cui le varie aziende regionali di emergenza-urgenza pagano le convenzioni 118 alle associazioni. Questi fondi dovrebbero essere destinati a coprire le spese sostenute dall’associazione per la benzina, per l’acquisto e la manutenzione delle ambulanze e degli altri mezzi utilizzati, per la gestione della sede operativa e per lo stipendio dei dipendenti regolari. Questa prassi, molto diffusa nella capitale ma sicuramente presente anche in altre regioni italiane, ha conseguenze di non poco conto: i finti volontari non hanno ferie, malattie, controlli sanitari stringenti. Si devono pagare personalmente la divisa, non vengono loro pagati i contributi e per lo Stato sono sostanzialmente disoccupati. Se non provvedono autonomamente, non avranno neanche una pensione. Si parla di persone non professionalmente qualificate, che hanno fatto il classico corso per diventare soccorritore 118, ma in alcuni casi anche di infermieri e altre figure qualificate, come gli operatori socio-sanitari (i cosiddetti OSS). La situazione allarmante raccontata nel servizio potrà forse essere, come alcuni hanno commentato, estremizzata. Una punta della degradazione del volontariato e delle figure connesse. Tuttavia, anche se la situazione generale fosse meno grave, saremmo comunque di fronte a un problema di grande portata non solo sociale, ma anche economica e giuridica. Le immediate conseguenze non vanno a colpire i soli lavoratori in nero di queste associazioni, ma anche i pazienti trasportati, i quali potrebbero trovarsi di fronte un soccorritore stremato da 12 ore di turno, o un autista talmente stanco da addormentarsi alla guida. Perché questi lavoratori non hanno nemmeno un’associazione di categoria che li protegga o che faccia valere i loro diritti su un piano se non nazionale, almeno regionale. È perciò fondamentale contrastare ed espellere dal sistema del soccorso queste realtà, e il compito in questo caso spetta non alle aziende regionali di emergenza-urgenza (ad esempio ARES nel Lazio, AREU in Lombardia ecc..) ma alla Polizia tributaria. Prima dell’inversione di rotta emersa nel mese di marzo 2017, che porterà alla loro completa abolizione, anche i buoni lavoro (i cosiddetti “voucher”) erano ampiamente utilizzati in questo settore. Infatti, grazie al rafforzamento della loro applicazione avvenuto nel 2015 con il Jobs Act, essi offrivano una buona occasione per retribuire volontari che svolgevano turni “in più” rispetto a quelli normalmente richiesti dall’associazione. Questo metodo aveva un tetto massimo di retribuzione raggiungibile (7.000 euro in un anno), che ne limitava le possibilità di sfruttamento. Con la loro abolizione, ci si chiede se i voucheristi torneranno a far parte dei lavoratori in nero o se si prospetteranno altre soluzioni per le PM.

Le cause. Il territorio italiano, si sa, è spesso ostico quando si parla di soccorsi. Ci sono moltissimi comuni, anche molto piccoli, per non parlare dei centri abitati più isolati e delle difficoltà di comunicazione causate dalla conformazione geografica. Bisogna però assicurare ad ogni singolo abitante, in caso di emergenza, l’arrivo di un mezzo idoneo in tempi ragionevoli. Quello che forse non tutti sanno è che per lo più la copertura del territorio è assicurata da associazioni di volontari. In alcuni casi nelle zone lasciate scoperte dalle ONLUS vere e proprie, oppure nelle grandi città, dove il numero giornaliero di chiamate al 118 è altissimo, sono nate anche associazioni come quelle denunciate dal servizio televisivo: queste sono delle vere e proprie associazioni a scopo di lucro, spesso non hanno un solo vero volontario al loro interno e sono gestite quasi come delle aziende. Però accade anche che alcune ONLUS “regolari” si trovino in difficoltà per la mancanza di volontari e che, pur di mantenere la convenzione stipulata con l’azienda regionale, arrivino ad attuare ogni espediente possibile. Tutto ciò spesso viene tollerato dallo Stato e dalle autorità perché sostanzialmente, allo stato attuale della legge, non c’è una vera alternativa. Assumere solo dipendenti sarebbe troppo costoso per le associazioni, e in Italia non esiste una professione riconosciuta di soccorritore o paramedico, a differenza di molti altri paesi. Questa è la dimostrazione che un sistema del soccorso totalmente (o quasi totalmente) basato sul volontariato oggigiorno non è più sostenibile, visto l’altissimo numero di interventi e la crescente necessità di copertura del territorio da parte delle ambulanze. Allora forse è giunto il momento di fermarsi a riflettere in modo più ampio, dal punto di vista economico-giuridico, sul metodo di gestione del mondo del soccorso che attualmente è adottato in Italia dal nostro sistema sanitario. Se non si stabiliscono regole chiare e definite si rischia di arrivare a storture che non dovrebbero avere spazio in nessun settore, men che meno nel volontariato. Ancor meno in quel settore del volontariato che si occupa della vita e della salute delle persone. Non solo, se le regole vengono stabilite ma se ne tollera la sistematica e aperta violazione, a favore del risparmio, si vanifica il lavoro di chi invece le rispetta. Alice Martina Garavaglia

Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus. Michele Calabrese il 18/04/2016 su nursetimes.org. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento,  ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale; costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza StatoRegioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce  la propria  attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito. 

PAPAGNI Giuseppe

CALABRESE Michele

Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Pubblicato il 18.04.16 da Angelo Del Vecchio su nursetimes.org. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza. Le Iene, la trasmissione d'inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull'argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell'emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. Per fortuna in Italia ci sono realtà che funzionano e che rappresentano vere Onlus, come alcune scovate nel Nord d'Italia, ma nel resto dello Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall'Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all'ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano). Basta con lo sfruttamento e con i finti volontari, valorizziamo le organizzazioni non lucrative che lavorano seriamente e che non abusano della professione altrui e non truffano lo Stato. E' giunto anche il momento che la Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI presenti un'apposita denuncia agli organi proposti e con essa quei sindacati che dovrebbero rappresentare i lavoratori (ANCHE QUELLI IN NERO), ma che hanno dimenticato di farlo. Ai ragazzi e alle ragazze vittime di questi farabutti e sfruttatori va tutta la nostra solidarietà e l'invito ad andare oltre l'omertà denunciando gli sfruttatori. Angelo Del Vecchio

Valeria Costantini per il “Corriere della Sera” il 6 luglio 2019. Dieci migranti clandestini al lavoro allo stadio Olimpico per smontare il palco del concerto di Ultimo: venivano pagati quattro euro l' ora e in nero. Oltre agli stranieri però i militari del Comando provinciale della Guardia di finanza hanno certificato la presenza di ulteriori venti operai irregolari. Il blitz è scattato al termine dell' evento musicale di grande richiamo, oltre sessantamila gli spettatori accorsi per il giovane cantante romano: il pubblico stava ormai in gran parte già abbandonando l' arena quando i baschi verdi sono entrati in azione. Nel frattempo gli addetti erano al lavoro sul piazzale per le pulizie o intenti a guidare i macchinari per dividere i blocchi, con cui vengono di solito allestiti i palchi. Come da prassi per i controlli nel mondo del lavoro, i finanzieri del 3° Nucleo operativo metropolitano Roma hanno eseguito quelle che vengono definite «interviste», dialoghi informativi, con ogni singolo operaio. Non hanno impiegato molto tempo per scoprire l' ennesimo «buco nero» del mondo del lavoro. Dal monitoraggio è emerso come su oltre sessanta addetti identificati, circa trenta fossero in realtà fuori norma, nel dettaglio dieci migranti clandestini e altri venti irregolari. La maggior parte degli stranieri era di provenienza africana, alcuni originari del Bangladesh: molti di loro hanno mostrato permessi di soggiorno non a norma o scaduti, altri ne erano totalmente sprovvisti. Gli operai hanno raccontato ai finanzieri di non avere contratti veri e propri e che sarebbero stati pagati in contanti alla fine della lunga giornata di lavoro, in fondo alla quale li attendeva una paga di quattro euro l' ora. La tariffa sindacale per il settore invece è di sei euro e mezzo lordi. I controlli allo stadio Olimpico sono stati effettuati con la collaborazione della Questura, in particolare degli agenti del commissariato Prati: la task-force ha così potuto scoprire che, tra i migranti, c' era anche un cittadino della Sierra Leone già colpito da un decreto di espulsione. L' extracomunitario era stato fermato e identificato in diverse occasioni sul territorio italiano dalle forze di polizia e sempre senza permessi di soggiorno in regola, tanto da far scattare il foglio definitivo di via dall' Italia, che però ovviamente non è stato rispettato. L' attività di indagine della Finanza è tutt'ora in corso per accertare le posizioni, la regolare assunzione e la situazione contributiva e assistenziale di tutti gli addetti identificati. C' è poi il filone collegato direttamente ai responsabili dei lavoratori irregolari individuati: si indaga infatti sulla posizione delle cinque società coinvolte nella gestione logistica e nell' organizzazione del concerto. Si tratta di grandi ditte, solitamente vincitrici degli appalti per i più noti eventi musicali della Capitale e non solo. Non certo la prima operazione del genere, nell' ambito del contrasto al lavoro nero, messa a segno dalla Guardia di finanza, attiva spesso anche nell' attività di prevenzione del complesso fenomeno.

JOVA, RAGAZZI FORTUNATI O "SFRUTTATI"? Lucio Masolino per il Fatto Quotidiano il 16 luglio 2019. "Aiuta a differenziare correttamente i rifiuti e invita gli altri a farlo. Diventa volontario al 'Jova Beach Party'". Nessuna paga. Non è un lavoro, ma per stare più di 10 ore sotto il sole, in spiaggia, a spiegare "agli altri" (che invece pagano 60 euro per ascoltare Jovanotti, ndr) come si fa la differenziata, in cambio ci sarà un panino, una bibita, i gadget e, soprattutto, l' accesso gratuito al concerto. Archiviati i problemi della prima tappa, riscontrati a Lignano Sabbiadoro, sulle code infinite alle casse, sul cibo (poco) e sui token (i gettoni che servono ad acquistare all' interno dell' area) non rimborsabili, dopo il concerto di Rimini la polemica esplosa sui social riguarda la scelta degli organizzatori del 'Jova Beach Party' di ricorrere ai volontari non pagati. "Beach Angel" li chiama la cooperativa 'Erica' che, nell' annuncio pubblicato sul sito, spiega cosa deve fare il volontario per ricevere il panino, l' ingresso gratuito al concerto e i gadget: "Il tuo impegno, dalle 14 alle 24, sarà di presidiare i contenitori della raccolta differenziata dislocati sull' area dell' evento e informare le persone su come fare bene la raccolta differenziata". "Guarda mamma come ci si diverte a far lavorare la gente gratis, a non fare i contratti e guadagnare un casino di soldi". In un articolo pubblicato sulla rivista Jacobin Italia, Marta Fana (dottore di ricerca in Economia allo IEP Sciences Po di Parigi) prende in prestito le frasi della canzone Ragazzo fortunato, proprio di Jovanotti, per criticare la scelta degli organizzatori del concerto. "Verrebbe da fare ironia - scrive infatti l' autrice del libro Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza) - se non si trattasse di una situazione talmente seria da non poterci permettere alcun sarcasmo. Pare che in media il costo di produzione di ciascuna data si aggiri attorno al milione e mezzo di euro e facendo due calcoli, con una media di 50 mila spettatori al modico prezzo di 60 euro ciascuno, il fatturato di tre milioni. Profitto 1,5 milioni di euro a serata. Panino più bibita più maglietta e cappellino per chi invece lavora dalla mattina a notte inoltrata". Secondo Fana, "il caso del Jova Beach Party è emblematico. Sul lavoro gratuito, rinominato volontariato, oggi poggiano interi settori economici che fanno profitto, che hanno bisogno di lavoratori ma possono far leva sull' immaginario del volontario sorridente per risparmiare sui costi e quindi fare più profitti". La pensa allo stesso modo Jasmine Cristallo, l' ideatrice della cosiddetta "Rivolta dei Balconi" che, partita da Catanzaro, ha accompagnato la campagna elettorale per le Europee del ministro Salvini. "Non è così nella maniera più assoluta. I volontari non raccattano i rifiuti". Dalia Gaberscik, tra gli organizzatori del tour, parla di informazioni errate: "Abbiamo una cooperativa che si chiama 'Erica' che si occupa di tante cose, come il Giro d' Italia, e che ha fatto un progetto di raccolta differenziata dei rifiuti al 'Jova Beach Party'. Attraverso 'Erica' si reclutano questi volontari ai quali viene data l' opportunità di entrare al concerto a patto che diano una mano a presidiare le aree. Non c' è nessun lavoro di raccolta o di trasporto dei rifiuti. Potremmo anche non averli i volontari, non svolgono un lavoro collegato alla riuscita del concerto". Il perché lo spiega l' amministratore delegato della coop 'Erica' Roberto Cavallo: È un' opportunità di dare una mano. Noi non chiediamo ai volontari di raccogliere o trasportare i rifiuti". Al "Jova Beach party" ci sono anche i volontari del Wwf. Anche per loro concerto gratuito, panino e maglietta di Jovanotti. L' associazione animalista, però, fa sapere che "non c' è nessun tipo di compenso. Si tratta di una collaborazione assolutamente gratuita". "Quello che mi va di escludere in maniera netta - sottolinea Antonio Barone del Wwf - è che i nostri volontari si occupino di raccogliere i rifiuti perché non è vero. Fanno un' attività di sensibilizzazione contro l' emergenza da plastica".

Federico Vacalebre per Il Messaggero il 15 luglio 2019. Poteva essere il nostro Vietnam, la nostra campagna di Russia, ma si doveva provare a farlo. E ce l'abbiamo fatta», racconta Jovanotti nel backstage di Castel Volturno. A fine concerto, sudato, stremato, confuso e felice, lo dice anche al popolo del «beach party», il suo popolo, attratto dalle canzoni, ma anche dall'idea di uno show diverso, per una volta tanto davvero diverso: «Questa è una terra difficile ma ce la può fare. Noi, per esempio abbiamo avuto tutti contro, fin dal primo giorno rompevano i coglioni ma ce l'abbiamo fatta. Questa è terra d'accoglienza e ce la devono fare tutti».

·         Non è un mondo per archeologi.

Minacciati, malpagati e precari: ecco cosa vuol dire fare l’archeologo per 60 euro al giorno. Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Antonio Crispino su Corriere.it. «Non me ne frega nulla se qui sotto c’è un ritrovamento archeologico, dovete continuare a scavare e guai a voi se si blocca il cantiere». È quello che ha minacciato un imprenditore ai suoi operai quando Aglaia Piergentili Margani gli ha fatto presente che dove stavano scavando era emerso un muro di epoca romana e dovevano fermarsi. Piergentili è un’archeologa, vive e lavora nella Capitale dove il piano regolatore prevede la presenza obbligatoria di un archeologo in caso di scavo, qualunque esso sia. Perché la possibilità che dal sottosuolo emerga qualche reperto di valore è molto alta. «Basta andare anche a soli venti centimetri di profondità, a volte semplicemente sotto l’asfalto, e si fanno scoperte interessanti» dice Aglaia. Da pochi giorni, infatti, le è capitato di rinvenire un paleoalveo ossia un antico letto di un fiume. Peccato, però, che il suo lavoro venga visto come un ostacolo all’esecuzione dei lavori e quando arriva su un cantiere un po’ tutti storcono il naso. Fino ad arrivare a casi in cui davanti alla prospettiva di sospendere i lavori per effettuare i rilievi, si sia passati alle minacce. Una casistica che, in realtà, ci documentano anche altri suoi colleghi che però preferiscono l’anonimato. Raccontano di cantieri dove l’archeologo deve solo firmare carte e cercare di non vedere quello che spunta da sotto il terreno. La stessa Associazione Nazionale Archeologi ha più volte denunciato: «Occorre segnalare come molte imprese del settore, che hanno interesse a terminare i lavori nel più breve tempo possibile e con costi minori possibili e spesso hanno rapporti fiduciari con grossi committenti o gruppi, preferiscano per scelta avvalersi di operatori inesperti e poco qualificati piuttosto che di professionisti esperti. Tali comportamenti sono legati certamente alla possibilità di risparmiare sui costi da lavoro ma spesso diventano anche uno strumento per abbassare il livello di controllo archeologico alle opere». In tanti accettano per la paura di perdere anche quel poco di guadagno che c’è. Un paradosso, anche questo. A Roma, nel paradiso degli archeologi, e nel Paese con il più alto numero di siti Unesco, ci sarebbe tanto da lavorare ma questo alimenta anche una sorta di concorrenza al ribasso. Spesso gli imprenditori si rivolgono a neolaureati con poche pretese e pagano una giornata di lavoro anche solo sessanta euro. «I miei inizi sono stati così - racconta Aglaia -. Lavoravo per Acea e pur di muovere i primi passi accettai l’incarico. Poi capii che anche dopo aver fatto esperienza l’offerta economica tendeva ad abbassarsi e non ad aumentare, non arrivavo a mille euro netti al mese. Dicevano “…se ti sta bene accetti, altrimenti ce n’è un altro che accetta al posto tuo”». Anche per questo, sempre meno laureati vogliono impugnare una trowel (la caratteristica cazzuola a forma di rombo, ndr.) se è vera la statistica che ci riporta la nostra archeologa: «Quando ho iniziato questo percorso eravamo una quarantina di colleghi. Oggi ne siamo rimasti in dieci, gli altri hanno cambiato lavoro». E questo nonostante il fatto che l’Università La Sapienza di Roma sia in cima alle classifiche mondiali nella categoria Scienze dell’antichità. A queste difficoltà - che già basterebbero a scoraggiare anche il più appassionato degli Indiana Jones - si aggiungono le differenze di genere. La maggior parte degli archeologi sono donne e vanno a innestarsi in un sistema, soprattutto quello edile, prevalentemente maschile. «Molti hanno remore fortissime ad accettare gli ordini di una donna, perché quando c’è un ritrovamento è quello che succede, prendo le redini del cantiere - spiega Aglaia -. E’ capitato che ho dovuto minacciare di chiamare i carabinieri pur di farmi rispettare. Senza contare l’operaio che mentre lavora si avvicina e inizia a farti delle avance. Una cosa impensabile in Inghilterra, dove ho lavorato alcuni anni. Lì sarebbe stato allontanato immediatamente dal cantiere e denunciato per molestie». Eppure, c’è lo spazio per l’ottimismo. Consapevole che da poco la categoria si è lasciata alle spalle una stagione in cui grandi aziende pagavano pochi euro l’ora. «Molto dipende anche da noi, non solo dai committenti o dai controlli statali. Oltre a lamentarci dobbiamo rifiutare quelle cifre altrimenti alimentiamo quel sistema di cui ci sentiamo vittime. Bisogna avere pazienza». Non a caso lo slogan dell’associazione archeologi è «Keep calm and dig on».

·         Non è un mondo di avvocati incinte.

Stefano Landi per corriere.it il 28 giugno 2019. Da quando ha postato il suo caso sulla chat MaMi (dove si condividono oneri e onori delle mamme milanesi), sul suo telefono piovono messaggi di solidarietà. I toni non sono tanto di umana compassione, quanto di rabbia mista a sfiducia, per casi analoghi di mamme che si sono ritrovate in aula strette nella toga a una settimana dal parto. Monica Bonessa, 35 anni, è un avvocato talmente appassionato del suo lavoro da non mollarlo neanche con l’imminente arrivo del terzo figlio. «Sono incinta all’ottavo mese e mezzo. Ho chiesto il rinvio di un’udienza del 13 giugno per maternità a rischio di parto prematuro» racconta. Ha sventolato il certificato medico. Legittimo impedimento. Rifiutato. Venti ore prima dell’udienza le è stato negato il rinvio. In udienza ha dovuto mandare un amico collega che si era dovuto studiare il caso in otto ore. Le era già successo di sbattere su un mancato rinvio. Talvolta costretta dal volere della controparte, talvolta da quello del magistrato. O da un mix delle due cose. «Eppure queste sono quelle più delicate. Un’altra decina di udienze che riuscivo a gestire le ho affrontate senza batter ciglio. Ma il rinvio non può diventare la normalità. E nemmeno si può passare la vita a chiedere favori ai colleghi più disponibili». Ultimamente Monica riusciva a gestire il lavoro da casa. A scrivere pareri e studiare casi sia civili che penali. Si occupa di tutela di minori. E quando non ce la faceva delegava a colleghe sensibili alla causa. Non a caso tutte mamme. Eppure una normativa ci sarebbe. Ha dovuto scrivere al comitato Pari Opportunità dell’Ordine avvocati di Milano, per scoprirlo. Il protocollo 205 del 2017 all’articolo 1 equipara i diritti di un avvocato incinta a quelli di un dipendente. Concedendo il diritto alla proroga nei cinque mesi a cavallo del parto. «Solo che sostanzialmente non viene applicato perché non lo conosce nessuno. Mi chiedo se esista un diritto alla salute e nello stesso tempo uno al lavoro. Di fatto mi hanno obbligato ad andare in udienza oppure a pagare qualcuno che lo facesse per me». Un problema probabilmente più ampio e insito nel mondo dei tribunali, fa notare qualcuno in Rete, evidenziando come fino a poco più di un secolo fa le donne non potevano nemmeno esercitare questa professione. Una mamma le scrive: «Se fossimo tutte come te il mondo sarebbe migliore». A Monica il coraggio effettivamente non manca dato che dopo la nascita del secondo figlio ha convocato un’udienza di famiglia. «Ho fatto due conti con mio marito e ci siamo dati un anno di tempo. Ho lasciato lo studio legale in cui lavoravo e mi sono messa in proprio». Si è presa uno studio in condivisione con altri colleghi a due passi dal tribunale. E via con una carriera fatta (anche) di sacrifici personali. Da qualche notte non dorme. E non è la pancia che ingombra. Sarà lo sfogo su Facebook in cui chiedeva umanità, la lettera al presidente del Tribunale Roberto Bichi o forse una casualità, qualcosa (di buono) si è mosso per un’altra udienza convocata il 2 luglio e rinviata ad ottobre. «Il problema oltre alle leggi e ai protocolli — dice Tatiana Biagioni, presidente del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Milano — è sempre culturale, rimane un tema di scarsa attenzione al periodo così vicino alla gravidanza che se ci si pensa bene è legato anche alla giusta difesa dell’assistito. Perché non è così semplice farsi sostituire da un collega, quello dell’avvocato è un incarico fiduciario. Mentre la maternità è una funzione sociale imprescindibile e deve valere per il lavoro dipendente e per i lavoratori autonomi».

·         Il braccino corto degli imprenditori.

IL CHIAGNI E FOTTI DEI DATORI DI LAVORO COL BRACCINO CORTO. Da ilgazzettino.it il 14 giugno 2019. A Napoli, città con il 24,2% di disoccupati (dati Istat 2018) trovare un barista può rappresentare un'impresa. Danilo Volpe, titolare di un locale in città, ne sa qualcosa. La sua storia, raccontata sul quotidiano Il Mattino, parte da un annuncio scritto sul profilo Facebook: "AAA barista cercasi". Nessuna risposta. «Negli ultimi cinque mesi si sono licenziate tre persone, due solo nell'ultima settimana - commenta al Mattino il signor Volpe - «Cambiare posto di lavoro è possibile, ma tanti licenziamenti in un'azienda che è sul mercato da trenta anni, non erano mai capitati». Il motivo? Una risposta ufficiale non c'è, ma il titolare del bar sospetta che il reddito di cittadinanza c'entri qualcosa. Dopo che nessuno ha risposto al sup annuncio sui social, Volpe ha utilizzato anche dei siti specializzati. «Ho mandato molte mail, ho ricevuto poche risposte. Molti hanno rinviato, qualcuno è venuto. Contemporaneamente ho fatto correre la voce tra le mie conoscenze». Risultato? «Sono riuscito a svolgere sette colloqui, non ho assunto nessuno. Molti hanno detto che non vale la pena di lavorare per 800 euro al mese». Nessuno gli ha parlato esplicitamente del sussidio di disoccupazione ma il fatto che l'anno scorso di questi tempi trovare un rimpiazzo era una questione di pochi giorni lo fa sospettare. Il compenso previsto è di 800 euro per lavorare dalle 6,30 alle 16,30 o dalle 14,30 alle 20,30. «Nel nostro mestiere, si sa, contano molto le mance. Calcolando anche quelle si arriva anche a 1200 euro al mese. Più o meno la stessa cifra che guadagno io come titolare. Ma forse, se c'è la possibilità di intascare un po' di meno senza lavorare, qualcuno ha la tentazione di lasciar perdere». Di alzare il salario non se ne parla, Volpe sottolinea che questo significherebbe aumentare i prezzi e far perdere a Napoli la fama di città dove la vita costa di meno. Soluzione? Per adesso i titolari e l'unico barista rimasto fanno i doppi turni ogni giorno.

L’inferno dei lavoratori stagionali? In spiaggia assunti per 3 euro l’ora. Fabio Savelli il 25 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Chi rientra in questo girone dantesco capirà subito l’espressione: è «l’inferno» dei lavoratori stagionali. Il 95% di baristi, camerieri, bagnini non svolge un lavoro in regola con quello scritto nel contratto, rilevano fonti della Filcams Cgil. I numeri sono difficilmente dimostrabili perché le denunce sono poche e i controlli degli ispettori ancor meno. La gran parte degli stagionali se non lavora in nero (come la gran parte degli immigrati senza permesso di soggiorno) viene assunto con finti contratti part-time. Nel contratto viene riportato un monte orario di 18 ore settimanali quando l’impiego effettivo è spesso di 8-9 ore giornaliere senza un riposo settimanale: conto finale 56-63 ore. Ciò succede perché la selezione avviene tramite contrattazione individuale: lo stagionale negozia col datore di lavoro che gli prospetta un forfait mensile compreso generalmente tra gli 800 e 1100 euro al mese. Il lavoratore accetta ignaro che così sta perdendo le ferie, il tfr e persino una buona parte della Naspi, l’assegno di disoccupazione calcolato sul monte orario effettivo e sulla durata del contratto. Il lavoratore non ha strumenti per contrastare questa sbilanciamento. Potrebbe far causa successivamente ma ha bisogni di colleghi testimoni che suffraghino la sua tesi. Non accade quasi mai. Nessuno si espone per il timore di non essere richiamato l’estate successiva. I controlli dell’ispettorato del lavoro sono inesistenti, perché i fondi a disposizione sono pochi. La Guardia di Finanza interviene solo su segnalazione a campione e può solo contrastare il nero non l’abuso dei contratti. «In pochi, soprattutto i più giovani, sanno davvero leggere un contratto di lavoro e comunque dovrebbero visionarlo prima di cominciare a lavorare e magari sottoporlo ai patronati», dice Massimo Caifo, bagnino di professione e delegato Filcams Cgil di Udine. Ciò non avviene mai, spesso la stipula del contratto con la relativa comunicazione all’Inps avviene diversi giorni dopo instaurando una sorta di periodo di prova non coperto nemmeno da contributi. I pagamenti raramente avvengono con bonifici sui conti correnti dei lavoratori, il datore di lavoro non vuole tracciarli e preferisce pagare cash alla fine di ogni settimana o del mese innescando elusione fiscale e contributiva. Le multe sono risibili. Per il mancato versamento su conto si parla di 1000 euro, solo se c’è una segnalazione del lavoratore alla Guardia di Finanza. Non avviene mai, si ha paura di rappresaglie e nei comuni più piccoli di essere completamente marginalizzati nella ricerca di lavoro se si è così “pignoli”. Intanto i gestori balneari continuano ad arricchirsi. Hanno appena visto prorogare dal governo le concessioni per 15 anni (legge di Bilancio 2019) in barba alla direttiva Bolkenstein della Ue che pretenderebbe la messa a gara delle concessioni. L’Italia continua a pagare multe salate per questo (il rischio ora è di un’altra multa di 1,5 miliardi) così il contribuente-lavoratore viene frodato due volte. I Cinque Stelle parlano di salario minimo a 9 euro, ma il problema è un altro: il contratto commercio e servizi prevede un minimo tabellare ben superiore a 9 euro l’ora, peccato che lavorando in questo modo il lavoratore spesso percepisce 3,5- 4 euro l’ora pur avendo un contratto regolare. Un inferno. Aggravato dalla legge Dignità. Molti lavoratori invece di essere assunti con un contratto a termine che prevede pochi rinnovi e una causale specifica stanno transitando nel nuovo contratto stagionale che bypassa completamente i limiti del decreto Dignità. Gli ultimi dati Inps certificano questo passaggio. Il governo lo sa?

"Sfruttamento, buste paga false, orari infiniti. La stagione in riviera peggio dei lavori forzati". Una lettrice, per anni lavoratrice stagionale negli hotel nelle località di vacanza della Romagna, ci racconta nel dettaglio come funziona questo mondo. E perché le lamentele del sindaco di Gabicce sono un'offesa per molti. Anna Serao il 14 giugno 2019 su L'Espresso. Attenzione ai cavilli impercettibili del seguente colloquio verbale che inaugura ogni rapporto lavorativo tra una persona a cui occorre un occupazione ed un albergatore romagnolo. L'autrice di questo trafiletto auspica di sottolinearli, data la sfortunatamente vasta esperienza acquisita in proposito, sperando di far luce sulle polemiche legate alla dichiarazione del sindaco di Gabicce che imputa al reddito di cittadinanza la mancanza di personale stagionale. Premetto che quello che scrivo non vale per tutti gli Hotel, ma per la maggior parte di essi sì, e sono dinamiche vissute in prima persona e in differenti tipologie di alberghi, ed ovviamente esperienze di chi ha condiviso queste situazioni con me.

"Quindi siamo d'accordo? Saranno sette, otto ore al massimo, tutti i giorni, perché purtroppo (purtroppo lo dicono solo gli albergatori più gentili, o quando intuiscono dalla tua espressione che stai figurando i mesi a venire dovendo lavorare sempre, giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno...) qui funziona così. Dappertutto sai? Non è che un altro hotel ti può dare il giorno libero". Mentre tu stai riflettendo su quando potrai rivedere i tuoi cari per mezza giornata, o più semplicemente la luce del sole, l'albergatore continua: "Non preoccuparti, noi siamo ben organizzati, il lavoro non è che sia poi così impegnativo". La tua perplessità non gli fa battere ciglio, l'atteggiamento anche in fase embrionale è infatti sempre quello di chi ti sta facendo un favore a darti un lavoro, come se non si trattasse di un normale scambio prestazione professionale - pagamento, ma di un atto di altruismo che viene condensato con uno scaltro rimando alla crisi, un arguta constatazione del fatto che sono in tanti a cercare lavoro e che ha come risultato questa morale: ti conviene accettare le condizioni proposte perché sei un privilegiato se vieni assunto al posto di quei molti che si suppone siano in una presunta fila alla loro porta. Atteggiamento che oltre a stimolarti un impeto di gratitudine immotivata, serve anche a giustificare l'entità del pagamento. Subdolo, sì, ma efficace. I tre punti ricorrenti infatti quando si arriva a parlare di paga sono i seguenti: come accennato sopra, crisi, quindi stimolare il senso di colpa per aver scelto te per lavorare lasciando per strada chissà quanti altri disgraziati.

Punto due: l'esperienza. L'esperienza che tu possiedi infatti è inevitabilmente diversa da quella che necessitano in quell'Hotel, se sei cameriere ed hai già esperienza in strutture dello stesso livello, sicuramente il servizio viene fatto in modo completamente diverso, se sei cuoco e hai lavorato anche in hotel di pari categoria è certamente tutto un altro discorso nell'albergo di chi ti sta proponendo il lavoro. Allo stesso modo, se lavori in segreteria e conosci lo stesso programma utilizzato dall'azienda, non farti prendere da quell'iniziale entusiasmo: "Qui lo usiamo in maniera diversa". Non solo, lavorare per noi ti qualifica. Hai già esperienza? Non importa, dopo aver lavorato qui puoi lavorare ovunque. Questa tattica mascherata in un altro slancio di bontà che significa: non sei quello che cerchiamo, non sei preparata esattamente per le nostre esigenze, ma noi chiudiamo un occhio, perché siamo caritatevoli e ti vogliamo fare lavorare, dopo aver lavorato nel nostro Hotel allora sì che saprai lavorare.

Il terzo immancabile argomento al momento della conversazione sulla paga, è, a mio avviso, il più ignobile di tutti. Il pianto dei soldi da parte dell'albergatore. Non si lavora più come una volta, la stagione è corta, il cambiamento climatico incombe, non stiamo dentro nelle spese (ma continuiamo a farlo ogni anno perché ci piace impoverirci), non dico che andiamo in perdita ma siamo a quel livello. L'obiettivo è la tua empatia: dopo essersi reso ai tuoi occhi umano e debole, la carrellata delle difficoltà esposte ti predispone a una pacca sulla spalla col significato sottinteso di "ce la faremo". E sei fregato. La proposta del salario dopo tutte queste considerazioni è detta a voce anche spavalda, come facesse un eccezione per te ed arrivasse addirittura alla cifra che ti sta proponendo che nonostante il tentativo eseguito magistralmente e il tuo stato d'animo intortato è talmente ridicola che spalanchi comunque gli occhi pensando: "Sono due euro all'ora, non si può".

L'hai sottovalutato, è pronto a questa reazione. Prima che tu possa parlare, passa al contrattacco: "Poi 50 euro in più, magari non in busta, se sei bravo... non è detta...poi c'è la possibilità di vitto e alloggio, in quel caso decurtiamo qualcosina altrimenti non andiamo in pari...". Se ti serve un lavoro e non hai mai fatto prima le stagioni in riviera, accetti con tanti dubbi. Se l'hai già fatta, perché devi lavorare, accetti con la morte nel cuore. Saranno sette-otto ore. Sono dieci, dodici ore. Il tuo lavoro non è così impegnativo. Il tuo lavoro sfianca, manca il personale, sei solo e devi coprire il lavoro di più persone, ogni giorno, per mesi. Ufficialmente riposi un giorno a settimana, quello immaginario in cui vedi la luce e fai le lavatrici, in realtà sei costretto a stabilire un finto giorno libero, dichiarato ovviamente anche in busta paga, e la raccomandazione è che di fronte all'ispettorato del lavoro se sei presente il giorno che dovresti essere libero è per un esigenza improvvisa dell'azienda, ma tu di solito quel giorno riposi.

Vitto ed alloggio. Il vitto, non occorre dirlo, il più delle volte, è costituito da avanzi di avanzi. Stessi cibi ricucinati dallo stato liquido al solido all'aeriforme conditi con il grasso per poter essere commestibili. Poi dipende, chi ti toglie un euro se prendi un caffè dopo 10 ore che sei in piedi, chi acqua gratis in bottiglia quindi non del rubinetto, solo a dei reparti, quindi ad una sola parte di personale. C'è anche chi semplicemente offre gli avanzi del giorno prima e in quel caso sei fortunato, anche a casa capita di mangiare cose del giorno prima, non che faccia per forza male. L'alloggio stimola in me ricordi dolorosi, esseri umani dopo il lavoro massacrante stipati in cuccette nell'afa dei sottotetti ad agosto, e non vado oltre, mai visto qualcosa che assomigli a una sistemazione per i più dei lavoratori. Il fatto è che è quell'avidità atavica che impedisce ai titolari di mettere per esempio tramite l'associazione alberghiera della cittadina di pertinenza una quota irrisoria per un impresa di quella portata, per affittare un vecchio stabile, una struttura modesta per i dipendenti. Del resto è anche vero che avere la donna ai piani alle 23 che dorme in Hotel può sempre essere utile per rifare una camera all'ultimo e tentare di vendere una camera per una notte, così come una segretaria che per pranzare o cenare deve spostarsi all'interno dell'hotel si può convocare nella pausa per permettere all'altra turnante di mangiare, così che nessuno abbia una vera pausa. Solo due esempi.

La tua mansione è... tutto. Carenza di personale in ogni reparto. Le segretarie fanno il lavoro d'ufficio, il bar, la manutenzione, il back office, i conti, gestiscono fornitori e personale sempre in un turno da sole, e devono fare tutte le cose contemporaneamente, fino a che non fanno il caffè con il telefono e mostrano la camera al fornitore mentre scrivono alla mail di Booking.com che servono 4 chili di pane bianco per l'indomani. Il cuoco corre. Carenza di personale significa se gli va di grazia ha un tuttofare che tra il lavare i piatti e le pentole, il parcheggiare le auto, dare l'intonaco e togliere la muffa gli taglia qualche verdura (ma non è detto, dipende dalle disgrazie della giornata).

E il cuoco corre. Sviene normalmente per secondo, i giorni prima di ferragosto, di solito dopo la donna ai piani di costituzione più esile che si sente mancare qualche settimana prima. Le donne ai piani faticano perché per carenza di personale devono pulire contemporaneamente un numero di stanze e poi di piatti che per rendere l'idea normalmente lo fanno con le lacrime agli occhi dalla fatica, e all'occorrenza diventano cameriere. I camerieri lavorano dalle sei del mattino a mezzanotte circa, ristorati da due pause di un ora in cui possono buttarsi vestiti nelle loro brande. Giorno dopo giorno, ogni giorno.

Tfr, ferie, tredicisima, tutti fittizi figurano nella busta paga come parte della paga percepita. La paga, avendo letto delle cifre lontane dalla realtà queste giorni, è la seguente (ho lavorato in differenti hotel e dovevo archiviare i contratti, chiedere proroghe quando necessario ecc. qui prendiamo in considerazione un hotel di categoria media e per gli altri il parametro di riferimento è simile): Cameriere da 800 a 1100, se con molta esperienza o responsabile di sala può arrivare a dai 1400 ai 1800, solo se lavora da molti anni con la stessa azienda e ha stabilito un legame con una clientela abituale, c'è una per quanto rara possibilità che guadagni di più.

Cuochi: più sei giovane, più fai, meno ti pago. Sembra questa la logica per questo ambito. I cuochi più maturi, non arretrano dalle paghe dei tempi che furono, cioè quelle dignitose rispetto alle ore e all'impegno, forse anche perché nel tempo hanno acquisito qualche sicurezza economica in più. I giovani, anche se con esperienza, devono adattarsi perché hanno bisogno ancor di più di lavorare, per potersi costruire una vita. In questo ambito l'escamotage è di non assumere, o sostituire quelli più navigati con persone più giovani. Un cuoco, per dodici o tredici ore tutti i giorni, e fare un lavoro fisicamente e psicologicamente pesantissimo, prende intorno ai 1800 o 2000 euro. Se fortunato, o con la minaccia di andarsene qualora i clienti siano abituali ed apprezzino la sua cucina, può percepire una cifra maggiore.

Donne ai piani, per dieci o dodici ore di lavoro fisico tutti i giorni, da 800 a 1000 euro. Ricevimento, quindi gestione di tutti i reparti e di tutta la responsabilità economica, dai 900 ai 1300. Se con esperienza e con clienti fidelizzati, questo aspetto è importante perché nel caso che sia un hotel in cui i clienti sono abituali e quindi in confidenza con il personale, il titolare può decidere di aumentare un po' la paga per assicurare lo stesso personale e trattamento al cliente che si ripresenta. Ovviamente se l'hotel non punta sul ritorno degli stessi clienti non vale questo discorso, e sono tanti perché il turismo fidelizzato è una realtà quasi estinta. Specifico che parlo in questi termini della riviera romagnola solo relativamente alla circoscritta realtà degli albergatori, e non riguarda affatto il buon spirito dei romagnoli in genere. Tutti sanno che funziona così. Penso che accuserei i dipendenti dell'ispettorato del lavoro di una ottusità che non credo gli appartenga, penso che provino qualche volta a spaventare con delle multe ma che quando si chiudono le porte degli hotel alle spalle sanno di avere a che fare con un sistema malsano e una situazione più grande di loro.

Quale situazione è questa? Quella di ordinaria, implicita, accettata illegalità all'italiana. Se non lavori tu a queste condizioni, lo farà qualcun'altro. Non sono una fan del reddito di cittadinanza e in generale dello Stato assistenziale, ma ritengo che almeno forse un buon risultato c'è stato ed è stato quello, mi auguro, di gettare un occhio di bue su un microcosmo lavorativo degradato, lavori forzati per arricchire i pochi, senza discutere della qualità della famigerata accoglienza romagnola e di quanto ci perde in credibilità stagione dopo stagione. La cosa buffa è che quando si conclude la stagione, anche se involontariamente si fanno sfuggire che non si sono poi così impoveriti, buttano là delle cifre, magari chiacchierando tra loro, e tu sai che è la metà di quello che hanno realmente guadagnato. Lo sai perché conosci le spese e le entrate, di tutti i tipi. Concludo prendendo in prestito le parole di una lungimirante e geniale canzone: sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi a far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo, il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile, la posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere e non far partecipare nessun altro nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro, niente scrupoli o rispetto verso I propri simili. Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili.

*Anna Serao non è il vero nome della persona che ci ha scritto questa lettera. E che ci ha chiesto di proteggerne l'anonimato per non incorrere in ritorsioni sul luogo di lavoro.

·         L'università dei nuovi pro(f)letari.

L'università dei nuovi pro(f)letari. Daniela Uva, Mercoledì 22/05/2019, su Il Giornale. Quattro corsi diversi, tenuti insieme saltando da un ateneo all'altro e incastrando nel frattempo lavori che con il mondo accademico hanno poco a che fare. È la vita che nel nostro Paese svolgono regolarmente migliaia di insegnanti universitari precari. Sono definiti «a contratto» perché vengono pagati a cottimo, ovvero in base alle ore effettive di insegnamento. Se va bene, portano a casa non più di 10mila euro lordi l'anno. Meno di mille al mese. Secondo una nuova indagine condotta dalla Rete dei precari della ricerca e della didattica di Flc-Cgil, in Italia questi docenti senza ruolo hanno raggiunto la cifra record di 26.869. Insieme con i ricercatori assegnisti compongono un esercito di circa 40mila accademici precari, a fronte di quasi 33mila stabilizzati fra docenti associati e ordinari. Nonostante condizioni di lavoro e salariali disastrose, sono loro a tenere in piedi le università italiane. «Nel nostro Paese è in atto il blocco del turn over dal 2008. Gli atenei non hanno le risorse per assumere e così offrono cattedre a contratto - conferma Barbara Gruning, del coordinamento nazionale precari Flc-Cgil -. Negli ultimi dieci anni sono state perse 15mila posizioni di ruolo, compensate da meno tremila nuove assunzioni. Questo perché i finanziamenti ordinari all'università sono diminuiti di oltre un miliardo di euro».

COME UNA COLF. In questa situazione, per offrire un numero adeguato di corsi, gli atenei sono costretti a chiamare figure esterne. A confermarlo sono i nuovi dati resi noti dal Miur e relativi al 2017. Il numero dei non stabilizzati è cresciuto dell'11,7 per cento rispetto al 2016, con ben tremila docenti senza ruolo in più al lavoro nelle università di tutto il Paese. Se nel 1998 questi insegnanti «di serie B» erano 16.274, nel 2017 sono saliti a oltre 26mila, a fronte di 32.917 strutturati, ovvero regolarmente assunti dagli atenei. Fino a pochi anni fa i docenti a contratto erano quasi esclusivamente professionisti considerati luminari nei rispettivi settori, che offrivano le proprie competenze anche agli studenti in cambio di un compenso adeguato. Oggi sono invece, per la maggior parte, giovani con in tasca un dottorato, decine di pubblicazioni scientifiche e il sogno di inserirsi nel mondo accademico. A differenza dei professionisti impegnati in altri lavori, loro prestano il proprio tempo quasi esclusivamente nelle università, ricevendo in cambio stipendi da fame. Ognuno di loro guadagna fra 25 e cento euro lordi all'ora, in base ai bandi pubblicati dai diversi atenei. In media la cifra più comunemente pattuita è di 30 euro lordi. Ma questi soldi vengono riconosciuti solo per il tempo effettivamente dedicato ai corsi, senza tenere conto di quanto ci vuole per preparare una lezione, seguire uno studente, incontrarlo quando deve preparare la tesi o nelle ordinarie ore di ricevimento. Facendo due conti, la Flc-Cgil ha calcolato che, in base al lavoro effettivamente svolto, i docenti precari guadagnano appena sette euro netti all'ora. Meno della maggior parte delle colf e delle babysitter attive nel nostro Paese. «Il vero problema, in Italia, è stata l'incapacità di riformare il vecchio sistema di reclutamento - spiega Claudio Lucifora, docente di economia politica all'università Cattolica di Milano -. Oggi chi voglia tentare la carriera universitaria deve accettare condizioni di lavoro estremamente precarie almeno fino a 40 anni. Invece all'estero è tutto molto più semplice perché gli atenei possono assumere senza concorso, quando ne hanno bisogno, attraverso ordinari colloqui di lavoro. Il mercato libero facilita l'ingresso ed esalta il merito». Nel frattempo il nostro Paese resta fermo, ancorato ai vecchi schemi. Alimentando così l'esercito dei precari.

GIOVANI E SECCHIONI. Si tratta quasi sempre di giovani fra 25 e 45 anni, con almeno un dottorato di ricerca nel curriculum e una lunghissima lista di pubblicazioni scientifiche. A loro i dipartimenti affidano non soltanto corsi di nicchia, ma anche lezioni in materie fondamentali. «Questi precari vantano profili accademici elevatissimi, ma nella maggior parte dei casi non riescono a guadagnare più di mille euro al mese - prosegue Gruning -. Sono giovani che hanno deciso di restare in Italia, o che ci sono tornati dopo avere maturato esperienze all'estero. Grazie al loro impegno, a un fenomeno che abbiamo definito autosfruttamento, riescono a mantenere alto il livello dell'insegnamento nonostante tutto. Lo fanno pregiudicando la qualità della propria vita privata. Mettendo sempre al primo posto gli impegni professionali». E accettando uno squilibrio fortissimo rispetto ai propri colleghi di ruolo. In termini economici, ma anche quantitativi. Basti pensare che attualmente i docenti associati e ordinari più i ricercatori di tipo «B», che hanno la strada avviata per la docenza, sono 50.020. Invece i ricercatori a tempo determinato, gli insegnanti precari, i borsisti post-laurea e gli assegnisti di ricerca sono 63.244. Fra loro solo il due per cento ogni anno ha la speranza di entrare.

POVERO SUD. Nel frattempo cercano di andare avanti accumulando più corsi, pubblicando saggi, partecipando a convegni o facendo piccoli lavori che con l'insegnamento universitario non hanno nulla a che fare. E questo non solo negli atenei pubblici. Perché anche quelli privati negli ultimi anni hanno incominciato ad abusare di questo sistema, in modo da contenere i costi. «La cosa più grave è che spesso le università non conoscono i numeri, non sanno effettivamente quanti docenti a contratto ci siano perché il loro reclutamento dipende dai singoli dipartimenti», va avanti Gianluca De Angelis, uno degli autori della ricerca. «Non pensiamo sia sbagliato affidare a figure esterne alcuni corsi, ma è assurdo reclutare docenti a contratto per materie basilari. Sfruttandoli a fronte di salari minimi. Perché la didattica dovrebbe essere garantita da un lavoro che sia esso stesso garantito». Invece così non è, specialmente negli atenei meridionali. Dalla ricerca emerge infatti che l'83,2 per cento dei precari, nelle università del Sud, sono impiegati in corsi curriculari. A fronte del 78,5 per cento del Centro e del 73,4 per cento del Nord. La maggior parte del loro tempo viene utilizzata per preparare le lezioni, raggiungere il posto di lavoro, presenziare agli esami, ricevere gli studenti, seguire i laureandi nella preparazione della tesi. Tutte mansioni che non vengono retribuite. Solo il 18,2 per cento dell'orario di lavoro riguarda le lezioni frontali, per le quali i precari ricevono un compenso. Che, mediamente, non supera i 38 euro lordi all'ora. Cifra che può scendere fino a 25 euro lordi negli atenei delle isole e del Sud. «Abbiamo chiesto interventi immediati e concreti al ministero - conclude De Angelis -. Nel frattempo siamo costretti a constatare che i precari italiani si sono assuefatti a queste condizioni. C'è quasi la convinzione che sia normale lavorare in questo modo. Una deriva alla quale è assolutamente necessario mettere un argine».

·         La vera vita dei proletari digitali.

La vera vita dei proletari digitali. Che pagano per poter lavorare a tre euro l'ora. Assistenti virtuali, podcaster, autori di contenuti per siti web. Viaggio nel mondo di chi cerca di mettere insieme uno stipendio attraverso piattaforme come Upwork. A cui devi dare soldi anche per chiedere di collaborare. Maurizio De Fazio il 17 dicembre 2019 su L'Espresso. «L’aspetto forse più assurdo è che devi pagare per sperare di lavorare. E qui parliamo di lavoretti all’ora o alla giornata, quando va bene. Li chiamano “connects” ma sono semplici gettoni, senza i quali non puoi proporti a nessuno. Quindici centesimi di dollaro l’uno, e per una candidatura decente ne occorrono almeno sei. Ovviamente non c’è nessuna garanzia di essere presi. Di certo c’è solo l’arricchimento immane della multinazionale 4.0, che oltre a trattenere per sé il 20 per cento del nostro eventuale compenso ha introdotto questa tassa fissa sul desiderio, versata anche dalle aziende che sono lì per reclutarci». Franca (il nome è di fantasia) ha un diploma di ragioniere programmatore e perito tecnico-aziendale e una laurea in lingue e letterature straniere. Ha poco più di 50 anni, e lavora con l’americana Upwork, la più celebre piattaforma online di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro per freelance: gli iscritti registrati sono oltre 12 milioni, da tutto il mondo. La concorrenza è altissima e spietata: si tratta di competere con liberi professionisti magari dislocati in posti dove il costo del lavoro è molto inferiore agli standard europei e anglosassoni, e che tendono ad avanzare richieste salariali (chiamiamole ancora così) decisamente convenienti. Ecco spiegata la corsa generalizzata al ribasso di quella tariffa minima oraria che ogni worker digitale deve indicare. C’è chi chiede 2 o 3 dollari l’ora per professioni sofisticate e modernissime, e i più si uniformano. «Ho tanta esperienza, e per questo cerco di non scendere mai sotto i 4 o 5 euro l’ora. Faccio corsi d’inglese a distanza, la docente per una scuola cinese, e mi è capitata anche roba più leggera come insegnare a un americano la gestione di un armadio». Le imprese gongolano, ma non c’è limite allo sprofondamento della gig economy in paludi di diritti e retribuzioni pre-industriali. I lavoretti che diventano gli unici lavori possibili, e a governarli software e robot.

"Noi, i nuovi proletari digitali". Ecco chi sono gli operai 2.0. Lavorano al computer, senza orari né tutele, per realizzare video, software, siti web. Creativi? Mica tanto. Ecco i manovali del nuovo millennio, che in Italia sono già mezzo milione. Raccontateci la vostra esperienza. Francesca Sironi per l'Espresso il 19 giugno 2014. Davide Rovere, Marco Perini e Matteo Toffalori nel loro studio Click click. Digita, schiaccia, salva, invia. Click click. Guarda, sposta, cambia esporta. Occhi aperti davanti al monitor, mano sul mouse, comandi da eseguire su un software: se oggi chiedessero a Charlie Chaplin di raccontare il proletario contemporaneo, i suoi Tempi Moderni forse li illustrerebbe così, con uno schiavo del click click. Al computer, più che tra gli ingranaggi di una catena di montaggio. Perché di operai stiamo parlando, ma di operai digitali. Ovvero di quei manovali che tengono in piedi i siti web, che sudano perché film e serie tv arrivino in tempo nei nostri salotti, che alimentano il flusso di app, news, streaming e database su cui si appoggiano ormai molti servizi essenziali. Negli Stati Uniti la loro schiera conta già 4 milioni e 700 mila addetti; secondo le stime del governo Obama da qui al 2022 i posti aumenteranno di un milione e mezzo. Per l’Italia, l’ultimo censimento Istat è del 2011, e di impiegati nella fabbrica virtuale ne fotografava 450.606: mezzo milione.

L'IDENTIKIT. Gli operai 2.0 sono programmatori, “content editor”, montatori, addetti al “buzz marketing”, tecnici della post produzione, “social media manager”, grafici e specialisti degli effetti sui video. Voci come queste inondano le bacheche di annunci di lavoro. Tanto da esser diventate la speranza di un’intera generazione di giovani (e meno giovani), per i quali le offerte sono doppiamente allettanti: oltre a uno stipendio promettono infatti di essere mestieri creativi. Innovativi quanto le tecnologie che maneggiano. Ma è una promessa vera solo in parte. Perché se le condizioni proposte da questi impieghi non si possono certo paragonare al sudore dell’industria pesante, dietro ai loro profili ammiccanti si celano spesso mansioni ripetitive, meccaniche; in una parola: alienanti. I diritti conquistati dai sindacati, poi, sono spesso solo un ricordo del passato: i galoppini della Rete sono abituati ad andare avanti senza orari, a cottimo, a sgobbare da casa come le sarte di una volta e infine ad accettare, nei casi estremi, mini-attività virtuali pagate due dollari l’ora, o addirittura in gettoni da spendere online. «È un Far West», sospira Patrizia Tullini, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna: «In cui il grosso del potere contrattuale è nelle mani dei committenti». Così, anche se le sirene delle fabbriche sono lontane, le tute blu scomparse, le ciminiere solo archeologia, pure l’industria eterea e rampante dell’informatica ha i suoi manager, i suoi creativi. E i suoi operai. Come quelli di cui abbiamo raccolto le storie.

LIBERO. O MEGLIO COTTIMISTA. Davide Rovere ha 36 anni. Comincia ad avere qualche capello bianco, ma indossa ancora felpe col cappuccio e jeans oversize. Tredici anni fa si è laureato in “Industrial design” a Treviso. Dopo mesi di colloqui a vuoto è partito alla ricerca di miglior fortuna a Milano. Il primo ingaggio lo ha trovato subito, da una casa editrice, come “web editor”. Suonava bene. «Mi hanno dato una scrivania di fianco al magazzino», racconta: «Il mio compito era copiare online gli articoli che uscivano sul giornale». Autore, almeno, dei sommari? «No. Dovevo solo riempire i campi con i testi che mi mandavano via mail». Pagato? «A ore anche se ero il più giovane per cui mi chiedevano di restare per dare una mano coi computer». È andata avanti per otto mesi. Poi ha deciso di mettersi in proprio. L’ufficio allora è diventato camera sua: una stanza di venti metri quadrati che condivideva in periferia con Matteo Toffalori, un ragazzo di vent’anni anche lui smanettone e aspirante grafico freelance. «Spesso non uscivamo di casa tutto il giorno», ricorda: «Ci accorgevamo alle tre di non aver pranzato. O continuavamo di notte». Sul suo computer, ai piedi del letto, disegnava siti web e dépliant per piccole aziende o artisti emergenti. «Le commesse più noiose sono sempre quelle più redditizie», spiega: «Alle richieste più creative invece mi capita di non chiedere nulla in cambio. Solo perché mi diverto». Stipendio? Come per la maggior parte dei suoi colleghi, ogni volta lo attende una via crucis di fatture pagate a lavoro ultimato, normalmente in ritardo, oppure direttamente in nero. Da dicembre però qualcosa è cambiato. Ha messo su famiglia. E con Toffalori ha avviato una società, “Reactio”, specializzata in effetti speciali e animazioni 3D: «Non è un’occupazione molto più gratificante o creativa in sé», spiega Matteo: «Passo ore allo schermo, a spostare linee, modificare figure. La soddisfazione dipende tutta dal risultato: se ne posso andare fiero, ne è valsa la pena. Se invece sono costretto a modificarlo trenta volte perché “qui non piace” e “rifai questo”, alla fine mi viene la nausea». Qualche mese fa un’azienda gli ha chiesto di togliere l’immagine di una bottiglietta d’acqua da un filmato di un’ora e mezza. Compenso: 800 euro. «Una follia! Si trattava di passare con il cancellino su ogni fermo immagine, venticinque volte al secondo». Dopo 35 giorni, ha rinunciato. Senza cavarci un euro.

È IL FUTURO O IL RITORNO AL PASSATO? Digitando “I am a developer” (“Sono uno sviluppatore”) su Google, il motore di ricerca suggerisce di chiudere la frase con “I have no life” (“Non ho una vita”). E la pagina Facebook intitolata così vanta in effetti 867.225 “mi piace”. Persiste l’immagine del programmatore-nerd tagliato fuori dal mondo, chino sullo schermo a digitare comandi per inventare l’applicazione del futuro. Ma insieme a questa figura inizia a farsene strada un’altra. Più concreta e disincantata. Su un forum Marco D. scrive: «Noi programmatori siamo gli operai del nuovo millennio. A meno di non essere geni, è così». Il mito di una generazione insomma è passato dal fondare una start up miliardaria al ritagliarsi un buon lavoro qualunque sia. Le tute blu digitali sanno però di avere dei vantaggi rispetto al Cipputi caustico inventato da Altan: «L’orario di solito lo gestisci tu», spiega Marco D.: «E poi più aziende cambi, più usi piattaforme diverse, più acquisisci esperienza e quindi ti confronti con competenze nuove». Insomma: non è la pura ripetitività della catena di montaggio. Ci sono in gioco logica, ragionamento, inventiva. Ne è convinto anche Francesco Wil Grandis, autore di una testimonianza  su “Nomadi Digitali” : «Ho vissuto il mio mestiere di programmatore senza stress», racconta. Il padrone l’ha incontrato online, in una piattaforma di outsourcing, ovvero una piazza virtuale in cui le aziende possono trovare professionisti di tutto il mondo e viceversa. Con il suo committente, americano, è stata intesa al primo colpo; per quattro anni ha lavorato per la stessa azienda: buono stipendio, libertà ritagliate su misura, richieste sempre più raffinate. Un caso da manuale.

LA GRANDE ILLUSIONE. I lavori digitali sono invitanti per molti motivi. Perché danno l’idea di essere innovativi. E perché sembrano facili: la quasi totalità dei giovani sa usare benissimo Facebook, ad esempio, per stare con gli amici. E allora perché non farlo diventare un lavoro? Ed ecco nascere un potenziale “social media editor”, una persona il cui compito è alimentare discussioni online su un prodotto. La competizione però è altissima. Con diverse conseguenze. La prima, ovvia, è l’abbassamento dei salari. La seconda sono le minori garanzie (il classico: «Non ti piace? Vai. Tanto c’è la coda fuori»). E poi c’è un terzo inganno: «Visto che spesso mancano un riconoscimento o un buono stipendio, i lavoratori si autoconvincono sia giusto essere un po’ sfruttati pur di fare un mestiere così innovativo», sostiene Matteo Tarantino, giovane sociologo dell’Università Cattolica di Milano: «In realtà sono operai, ma né le aziende né loro stessi si definiscono così». Perché «l’immaginario è cambiato», spiega: «Ma la sostanza capitalistica resta, anche per l’industria digitale: pochi posti per i veri creativi. Molti per la manodopera a basso valore aggiunto».

DALLA MIA STANZA SENZA FINESTRE. «Quanno dico che lavoro faccio, la gente subito: bello! E io imbarazzato spiego: beh insomma, due cojoni. Certo nun faccio il manovale, ma è comunque un’attività zero creativa e molto ripetitiva». Roberto (il cognome no, ha un contratto e non lo vuole perdere) fa il montatore in una società che importa dall’estero film e trasmissioni tv, a cui vengono aggiunte traduzioni e doppiaggio. Lui, in particolare, è la persona che deve ricevere i video, dividerli fra i colleghi, quindi assemblarli di nuovo controllando tutte le immagini prima che arrivino a milioni di telespettatori. Di fatto la sua attività consiste nel muovere gli occhi e il mouse: guarda i filmati (ognuno almeno due volte), corregge, separa. E poi di nuovo: taglia, digita, salva, invia. Una routine meccanica. A cui lui, di suo, può aggiungere di rado qualcosa. «Ma non mi lamento», insiste: «Ho un ottimo stipendio, un contratto vero». Nel suo ufficio – senza finestre, e al buio: l’unica luce è quella dei monitor – non ha un gran rapporto coi colleghi: «Mi faccio i fatti miei». Grazie al tempo libero però, obbligatorio per via dei processi che bloccano il computer per ore, è diventato una star su Twitter, con decine di migliaia di followers e battibecchi in diretta con politici, attori, jet set. «Sono fortunato», ripete.«Anche se lo ammetto, a volte non dormo. Quando arrivano certi cartoni animati mi vorrei impiccare: 130 puntate da 40 minuti, con le canzoncine, i pupazzetti che ballano, le coreografie, e io che mi devo guardare tutto tre volte. Quanno esco nun me se leva il jingle dalla testa». Nella sua stessa azienda c’è a chi va peggio: «Mi sono rifiutato di seguire alcuni documentari “chirurgici”», racconta: «liposuzioni, sangue, organi in vista. Nun je la posso fa. Ma ho colleghi obbligati a mettere i sottotitoli». Significa avere carni sbrindellate sotto gli occhi per giorni. Fermo immagine dopo fermo immagine. C’è a chi tocca anche questo.

TECNICI FANTASMA. Come nelle fabbriche, anche per la manovalanza digitale esistono i tecnici ultra-specializzati. Marco Perini, 33 anni, occhiaie croniche, è uno di questi. Il suo lavoro è far sentire nei video la voce di chi parla, e non quei brusii, fruscii, rumori che i microfoni inevitabilmente intercettano. Si chiama “post-produzione audio” oppure “sound design”. Ma se molti mestieri dell’universo digitale sono poco noti, il suo è proprio ignoto: «Ho ancora clienti che mi chiedono: “Ma non basta alzare il volume?”», commenta, accendendo una delle sue venticinque sigarette quotidiane: «Correggere l’audio significa invece fare almeno quaranta azioni per ogni minuto di registrazione, fra abbassare picchi, coprire, eliminare il sottofondo». Dietro ogni scena di un film c’è questa meticolosa pulizia compiuta su un software. Una fatica che stentiamo a riconoscere. Come capita per molti altri mestieri digitali: dal moderatore dei commenti online alla massa di operai che ogni notte salva i miliardi di contenuti pubblicati su Facebook, ad esempio. Chi conosce il loro volto? «In Rete tutto deve sembrare naturale, immediato», spiega Ruggero Eugeni , docente di Semiotica dei Media: «Dobbiamo sentirci “utenti”, non consumatori. Ma perché questa retorica resti in piedi è fondamentale che non si avverta il lavoro che c’è dietro. Chi produce deve diventare invisibile». Un fantasma. «Per l’ultima produzione a cui sono stato chiamato mi hanno offerto 50 euro a puntata», sospira Marco Perini: «Considerando che ogni volta erano quattro ore e mezza di lavoro, mi sono rifiutato di continuare». Il prezzo giusto? «Sarebbe 350 euro. Molti committenti, per fortuna, mi pagano così». Anche perché lui è considerato uno bravo: la Sae, la più grande scuola per queste professioni in Italia, l’ha chiamato come docente. «A me piace il mio lavoro», prova a spiegare: «Quando senti il risultato: è fantastico. Il problema è che per molti non esiste». Si rimette le cuffie: per dieci minuti avrà nelle orecchie la stessa frase - “no perchéee” - detta da una belloccia dello show business. Non può pensare ad altro, quando è su una traccia.

«DAI, SIAMO UNA GRANDE FAMIGLIA». Poi, c’è l’età. Perché passare le notti alla tastiera, inseguendo l’ultimo software, è entusiasmante a 20 anni. A 30 ci si arrangia. Ma a 40... Chiara Birattari, che li ha appena compiuti, i 40, è una veterana dei mestieri digitali, e questo cambiamento di prospettiva l’ha vissuto di persona. «Il mio primo contratto è stato super: tempo indeterminato in un’agenzia di comunicazione online», racconta: «Quasi un miraggio, oggi». Era il 1998: non era ancora scoppiata la “bolla delle dot com”, il collasso del 2001 seguito alle speculazioni finanziarie sulla Silicon Valley, considerato una sorta di spartiacque dell’industria virtuale. Prima, i siti web si costruivano “a mano”, programmando in html. Dopo sono nati i blog, i social network, i portali fai-da-te. «Io ho iniziato grazie a un corso della Regione Lombardia», racconta Chiara, occhi azzurri, un diploma all’Accademia di Brera e una seconda vita da attivista politica con il movimento di San Precario: «Era divertente». Dopo la crisi l’agenzia non le ha pagato lo stipendio per un anno. Lei se ne è andata, facendo causa. E nel 2003 ha trovato un contratto a progetto in una società che si occupa di convention aziendali, con clienti del calibro di Publitalia. «Il mio compito era preparare le presentazioni», racconta: «I manager mandavano i testi. Il capo mi indicava le immagini da usare. E io componevo le schede. Poi, durante le mega-riunioni, ero la ragazza che cambiava slide al cenno del dirigente di turno». Terribile? «In realtà non era così male. Il problema era l’ambiente», spiega: «Il clima era quello della “grande famiglia”. Secondo i soci ci saremmo dovuti divertire, perché era un lavoro “creativo”, perché le convention erano “begli eventi”. Eppure era pesante. Non me ne rendevo conto, ma stavo anche 15 ore di fila davanti al monitor». A fermarla è stata l’ennesima proposta di un rinnovo precario, insieme a malattie da stress che sono state un allarme. Ora collabora con una rete di professionisti che aiuta piccoli artigiani a presentarsi sul Web: «Siamo partite Iva, ma abbiamo un manifesto comune», spiega: «Farsi pagare il giusto. Costruire un buon rapporto coi clienti. E soprattutto: non fare orari folli».

STIPENDI VIRTUALI. Fin qui, non è che la superficie. L’avanguardia del lavoro digitale nel frattempo è andata ben oltre. L’oltre si chiama crowdworking – letteralmente, “lavoro di folla”, collettivo – ed è un’avanguardia che ha piantato solide basi anche qui: 100 mila italiani racimolano uno stipendio grazie ai mini-job virtuali. Di che lavori si parla? Di guardare centinaia di video per censurare quelli pedopornografici, ad esempio. Oppure di commentare la pagina web di un politico. O ancora di controllare fogli pieni di dati. Tutto per rimborsi che vanno dai 50 centesimi ai pochi dollari l’ora. Pioniere del settore è Amazon, col suo Turco Meccanico, ma le fabbriche globali sono numerose: CrowdFlower, un concorrente, vanta cinque milioni di iscritti in 280 Paesi. L’ultima novità riguarda i soldi. Virtualizzati, anche quelli: sulla piazza di Amazon i lavoretti sono pagati spesso non con dollari veri, ma con monete immateriali da spendere dentro la stessa piattaforma per acquistare libri, scarpe, dvd. E se i dipendenti usa-e-getta che vivono negli Stati Uniti possono scegliere fra il ricevere un bonifico concreto oppure solo un tagliandino regalo, per gli stranieri (indiani esclusi) non c’è scampo: tutto lo stipendio va speso dentro il negozio del boss. Come nelle piantagioni coloniali anni Trenta. Mentre in Rete inizia a spuntare anche chi paga in punti-gioco da utilizzare nei videogame. La premessa di un futuro dove anche lo stipendio rischia di diventare virtuale.

·         Le Cooperative: «Caporalato e sfruttamento».

Sequestrati 120 immobili  al titolare di Premium Net. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. «Acquisti sospetti, in contanti e con prestanome». Il Tribunale blocca 15 milioni. Per Giancarlo Bolondi i giudici vorrebbero anche la sorveglianza speciale. Un maxi sequestro di 120 immobili tra Milano, Lodi, Brescia, Torino, Genova e altre città è stato disposto a carico di un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi della società Premium Net, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro, in particolare di “caporalato” nel facchinaggio. Lo ha deciso la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, su richiesta dei pm Bruna Albertini e Paolo Storari e i sequestri sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza di Pavia. A Bolondi, 63 anni, residente in Svizzera e già ai domiciliari, come si legge nel provvedimento della Sezione misure di prevenzione, presieduta da Fabio Roia, è stato contestato dai magistrati di Pavia di essere stato a capo, tra il 2012 e il 2018, di un «network di consorzi e cooperative», attraverso il quale avrebbe anche «reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento», approfittando dello «stato di bisogno dei lavoratori, tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro». Operai che dovevano accettare condizioni diverse rispetto ai contratti collettivi nazionali su turni, ferie e gestione dei riposi. Nelle oltre 100 pagine del decreto i giudici Rispoli-Cernuto-Pontani spiegano che all’indagine di Pavia è collegata l’amministrazione giudiziaria che venne disposta a maggio per Ceva Logistic Italia srl, ramo della multinazionale leader nel settore della logistica. Un commissariamento per «sfruttamento di manodopera», ossia sempre per un caso di caporalato, il primo che si era concluso con una misura di questo genere da parte dell’autorità giudiziaria. Ceva, che nel Pavese ha la `Città del libro´, una sorta di hub logistico per la distribuzione di materiale editoriale, chiariscono i giudici, era proprio «una delle clienti del `sistema Bolondi´» e impiegava nella `Città del libro´ «manodopera fornita dalla Premium Net». BIl consorzio di Bolondi, infatti, spiegano ancora i giudici, era «in grado di interfacciarsi sul mercato dell’outsourcing con i principali attori economici pubblici e privati (nel provvedimento l’elenco delle imprese clienti, ndr)». Allo stesso tempo, almeno dal 2009 l’imprenditore avrebbe portato avanti, tra la Lombardia e il Lazio (un procedimento a suo carico anche dei magistrati di Velletri), «un sistema fraudolento di gestione delle attività economiche finalizzato ad evadere le imposte», affiancato «da un’attività» di «occultamento della provenienza illecita dei profitti», con `schermi´ societari e prestanome. Il tutto, tra cui anche proventi di «truffe ai danni del sistema previdenziale e del mancato pagamento ai dipendenti del tfr (gli operai venivano spesso licenziati e poi riassunti in altre cooperative, ndr)», poi riciclato, secondo i giudici, «in investimenti immobiliari». Solo nel «procedimento pavese», si legge ancora nel decreto, si parla di imposte evase per «14 milioni di euro». Sequestrati, oltre a conti correnti e una polizza assicurativa, immobili tra Padenghe sul Garda e Manerba del Garda (Brescia), Camogli (Genova), Lodi, La Thuile (Aosta), Milano anche in zone come Porta Romana e Porta Venezia, Sauze di Cesana (Torino), tutti riconducibili a Bolondi.

Un altro colpo al re delle coop Bolondi: sotto sequestro 120 immobili. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. «Acquisti sospetti, in contanti e con prestanome». Il Tribunale blocca 15 milioni. Per Giancarlo Bolondi i giudici vorrebbero anche la sorveglianza speciale. Il mattone è sempre un bene rifugio, ma per Giancarlo Bolondi i mattoni tra il 2009 e il 2017 sono diventati davvero tanti, forse anche perché — ed è questo il problema ad avviso ora dei magistrati — cementati dalla soldi provenienti da affari illeciti: per questo il 63enne ex legale rappresentante della società consortile di lavoro in outsourcing «Premium Net», già coinvolto nei supposti casi di intermediazione illecita e di sfruttamento di manodopera che nel maggio scorso avevano portato il Tribunale a ordinare l’«amministrazione giudiziaria» (cioè ad assumere il controllo societario tramite un proprio nominato amministratore) di un ramo della «Ceva Logistic Italia srl», è destinatario di un altro energico intervento della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano. Stavolta si tratta di un sequestro di ben 120 immobili (un’ottantina di case e il resto box o pertinenze) tra Milano, Lodi, la Liguria (specie Camogli), il lago di Garda e la provincia di Torino, per un valore stimato attorno ai 15 milioni di euro. I giudici Maria Rispoli (presidente), Giuseppe Cernuto (relatore) e Ilario Pontani hanno disposto il sequestro, propedeutico alla confisca, come misura di prevenzione proposta dai pm Bruna Albertini e Paolo Storari che per Bolondi, sempre sulla scorta delle indagini sviluppate dalla Guardia di Finanza di Milano, vorrebbero anche la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per due anni (richiesta destinata ad essere discussa nel prosieguo del procedimento). A fondare il provvedimento di sequestro sono 26 segnalazioni di operazioni finanziarie sospette perché «incoerenti con l’attività svolta dalle sue società», effettuate «in contanti tramite cifre artatamente frazionate sotto soglia», «girofondi privi di causale lecita», con «ricorso a prestanome e a società schermo per movimentare somme che, alla luce delle vicende giudiziarie, sono da ritenere di origine illecita». Il riferimento è al nutrito curriculum processuale dell’indagato, che fra l’altro, prima dei problemi attuali, conta un patteggiamento a 1 anno e 3 mesi a Monza nel 1996 per abuso d’ufficio in concorso con un assessore comunale; un patteggiamento a 1 anno e 5 mesi a Milano nel 2010 per dichiarazione fraudolenta mediante fatture inesistenti; e soprattutto un patteggiamento a 3 anni a Velletri nel 2018 (su cui pende ricorso in Cassazione) per autoriciclaggio di profitti di frodi fiscali e di truffe contributive in coop fittizie che formalmente inquadravano 620 lavoratori, e per corruzione di due militari della Guardia di Finanza. Mentre dunque per «Ceva» (già cliente del consorzio di Bolondi) è avviato un percorso virtuoso di rientro nella legalità - che anzi sta persino facendo emergere (proprio per contrasto con la sua progressiva messa in regola) l’opacità strutturale del settore della logistica, dove quasi sembra che a rispettare le regole non si riesca a stare sul mercato - per Bolondi (arrestato nel 2018 da Pavia) si moltiplicano le tegole giudiziarie. Tutte accomunate dal medesimo schema che gli inquirenti ritengono di cogliere costante nelle sue attività: un consorzio di coop, interfacciandosi nel mercato dell’outsourcing con grandi imprese pubbliche e private, si aggiudica commesse per la fornitura di personale e servizi esternalizzati dai clienti (in prevalenza facchinaggio e movimentazione merci) tramite una catena di interposte cooperative che frodano il fisco, truffano contributi previdenziali, mettono nei guai i lavoratori che formalmente vi risultano inquadrati, e riciclano i relativi consistenti profitti. Facendo anche un’altra importante vittima: «La distorsione della concorrenza e del mercato».

Maxi sequestro di 120 immobili a "imprenditore-caporale" del facchinaggio. Redazione de Il Riformista il 17 Dicembre 2019. La guardia di finanza di Pavia ha sequestrato 120 immobili tra appartamenti di pregio, un villaggio turistico sul Lago di Garda, autorimesse e terreni in Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria e Lombardia nella disponibilità dell’imprenditore Giancarlo Bolondi, accusato, oltre che di frode fiscale e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro, in particolare di ‘caporalato’ nel facchinaggio. Il 63enne è stato arrestato nel luglio 2018 per associazione a delinquere finalizzata all’intermediazione illecita e caporalato, oltre che di frode fiscale per decine di milioni di euro. Nel luglio del 2018 erano scattate le manette anche per altre 11 persone considerate componenti di un’organizzazione a delinquere che operava tramite la Premium Net Scpa, attiva nel settore della logistica, e una serie di cooperative e consorzi di cooperative a lui riconducibili. Gli esiti investigativi avevano successivamente indotto il Tribunale di Milano ad applicare, uno tra i pochi casi in Italia, l’amministrazione giudiziaria, tuttora in atto, alla società italiana di logistica facente parte di un importante gruppo multinazionale operante nel settore, principale committente delle aziende di cui l’imprenditore era l’amministratore di fatto. A Bolondi nel provvedimento della Sezione misure di prevenzione viene contestato dai magistrati di Pavia di essere stato a capo, tra il 2012 e il 2018, di un “network di consorzi e cooperative”, attraverso il quale avrebbe anche “reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento“, approfittando dello “stato di bisogno dei lavoratori, tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro”. Gli operai dovevano accettare condizioni diverse rispetto ai contratti collettivi nazionali su turni, ferie e gestione dei riposi. Bolondi è accusata di aver truffato il sistema previdenziale tramite il mancato pagamento del Tfr dei suoi dipendenti: gli operai venivano spesso licenziati e poi riassunti in altre cooperative. L’imprenditore-caporale viene inoltre accusato di aver portato avanti dal 2009 “un sistema fraudolento di gestione delle attività economiche finalizzato ad evadere le imposte”, affiancato “da un’attività” di “occultamento della provenienza illecita dei profitti”, con ‘schermi’ societari e prestanome.

Milano, "caporalato" nel facchinaggio, a imprenditore sequestrati 120 immobili. La Gdf di Pavia mette i sigilli a Giancarlo Bolondi, titolare della società di logistica Premium Net. La Repubblica il 17 dicembre 2019. Un maxi sequestro di 120 immobili tra Milano, Lodi, Brescia, Torino, Genova e altre città è stato disposto a carico di un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi della società Premium Net, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro, in particolare di 'caporalato' nel facchinaggio. Lo ha deciso la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, su richiesta dei pm Bruna Albertini e Paolo Storari e i sequestri sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza di Pavia.

Il contratto truffa. Lavoro italiano, stipendio romeno (come il contratto). Pagato in leu, la moneta romena che equivale a 0,21 euro. Tradotto: lavori un mese per poco più di 300 euro (1.400 leu) e zero contributi. La beffa nella beffa è che sei un lavoratore italiano che per avere un impiego è costretto a firmare un contratto romeno. È successo a 70 dipendenti della Ceva Logistics Italia, stabilimento a Stradella, nell'Oltrepò Pavese. Quasi tutti originari e abitanti della zona, età tra i 20 e i 45. Stesso destino professionale: la condizione per ottenere un posto alla Ceva - succursale del colosso internazionale dei trasporti e della logistica olandese-americano con strutture in 170 paesi e 51 mila addetti - era una firma sul contratto proposto da Byway Jpb Consulting srl. Che cos'è? Un'agenzia interinale con sede a Bucarest, alla quale - nell'infinita catena del ribasso a ogni costo - si era rivolta un'altra agenzia (lodigiana) alla quale aveva a sua volta fatto ricorso il consorzio di cooperative "Premium Net", serbatoio di manodopera appaltato dalla Ceva. L'accordo romeno, scritto in un italiano zoppicante, prevedeva che i 70 assunti nel polo della "Città del Libro", zona industriale di Stradella, ricevessero uno stipendio "misto": nella valuta. "La parte fissa veniva pagata in leu, e una piccola parte in euro.

Stop caporalato e appalti truffa. Patto-legalità tra le cooperative. Pubblicato martedì, 15 ottobre 2019 su Corriere.it da Stefania Chiale. Accordo su logistica e ispezioni. E l’Antimafia: «Vigileremo». I grandi committenti nella logistica sono disposti ad abbassare i margini dei loro profitti e a pagare di più i contratti di appalto. Mettendo all’angolo le società che praticano il caporalato per abbassare i costi del lavoro (in un sistema di concorrenza sleale) e contrastando il conseguente sfruttamento dei lavoratori. Questo è l’impegno emerso nel primo tavolo tecnico sul sistema della logistica ospitato ieri in Prefettura a Milano, convocato dal prefetto Renato Saccone sulla scorta delle osservazioni dei giudici guidati da Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano. L’idea condivisa da organi di controllo (Tribunale, Ispettorato del lavoro, Inail e Inps), Regione e l’intera filiera del settore (da Assologistica e Assolombarda ai sindacati) è quella di creare un patto della legalità, con misure condivise per istituire una competitività sana ed evitare lo sfruttamento dei lavoratori del settore. Gran parte del quale — ha rilevato la magistratura — poggia sul caporalato. Ecco perché un’azienda che torna a legalizzare le proprie offerte di lavoro entra «in crisi di competitività». Gli ex dipendenti del consorzio di cooperative Premium Net, al centro dell’inchiesta sul caporalato, erano ieri di fronte alla Prefettura. Il Tribunale di Milano ha disposto in maggio l’amministrazione giudiziaria di uno degli stabilimenti della Ceva Logistic Italia src proprio a causa dei rapporti con la Premium Net, ma la cooperativa che in questi mesi ha portato avanti l’attività dello stabilimento di Melzo si è ritirata a fine settembre. I lavoratori sono a casa, in attesa di un licenziamento e di arretrati che non arrivano. Il patto per la legalità prevederà la necessità per i grossi committenti di abbassare i margini dei profitti. Aspetto centrale del sistema: «Le grandi committenze possono scegliere di rincorrere il minor costo dell’appalto, scaricandolo sui lavoratori, o puntare a una logistica di qualità, normata dal contratto nazionale», dice Luca Stanzione, segretario generale Filt Cgil Lombardia. Che ricorda i numeri del settore: «Il fatturato nazionale della logistica è di 32 miliardi di euro. Il settore in Lombardia cuba il 40 per cento del fatturato nazionale». Se le imprese non rispetteranno l’accordo, il capo della Dda di Milano Alessandra Dolci, presente ieri all’incontro, lascia prevedere interventi giudiziari contro le stesse, così come accaduto con la Ceva, oggi in un collaborativo percorso di rientro nella regolarità. «Sul tema del costo occorre considerare la vulnerabilità dei lavoratori — commenta Antonio Albrizio, segretario generale Uil Trasporti Lombardia —: spesso ci rivolgiamo a una fascia di lavoratori, magari precari o stranieri, esposti più di altri a ricatti». L’aumento dell’azione ispettiva e la tutela dei lavoratori sono gli altri due perni del futuro patto. Che «prevederà un tavolo permanente di regia — dice Giovanni Abimelech, segretario generale Fit Cisl Lombardia — con tutti gli attori coinvolti per verificare se le cose stanno cambiando oppure no». I sindacati — positivi su un incontro che chiedevano da decenni e che «rappresenta un fatto storico» (Abimelech) — saranno riconvocati tra un mese. Nei prossimi giorni il prefetto Saccone incontrerà le grandi imprese, che si sono già dette disposte a collaborare per trovare correttivi e misure per fronteggiare l’illegalità nella logistica.

«Caporalato e sfruttamento» Commissariato il re della logistica. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Ma chi mai poteva immaginare che facessero queste brutte cose mentre facevano lavorare la gente per noi? Dicono sempre così, dicono tutte così le aziende che - al riparo formale di contratti di somministrazione di lavoro con cooperative capofila che le manlevano dai contenziosi e che sulla carta assicurano rispetto delle regole verso i lavoratori - aumentano la propria produttività nella logistica facendo finta di non sapere che in realtà la poggiano sul caporalato organizzato: su «un carosello di società cooperative per occultare un regime di sopraffazione retributivo» ai danni di «lavoratori costretti a ritmi gravosi, straordinari imposti sotto continua minaccia di licenziamento, omesso versamento di contributi, retribuzione difforme dalle ore davvero lavorate (anche 11 al giorno)». Di solito, quando le coop vengono messe in liquidazione e fatte fallire vuote, col travaso dei lavoratori da una all’altra, ci rimette solo qualche testa di legno. Ma adesso la Procura di Milano e la Sezione misure di prevenzione del Tribunale adottano una clamorosa iniziativa che, puntando un colosso della logistica, suona la campana per tutti gli altri che fanno finta di niente. Il Tribunale ieri ha infatti ordinato l’«amministrazione giudiziaria» (cioè ha assunto il controllo societario tramite un proprio nominato amministratore) della Ceva Logistic Italia srl, ramo della multinazionale da 7 miliardi l’anno di fatturato, leader nazionale nello spostamento merci, 1.400 dipendenti e 75 sedi, compresa l’innovativa «Città dei libri», cioè gli 80 mila metri quadrati a Stradella (Pavia) dove per le aziende dell’editoria vengono movimentati più di 100 milioni di libri. L’amministrazione giudiziaria è una «misura di prevenzione» (fuori dal circuito penale) che il Tribunale può adottare quando abbia «sufficienti indizi» per ritenere che il libero esercizio di un’attività d’impresa agevoli colposamente un reato, come in questo caso l’intermediazione illecita e lo sfruttamento di manodopera. Nel caso di Ceva Logistic, il pm milanese Paolo Storari (anche sulla base di un processo di Pavia) ha lavorato sull’interposizione di numerose filiere di cooperative legate tra loro da una serie di contratti a cascata, benché l’utilizzatore finale Ceva avesse un solo contratto e un solo interlocutore: la Premium Net, società consortile di lavoro in outsourcing, che in Italia fa lavorare 10.000 persone e che «tra i propri clienti» ha anche «Tim, Wind, Johnson&Johnson, Buffetti, Lavazza, Daikin, Henkel, Rcs, Il Sole 24 Ore e altri». Nel 2016 Premium Net ha fatturato a Ceva 26 milioni di euro, nel 2017 oltre 47 milioni. E i magistrati elencano gli elementi dai quali traggono la convinzione che Ceva fosse «consapevole che Premium Net offriva ai propri clienti prezzi molto al di sotto di quelli necessari a coprire soltanto i costi diretti delle stesse commesse, risultando quindi “obbligata” ad abbassare i “costi reali” della componente lavoro molto al di sotto di quella scaturente dalla corretta applicazione del contratto collettivo nazionale». Che da parte di Ceva vi sia stata «assenza di necessaria vigilanza» o «atteggiamento di condivisione o quantomeno di quiescenza ad una situazione pacificamente preventivata», comunque questo far finta di niente è stato molto profittevole ad avviso dei magistrati, che calcolano come la corretta applicazione delle norme avrebbe fatto addebitare 22 milioni di costi in più ai clienti di Premium Net, specie per le commesse svolte nei confronti di Ceva, oltre al mancato guadagno. Ora il Tribunale «dentro» l’azienda opererà «affinché il sottile e a volte compresso binario di perseguimento del legittimo profitto nella legalità del lavoro non venga alterato univocamente a favore del profitto aziendale con la conseguente rilevante compressione della dignità dei lavoratori». 

·         Il dumping contrattuale.

Poveri con il lavoro, il muratore assunto come giardiniere: così un operaio guadagna (e viene pagato) il 30% in meno. Inservienti e badanti impiegati come muratore nei cantieri (compreso il ponte Morandi a Genova). Cosi il dumping contrattuale rende poveri gli operai - Antonio Crispino /Corriere Tv 14 maggio 2019.Un muratore dovrebbe guadagnare uno stipendio base di 1525 euro. Non proprio una miseria. Eppure, spesso è tra i lavoratori più poveri. Colpa del dumping contrattuale che coinvolge 150 mila lavoratori del settore. Significa che l’imprenditore fa lavorare l’operaio in cantiere come edile ma gli applica un contratto diverso, ad esempio quello per colf/badante, giardiniere o metalmeccanico. Tutte tipologie di contratto che prevedono uno stipendio base più basso. Il taglio in busta paga arriva al 30% poiché il datore di lavoro risparmia: sulla cassa edile, sui sei euro previsti per la mensa dell’operaio e i due euro per il trasporto, così come non paga le ore di formazione obbligatoria prima di entrare in cantiere (16 ore); non è tenuto a fornire assistenza logistica, ad esempio predisporre servizio mensa, bagni e spogliatoi. Così, succede che sui cantieri si vedono giardinieri che bucano il cemento con il martello pneumatico oppure badanti che manovrano una scavatrice per mille euro al mese. Tutto legale, o quasi. «Al Sud c’è il lavoro nero: zero contratti e pochi controlli. Al Nord, invece, hanno trovato quest’altro modo per evadere applicando tipologie contrattuali che non c’entrano nulla con il tipo di attività svolta» spiega Andrea Tafaria, segretario generale della Filca Cisl in Liguria. E il fenomeno non riguarda solo piccole imprese. «Interessa società che lavorano per Enel, Open Fiber, Ferrovie dello Stato e persino le ditte che si sono aggiudicate gli appalti per la demolizione del ponte Morandi». Proprio nel cantiere più noto d’Italia, gli operai fino a qualche settimana fa non lavoravano come muratori ma come metalmeccanici, trasportatori o addetti multiservizi. «Dopo la nostra denuncia c’è stato un immediato provvedimento del commissario per la ricostruzione Marco Bucci e, per il momento, le cose sembrano più regolari. Ma negli altri cantieri chi vigila?». Nel centro storico di Genova incontriamo un operaio albanese da tredici anni in Italia. E’ specializzato in impianti idraulici ma appena arriva sul cantiere prende il martello pneumatico e inizia a sgretolare muri. Ha un contratto da metalmeccanico (così come i suoi quattro colleghi) e non dovrebbe farlo. E’ stato costretto a firmare, nel senso che per richiedere la cittadinanza italiana aveva bisogno di un contratto a tempo indeterminato. Il titolare dell’impresa lo sapeva, ne ha approfittato. «Io ti offro il contratto che ti serve e tu firmi per una paga da metalmeccanico invece che da muratore» gli ha detto, ha accettato. In Liguria quasi il 40% dei muratori è straniero. Sono in maggioranza rumeni, albanesi ed ecuadoregni. Poi c’è una grande fetta di calabresi (soprattutto minatori) e siciliani trasferiti al Nord, ormai alla seconda generazione. Umberto Giannini, altro operaio specializzato, vive a Carrara e si sposta per lavorare. Ha 53 anni. I colleghi lo definiscono il numero dieci del settore. Sia perché è molto professionale che per la parentela (cugino) con l’ex numero dieci e capitano della Roma Giuseppe Giannini, «er principe». Il suo ultimo contratto è un capolavoro, una sorta di rovesciata in area di rigore del suo titolare per aggirare la marcatura del fisco. «Contratto a chiamata con qualifica da inserviente». Giannini, in effetti, faceva il capocantiere. Tutti i giorni sveglia presto e ritorno a casa al tramonto, mai saltato un giorno. Coordinava e gestiva gli altri operai. Ma sulla carta risultava l’ultimo arrivato, da chiamare ogni tanto, alla bisogna. In soldi si traduce in seicento euro in meno al mese. Perché si sia diffuso il dumping contrattuale lo spiegano i numeri dell’edilizia. Secondo i dati della Cisl, in Liguria, ad esempio, negli ultimi otto anni le imprese edili sono passate da 7558 a 3523 con una perdita di settemila posti di lavoro. «Paghiamo lo stallo delle grandi opere e un taglio di 93 milioni di euro nell’ultima finanziaria» motiva Andrea Tafaria mentre elenca i cantieri bloccati, almeno quelli più importanti: terzo valico, nodo ferroviario tra il porto di Genova e terzo valico, la Gronda (doveva partire ad ottobre 2018), la diga foranea, l’Aurelia bis, l’ospedale di Felettino (doveva partire nel 2014), il tratto savonese dell’Aurelia, il raddoppio della linea ferroviaria tra Andora e Finale Ligure, la pista ciclabile tra San Lorenzo al mare e Imperia (la più lunga d’Europa) e la trasformazione della caserma di Albenga in polo scolastico.

·         Il call center dei laureati con 110 e lode (che lavorano per 600 euro al mese).

QUALCUNO CI LIBERI DALLA PERSECUZIONE DEI CALL CENTER! Patrizia De Rubertis per “il Fatto Quotidiano” il 4 giugno 2019. Un passo in avanti che nei fatti si trasforma in un nuovo stop. Questa la parabola della nuova legge contro il telemarketing approvata un anno e mezzo fa ma che ancora non riesce a vietare le chiamate indesiderate a tutte le ore, di giorno e di notte, per estorcere contratti di cui non si hanno ben chiare informazioni, clausole e prezzi. Un martellamento da cui nessuno si salva e bollato dal garante delle Privacy come "molestia", visto che da anni insidia la vita degli italiani costretti a subire un marketing selvaggio e aggressivo senza poter fare nulla per impedirlo. L' Autorità che vigila sulla privacy ha, infatti, dato l' ok al nuovo regolamento del Registro pubblico delle opposizioni che consentirebbe a oltre 117 milioni di utenze telefoniche - numeri fissi e cellulari - di liberarsi dalle chiamate commerciali e dalla ricezione della posta cartacea indesiderate. Ma è un sì condizionato: il testo contiene diverse indicazioni pratiche, ma sostanziali, che il ministero dello Sviluppo economico deve apportare pena l' entrata in vigore di una rivoluzione che da anni si aspetta e che dovrebbe finalmente liberare gli italiani dall' assillo delle telefonate e consentire agli addetti ai call center di lavorare con le giuste tutele, uscendo fuori dal precariato e rilanciando un settore importante per la tenuta economica del Paese, alle prese però con aziende logorate da una guerra di prezzi che è andata a scapito della qualità del servizio e degli investimenti in innovazione. Per estendere la possibilità di iscrivere al Registro delle opposizioni anche i numeri di telefonia mobile e i numeri riservati, o non presenti negli elenchi telefonici pubblici, il Garante in primo luogo ritiene che sia necessario precisare ulteriormente che l' iscrizione al Registro comporta automaticamente l' opposizione a tutti i trattamenti a fini promozionali, da chiunque effettuati, con la revoca anche dei consensi manifestati in precedenza. Su questo specifico punto, l' Autorità chiede di eliminare ogni riferimento alle categorie merceologiche degli operatori che potrebbero generare dubbi interpretativi e alimentare il contenzioso. Si potrebbe infatti dire "no" al telemarketing delle società di luce e gas e acconsentire a quelle di telefonia. La richiesta è anche di valutare l' opportunità che nel Registro possano confluire tutti gli indirizzi postali indicati dai contraenti, anche quelli non presenti negli elenchi telefonici. Poi, per rendere più esplicito l' obbligo della norma ed evitare comportamenti non corretti, il Garante suggerisce al Mise di prevedere in caso di illeciti, una responsabilità della società "non derogabile contrattualmente in concorso o in solido" con i call center che hanno effettuato e gestito la chiamata promozionale. Una strada dell' inferno lastricata di buone intenzioni e che, soprattutto, dilata ancora di più i tempi di attuazione del Registro. Il regolamento contro il telemarketing selvaggio deve, infatti, essere riscritto per ottenere l' ok dal Garante e poi va inviato al Mise che lo trasmetterà al Consiglio dei ministri per l' approvazione definitiva, calcolando che fino ad ora il testo è già stato visionato dall' Agcom e dalle commissioni Lavori pubblici di Senato e Camera che lo hanno approvato. Poi, una volta approvato, il testo va trasmesso alla Fondazione Bordoni, che su incarico del ministero dello Sviluppo economico gestisce il Registro delle opposizioni, affinché riorganizzi la gestione delle iscrizioni. Insomma, un iter che in termini di tempo significa almeno un altro anno. Nel frattempo anche l' altra novità entrata in vigore a inizio maggio è praticamente azzoppata: la possibilità di iscrivere al Registro anche gli indirizzi postali (con l' eccezione dei volantini che non sono intestati e che continueranno ad arrivare) è possibile solo per chi è già iscritto al Registro, vale a dire 1.539.070 persone. Un' arma ovviamente spuntata che ha fatto aumentare le violazioni amministrative contestate dal garante della Privacy: nel 2018 sono state 707, per lo più concernenti il trattamento illecito di dati e il telemarketing, e hanno fatto incassare oltre 8 milioni 160 mila euro, circa il 115% in più rispetto all' anno precedente. L' ultima sanzione, in ordine di tempo, è stata inflitta l' altro ieri: si tratta di una multa di 2.018.000 euro ad una società che aveva svolto, tramite un call center albanese, attività di telemarketing e teleselling per conto di una azienda del settore energetico. La Guardia di finanza, a seguito di un' ispezione, aveva accertato che la società, oltre a non aver reso alcuna informativa alle persone contattate, non aveva richiesto come previsto il consenso al trattamento dei dati personali per finalità di marketing.

Il call center dei laureati con 110 e lode (che lavorano per 600 euro al mese). Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Antonio Crispino su Corriere.it. Eliana è una delle fortunate. A fine mese riesce a portare a casa quasi 900 euro per sei ore lavorative spalmate su cinque giorni alla settimana. La fortuna, però, non le deriva dal tipo di contratto che è riuscita a strappare all’azienda (un part time a sei ore) ma dal lavoro del marito Paolo, comandante di navi mercantili. «Guadagna bene anche se non lo vedo per mesi interi perché è sempre in navigazione». Eliana ha dimenticato da tempo la sua laurea in Giurisprudenza (non è nemmeno andata all’Università a ritirare il diploma) e una tesi sui paradisi fiscali che paventava ben altri impieghi. Il titolo era impegnativo: «La doppia imposizione internazionale». Per dieci anni Eliana ha fatto l’avvocato sulla scia dei suoi 30 e lode in Diritto Penale e Diritto Amministrativo, cercando di barcamenarsi tra i 23mila legali siculi (la Sicilia è la quarta regione per numero di avvocati in Italia): «Indipendentemente da quello che guadagnavo avevo circa quattromila euro di spese per la Cassa Forense, non ce la facevo». Nel 2001 vede un annuncio della Wind in cerca di operatori telefonici. «Con me c’era il meglio della gioventù palermitana, tutti laureati, con lode. E davanti a un bivio: lavorare in un call center o andare via da Palermo. Scelta difficile per chi come me nel frattempo aveva creato una famiglia». Oggi Eliana fa anche la rappresentante sindacale, conosce bene la situazione dei suoi colleghi, compresi quelli che vivono solo di quello stipendio. «Ad Almaviva c’è il ”lavoro povero”, persone che vivono alle soglie della povertà pur lavorando. Il dramma è che l’azienda attualmente occupa 2670 persone solo a Palermo (in tutta la Sicilia ne sono circa 15mila) che fuori da lì non avrebbero alcuna prospettiva». Hanno una preparazione medio-alta, con almeno un diploma, mentre il 20% è classificato come «iperqualificato», ossia con una preparazione superiore a quella necessaria. La maggior parte (1750) sono donne. I turni di servizio dipendono dalle ore previste dal contratto, le turnazioni iniziano alle 7,00 e finiscono alle 23,00. A farci una panoramica della situazione troviamo Michelangelo, è il team leader dell’azienda, quello a cui si rivolgono gli operatori quando hanno un problema, la cerniera di collegamento tra lavoratori e azienda. E’ laureato in Geologia. «All’inizio, dopo l« laurea, credevo di avere buone prospettive, ero pur sempre nel paese con un importante dissesto idrogeologico. Aprii la partita iva e uno studio a Palermo ma presto mi resi conto che alla nostra classe politica del dissesto idrogeologico non importa proprio nulla. Davanti a una frana trovavo gente che risolveva il problema costruendo varianti invece che intervenire sul versante pericolante. Considerano il lavoro del geologo un costo da tagliare. Ecco perché a un certo punto ho dovuto guardarmi attorno. Ho colleghi che si sono trasferiti in Brasile e negli Emirati Arabi pur di fare il lavoro per il quale avevano studiato. Per me, a 49 anni, le offerte di lavoro erano scarsissime, non avevo molte altre opportunità». Ci indica i laureati in Giurisprudenza, Psicologia, Architettura, Ingegneria, Economia seduti qua e là tra i banchi del call center. A leggere i curriculum sembrerebbe di stare nella sede di un ministero. Invece li senti parlare di tariffe, ricariche, rimborsi, sms e codici promozionali. Chiara prima di entrare ad Almaviva lavorava per le case famiglia del Comune di Palermo. Ma a fine mese si trovava il conto corrente a secco a causa dei ritardi nei pagamenti del Comune. «A volte anche dopo un anno. Avendo quattro figli non potevo permettermi di aspettare così a lungo. Ho dovuto rinunciare al mio lavoro e optare per chi mi garantiva il diritto a una retribuzione mensile, le ferie e la maternità». Nella tasca di Chiara c’era già un biglietto di sola andata per Bologna. «Lì avevo mia cugina e più proposte di lavoro compatibili con la mia laurea. Ricevetti la telefonata di Almaviva il giorno prima del mio trasferimento al Nord». Le sono bastati 800 euro garantiti in busta paga per restare al Sud. L’età media dei dipendenti è di 42 anni ma hanno già molti anni di contribuzione alle spalle. Maria ha iniziato a diciott’anni ed è al diciottesimo anno da operatrice telefonica. «E’ iniziato come un gioco. Poi sul mio stipendio abbiamo costruito una famiglia ed è diventato indispensabile», racconta sorridente. Il rendimento di ogni operatore telefonico viene conteggiato su un tabellone al centro dell’open space dove vengono aggiornati costantemente «Tempo di servizio, Inefficienza, Giudizio complessivo, Cortesia e Professionalità». Quello di Marta, seduta accanto a una finestra che affaccia sul quartiere bene di Palermo, è un livello di efficienza molto alto. Riesce a rispondere anche a cento chiamate in quattro ore, sempre con grande cortesia e mantenendo la calma anche di fronte all’insistenza di una moglie sospettosa che pretende di conoscere il traffico telefonico del marito. Marta mette a frutto la sua esperienza precedente nella Croce Rossa quando i suoi «clienti» erano tossicodipendenti e vittime della tratta della prostituzione. E’ laureata in Psicologia clinica con 110 e lode. Il suo stipendio è di seicento euro mensili, quando va bene arriva a 650. Ci spiega che è l’unico introito familiare da quando il ministero delle Pari Opportunità ha deciso di non rinnovare il contratto con la Croce Rossa e lei si è trovata disoccupata. «Mia madre pianse quando seppe che firmai per Almaviva, non certo per l’azienda, ma perché sapeva che in cambio di questo mezzo pezzo di pane non avrei più cercato il mio lavoro, e così è stato. Ho avuto l’umiltà di ricominciare dal basso pur di lavorare, tra dieci anni spero di non stare ancora in cuffia». In questo momento Almaviva è un’azienda in difficoltà, i lavoratori sono in ammortizzatore sociale. Le aspettative di Marta le stronca Eliana che da alcuni anni segue le politiche aziendali per la Cisl. «Le prospettive di carriera sono dello 0,00 qualcosa. Non ci sono possibilità nemmeno di un aumento delle ore, figuriamoci passaggi di ruolo. L’azienda sta operando una riduzione dei costi e non ha interesse a far crescere le figure professionali. Senza contare che anche quando vince un appalto non ci sono volumi garantiti, è come se vincesse una scatola vuota e quel vuoto per noi si traduce in ulteriore senso di precarietà».

Minacce, pressioni e voucher: ecco come lavorano gli schiavi dei call center. E' un settore che occupa circa 80mila persone in Italia. Ma, mentre aumentano i licenziamenti, i lavoratori sono sempre più in balia delle aziende. Tra delocalizzazioni, paghe da fame, gare al ribasso. E hot line camuffate da servizi informativi, scrive Arianna Giunti il 17 marzo 2016 su L'Espresso. Orario di lavoro continuato - 8 ore al giorno per sei giorni su sette - fatto passare per una collaborazione occasionale pagata in voucher. Periodo di prova non retribuito con tanto di corso di formazione obbligatorio “perché l’azienda ha deciso di investire su di te”. Giornate trascorse al telefono (utilizzando il tuo cellulare privato) a procacciare clienti per conto di una società che però - se non riesci a concludere l’affare - non ti verserà neppure un euro. Infine potenziali datori di lavoro alla ricerca di personale femminile per non meglio precisate linee amiche che ti propongono collaborazioni solo a patto che tu sia “disinibita”. In poche parole: prostituzione telefonica retribuita 0,14 centesimi al minuto. Lasciate ogni speranza, voi che entrate. Fra contratti ai limiti dell’illecito, escamotage per pagare di meno i dipendenti, lavoro nero, stipendi da fame e pressioni psicologiche il mondo dei call center continua a essere un far west delle regole. In queste telefonate, la nostra giornalista ha contattato per avere informazioni alcune società che offrono lavoro come operatore di call center. E certo ci saranno pure aziende oneste e stipendi dignitosi, da qualche parte. Non lo dubitiamo. Ma perdersi in questa selva oscura di illegalità per chi cerca lavoro nel settore purtroppo sembra essere la norma e non l’eccezione. L’Espresso ha provato a verificare di persona, rispondendo a decine di annunci di società che sono alla ricerca di personale da impiegare nei call center outbound (ovvero con chiamate in uscita) e inbound(in entrata) in tutta Italia. Quasi tutti sono pubblicati sul web attraverso i più popolari portali di ricerca lavoro. Il risultato è stato avvilente. A confermare il panorama sempre più nero è la Cgil: su 80mila lavoratori italiani impiegati nel settore, dal 2011 a oggi si sono già contati quasi 10mila licenziamenti mentre altre 12mila persone rischierebbero il posto di lavoro entro il primo semestre del 2016. Sotto osservazione ci sono in particolare i lavoratori del colosso Almaviva Contact, che conta 4mila lavoratori nelle due sedi palermitane e 1.500 in quella di Roma.

DUE EURO L’ORA. Qualcuno li ha ribattezzati i “braccianti del terzo millennio”. E la definizione non si discosta di molto dalla realtà. Fa sapere Riccardo Saccone della Slc Cgil: “La retribuzione media di un operatore di call center per un part time da 20 ore settimanali è di 500/600 euro al mese. Si aggira intorno ai 700/900 euro invece lo stipendio di un impiegato che lavora 35 ore a settimana. Mentre un full time con circa 10 anni di anzianità non riesce quasi mai a superare i 1.200 euro al mese”. Quasi tutti i rapporti lavorativi, poi, vengono stipulati al di fuori del contratto collettivo di telecomunicazione. Per telefono alcune di queste società ci spiegano molto chiaramente che prima di iniziare a percepire un fisso mensile (che non supererebbe mai i 600 euro per quasi otto ore di lavoro al giorno) si dovrà affrontare un periodo di prova non retribuito. Il miraggio che viene fatto intravedere ai lavoratori è che potranno poi ottenere una provvigione per ogni contratto fatto sottoscrivere ai clienti. In realtà, vista la diffidenza sempre maggiore nei confronti di chi riceve le chiamate dai call center, riuscirci diventa davvero difficile. E così l’operatore si ritrova a doversi accontentare dell’esiguo fisso mensile. E a dover subire pressioni psicologiche e minacce di licenziamento per non essere riuscito a raggiungere il goal prefissato dall’azienda. Anche perché poi, spesso, per pagare di meno si può sempre ricorrere a qualche trucco. Conferma Andrea Lumino della Slc Cgil Taranto, che per la sua battaglia quotidiana contro il far west dei call center si è ritrovato a ricevere intimidazioni e minacce: “Esiste un’azienda che lavora per un committente nazionale di telefonia i cui lavoratori vengono pagati 5 euro lordi all’ora solo se raggiungono l’obiettivo di produzione stabilito dall’azienda: un contratto ogni 14 ore. Se non ce la fanno, la loro paga scende a 2,5 euro l’ora”.

“TI PAGO IN VOUCHER”. Una delle proposte più diffuse, da parte delle società di call center, è quella di pagare con i voucher, i buoni usati per retribuire prestazioni lavorative occasionali. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che il lavoro di cui stiamo parlando è un impiego continuativo. Con tanto di orario d’ufficio dalle 9 del mattino alle 19 di sera, sei giorni su sette. “Ormai fanno tutti così per tutte le professioni, perché è più pratico e veloce”, ci spiega il titolare di una società alla ricerca di telefonisti. In effetti i dati ufficiali sembrano dargli ragione, come riportato anche da un’inchiesta de l’Espresso: nei primi sei mesi del 2015 sono stati attivati oltre 49 milioni di tagliandi con un aumento del 74,7% rispetto all’anno precedente. Tanto che il presidente dell’Inps Tito Boeri mesi fa aveva lanciato l’allarme: “I voucher rischiano di diventare la nuova frontiera del precariato”. Il ritornello che ripetono con parlantina sciolta i reclutatori dei call center è infatti sempre lo stesso: “Dobbiamo vedere strada facendo se ci troviamo bene con lei, prima eventualmente di assumerla”. Peccato che questo rischi di diventare il classico gioco del bastone e della carota. Dove la carota rimane irraggiungibile.

GARA AL RIBASSO. Uno dei problemi principali più attuali e allarmanti – sottolinea la Cgil – è quello delle delocalizzazioni e degli appalti (e sub appalti) al ribasso. Il sindacato denuncia in particolare il mancato rispetto della clausola sociale contenuta nel “ddl Appalti” approvato dal Parlamento. E cita l’esempio emblematico di Poste Italiane ed Enel, aziende controllate dallo Stato italiano che, assegnando le attività di call center a “esterni”, sceglierebbero in base al prezzo più economico, alimentando “un business di aziende incontrollate e spregiudicate”. Secondo la Cgil, le aziende Gepin Contract e Uptime che da anni gestiscono i call center di Poste Italiane avrebbero infatti già iniziato le procedure di licenziamento per quasi 500 addetti ai call center fra Roma e Napoli. L’appalto se lo sarebbero aggiudicato altre imprese dai prezzi ancora più competitivi. Del resto, il decreto appalti lo permette: chi propone il prezzo più basso si accaparra il lavoro. Mentre la clausola sociale che impone a chi vince l’appalto di non licenziare i vecchi operatori garantendo la continuità lavorativa sarebbe del tutto ignorata. “Se passa il messaggio che due aziende controllate dallo Stato possono assegnare attività di call center senza rispettare le clausole sociali – si chiede il sindacalista Massimo Cestaro – perché mai dovrebbero farlo quelle private?”. Totalmente disattesa, quindi, secondo il sindacato sarebbe anche la norma (articolo 24 bis della legge 134/2012) sulle delocalizzazioni. Moltissimi call center hanno traslocato in Paesi con costi del lavoro bassissimi e dove non esiste garanzia per il trattamento dei dati personali e sensibili.

CALL CENTER FANTASMA. E poi c’è un ulteriore aspetto difficile da monitorare: quello dei call center fantasma. Si tratta di aziende improvvisate a gestione familiare o addirittura individuale, senza indirizzi fisici ufficiali per non essere individuati in caso di denunce. Gli operatori dei call center si ritrovano a svolgere il proprio lavoro in garage e sottoscala senza database o computer. Il più delle volte ai dipendenti viene chiesto di usare i cellulari privati con la promessa di rimborsare i costi delle chiamate in uscita. Queste società durano una manciata di mesi, il tempo di svolgere il lavoro assegnato dai committenti. Sfruttano al massimo i telefonisti e quindi scompaiono nel nulla come fantasmi per poi riaprire da un’altra parte con un nuovo nome. Di casi di questo genere, solo in Puglia, ne sono stati segnalati cinquanta solo nell’ultimo anno e mezzo. I pochi dipendenti che hanno trovato la forza di denunciare (perlopiù in forma anonima) raccontano un microcosmo di terrore fatto di minuti cronometrati anche per andare in bagno, divieto di socializzare fra colleghi, mobbing, minacce e violenza psicologica verso chi avanza il più basilare dei diritti: essere pagati per il lavoro svolto. E’ a Taranto, in particolare, che si riscontra la presenza più preoccupante di call center fuorilegge. “E’ lì che hanno trovato impiego molte delle mogli dei lavoratori dell’Ilva, rimasti senza lavoro”, spiega ancora il sindacalista Andrea Lumino. Ed è sempre lì che si consumerebbero quotidiane ingiustizie. Come la società che lavora per una delle più grandi compagnie telefoniche italiane che avrebbe alle sue dipendenze collaboratori a progetto ai quali nega di avere una copia del proprio contratto. O come la società –pure quella al servizio di un grosso gruppo telefonico – che versa ai dipendenti un regolare stipendio ma che, dopo l’accredito, pretende che loro restituiscano all’azienda la metà del compenso. “Una tangente per continuare a lavorare”, taglia corto Lumino.

CHIAMATE “CALDE”. Ancora più impenetrabile è il mondo dei call center che invitano a svolgere l’attività “dal proprio domicilio” per servizi “inbound”, ovvero di chiamate in entrata. Offerte di questo tipo, sul web, abbondano. Il più delle volte le società precisano che al dipendente verrà passata la telefonata del cliente direttamente sul proprio telefono di casa, tramite un centralino. Le tariffe, per chi chiama, sono ovviamente con lo scatto al minuto. E quindi l’operatore del call center verrà retribuito in base alla quantità di minuti (o secondi) in cui riuscirà a trattenere al telefono chi chiama per le informazioni. Questi annunci, che ricercano principalmente personale femminile, si rivelano però a volte “hot line” ben camuffate. Per ottenere più velocemente l’autorizzazione a operare – conferma la Polizia Postale – le società producono infatti molto spesso false dichiarazioni affermando che i servizi erogati sono “di puro carattere informativo”. Ce lo spiega chiaramente la titolare di una di queste società, che ci propone una collaborazione con una non meglio precisata “linea amica”: “Noi stiamo fornendo un servizio di informazioni, ufficialmente”. Ufficiosamente, però, si tratta di tutt’altro. “Quando chiamano gli uomini deve essere disinibita, si possono creare situazioni di intimità…devo spiegarle altro?”. Ma se l’atteggiamento è ambiguo, le regole sono ferree: la dipendente deve garantire la propria disponibilità per sette ore al giorno sei giorni su sette. La sua voce vale 0,14 centesimi al minuto. Insomma, cambia l’oggetto di vendita – se così lo vogliamo definire – ma non lo sfruttamento selvaggio e la retribuzione umiliante.

·         Il Caporalato dei supermercati.

«Mobbing, violenze e infine la malattia: in quel supermercato i miei cinque anni dell'orrore». Una lavoratrice della Lidl ha portato sul banco degli imputati il suo ex caporeparto accusato di averle provocato con sadici e sistematici atteggiamenti persecutori il disturbo da panico. «Come finirà? Non lo so, ma la mia è una lotta simbolica in nome dei tanti che subiscono sopraffazioni ma non trovano il coraggio di ribellarsi», scrive Maurizio Di Fazio il 15 aprile 2019 su L'Espresso. «Era il luglio del 2005. Inizialmente le cose sembravano andare bene. Ma nel 2006 arrivò il nuovo caporeparto, e con lui la mia discesa negli inferi». Mansioni massacranti svolte di norma dagli uomini, l'obbligo di 39 ore di straordinario in una settimana, senza turni di riposo, sette giorni su sette. Poi lo stalking telefonico e una spirale senza fine di offese. Una storia di sopraffazioni e violenze psicologiche e fisiche, di mobbing, omofobia, e di mancato rispetto di ogni minimo standard di sicurezza e umanità. Questa è la denuncia presentata contro la Lidl da Sara Silvestrini, una quarantenne di Lugo (Emilia-Romagna) che ha lavorato in un supermercato italiano del colosso tedesco degli hard discount dal 2005 al 2015, fino al suo licenziamento «per giusta causa», per di più arrivato «a pochi giorni dalla festa per il decennale del mio magazzino, che coincideva con i miei dieci anni di servizio. Un’umiliazione doppia». Si è aperto al tribunale di Ravenna un processo che vede sul banco degli imputati soprattutto il suo ex caporeparto: per lui, l’accusa è di aver provocato alla donna (con ingegnosi, sadici e sistematici atteggiamenti persecutori) una malattia professionale, il disturbo da panico. È stato il reparto di Medicina del lavoro dell’azienda ospedaliera universitaria di Verona a diagnosticarle un «disturbo post traumatico da stress cronico reattivo a una condizione lavorativa che può essere inquadrata nelle molestie morali protratte». Rischiano pene meno lunghe altre tre figure: il procuratore speciale, il coordinatore regionale e il coordinatore regionale logistica. Per loro, il reato contestato è di non aver impedito il modus operandi del caporeparto né dato tantomeno spazio a una valutazione del rischio dello stress lavoro-correlato, come da obblighi di legge. La donna, che è riuscita a costituirsi parte civile, possiede diverse registrazioni ambientali e telefoniche che suffragano il suo racconto-shock. Anche la sua compagna Federica, che si è sentita danneggiata dai problemi di salute della convivente, è parte civile al processo, ed è una delle primissime volte che capita una cosa del genere nella penisola. Da quella maledetta estate del 2015 la strada è stata per loro, tutta in salita. «Abbiamo cercato di avviare un'attività, una paninoteca itinerante, ma è durata poco, per gli strascichi psicologici del mio incubo in Lidl». Quello che Sara Silvestrini affida a L'Espresso è un racconto dell’orrore. Su cui Lidl Italia non vuole esprimersi: «Siamo fiduciosi nell'operato della magistratura e convinti che, all'esito del dibattimento, sarà fatta luce sulle vicende che coinvolgono le persone interessate. Il rispetto nei confronti del tribunale, nonché l'esigenza di tutelare la riservatezza dei nostri collaboratori ed ex collaboratori ci impone dunque di mantenere il massimo riserbo sulla vicenda giudiziaria».

L’assunzione e le prime angherie. «Vengo assunta nel luglio del 2005. Inizialmente, le cose vanno bene. Ma nel 2006 arriva il nuovo caporeparto e, con lui, la mia discesa negli abissi. Il suo primo atto è di assegnarmi la gestione esclusiva del cosiddetto reparto Sidac, che non era certo prevista dal mio contratto. Le mansioni di questo lavoro sono svolte prevalentemente dagli uomini, e non certo in solitaria: devo preparare gli ordini per le filiali e provvedere allo smistamento del materiale quando rientra in magazzino. Una faticaccia. Mi occupo di tutto questo fino al 2007, quando inizio a non sentirmi più in forze. Il caporeparto mi vieta, inoltre, l'utilizzo del computer e del telefono. Mi tocca così scriverla in carta semplice la gran quantità di ordini preparati e smistati: saranno altri a trascriverli su un foglio Excel. Il mio aguzzino mi costringe poi a 39 ore di straordinario in una settimana, e comincia a farmi lavorare la domenica, senza turni di riposo, sette giorni su sette».

Lo stalking telefonico. «Sono tenuta a contattarlo ogni mattina, a inizio turno, per essere puntualmente stigmatizzata sulle presunte mancanze del giorno prima. Ricevo insulti sempre sproporzionati rispetto ai miei errori, quando ci sono. Mi apostrofa con espressioni come «non serve bagnarti le mutande», «sei un’esperta di banane, non di logistica», «culo sulla sedia», «essere non pensante». Mi telefona di continuo, anche quando non lavoro e sono a casa, per qualsiasi inezia gli passi per la testa. Mi invita a essere “gentile” coi camionisti pur conoscendo la mia omosessalità».

Aumentano le offese. «Un pomeriggio mi chiama all’improvviso e comincia a inveire in modo terribile contro di me, affermando tra l'altro che «mi stavo scavando la fossa» e che ero una «povera incapace, inutile». A quel punto ho una crisi nervosa, e scoppio a piangere davanti a tutti. Non riesco più a parlare, tremo e balbetto solamente, mi sento stordita. Quando vengo promossa (con uno scatto virtuale) al terzo livello, il mio capo sostiene che la mia nuova qualifica è «una diarrea sul bancone dell'uscita merci». Un giorno mi fa: «Sei come un malato di tumore: tutti, intorno a lui, sanno che sta male, tranne lui stesso». E aggiunge: «è come se tu avessi il cartello “stronza” attaccato alla schiena». Mi confida: «In passato avrei voluto strozzarti». Ora la voce di Sara Silvestrini si spezza. Troppo oscura, ribollente, tossica la materia dei ricordi manipolati. Non molto difforme dai racconti che rimbalzano nel confessionale pubblico ma segretissimo del gruppo Facebook «Sei lideliano se…», che conta quasi 8 mila iscritti, tutti con la livrea giallo, rosso e blu, i colori sociali del brand, nella vita reale. Strano però che ad amministrare la pagina sia un ex delegato sindacale interno, da qualche tempo passato dall’altra parte della barricata visto che è stato precettato dalla Lidl. Le maestranze in modalità online lamentano anche che «ci sono giornate in cui il lavoro si accumula in modo inesorabile (lo scarico del camion, il “controllo freschi”, gli sconti da applicare alla carne in scadenza, gli allestimenti, le pulizie eccetera), e allora monterebbe la politica del cosiddetto “taglia-taglia” ore». In soldoni, per tenere il ritmo di standard di produttività sempre più elevati, fissati di giorno in giorno, i lavoratori sarebbero costretti a proseguire il turno anche dopo aver timbrato il cartellino di uscita. Lavorando, di fatto, gratis. Sara annuisce. Si fa forza, e continua a ripescare i suoi frammenti di un discorso doloroso.

Lo schiavismo. «Arriva un periodo di nera angoscia, uno dei più brutti della mia vita. Mi mette a pulire i muletti, un’attività che lo stesso personale competente (gli addetti alle pulizie) effettua saltuariamente, per lo più una volta al mese. E lui trova il coraggio di accusarmi di aver consumato trope bobine di carta, e troppo prodotto. Avviene un episodio strano: mi sbatte a tutta velocità col suo muletto, a magazzino vuoto, mentre sto ferma. Sfodera uno sguardo minaccioso, non si scusa nemmeno».

Le lettere di richiamo natalizie. «Vengo rimessa a fare il turno di notte. Nel dicembre del 2013 mi giungono due lettere di richiamo, una dietro l'altra, che riguardano un errore effettivamente commesso da me, ma non per negligenza. In quel periodo sono stanchissima, i turni notturni sono diventati molto pesanti, verso una certa ora mi si appannano la vista e la schiena. La prima lettera mi è recapitata a mano: passano apposta in magazzino alle dieci di sera per comunicarmi la lieta novella, insieme alla scatola col regalo di Natale. Sono sempre più triste, mi sento perseguitata, rinuncio a difendermi».

La diagnosi e la speranza. «Mi rivolgo allora al centro di salute mentale della mia città. Il mio avvocato invia alla Lidl una lettera stragiudiziale in cui l’invita a cessare il fuoco delle vessazioni e delle umiliazioni nei miei confronti. Comincio ad assumere antidepressivi. Torno al lavoro, ma la situazione degenera. Il caporeparto mi dà delle spinte quando sono seduta nella mia postazione, stringendomi contro il pannello del box “uscita merci”. Un giorno me lo ritrovo di fronte tutto rosso in viso, talmente sovreccitato che sputa mentre parla. Mi strattona per la camicia e strilla: "Bisogna alzarsi dalla sedia e prendere la gente per il collo se non otteniamo nulla telefonando". La depressione aumenta. La mia compagna si preoccupa, cerca di non lasciarmi più sola, teme che possa suicidarmi. Spero che adesso questo processo ristabilisca la giustizia. Ogni notte ho incubi tremendi, duraturi e realistici, e riguardano tutti la Lidl. Dormo poco, mi sveglio di soprassalto. Dopo tutto quello che ho dato a quest’azienda. L’umanità non si svende». Lei si chiama Federica Chiarentini, e confessa a L'Espresso: «Sara ha subito un mobbing molto pesante. Con un atteggiamento persecutorio e aggressivo, lettere di richiamo del tutto pretestuose, fino all’ingiusto licenziamento finale. Trovo assurdo che un gigante come Lidl permetta che venga tutelato chi vessa, è violento e crea disturbi in azienda, anziché una lavoratrice come lei sempre operosa e in prima linea. Assurdo che venga protetto e premiato il carnefice, e non la vittima delle sue molestie». Nessuno l’ha più cercata Sara Silvestrini. Nessuna lettera dal quartier generale in provincia di Verona, nessun invito a cena dagli ex colleghi. «Come finirà? Non lo so, ma la mia è una lotta simbolica e universale, nel nome dei tanti che subiscono sopraffazioni ma non trovano il coraggio di ribellarsi a un Moloch di queste dimensioni».

·         Il caporalato dei sindacati.

"A Babbo Natale chiedo 4mila disoccupati". Così i migranti vengono obbligati a iscriversi ai sindacati. Stranieri portati nei campi su pulmini sovraffollati e costretti a lavorare per 12 ore in cambio di un salario da fame. In manette anche i sindacalisti, scrive Sergio Rame, Giovedì 17/01/2019, su "Il Giornale". "A Babbo Natale ho chiesto... 4.000 disoccupazioni e un gatto...". È quanto scrive in un messaggio, inviato durante le festività natalizie, il segretario generale provinciale della Fai Cisl Marco Vaccaro a un altro segretario dello stesso sindacato. L'operazione contro il caporalato condotta a Latina è un vero e proprio terremoto. L'inchiesta ha infatti messo a nudo il modo in cui gli immigrati (sfruttati) venivano costretti a iscriversi al sindacato. Così facendo il sindacato percepiva, non solo le quote di iscrizione ma anche ulteriori introiti economici connessi alla trattazione delle pratiche finalizzate a ottenere le indennità di disoccupazione. Gli immigrati venivano portati nei campi su pulmini sovraffollati. A bordo non c'era il benché minimo sistema di sicurezza. Una volta arrivati sul posto di lavoro, erano costretti ad andare avanti per dodici ore. Il tutto in cambio di un salario da fame. Gli agenti della Squadra mobile di Latina e del Servizio centrale operativo hanno scoperto e disarticolato una rete di caporali che, grazie a un sistema di protezione e collusione, favoriva lo sfruttamento di centinaia di centrafricani e romeni. In manette sono finite sei persone, compresi un sindacalista di Latina e un ispettore del lavoro, ritenuti responsabili di "associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento del lavoro, all'estorsione, all'autoriciclaggio, alla corruzione e ai reati tributari". Gli arrestati usavano una cooperativa con sede a Sezze per distribuire illecitamente la manodopera a centinaia di azienda agricole committenti. "Erano arrivati a monopolizzare il settore nelle provincie di Latina, Roma, Frosinone e Viterbo", fanno sapere gli inquirenti che, al termine delle indagini hanno messo sotto indagine una cinquantina di persone tra imprenditori agricoli, commercialisti, funzionari e sindacalisti che ora sono accusati di non aver vigilato sulla legalità e tutelato i lavoratori. Gli immigrati erano costretti a sottostare a "regole disumane", senza che fosse garantito loro alcun diritto. Non solo. Venivano anche obbligati a iscriversi al sindacato dietro la minaccia del licenziamento. "In questo modo - spiegano gli investigatori - l'organizzazione percepiva non solo le quote di iscrizione, ma anche gli introiti connessi alle pratiche per ottenere le indennità di disoccupazione". I controlli, avviati alla fine del 2017 dopo l'operazione "Freedom", hanno portato alla luce "folti gruppi di stranieri" in attesa dei mezzi per essere trasportati nei campi (guarda il video). I lavoratori provenivano anche dai centri di accoglienza straordinaria ed erano in attesa del riconoscimento della protezione internazionale.  Migranti costretti a lavorare in condizioni disumane, sgominata organizzazione criminale a Latina.

·         Lo sfruttamento delle badanti.

 “SINDROME ITALIA”, ECCO IL DISTURBO CHE COLPISCE LE BADANTI STRANIERE NEL NOSTRO PAESE. Oltre 800.000 persone lavorano come badante in Italia con regolare contratto e molte di esse accusano gli effetti del troppo lavoro, della distanza da casa e della solitudine. A cura di Beatrice Raso 26 Febbraio 2019 meteoweb.eu. In una piccola stanza del Socola Psychiatric Institute di Iasi, la più grande struttura psichiatrica in Romania, Ana (nome fittizio) riceve la diagnosi di depressione. I dottori riportano che soffre di “Sindrome Italia”, definizione utilizzata in Romania per i problemi di salute mentale accusati dopo aver lavorato come badante in Italia. “Avevo paura di fare le scale. Quando dovevo attraversare la strada, avevo paura e chiedevo: “Per favore, potete aiutarmi?”. Era la paura di uscire da sola”, racconta Ana, oggi 63 anni, che ha lasciato la Romania nel 2003 per venire in Italia. È stata una decisione difficile quella di lasciare i suoi figli, uno dei quali aveva solo 2 anni quando è andata via, ma era l’unico modo per guadagnare qualche soldo. I bambini sono stati cresciuti dal padre grazie ai soldi che Ana inviava a casa. “Pesavo 58kg. Dopo due mesi, ne pesavo 48. Non riuscivo a dormire durante la notte. Era un duro lavoro, ma non dicevo nulla”, ha aggiunto. Poiché in Italia era da sola, Ana non usciva mai nelle sue ore libere. Intanto in Romania, il marito spendeva i soldi che lei inviava, quindi alla fine Ana ha scelto di affidare la responsabilità finanziaria alla sorella e di divorziare. Dopo 15 anni, Ana è tornata in Romania, incapace di sostenere ancora la vita in Italia. Tania Carnuta ha lavorato in Italia dal 2006 e dopo 30 anni di matrimonio, il marito ha deciso di divorziare. “La Sindrome Italia inizia a casa. Iniziano a guardarti come un bancomat. Sei stressata dal lavoro e chiami casa per calmarti, per parlare della tua sofferenza. Ma le persone a casa non ti capiscono”, ha raccontato. “La Sindrome Italia è un fenomeno socio-sanitario. La maggior parte delle volte, è una forma di depressione caratterizzata da ansia, apatia, astenia psichica e fisica, con distrazione, insonnia associata e un’indole profondamente triste, scolpite da una sensazione di alienazione. È la fragilità genetica di ogni persona che emigra, peggiorata dal vivere in un Paese nuovo con altre culture, altre tradizioni, senza sapere la lingua”, ha spiegato Andreea Nester, psichiatra del Socolo Hospital. La collega Cozmin Mihai spiega che su 3.000 pazienti depressi all’anno, circa 150 (5%) hanno la Sindrome Italia. “La Sindrome Italia non è una diagnosi scientificamente riconosciuta. La definizione è stata inventata da due psichiatri ucraini nel 2005. È composta da stress fisico e psicologico”, ha dichiarato Donatella Cozzi, ricercatrice dell’Università di Udine che ha visitato la città di Iasi, nella Romania orientale, per studiare il fenomeno. Secondo una relazione delle Nazioni Unite, tra il 2007 e il 2017, circa 3,4 milioni di rumeni hanno lasciato il loro Paese, rappresentando il 17% della popolazione. Claudio Piccinini, coordinatore di INCA-CGIL, ha dichiarato che secondo l’INPS ci sono oltre 800.000 persone che lavorano come badante in Italia con regolare contratto. La richiesta per il loro lavoro è molto alta in un Paese con 13,4 milioni di anziani, classificata dalle Nazioni Unite come terza a livello mondiale in termini di aspettativa di vita. “C’è una mancanza di flessibilità in questo tipo di lavoro, non ci sono forme come il part-time. C’è un’interpretazione errata di “vitto e alloggio”. Il lavoratore teoricamente può andarsene tutta la notte; le loro ore di lavoro devono essere rispettate”, ha detto Maddalena D’Aprile, reclutatrice di Roma. Secondo D’Aprile, lo sfruttamento avviene da entrambe le parti: “Dal lato delle famiglie, c’è spesso questa tendenza a sfruttare i lavoratori, a chiedere troppo, a non fornire un adeguato alloggio, spesso a non dare abbastanza cibo. Anche dal lato dei lavoratori, abbiamo sentito cose terribili: persone che davano tranquillanti agli anziani per tenerli calmi”. Maria Gradinariu ha seguito suo figlio in Italia: “In 16 anni, ho perso mia madre, mio marito, mio suocero, mia suocera, fratelli e noi non siamo mai stati con loro. Sono venuta qui per trovare un vita migliore. Abbiamo trovato solo lavoro, lavoro e ancora lavoro. Sentiamo la Sindrome Italia perché non siamo libere quando lo vogliamo, siamo libere come badanti solo il giovedì pomeriggio e tutta la giornata di domenica, ma se hanno bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di denaro, allora rimaniamo”. A Roma, la Chiesa di San Pantaleo rappresenta il luogo in cui le donne si riuniscono nei giorni liberi per socializzare, chiedere consigli e parlare la loro lingua madre. Viene da chiedersi insomma: le badanti badano ai nostri anziani, ma chi bada alle badanti?

Che cosa succede se la badante si ammala (anche gravemente). Regole da sapere. Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Cristina Ravanelli su Corriere.it. Nelle case di tanti italiani c’è una figura preziosa: la badante, una donna (ma spesso anche un uomo) talvolta venuta da lontano, che gestisce i nostri anziani in condizioni di non autosufficienza. Ma che cosa succede se si ammala? «La malattia per queste professioniste non è pagata dall’Inps, ma è totalmente a carico del datore di lavoro, quindi dalla famiglia che l’ha assunta» spiega Mirko Grandi, funzionario della Filcams ed esperto di lavoro domestico. La durata del periodo di malattia retribuito varia a seconda dell’anzianità di servizio: si va da un minimo di 8 giorni, per chi è assunto da meno di sei mesi, a un massimo di 15 giorni per chi ha un contratto che dura da più di due anni. «Le famiglie devono sempre riconoscere il diritto alla salute, previsto dal contratto collettivo» dice Teresa Benvenuto, segretario nazionale di Assindatcolf, associazione che rappresenta i datori di lavoro domestico in tutta Italia. Dolori muscolari, mal di schiena, ma anche ansia, depressione, esaurimento. Quello della badante è un mestiere duro sia fisicamente, sia psicologicamente. A questo si aggiunga che la maggior parte delle persone che fa questo lavoro non è giovanissima: secondo l’Istat l’età media va dai 50 ai 54 anni. «Consigliamo di rispettare i riposi previsti dal contratto. Questo aiuta la lavoratrice a sopportare i ritmi dell’assistenza e la preserva da vari disturbi, compresi quelli legati allo stress. Certo, poi ci sono malattie imputabili ad altre cause ma la famiglia deve permettere alla lavoratrice di curarsi» avverte Benvenuto. Che cosa accade quando l’indennità di malattia finisce? Il datore di lavoro non può ricorrere al licenziamento perché i collaboratori domestici hanno diritto alla conservazione del posto per un periodo che, anche in questo caso, varia a seconda dell’anzianità di servizio: 10 giorni per chi ha lavorato fino a 6 mesi, 45 giorni per chi ha un’anzianità da 6 mesi ai 2 anni, e 180 giorni quando il rapporto di lavoro dura da più di 2 anni. In caso di particolari malattie, come quelle oncologiche, questo periodo aumenta: 15 giorni fino a 6 mesi di anzianità di servizio, 68 giorni da 5 mesi a 2 anni, 270 giorni oltre i 2 anni. Un’ulteriore difficoltà nasce quando la badante è convivente: oltre alla malattia pagata e alla conservazione del posto di lavoro, ha diritto a mantenere l’alloggio in casa della famiglia dalla quale è stata assunta. «Queste situazioni, difficili per tutti, vanno affrontate usando il buonsenso. Non si può essere radicali, anche noi sindacati comprendiamo le problematiche del datore di lavoro e ci impegniamo a trovare soluzioni, analizzando caso per caso. Cerchiamo di capire se la lavoratrice può trovare una sistemazione alternativa, anche perché molte volte si tratta di condizioni di salute che non prevedono la possibilità di rientro al lavoro, soprattutto se si deve svolgere una mansione così faticosa come quella della badante. Spesso ci appoggiamo alle strutture che assistono le varie comunità etniche delle lavoratrici. Per esempio, c’è una forte solidarietà in quelle peruviana ed ecuadoregna: mettono a disposizione alloggi per assistere i connazionali in difficoltà. O nella rete della Chiesa Ortodossa, che aiuta le lavoratrici ucraine» racconta Grandi. Per le famiglie che se lo possono permettere, e nei casi in cui le lavoratrici riescono a superare i problemi di salute, c’è poi un’altra opzione: si può ricorrere all’assunzione di una seconda dipendente con un contratto a tempo determinato. «In questo caso l’aliquota maggiore, generalmente prevista per questo tipo di contratto, non viene applicata» conclude Benvenuto.

La Clinica delle nostre badanti. Viaggio in Romania, tra le persone che si prendono cura dei nostri cari Sono centinaia di migliaia. Chi torna, fatica a riavere una vita, soffre d’ansia, di attacchi di panico. Nei paesi, con i nonni, restano i loro piccoli orfani bianchi Qualcuna dice: «Non mi vogliono più. La mia vita, io l’ho regalata all’Italia», scrive  Francesco Battistini l'8 Aprile 2019 su Il Corriere.it. Si chiama «SINDROME ITALIA» colpisce moltissime donne che a casa hanno lasciato tutto, anche i figli. Nicoleta, sei una schifosa! Nicoleta, pulisci! Nicoleta, sta’ zitta! «Le sento sempre, quelle voci…». Nelle orecchie ronzano ancora le urla del vecchio malato d’Alzheimer e di sua moglie. Nella mente, i ricordi della casa di Treviso: una prigione senza sonno e senza permessi, né sabati né domeniche. «Quei signori me li sogno tutte le notti. Due zombie! M’afferrano, mi fanno male!…». All’ombra d’un carrubo, ingoffita d’un soprabito nero che invecchia il suo corpo cinquantaduenne, Nicoleta sta seduta a fissare le ortensie della clinica. Ogni mezzogiorno, stessa panchina. Dieci anni da badante e ora più nessuno a cui badare, nemmeno se stessa. Il tempo, lo trascorre a fare la terapia: «Quando sono tornata a casa, nel 2012, mi sono accorta che parlavo con le voci. Mi sentivo prigioniera, non dormivo mai, scappavo. Avevo attacchi di panico, piangevo. I miei due figli mi guardavano come una sconosciuta. Avevano ragione: erano cresciuti senza vedermi, ormai era passato troppo tempo… Alla fine se ne sono andati via». Nicoleta sorride nel vuoto: «Io sono rimasta qui, loro sono fuggiti a vivere in Sicilia. Ed è come prima: non ci vediamo mai». Meglio così: «Ma sì, che cosa ci stavano a fare con me? Hanno una vita da vivere. La mia, io l’ho regalata all’Italia».

Vite a perdere. Ahi serva Romania, di dolore ostello. All’Istituto psichiatrico Socola di Iasi, le Nicolete ricoverate sono più di duecento l’anno. Depresse, inappetenti, insonni, schizofreniche, ansiose, impanicate, allucinate, ossessionate. Impazzite. Aspiranti suicide. Badanti che prendiamo in casa e crediamo di conoscere — nel nostro Paese sono circa un milione, solo la Siria esporta in Europa più migranti della Romania — e diventano invece vite a perdere, quando tornano da dove vennero. Il loro disturbo ha un nome scientifico che ci provoca, in quanto maggiori importatori europei d’affetto a pagamento: «sindrome Italia». Uno stress diagnosticato e chiamato così per la prima volta da due psichiatri di Kiev: nel 2005, avevano osservato sintomi comuni a molte ucraine e romene e moldave, ma pure filippine o sudamericane. Tutte emigrate per anni ad assistere anziani nell’Europa ricca, lontane da figli e mariti. «Più che una malattia, la “sindrome Italia” è un fenomeno medico-sociale», spiega Petronela Nechita, primaria psichiatra della clinica di Iasi: «C’entrano la mancanza prolungata di sonno, il distacco dalla famiglia, l’aver delegato la maternità a nonni, mariti, vicini di casa… Abbiamo molta casistica. S’è aggravata quando le romene dal Meridione, dove lavoravano nei campi ed erano pagate meno, si sono spostate ad assistere gli anziani del Nord Italia: tra le nostre pazienti ci sono soprattutto quelle che rifiutavano i giorni di riposo e le ore libere per guadagnare meglio, distrutte da ritmi massacranti. Nessuno può curare da solo un demente o una persona non autosufficiente: 24 ore al giorno, senza mai una sosta. Col fardello mentale di quel che ci si è lasciati alle spalle. Anch’io e lei ci ammaleremmo». Al ritorno in Romania, la terapia della «sindrome Italia» può durare anche cinque anni e di rado la passa la mutua: 240 euro ogni dodici mesi, uno stipendio medio. Un terzo delle ricoverate tenta almeno una volta il suicidio, e spesso ci riesce. Ma è una strage silenziosa, perché di solito è la famiglia a chiedere d’aggiustare l’atto di morte: nella regione più povera dell’Ue, nella Iasi «dalle cento chiese», com’è soprannominato questo capoluogo della Moldavia romena che Bergoglio visiterà in giugno, i pope ortodossi negano funerali e cimitero a chi si toglie la vita. Villaggi spopolati. C’è un sentimento quasi intraducibile, dor, che tutte le badanti conoscono: la brama di quel che s’è abbandonato, lo struggimento per ciò che non si ritroverà più, l’ansia che tanta sofferenza finisca. «Mi am un singur dor/ în linistea serii/ sa ma lasati sa mor», ho un solo dor, nel silenzio della notte lasciatemi morire… Sono versi di Mihai Eminescu, grande poeta locale: il paesello dove nacque, Botosani, oggi spopolato dall’emigrazione, rivive grazie a una sindaca che s’è organizzata ottenendo in Germania e in Spagna («ma non in Italia») contratti regolari e turni di lavoro più umani. Lo stesso a Butea: hanno asfaltato la strada, aperto asili per i bimbi abbandonati, comprato pullmini che ogni mese riportino a casa le mamme. Eccezioni, però.

Perché il resto è Far West. «Da Comarna se ne sono andati tutti, ma sono spuntati 5mila abitanti fantasma», sorride il sindaco Costel Gradinaru: sono moldave (extracomunitarie) residenti tutte allo stesso indirizzo, la casa d’un poliziotto connivente, che in questo modo ottengono più facilmente il passaporto romeno (Ue) e dalla Moldavia possono venire in Italia senza visto. Su via Nationala dietro la stazione di Iasi, fra sale scommesse e locali di striptease, s’incontra un’umanità partente che tutte le albe fa la fila alle corriere Flixbus, AmiTuring, Atlass: 70 euro il viaggio per Padova, 110 fino a Palermo, 40 kg di bagaglio consentito, un traffico gestito da clan di zingari che di fianco alle biglietterie vendono scarpe, giacconi, telefonini raccattati chissà come in Italia. Intorno, un deserto di villette nuove e vuote, costruite con le rimesse, le finestre ancora incellofanate: «A Roma mi sono sentita una schiava — dice Gabriela Neculai, 700 euro al mese, mai un giorno di riposo in dieci anni —. Non mi compravo neanche un succo, un gelatino, mandavo tutti i soldi in Romania. Ora ho una bella casa, ma sono sola. No, non ne valeva la pena…». Carmen, 58 anni, dieci a Biella: «Potevo lavarmi una volta la settimana. Mi controllavano il cibo. E l’acqua dovevo scaldarla sui termosifoni. Adesso in famiglia non mi sopportano: sembro una spia, annoto quel che si consuma, sono ossessiva.

L’Italia mi ha fatto diventare così». «A voi italiani non importa nulla dei genitori, prendete una badante e ciao, vi fate la vostra vita — piange Elena Alexa, 60 anni e da cinque in cura —. Ho lavorato a Verona. In nero. Mi davano poco da mangiare: ero diventata 50 chili, curavo un anziano che ne pesava cento. Avevo diritto a sei mezze mele la settimana: ogni giorno, lui ne mangiava metà e io l’altra metà. Mi mettevano un letto sul corridoio, dove dormiva il cane. E le parolacce, le mani addosso: romena figlia di p…, siete tutti morti di fame! Piano piano, mi sono venuti attacchi di panico, un dolore fisso alla gola. Intanto la mia famiglia andava in rovina. Avevo abbandonato i miei genitori per curare quelli di altri. Il mio bambino dormiva con la foto sotto il cuscino, tremava sempre, mi telefonava: torna a casa, se no vado sul tetto e mi butto giù… A 19 anni, aveva già i capelli bianchi».

«Effetti collaterali». È la persona che santifica il luogo, dicono i romeni. E sono i suoi gesti a raccontarlo: a metà marzo, una tredicenne s’è impiccata. L’ultimo caso. Un effetto collaterale della «sindrome Italia» che colpisce anche i 750mila figli delle badanti, i cosiddetti orfani bianchi, narrati nei romanzi di Ingrid Coman: «È un cliché, pensare che tutti gli italiani siano indifferenti alla situazione delle badanti — commenta la scrittrice, che sta spostando la famiglia a Iasi —. Non generalizzerei. La comprensione appartiene alla persona, non alla società. Poi, però, è un dato di fatto che in Italia siamo di fronte a numerosi casi di schiavismo. E alle conseguenze che questi provocano». Silvia Dumitrache, leader italiana dell’Associazione donne romene, tiene il conto dei bambini suicidi che non hanno retto l’abbandono: un centinaio, a tutt’oggi. Nella clinica di Iasi, nascosti al mondo, sono ricoverati trenta piccoli depressi gravi. Non si sa bene che fare, perché non ci sono neuropsichiatri infantili: «Avevamo Alex, un bimbo di 7 anni rientrato in patria con la mamma — fa un esempio Mihaela Hurdurc, direttrice della scuola Caritas —. Lei si sentiva una fallita, Alex non s’adattava al nuovo mondo e rifiutava il cibo non italiano.

Voleva suicidarsi: abbiamo dovuto ricoverarlo». I disagi dei left behind sono diversi. Rabbia, ansia, difficoltà d’apprendimento: «C’è chi ha la madre via, e se ne vergogna. Chi vive coi nonni, e sono troppo anziani. Chi coi vicini, troppo estranei. Chi è rimasto proprio solo. I genitori a volte se ne vanno in Italia e non delegano la potestà: spariscono per mesi, non contattano mai la scuola. Magari cambiano scheda telefonica e i figli non hanno neanche un numero da chiamare». A una certa ora della sera, le biblioteche dei villaggi si riempiono dei ragazzini più poveri: wi-fi a disposizione, per parlare finalmente con l’Italia. «Il periodo duro della mia vita fu quando partirono sia mamma che papà — racconta un orfano bianco, Mihael Chiriac —. Il più bello, il primo Natale insieme. Avevo 10 anni, oggi ne ho 22. E mia madre è ancora a Taranto. La sento due volte al giorno, ma non è lo stesso.

La voglio qui. Ho due fratelli più piccoli: quasi non la conoscono». In una casetta ben rifatta di Comarna, al civico D786, Elena Tescovina è appena tornata da Firenze e da Milano: «Otto anni! Uscivo di casa solo per buttare la spazzatura…». L’hanno convinta sua figlia — «mamma, piuttosto mangiamo una cipolla, ma non partire più!» — e una tristezza incontenibile: «Nessuno può capire come sono stata». Quel che ha ritrovato qui, non le piace. Liti, botte, alcol. La convivenza con un marito irriconoscibile tra i rancori di lei per lui («non hai mai avuto un lavoro!…») e i rimproveri di lui a lei («parli troppo, sembri un’italiana!»…). Pura sindrome. Le consigliano tutti d’andare in clinica. Elena piange, si danna. Ma per ora no: «Io guarisco lavorando». Il pomeriggio fa 15 chilometri di bus fino a Iasi. Indossa una divisa, è guardia giurata. Turni di notte: «Devo badare ai negozi». E dice proprio così: badare.

·         Riders: Cornuti e mazziati.

Rider, scatta l’inchiesta contro lo sfruttamento «Controlli su sicurezza». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. È la prima volta in Italia, è un’indagine «pilota» quella aperta dalla Procura di Milano sui fattorini delle consegne a domicilio: gli agenti della Polizia locale, da mercoledì, stanno controllando i rider, a cui viene anche chiesto di rispondere ad un questionario. Gli inquirenti puntano a fare chiarezza approfondire, in particolare, su sicurezza stradale e su eventuali violazioni delle norme igienico-sanitarie, riguardo ai contenitori usati per trasportare il cibo. Si punta, però, anche ad individuare casi di sfruttamento, come il caporalato, e la presenza di clandestini. Mercoledì i primi controlli sono partiti nella zona di Porta Genova e andranno avanti anche nei prossimi giorni. Poi, in Procura verrà fatto un punto sui primi risultati emersi. Gli agenti della Polizia locale e i tecnici che compongono la «squadra» che sta effettuando i controlli, sono riusciti a parlare con alcune decine di rider e a presentare loro i questionari predisposti per raccogliere dati ed elementi utili alle indagini. Da quanto si è saputo, alcuni lavoratori, dopo essersi accorti dei controlli in atto, si sono presentati spontaneamente davanti agli agenti, altri, invece, si sono allontanati in fretta. Altro elemento emerso finora è che molti fattorini arrivano a Milano per fare consegne partendo da Pavia e dintorni in treno.

Rider, l'inchiesta di Report: i trentamila che pedalano nella terra di mezzo. La Repubblica l'11 Novembre 2019. Più pedali e più consegni. Pazienza se è pericoloso, se ti fai male. E più ordini riesci a realizzare in una giornata, più aumenti i guadagni e, soprattutto, ti aggiudichi il diritto di avere turni più "ricchi": quelli della cena, quelli dei fine settimana. Sulla carta sembra un sistema meritocratico (e sicuramente efficiente per le imprese), nella pratica rischia di trasformarsi in un inferno per i lavoratori. "Loro" sono i rider, i ragazzi che consegnano il cibo a domicilio (ma ora anche la spesa fatta al supermercato); che qualche volta ragazzi non sono più, ma cinquantenni che hanno perso il lavoro e non riescono a ricollocarsi. Una terra di mezzo fatta di poche garanzie e tanti doveri, su cui alza il velo la puntata di Report in onda stasera su Rai3. In Italia sono ormai 30 mila i rider che sfrecciano per le strade, per un business stimato in 566 milioni di euro, su 35 miliardi di dollari (31,76 milioni di euro) in tutto il mondo. Le previsioni parlano di volumi decuplicati nel 2030. Loro, in compenso, guadagnano molto meno: pochi euro a consegna, in alcuni casi con un minimo orario se non arrivano ordini. La media mensile è sui 1.300-1.400 euro, lavorando senza sosta. Ma è una media che dice poco: molti sono ben al di sotto, anche se pochissimi sostengono di guadagnare ben di più. Dipende da quanto si pedala in fretta, con i relativi rischi - 7 morti e 25 feriti in poco più di un anno - e soprattutto da che turni copri. Ma questi, racconta Report, vengono assegnati in base al proprio punteggio: più è alto e più sei chiamato nelle fasce più ambite. Un privilegio ottenuto non rifiutando mai turni e consegne: se lo fai scali di graduatoria. Da una parte il rider, pronto a partire, dall'altra l'algoritmo, che fissa come assegnare le consegne. Che ti segue nel percorso e, secondo alcune denunce, anche quando non sei al lavoro. Nella seconda parte dell'inchiesta Report sposta la telecamera sulle società di consegna a domicilio e sui loro bilanci: le varie Deliveroo (sponsor della Casaleggio associati per l'ultimo rapporto sull'e-commerce, ricorda la trasmissione), Uber Eats, Glovo, Social Food e Just Eat, riunite in Assodelivery. Una realtà nata per rappresentare il settore (dei datori di lavoro), molto attiva durante l'iter di conversione della legge sui rider, appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale. E ovviamente a favore del sistema del cottimo.

Easy rider, Report Rai puntata dell'11 novembre 2019 di Giovanna Boursier. Collaborazione di Eva Georganopoulou e Greta Orsi. I rider sono i fattorini che ci portano il cibo, e non solo, a casa. In Italia ormai circa 30 mila e continuano ad aumentare, non sono solo giovani studenti che integrano il bilancio familiare negli anni dell’università, ma anche cinquanta-sessantenni che hanno perso impieghi precedenti. Ci stiamo abituando a vederli nelle nostre città: pedalano velocissimi, anche di notte, spesso in contromano. Corrono perché sono pagati a consegna, ossia a cottimo: più portano ordini, più guadagnano. Più danno disponibilità più acquisiscono dall’azienda un punteggio, che consente loro di prenotare più facilmente ore e turni di lavoro. È la nuova frontiera del lavoro nella gig economy, l’era delle piattaforme digitali, in cui mentre la crisi economica rende irreversibile la precarietà, tutto deve essere invisibile, compreso lo sfruttamento dei lavoratori. Invisibili cercano di restare anche i manager delle società di delivery: da Just Eat a Deliveroo, a Glovo. Molte fanno capo a multinazionali i cui bilanci in perdita spesso nascondono ricavi enormi. Impossibile parlare con loro, nemmeno tramite l’app. “EASY RIDER” Di Giovanna Boursier Collaborazione Eva Georganopoulou-Greta Orsi.

GIOVANNA BOURSIER Posso vedere? Ah Uber. È qui che arrivano le chiamate?

RIDER Sì, ma oggi non arrivano. GIOVANNA BOURSIER Ma in una sera quanto guadagna?

RIDER Mah, ieri per esempio ho fatto solo tre viaggi, che sono 16 euro. In un mese arrivo a 300 o 400 euro.

GIOVANNA BOURSIER Dal 29 di luglio al 5 agosto, 41 euro?

ALTRO RIDER Sì, è così.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Tardo pomeriggio di fine luglio, sul piazzale del cimitero monumentale a Milano, ad aspettare ordini, ci saranno una ventina di rider. E li trovi in tutta la città.

RIDER PONYU (JE) Mi pagano a consegna, ma se non arrivano ordini, mi danno un minimo di 6 euro l’ora comunque.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il contratto, con PonyU, l’ha firmato in Via Giosuè Borsi, dove c’è H-Farm, che ha il 10 per cento di PonyU, mentre il 56 per cento è di Luigi Strino.

LUIGI STRINO – PONYU SRL AL TELEFONO Sì, pronto.

GIOVANNA BOURSIER Giovanna Boursier di Report. Buona sera. Io sto facendo un pezzo sul delivery.

LUIGI STRINO – PONYU SRL AL TELEFONO Senta io la posso richiamare?

GIOVANNA BOURSIER Sa qual è il problema che poi lei non mi richiama e io non riesco a parlarle.

LUIGI STRINO – PONYU SRL AL TELEFONO Mi consenta di richiamarla. Grazie mille.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Mai richiamata. PonyU lavora per Just Eat e, come quasi tutti, fa ai riders un contratto di lavoro autonomo, pagati a consegna. Poi qui c’è un minimo orario, se non arrivano ordini.

GIULIA DRUETTA – AVVOCATO Ci sono lavoratori che riescono ad arrivare ai 1.300, 1.400 euro al mese. Si tratta però di nessun giorno libero al mese, di un lavoro che va oltre gli standard delle otto ore, che raggiunge 180- 190 ore mensili.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il fenomeno dei Rider riguarda giovani, ma anche cinquantenni che sono rimasti disoccupati. Sono circa 30 mila in Italia e consegnano il cibo e le bevande in casa o negli uffici. Ecco, li vedete girare e sfrecciare per le strade, sulle strade piene di buche con le loro biciclette, un po’ precari, dietro hanno dei borsoni con la scritta ''Just Eat'', “Uber Eats”, “Glovo” oppure “Deliveroo”. Ecco, pedalata dopo pedalata, muovono un fatturato di circa 566 milioni di euro qui in Italia, 35 miliardi nel mondo e la proiezione è quella di arrivare nel 2030 a un fatturato di 365 miliardi di dollari. Ecco, ma chi muove le fila della cosiddetta Gig Economy? È importante saperlo, perché dietro ci sono dei lati oscuri. Si potrebbe anche arrivare a ipotizzare la sublimazione dello sfruttamento del lavoro, che non avviene da parte del cosiddetto padrone, ma attraverso l’algoritmo di una piattaforma digitale. E la dignità del lavoratore è chiusa in una piccola icona, sintetizzata in una piccola icona: una biciclettina con un pacchettino geolocalizzata. E se il rider cade non viene aiutato a rialzarsi, ma viene disconnesso. Sembra un video game, ma è la fotografia di un cambiamento epocale nel mondo del lavoro. La nostra Giovanna Boursier.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO I riders sono i fattorini che ci portano il cibo a casa. Circa 30mila in Italia, ingaggiati dalle piattaforme della gig economy e pagati a cottimo; dove ti giri, li vedi. La maggioranza va in bici e per fare più in fretta e avere più ordini, pedalano velocissimi: ti si piazzano davanti, ti tagliano la strada, spesso in contromano. Anche di notte. RIDER Intanto io ho la lucetta, perché bisogna prima di tutto, in questo mestiere, la sicurezza.

GIOVANNA BOURSIER Sta preparando la borsa per… RIDER Sì, mettiamo tutto qui dentro, così rimane la borsa libera.

GIOVANNA BOURSIER Questo è Deliveroo. RIDER Sì. Deliveroo devo dire che è organizzato, eh!

GIOVANNA BOURSIER La bici è sua? RIDER Sì, la bici è mia.

GIOVANNA BOURSIER Quanto è costata?

RIDER L’ho pagata 900 euro usata.

GIOVANNA BOURSIER E quanto guadagna lei? RIDER 1.000 euro, 1200. Dipende.

GIOVANNA BOURSIER Abbastanza?

RIDER Sì sì, ma si può arrivare anche a duemila eh. Le ore 19-22 sono quelle dove guadagni di più. Pedali di più, ma guadagni di più.

GIOVANNA BOURSIER Quanti anni ha lei? RIDER Più di 27.

GIOVANNA BOURSIER Cioè non è un giovane studente?

RIDER Cinquantuno. No, no, no. La storia dei giovani studenti, secondo me...

GIOVANNA BOURSIER Lei ha perso il lavoro e ha deciso di fare così? RIDER Sì, sì. Cosa dovevo fare?

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Chi va alla mensa dell’opera San Francesco, a mille euro al mese di sicuro non arriva.

FRA MARCELLO LONGHI - PRESIDENTE OPERA SAN FRANCESCO PER I POVERI MILANO Con 300-400 euro non so come facciano a vivere. Ci chiedono aiuto e noi li accogliamo.

GIOVANNA BOURSIER Ci ha pensato che arrivano qua con il sacco dove dovrebbe esserci il cibo per altri a chiedere cibo?

FRA MARCELLO LONGHI - PRESIDENTE OPERA SAN FRANCESCO PER I POVERI MILANO Questo è un interessante paradosso, sì. Perché qualcuno mi dice: “Padre, dopo aver mangiato bene pedalo meglio, pedalo più forte”. E io gli dico: “Beh, stai attento”.

RIDER Se la distanza non è troppo lunga magari riesci a fare due ordini all’ora. Se hai meno di 90 punti magari riesci a prenotare tre ore.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Ai riders viene anche assegnato un punteggio e, in base al punteggio, prenotano le ore di lavoro.

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE - RIDERS MILANO Il punteggio dipende dal tuo grado di disponibilità e di affidabilità. La disponibilità è dire sempre sì.

GIOVANNA BOURSIER Cioè quando è che ti si abbassa il punteggio?

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE - RIDERS MILANO Se rifiuti tante consegne, se salti il week end.

GIOVANNA BOURSIER Cioè se ti succede qualcosa, si ammala il bambino.

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE - RIDERS MILANO Non puoi farlo all’ultimo momento.

GIOVANNA BOURSIER Se lo fai ti scende il punteggio?

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE - RIDERS MILANO Sì. E quindi non avrai la stessa possibilità di prenotare i turni, perché il sistema dei turni è in fasce. Se sei in seconda o in terza fascia o ti becchi gli scarti delle ore o non trovi ore. GIOVANNA BOURSIER Per restare in prima fascia cosa devi fare?

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE RIDERS MILANO Dire di sì a tutto e andare il più veloce possibile.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Per questo vanno di fretta e ogni tanto ci scappa l’incidente. Ma per loro, niente Inail.

GIOVANNA BOURSIER Non avete copertura Inail?

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE - RIDERS MILANO No, una tantum, in maniera molto discrezionale da parte dell’azienda. C’è solo un’assicurazione privata, che in realtà però non è attivabile.

GIULIA DRUETTA – AVVOCATO Queste assicurazioni private poi non pagano. Io sto seguendo un lavoratore che, oltretutto ha avuto un infortunio molto grave, ma l’azienda non ha mai più risposto.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Eppure l’azienda sa sempre dove trovarli... Tramite l’app. A parlare è un ex dispatcher di Foodora, cioè chi lavora dietro l’algoritmo e controlla che tutto funzioni. Il call center era a Berlino.

EX DISPATCHER FOODORA Il mio compito era controllare che i rider sarebbero venuti nel loro turno, che ce ne fossero abbastanza per gli ordini. Ovviamente io vedo l’ordine, vedevo, anzi, tutti gli ordini di tutte le città italiane, poi l’algoritmo li dava in automatico ai rider.

GIOVANNA BOURSIER Lei era in grado di controllarlo?

EX DISPATCHER FOODORA Assolutamente. Avevamo un’interfaccia dove vedevamo e appena c’era un problema per esempio un ritardo, intervenivamo.

GIOVANNA BOURSIER Ma è vero o no che potevate vedere i rider anche fuori dagli orari di lavoro?

EX DISPATCHER FOODORA Si poteva guardare dove era una persona prima dell’inizio del turno, anche se non aveva ancora fatto il log-in.

GIOVANNA BOURSIER Cioè voi potevate vedere dove erano i rider?

EX DISPATCHER FOODORA L’app permetteva di vedere dove erano fuori dal turno di lavoro per verificare che stessero arrivando al turno - perché ci era stato detto che erano autonomi e quindi teoricamente erano anche liberi di non presentarsi. Mi è capitato di una persona che risultava fuori città, chiamo ed effettivamente era fuori. Questo mi ha fatto un po’ paura.

GIOVANNA BOURSIER Perché le ha fatto paura?

DISPATCHER Perché non è tanto bello; cioè questa persona non sapeva cosa io sapevo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Forse per organizzare meglio - o manovrare - consegne, turni, riders.

EX DISPATCHER FOODORA A volte potevamo cambiare le decisioni dell’algoritmo, per esempio potevamo decidere di dare l’ordine a un’altra persona.

GIOVANNA BOURSIER Quindi lei poteva decidere che a quel rider dava quattro consegne?

EX DISPATCHER FOODORA Era nostro potere farlo. Quando ci accorgevamo che un ordine magari fatto da aziende, veniva dato ad un rider che non era capace o non sapeva bene l’italiano, è capitato di dover togliere ordini ad una persona prima che gli fossero notificati, per darli ad un altro. A volte, probabilmente, è stato anche usato per punire qualcuno.

GIOVANNA BOURSIER Le è mai stato detto: “Non dare ordini a quel rider, disconnettilo?”.

EX DISPATCHER FOODORA Mi è stato detto di disconnetterli, di chiudere i turni a delle persone, di togliergli gli ordini. GIOVANNA BOURSIER A lei sembra che sfruttassero le persone?

EX DISPATCHER FOODORA Sicuramente. Si leggeva dai messaggi: “Dammi degli ordini” o “Sono sotto la pioggia”. Ma siccome tu stesso non sai se arriveranno altri ordini, ti tengo lì ad aspettare. Magari ce n’erano disponibili 300 a Milano e ne servivano solo cinquanta.

GIOVANNA BOURSIER Cioè l‘azienda voleva più rider possibili a disposizione per poter decidere, a seconda degli ordini che aveva, ma senza assumerli. EX DISPATCHER FOODORA Senza responsabilità o rischio di impresa. C’era la sensazione di avere a disposizione tanti numeretti; infatti non erano gli omini che si spostavano sulla mappa, erano biciclettine, pacchetti che si muovevano.

GIOVANNA BOURSIER Lei sta parlando solo di Foodora, ovviamente.

EX DISPATCHER FOODORA Assolutamente solo di Foodora.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Di essere pacchetti che si spostano lo sanno anche i riders di altre aziende. GIOVANNA BOURSIER Lei lo sa chi è che stabilisce quante consegne fate?

MARGHERITA BUGANÈ - RIDERS UNION BOLOGNA Più che altro è un algoritmo che ti assegna la consegna più vicina.

GIOVANNA BOURSIER L’algoritmo ti localizza. MARGHERITA BUGANÈ - RIDERS UNION BOLOGNA Sì, ma mi localizza anche quando non lavoro. Sono stata in vacanza in Serbia e in Bosnia, ero geolocalizzata, nonostante avessi la geolocalizzazione del telefono spenta.

GIOVANNA BOURSIER Ma voi firmate una cosa che li autorizza a far questo?

MARGHERITA BUGANÈ - RIDERS UNION BOLOGNA Io purtroppo non me lo ricordo se ho firmato qualcosa, però esplicitamente non è stato detto nulla di questo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se lasci ad un algoritmo il compito di dettare le regole, quale rispetto puoi avere per un lavoratore? Non bisogna farsi ammaliare dal concetto di premialità perché di per sé è attraente. Il problema sono le modalità, che sono infatti quella di riconoscere a chi consegna di più il premio, cioè a chi pedala più veloce. E la ricaduta qual è? Tutti cercheranno di pedalare di più finché qualcuno cade stremato ed è vittima di un incidente. In poco più di un anno abbiamo contato sette morti, 25 feriti. Sarebbero morti sul lavoro? E poi, come al solito accade, quando la politica lascia un vuoto, è compito della magistratura cercare le responsabilità. Ma se le cerchi qui le trovi? Perché qui più che un intreccio, è un groviglio: ricostruire la catena delle responsabilità non è semplice.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO A Torino, due anni fa, sei riders licenziati fanno causa a Foodora: chiedono tutele e garanzie dei lavoratori subordinati.

GIOVANNA BOURSIER Licenziati nel senso che non gli hanno più dato la possibilità di lavorare. Giusto?

GIULIA DRUETTA – AVVOCATA Esatto, basta bloccargli l’applicazione.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Li sloggano, dicono i riders, ossia li disconnettono dall’app. A gennaio, i sei riders di Foodora vincono l’appello.

GIULIA DRUETTA – AVVOCATA I rider devono essere trattati come lavoratori subordinati, quindi devono avere il Tfr, la malattia, devono essere iscritti all’Inail, deve essere pagata la contribuzione all’Inps.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il tribunale riconosce che i riders dovevano essere pagati il doppio, usando come riferimento il contratto collettivo della logistica.

GIOVANNA BOURSIER Glieli hanno poi pagati?

GIULIA DRUETTA – AVVOCATA Sì, glieli hanno pagati.

GIOVANNA BOURSIER Perché conviene tenere un lavoratore autonomo e non subordinato? Perché ti costa molto meno?

GIULIA DRUETTA – AVVOCATA Eh certo, e non sono pochi trentamila lavoratori, non tutelati, che costano zero alle aziende.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Foodora viene fondata a Monaco nel 2014, l’italiana un anno dopo, e la mettono in una società lussemburghese; poi un anno e mezzo fa ritorna tedesca per essere venduta a Glovo, e adesso è in liquidazione. Il country manager italiano era Gianluca Cocco. Tre anni fa festeggiava il primo compleanno di Foodora.

VIDEO COMPLEANNO FOODORA - 6/10/2016 GIANLUCA COCCO Speriamo che questo sia il primo di tantissimi anni insieme a voi. Grazie ancora e buon compleanno a Foodora!

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Adesso Cocco ha il 50 per cento di una società di Torino, la CoBo. CUSTODE Deve andare al sesto piano, c’è un ufficio su.

GIOVANNA BOURSIER Ok, grazie.

CUSTODE Prego. GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Al sesto piano abita anche Fabrizio Bocca, che ha l’altro 50 per cento della CoBo; accanto c’è l’ufficio del commercialista.

GIOVANNA BOURSIER Noi cercavamo la società CoBo.

DIPENDENTE CoBo, sì. GIOVANNA BOURSIER Noi stiamo cercando Gianluca Cocco.

DIPENDENTE Eh no, Gianluca Cocco qui non c’è.

GIOVANNA BOURSIER Entra una signora e ci passa il suo telefono.

GIOVANNA BOURSIER Ma chi è Gianluca Cocco?

DIPENDENTE No, è Fabrizio Bocca!

GIOVANNA BOURSIER Sono Giovanna Boursier, Report. Io sto cercando Gianluca Cocco. Volevo parlargli di tutta la questione rider.

FABRIZIO BOCCA – COBO SRL AL TELEFONO Dei rider. Ma io sono suo socio in quest’altra cosa, però non c’entra nulla con la questione rider. Adesso lui ha proprio cambiato completamente lavoro, fa tutt’altro.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Non è proprio vero, visto che la CoBo, ossia Cocco e Bocca, sviluppa software e piattaforme per preparare cibo. Anche a Genova, dal trasporto si arriva alla ristorazione. Il 31 agosto un rider in consegna muore travolto da un ubriaco alla guida di un Suv. GIOVANNA BOURSIER Lo possiamo considerare un incidente sul lavoro?

FABRIZIO NATIVI - CAPO ISPETTORATO LAVORO GENOVA È senz’altro un incidente sul lavoro.

GIOVANNA BOURSIER I contratti erano con quale società? Perché nella catena, cioè è stato detto Just Eat però forse era Deliveriamo, che è come un subappalto.

FABRIZIO NATIVI - CAPO ISPETTORATO LAVORO GENOVA La società datrice di lavoro è la Deliveriamo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Che è a Torino. Deliveriamo ha 11 mila euro di capitale: sedi anche a Bologna, Firenze e Milano; in tutto 42 dipendenti. GIOVANNA BOURSIER Non avete un telefono?

SIGNORA Io le posso lasciare questa mail a cui scrivere. Actis non c’è per un po’ di giorni.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Marco Actis è il presidente di Deliveriamo e ne possiede il 10 per cento. Ma il restante 90 per cento è di Cigirerre, Compagnia Generale Ristorazione, in provincia di Udine: una holding della ristorazione etnica, detenuta in gran parte da una società lussemburghese, la Gusto. Volevamo chiedergli se alla fine il rider, più che per Just Eat, lavorava per loro, ma niente interviste. E anche qui, sviluppano format per le loro catene di ristoranti: da Old Wild West, carne alla brace, al giapponese Temakinho.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo che è singolare. Utilizzano le piattaforme digitali, geolocalizzano i rider anche quando sono in vacanza all’estero. Quando noi gli chiediamo di geolocalizzare un manager, insomma, diventa tutto più complicato. Hanno gestito la consegna del cibo a domicilio, poi sono passati invece al software che gestisce il cibo, poi magari anche direttamente a confezionare, a produrre il cibo stesso, che viene distribuito attraverso le piattaforme. Sarebbe tutto molto bello e dunque un manager dovrebbe essere invogliato a raccontarcelo, invece no, sono reticenti. Quello che possiamo ipotizzare è che chi ha gestito la distribuzione del cibo a casa abbia anche fatto un bel database con dentro le informazioni dei gusti dei clienti. Per questo sa anche che cosa cucinare perché probabilmente quello ordineranno. Ecco, se da una parte chi consegnava cibo entra nella ristorazione, dall’altra c’è chi fa ristorazione che entra nell’affare della consegna del cibo. In mezzo ci sono come al solito i piccoli commercianti, piccoli alimentari, ma in prospettiva anche i supermercati, perché la gente non andrà più a fare la spesa ma aspetterà comodamente sul divano del salotto di casa che arrivi una cena calda, già cucinata portata da un rider a prezzi stracciati. Ecco, l’accoppiata delivery-ristorazione sta acquistando, acquisendo fette importanti di mercato a spese dei più piccoli. Ma questo sistema fino a quando reggerà? Le delivery hanno le spalle larghe per reggere a lungo un sistema che si regge solo sulle spalle di chi pedala? Per questo a ogni tornata elettorale c’è il politico di turno che esce fuori, promette tutele, ma nessuno parla di lavoro subordinato.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Alla fine Di Maio la norma per tutelare i riders la infila, last minute, nel decreto crisi del governo giallo verde, che cade la settimana dopo.

LUIGI DI MAIO – TG1 DEL 4 AGOSTO 2019 D’ora in poi ai riders verranno riconosciute le tutele assicurative, i rimborsi spese, l’assistenza sanitaria, un salario minimo che significa consentire a queste persone di non essere sfruttate.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Ma resta un problema: il cottimo, cioè la paga a consegna, anziché oraria. Nel decreto non è vietato, c’è solo scritto che non può essere “prevalente”.

DEBORA SERRACCHIANI – DEPUTATA PD Il cottimo, per quanto mi riguarda, va tolto, perché il lavoro venga retribuito per la prestazione che viene effettuata.

GIOVANNA BOURSIER Il salario minimo non sarebbe una soluzione?

DEBORA SERRACCHIANI – DEPUTATA PD Il salario minimo deve essere accompagnato dalla rappresentanza sindacale.

MAURIZIO LANDINI – SEGRETARIO GENERALE CGIL Il cottimo in sé è un elemento di sfruttamento totale.

GIOVANNA BOURSIER Una parte infatti chiede un minimo orario garantito.

MAURIZIO LANDINI – SEGRETARIO GENERALE CGIL Noi chiediamo di applicare i contratti. Noi diciamo che il contratto della logistica…

GIOVANNA BOURSIER Il contratto della logistica, in questo caso.

MAURIZIO LANDINI – SEGRETARIO GENERALE CGIL Quello è uno. Avere un contratto nazionale vuol dire che hai una paga oraria e che hai tutta una serie di diritti che ti vengono garantiti.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il primo ottobre, col nuovo governo, i riders arrivano in Senato con sindacati, associazioni, Inail, Inps, per l’audizione delle Commissioni Lavoro e Industria, visto che il decreto, prima di tornare in aula, può essere modificato.

GIOVANNA BOURSIER Il problema è quello di dire che è un lavoro para-subordinato o subordinato?

TALEM PARIGI - NIDIL CGIL FIRENZE Che non siamo lavoratori occasionali, se uno lavora per un anno, ogni settimana.

NICOLA QUONDAMATTEO – RIDERS UNION BOLOGNA Abbiamo portato le solite richieste: no al cottimo, salario legato ai contratti collettivi, diritti, tutele. E non di fare quello che vogliono, questo sindacato giallo che è nato adesso.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il sindacato giallo nato adesso avrebbe scritto questa lettera, arrivata stamattina ai parlamentari, firmata on line da 500 riders, “arrabbiati”, perché “il decreto peggiora le condizioni di lavoro”. Chiedono il “cottimo”, altrimenti il rischio è “diminuire i compensi invece di aumentarli”. Gira voce, però, che l’abbiano scritta le aziende, più che i rider.

NICOLA QUONDAMATTEO – RIDERS UNION BOLOGNA È un‘operazione delle aziende per evitare ogni regolamentazione di questo settore e mantenere il cottimo e lo sfruttamento.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Invece quando i parlamentari incontrano i riders, sembra che a sbagliare siano loro anziché le aziende.

FRANCESCO LAFORGIA – SENATORE LEU Ragazzi e ragazze che dicono lasciateci lavorare una montagna di ore perché noi così guadagniamo tanto. Tant’è che io a un certo punto ho detto ma, forse ho sbagliato mestiere.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO O sta sbagliando chi continua a non capire che a volere il cottimo sono le aziende? Perché i riders - che non guadagnano come un parlamentare – l’esistenza se la immaginano come possono.

ANTONIO PRISCO - RIDER Questa lettera è un tentativo del padrone, perché io lo chiamo ancora padrone, serve a dividere i lavoratori e i lavoratori non devono essere divisi.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Chi ha firmato la lettera che difende il cottimo preferisce non essere filmato. Ma ci manda l’elenco dei suoi pagamenti: fino a 2.500 euro al mese, con Deliveroo.

GIOVANNA BOURSIER E quindi voi vorreste continuare a essere pagati a consegna, giusto? RIDER Tutta la vita!

GIOVANNA BOURSIER Quanto paga Deliveroo?

RIDER Ho fatto consegne da 17 euro, ho fatto consegne da 4 euro minima. E Deliveroo offre anche un incentivo nel caso in cui in un’ora non arrivano consegne: 7 euro e 50 lorde, per essere seduto al bar in attesa degli ordini per capirci.

GIOVANNA BOURSIER Beh 7 euro e 50, vuol dire che puoi arrivare a 1000 euro. Non ne ho trovati tantissimi che arrivano a questa cifra.

RIDER Gli hai chiesto, per curiosità, se hanno rispettato le statistiche, se il venerdì, il sabato e la domenica non sono persone che non hanno voglia di fare molto?

GIOVANNA BOURSIER Ma non tutti riescono ad avere tutte queste consegne. Sembra che queste aziende abbiano a disposizione molti più lavoratori di quelli che gli servono e che sarebbero costretti a pagare con la paga oraria, no?

RIDER Distinguiamo le cose. Glovo, non ha minimo garantito e allora può fare questo: metto più rider perché tanto non mi costano niente.

GIOVANNA BOURSIER Gira voce che quella lettera l’abbiano scritta alcuni dirigenti.

RIDER Io non te lo so dire, ma se qualcuno ti chiama e ti dice: guarda che se cambia tutto, i guadagni che fai oggi te li sogni, tu che faresti?

GIOVANNA BOURSIER Più che chiamarli li hanno indottrinati: riunione a Glovo Milano, in Viale Monza, metà settembre. A discutere con i riders della lettera che ha scritto, è un dirigente.

UOMO Lo possiamo scrivere in maniera più chiara eh. Io quello che farei è: mettere il testo di questa lettera on line, l’altra cosa che secondo me potrebbe essere utile fare, aprire magari una pagina Facebook, in cui cercare di pomparla un po’. Anche perché quello è il modo più facile per fare arrivare la cosa a un giornalista senza essere un delivery. Noi ovviamente abbiamo dei rapporti con i giornali, ma non possiamo chiamarli e dire ragazzi, guardate che ...

UOMO Perché no?

DONNA Perché dà l’idea che ci stanno manipolando.

UOMO Vi giriamo il link, voi iniziate a diffonderla, e al momento buono la mandiamo anche ai giornali e ai parlamentari. La cosa che mi hanno detto al Pd, al Senato, è stata: “Cavolo, ma se i rider si attivassero, facessero una cosa, fatecela avere”.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Le aziende che vogliono il cottimo, arrivano in Senato come Assodelivery, che rappresenta le cinque maggiori piattaforme della consegna a domicilio: Just Eat, Uber Eats, Glovo, Social Food e Deliveroo, il cui general manager italiano, Matteo Sarzana, è anche presidente di Assodelivery. Gli chiediamo un’intervista da mesi.

GIOVANNA BOURSIER Scusatemi. Voi siete Deliveroo?

MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Lei chi è?

GIOVANNA BOURSIER Giovanna Boursier di Report. MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Siamo al Senato però.

GIOVANNA BOURSIER Lui è Matteo Sarzana? MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Siamo al Senato.

GIOVANNA BOURSIER Dottor Sarzana? Scusi!

MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Stiamo ascoltando l’audizione.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Anziché stare nei corridoi come tutti gli altri, si rifugiano in una saletta. Più che concorrenti sembrano amici. Per Deliveroo c’è anche Gianluca Petrillo, che si definisce “lobbista appassionato di politica”. Nel 2003 era consulente, per internet, dell’allora ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri. È anche tra gli animatori del think thank di manager e imprenditori “La Scossa”, “lobby dell’impegno civile”, fondata da Francesco Delzio, ufficio stampa di Autostrade. E Deliveroo sponsorizza la Casaleggio Associati per l’ultimo rapporto sull’e-commerce, presentato in pompa magna a Roma e a Milano.

GIOVANNA BOURSIER Scusate mi dite perché non si può parlare con lei? Cioè non ho capito. Ma dottor Sarzana, perché si può fare un’intervista? Nessuno vuole parlare?

AUDIZIONE SENATO 1 OTTOBRE 2019 MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Impieghiamo direttamente più di quattrocento addetti, ventimila rider, collaborano con noi quindicimila ristoranti. I rider sono i collaboratori che possono decidere quando, quanto, come e dove lavorare, hanno contratti ovviamente di lavoro autonomo. Si è parlato tanto abbiamo sentito anche prima di sfruttamento. La media del compenso orario è superiore ai 10 euro l’ora.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Qui ci sono altri conteggi dei rider: tra ore lavorate, consegne, bonus e rimborsi chilometrici, fa circa 8 euro lordi l’ora, cioè circa 6 in tasca al rider. Ma per i rider meglio il cottimo, perché le consegne in certe ore aumentano.

AUDIZIONE SENATO 1 OTTOBRE 2019 MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Abbiamo di recente svolto un’indagine con una terza parte, non soltanto a SVG, ma a altre due fonti, di cui vi lasciamo poi i documenti, che sono l’Istituto Bruno Leoni e Adapt. L’Istituto Bruno Leoni si concentra su quello che potrebbe essere sull’impatto dei guadagni dei rider, dove evidenzia questo impatto negativo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Ma l’istituto Bruno Leoni tanto parte terza non è, visto che annovera tra i ricercatori Giacomo Mannheimer, che è qui in Senato per Glovo. Classe 1989, si occupa di mercato e concorrenza, scrive sul Foglio, Repubblica, Corriere. Nel 2016 era responsabile del programma di Stefano Parisi, candidato per il centro destra a sindaco di Milano; è il figlio del, finora, più noto Renato. Figlio del capo di stato maggiore della Marina, invece, è Gabriele De Giorgi, qui per Uber. Classe 1982, anche lui era in politica, ma col Pd: dalle primarie di Renzi a segretario del sottosegretario agli Interni, Domenico Manzione. Giovanni Imburgia, presidende giovani Confcommercio Palermo, invece, è qui per Social Food: distribuiscono in motorino in tutta la Sicilia, più Napoli e Bari. Invece Sarzana, in motorino, è andato a distribuire a Milano: pausa pranzo.

AUDIZIONE SENATO 1 OTTOBRE 2019 MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY In un’ora e 40 minuti ho effettuato otto consegne, che mi avrebbero fatto guadagnare in una pausa pranzo una media di 20 euro l’ora. La prima da Green Day nove minuti, il tempo di consegna, ero in motorino a Milano, la seconda da Obica quattro minuti. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette ordini, per cui avrei guadagnato tra i 35 e i 42 euro l’ora.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO In motorino si va più veloci che in bicicletta, ma in quattro minuti ritiri e consegni? E i 10 euro di media all’ora, diventano 20, poi 35 o 42? Non si capisce.

AUDIZIONE SENATO 1 OTTOBRE 2019 GIANNI GIROTTO – PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO Durante le altre ore, siamo sicuri che lei avrebbe fatto sette consegne? Lei ha anche specificato “in motorino”. Però sappiamo che la maggior parte di lavoratori va in bicicletta.

MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY In realtà in bicicletta non avrebbe fatto molta differenza perché non avrei accettato gli ordini lunghi, li avrei rifiutati, avrei scelto solo quelli più corti.

GIOVANNA BOURSIER Il problema è che Sarzana non ha detto che non si possono rifiutare gli ordini, perché si va giù in basso nei punteggi, non si ottiene più lavoro e così via.

GIANNI GIROTTO – PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO Anche tra gli stessi riders c’era una parte che diceva: ci sono dei peggioramenti nel ranking, e un’altra parte che diceva no.

GIOVANNA BOURSIER Se uno viene qua e dice delle cose che non sono proprio vere, cioè a chi sta – come dire – ribattere?

GIANNI GIROTTO – PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO Allora, un conto sono le opinioni, un conto sono dei dati.

GIOVANNA BOURSIER Sarzana ha fatto una prova lui. Ha preso un motorino, guadagna 30 euro l’ora.

GIANNI GIROTTO – PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO L’Inps ha portato una sua analisi interna in cui il 25 per cento dei cosiddetti riders si dice favorevole al cottimo: il 25 per cento favorevole, quindi il restante 75 per cento invece non lo è.

GIOVANNA BOURSIER Ultima domanda. Ha parlato Sarzana a nome di…

GIANNI GIROTTO – PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO Assodelivery, e quindi a nome delle principali.

GIOVANNA BOURSIER Assodelivery però anche di Deliveroo. Proprio Deliveroo ha sponsorizzato la Casaleggio Associati.

GIANNI GIROTTO –PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO La Casaleggio Associati è una società, è una azienda, è una impresa privata.

GIOVANNA BOURSIER Che non c’entra niente coi Cinque Stelle?

GIANNI GIROTTO –PRESIDENTE COMMISSIONE INDUSTRIA COMMERCIO TURISMO No, certo, certo che c’entra, ma è una impresa che sta sul mercato, da qualcuno può anche ricevere sponsorizzazioni. Non è illegittimo. Ma il fatto che noi non siamo assolutamente, non abbiamo conflitti di interesse, è dimostrato dal contenuto della norma. Il contenuto della norma, l’hanno detto chiaro e tondo Sarzana, Assodelivery, non piace a questi signori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piace il cottimo ai signori. D’altra parte non è neanche tanto un mistero, l’abbiamo sentito nel corso di quell’audio che è stato registrato durante la riunione che si è svolta nei piani alti della società Glovo, dove un dirigente cercava di spingere i rider fedelissimi presenti a scrivere una lettera e far passare un concetto, che è quello che il cottimo fosse la volontà dei rider stessi. Ecco, peccato che poi dati INPS lo smentirebbero, la maggior parte dei riders vorrebbe un lavoro subordinato e con delle tutele. E poi fa un po’ specie sentire che alcuni senatori del PD avrebbero accolto a braccia aperte la lettera con la proposta del cottimo dentro. Sempre che sia vero, perché l’abbiamo sentito solo in quell’audio. Poi c’è il manager Sarzana, leader dell’associazione di categoria. Si è fatto anche lui tre-quattro consegne, col motorino però, non in bicicletta. È giunto alla conclusione che cottimo è meglio, che a supporto ha portato anche uno studio di un istituto di ricerca prestigioso, peccato che in quell’istituto c’è anche chi condivide i suoi stessi interessi. E parliamo del manager di Glovo, Giacomo Mannheimer, la stessa società che ha fatto filtrare la lettera con la proposta del cottimo. A proposito, di chi è la voce di quel dirigente che ha spinto a scrivere la lettera? E perché il cottimo piace tanto ai rampolli? Non è che per caso senza il cottimo il sistema non reggerebbe?

GIOVANNA BOURSIER Allora adesso che ha parlato, parla con me?

MATTEO SARZANA – DELIVEROO ITALIA - PRESIDENTE ASSODELIVERY Grazie. GIOVANNA BOURSIER No ma scusi, dottor Sarzana, io sto cercando di intervistarla da mesi, sto facendo un pezzo sui rider, lei dice che avrebbe rifiutato la consegna se era lontana, ma lei lo sa che non si può?

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Se rifiuti due consegne ti arriva questo messaggio: non hai accettato, sei fuori. RIDER Non è vero. Tu non fai altro che rischiacciare il pulsante e ti rimette online. Io Deliveroo posso fare quanti rifiuti voglio.

GIOVANNA BOURSIER C’è questa notifica, no? Hai rifiutato due consegne, vuol dire che non sei più disponibile. Ma è vero o no? Oppure basta rischiacciare, come mi dicono, e rientri al lavoro?

ANGELO JUNIOR AVELLI – DELIVERANCE RIDERS MILANO Non sempre però riesci a rientrare. MERLINO NACLERIO – RIDER Io mi sono preso, diciamo così, delle meritate vacanze e mi sono trovato un punteggio talmente basso che non è più possibile lavorare.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Succede persino se hai un brutto incidente, magari anche perché a cancellare l’ordine è stato un cliente. RIDER Stava piovendo, andavo molto veloce perché avevo prima un ordine che mi avevano cancellato e quindi per evitare che mi cancellino anche l’altro ordine andavo veloce. E lì sono scivolato con la bicicletta.

GIOVANNA BOURSIER E si è fatto molto male? RIDER Moltissimo. Sono rimasto almeno cinque mesi, non facevo niente. Di conseguenza ho perso tutto, ho perso la borsa di studio, non ho potuto dare esami.

GIOVANNA BOURSIER Perché lei fa l’Università?

RIDER Sì, sì. Faccio lingue e cultura dell’Asia e dell’Africa.

GIOVANNA BOURSIER Glovo cosa ha fatto?

RIDER Niente. Non mi hanno più contattato. Mi hanno lasciato così.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il country manager di Glovo era Matteo Pichi, che è in Senato con Assodelivery.

GIOVANNA BOURSIER Scusi lei è di Glovo?

MATTEO PICHI – SEGRETARIO GENERALE ASSODELIVERY No, non lavoro più.

GIOVANNA BOURSIER Non lavora?

MATTEO PICHI – SEGRETARIO GENERALE ASSODELIVERY Non lavoro al food delivery.

GIOVANNA BOURSIER Non lavora al food delivery?

MATTEO PICHI – SEGRETARIO GENERALE ASSODELIVERY No non lavoro al food delivery, lavoravo.

GIOVANNA BOURSIER E quindi, perché è qua?

MATTEO PICHI – SEGRETARIO GENERALE ASSODELIVERY Perché sono segretario generale di Assodelivery, però non rappresento nessuna azienda, un secondo solo.

GIOVANNA BOURSIER No però non se ne vada!

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Matteo Pichi nel 2015 fonda, a Londra, la Foodinho, che poco dopo trasferisce in Italia per venderla alla spagnola Glovo, che poi nel 2018 compra anche Foodora e la mette dentro Foodinho, mentre Pichi esce da Glovo. E dal trasporto passa alla cucina: fonda a Milano Poke House. Cinque mini-ristoranti hawaiani, zone doc: da Brera, ai Navigli, a City Life.

GIOVANNA BOURSIER Ma chi è questo Pichi, Matteo Pichi?

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Sembra un giovane tonico, nel senso che crea società in Inghilterra, giovanissimo, poi le sposta in Italia, tutto senza capitali. D’altra parte questo è un business che non necessita di capitale, perché incassa immediatamente i soldi dei consumatori.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Tra i soci c’è anche Elisa Pagliarani, vicepresidente di Assodelivery, nonché, al posto di Pichi, country manager di Glovo, che quindi consegna i poke di Pichi e anche suoi. Ordiniamoli, con Deliveroo. Insalata fresca, riso basmati, tonno. Scegli la salsa: salsa speciale. Ne ordiniamo tre. Totale 37 euro e 50. Mancia per il rider? Sì: sei euro. Dalla mappa posso vederlo arrivare, circa tre chilometri.

GIOVANNA BOURSIER Ho pagato con carta di credito, però non so a chi ho pagato.

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO In che senso non sa a chi ha pagato?

GIOVANNA BOURSIER Cioè dove sono andati i miei soldi?

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO Ma signora io non riesco a capire la sua richiesta! Lei ha fatto un ordine tramite il nostro portale, Deliveroo.it, che poi noi gireremo al ristorante.

GIOVANNA BOURSIER Ma quindi io non sto pagando il ragazzo che me lo porta?

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO No, no, no.

GIOVANNA BOURSIER Glieli date voi?

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO Non si preoccupi signora.

GIOVANNA BOURSIER Però io ho messo una mancia di sei euro.

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO Sei euro di mancia andranno al ragazzo. Non si preoccupi.

GIOVANNA BOURSIER Mi preoccupo di questi ragazzi che prendono pochi euro l’ora. Lei mi può dire dove sono andati i miei soldi?

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO I suoi soldi sono arrivati a noi, Deliveroo si fa da tramite per il pagamento.

GIOVANNA BOURSIER Normalmente quanto prende?

AL TELEFONO CALL CENTER DELIVEROO Ma signora queste informazioni non gliele posso comunicare.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Infatti è quasi impossibile avere i contratti coi ristoranti. Riusciamo a vedere quello di Just Eat: prende 199 euro – quota affiliazione – e si tiene il 23 e mezzo per cento di ogni ordine, più Iva; che poi a conti fatti, fa il 37 per cento. Deliveroo invece prende 500 euro costo attivazione, e il 30 per cento su ogni ordine, sempre più IVA, che a conti fatti fa quasi il 40 per cento.

GIOVANNA BOURSIER Sul delivery, tu prendi un quarto dell’ordine facendo poco.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Niente. Una volta che hai realizzato la piattaforma tecnologica più la applichi, più ampli il tuo mercato meno ti costa l’investimento. È chiaro che la rivoluzione informatica in questo settore necessita dei lavoratori a basso prezzo, come era ai tempi del vapore.

GIOVANNA BOURSIER Ricominciamo da capo ad ogni rivoluzione industriale, no?

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Stiamo ricominciando da capo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il rider arriva in mezzora in bici. Mentre il mio pagamento sarebbe arrivato qua: Deliveroo Italia, a Milano, zona Navigli.

SEDE DELIVEROO Sì? Deliveroo.

GIOVANNA BOURSIER Sono Giovanna Boursier di Report. Volevo parlare con qualcuno. SEDE DELIVEROO Ok, un attimino solo. Facciamo aprire da qualcuno.

GIOVANNA BOURSIER Grazie.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Dopo dieci minuti risuoniamo.

GIOVANNA BOURSIER Non viene nessuno ad aprirci?

SEDE DELIVEROO Guardi non è disponibile un contatto con nessuno.

GIOVANNA BOURSIER Ma qua ci sono gli uffici amministrativi?

SEDE DELIVEROO Signora noi non possiamo dare informazioni.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Fatturano 22 milioni l’anno, ma tolte le spese, l’utile è un milione e mezzo. In crescita, visto che due anni fa perdeva 4 milioni e 7.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Dal 2017 al 2018, sono raddoppiati i ricavi.

GIOVANNA BOURSIER Deliveroo quanto paga di tasse?

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Deliveroo Italia non le paga perché compensa le precedenti perdite.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Chi continua a perdere è la capogruppo, l’inglese Roofoods, che controlla filiali in tutto il mondo, dall’Australia al Delaware: due anni fa perdeva 184 milioni di sterline e 232 milioni l’anno scorso.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI La controllante inglese continua a perdere, non sappiamo esattamente perché. Perché ha tanti costi.

GIOVANNA BOURSIER Eh ma cosa sono tutti questi costi? Li chiamano spese per servizi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Non lo sappiamo, perché non possiamo entrare in contabilità della società inglese.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO La controllante di Deliveroo che è in perdita, non è quotata in borsa, e a metterci - o meglio rimetterci - i soldi, sono centinaia di soci, tra cui persino la Quattordicesima Holding, che è dei figli di Silvio Berlusconi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Qualcuno contatta i ricchi e gli dice: volete mettere un chip in questa start-up che sarà la nuova Apple dell’hamburger? E questi magari ci mettono 500 mila, 300 mila. Perdono e nessuno si lamenta. Perdono cifre imbarazzanti, perché dall’inizio dell’attività pare che questo gruppo abbia perso 600 milioni di sterline, cioè una cifra… Però quello che è interessante è che questi raddoppiano i ricavi ogni anno, anche a livello mondiale. Quindi stanno forzando per prendersi il mercato.

GIOVANNA BOURSIER Ecco, gli salta il cottimo, gli salta il giocattolo?

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI In questa fase direi di sì, perché il mercato non credo possa sopportare l’aumento dei costi derivante dal pagamento di un lavoratore dipendente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il giocattolo rischia di saltare perché nel frattempo la legge è stata modificata: hanno introdotto garanzie e tutele, anche la paga oraria, verrà eliminato il cottimo, però tra un anno e salvo accordi sindacali. Campa cavallo. E adesso intanto come funziona? Funziona che tu chiami, ordini il cibo, arriva il rider, paghi, incassa la delivery italiana che però ha la madre straniera in paesi dove c’è anche la fiscalità agevolata. Hanno tante spese. Ecco, quali? Per vedere bisognerebbe anche capire quali servizi addebita la madre straniera alla figlia italiana, quanto pagano i manager, quanto costa la piattaforma digitale che fa girare il pacco e che fa girare anche i rider, che vengono pagati poco. Ecco, è un sistema che costa poco, quello che si scarica sui rider, per conquistare fette di mercato. E infatti la Deloitte ha riconosciuto alla Roofoods, quindi a Deliveroo, l’oscar della crescita del fatturato mondiale. E questo perché? Perché l’ha conquistato grazie alle pedalate dei migranti. Ecco, noi proprio ai migranti e ai cinquantenni e ai ragazzi vogliamo dare il nostro oscar perché sono l’ingranaggio più debole di un sistema che poi non è che si sia rivelato così generoso nel contribuire al welfare di uno Stato.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Anche Just Eat ha la mamma inglese, Just Eat Holding, che controlla le filiali europee, quotata in borsa ed è l’unica che sta benone. Utile: 55 milioni di sterline, a sua volta controllata dalla multinazionale Just Eat Plc, sempre a Londra. Utile: 80 milioni di sterline.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Just Eat in Inghilterra non paga tasse. Dichiara 55 milioni di sterline di utili con tassazione zero.

GIOVANNA BOURSIER Eh avranno fatto un ruling.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Un super ruling perché zero, è zero.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO E anche Just Eat la sede italiana ce l’ha a Milano, in questo palazzone, zona City Life: su 35 milioni di fatturato, l’utile è appena 2,2 milioni.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Hanno pagato 197 mila euro di imposte in Italia.

GIOVANNA BOURSIER Beh, qualcosa pagano.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Sì, ditelo ad un lavoratore dipendente di pagare il 10 per cento.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Country manager è Daniele Contini, al quale chiediamo un’intervista da mesi.

GIOVANNA BOURSIER Stiamo cercando di incontrare Daniele Contini.

SEDE JUST EAT MILANO Si, accomodatevi pure.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO C’è un call center, e gli addetti parlano al telefono con riders e ristoranti.

SEGRETARIA Eccomi. Il country manager non è oggi qua. Mi han detto di lasciare il numero che domattina vi chiama e vi accordate su quando vedervi. GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Poi c’è Glovo, la multinazionale dallo zaino giallo, che trasporta tutto, anche le chiavi dimenticate a casa, o i fiori o la spesa. Nata a Barcellona nel 2015, anche qui ricavi in crescita, da 100 mila euro a 14 milioni, ma 5,6 milioni di perdite.

GIOVANNA BOURSIER Di nuovo, grande fatturato...

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Grandissima perdita.

GIOVANNA BOURSIER Grandissima perdita. Tutto costi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Tutti costi. Questa è una società spagnola.

GIOVANNA BOURSIER Che però attraverso Foodinho controlla l’italiana. Giusto?

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Sì. GIOVANNA BOURSIER E Foodinho ha 10 milioni di fatturato e comunque perde.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI 7 milioni di perdita, mica male.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Foodinho Glovo l’aveva comprata da Pichi che adesso fa i poke. E poi aveva comprato anche Foodora, sempre in perdita. Chi sta dietro Glovo, però, non è chiaro: il 12 per cento di una società spagnola, 12 per cento di una francese, e 12 per cento di una lussemburghese, di proprietà giapponese. Il restante 64 per cento è di ignoti, perché in Spagna non c’è obbligo di pubblicare i soci.

GIAN GAETANO BELLAVIA – COMMERCIALISTA – ESPERTO IN REVISIONE BILANCI Allora Glovo, la società italiana perde, la capogruppo, che è spagnola, ancorché controllata da tutto il mondo, perde. Perché? Perché devono prendere il mercato. Però sono tutti contenti.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Mentre la riunione coi dirigenti i riders di Glovo l’han fatta nella sede amministrativa in Viale Monza, a cercare lavoro si va in zona Sesto San Giovanni. E qui la storia sembra più complicata.

RAGAZZO Si può entrare? RIDER Qua!

RAGAZZO Ma sei io chiedo di fare qualche ora me la fan fare?

RIDER Certo sì, se ti porto io mi danno 50 euro!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pure la cresta sopra ci fanno. Ma che mondo è? Quello dove basta un clic per eliminare un lavoratore come fosse una zavorra. Quello dove quando un uomo cade invece di tendergli una mano e farlo rialzare lo elimini con un clic perché non è più in grado di pedalare, di rendere. Ecco, a dare le carte sono un gruppo di rampolli un po’ furbetti, un po’ reticenti, neppure tanto disconosciuti alla politica, più avvezzi allo slalom col motorino che alla faticosa pedalata in bicicletta. La civiltà industriale si nutre di carogne e la vita dei nostri tempi è un’organizzazione di massacri necessari del visibile e dell’invisibile. Se qualcuno si ribella viene schiacciato in nome della vita stessa, che sale solo quando riesce a gettarsi alle spalle una parte di se stessa, come fosse una zavorra. Sembra la fotografia dell’attuale, è una citazione di poco meno di cento anni fa di Giovanni Papini.

Pif: «Faccio un film sui rider per farli sentire meno soli. Lavorano senza garanzie». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Walter Veltroni. Il regista: altro che manager di se stessi, lavorano a cottimo senza nessuna garanzia. Boicottare le app? Non è la soluzione giusta.

Pif, dopo la mafia hai deciso di occuparti, col tuo cinema, di uno degli altri flagelli del nostro tempo, lo sfruttamento del lavoro precario...

«L’idea era immaginare come sarà il mondo del lavoro fra venti, trent’anni. La degenerazione del mondo del lavoro e non solo. Stiamo attraversando un periodo in cui le app ci danno la possibilità di una serie di servizi che, da consumatori, viviamo come una meraviglia. Il problema è la condizione del lavoratore dietro e dentro questo universo. Faccio una premessa: io non sono un estremista, cioè non penso, ad esempio, che sia ingiusto lavorare la domenica, però credo sia giusto capire quanto il lavoratore della domenica guadagni. E la stessa cosa vale per le app. Cioè il problema è, come sempre, la distribuzione della torta della ricchezza. Ordinare una pizza è comodissimo con il cellulare, non ti muovi da casa, paghi poco. Ma se tu paghi poco, ci sono altri che pagano. Una volta lo schema era: io sono precario perché guadagno tanto ma non ho la sicurezza, io sono dipendente guadagno meno ma ho più sicurezze. Abbiamo unito il peggio del dipendente con il peggio del precario: guadagno poco e non ho più sicurezze. Ecco, ho pensato di raccontare questo paradosso e di farlo in forma di commedia».

Il tuo protagonista che lavoro fa?

«Il rider. Lui perde un lavoro classico in un’azienda multinazionale per colpa di un algoritmo che lui stesso ha contribuito a introdurre. A me l’algoritmo mi dà ai nervi. In teoria nasce per facilitarci la vita e invece è diventato, forse all’italiana, un alibi: “Questo non si può fare, lo dice l’algoritmo”. E tu dici “vabbé se l’algoritmo dice così io mi fermo”. È diventato un’ideologia. E poi non ho mai sopportato questi nuovi guru della tecnologia che ti presentano un telefonino come se fosse il Messia, come se ti dovesse cambiare la vita intera. Per carità, ce l’ha cambiata, eccome. Penso a un ragazzo disabile di oggi che parla con il mondo. Però quando i guru dal palco ti parlano, non vedono te come uno a cui migliorare la vita. Vogliono spremerti, succhiare informazioni della tua vita che trasformano nel loro profitto. E anche quando ti presentano il lavoro, quando dicono “io ho questa compagnia di rider, lavori quando vuoi”, è tutto un bluff perché non è vero che lavori quando vuoi. Lavori quando loro ti danno la possibilità di lavorare. Se stai male e non lavori o se lavori poco vieni punito. Se piove e non lavori vieni punito e poi lavori sempre meno. In realtà tengono un dipendente con le condizioni di un libero professionista. L’affermazione secondo la quale “tu sei manager di te stesso” è una palla clamorosa. Ma ci vuole qualcuno, come sempre è stato nella storia, che introduca nel nuovo mercato del lavoro regole che garantiscano le persone e i loro diritti. Non lo faranno da sole, le multinazionali. Servono i governi, gli Stati. Non è questa l’essenza della democrazia?».

Ti sembra che gli esseri umani che vivono questa condizione siano sostanzialmente soli? Senza sindacati o partiti che si occupino di loro...

«Eh sì, perché queste nuove tecnologie fanno fatica a riconoscere le figure sociali. Anche perché è stato introdotto un metodo lavorativo da libero professionista. Il professionista storicamente non ha un sindacato, cioè ognuno pensa a sé. Oggi il modello di organizzazione produttiva che ci attrae tanto è proprio spezzettare il mondo del lavoro. Gli stessi sindacati sono colpevoli perché hanno reagito troppo tardi rispetto alla trasformazione del mondo del lavoro. E questo nuovo mondo del lavoro fa fatica a riconoscere il sindacato. Qual è la soluzione? Io non ce l’ho, però so quello che non si deve fare, boicottare Amazon o cose simili. La storia insegna che è andare contro i mulini a vento. La tecnologia non si ferma. È la democrazia che deve correre veloce. Quindi rimodulare le garanzie, per dare diritti anche in un mondo del lavoro con più flessibilità, rispetto al tempo dei nostri genitori».

Per preparare il film hai parlato con i riders?

«Sì, ho fatto amicizia con uno di Firenze. In una tappa dello spettacolo teatrale “Momenti di trascurabile felicità” l’ho chiamato perché venisse e poi ho detto a questo ragazzo: alla fine sali e racconti la tua battaglia. Sei uno di quelli che sta combattendo per avere diritti, assicurazione, il minimo che uno dovrebbe avere quando lavora. Gli ho detto di vestirsi da rider, con l’uniforme. Appena è salito ho detto: “Scusate, ora devo farvi conoscere una persona”. Lui è venuto sul palco vestito da rider ed è scattato l’applauso. L’applauso istintivo mi fa sperare che la gente abbia capito che questi esseri umani sono davvero i nuovi sfruttati».

Il paradosso: un lavoratore 50enne che perde un lavoro storico deve quasi ringraziare l’opportunità che gli danno questi impieghi precari.

«La mia povera zia Gabriella, che faceva l’assicuratrice, un giorno, quando sognavo di fare il regista sdraiato sul divano a Palermo, mi invitò a salire a Frosinone dicendomi: “Perché non vieni ad aiutarmi? È un lavoro sicuro...”. Il senso era che poi avrei preso l’agenzia, e oggi sarei qui a parlarti della nuova Sara assicurazioni».

A propormi una polizza...

«Feci questo ragionamento: in Italia una volta che hai lavoro, hai il tuo stipendio, come fai a mollare tutto perché vuoi fare dei film, la cosa più precaria nel mondo? E questa cosa è un po’ un dramma. In Italia non hai la possibilità di sognare. Ed è un dramma. Cito sempre quel maledetto e benedetto libro, Il Gattopardo. Nessuno lo ha letto però tutti ci ricordiamo quella famosa frase — “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” — e con quella ci siamo costituiti un alibi di ferro al nostro cinismo e alla nostra rassegnazione. Io ho fatto una cosa rivoluzionaria per essere italiano: ho detto no al lavoro di zia Gabriella che mi voleva tanto bene e che ringrazio, tramite te. Ho detto no, io voglio rischiare. Però ero ventenne, a 50 anni è più difficile. Cogliamo la possibilità di questa flessibilità per riuscire a lavorare in modo tale che uno a 50 anni possa cambiare professione, come succede negli altri Paesi. Questa è la flessibilità che mi piace, fatta di opportunità di cambiamento e di solide garanzie. La società non reggerà separando troppo poveri e ricchi, garantiti e non garantiti. Sarò ingenuo, ma quando vedi i profitti di queste società o le buonuscite dei manager dici: “Vabbé però forse ad una fetta di torta un po’ ci potresti anche rinunciare”».

Quanto guadagna un rider all’ora?

«Nel film ho cercato di essere un po’ generico, ho voluto ricostruire il loro metodo di lavoro, non nelle cifre, perché il guadagno è vario e anche le assicurazioni. Ci sono alcune ditte che ti danno un’assicurazione sanitaria, altre che proprio ti ignorano, chi ti calcola le spese di manutenzione della bicicletta o del mezzo e chi no. Poi, certo, se lavori sotto la neve, se lavori sempre, anche quando stai male, riesci ad avere uno stipendio di mille, milleduecento euro. Però ti devi ammazzare. Un tempo si chiamava cottimo. Oggi si deve chiamare cottimo».

La precarietà, figlia della flessibilità, è alla base del sentimento di paura che c’è nell’opinione pubblica? Cioè nasce dal fatto che, sentendosi insicuri socialmente per sé e per i propri figli, la reazione più facile è prendersela con qualcuno che, ipoteticamente, porta via ricchezza?

«Sì, quando lo stagno è piccolo, c’è poco spazio per farsi il bagno, il primo ad essere di troppo è quello che non parla la tua lingua. Lì ci dimentichiamo tutti gli impegni morali, i valori cattolici e cristiani. Quando lo stagno è piccolo il primo che ti dà fastidio è quello che non è del tuo colore di pelle. L’aggravante è che spesso non è l’immigrato che ti ruba il lavoro. Io posso sostenere una discussione con chi dice prima gli italiani. Non sono d’accordo, ma parliamone. Il problema è che spesso parli con uno che si basa su numeri completamente inventati e questo rende difficile capirsi. Al razzista dico che questa loro politica non funziona. Io amo i neri, tu li odi, ok. Applichiamo pure la tua politica, ma vedrai che è sbagliata, non ha mai risolto i problemi che indicava. C’è un solo posto al mondo in cui, anche con i populisti al governo, il problema dell’immigrazione sia stato risolto? La realtà è più forte delle urla».

Con «La mafia uccide solo d’estate» e ora con questo film ti proponi una forma di cinema civile in senso classico o quella che c’era in una certa commedia all’italiana?

«C’è una frase meravigliosa di Ettore Scola che lui non ricordava di aver detto. Stava montando il suo primo film e diceva: “Non so se essere Risi o Rosi”. Geniale, come lui. Io credo che nelle mie storie l’impegno civile sia sempre filtrato dalla commedia quindi, umilmente, penso di appartenere più alla scuola di Scola».

Che titolo avrà il tuo film?

«Si intitolerà “E noi come stronzi, rimanemmo a guardare”».

Il caporalato digitale tra i rider: «Dammi il 20% e ti cedo la app». Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 su Corriere.it da Antonio Crispino. «Dammi il 20% e ti cedo l’app». Così lavora a Milano chi non ha documenti in regola. Le aziende: Tolleranza zero. I fattorini fantasma si incontrano tutti i giorni nel piazzale davanti alla Stazione Centrale di Milano oppure vicino all’altro scalo ferroviario di Milano Garibaldi. Portano il cibo nelle nostre case, anche se nessuno sa chi siano. Nelle ore in cui effettuano consegne, infatti, vestono l’identità di un’altra persona. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di immigrati in attesa del permesso di soggiorno che, per provare a vivere dignitosamente, si affidano al caporalato digitale. Il fenomeno ha due volti, abbastanza diversi. Il primo mostra i tratti di un caporalato di tipo «sussidiario» e viene praticato tra immigrati che cercano di aiutare i connazionali. Questo presuppone che i primi siano regolarmente registrati a uno dei tanti siti di food delivery. Dopodiché cedono a qualche conoscente l’attrezzatura e lo smartphone con l’applicazione necessaria per lavorare, sia perché genera il codice che consente il ritiro del cibo al ristorante sia per conoscere l’indirizzo di consegna. Quasi tutti, a chi li avvicina fingendo di voler diventare un rider, dicono di averla ricevuta gratuitamente ma è probabile, invece, che paghino almeno 65 euro. Cioè l’equivalente della cauzione che il rider versa alle piattaforme digitali per ricevere lo zaino termico. È il caso di Mohamed. In Guinea faceva il calciatore e a 27 anni ha una ex moglie, una nuova compagna e una figlia di tre anni, tutte rimaste in Africa in attesa dei soldi che lui manda dall’Italia facendo il fattorino. Ogni giorno staziona in piazza Duca d’Aosta a Milano con bici e zainetto di un suo amico: «Ha trovato lavoro in un ristorante come cameriere e mi ha ceduto l’app per qualche mese». L’altra forma di caporalato la spiegano due fattorini, un italiano e un nigeriano, fermi davanti a un McDonald’s. «Se non hai i documenti non ti resta che metterti d’accordo con qualcuno e comprargli l’account. Lo fanno soprattutto gli italiani, si registrano con più facilità, e poi vendono la registrazione dandoti un’opportunità di lavoro». Quella che il ragazzo chiama «opportunità di lavoro» in realtà è puro sfruttamento. Lo sa anche lui: «In caso di incidente raccomandano di non chiamare ambulanze o polizia per evitare l’identificazione». La vendita dell’account in alcuni casi si affianca al pagamento di una «tassa» sulle consegne effettuate. Glovo, ad esempio, per ogni ordine paga 2 euro, a cui si aggiungono 0,63 centesimi per ogni chilometro percorso. Il rider racconta che al caporale digitale andrebbe il 20%. Che aumenta se piove poiché la paga cresce del 20% in caso di pioggia. Ma come è possibile effettuare consegne al posto di altri senza che i vari Glovo, Deliveroo, Uber, Just eat se ne accorgano e senza che il fenomeno venga denunciato alle forze dell’ordine? La risposta viene dalle sessioni informative di Glovo che si tengono al settimo piano di viale Monza a Milano. All’aspirante fattorino che dopo le domande di rito chiede se è possibile cedere l’applicazione a un amico, il tutor risponde: «Assolutamente no, sarebbe caporalato». Poi aggiunge: «Se lo scopriamo non vi denunciamo, perché evitiamo di denunciare, ma vi sospendiamo l’account». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Deliveroo, che attraverso l’ufficio stampa informa che l’azienda «ha un approccio di tolleranza zero sull’argomento». Ma alla domanda su quanti e quali provvedimenti abbia generato questa tolleranza zero non c’è risposta. Perché aggirare le regole è davvero semplice. Basta trovare l’accordo con un ragazzo disposto a cedere lo zaino e l’account. Tutto intestato a un giovane di origini africane. La prima consegna è una confezione di gelato. All’arrivo nella gelateria si mostra il codice generato dalla sua app. Un commesso lo guarda, e anche se chi si trova di fronte non somiglia a un immigrato dalla sponda Sud del Mediterraneo, non fa una piega: prende la confezione, la sistema nella borsa frigo e saluta. Il gelato arriva a destinazione in un condominio in via Zanella, a 4 km dalla Stazione centrale. Il guadagno sarebbe 4,52 euro, ma 90 centesimi li tratterrebbe il caporale. Una tangente sul lavoro povero. Senza lasciare tracce. Come fantasmi.

La caccia a zaini e account: sul web in vendita a 20 euro. Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Ci sono due modi per mettere in contatto domanda e offerta, ossia chi vuole vendere il proprio account di food delivery e chi, invece, è interessato a prendere il suo posto perché non ha i documenti necessari. Il passaparola è il metodo più efficace, veloce e che non lascia tracce. In piazza Duca d’Aosta a Milano ogni etnia ha il suo gruppo di riferimento e il suo angolo di piazza da presidiare. Si ritrovano soprattutto in prossimità degli slot orari in cui si prevedono più ordini. Accanto a quelli con lo zaino in spalla e la bici, pronti a scattare, ci sono sempre connazionali che aspettano. È la lista d’attesa per entrare a far parte dei fattorini fantasma: clandestini, irregolari, immigrati in attesa di permesso di soggiorno (di almeno due anni, poiché alcune piattaforme non fanno lavorare extracomunitari con permessi di durata inferiore così come non possono accedere i richiedenti asilo). L’alternativa passa per il web. Su quasi tutti i siti di annunci si trovano inserzioni di zaini in vendita, tutti marchiati con i loghi delle più note applicazioni di consegne a domicilio. Non è vietato. Una volta pagata la cauzione per avere la sacca termica ognuno può decidere di farne ciò che vuole. C’è un però. Glovo, ad esempio, richiede 65 euro in contanti che restituisce al termine della collaborazione. Al netto di 15 euro che trattiene per l’usura. Quindi il valore è di almeno 50 euro. Invece se ne trovano in vendita anche solo a 20 euro. Il perché lo si scopre telefonando. «Assieme allo zaino vendo anche l’account, ti interessa? Però devi fare in fretta perché non lo uso già da un paio di settimane e il punteggio di eccellenza è sceso», dice al telefono un ragazzo con accento barese. Il punteggio di eccellenza è un numero che va da zero a cento che qualifica ogni rider. Più è alto (e sale in base al numero di consegne e le recensioni dei clienti) e prima sarà possibile decidere quando effettuare le consegne. Diversamente, si è destinati agli orari più scomodi. Come funziona ce lo spiega Mohamed, africano che incontriamo in Stazione Centrale mentre compulsa nervosamente il suo smartphone alla ricerca di un’ordinazione. Ci avviciniamo a lui come aspiranti riders. «Ho un amico che ha smesso da poco di fare il fattorino, lo chiamo e facciamo un appuntamento» dice rassicurante. Fa un paio di telefonate e dopo mezz’ora ci raggiunge con la risposta: «Potresti cominciare la settimana prossima ma devi iniziare da zero, è un account in pausa da molti giorni. Se vuoi qualcosa di meglio devi tornare tra qualche settimana». Cosa significa accettare queste condizioni lo vediamo nei giorni a seguire, quando a Milano si scatena un nubifragio. Mentre molti rider scompaiono, sotto i portici spuntano soltanto gli irregolari, soprattutto nelle fasce notturne. Per recuperare punti e soldi pedalano sotto la pioggia: Glovo paga il 20 percento in più sul prezzo finale dell’ordine. O scelgono quei ristoranti dove si perde più tempo per ritirate una pietanza: se l’attesa è superiore ai sei minuti la piattaforma paga cinque centesimi in più per ogni minuto d’attesa.

Rider e caporalato, indaga la Procura: trovati migranti irregolari. Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. La Procura di Milano accende un «faro» sul fenomeno dei rider, i ciclofattorini che consegnano il cibo a domicilio, oltre alla violazione delle norme antinfortunistiche e di sicurezza stradale, intende far luce anche sull’aspetto di sfruttamento dei lavoratori e tra i lavoratori, come il caporalato, e sulla presenza di clandestini. Infatti, ad agosto, dai controlli di 30 rider sono stati trovati 3 lavoratori senza documenti in regola. Il Corriere ha pubblicato pochi giorni fa un’inchiesta di Antonio Crispino sul caporalato digitale tra rider, scoprendo account italiani venduti a migranti irregolari: «Dammi il 20% e ti cedo l’account». A partire già dallo scorso giugno gli inquirenti milanesi, con la squadra specializzata del dipartimento «ambiente, sicurezza, salute, lavoro», hanno iniziato a raccogliere elementi e testimonianze a verbale nel fascicolo, al momento senza ipotesi di reato, ma che ipotizza presunte violazioni del decreto legislativo in materia di sicurezza sul lavoro (reato che a breve sarà iscritto) da parte delle società per le quali i rider lavorano. «È una indagine doverosa, sotto il profilo della prevenzione», hanno spiegato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Maura Ripamonti.

Milano, sfruttamento dei lavoratori e rischi sicurezza: la procura indaga nel mondo dei rider. L'inchiesta riguarda anche la violazione delle norme antinfortunistica e di sicurezza stradale. Ingaggiati anche tre clandestini. La Repubblica il 19 settembre 2019. La procura di Milano apre un’inchiesta sui rider, i fattorini che consegnano cibo a domicilio. Si indaga sulla violazione delle norme antinfortunistica e di sicurezza stradale. Ma i magistrati intendono anche fare luce sull'aspetto dello sfruttamento dei lavoratori e tra i lavoratori, come il caporalato, e sulla presenza di clandestini. Ad agosto, infatti, in seguito ai controlli su trenta rider sono stati trovati tre lavoratori clandestini, senza documenti in regola. A partire già dallo scorso giugno, infatti, gli inquirenti milanesi, con la squadra specializzata del dipartimento 'ambiente, sicurezza, salute, lavoro', hanno iniziato a raccogliere elementi e testimonianze a verbale nel fascicolo, al momento senza ipotesi di reato, ma che ipotizza presunte violazioni del decreto legislativo in materia di sicurezza sul lavoro (reato che a breve sarà iscritto) da parte delle società per le quali i rider lavorano. Un'indagine, in primo luogo, a tutela dei rider stessi, ai quali non viene dato alcunché in dotazione, e dunque girano per le strade senza caschi, spesso con bici e freni non adatti, senza luci la sera, senza catarifrangenti e senza scarpe adeguate. Malgrado, infatti, i ciclofattorini non siano inquadrati come lavoratori subordinati, il decreto, come è stato spiegato, tutela qualsiasi lavoratore inserito in organizzazioni con datori di lavoro. In più, la Procura ha deciso di monitorare gli incidenti stradali che coinvolgono rider, anche a tutela della collettività, perché spesso viaggiano contromano, senza luci o comunque senza rispettare le norme sulla circolazione stradale. In un video che è agli atti dell'inchiesta e che vi proponiamo ci sono le immagini di uno di questi incidenti, per fortuna senza gravi conseguenze per le persone coinvolte. In ipotesi, gli inquirenti potrebbero arrivare anche a contestare reati, per questo genere di incidenti, a carico dei datori di lavoro. Andrà valutata, insomma, la presunta responsabilità di coloro che mandano a lavorare in strada i ciclofattorini in condizioni non idonee. Inoltre, l'inchiesta vuole approfondire anche gli aspetti igienico-sanitari dei contenitori utilizzati per il trasporto del cibo, nei quali, ad esempio, vengono portati senza distinzione e in successione cibi freddi e caldi. Fino a questo momento, stando a quanto chiarito in Procura, sul fenomeno dei rider erano stati presi in considerazione solo i profili giuslavoristici, ossia le forme contrattuali con cui vengono assunti e i salari con cause aperte davanti ai Tribunali del lavoro.

RIDER, CORNUTI E MAZZIATI: ORA FINISCONO ANCHE NEL MIRINO DELLE BABY GANG. Luca Giampieri per “la Verità” il 4 giugno 2019. «Se denunci, ti facciamo saltare la testa». Letto così, potrebbe suonare come l'avvertimento di uno sgherro appartenente a qualche cosca, pronunciato al modo di un manrovescio intimidatorio all' indirizzo di un commerciante sottomesso alla legge del pizzo. Invece, è solo l' amaro epilogo di una serata da rider. A raccontarlo con voce sommessa, rompendo il silenzio dopo qualche titubanza, è Marco (nome di fantasia), giovane fattorino in forza all' azienda di consegne Glovo, che una settimana fa è stato rapinato da un gruppo di malintenzionati nel quartiere San Paolo, una decina di chilometri dal centro di Bari. «Una zona di forte degrado, con un elevato tasso di delinquenza, seppur non ai livelli di Japigia, ormai sotto il controllo della criminalità organizzata», spiega il glover vittima di un' imboscata nel rione popolare a Nord Ovest del capoluogo pugliese. «Quella sera avevo quasi finito il turno, quando ho ricevuto un ordine di consegna sprovvisto di cognome. Una volta arrivato davanti al numero civico indicato, ho telefonato per sapere quale fosse il citofono del cliente. È allora che ho visto avvicinarsi tre persone. Mi hanno detto che il cibo non era per loro, ma per degli amici che abitavano in una via poco distante. A quel punto, ho capito che qualcosa non andava, ma ormai ne avevo già tre addosso». Non appena voltato l' angolo, l' agguato si è compiuto: «C' erano altri sette ragazzi. Uno di loro mi ha affrontato, intimandomi di dargli il sacchetto col cibo e tutti i soldi che avevo con me». Un bottino di 550 euro che Marco consegna senza fare storie: «Non sapevo se fossero armati, e in ogni caso ero uno contro dieci. Temendo che la situazione potesse degenerare, non ho opposto resistenza». Nonostante le minacce, dopo l' accaduto Marco trova il sangue freddo per recarsi al commissariato di Polizia più vicino e fornire alcuni particolari sul giovane al quale, poco prima, aveva allungato il denaro. «Era quello che ricordavo con maggior precisione. In generale, sia lui che gli altri avranno avuto un' età tra i 18 e i 22 anni. Teppistelli di periferia che giocano alla mafia. I mafiosi, quelli veri, non si abbasserebbero mai ad azioni del genere». Una denuncia che il malcapitato rider compila senza troppe illusioni. «Non contavo che li fermassero, l' ho fatto solo per avere un documento da fornire a Glovo. Era già successo ad altri colleghi, i quali a loro volta avevano sporto denuncia, ma non è cambiato granché». A distanza di qualche giorno, sulla chat dei fattorini, Marco apprende di sei casi analoghi a quello vissuto in prima persona. Stesso metodo. «Col pretesto della consegna, uno dei glover è stato attirato nei pressi di un parchetto. Quando si è reso conto della situazione, ha proseguito senza fermarsi. Ovviamente, non ha portato a termine la consegna, ma almeno a lui è andata bene», osserva il fattorino pugliese entrato nella galassia del food delivery soltanto un mese e mezzo fa. «Lavoro quattro ore nella fascia serale, cinque giorni a settimana». Non proprio il migliore degli esordi, il suo. «Su Facebook c' è chi adesso parla di difendersi con la catena del motorino. Io mi sposto in macchina, ma non ho intenzione di girare armato». Di smettere non se ne parla: «Qui a Bari manca il lavoro.

Quattro mesi fa, ho lasciato il curriculum in sei agenzie di collocamento diverse: neanche una telefonata. Meglio rider che al call center, dove non mi pagavano nemmeno. Se, però, dovessi ricevere ancora un ordine di consegna a San Paolo, chiederò che venga riassegnato». Eppure, un modo per tutelare il lavoro dei pony express 2.0 ci sarebbe. E, cioè, fare marcia indietro su un servizio che Glovo ha introdotto poco più di due mesi fa: il pagamento alla consegna in contanti. Un tuffo nel passato che ha del paradossale per una startup nata nell' era touch di smartphone e tablet. Il rovescio della medaglia di questa svolta anacronistica è facilmente intuibile: «C'è una chiara correlazione tra l' incremento degli episodi criminosi e il nuovo metodo di pagamento. Il 90 per cento dei clienti utilizza questa opzione, un sistema che incentiva i farabutti mettendo a repentaglio l' incolumità dei rider costretti a muoversi con addosso centinaia di euro. A Milano, di recente, alcuni glover sono stati aggrediti da un gruppo di extracomunitari intenzionati a derubarli del fondo cassa, utilizzato per pagare gli ordini nei ristoranti e dare il resto ai clienti». Non basterebbe cambiare app? «Quando ti presenti per un colloquio alle altre società di delivery, non è detto che ti prendano. Glovo accetta tutti. E io avevo bisogno di lavorare».

 Sui rider trovato l'accordo: divieto di cottimo e più diritti. Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 da Corriere.it. «Il principale obiettivo di questo intervento è stimolare, anche in tale settore, la contrattazione collettiva che avrà il compito di regolare in concreto la figura dei rider», conclude. Catalfo si dice «molto soddisfatta» perché, sottolinea, «finalmente anche questi lavoratori avranno maggiori diritti e tutele». Anche il capogruppo a palazzo Madama di Italia Viva, Davide Faraone, si dice soddisfatto: «Sapete ai sensi di quale legge abbiamo trovato tutele e garanzie economiche per i rider? Ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 81 del 15 giugno 2015, il terribile jobs act. Lo dovevano cancellare, radere al suolo, seppellire e chi più ne ha più ne metta. Si è rivelato un grandissimo strumento per creare lavoro, garantire flessibilità alle imprese e dignità ai lavoratori».Non sono invece soddisfatti gli 800 rider, già protagonisti di una raccolta firme nei mesi scorsi contro la proposta del governo: «Siamo passati dalla padella alla brace. L'emendamento è insensato e pericoloso, perché obbliga le piattaforme a trovare un accordo coi sindacati tradizionali ma i rider iscritti ai sindacati si contano sulle dita di una mano e il motivo è semplice: siamo lavoratori autonomi e quello che propongono i sindacati è lontano anni luce da quello che interessa a noi», si legge. Il decreto potrebbe essere corretto semplicemente dando a reali rappresentanti dei rider il potere di trattare a livello aziendale con ciascuna piattaforma, indipendentemente se parte di sindacati tradizionali oppure no. Speriamo in un po' di buonsenso e di ascolto da parte del governo, per una volta. Altrimenti diventerà troppo tardi», concludono.

Da La Repubblica  il 4 ottobre 2019.  Intesa nella maggioranza di Pd e M5s sulle tutele per i rider. L'accordo, che prenderà la forma di un emendamento al decreto sulle crisi d'Impresa in conversione al Senato, è stato annunciato prima da Davide Faraone (di Italia Viva) e dal relatore al provvedimento, il M5s Gianni Girotto, quindi ufficializzato con una nota dalla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. "Abbiamo, proprio ieri sera, trovato in Senato un'intesa di maggioranza sul provvedimento che disciplina il lavoro e la protezione dei rider", ha spiegato il presidente dei senatori di Italia Viva, Faraone. "In sintesi, imprese e sindacati hanno 12 mesi di tempo per accordarsi su garanzie economiche e le altre tutele, come malattia, infortuni e previdenza. Se non trovano l'intesa, allora scatterebbe il lavoro subordinato", ha dettagliato. Quindi, "l'obiettivo è spingere le parti ad accordarsi", su quella che sarebbe un nuovo format "diverso dal co.co.co, una tipologia distinta, ma che allo stesso tempo preserva l'impostazione di lavoro autonomo". Secondo Faraone, nella nuova formulazione "siamo riusciti a proporre alcuni emendamenti al decreto che daranno sì dignità ai lavoratori, rispettando le peculiarità positive di questa nuova forma di organizzazione del lavoro, ma nel contempo anche rassicurazioni alle imprese. Non bisogna aver paura dell'innovazione, ma occorre accompagnare il cambiamento garantendo i lavoratori e le imprese". Ha spiegato invece l'esponente M5s, Girotto, che ai rider che svolgono "in maniera sporadica" queste attività "assicuriamo un pacchetto di tutele minime dignitose. Invece a chi lo vuole fare in maniera professionale, continuativa, diamo il cappello del lavoro subordinato e quindi le relative maggiori tutele". Dunque "chi vuole guadagnare di più - perché lavora di più - può arrivare a un contratto collettivo" ma "vietiamo il cottimo". Non uno stop totale, come già previsto nel dl crisi: "Ci potrà essere uno spazio, ma non ci potrà essere una retribuzione al 100 per 100 cottimo". Nel pomeriggio, l'ufficializzazione di Catalfo: "L'emendamento prevede per i ciclofattorini impiegati in maniera continuativa le tutele del lavoro subordinato mentre per coloro che lavorano in maniera occasionale un pacchetto minimo di diritti inderogabili (divieto di cottimo, paga minima oraria collegata ai Ccnl, salute e sicurezza, tutele previdenziali) a cui può affiancarsi una regolamentazione specifica tramite la stipula di contratti collettivi". Confermata dunque l'impostazione del doppio binario, spiega il ministero: per i ciclofattorini impiegati in maniera continuativa sono previste le tutele del lavoro subordinato mentre per coloro che lavorano in maniera occasionale e discontinua c'è un pacchetto minimo di diritti inderogabili. Il principale obiettivo di questo intervento, si spiega nel comunicato, "è stimolare, anche in tale settore, la contrattazione collettiva che avrà il compito di regolare in concreto la figura dei rider". Catalfo si dice "molto soddisfatta" perché, sottolinea, "finalmente anche questi lavoratori avranno maggiori diritti e tutele". Da parte loro, non tutti i rider paiono concordare: "E' certamente un passo avanti rispetto al vecchio Dl e apprezziamo la volontà del ministro Catalfo di riprendere in mano un dossier che sembrava chiuso. Resta da capire, e su questo siamo ben più scettici di prima, se poi il pacchetto di misure sarà efficace e se davvero sarà in grado di estendere diritti e tutele", dice Riders Union Bologna. Il timore è che la maglia larga sui lavoratori occasionali sia una via alla quale le aziende possano ricorrere per evitare di fatto i rapporti continuativi. Un altro gruppo di oltre 800 rider parla di "crescente preoccupazione" e di esser "passati dalla padella alla brace", secondo le parole del portavoce Nicolò Montesi. "L'emendamento è insensato e pericoloso, perchè obbliga le piattaforme a trovare un accordo coi sindacati tradizionali, ma i rider iscritti ai sindacati si contano sulle dita di una mano e il motivo è semplice".

«Io rider da 3 mila euro al mese. Se passa la riforma guadagnerò meno». Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 su Corriere.it da Stefania Chiale. Da due anni lavora con Glovo e Deliveroo. «Flessibilità e pagamento a consegna sono basilari». La petizione che ha lanciato con altri rider ha già raccolto 700 firme in tutta Italia. «Per salvare il nostro lavoro, prima che sia troppo tardi», dice Paolo B., milanese, ex dipendente d’azienda, 28 anni, da due in sella per Glovo e Deliveroo. Martedì sarà audito in Senato. Le norme del decreto rider, sostiene da una posizione finora poco raccontata, non solo non migliorerebbero le loro condizioni: le peggiorerebbero.

Perché?

«Perché impongono la prevalenza del minimo garantito sul pagamento a consegna e la copertura assicurativa Inail».

Non sono tutele che cercate?

«Dire che il pagamento in base alle consegne non deve essere “prevalente” mette un tetto al nostro guadagno. Ci sono fasce della giornata in cui si guadagna molto più di altre. Vorremmo che in tutte le aziende, non solo in alcune, ci fosse un minimo garantito orario, senza però diventare prioritario. Deliveroo per esempio dà 7,50 euro l’ora se sei disponibile ma non ti arrivano ordini. Io non li ho mai visti perché, con le consegne, ho sempre superato quella cifra».

Quanto guadagni al mese?

«Molto bene, ma faccio questo lavoro quasi a tempo pieno. La mia media è di 15 euro all’ora. Riesco ad arrivare anche a 2 mila, 3 mila euro al mese. A gennaio ho raggiunto i 3.500 euro. Lordi, in partita Iva forfettaria agevolata».

Molti rider criticano l’algoritmo, che ti butta giù nel ranking se non dai determinate disponibilità, e chiedono di essere riconosciuti come dipendenti.

«Non è così. L’algoritmo è meritocratico: in base alla disponibilità che dai, lavori. Nessuno vuole la subordinazione. La maggioranza dei rider fa meno di 10 ore settimanali, molti fanno altri lavori. Tutti riconoscono che flessibilità e pagamento a consegna sono basilari. Prima della gig economy si era mai vista tanta gente voler consegnare pizze a domicilio? Da due anni esistono gruppi e pseudo rappresentanti che sparano accuse infondate. È la prima volta che ci facciamo sentire».

Perché siete contrari alla copertura Inail? Vi bastano le assicurazioni private offerte dalle aziende?

«Chiediamo miglioramenti: minimi standard di copertura assicurativa che le aziende possano rispettare. L’Inail sarebbe impossibile da calcolare essendo il nostro un lavoro autonomo e vario per disponibilità di tempo. Chiediamo anche più trasparenza nel pagamento: è un mix tra chilometraggio e tempo di consegna non sempre chiaro».

·         La vita degli addetti alle pulizie.

Costretti a lavorare un’ora al giorno e a rovistare nei cassonetti: la vita di otto operai delle pulizie. Pubblicato martedì, 04 giugno 2019 da Antonio Crispino su Corriere.it. Il dopo lavoro inizia alle otto del mattino. Per quell’ora, otto operai di un’impresa di pulizie di Napoli hanno già finito di lavorare: sono arrivati alla Mostra d’Oltremare (il più grande spazio espositivo della città partecipato dal Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio) alle sette, pulito gli uffici che si trovano in una delle palazzine della fiera e smesso i camici da lavoro. Un’ora al giorno è quello che prevede il loro contratto. Dopodiché hanno tutta una giornata davanti per capire come arrangiarsi visto che il loro stipendio ordinario non arriva a duecento euro al mese. Quando va bene, nel senso che ci sono straordinari da fare, riescono a portare a casa, mediamente, altri cinquecento euro (solo uno su otto arriva a mille euro). L’età di questi operai è di circa sessant’anni. Fanno parte della Ecosprint che li ha ereditati dopo un passaggio di cantiere dalla SGM. «Non facciamo altro che applicare quanto previsto dal capitolato d’appalto della Mostra d’Oltremare. E voglio precisare che mentre le altre ditte hanno presentato ribassi anche del 28% noi ci siamo limitati a un 10% - si giustifica il responsabile Alfonso Amoroso -. A mio avviso la stazione appaltante fa un errore di valutazione in quanto il lavoro che svolgono richiederebbe almeno il doppio delle ore ma in ogni caso non cambierebbe la vita di questi operai. E’ una situazione si riscontra non solo alla Mostra d’Oltremare ma in tutto il settore delle pulizie. Gli appalti per pulire le Poste o le caserme delle forze dell’ordine prevedono gli stessi soldi e lo stesso monte ore». In questo caso parliamo di operai con storie personali travagliate. Marianna, ad esempio, ha perso il marito molto presto e ha due figli da mantenere. «A fine mese devo chiedere a mio suocero la parte mancante dell’affitto altrimenti non mi resta che dormire sui cartoni sotto i porticati». Un altro lavoro lo cerca da mesi, l’ultimo è stato in un call center. Dopo un breve colloquio le hanno fatto sapere che è troppo in là con gli anni. Mario, invece, sui cartoni ci è finito davvero, a 61 anni: «Faccio il ‘cartonaro’, raccolgo i cartoni migliori e li vado a vendere». Poi c’è chi sbarca il lunario facendo il facchino, chi aiuta nei traslochi e chi rovista nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di oggetti da rivendere nei mercatini dell’usato. «Non mi vergogno a dirlo ma è quello che faccio» dice Claudio, viene dal rione Traiano, un regno di camorra che ha avuto la sfortuna di attraversare in gioventù e che lo ha portato in carcere. «Piuttosto muoio di fame ma non cado negli stessi sbagli». Nel suo rione chi ha bisogno di mangiare diventa manovalanza e viene sfamato dalla camorra, con costi personali elevatissimi. «Basta nascondere una pistola o un panetto di droga in casa per una settimana e guadagni più di quanto porti a casa in un mese». A marzo è riuscito ad accumulare solo 44 ore aggiuntive perché tutto dipende dagli eventi che la Mostra riesce a organizzare. La paga oraria è di 7,22 euro. «La mattina arrivo alle cinque - racconta Salvatore, 60 anni - se non ci sono straordinari da fare prendo i miei sette euro e vado a casa». Dove lo aspettano moglie e tre figlie. «Vuole sapere la verità? Le bollette dell’acqua non le pago, mai pagate da quando sono in quella casa, nemmeno la spazzatura. Come potrei? Dovrei andare in pensione tra qualche anno ma i contributi versati sono pochissimi. Uscito da qui cerco tutti i lavoretti che alla mia età posso fare ma se mi capita un acciacco, come nei mesi scorsi, a casa mia è un disastro». Il più giovane è Alessandro, cinquantenne, una bambina di quattro anni e una moglie da cui non riesce a divorziare. «Non ho i soldi per il divorzio. Ogni sei mesi mi chiama l’avvocato per sapere cosa fare e gli rispondo di rifare i certificati di matrimonio e di residenza perché, appunto, scadono ogni sei mesi». Nella sua stessa condizione c’è Gennaro, è da cinque mesi che non riesce a pagare l’affitto della casa popolare: 42 euro. Mediamente, negli ultimi sei mesi, ha guadagnato 686 euro. Spiega che in passato non è andata sempre così. Con il lavoro di addetto alle pulizie guadagnava bene (che significa poco più di ottocento euro al mese). Poi le ore si sono drasticamente ridotte. «La beffa è che quando chiediamo al nostro titolare di lavorare di più ci ripete sempre che costiamo troppo». Che conferma: «Certo che mi costano di più - dice Amoroso -. Secondo quanto previsto dal contratto nazionale devo pagargli il 28 % in più per ogni ora di straordinario. Ma il problema principale da risolvere è il modo in cui vengono fatte le gare di appalto. Poi è chiaro che qui dobbiamo fare i conti anche con la concorrenza del lavoro nero e con la politica che pretende che quell’operaio lavori di più e quell’altro meno gradito di meno». 

·         Fra i migranti le prostitute schiave.

1.400 adolescenti prostitute schiave. Il dossier di Save the Children sulle vittime di tratta. I trafficanti le portano dalla Nigeria e dall'Est Europa. E le tengono sempre più nascoste, per sfuggire ai controlli. Il rapporto "Piccoli Schiavi" dà voce alle associazioni. Preoccupate per le conseguenze del decreto Sicurezza. Francesca Sironi il 25 luglio 2019 su L'Espresso. Le nascondono, adesso. Le tengono segregate in appartamenti, o le portano lungo strade sempre più periferiche, isolate. E ovviamente le picchiano per non parlare, a Palermo come a Torino e in Germania. Sono le vittime della tratta sessuale, schiave giovanissime, neo maggiorenni o ancora bambine, costrette a vendersi da una rete di trafficanti che prima le obbligano a partire e poi a prostituirsi. Il dramma della tratta delle schiave dalla Nigeria e dall'Est all'Italia e all'Europa – a cui l'Espresso ha dedicato negli anni diverse inchieste – è al centro del nuovo rapporto sui “Piccoli schiavi invisibili” di Save The Children. La Onlus, con il progetto “Vie d'uscita” , ha permesso l'anno scorso a 31 vittime di trovare un futuro, di uscire allo sfruttamento. Gli operatori in sole cinque regioni hanno incontrato oltre mille adolescenti sfruttate sessualmente. Mille e quattrocento schiave, obbligate a vendersi al costo di ferite fisiche e psicologiche talmente buie da cancellare le parole stesse per spiegarsi.

Le nuove forme di controllo e sfruttamento. L'ultima relazione semestrale della Direzione investigativa Antimafia ha dedicato ampio spazio al tema della tratta. A dicembre del 2018 la polizia ha arrestato otto nigeriani della confraternita “Eiye” a Torino, accusati di associazione di tipo mafioso, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. A marzo era stata la volta di Palermo, ad aprile di Cuneo; a maggio grazie alla denuncia di una minorenne, costretta a prostituirsi insieme a un'amica a Giugliano, è stata fermata una rete di sfruttamento a Napoli. Il mese scorso un'altra operazione, fra Palermo, Napoli, Dervio – in provincia di Lecco – e Bergamo ha fermato quattro uomini. Sono nigeriani, liberiani e italiani, tra cui un 78enne che faceva da vedetta e accompagnava le ragazze nelle zone di prostituzione. Il controllo dei trafficanti infatti è totale. E così il loro tentativo di non perdere la “merce”, le ragazze. Daniela Moretti del Servizio anti-tratta “Roxanne” del Comune di Roma, spiega nel rapporto di Save the Children come i trafficanti cerchino infatti di occultare sempre più la presenza delle minorenni sul territori. Ricorrendo alla prostituzione in appartamento ad esempio piuttosto che in strada, dove è più facile vengano individuate dagli operatori. Questo rende sempre più difficile la possibilità di entrare in contatto con loro e di offrire percorsi di protezione. «In Piemonte, e nello specifico nell’astigiano, è stato segnalato da Alberto Mossino di PIAM un aumento delle connection houses, ovvero case chiuse, ma aperte solo per uomini africani, in cui le ragazze possono affittare un posto letto il cui pagamento sarebbe garantito con i proventi derivanti dalla prostituzione», spiega il dossier sui “Piccoli Schiavi”: «Anche Andrea Morniroli di Dedalus ha riconosciuto come nella città di Napoli e provincia l’indoor rappresenti una modalità di sfruttamento assai diffusa e si stiano progressivamente sviluppando diverse connection houses». Morniroli ha raccontato come cercano comunque di entrare in contatto con le ragazze per offrire aiuto: «In questi casi si proceda via telefono», spiega: «Inizialmente ci si finge clienti al fine di capire il tipo di prestazioni offerte e quale sia il livello di autonomia. Molto spesso, componendo lo stesso numero non si riesce a parlare con la stessa persona e scopri che tre persone hanno 15 numeri diversi, così inizi a pensare ci sia un’organizzazione alle spalle». È difficile, ma tentano lo stesso, continuamente, a spiegare alle ragazze le possibilità che offre loro il paese per salvarsi. Possibilità che esistono, sono radicate. Ma hanno bisogno di fondi, risposte legali, e standard di intervento sui documenti da parte delle questure. Proprio sul punto dei permessi si aprono oggi nuovi rischi, a causa del decreto Sicurezza voluto dal ministro dell'Interno Matteo Salvini.

Le conseguenze del decreto sicurezza. Lo stesso governo che ha aumentato i fondi per le iniziative anti-tratta (24 milioni di euro dal 2019 al 2021) ha voluto infatti un decreto che indebolisce gli strumenti con cui gli operatori possono aiutare le vittime. Con il Decreto sicurezza, spiega il rapporto di Save the Children, è stata abolita la protezione per motivi umanitari, ovvero il modello di permesso più utilizzato per le ragazze sfruttate. Che ora si troveranno in condizioni di non poterlo rinnovare. A meno di non riuscire a ottenere un nuovo visto di soggiorno per “casi speciali”, fra cui la violenza domestica e il grave sfruttamento. Per le vittime di tratta esisterebbe da tempo un altro strumento, la protezione sociale “ex art.18”, ma il modo con cui viene accordata varia a seconda della Questura. Spesso viene infatti chiesto che la vittima, per ottenere il documento, denunci dettagliatamente le persone che l'hanno costretta a prostituirsi. Una denuncia che le espone, di fatto, a una vendetta dei trafficanti. Di cui hanno paura, per sé o per la propria famiglia. Da tempo le associazioni chiedono che vengano stabilite linee guida perché alle ragazze che si ribellano e iniziano un percorso di reinserimento sia riconosciuto un permesso, a prescindere dalla denuncia. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni pubblica il nuovo rapporto sulla tratta. Le vittime sono aumentate del 600 per cento in due anni. E moltissime sono minorenni. Destinate a un incubo. Ci sono poi altre due conseguenze del decreto Sicurezza. Con la chiusura dell'accesso nelle piccole strutture comunali della rete Sprar per la prima accoglienza, le ragazze si ritrovano oggi nei centri straordinari. Dove è maggiore il numero di persone e spesso inferiore la preparazione dei gestori. Così è difficile che i responsabili si accorgono dei segnali di disagio di una vittima o di una potenziale sfruttata. Lasciandola in balia dei trafficanti, anche all'interno stesso del centro. Infine, secondo il decreto Salvini chi ha un permesso di protezione internazionale non può iscriversi all'anagrafe. «E benché l’accesso ai servizi, come l’iscrizione sanitaria, ai sensi del Decreto, sia assicurato nel luogo del domicilio, la residenza rappresenta di fatto la chiave per l’esercizio effettivo di alcuni diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione», ricorda il dossier sui Piccoli schiavi: «Inoltre alcune ASL continuano a richiedere la residenza, ostacolando l’accesso al servizio sanitario. Che rappresenta uno degli strumenti essenziali per garantire assistenza alle vittime di sfruttamento sessuale».

Non chiamateli clienti. Trovare ogni mezzo per abolire questo business orrendo deve invece restare una priorità. Legale. Ma anche culturale. «Non si può ignorare», ricorda infatti nel dossier Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children: «il fatto che il fiorente mercato dello sfruttamento sessuale delle minorenni è legato alla presenza di una forte “domanda” da parte di quelli che ci rifiutiamo di definire “clienti”, i quali sono parte attiva del processo di sfruttamento. È necessario rafforzare l’azione di contrasto e, allo stesso tempo, promuovere iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e in particolare i più giovani sui danni gravissimi che questo mercato provoca sulle ragazze che ne sono vittima». Non chiamateli clienti, gli aguzzini di passaggio che approfittano della sofferenza di persone come Happy. Una ragazza a cui la violenza ha tolto anche le parole: non riesce a raccontare tutta la sua storia; Interi pezzi della sua vita restano neri, silenzio. Cresciuta in una famiglia numerosa di Benin City, in Nigeria, la sua storia ricalca quella di molte, troppe, sue coetanee, convinte come lei a partire con una promessa. Nel suo caso l'impiego in un bar. Affronta la rotta lungo il deserto, in Libia iniziano gli abusi. Quindi il gommone, il salvataggio nel canale di Sicilia, la trappola della rete di contatti che le forniscono tutto - biglietti, documenti, indirizzi, fino all'incontro con la donna che la porta al lavoro. In Germania. È lì che Happy viene costretta a prostituirsi da un'aguzzina che le requisisce tutto, compreso il telefono per parlare con la famiglia. In compenso la porta dal parrucchiere, la istruisce su cosa dire alla polizia per il permesso, l'accompagna in strada, controlla e prende i soldi alla fine dei rapporti. «Una mattina sono tornata dal lavoro in strada all’alba ed ero sfinita, mi sono messa a letto ma Zainab mi ha svegliata e mi ha costretto con violenza ad avere rapporti con un cliente», ha raccontato Happy agli operatori: «Dopo quella volta ho detto che volevo parlare con i miei genitori, che non sopportavo più quella vita, e mi stavo preparando i bagagli per chiedere aiuto a quelli dell’accoglienza, ma lei ha fatto entrare in casa due uomini nigeriani, che hanno cominciato a spintonarmi e a insultarmi. Ho cercato di scappare ma mi hanno presa a calci; mi sono accorta che uno dei due aveva in mano una pentola con acqua bollente, a quel punto mi sono buttata dalla finestra. Mi sono fatta molto male, qualcuno del vicinato mi ha soccorsa ma in ospedale non potevano operarmi perché ero senza documenti. Io per paura non ho raccontato nulla; poi è arrivata la Polizia e mi ha portato in cella. Mi hanno preso le impronte Avevo molto male perché non mi curavano abbastanza. Dopo due settimane mi hanno accompagnata in aeroporto per rimandarmi in Italia». È in Italia che ha incontrato i ragazzi di Vie d'Uscita ed è riuscita a cambiare il suo presente. È entrata in una comunità protetta, quindi in un programma di formazione. Grazie ai corsi, ha iniziato a lavorare come stagionale in un hotel.

Le prostitute schiave portate in Europa sono sempre più giovani. E numerose. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni pubblica il nuovo rapporto sulla tratta. Le vittime sono aumentate del 600 per cento in due anni. E moltissime sono minorenni. Destinate a un incubo. Francesca Sironi il 21 luglio 2017 su L'Espresso. Le denunce sono poche, pochissime. Solo 78, su quasi settemila vittime identificate. A dimostrazione «dell'immenso coraggio che devono trovare le ragazze che riescono a denunciare: facendolo spesso contro la propria famiglia, mentre si trovano da sole in un paese straniero, fidandosi di operatori conosciuti da poco». Lo racconta Carlotta Santarossa dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), responsabile dell'ultimo report sulle vittime di tratta, le persone portate in Europa attraverso la rotta dei profughi nel Mediterraneo centrale per diventare schiave. In questo caso, merce per il mercato del sesso. È da circa due anni che l'organizzazione – e l'Espresso, con diverse inchieste – segnala l'allarme legato all'aumento di giovani donne, soprattutto nigeriane, durante gli sbarchi nel Sud Italia, spiegando l'altissima probabilità che il loro destino non sia altro che lo sfruttamento sessuale. I numeri continuano ad aumentare. Le potenziali vittime – individuate come tali secondo una serie di indicatori – sono state nel 2016 8.277. Nel biennio 2014/15 non raggiungevano le 3.400. In più di 6.500 casi sono state identificate come tali. Solo 78, appunto, hanno denunciato. A far mancare la parola, la possibilità di un esposto, non è solo la paura del rito contratto in patria, delle minacce o delle ripercussioni sui prossimi. E non è solo il debito del viaggio, quel prestito che grava su quasi tutte le ragazze. «È spesso la mancanza di consapevolezza. Faticano a percepirsi come vittime. E non solo. In sempre più casi hanno scoperto soltanto qui cosa sia esattamente il sesso», continua Santarossa: «Perché sono troppo giovani. E questo è uno degli elementi più preoccupanti, di anno in anno: l'età». Le ragazze che sbarcano per essere poi strattonate in giro per l'Italia e l'Europa come prostitute, sono infatti passate dall'essere giovani adulte all'arrivare in Italia ancora minorenni. Adolescenti anche di 12 o 13 anni, convinte a partire e vendute a ore sulla strada. Su 290 vittime segnalate alle autorità o indirizzate a una forma di assistenza nel 2016, 164 erano minorenni. Sulle 135 segnalate alla rete antitratta, 87 non avevano 18 anni. Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni.

È la storia di Precious, 17 anni, nigeriana. Nella primavera del 2016 la polizia la vede lungo una strada, in Sicilia. È giovanissima. In commissariato, dice però di avere 21 anni e di voler raggiungere la sorella. È spaventata. Gli agenti trovano le sue impronte nel database: è sbarcata cinque mesi prima, ed è minorenne. La procura contatta l'Oim che la incontra in una comunità protetta dove è stata portata. Indossa ancora la parrucca rossa e i vestiti attillati che le avevano dato per andare in strada. Le operatrici le raccontano la storia di una ragazza come lei, portata a prostituirsi per saldare il debito del viaggio. Precious si confida. Non aveva mai avuto rapporti sessuali con un uomo prima di allora. Era costretta sulla strada per 12 ore al giorno. Ha paura di essersi ammalata. Del rito. Dei conoscenti. L'Oim la incontra ogni giorno per un mese. Lei non riesce a dormire, cerca a volte di scappare, per tornare dai trafficanti, a volte pensa di morire. «Ogni volta, però, la paura di tornare sulla strada è più forte di tutto», annota l'operatrice che ha seguito la sua storia. Alla fine, trova il coraggio di denunciare. Oggi vive in una struttura protetta, parla italiano e studia per diventare mediatrice culturale. È questa la speranza che anche Santarossa ci tiene a sottolineare: «Da parte delle istituzioni, l'attenzione è cambiata». Aumentano le segnalazioni che arrivano dai centri, quando sono capaci di notare che c'è qualcosa che non va. Le associazioni cercano di dare formazione e intervenire in tempo. Ma spesso mancano le prospettive concrete da dare come alternativa, o i posti nelle strutture specializzate. Per questo l'attenzione deve aumentare. Perché non agire per difendere queste ragazze, è essere complici.

Donne, nigeriane, schiave fra i profughi: "Così bisogna fermare lo sfruttamento sessuale". Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni. Francesco Sironi il 16 giugno 2016. Operazione di polizia contro la tratta delle nigeriane a Ragusa, 13 giugno 2016Quando l'hanno trovato c'era un'altra ragazza in casa. Anche lei minorenne. Anche lei nigeriana. Anche lei schiava, costretta a prostituirsi. Anche lei vittima di uno dei cinque nigeriani arrestati pochi giorni fa a Brescia e Torino per sfruttamento della prostituzione. Pezzi di una rete ricostruita dalla squadra mobile di Ragusa grazie alla denuncia di un'adolescente. L'avevano vista allo sbarco, a Pozzallo. Avvicinata con l'aiuto un'interprete, si era fidata: e aveva raccontato del viaggio a cui era stata convinta nel suo paese, del debito, dei riti, aveva consegnato agli agenti il numero della maman-prossineta che l'avrebbe dovuta avviare alla strada in Italia, nel Nord. Il problema delle vittime di tratta, sempre più minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell'accoglienza è sempre più ingombrante. E inaccettabile. Come denunciava già l'Espresso un anno fa, dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati nigeriani - oltre duemila solo da gennaio 2016. Un aumento, rispetto al 2014, del 300 per cento in un anno. «Almeno l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per sfruttamento sessuale», ha detto Federico Soda, direttore dell'Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim : «Negli ultimi due anni, oltre 5mila donne nigeriane hanno ricevuto assistenza dall'Oim per aiutarle a uscire dallo sfruttamento». Le leggi per fermare questa nuova schiavitù ci sono, ci sarebbero. L'Italia ne ha fra le più rigide d'Europa. Ma raramente riescono a farsi sentire. Nel 2015, ha spiegato Daniela Parisi, dal ministero dell'Interno, sono stati rilasciati solo 915 permessi di soggiorno di tipo umanitario, previsti per le vittime di tratta, altri 178 da gennaio a maggio del 2016. L'Oim, insieme a Save the Children e a Emergency ha contribuito alla costruzione di una “piattaforma nazionale” contro il traffico di persone. Per fermare la catena che dalle province africane porta alle piazzole padane, è necessario, spiegano, formare meglio gli operatori dei centri d'accoglienza, soprattutto straordinari, dove spesso queste donne restano a lungo dopo la richiesta d'asilo. Continuando a essere sfruttate. Bisognerebbe poi rafforzare la capacità di assistere le ragazze che denunciano, dando loro protezione immediata e percorsi di reinserimento più forti ed efficaci di quelli attuali. È necessario, infine, evitare la discrezionalità con cui diverse istituzioni affrontano il problema, aumentare i finanziamenti per i profughi vulnerabili (come loro) e intraprendere interventi nei paesi d'origine. E poi, con le nuove norme sulle identificazioni, i rimpatri “veloci” e i permessi negati dalle commissioni territoriali, prestare attenzione a queste donne. Che rischiano di diventare di nuovo vittima. Di minacce, ritorsioni e violenze.

Fra i migranti le prostitute schiave. Così dalla Libia aumentano le vittime. Per loro lo sbarco in Italia è l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Accade a migliaia di donne africane. Da mesi i trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi. Sfruttando l'emergenza. Mentre il governo non si muove. Piero Messina e Francesca Sironi il 14 luglio 2015 su L'Espresso. Quando sbarcano in Italia non sorridono. Hanno superato il deserto, attraversato il Mediterraneo, sono arrivate vive in Sicilia. Ma non sono salve. Perché per loro l’approdo è solo l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Sta accadendo ogni giorno a centinaia di donne, soprattutto nigeriane ma non solo. Adescate con la promessa di un futuro migliore in Europa, vengono traghettate dalla povertà alla schiavitù del sesso nelle città occidentali. È una tratta antica, ma che dall’inizio del 2014 si è sovrapposta all’ondata di partenze dalla Libia, assumendo proporzioni senza precedenti. I trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi, usando gli scafisti per portare qui la loro merce: le donne. Dopo lo sbarco, si insinuano nelle pieghe dell’emergenza per ottenere permessi temporanei e forzarle al marciapiede. Senza che le nostre istituzioni riescano a impedirlo, rassegnate a farsi complici degli sfruttatori. «Prima di partire siamo state istruite su come comportarci con la polizia», racconta Princess: «Dopo la traversata mi hanno mandato in strada a fare la prostituta. Se portavo meno di 200 euro al giorno venivo picchiata». Come fantasmi, le africane entrano nei centri d’accoglienza straordinari ed escono sui sedili dei clienti. «Queste ragazze vivono una seconda schiavitù. Prima la fame, poi lo sfruttamento sessuale», commenta padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista dei missionari comboniani, “Nigrizia” : «Il governo non sta agendo. Forse non vede la gravità del fenomeno, oppure chiude un occhio per evitare di soffiare sulle paure, di dare spazio alla destra. Intanto le reti criminali ne approfittano. E lucrano sulle donne contando proprio sull’incuranza delle istituzioni».

LA NUOVA ROTTA. Nei primi cinque mesi del 2014 erano sbarcate in Italia 218 nigeriane, 1400 in tutto l’anno. Nei primi cinque mesi del 2015 ne sono già arrivate 698, tre volte tante, più che in tutto il 2013. Significa che a dicembre di quest’anno potrebbero essere almeno 4mila le schiave trascinate sui barconi per finire a battere sui marciapiedi del paese. Secondo l’ Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), infatti, il 70 per cento delle giovani che arrivano da Lagos seguendo le rotte degli scafisti è destinata alla prostituzione. Lo confermano le indagini: «Il collegamento fra favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento sessuale non è occasionale», commenta il sostituto procuratore di Agrigento Renato Vella. «Entrare con documenti falsi via aereo è sempre più difficile», spiega Isoke Aikpitanyi, ex vittima del racket, oggi attivista e scrittrice, che con la sua associazione ha realizzato un’indagine su 500 prostitute nigeriane che lavorano in Italia. Quasi il 60 per cento è arrivata via mare dalle coste libiche. E sempre di più, le lucciole raggiungono l’Europa attraverso il Mediterraneo o i Balcani. Non vengono solo dalla Nigeria, ma anche dal Camerun e dal Bangladesh, sebbene le vittime che arrivano da questi paesi siano più difficili da intercettare. Il ministero degli Interni inglese ha nominato per la prima volta un commissario speciale contro la schiavitù, Kevin Hyland, che pochi giorni fa ha parlato di un «problema enorme e urgente da affrontare» di fronte ai duemila casi segnalati in Inghilterra. Insomma l’Europa comincia ad aprire gli occhi su questo fenomeno. Mentre a Roma tutto tace.

DOPPIO INCUBO. Le rotte clandestine sono un affare d’oro per i trafficanti: fanno risparmiare soldi per il viaggio e per i documenti. Ma per le donne significano soltanto dolore. Le sopravvissute portano spesso dalla Libia le cicatrici di violenze, abusi, rapporti non protetti se non con metodi artigianali (come pezzi di cotone infilati prima della penetrazione), aborti indotti in condizioni igieniche inimmaginabili. «Il gruppo di pick-up su cui viaggiavo nel deserto con altre dodici ragazze è stato fermato più volte. Ogni volta i militari hanno potuto fare di noi quello che volevano», racconta a fatica Princess, una ventenne che per mesi è stata obbligata a prostituirsi nel quartiere Ballarò di Palermo, prima di denunciare il suo aguzzino ed entrare in un percorso di protezione: «Minacciate dai fucili, siamo state violentate e offerte ai militari in cambio dell’immunità degli altri, per far passare indenne il convoglio. Opporsi era impossibile: si rischiava di essere uccise o abbandonate nel deserto». Testimonianze come queste sono numerose e concordanti. Tanto che Maurizio Scalia, procuratore aggiunto di Palermo, a capo del pool contro il traffico dei migranti, sostiene che «le donne siano diventate merce di scambio tra i trafficanti e le organizzazioni militari o paramilitari che si incontrano lungo il tragitto che porta dal centro Africa alle sponde Sud dell’Europa». Non soltanto destinate a diventare squillo, quindi, ma anche usate lungo il viaggio come beni da baratto. Un doppio incubo.

BAMBINE PERDUTE. Il via vai degli scafisti verso la fortezza europea non ha solo stretto con violenza le catene delle schiave lungo il viaggio, ma ha anche cambiato radicalmente la ricerca di nuova “merce” alla fonte, rendendo la caccia ancora più brutale. «Le ragazze che incontriamo ultimamente provengono da regioni poverissime; molto spesso sono analfabete; non hanno mai frequentato una scuola», spiega Tiziana Bianchini, responsabile immigrazione della “ Cooperativa lotta contro l’emarginazione ” di Sesto San Giovanni: «Ma soprattutto sono piccole. L’età media delle prostitute nigeriane era di 20, 21 anni prima del 2011. Adesso sono aumentate le minorenni, le adolescenti». In Puglia è stata fermata un’africana destinata alla strada. Diceva di essere maggiorenne, ma aveva appena compiuto dodici anni. Una bambina. «Moltissime nigeriane con cui entriamo in contatto hanno 15, 16 anni. I trafficanti hanno detto loro di presentarsi come maggiorenni per non finire in strutture più controllate», raccontano operatori dell’Oim che lavorano in Sicilia e Puglia proprio per prevenire lo sfruttamento: «Spesso sono vergini. Destinate non solo all’Italia ma anche alla Francia e al resto d’Europa».

RAGNATELE CRIMINALI. Abeke è partita dal suo villaggio all’inizio del 2014. Da Tripoli è salita su un barcone con un uomo e altre cinque ragazze. Era agosto. Dice di non ricordare l’approdo in Italia, ricorda però che dal porto hanno preso diversi treni, fino a Bari. Dalla stazione sono state portate in un appartamento con una sola stanza da letto: lei dormiva per terra in cucina. Le è stato detto che avrebbe dovuto prostituirsi per restituire il debito di viaggio, stimato irrealisticamente in decine di migliaia di euro, e che doveva200 euro al mese d’affitto e 100 euro alla settimana di cibo. Non basta: pagava anche 300 euro al mese per la piazzola sul marciapiede. Ogni giorno una macchina la portava a un quadrato di asfalto lurido di fianco alla strada alle sei di mattina e la ritirava alle 21. Ogni sera la “maman”, la donna che controlla le sue connazionali, raccoglieva i soldi: se guadagnavano poco venivano picchiate. Una volta Abeke si è rifiutata di avere rapporti per i dolori mestruali: è finita in ospedale. La sua storia è stata cambiata dall’incontro con Francesca De Masi, un’operatrice della cooperativa BeFree di Roma , che l’ha aiutata a uscire dal racket. Ma è simile a quella di centinaia di altre giovanissime. Uno sfruttatore nigeriano intercettato dalla polizia, Obuh Destiny, si riferiva a loro come le “galline”. Ogni ragazza veniva fotografata e schedata dalla sua organizzazione criminale perché fosse riconoscibile agli uomini del clan lungo le tappe del viaggio dalla Nigeria al Niger, quindi alla Libia, a Lampedusa e infine alle strade di Ravenna. La burocrazia del male di “Brothers Happy”, com’era chiamato in codice il trafficante, univa al controllo capillare delle donne il vincolo del debito contratto dai familiari per il viaggio, e infine la superstizione, con maledizioni vudù e pratiche di stregoneria tuttora temute da chi nasce in quelle terre. I riti violenti, l’efficienza e la paura le incatenavano a lui. Senza scampo. Queste reti criminali, a capo di un business che l’ osservatorio Transcrime (della Cattolica di Milano e dell’Università di Trento) stima valere da 600 milioni a più di quattro miliardi di euro solo in Italia, hanno capito presto come approfittare di tutti gli ingranaggi dell’emergenza in Italia. Non solo per la facilità di approdo, ma anche per la possibilità di mettere in regola, almeno per un po’, le loro vittime, arrivando a usare i centri d’accoglienza come basi operative. «È frequente, quasi normale ormai, incontrare ragazze che si prostituiscono per strada con in tasca la richiesta d’asilo», conferma Vincenzo Castelli, presidente di On The Road, una onlus che da tempo si occupa di contrasto allo sfruttamento in Abruzzo: «Macchine e pulmini le aspettano fuori dalle strutture che le ospitano e le portano a vendersi lungo le provinciali». I trafficanti obbligano le ragazze a presentare domanda di protezione internazionale, sapendo che questo darà loro diritto a stare in Italia fino alla risposta. Agli ufficiali le donne ripetono tutte le stesse storie-copione: i familiari morti in un attentato, oppure una persecuzione, poi la partenza attraverso la Libia. Sanno, i papponi, che oggi il tempo medio per avere una convocazione dalla commissione territoriale è di sette mesi, ma in alcune città come Roma, Milano o Palermo può esserci da aspettare più di un anno. E che, in caso di diniego, potranno fare ricorso, accumulando così tempo prezioso per sfruttare le ragazze senza il rischio che vengano rinchiuse in un Cie perché irregolari. E senza il rischio, quindi, che pur di non essere espulse le donne-bambine si convincano a denunciarli, accedendo così ai percorsi di protezione previsti dalla legge.

STATO ASSENTE. La procedura di protezione internazionale è un diritto che va garantito a tutti, non solo per umanità o per legge, ma perché se affrontata nel modo giusto potrebbe davvero servire a combattere lo sfruttamento. Alcune commissioni territoriali, spiega infatti Francesca Nicodemi dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), hanno iniziato a lavorare con gli esperti anti-tratta per riconoscere le vittime e aiutarle a denunciare. Andando oltre gli schemi che le porterebbero ad essere respinte, per ottenere invece una protezione specifica. «Torino è stata la prima», racconta l’avvocato: «Qualcosa si muove in altre città. Ma il problema è che non c’è nessuna indicazione a livello centrale». Lo stesso avviene nelle strutture d’accoglienza: onlus molto attive, governo molto assente. Immobile davanti alla tratta delle schiave. «Dopo lo sbarco le ragazze vengono sparpagliate nei centri straordinari, aperti d’urgenza dalle prefetture in tutta Italia», riprende Tiziana Bianchini della “Cooperativa lotta contro l’emerginazione”: «Ma gli albergatori o le cooperative improvvisate a cui vengono affidati i migranti non sanno riconoscere i segni dello sfruttamento». Che può avvenire così sotto i loro occhi. Stava succedendo a Monza, ma i responsabili di una struttura se ne sono accorti dopo una fuga e hanno chiesto aiuto a “Coop lotta”, avviando colloqui con 30 africane. Tutte erano già cadute nella trappola, anche se in modo “soft”: per convincerle a tacere i magnaccia dividevano i profitti a metà con loro. Cinque donne li hanno denunciati e sono state aiutate. A Napoli la prefettura ha stretto un accordo con Dedalus, un’associazione anti-tratta, per individuare le vittime nei centri d’emergenza. Ma a livello nazionale niente: nessun intervento a riguardo. Anzi, da due anni è fermo un piano di riforma necessario per adottare le normative europee. Lo Stato, in perenne emergenza, non si rende conto di essere diventato complice dei peggiori schiavisti del pianeta. E come ricorda Princess: «Che alternative danno le istituzioni a chi lascia la strada?».

Donne, nigeriane, schiave fra i profughi: "Così bisogna fermare lo sfruttamento sessuale". Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni. Francesca Sironi il 16 giugno 2016 su L'Espresso. Operazione di polizia contro la tratta delle nigeriane a Ragusa, 13 giugno 2016Quando l'hanno trovato c'era un'altra ragazza in casa. Anche lei minorenne. Anche lei nigeriana. Anche lei schiava, costretta a prostituirsi. Anche lei vittima di uno dei cinque nigeriani arrestati pochi giorni fa a Brescia e Torino per sfruttamento della prostituzione. Pezzi di una rete ricostruita dalla squadra mobile di Ragusa grazie alla denuncia di un'adolescente. L'avevano vista allo sbarco, a Pozzallo. Avvicinata con l'aiuto un'interprete, si era fidata: e aveva raccontato del viaggio a cui era stata convinta nel suo paese, del debito, dei riti, aveva consegnato agli agenti il numero della maman-prossineta che l'avrebbe dovuta avviare alla strada in Italia, nel Nord. Il problema delle vittime di tratta, sempre più minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell'accoglienza è sempre più ingombrante. E inaccettabile. Come denunciava già l'Espresso un anno fa, dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati nigeriani - oltre duemila solo da gennaio 2016. Un aumento, rispetto al 2014, del 300 per cento in un anno. «Almeno l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per sfruttamento sessuale», ha detto Federico Soda, direttore dell'Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim : «Negli ultimi due anni, oltre 5mila donne nigeriane hanno ricevuto assistenza dall'Oim per aiutarle a uscire dallo sfruttamento». Le leggi per fermare questa nuova schiavitù ci sono, ci sarebbero. L'Italia ne ha fra le più rigide d'Europa. Ma raramente riescono a farsi sentire. Nel 2015, ha spiegato Daniela Parisi, dal ministero dell'Interno, sono stati rilasciati solo 915 permessi di soggiorno di tipo umanitario, previsti per le vittime di tratta, altri 178 da gennaio a maggio del 2016. L'Oim, insieme a Save the Children e a Emergency ha contribuito alla costruzione di una “piattaforma nazionale” contro il traffico di persone. Per fermare la catena che dalle province africane porta alle piazzole padane, è necessario, spiegano, formare meglio gli operatori dei centri d'accoglienza, soprattutto straordinari, dove spesso queste donne restano a lungo dopo la richiesta d'asilo. Continuando a essere sfruttate. Bisognerebbe poi rafforzare la capacità di assistere le ragazze che denunciano, dando loro protezione immediata e percorsi di reinserimento più forti ed efficaci di quelli attuali. È necessario, infine, evitare la discrezionalità con cui diverse istituzioni affrontano il problema, aumentare i finanziamenti per i profughi vulnerabili (come loro) e intraprendere interventi nei paesi d'origine. E poi, con le nuove norme sulle identificazioni, i rimpatri “veloci” e i permessi negati dalle commissioni territoriali, prestare attenzione a queste donne. Che rischiano di diventare di nuovo vittima. Di minacce, ritorsioni e violenze.

Prostitute? No, sono schiave. La tratta delle donne che dalla Nigeria finiscono a vendersi sulle nostre strade, le 'confraternite' che le gestiscono e i legami con la nostra criminalità non fanno più notizia. Eppure il traffico delle ragazze ha un giro d'affari da milioni di euro. Ecco come funziona. Fabio Emilio Torsello il 20 febbraio 2013 su L'Espresso. Il negozio me lo indica con un cenno mentre ci passiamo davanti. Il quartiere è quello della Maddalena, decantato da De André. Dietro la vetrina, una ragazza nigeriana parla con una coetanea. "E' una Maman" mi spiega "una sorta di maitresse. E questo negozio è stato aperto grazie alla collaborazione di un italiano cui poi hanno regalato una ragazza per riconoscenza. In generale, tutti i negozi di parrucchiere o di cosmetici sono di copertura, servono a mascherare il traffico di ragazze". Ad accompagnarmi in giro per Genova è Claudio Magnabosco, fondatore dell'associazione "Le ragazze di Benin City" e marito di Isoke Aikpitanyi, una ragazza nigeriana vittima di tratta, ridotta in coma quando nel Duemila decise di sottrarsi ai suoi aguzzini. La raggiunsero in un parco a Torino quando era appena fuggita, la circondarono in tre e la picchiarono selvaggiamente finché una signora, attirata dalle urla, non chiamò la polizia. Isoke rimase in coma per tre giorni e le dovettero ricostruire l'arcata sopraccigliare.

L'operazione antitratta. Quello della tratta di esseri umani è un fenomeno di cui non si parla quasi più, come hanno denunciato anche i responsabili di Caritas Immigrazione durante il coordinamento della scorsa settimana: un traffico semiscomparso dalle cronache nostrane. Eppure proprio a gennaio una maxi operazione ha portato a ben 55 arresti, smantellando una rete internazionale che dall'Africa portava migranti in Italia. In manette è finito addirittura un mediatore culturale dell'Ambasciata italiana a Nairobi. Roba da prima pagina. E invece niente. E anche il giro d'affari era di tutto rispetto: circa 25 milioni di euro e proveniva dalla contraffazione dei documenti, dai proventi dei viaggi e dal vero e proprio commercio di persone.

Questione di Pil. In Nigeria, mi spiega Claudio, la tratta di esseri umani copre una percentuale del Prodotto interno lordo nazionale ed è gestita ad altissimi livelli. "Persone vicine alle istituzioni, molto potenti, che non si sporcano direttamente le mani ma gestiscono nell'ombra". E Claudio racconta la vicenda di Isoke: quando la ragazza chiamò i genitori sperando che potessero aiutarla, il padre, un funzionario del Tribunale, dopo qualche giorno le fece sapere che non avrebbe potuto far nulla: le coperture erano troppo potenti. "Si parlava, all'epoca, della moglie del governatore dell'Edo State, ma non ci sono prove".

La prostituzione per fasce orarie. Per tre giorni Claudio mi accompagna a conoscere i vicoli su cui si svolge il traffico delle ragazze dall'Africa e dal Sud America, mi indica gli appartamenti in cui si consumano gli appuntamenti, molti facilmente individuabili da una luce rossa appesa sopra l'ingresso. E non siamo ad Amsterdam ma in vicolo Untoria: "Molte ragazze" racconta "aspettano l'ora della pausa pranzo degli impiegati. La prostituzione, qui come in molte altre città, avviene per fasce orarie. Di mattina trovi le italiane, di pomeriggio le latinoamericane e la sera le nigeriane". Qualche ragazza di origine africana, però, la si incrocia anche di giorno. Aspettano, all'angolo con vicolo dei Droghieri o in vico della Scienza. Un dedalo di viuzze in cui si consuma la prostituzione genovese. Il quartiere della Maddalena, proprio dietro via del Campo.

Le ragazze "girano". "Spesso" prosegue Claudio "le ragazze vengono trasferite. Le Maman le distribuiscono in base alle città, alle esigenze e ai gusti dei clienti. Molte di loro arrivano da Londra e a seconda del miglior offerente vengono smistate in Spagna, Francia, Olanda o Italia. I trafficanti di recente hanno iniziato a farle passare dalla Svezia e dai Paesi scandinavi, dove c'è una percezione minore del problema della tratta di esseri umani". E proprio a Londra, prosegue "Isoke racconta di una busta sostanziosa consegnata alle guardie di frontiera per far passare sette ragazze, evitando qualsiasi controllo". Mentre camminiamo per le vie, una porta di un appartamento al pian terreno si apre, una ragazza lancia verso l'esterno uno sguardo circospetto, ci studia. L'interno è ordinato: un letto, luce soffusa, alcune candele. Passiamo oltre.

La struttura è gerarchica. Al vertice del traffico, personalità nigeriane di alto livello agevolano la tratta e offrono copertura. Subito sotto, le cosiddette Confraternite: gruppi violenti di ragazzi che coadiuvano le Maman nella "gestione" delle donne. Originariamente nate come gruppi universitari di studenti in Nigeria, le Confraternite sono divenute vere e proprie associazioni a delinquere, presenti in molte città italiane ed europee e riconoscibili per il copricapo o per alcuni vestiti con colori e simboli ben precisi, con un machete stampigliato su.  Secondo il racconto di Isoke, alcune confraternite sono arrivate addirittura a cercare di gestire i funerali delle ragazze uccise, reclamandone la salma. E poi ci sono le ritorsioni, le aggressioni. Un ragazzo che si rifiutò di sottostare agli ordini della confraternita, alcuni anni fa rischiò l'evirazione a colpi di machete. Elemento di raccordo tra le Confraternite e le Maman sono le cosiddette Londonie, una sorta di esattore - quasi sempre donna - che girano l'Europa per raccogliere il denaro guadagnato dalle Maman. Il sistema, da quello che racconta Isoke, non prevede una "Londonia" per ogni territorio, come si potrebbe credere. Sono le diverse Maman a raggiungere l'esattore quando arriva in Italia. "La Londonia" aggiunge Claudio "è una signora di alta levatura: se deve far finta di essere un ingegnere, nella realtà è ingegnere, con oggettivi motivi per spostarsi nei diversi Paesi in cui va. Ma può essere anche un diplomatico o un funzionario".

Le chiese finte e i pastori conniventi. Strumenti di controllo e raccordo del traffico sono i finti pastori delle chiese pentecostali che si offrono come confidenti delle giovani vittime di tratta ma in realtà collaborano con le Maman che le gestiscono. E una buona parte del condizionamento psicologico lo esercitano i riti wodoo: veri e propri sortilegi funzionali a condizionare la vita delle ragazze. Un sacerdote mette insieme un fagottino con capelli, unghie e sangue della donna, promettendo di restituirlo solo una volta pagato il riscatto. Dalla Nigeria, infatti, si parte con un debito da saldare e una falsa promessa di lavoro in Europa. Ma ci si ritrova in strada.

Il sistema delle Confraternite. "E' importante" prosegue Claudio "anche il linguaggio della tratta: la Maman è tecnicamente la "mamma", poi ci sono le altre ragazze che sono le "sisters", le sorelle, e i ragazzi che vengono chiamati i "brothers", fratelli. Rompere legami e condizionamenti così forti per ragazze semplici e spesso senza istruzione, provenienti dai villaggi, è difficile". E nel caso in cui qualcuna di loro tentasse di fuggire, interverrebbero i "butchers", i macellai, in forza alla Confraternita. Le confraternite più tristemente note sono quelle dei Black Axe, dei Black Eye, Vikings, Bucaneers, Mafia, Black Beret, molte delle quali operano sul territorio italiano in perfetta sincronia con le mafie italiane e straniere, in una pax mafiosa che permette di gestire traffici e ragazze. "Le questioni relative alla tratta - spiega Isoke - vengono sempre gestite sottobanco, non si spara, anche perché la tratta di donne (ove non di bambini) è contro il codice tradizionale delle mafie italiane e quindi non deve in alcun modo emergere che 'Ndrangheta, Camorra o Cosa Nostra si occupano, anche in modo indiretto, di questo tipo di commerci". Certo è impensabile che traffici di questo tipo possano avvenire sul territorio italiano senza che la criminalità organizzata "nostrana" ne sappia niente. Un traffico quotidiano, silenzioso, con scambi di "merce umana" pagata in contanti, picchiatori prezzolati e città e clienti indifferenti.

Tra le africane schiave della tratta, «Siamo diventate bancomat di carne» di Amalia De Simone e Marta Serafini su Il Corriere della Sera aprile 2019. Con lo sfruttamento delle donne, la mafia nigeriana finanzia il traffico di droga. Che a Castel Volturno ha una delle sue basi principali. «Mio padre è stato ucciso in Nigeria per una lite tra vicini a causa di un terreno. Da quel momento io, mio fratello e mia madre siamo rimasti senza protezione. E così ho deciso di andarmene». Blessing ha 25 anni. Una cascata di treccine lucide le copre le spalle. Parla piano, si tocca il viso, il respiro ogni tanto si fa affannoso, la voce si strozza.

SULLA VIA DOMIZIANA. «Una donna mi ha spiegato come funzionava. Sarei partita e, una volta arrivata in Italia, avrei saldato il mio debito. Venticinquemila euro, mi hanno detto. Ma non mi hanno chiarito che lavoro avrei dovuto fare». Undicimila, tante sono le nigeriane sbarcate nel nostro Paese secondo l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, con un aumento dal 2014 al 2016 del 633 per cento. Hanno fra i 16 e i 25 anni, vengono da Lagos, Benin City e l’area del Delta del Niger. Nell’ultimo anno gli arrivi si sono fermati. Ma sulle strade delle città italiane, da Torino a Catania, è schierato un esercito di donne, costrette a prostituirsi ogni notte. La storia della tratta delle nigeriane non è recente. Le prime migranti sono arrivate in Europa negli anni Ottanta. A spingerle verso Nord, la crisi del 1979 e le conseguenti politiche di aggiustamento, volute dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, che si innestarono con pesanti ricadute sociali sulle macerie della guerra civile del Biafra. Un mix di povertà, disoccupazione e sotto occupazione perfetto per i trafficanti a caccia di corpi. All’epoca le ragazze avevano tassi discreti di scolarizzazione, una età media leggermente superiore a quella attuale (20-30 anni) e provenivano principalmente dai grandi centri urbani, la capitale Lagos su tutti.

LE VITTIME HANNO FRA I 16 E I 25 ANNI  MOLTE HANNO SUBITO STUPRI E TORTURE. In anni recenti sono stati altri i fattori che hanno provocato le partenze. La bassa quotazione del petrolio dapprima ha spinto verso Nord le popolazioni dalle aree rurali e fluviali, come il Delta del Niger abitato dalla minoranza cristiano-animista degli Igbo dove sono stati scoperti primi giacimenti di oro nero. Poi alla popolazione — rimasta senza cibo e prospettive — non è rimasta altra opzione che partire. Cambiano le cause, si modificano le rotte ma il risultato è lo stesso. La riduzione in schiavitù delle donne nigeriane ora inizia ben prima di salire sui gommoni in Libia. «Mi sono incontrata con delle altre ragazze. Ci hanno portato in una casa con un tempio. Hanno ucciso delle galline, hanno tirato fuori il cuore e ce lo hanno fatto masticare. Ci hanno fatto giurare e ci hanno detto che se non avessimo pagato il debito e mantenuto il patto saremmo morte», continua a raccontare Blessing.  Juju, lo chiamano il giuramento. Il rito, nato da una commistione di animismo e magia nera, serve a porre le donne in uno stato di sudditanza psicologica. In molti casi gli stessi pastori che lo praticano sono complici della tratta. Mentre per le ragazze sottrarsi a questo vincolo diventa qualcosa di impensabile, pericoloso e terribile, tanto da provocare crisi psicotiche e stati di paranoia. «Il giorno dopo siamo partite», prosegue Blessing. Da qui in poi, le storie delle ragazze nigeriane si assomigliano tutte. Stupri nel deserto durante il viaggio nelle decine di passaggi di mano dei trafficanti. Violenze nel transito in Libia. L’incubo del viaggio in mare. Botte all’arrivo in Italia. E poi la strada. Le più «fortunate» come Blessing vengono salvate dalle Ong tra cui Dedalus e la rete Dire dei centri antiviolenza che le mettono al riparto in case protette. Ma per la maggior parte il destino è finire sotto il controllo fisico e psicologico di una madame che, spesso, a sua volta è stata una prostituta.

IL LITORALE DI CASTEL VOLTURNO. Castel Volturno, Pescopagano, Bagnara. Per 30 chilometri l’antica via Domitia è terra di nessuno. Il mare si infrange contro i resti delle villette – molte abusive – costruite negli anni Settanta fin sulla riva e poi distrutte dal mare. Verso l’interno le abitazioni sono per lo più occupate dai nigeriani. Impossibile dire quanti siano, dato che molti non hanno permesso di soggiorno e utenze dichiarate. In giro, pochissimi italiani. Perfino i Casalesi, il potente clan della camorra che controllava l’aerea, non è più presente, almeno fisicamente, sul territorio. Ed è qui che si trova una delle piazze italiane più importanti della tratta. Una ragazza si copre il volto per non essere ripresa. Sta battendo. Poco più un là si stagliano un negozio di alimenti africani e un hotel con l’insegna «camere a ore». «Molte di queste donne portano sul corpo i segni delle violenze ripetute», spiega Sergio Serraino, coordinatore dell’ambulatorio di Castel Volturno di Emergency. Tante rimangono incinte, alcune riescono a passare in Germania. Ma per la maggior parte la vita di ogni giorno è nelle connection house, baracche dove corpi e droga vengono messi in vendita. Le tariffe dei rapporti si sono abbassate, a volte fino a 5 euroUn rapporto sessuale — spiega Giorgia Serughetti, ricercatrice dell’Università Bicocca e autrice di Uomini che pagano le donne (edizione Ediesse) — costa pochissimo, dai 5 euro in su. Ma quel denaro quasi mai transita dalle mani delle ragazze. «Non ho mai ricevuto soldi direttamente», dice in sussurro Victory, 21 anni, anche lei ora ospite in casa protetta insieme a Blessing. «Però posso dire che all’incirca ciascuna di noi fruttava 800 euro alla settimana. Ed eravamo una decina, almeno». Ottomila euro in sette giorni per una sola baracca, vicino a Napoli. Moltiplicato per tutto il territorio italiano ed europeo nell’arco di un anno, si parla di una cifra che secondo le Nazioni Unite oscilla a partire dal 2009 tra i 153 e i 228 milioni di euro all’anno. Verso il tramonto le strade di Pescopagano si animano. In giro ci sono per lo più uomini di colore che se ne stanno seduti ad aspettare. Le ragazze camminano strascicando i piedi vicino a un materasso che qualcuno ha abbandonato in mezzo alla strada. A gestire il traffico, come sottolinea anche l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia, è la mafia nigeriana. I soldi ricavati dallo sfruttamento della tratta vanno a finanziare il traffico di droga. La merce è di qualità scadente, prevalentemente eroina, crack e smart drugs. E il modus operandi è particolarmente efficace. «Solo a Castel Volturno arrivano una decina di corrieri al giorno. Il volume d’affari è altissimo e i soldi vengono riciclati in altre attività», raccontano i pentiti.

LA MAFIA NIGERIANA HA TRA LE SUE BASI L’ITALIA. Dalla Nigeria all’Italia e ritorno. Il flusso di denaro viene inviato via Western Union. O con altri mezzi. «Il gruppo di Castel Volturno una volta inviò 600 mila euro stipati in pneumatici spediti su un container imbarcato al porto di Salerno», ha raccontato un ex affiliato alla magistratura italiana. I soldi per un certo periodo sono finiti nelle mani della moglie di un ex governatore nigeriano. «La donna regge il gruppo degli Eye e gestisce la contabilità, – si legge ancora nella deposizione del pentito – e li investe in beni immobili». I capi dell’organizzazione si spostano tra Nigeria e Ghana e hanno riferimenti in quasi tutti i Paesi europei soprattutto in Spagna, Portogallo, Olanda, Francia, Danimarca, Regno Unito e Irlanda del Nord. Fino all’Italia. Agli Eye si contrappongono i Black Axe e i Mephite, ma ci sono anche altri clan che nascono in Nigeria come associazioni e confraternite tra cui i Supreme Vikings, i White queen e i Klanciman. Presenze radicate anche sul territorio italiano da parecchio tempo, tanto che un’informativa del 2011 dell’ambasciata nigeriana chiariva come molti esponenti di queste “sette” si trovassero già nel nostro Paese. «Vedete come siamo ridotti qui? Era un posto di villeggiatura meraviglioso, ora è solo degrado e sporcizia», si lamenta il gestore di un bar a Castel Volturno, mentre passa una volante della polizia. D’altro canto la lotta allo human trafficking, vera e propria linfa della mafia nigeriana, è molto complessa. Secondo l’ultimo rapporto del Gruppo di esperti del Consiglio di Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (Greta), nonostante il significativo aumento di richiedenti asilo e migranti che arrivano in Italia, il numero di persone identificate e assistite come vittime della tratta nel nostro Paese è rimasto intorno ai 1.000.

MOLTE RAGAZZE ARRIVANO ATTIRATE DALLA PROMESSA DI UN LAVORO. A complicare il lavoro degli operatori che al momento dello sbarco hanno il compito di individuare i soggetti a rischio, secondo l’Oim, è il legame tra le vittime e i loro carnefici. All’arrivo in Italia, le donne credono nei trafficanti più che in qualsiasi altra persona e provano per loro un forte sentimento di gratitudine per avere consentito loro di arrivare in Europa, facendosi carico del costo del viaggio. Questo sentimento, apparentemente contraddittorio, le porta a credere incondizionatamente alle false informazioni avute prima della partenza. Non a caso poi le organizzazioni criminali obbligano le migranti a dichiarare di essere maggiorenni anche quando non lo sono, convincendole che in caso contrario saranno rimpatriate oppure che finiranno in strutture carcerarie. In realtà l’obiettivo è che siano trasferite nei centri di accoglienza per adulti dove è più facile, per i trafficanti, raggiungerle e condurle alla destinazione finale in cui avrà luogo lo sfruttamento. Un secondo ostacolo è il controllo che gli «accompagnatori» esercitano. Le ragazze nigeriane sbarcano frequentemente con «sorelle», «zie», «mariti», che in realtà non sono altro che accompagnatori («boga»), il cui obiettivo è di condurle dai trafficanti in Europa. «Ho viaggiato con altre persone, quando siamo arrivate in Libia volevano farmi lavorare subito. Ma poi l’uomo che mi scortava ha detto che ero troppo piccola e che dovevo rimanere con lui», racconta Joy, 22 anni. In realtà Joy viene preservata perché deve essere consegnata integra. Come una merce. Il 9 marzo 2018 l’Oba, la massima autorità religiosa del popolo Edo (che vive in Nigeria e nella zona del delta del Niger) ha formulato un editto che revoca tutti i riti Juju. Il tentativo – dall’Africa — è mettere in qualche modo fine al traffico. Ma per le ragazze, una volta arrivate in Italia, è molto difficile vedere un’alternativa. Inoltre, non avendo documenti, pensare di trovare aiuto presso le autorità pare un obiettivo irraggiungibile. Dall’altra parte del Mediterraneo, le norme lasciano uno spiraglio «L’art. 18 del testo Unico sull’immigrazione prevede la possibilità di rilascio di uno speciale permesso di soggiorno allo straniero sottoposto a violenza o a grave sfruttamento, quando vi sia pericolo per la sua incolumità per effetto del tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione criminale o delle dichiarazioni rese in un procedimento penale. Il permesso di soggiorno può essere rilasciato sia in seguito ad una denuncia della vittima sia in assenza di questa, in un regime definito di “doppio binario”», sottolinea Salvatore Fachile, avvocato esperto di tratta e consigliere del direttivo dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Tuttavia la pressione sulle questure affinché applichino questa norma è scarsa. «E laddove non c’è incentivo alla denuncia le vittime di tratta non sono spinte a rivolgersi alle autorità, tanto più che la tendenza è di amplificare il ruolo repressivo dello Stato a fronte di maggiore fiducia verso il trafficante», conclude Fachile. Morale, al 19 ottobre 2016 i nigeriani in carcere nel nostro Paese per tratta erano 38. Mentre la pena media inflitta, comprensiva anche dei reati connessi come lo sfruttamento della prostituzione, è di 9 anni. Ancora una «pacchia» per i trafficanti di donne, che possono continuare a tormentare le loro vittime. E a trattarle come fossero veri e propri bancomat di carne.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Soggetti deboli: amministratore di sostegno... o di saccheggio?

A "Fuori dal Coro", Martedì 3 dicembre, si è approfondito il tema delle truffe agli anziani, con i nuovi raggiri degli amministratori di sostegno, che una volta nominati dal Tribunale per tutelare le persone fragili se ne approfittano per derubarli.

AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: TUTELARE LE PERSONE ANZIANE. Elena Bini su studiolegalelambrate.it il 2 febbraio 2018.  L’amministrazione di sostegno può prevenire o limitare i danni da cattiva gestione del patrimonio di un soggetto debole. 

Cos’è l’amministrazione di sostegno?

L’amministrazione di sostegno è un istituto previsto all’art. 404 cod. civ. che ha natura assistenziale. L’art. 404 cod. civ. prevede che: “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità’, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio”. Lo scopo dell’amministrazione di sostegno è quello di offrire uno strumento per la tutela di soggetti che hanno una ridotta autonomia nella loro vita quotidiana. Si rivolge, quindi, a soggetti che non sono in grado di badare a sé stessi e ai loro interessi, anche patrimoniali.

Chi può essere sottoposto ad amministrazione di sostegno?

Possono essere sottoposte ad amministrazione di sostegno le persone anziane, le persone affette da disabilità fisica o psichica, da malattie gravi e terminali, persone colpite da ictus, nonché soggetti dediti al gioco d’azzardo, o dipendenti dall’alcool o da sostanze stupefacenti.

Perché sottoporre un proprio caro ad amministrazione di sostegno?

La funzione dell’istituto è quella di affiancare ad un soggetto privo di autonomia un soggetto che tuteli i suoi interessi patrimoniali. Il tutto, con la minore limitazione possibile della capacità di agire. Infatti, i poteri attribuiti all’amministratore di sostegno sono particolarmente modulati sulle peculiari esigenze dello stesso. L’ingerenza dell’amministratore di sostegno nella sfera personale e patrimoniale del soggetto amministrato, infatti, dipende dalle peculiarità del singolo caso di specie. Il giudice nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, infatti, tiene conto dello stato della malattia o del deficit che affligge il beneficiario.

Il giudice controlla l’operato dell’amministratore di sostegno?

Ad ulteriore tutela del beneficiario si ricorda che l’operato dell’amministratore è soggetto a controllo da parte del Giudice Tutelare e del Tribunale competente. Infatti, per porre in essere alcuni atti di particolare rilievo (ad esempio accettare l’eredità o rinunciarvi, accettare donazioni o legati, costituire pegni o ipoteche, riscuotere capitali), sarà necessario ottenere un’autorizzazione da parte del Giudice Tutelare. Ovviamente, tale autorizzazione verrà rilasciata all’amministratore previa verifica che tali atti soddisfino gli interessi del beneficiario.

Come si nomina l’amministratore di sostegno?

Per quanto attiene alla procedura per la nomina di un amministratore di sostegno, è necessario presentare un ricorso. Il ricorso deve essere motivato e deve essere depositato presso la cancelleria del Tribunale competente territorialmente. Il ricorso può essere presentato solo da alcuni soggetti. In particolare, lo stesso beneficiario, il coniuge o la persona stabilmente convivente, i parenti entro il 4° grado e gli affini entro il 2° grado. Il ricorso può essere altresì presentato dal tutore o curatore e dal Pubblico Ministero. Così, anche i responsabili dei servizi socio-sanitari, qualora abbiano conoscenza di fatti tali da rendere necessario il procedimento di amministrazione di sostegno.

Cosa deve contenere il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno?

Ovviamente, nel ricorso dovranno essere ben illustrate le ragioni per le quali l’interessato necessita di un amministratore di sostegno. A tal scopo, è opportuno allegare il quadro clinico / sanitario del beneficiario supportato da idonei certificati medici comprovanti le parziali o assolute incapacità e/o difficoltà fisiche o psichiche del soggetto nel badare a sé stesso. Nel ricorso, poi, deve essere indicato il nominativo della persona idonea prescelta quale amministratore di sostegno da parte dei parenti stretti e le ragioni per le quali è da ritenersi la più adatta.

I parenti possono opporsi?

Il ricorso deve essere notificato a ogni parente entro il quarto grado. I parenti entro il quarto grado sono soggetti cosiddetti “interessati” che potranno, qualora ne ravvisino l’utilità, presentare le proprie ragioni circa l’opportunità di sottoporre ad amministrazione di sostegno il proprio caro. Sempre a tutela del beneficiario, il Giudice Tutelare, prima di emettere il decreto di nomina dell’amministrazione di sostegno, acquisisce il parere favorevole da parte del Pubblico Ministero.

Il parere dell’Avvocato. Ciò posto, l’Avv. Elena Laura Bini sottolinea che “l’istituto dell’amministrazione di sostegno può essere un valido strumento per prevenire o limitare eventuali danni derivanti da una cattiva gestione del patrimonio da parte del soggetto potenziale beneficiario“. Non è raro sapere di anziani circuiti da persone a loro vicine (esempio paradigmatico è la badante). Persone che, anziché prestare le dovute cure e svolgere attività nell’interesse delle persone più deboli, approfittano di una simile situazione per farsi elargire somme di denaro a titolo di donazioni e regalie varie. Tali spiacevoli situazioni possono essere evitate attraverso la nomina di un amministratore di sostegno. L’amministratore di sostegno, in quanto persona fidata scelta e nominata dal Giudice, si occuperà della corretta gestione dei beni del soggetto debole. Ciò anche perché il suo operato, lo si ricorda, è sottoposto ad un’attività di vigilanza a tempo indeterminato da parte del Tribunale competente.

Anziani, attenzione all'amministratore di sostegno... o di saccheggio? Affari Italiani Lunedì, 21 novembre 2016.

LA LETTERA AD AFFARI/ La testimonianza personale sulla figura dell'amministratore di sostegno. L’amministratore di sostegno, come spiega il sito del Ministero della Giustizia, è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. Gli anziani e i disabili, ma anche gli alcolisti, i tossicodipendenti, le persone detenute, i malati terminali possono ottenere, anche in previsione di una propria eventuale futura incapacità, che il giudice tutelare nomini una persona che abbia cura della loro persona e del loro patrimonio. Su Affaritaliani.it la testimonianza che racconta e denuncia l'esperienza con la figura dell'amministratore di sostegno.

"Caro Angelo, scrivo di un problema che riguarda gli anziani, e so che sul tema tu hai sempre avuto una grande sensibilità che hai messo al servizio dei lettori, creando la sezione Il Sociale, unico quotidiano che vi dedica il risalto dell'attualità. La mia è esperienza personale, che divulgo come giornalismo di servizio dopo aver raccolto tra coloro che l'hanno ascoltata la preoccupazione che possa accadere ad altri. Una storia in cui ciascuno si perde un pezzo per raccontarsi una verità confortevole. L'idraulico nota mio padre ultraottantenne sghignazzare in modo anormale, coloro che hanno un compito intellettuale non se ne accorgono. Papà, che ricorderai avevo assistito nella malattia come un bambino, aveva preso una china violenta, che ti avevo accennato, sapendo che tu avevi avuto altrettanta cura di una mamma adorabile. Mi sono messa in salvo, tra mille vicissitudini, poiché continuava a ripetere che mi ammazzava. Non l'ho lasciato alla deriva. Mi era stato assicurato dal medico della Asl intervenuto al domicilio che un assistente sociale l'avrebbe seguito. Quando mi hanno avvertito che si trovava ricoverato in ospedale sono venuta a scoprire che non si sa come né perché l'anziano era solo e mal circondato. Mi è preso un colpo. Io stavo cercando di ricostruirmi da quello che gli scienziati, sai gli scienziati leader che intervistiamo, chiamano “stress post-traumatico”: difficoltà nell'attenzione, turbe del sonno, calo immunitario. Per inciso in Italia, a Genova, dove si svolgeva il mio calvario, a nessuno era venuto in mente che questa è una patologia ampiamente riportata nella letteratura scientifica. Altro fallimento del sistema assistenza agli anziani e familiari “caregivers” di un malato con neuro-degenerazione. Papà, da militare, è sempre stato una roccia e non si accorge che una parte di lucidità l'ha lasciato. Ogni volta che spiego la mia condizione e chiedo aiuto mi trovo in una situazione imbarazzante. “Imbarazzante per loro che non capiscono!”, mi corregge lo scienziato americano John Morris, a capo della sperimentazione mondiale sull'Alzheimer, al quale mostro il video di mio padre che brandisce una sedia contro di me che indietreggio per il colpo, che ha commutato la funzione del cellulare facendo partire la registrazione accidentale. Intuisce al volo. “E' sempre stato così?”, domanda. Non nego che è violento ed io sono la sua bambina. Negli Usa i caregivers sono rispettati come eroi. L'ospedale mi dice che è mio dovere occuparmi di mio padre o mi denunciano. L'ho appena raccontato, ma non hanno capito il dramma della violenza su una donna da parte di un familiare che è il genitore, figura che conosci quando nasci. Mi faccio forza a ripetere che mi sono arresa all'ennesimo atto di violenza. Assicurano che hanno una soluzione. Si chiama “amministratore di sostegno”. Ti presentano un qualcosa con l'etichetta rassicurante. Prima insistono affinché la figlia firmi la richiesta, ma la figlia che ha assistito il padre e che gli vuole bene non sta affidando un oggetto. L'amministratore di sostegno viene nominato senza la mia firma. Mi dicono che è un incarico temporaneo, se ho un'alternativa posso comunicarla all'udienza davanti al giudice tutelare. Bisogna aspettare nello status quo. Io rassicuro il genitore ripetendo come una stupida il poco che ottengo di sapere: è una persona che ha un ruolo istituzionale, una garanzia per te. “Quella è fissa qui in reparto e manda a chiamare questa gente. Lo fanno per dare un lavoro ai giovani, degli anziani gli importa nulla”, obietta papà. Osservo che chiedono ai familiari di altri pazienti “qui una firma... ”. Un'anziana sullo sfondo piange ripetendo “perché... ?”. Siamo in una Regione con una popolazione di pensionati. “Quella” è un'assistente sanitaria che urla addosso alla carrozzina di papà addestrato a combattere. Il tono, la freddezza, la scena evocano alla mente il destino di un deportato. E' l'inizio della fine di mio padre. Corro dai medici a chiedere che spieghino a chi medico non è che una persona della sua età, con la fragilità delle sue arterie, NON PUO' essere assalita verbalmente in un reparto di cure geriatriche. Surreale precisarlo? L'amministratore è Dottoressa in Servizio sociali, sorride molto e gli si rivolge come nell'infanzia al minore. Solo che papà non è quel tipo di anziano. Io credevo che personale qualificato pensasse l'approccio secondo la personalità di chi ci si trova ad aiutare. L'agenzia americana NIA invia periodicamente agli anziani una newsletter in cui li esorta a mantenere attivo il cervello: uno dei consigli è di occuparsi dei pagamenti di tasse e fatture. Papà lo aveva sempre fatto. Inoltre studiava le normative, seguiva i conti della gestione del condominio. Nella malattia ha mantenuto le abilità esercitate a lungo. All'improvviso è costretto ad alzare la voce per non farsi strappare la dignità, lui che ha 89 anni e mezzo e patologie che richiedono serenità, avvilito a non conoscere i movimenti sul conto corrente, lui che orgoglioso ripete “non ho mai fatto una lira di debito!”. Si crea un pericoloso dualismo apparente, di me che papà vuole gli riferisca che cosa l'amministratore di sostegno sta facendo, coltiva la speranza che io riesca a tenerlo informato, perché non si fida, e l'amministratore di sostegno, l'unico che ha la visione dell'estratto conto, riceve le richieste delle rate di condominio, e quant'altro. Papà si agita ad ogni attesa delusa. E' intuitivo che togliere un'abitudine lunga 89 anni e mezzo causa uno shock. Io, presente, risulto inesistente. Chiedo che papà non sia trasferito prima di pranzo, piove e fa freddo. Non credo ragionevole che un malato più vicino ai novantanni che agli ottanta stia meglio movimentato come un pacco. Non ho modo di proteggerlo. Per non sovrappormi, riparto sino a quando ci sarà l'udienza, scandendo che papà – che non è un vegetale – sia informato perché lui ha una lunghissima consuetudine a gestire da sé i compiti. Non deve sentirsi annullato. Mi fido. Mio padre muore prima dell'udienza. L'amministratore di sostegno, alla quale chiedevo come stava, col consueto ritardo mi scriveva che “le condizioni di salute di suo papà sono stabili: discreta la deambulazione seppur con il supporto di un apposito ausilio e stabile la condizione psicofisica”. Invece chi era andato a trovarlo l'ha visto talmente debilitato da scattargli una foto. Saltano fuori incongruenze che, come giornalista, sono abituata a metter in fila. Ne ho già viste tante, ne ho subito di più, le volte che ero talmente prostrata da non vedere i pericoli, che per essere sicura di chi dice/fa che cosa ero rientrata nella casa abitata da papà mentre lui si trovava in ospedale girando un video. Chi mi apre la porta – a cui era stata cambiata la serratura – non sa spiegare perché la casa è devastata e saccheggiata. Va da sé che ogni colloquio a cui partecipo è registrato – i giornalisti hanno questa abituale necessità – per essere certa di capire bene al netto della mia emotività. Chiedo a papà se ha regalato qualcosa. Lui sicuro: “Io non ho regalato proprio niente. Se manca qualcosa se lo sono preso. O prima. O sennò hanno le chiavi”. Povero papà, una parte del cervello si rende conto che era facile rubare a lui, troppo anziano per controllare come una volta i movimenti sospetti. “L'Ombretta se arriva fa piazza pulita. Quell'altra che c'è insieme lo stesso”, avverte papà. “Quell'altra chi?”, gli chiedo. “Quella cilena che c'è”. Caro papà, tu non stai vaneggiando, la compagna di chi ti ha avvicinato per la strada con la scusa di diventare amico e che ti prosciugava la pensione è cilena. Agli appuntamenti che prendo nello studio dell'amministratore di sostegno mi presento anche accompagnata. Non avrei mai voluto riascoltare quello che ho sentito. “Mi dà diecimila euro?”, è l'esordio ironico con cui papà accoglie l'amministratore di sostegno. Lei: “Con chi vive?” “Con nessuno”. “Chi le dava una mano prima di essere ricoverato?” “Io”. La voce di papà dice “per forza mi sento male”. Io continuo a sostenere che l'amministratore di sostegno viene nominato per dare un aiuto all'anziano e che lo proteggerà. Papà: “Sono abbandonato, ieri non è venuto nessuno, oggi non è venuto... “. Mio padre era furioso nel non sapere se un prelievo di 750 euro era stato usato per pagare l'amministrazione di condominio. Chiede all'amministratore di sostegno di verificare. “Fatevi rilasciare la lettera e la ricevuta”. Nessuna risposta. Papà vuole chiamarla al telefono. Non risponde. Lasciamo messaggi sul cellulare. Dopo alcuni giorni ci assicura che verrà a riferire a papà l'esito della verifica. Lui l'aspetta con ansia sino al lunedì successivo, con l'estratto conto. Mi si spezza il cuore alle sue parole: “Io ho fatto dei sacrifici enormi, non ho dormito la notte ed il giorno, li ho fatti per te e per la mamma. A me i soldi non li ha regalati nessuno”. Non arriva. Una voce al numero dello studio dice che non sa come rintracciarla. E' seccata di essere stata scambiata per la segretaria. La supplico di prendere il messaggio perché non voglio che un anziano sia affossato dallo stress. Ho chiesto consulenze sulle cure anche stavolta. Eticamente per me un cuore che batte è un cuore che batte. Alla fine l'amministratore di sostegno conferma che i 750 euro sono stati spesi per pagare la quota di amministrazione. Lo conferma a papà, “Silvano mi ha detto che li ha usati per pagare l'amministrazione”, poi lo riconferma a me ed al mio accompagnatore in studio. Papà muore. Cercando un documento per le esequie mi trovo tra le mani la ricevuta di bonifico bancario con cui papà aveva pagato la rata di 609 euro poco prima del ricovero in ospedale. Aveva rispettato la scadenza, nel trambusto deve essersi confuso di non averlo fatto. O devono averlo confuso. Comunico all'amministratore di sostegno la traccia del pagamento. Esclama “Urca!” davanti a me ed al mio accompagnatore. Apprendo che nessuna rata di amministrazione è stata pagata dall'amministratore di sostegno. Me ne occupo io. Ricordando la volontà di papà, chiedo per iscritto all'amministratore di sostegno come sono stati spesi i 750 euro che papà aveva consentito all'uomo che gli si era affiancato di prelevare per fare fronte al pagamento che, dal letto d'ospedale, non avrebbe potuto onorare da sé. Papà: “Questo qui ha voluto le chiavi... in casa c'erano 1500-1600 se l'è presi... avevo già perso la fiducia 2-3 volte... “ Io: “avevi già perso la fiducia? Perché?” Perché mi ha chiesto i soldi”, mi risponde senza esitazione. Aggiunge: “Se io non vengo a casa domani fatti dare il bancomat e tutte le fatture che ha pagato.” L'amministratore di sostegno sostiene che papà aveva autorizzato l'estraneo a gestire il bancomat. Mi scrive: “Essendo precedente al giuramento di amministratore di sostegno, purtroppo non ho potuto fare nulla in quanto suo papà mi aveva confermato di essere a conoscenza dell'esistenza del prelievo e dell'ammontare dello stesso, confermando che era sua volontà quella di aver fatto gestire il bancomat al Sig. Silvano durante il ricovero ospedaliero”.  E' colpa dell'ottantanovenne avere consegnato il bancomat. “Io sono stata nominata per proteggere il suo conto corrente in banca”, assicurava al beneficiario dell'amministrazione di sostegno. Papà le aveva chiesto di verificare. Ma perché non hai protetto l'amministrato? I medici avevano visto il paziente col capo reclinato, “era quasi in coma” per il primario, e hanno refertato il disturbo cognitivo. Invece la professionista della difesa degli anziani gli attribuisce post-mortem una chiara volontà. Sei un amministratore di sostegno, devi rendere conto ad un giudice, ammetti l'errore, penso io. Però con le notizie sulla salute che non coincidono con la foto sono due, con l'ambulanza che corre verso una destinazione che lui non conosce e che lo fa urlare di disperazione – sì altra disperazione su un paziente cogli esiti di un acuto problema cardiovascolare – al telefono con un amico sono tre. D'accordo che non era pronto per ritornare alle cure a domicilio, ma almeno esser informato su dove lo conducono è un suo diritto. Papà non c'è più ed io sto subendo un traumatismo. Il trauma è il primo colpo, il traumatismo è il secondo colpo (Cyrulnik, Stewart, Freel ed altri). Lascerei perdere se non fosse che mi capita sotto l'occhio l'email con cui l'amministratore di sostegno mi comunica che il giudice le ha liquidato il giorno stesso il compenso e che si è premurata di ottenere già l'atto per prelevare dal conto corrente la somma. Le chiedo se ha la gentilezza di inviarmi copia dell'atto del giudice. Per la memoria di papà che voleva esser informato. Non è mai stato mostrato neanche il contenuto dell'atto di nomina. Non ricevo email di risposta da lei. Mi arriva invece quella del Direttore della banca che mi riferisce che l'amministratore di sostegno si è presentata in banca per il prelievo. Ma davvero? I colleghi della stampa straniera mi chiedono che cosa mi succede. “Genova? La città dove le Istituzioni non rispettano i diritti della persona!”, ricorda il corrispondente inglese che seguiva il processo sugli abusi durante il G8. Ti riferisco i fatti, caro Direttore. Ho cominciato a parlarne ed ascolto il commento “devo dirlo in giro, sennò se qualcuno ha bisogno non s'immagina a cosa va incontro”. Un economista francese rimarca con sgomento: “E' grave farsi passare sotto gli occhi 750 euro di un anziano!” Tu mi chiedi se possiamo pubblicare. Se la mia storia può esser utile ad altri, questo è per me il giornalismo. Paola".

INNOVAZIONE E DOMICILIARITÀ. IL PUNTO SULL’ISTITUTO DELL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO: UN DOSSIER METTE IN LUCE CRITICITÀ E POTENZIALITÀ. Chiara Inzerilli, su vivaglianziani.it il 3 gennaio 2015. Una realtà in chiaroscuro. È quanto emerge dallo spoglio delle notizie di stampa dedicate all’istituto dell’Amministrazione di sostegno (Ads) negli ultimi mesi. La cronaca enumera casi di abuso perpetrati dagli Ads, e altrettante vicende di truffe a danni di anziani e disabili denunciate e bloccate dagli amministratori. Quel che è certo è che nel decennale della introduzione di questa figura, l’Ads registra una forte crescita, nel numero delle richieste – è il caso ad esempio del Tribunale di Venezia -, nell’attenzione delle amministrazioni, che ne incoraggiano il ricorso aprendo  sportelli di informazione e orientamento ( a Pistoia) , delineando linee guida (Regione Emilia Romagna), e nel costituire uno sbocco lavorativo qualificato. I corsi di formazione e aggiornamento per Ads si moltiplicano su tutto il territorio nazionale, per permettere l’iscrizione all’apposito albo. La Cassazione civile, intanto, con un’ordinanza del 18 giugno, ha dato ragione ai familiari di un soggetto che si erano visti respingere dal giudice tutelare la richiesta di nomina di Ads, stabilendo che il giudice non poteva opporre tale diniego, limitando il suo potere discrezionale alla decisione sui poteri da attribuire all’Amministratore. Un precedente molto importante e che presumibilmente peserà in futuro, nonostante il finale in senso contrario registrato nella querelle più “mediatizzata” sul tema, la vicenda di Gina Lollobrigida.  In quel caso i giudici romani hanno deciso che l’anziana attrice non ha necessità – come sosteneva il figlio – di un amministratore di sostegno per gestire il proprio patrimonio. Spulciando i giornali locali, emergono le vicende di una donna di Mirano la cui nipote riscuote e trattiene da diversi anni la pensione, condannata grazie alla denuncia dell’Ads. A Parma, Modena, Genova e Mantova sono invece gli Ads a profittare delle facoltà loro attribuite per sottrarre somme ingenti di denaro ai beneficiari. Condanna in primo grado per un avvocato modenese, di cui si è accertato il furto di circa 400 mila euro a quindici suoi assistiti; condanna per una genovese di 65 anni, Ads, peraltro già rea di circonvenzione di incapace, che ha prosciugato il conto della sua assistita centounenne, emettendo assegni intestati a badanti, le quali, riscossi gli importi, li riversavano all’amministratrice. A Parma un avvocato ha convinto un anziano a modificare, in favore di un collega, il beneficiario della polizza sulla vita da 400 mila euro; a Mantova, infine, madre ( amministratrice di sostegno) e figlio si impossessano di 120 mila euro dello zio beneficiario. Quando le appropriazioni indebite vengono alla luce, i responsabili rischiano condanne pesanti. Lo sfruttamento della posizione di Ads costituisce infatti un’aggravante, ed è difficile evitare la reclusione. È al contempo molto difficile che abusi meno eclatanti e con cifre più contenute possano essere scoperti e perseguiti. Resta infatti aperta la questione di quale soggetto, oltre al giudice che annualmente verifica l’operato dell’Ads, con le limitazioni di tempo e i carichi di lavoro a tutti noti, debba controllare l’operato dell’Amministratore: manca al momento un revisore terzo che, magari su sollecitazione del beneficiario o di altri soggetti, abbia tale facoltà. A chi posso rivolgermi, insomma, se chi deve curare i miei interessi lo fa con trascuratezza o in maniera fraudolenta, quando anche il mio potere di firma è ormai cessato? Trovare una soluzione renderebbe questo istituto del resto essenziale, ancora più utile ed efficace.

·         Crisi delle grandi aziende: la Mangiatoia dei Commissari Giudiziali.

I commissari straordinari costano cari ma aprono voragini nei conti pubblici. Gli emolumenti dei manager sono milionari, i buchi delle aziende in crisi che sono chiamati a gestire valgono miliardi. Sofia Fraschini, Giovedì 14/11/2019, su Il Giornale. Da Alitalia all'Ilva, la politica senza idee e soluzioni industriali per la gestione delle grandi crisi aziendali si affida in automatico ai commissari. Mettere un'azienda in amministrazione straordinaria è diventato lo sport nazionale del governo per non decidere e procrastinare all'infinito le sorti di migliaia di dipendenti e di settori in difficoltà. Ma tutto questo ha un costo che cresce tanto più si protrae il periodo commissariale. «Mettendo insieme la gestione 2018-2019 di Alitalia e l'amministrazione straordinaria Ilva, dal dopo Riva ad Arcelor Mittal, il conto conservativo che grava sui conti dello Stato è di 4,7 miliardi di euro» dice al Giornale Andrea Giuricin, esperto di infrastrutture e trasporti, spiegando attraverso questa stima quanto oggi possa essere rischioso (a livello industriale e per le casse dello Stato) il ritorno dei commissari all'Ilva. Partendo da Alitalia, è stato preso in considerazione solo l'ultimo biennio della gestione straordinaria, escludendo quella Fantozzi del 2008, perché allora la perdita di 3 miliardi non fu causata dal commissariamento, ma l'esito del fallimento che divise Alitalia tra bad e new company. «Lo scopo dell'analisi - spiega Giuricin - è invece quello di fare i conti in tasca alla politica che usa il commissariamento come alibi per non decidere. Un gioco molto pericoloso poiché è dimostrato che l'azienda si indebolisce e perde competitività arrivando poi alla eventuale trattativa per la vendita in una posizione negoziale sfavorevole». Il caso Alitalia insegna. Oggi Lufthansa è tornata a orbitare intorno all'ex compagnia di bandiera, ma con il coltello dalla parte del manico (chiede meno aerei e 6mila esuberi), mentre un anno fa (quando è stata respinto al mittente) aveva messo sul piatto condizioni più favorevoli e l'azienda stessa aveva perdite più contenute: «Nel periodo commissariale - spiega Giuricin - si stima una perdita di 540 milioni per il 2018 e di oltre 550 milioni per il 2019; aggiungendo i 200 milioni persi da maggio 2017, il conto sale a 1,2 miliardi. Quanto all'Ilva, i bilanci parlano di 3,5 miliardi nel periodo commissariale 2013-2017». Che cosa accadrebbe dunque a Taranto con il ritorno in amministrazione straordinaria è presto detto. Con l'aggravio rappresentato dal rischio di non continuare a produrre. «Se il settore aereo è florido e quindi Alitalia si muove, seppur in crisi, in un contesto economicamente positivo - dice ancora l'analista - il mercato dell'acciaio è in forte crisi e Ilva senza una gestione industriale corretta potrebbe anche chiudere». E al conto salato della gestione straordinaria si aggiungerebbe la cassa integrazione per tutti i dipendenti: intorno a 1 miliardo. E il paradosso è che con questi numeri, gli emolumenti dei commissari, che valgono qualche decina di milioni, sembrano pesare relativamente. Tema delicato, quello della via commissariale, anche per il Mose, opera nata per salvaguardare la Laguna di Venezia dalle grande maree. Nelle ore delle tragiche vicende che hanno causato danni e due morti, è un altro esempio di epilogo negativo. I commissari sono arrivati a fine 2014, i lavori non sono ancora conclusi e dovrebbero completarsi nel 2021: il costo complessivo dell'opera, secondo le previsioni del Bilancio 2018 del Consorzio Venezia Nuova, è stato calcolato in 5,49 miliardi.

Astaldi, inchiesta bomba della procura: indagati per corruzione i commissari. I giudici capitolini hanno perquisito gli uffici dei professionisti Ambrosini, Gatti e Rocchi, che gestiscono il concordato preventivo del colosso delle costruzioni. Nel mirino i compensi da decine di milioni di euro. Usate intercettazioni che potrebbero terremotare il mondo delle consulenze delle amministrazioni straordinarie. Fonti della magistratura: la procedura deve andare avanti. Emiliano Fittipaldi l'8 novembre 2019 su L'espresso. Uno tsunami giudiziario si è abbattuto d'improvviso su Astaldi, la grande azienda romana di costruzioni che – a causa del debito miliardario e della crisi del settore – è da mesi in concordato preventivo con riserva. La procura della Capitale la scorsa settimana ha infatti effettuato perquisizioni e sequestri negli uffici di due commissari della procedura. Il decreto di perquisizione ipotizza per il professore e avvocato Stefano Ambrosini e il collega Francesco Rocchi (il terzo commissario, Vincenzo Ioffredi, ad ora risulta estraneo all'indagine) reati gravi, come la corruzione in atti giudiziari. Non solo: con loro risulta indagato un altro professionista di alto profilo come Corrado Gatti, che – nel concordato Astaldi – ricopre la funzione di soggetto indipendente che deve attestare la bontà del piano di concordato. L'inchiesta (condotta dai pm Gennaro Varone, Rosalia Affinito, Fabrizio Tucci e coordinata dal sostituto Paolo Ielo) è estremamente delicata. Non soltanto perché la bufera arriva a pochi giorni dalla decisione dei giudici della sezione fallimentare guidata da Antonino La Malfa sull'ammissibilità o meno del piano di concordato. Ma soprattutto perché Astaldi non è un'azienda qualunque. Con oltre diecimila dipendenti diretti, altre decine di migliaia legate all'indotto, con affari e commesse superiore ai venti miliardi di euro, il salvataggio della spa presieduta da Paolo Astaldi è al centro di interessi economici e politici giganteschi. In primis, quello di Pietro Salini della Salini-Impregilo, multinazionale che – insieme al governo e Cassa depositi e prestiti – per comprare Astaldi risanata e creare un grande campione nazionale del settore ha lanciato qualche mese fa l'ambizioso "Progetto Italia". Un programma che coinvolgerebbe tra operai e dipendenti mezzo milione di persone e qualcuno ora teme possa subire un brusco stop. In realtà la procura capitolina sembra non voler mettere affatto a rischio la continuazione della procedura. Distinguendo (come accaduto nell'inchiesta dello Stadio della Roma) le presunte responsabilità individuali dalle operazioni economiche sovrastanti: la speranza dei giudici inquirenti è che, muovendosi come chirurghi, l'esito del concordato - al netto del destino dei commissari e di singole posizioni – non sia al fine influenzato nel merito. E possa andare avanti senza contraccolpi sul mercato. Andiamo con ordine, partendo dalle accuse ai tre professionisti. Grazie ad intercettazioni telefoniche, i magistrati hanno scoperto rapporti strettissimi tra i commissari e Gatti, cioè l'uomo che avrebbe dovuto attestare in maniera indipendente il loro piano finale per il salvataggio della spa. Gatti, inoltre, è per funzione colui che propone il compenso dei commissari stessi. Compenso che dovrà essere poi approvato e liquidato definitivamente dai giudici della fallimentare. Ebbene proprio di denaro, in alcune conversazioni, discutevano Rocchi e Gatti al cellulare. Il commissario, in particolare, chiedeva all'attestatore di usare (per calcolare il compenso degli amministratori) i valori “medi” tabellari previsti, e non quelli “minimi”. Una bella differenza: per un concordato così importante, si tratta di milioni e milioni di euro. In un primo piano, Gatti usa proprio i valori medi come richiesto dal commissario, per un importo – a favore di Rocchi, Ambrosini e Ioffredi – di circa 36 milioni di euro. Dodici milioni a testa. Solo in un secondo momento la cifra finale proposta scende a circa 20 milioni di euro. Comunque astronomica (per la cronaca non è ancora stata saldata) ma più vicino ai minimi tabellari. L'ipotesi dell'accusa è che, chiedendo di usare i valori medi in partenza, i commissari avrebbero potuto ottenere una cifra finale – anche se ritoccata al ribasso – comunque altissima. Le telefonate tra commissari e attestatore – al netto dei reati, tutti ancora da dimostrare – sono di grande interesse, perché evidenzierebbero l'assenza della terzietà sempre necessaria, a maggior ragione in procedure così delicate. «Chi svolge ruolo di commissario nelle procedure di ammissione al concordato preventivo dovrebbe essere sempre imparziale» spiega una fonte vicina all'inchiesta. «Il problema è che su concordati con valori economici molto alti, il compenso degli amministratori è proporzionale al valore del concordato: il rischio è che i commissari hanno sempre interesse a chiuderlo, con il rischio di essere meno imparziale di fronte all'operazione». Se il ragionamento vale per tutte le amministrazioni straordinarie e i concordati, nel caso Astaldi alcuni conflitti d'interesse erano stati già denunciati da alcuni debitori della spa e dai consumatori dell'Adoc: Gatti, infatti, siede nel cda di Banca Intesa. Cioè una delle principali banche creditrici di Astaldi. Ambrosini, Rocchi e Gatti sono indagati per corruzione in atti giudiziari non perché sia coinvolto anche un giudice (in quel caso gli atti dell'inchiesta, per competenza, sarebbero dovuti essere trasferiti a Perugia), ma perché il reato viene contestato a tutti i funzionari indagati che si occupano di procedure giudiziarie, come è un concordato preventivo. Non è tutto: nelle carte è citato un altro episodio attenzionato dai pm. Protagonisti stavolta sono Ambrosini e un altro commercialista, Marco Costantini, che risulta anche lui iscritto nel registro degli indagati. I pm stanno cercando di capire se alcune telefonate in merito a un incarico professionale costituiscano un altro reato. Costantini è finito sui giornali come “attestatore” del concordato in continuità di Atac, avuto nel 2017. Vedremo quali saranno gli sviluppi dell'inchiesta. Di certo sia Astaldi sia Salini-Impregilo la seguiranno con grande attenzione: l'ok finale al concordato e il salvataggio di Astaldi è prodromo all'acquisto della spa da parte del colosso guidato da Pietro Salini. E soprattutto del successo dell'operazione “Progetto Italia”, partita a inizio agosto del 2019: l'idea è quella di creare un megagruppo delle costruzioni nazionale, capace di competere con i big mondiali del settore. Con dentro non solo il dominus Salini, ma anche Cdp Equity (che ha deciso ieri di impegnarsi a sottoscrivere anche lei l'aumento di capitale, fino a un massimo di 250 milioni) e le banche creditrici di Astaldi, in primis Intesa, Unicredit e Banco Bpm. Ma molta attenzione a quello che accadrà sono molti professionisti specializzati in materia di concordati preventivi e ricche amministrazioni straordinarie. Al netto dell'inchiesta sui commissari di Astaldi, il lavoro dei magistrati romani potrebbe infatti aprire un'enorme breccia investigativa in merito al sistema degli incarichi professionali in Italia. In particolare, sulle procedure nelle quali per legge vengono nominati soggetti privati che svolgono poi funzioni pubbliche (amministratori straordinari delle imprese in crisi, appunto, commissari dei concordati, che a loro volta nominano stuoli di consulenti spesso strapagati). Un mondo in cui i conflitti d'interesse sono spesso all'ordine del giorno. La procura di Roma, che ha operato decine di intercettazioni, potrebbe ora puntare a un nuovo assioma: se qualcuno ha nominato proprio consulente un professionista in una procedura di qualsiasi tipo, e il prescelto ha poi restituito il favore nominandoti consulente in un'altra, potrebbe essere contestato il reato di corruzione. Con l'uso dei trojan – che prima non si poteva usare in inchieste di questo tipo, con la nuova normativa invece sì – sarà più facile trovare le prove del do ut des. E dimostrare che la consulenza è usata come semplice merce di scambio. Di sicuro, in queste ore, sono in tanti a preoccuparsi di quanto avviene nelle stanze di piazzale Clodio e negli uffici del nucleo anti corruzione della Guardia di Finanza.

Sono 129 gruppi gestiti da 111 commissari. Aziende in crisi, procedure aperte dopo quasi 20 anni:  lo scandalo di Mercatone Uno (fallita due volte). Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Milena Gabanelli, Fabrizio Massaro su Corriere.it. Mercatone è il caso estremo che svela i limiti della normativa a protezione delle grandi aziende. Sono due le leggi che regolano le crisi: la Prodi bis, del 1999, e la Marzano, scritta a fine 2003 per salvare la Parmalat. La prima prevede non meno di 200 dipendenti, la seconda richiede almeno 500 dipendenti e debiti superiori a 300 milioni. Fino al 2016 la nomina dei commissari era a discrezione del ministro. Poi Carlo Calenda decise un bando pubblico per ogni procedura e una commissione che vaglia i candidati e li propone al ministro. Dal 2018 il ministro Luigi Di Maio ha introdotto il sorteggio. Ma se c’è un motivo valido (a discrezione del ministro), si può tornare alla nomina diretta. In pratica i professionisti che stazionano nei paraggi di Via Veneto, sede del ministero, sono sì e no 150, sempre gli stessi, e devono essere molto rapidi a candidarsi: nel caso di Mercatone Uno, il bando del 12 giugno scadeva alle due del pomeriggio del 14, praticamente dopo soli due giorni; quello per commissario giudiziale di Stefanel era del 24 giugno, con scadenza giovedì 27: tre giorni appena per la selezione, compresi sabato e domenica. Sono tutti avvocati, revisori contabili, commercialisti, che hanno già una fiorente attività privata, accademica, e incarichi nei cda di grandi aziende, a dover gestire anche le amministrazioni straordinarie, spesso multiple. I campioni: Stefano Ambrosini (a quota 6), Stefania Chiaruttini (a quota 5), Alberto Falini (quota 5), e poi Oreste Michele Fasano, Giuseppe Leogrande, Renato Nigro, Franco La Gioia, Lucio Francario (a quota 4). Insomma la domanda da sempre è: quanto tempo possono dedicare alle aziende da rimettere in carreggiata? E chi controlla più di cento procedure? Sono pochi i casi di successo: quello più noto è Parmalat, che venne risanata da Enrico Bondi in circa due anni convertendo i debiti in azioni. Di solito però i commissari tengono in piedi l’azienda in attesa di un acquirente per salvare i posti di lavoro, che è il vero obiettivo della procedura. In media servono 1-2 anni ma le procedure restano aperte anche per 19 anni. È il caso del gruppo Bongioanni, in Prodi bis dal marzo 2000; Cirio, Giacomelli e Tecnosistemi sono del 2003, Minerva Airlines, Arquati e Olcese del 2004; Parmatour del 2005. Tutte ancora aperte in attesa delle cause di responsabilità e di recupero crediti. Il tempo però non gioca mai a favore.Nel 2015 i soci di Mercatone Uno, Romano Cenni e Luigi Valentini, chiedono il concordato in bianco: ci sono 500 milioni di debiti e quasi la metà dei punti vendita da chiudere perché bruciano cassa. Gli azionisti non ci stanno e dato che Mercatone è una grande azienda preferiscono finire in amministrazione straordinaria. I tre commissari, l’avvocato Stefano Coen, il commercialista Ermanno Sgaravato e l’esponente delle Coop Vincenzo Tassinari, fedeli all’imperativo del Mise di salvare i posti di lavoro tengono aperti i negozi e riaprono quelli nel frattempo chiusi, cercando di vendere il gruppo in blocco. La valutazione la affidano al prof. Laghi (contemporaneamente commissario di Ilva e Alitalia). La prima asta da 280 milioni va deserta; alla seconda il prezzo scende a 220, ma anche stavolta non si presenta nessuno. Parte allora la trattativa privata.Nel 2018 — tre anni dopo il crac — la gran parte dei punti vendita (55) finisce in mano alla Shernon Holding di Valdero Rigoni (reduce da un precedente fallimento) per un tozzo di pane: 10 milioni di euro, più l’impegno all’acquisto degli immobili. Ma i soci finanziari non ci sono, Shernon di fatto è una scatola vuota con sede a Malta, e fallisce dieci mesi dopo. A maggio 2019, a fronte di un attivo di 15 milioni, aveva maturato debiti per 101 milioni, di cui 11 nei confronti dell’Inps, e 8 verso 20 mila clienti che hanno versato anticipi per merce mai ricevuta. Che si aggiungono ai 200 milioni di debiti maturati nei tre anni di amministrazione straordinaria, dei quali 80 milioni verso i fornitori, e 50 milioni di contributi previdenziali non versati ai 1.800 dipendenti. E adesso è ripartita la giostra con altri 3 nuovi commissari. Chi paga il conto? I contributi non versati saranno ripianati dalle nostre tasse, mentre per i circa 500 fornitori, che dall’inizio della crisi ad oggi, hanno perso più di 300 milioni, non ci sarà paracadute, perché sono piccole imprese, e rischiano a loro volta la chiusura. Mai avrebbero fornito merci ad un’azienda piena di debiti, se non ci fosse stata la garanzia (tradita) della presenza dello Stato attraverso i Commissari. Ora, se i commissari appena nominati riusciranno a vendere i centri commerciali, il valore di realizzo si aggirerebbe sui 60 milioni. Poi si aspetteranno i tempi della giustizia: i vecchi commissari hanno fatto causa agli ex soci di Mercatone per 320 milioni. Nel frattempo le loro parcelle però maturano lo stesso. Quelle sì che sono «straordinarie», perché calcolate in relazione al passivo dell’azienda e all’attivo. Il compenso liquidabile ai vecchi commissari Coen, Sgaravato e Tassinari è di 7,2 milioni di euro. Quello effettivo lo stabilirà il Ministero, e per legge arriverà prima di pagare gli altri crediti. Per le procedure iniziate dopo il 2016 è stata introdotta una riduzione del 20% rispetto ai compensi precedenti, e un sistema di premi o penalità in relazione ai tempi di chiusura della procedura stessa. In teoria più tempo ci metti e più spendi (in consulenze, avvocati eccetera) e meno ti pago. Secondo le stime del Mise, il compenso medio per il commissario di una grande procedura è sceso da 5,48 milioni a 3,2-2,4 milioni, a seconda del maggiore o minore successo; per una media procedura, da 1,5 a 1,3; per una piccola, da 580 mila a 538-360 mila euro. Da dividere, se i commissari sono tre. Magistrati, commissari, giuristi sono concordi: queste procedure non può gestirle la politica, perché si allunga l’agonia senza pagare i debiti e facendone di nuovi. L’amministrazione straordinaria ha senso per le imprese strategiche, come Alitalia o Ilva, per le quali lo Stato è pronto a metterci soldi e a varare leggi ad hoc. Per le altre si dovrebbe riportare la competenza sul territorio, ai tribunali delle imprese, per proteggere al meglio i creditori, che in gran parte sono i fornitori. Con la riforma del diritto fallimentare dello scorso febbraio, che entrerà pienamente in vigore ad agosto 2020, si era provato a cambiare le cose. Ma la parte sulle amministrazioni straordinarie è stata stralciata. Per ora a vincere sono le rendite di posizione.

·         “Legge sovraindebitamento: salva-suicidi o ammazza Imprese?”.

Legge 3/2012 salva suicidi, testo: cos’è e come funziona? Guida pratica per salvarsi dai debiti. Anna Maria D’Andrea Money.it il 20 Novembre 2018. La legge 3 del 2012, anche nota come legge salva suicidi o sul sovraindebitamento, consente ai contribuenti di ridurre i propri debiti in caso di difficoltà economiche. Nel testo tutte le regole su cos’è e come funziona. La legge 3 del 2012, meglio nota come legge salva suicidi per i contribuenti in crisi da sovraindebitamento è attualmente una delle misure più valide per aiutare i contribuenti in difficoltà economica. In un periodo in cui si fa un gran parlare di condono, rottamazione delle cartelle o pace fiscale, impariamo a conoscere cosa prevede la legge n. 3 del 2012 sul sovraindebitamento analizzandone il testo. Non sono pochi i privati cittadini che, a causa di eventi eccezionali e di particolari situazioni di crisi economica, non riescono più a pagare i propri debiti e si chiedono se esiste una via d’uscita. La legge salva suicidi è stata pensata proprio per rispondere a queste situazioni di reale difficoltà economica, o meglio sarebbe dire di sovraindebitamento.In questi casi ci si chiede quali sono le regole per poter ricorrere alla legge 3/2012 e, pertanto, è bene conoscere cosa prevede il testo della legge, come funziona, chi può beneficiarne e quali le condizioni per poter ridurre l’importo del proprio debito. Di seguito la guida completa alle procedure previste dalla legge n. 3 del 2012.

Cosa prevede la Legge n. 3 del 2012?

Per crisi di sovraindebitamento si intendono le situazioni di squilibrio tra obblighi assunti verso i creditori e l’incapacità del debitore di farvi fronte sulla base delle proprie reali disponibilità economiche e patrimoniali. Le regole previste dal testo della legge 3/2012 permettono ai privati cittadini di stipulare accordi con i creditori per il pagamento dei debiti insoluti. Il piano previsto dalla legge salva suicidi non si traduce in una cancellazione del debito, questa la prima precisazione. Quello che la legge sul sovraindebitamento ha voluto inserire è la possibilità, per i privati cittadini, di pagare i debiti sulla base delle proprie reali disponibilità. Come funziona la legge 3/2012 salva suicidi e, soprattutto, quali sono le modalità per accedervi e per richiedere un piano personalizzato di pagamento del debito? Il testo della legge chiarisce ogni dubbio. La crisi ha messo in ginocchio chiunque, e sempre più spesso far fronte ai debiti contratti diventa praticamente impossibile. Non sempre è possibile dunque pagare i propri debiti verso banche o Equitalia e, nonostante le recenti novità che hanno previsto la possibilità di rottamazione delle cartelle e l’ormai imminente pace fiscale non tutti i cittadini riescono ad assolvere agli obblighi previsti e a rispettare le strette scadenze.

Come funziona e quali le regole per accedere alle disposizioni previste della legge 3/2012?

Per cercare di chiarire cosa prevede e cos’è, ecco una guida pratica alla legge salva suicidi, cosa prevede il testo di legge e le regole per i privati cittadini. Il testo della legge 3/2012 sul sovraindebitamento prevede la possibilità per i cittadini che non riescono più a pagare i propri debiti di stipulare un piano di pagamento verso i creditori ricorrendo ad un tribunale e ad esperti. L’articolo 7, capo II della legge 3/2012 recita: Il debitore in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori, con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi di cui all’articolo 15 con sede nel circondario del tribunale competente ai sensi dell’articolo 9, comma 1, un accordo di ristrutturazione dei debiti sulla base di un piano che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo stesso, compreso l’integrale pagamento dei titolari di crediti privilegiati ai quali gli stessi non abbiano rinunciato, anche parzialmente, salvo quanto previsto dall’articolo 8, comma 4. Il piano prevede le scadenze e le modalità di pagamento dei creditori, anche se suddivisi in classi, le eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti, le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, il piano può anche prevedere l’affidamento del patrimonio del debitore ad un fiduciario per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori. In sostanza, la legge salva suicidi è la possibilità per i privati cittadini, ovvero artigiani, agricoltori, commercianti di rivolgersi al tribunale a seguito di una crisi da sovraindebitamento. In caso di situazione di effettiva difficoltà economica e a seguito degli accertamenti di giudice ed esperto contabile, il privato cittadini potrà accedere ad un piano di rientro creditizio commisurato a debiti ed averi del debitore. I creditori, dall’altra parte, non riceveranno l’intera somma cui hanno diritto, ma solo la parte che realisticamente il debitore può permettersi di pagare. Condizione perché il piano di rientro venga avviato è che esso venga accettato da almeno il 60% dei creditori. Tra i creditori si possono annoverare anche le banche: se, a titolo esemplificativo, un privato ha contratto un mutuo di 100mila euro che non riesce più a pagare a causa di un’effettiva difficoltà economica, egli può proporre all’istituto una riduzione della somma. Molto spesso alla banca, a causa della crisi che affligge il settore immobiliare, converrà infatti raggiungere un accordo con il cittadino che vendere l’immobile all’asta. Lo stesso discorso vale per Equitalia che non potendo effettuare un pignoramento sulla prima casa riuscirebbe a rientrare in possesso di una parte della somma. Per quanto riguarda i fornitori la legge salva-suicidi prevede delle agevolazioni fiscali dovute al fatto che essi percepiscono delle cifre inferiori rispetto a quelle pattuite precedentemente. Insomma, da un lato il cittadino potrà ripagare i propri debiti in base a quanto realisticamente può permettersi, dall’altro i creditori riusciranno a recuperare parte dei propri soldi.

Quali sono le regole e le condizioni per i debitori che decidono di ricorrere alla legge salva suicidi, 3/2012?

Per risolvere crisi da sovraindebitamento ricorrendo alla legge salva suicidi 3/2012 è opportuno specificare cosa prevede nel dettaglio la normativa di riferimento, ovvero il testo di legge. Le disposizioni delle legge salva suicidi si rivolgono ai soggetti non fallibili, ovvero privati che non svolgono attività professionale o imprenditoriale (o che, pur svolgendole, hanno contratto debiti per motivi estranei ad esse) e ad enti e imprese che non svolgono attività commerciale e che quindi sono escluse dalla possibilità di ricorrere alla Legge Fallimentare. Esclusi dal piano di rientro e il pagamento del debito in base alla propria concreta disponibilità i soggetti sottoposti a procedure concorsuali, coloro che hanno usufruito della legge negli ultimi 5 anni o che, pur ammessi ai benefici, ne sono decaduti per insolvenza e coloro che non hanno prodotto la documentazione utile a quantificare il debito e a ricostruire la propria situazione patrimoniale ed economica. In caso di crisi da sovraindebitamento, il privato dovrà consegnare al tribunale e al commercialista chiamato a quantificare debito e beni a disposizione, tutta la documentazione necessaria per stabilire tempi e modalità di pagamento del debito. Per la redazione del piano di rientro il debitore dovrà mettere a disposizione i propri beni e patrimonio e, mediante accordo con i creditori, stabilire tempi e misura del pagamento. Nel testo della legge salva suicidi 3/2012 si leggono tre diverse modalità di assolvimento dei propri doveri nei confronti dei creditori, ovvero:

piano del consumatore: è il debitore, ovvero il privato cittadino, a proporre un piano di pagamento rateizzato dell’importo dovuto ai creditori; la proposta dovrà essere approvata dal Giudice;

accordo del debitore: enti e imprese non fallibili presentano il proprio piano di pagamento che dovrà essere accettato dal 60% dei creditori e approvato dal Giudice;

liquidazione del patrimonio: il debitore cede il proprio patrimonio per il pagamento del debito, nella misura delle proprie reali disponibilità. I beni esclusi dalla cessione al creditore sono quelli non pignorabili, i crediti necessari per alimentazione e mantenimento, e quelli derivati da stipendio nella misura di quanto necessario per il mantenimento della famiglia.

Vediamo le tre diverse opzioni per salvarsi dai debiti nei confronti del Fisco e dei creditori.

Legge 3/2012: il piano del consumatore. Il piano del consumatore può essere utilizzato da una persona fisica (esclusi dunque professionisti, associazioni, start up innovative, imprenditori agricoli e piccoli commercianti) che non riesce a ripagare i propri debiti o che si trova in una “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile”. Condizione per accedere al piano è che il debito non provenga da un’attività professionale o imprenditoriale. Il cittadino deve inoltre essere «meritevole». Ciò vuol dire che non deve aver utilizzato un credito sproporzionato rispetto al suo patrimonio. Tramite il proprio avvocato, il consumatore dovrà presentare al Tribunale il proprio piano. I Giudici provvederanno quindi a nominare un organismo di composizione della crisi che avrà l’incarico di verificare che il cittadino abbia detto il vero sulla propria situazione patrimoniale e di dare un parere sull’applicabilità del piano di rientro proposto. Il debitore avrà inoltre la possibilità di “mettere sul piatto” eventuali crediti futuri, come per esempio il Trattamento di Fine Rapporto (TFR). Il Tribunale, sentito il parere dell’organismo, deciderà il da farsi senza chiedere il consenso dei creditori. Questi ultimi hanno però la possibilità di essere ascoltati e presentare le loro contestazioni. Nel caso in cui i Giudici dessero il loro assenso, il privato potrà ripagare parzialmente i propri debiti e non dovrà liquidare il proprio patrimonio per intero. Nel caso in cui quest’ultimo non rispettasse le condizioni del piano, la procedura si trasformerà automaticamente in quella di liquidazione del patrimonio.

Legge 3/2012: accordo di ristrutturazione dei debiti. L’accordo di ristrutturazione dei debiti può essere utilizzato sia dai privati cittadini che da professionisti, associazioni, start up innovative, imprenditori agricoli e piccoli commercianti. Anche in questo caso, tramite un avvocato, ci si dovrà rivolgere al Tribunale che avrà il compito di approvare e valutare la richiesta. La condizione è che il giro d’affari non superi le soglie di legge per essere soggetti a fallimento, il che vuol dire che nei tre anni precedenti:

- l’attivo patrimoniale deve essere inferiore ai 300.000 euro,

- i ricavi lordi devono assestarsi sotto i 200.000 euro per ogni esercizio,

- i debiti devono essere inferiori a 500.000 euro.

A differenza del piano del consumatore, l’accordo di ristrutturazione del debito necessita dell’assenso dei creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti.

Non c’è però il requisito di meritevolezza.

Liquidazione del patrimonio. Oltre alle due procedure sopra descritte, privati, professionisti e piccoli imprenditori in situazioni di insolvenza conclamata possono accedere alla procedura di liquidazione del patrimonio. Quest’ultima prevede che il debitore metta a disposizione tutti i propri beni e tutti i propri crediti, eccetto quelli necessari per mantenere la famiglia. Liquidando il proprio patrimonio, verranno cancellati i debiti che il cittadino non è in grado di ripagare. Rispetto al piano del consumatore e all’accordo di ristrutturazione, quest’ultima è la soluzione meno conveniente.

Legge 3/2012 salva suicidi: il piano di rientro. Per stipulare il piano di rientro che stabilisce la misura e i tempi per il pagamento del debito ai creditori il privato cittadino dovrà rivolgersi, oltre che al tribunale, ad un commercialista ed esperto contabile per la quantificazione del proprio patrimonio e dei propri beni. C’è da specificare che all’art. 15 della legge 3/2012 è stata prevista l’istituzione in ogni tribunale di un organismo di composizione della crisi, l’O.C.C, chiamato proprio a deliberare sulle singole situazioni dei contribuenti e a redigere e valutare il piano di rientro. Si tratta di organismi con competenze professionali necessarie a redigere la proposta di risoluzione della crisi da sovraindebitamento ma, ancora oggi, non risultano costituiti O.C.C. in tutti i tribunali. Nei casi in cui il privato non possa avvalersi del consulto dell’O.C.C. nel tribunale di propria residenza, verrà nominato un professionista, ovvero commercialista, notaio o avvocato. Il compito del professionista o dell’O.C.C. sarà non soltanto quello di quantificare il patrimonio del debitore e i beni posseduti, ma anche di analizzare i perché della crisi da sovraindebitamento. Unitariamente alla presentazione del piano di rientro il debitore dovrà indicare anche tutte le somme dovute, i beni e gli atti a disposizione negli ultimi 5 anni, le dichiarazioni dei redditi degli ultimi 3 anni e le spese necessarie per il sostentamento della propria famiglia. Alle analisi preliminari seguirà la proposta di rientro: il piano dovrà essere presentato al giudice che, con decreto, dovrà fissare la data dell’udienza entro 60 giorni dalla presentazione del piano di rientro. I creditori in caso di accordo del debitore, dovranno accettare il piano di pagamento entro 10 giorni.

La legge Salva Suicidi e i debiti insopportabili delle Famiglie. La legge Salva Suicidi prevede l’esdebitamento totale!  Una luce alla fine del tunnel per chi è sommerso dai debiti! Scritto da avvocatoinfamiglia.com. Uscire dall’indebitamento è possibile grazie alla legge Salva Suicidi, che permette di ridare speranza a chi credeva di avere perso tutto (compresa la speranza). La Dignità della famiglia prima di tutto. E’ ormai da parecchio tempo che sentiamo parlare di questa meravigliosa Legge Salva Suicidi ma poi, nel concreto, nessuno di noi (o quasi) la conosce bene realmente, chi possa usufruirne e, soprattutto, quali benefici possa portare. A spiegarcelo ci ha pensato un Avvocato di prestigio,  legale esperto in materia, che ci ha guidato con grande professionalità e chiarezza (perché quando si parla di leggi è una dote fondamentale) nei meandri di questa legge, tanto nebulosa quanto utilissima.

D) Chi può usufruire di questa legge?

R) Possono usufruirne tutti i cittadini italiani. Quindi sia i cittadini non muniti di partita iva (ovvero lavoratori dipendenti o padri/madri di famiglia) che i possessori di partita iva (quindi imprenditori o artigiani, ad esempio). L’unico vincolo è che la persona non appartenga a società fallibili.

D) Chi non può usufruirne?

R) Chi ha contratto debiti al gioco o chi ha condotto una vita non appropriata alle sue possibilità o molto semplicemente coloro che sono stati letteralmente travolti dalla crisi del sistema bancario Italiano.

D) Quali sono i vantaggi che si possono avere facendo ricorso a questa legge?

R) Si possono ottenere: La possibilità di avere una riduzione della propria situazione debitoria. A questa procedura infatti si rivolgono soggetti che un tempo avevano le possibilità di pagare un finanziamento/mutuo, ma che ora, a causa della crisi e altre vicissitudini non dipendenti da loro, sono diventati incapaci di fare fronte a questi pagamenti. La seconda via prevede la liquidazione del patrimonio. Infatti se il debitore ha dei beni immobili e non ha interesse a conservarli, può vendere i suoi averi mettendo i ricavi a favore dei creditori. Qui il vantaggio è di avere una riduzione del debito, che può arrivare anche a percentuali altissime del 70%. La sospensione di tutte le procedure esecutive (pignoramenti o decreti ingiuntivi). Chi accede a questa procedura, nel momento in cui omologa il piano, ottiene la cancellazione dalla crif.

D) Qual è l’iter che bisogna affrontare? E’ davvero così facile?

R) Da avvocato che accompagna il debitore, noi siamo molto veloci nel portare avanti l’istanza. Si parla di 72 ore per presentarla. Dopo di che ci sono dei tempi tecnici che sono dettati dai classici tempi del tribunale. C’è l’iscrizione al ruolo e viene nominato il gestore della crisi dal giudice, che detta le tempistiche (raccogliendo i documenti e facendo degli incontri ufficiali). Alla fine di tutto questo iter di archiviazione si procede alla fase di deposito del piano/accordo (nel primo caso questo deve essere omologato dal giudice del tribunale). Non è facile per nulla e richiede grande Esperienza , Umanità e prontezza da parte del legale che accompagna la famiglia dal giudice.

D) Cosa rende ‘speciale’ questa legge?

R) E’ molto importante sottolineare che deve essere il debitore a formulare la proposta al gestore per saldare i debiti. Il gestore ha solo il compito di valutare la fattibilità del piano e la veridicità dei piani dati dal debitore. Quindi se il debitore dice che ha 10 debiti e deve indicare i creditori, non può sbagliare di un centesimo. Tutto deve essere dimostrato.

D) Sembra che la richiesta di utilizzare questa legge venga respinta in molti casi. E’ così?

R) In primis bisogna dire che la legge presenta molte lacune e punti oscuri. Questo ha comportato un’applicazione della legge a seconda dei tribunali. Tutto è alla discrezionalità dei magistrati. Addirittura ci sono differenze anche per la cancelleria a cui presentare l’istanza. Quindi anche la procedura è variabile, e questa è una cosa gravissima, perché serve una omologazione. Se ci sono state istanze non accettate dipende anche da questo. E dal fatto che questa norma venga utilizzata da avvocati non esperti in materia. Evitare l’improvvisazione per non vedere sfumata l’ultima chanches della famiglia.

D) C’è davvero una via di fuga al sovraindebitamento?

R) Sì, è una possibilità concreta e reale per tutti. Uno strumento unico per risolvere questi problemi ormai all’ordine del giorno. Unico errore, a mio avviso, è rimanere inermi alle aggressioni dei creditori. La Legge esiste e tutela i deboli. Invito tutti ad utilizzarla cum grano salis però. Purtroppo molte Famiglie vengono rese edotte di questa magnifica opportunità quando oramai hanno già perso la loro prima ed unica casa.

D) Cosa consiglierebbe di fare a chi in questo momento pensa di non avere più una via d’uscita per fuggire dai debiti, dalle banche e dalle paure che ogni giorno lo assalgono? Si può davvero salvare la prima casa?

R) Che c’è una speranza. Quando si lavora con questi clienti l’avvocato deve avere un approccio particolare, perché si hanno davanti persone che sono davvero sull’orlo del suicidio e che non credono più a nulla. La prima difficoltà infatti è far accettare al cliente il fatto che esista una possibilità. Io non devo dire ai miei clienti cosa non devo fare , io devo spiegare a loro come devono fare quello che serve ! Solo con concretezza si esce dal debito.

D) La scelta dell’avvocato fa la differenza?

R) E’ molto importante affidarsi a professionisti e non recarsi da millantatori che paventano onorari molto bassi. In questa particolare procedura l’avvocato giusto fa il 90% della causa. Perché la relazione di ciò che è accaduto al debitore la deve dare l’avvocato. Quindi uno deve arrivare davanti al gestore della crisi con un tramite credibile e che sa raccontare i fatti, portando alla luce la “meritevolezza” del suo assistito ad utilizzare questa agevolazione.

La legge che estingue i debiti ma che in pochi applicano. La nuvola del lavoro, Barbara D'Amico su Corriere della Sera del 23 aprile 2017. Legge Salva-Suicidi è un’espressione macabra per battezzare una normativa approvata nel 2012 dal Governo Italiano grazie alla quale un libero professionista o un semplice privato può “fallire” come una società e ripianare i propri debiti una volta per tutte, con quanto riesce a mettere a disposizione dei propri creditori, senza entrare (o uscendo definitivamente) dalla lista dei cosiddetti “cattivi pagatori”, i soggetti che nel gergo bancario non possono ricevere credito e che, se indebitati, vengono rincorsi per tutta la vita dagli istituti. Parliamo di chi non riesce più a pagare il mutuo, le tasse o di chi semplicemente perde il lavoro e si ritrova con rate di mobili o di macchinari da versare senza poter più contare sullo stipendio. Persone, secondo un gergo che richiama i suicidi per motivi economici, a rischio proprio perché strette tra la certezza di non poter saldare i debiti e la tentazione di rivolgersi agli usurai pur di ottenere liquidità: un circolo vizioso che tra il 2008 e il 2013, in piena crisi, ha alimentato il fenomeno dei suicidi economici, morti – è corretto dirlo – che non è sempre stato possibile collegare al sovra-indebitamento ma maturate all’interno di un clima di incertezza materiale.

La Legge. Le disposizioni, approvate con la legge 3/2012 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovra-indebitamento) sono quindi la risposta tecnica a questo problema anche perché permettono di considerare estinti i debiti anche quando chi è in difficoltà non riesca a restituire l’intera cifra ma almeno ciò che il giudice e un apposito organismo (detto organismo di composizione della crisi da sovra-indebitamento) ritengono congruo rispetto ai creditori e rispetto soprattutto al reddito della persona coinvolta. Queste norme permettono anche alle persone fisiche o alle ditte individuali e i liberi professionisti di fallire in modo controllato – fino al 2012 infatti in Italia potevano fallire solo le società – pagando i creditori ma lasciando intatte le risorse per la propria sopravvivenza e il proprio lavoro e soprattutto permettendo a una persona di ridiventare “buon pagatore” agli occhi del sistema bancario. «Questa normativa è una rivoluzione – spiegano gli esperti di Rianalisi società specializzata nella gestione delle procedura da sovra-indebitamento – Se sei un piccolo imprenditore o un libero professionista e hai debiti, grazie a questa procedura a determinate condizioni puoi tirare una riga e ripartire senza che i creditori ti corrano dietro per tutta la vita. La Francia ha una legge simile dal 1989 e in un decennio – dal 1995 al 2005 secondo dati di Banque de France – ha portato avanti circa 1 milione e 500 mila pratiche. In Italia ad oggi possiamo contare invece solo tra i 3 e i 4 mila casi».

Chi può accedere e come funziona. Le nuove regole italiane prevedono tutti i possibili profili di soggetti in grado di tirare questa linea e ripartire da zero. Dal singolo (consumatore che ha contratto debiti estranei all’attività professionale e/o imprenditoriale) all’imprenditore commerciale, fino alle imprese con un attivo patrimoniale inferiore ai 300 mila euro, ricavi lordi inferiori ai 200 mila euro e debiti entro i 500 mila euro). Non solo. Possono accedere alle procedure anche le start-up, gli imprenditori cessati e  gli eredi, il socio illimitatamente responsabile e i suoi eredi. Infine, la casistica dei liberi professionisti, degli artisti e in generale di tutti i lavoratori autonomi comprese le società e le associazioni tra professionisti, lo studio professionale associato e gli agricoltori. Tre le possibili procedure attivabili. La prima è appunto l’accordo di composizione della crisi dedicata esclusivamente ai soggetti sovra-indebitati che hanno assunto debiti in ragione di una propria attività imprenditoriale o professionale svolta. «Detta in parole semplici – spiegano da Rianalisi – Hai debiti che non riesci a pagare e hai un attività: in questo caso li puoi ristrutturare». La seconda è il “Piano del Consumatore” dedicato esclusivamente ai soggetti sovra-indebitati che hanno assunto debiti per scopi estranei alla propria attività imprenditoriale o professionale (quindi attivabile da chi non abbia una attività ma abbia debiti). La terza consiste nella liquidazione vera e propria e che si può attivare nel caso le prime due opzioni non raggiungano il risultato sperato.

Quanti sono i sovra-indebitati in Italia. Tre chiare procedure. Una casistica ben definita. Eppure ancora poche richieste da parte degli italiani in difficoltà nonostante la norma sia finita in tv (se ne erano occupati Report,  Le Iene, Tagadà). Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dalla Banca d’Italia, i debiti delle famiglie italiane verso le banche ammontavano nel 2015 a quasi 1 miliardo di euro (saldo tra i debiti e le posizioni attive) e nel 2014 erano circa 1 milione e mezzo i nuclei in difficoltà da sovra-indebitamento. Tra i debiti pesano non solo i mutui ma anche le rate per l’acquisto di beni. Sempre secondo il rapporto delle Banca d’Italia fino a febbraio 2016 sono stati 7 mila i contratti di credito al consumo sospesi da chi aveva fatto acquisti a rate (e si parla solo delle famiglie che hanno attivato la sospensione grazie a un accordo tra Adiconsum e ABI per il periodo 2015/2017).

Norme chiare ma non accessibili a tutti. Nonostante l’impianto della legge per la composizione delle crisi da sovra-indebitamento sia – a detta dei tecnici – perfettamente costruito, nonostante fioriscano centri di informazione e consulenza come l’Associazione Italiana Sovraindebitamento, nel 2017 solo pochissimi hanno attivato una delle tre procedure previste per uscire fuori dal tunnel de debiti (accordo di composizione della crisi; piano del consumatore; liquidazione).

Il motivo principale è legato alla disinformazione. Per La Nuvola abbiamo provato a contattare 3 diversi studi di commercialisti (uno a Roma, uno a Torino e uno a Napoli) e pur avendo sentito parlare della normativa in corsi di aggiornamento o per ragioni professionali, in nessuna delle tre realtà avevano mai applicato o suggerito l’applicazione dei procedimenti salva-suicidi.

Il secondo motivo è legato alla complessità della disciplina che – per quanto a portata di singolo – non è attivabile in modo autonomo. Serve un commercialista, serve l’avvocato che vada in Tribunale a richiedere l’avvio delle procedure in particolare per nominare quel comitato di esperti per la composizione della crisi che deve decidere come e quanto far restituire dal debitore ai suoi creditori. Servizi che hanno dei costi che al momento deve sopportare il singolo soggetto che chiede l’avvio della procedura e possono aggirarsi di base attorno ai 5, 7 mila euro. «Prendiamo il caso del consumatore indebitato – spiega Giulia Barsotti, consulente legale di Aduc una delle principali associazioni di consumatori in Italia – Può rivolgersi direttamente a un organismo di composizione della crisi previsto appunto dalla legge3/2012 ma la stragrande maggioranza delle persone non sa cosa deve fare non sa che esistono questi organismi di composizione quindi naturalmente si rivolge a un legale. Tra costi di deposito e marche da bollo (98 + 27 euro e poi altri 98+27 euro per ottenere l’omologa del Tribunale), il costo dell’organismo di composizione e la consulenza legale chiaramente la cifra cresce».

Possibile quindi che non esistano al momento organismi di composizione a portata di persona in difficoltà? «Pro bono non esistono in Italia al momento – continua l’avvocato – Esistono delle tariffe di massima previste dal Ministero della Giustizia, una specie di vademecum varato con decreto nel 2014». Per legge, ad esempio, questi organismi dovrebbero ricevere un rimborso spese pari al 10-15% dei costi sostenuti per le pratiche. «Come ADUC possiamo fornire assistenza per una eventuale procedura. Non possiamo però fornire consulenza legale ma solo stragiudiziale». E poiché il procedimento per ripulirsi dai debiti prevede l’attivazione in Tribunale il massimo della consulenza gratuita che un soggetto indebitato può ottenere è appunto quello che precede la più complessa richiesta in giudizio. L’avvocato Barsotti, nonostante l’esistenza di uno sportello ad hoc, dice di aver ricevuto richieste in sede ADUC solo da 4 persone perché, appunto, né banche né istituzioni fanno attività di informazione a tappeto sull’esistenza della normativa.

Le associazioni dei consumatori possono dare solo informazioni generali. Una realtà come Adiconsum per ora non si è attivata sulle particolari procedure della legge 3/2012. Come mai? «Adiconsum è l’associazione che grazie a un mandato governativo gestisce già dal 1998  un Fondo di prevenzione dell’usura e del sovra-indebitamento ed è iscritta ad un apposito albo prefettizio per gestire le richieste delle famiglie in difficoltà», spiegano dall’Associazione, che interviene per fare da garante a coloro che non hanno i requisiti ordinari per accedere al credito necessario a ripianare un debito. Quindi chi è sovra-indebitato può, tramite l’associazione, richiedere accesso al fondo di garanzia e ottenere un prestito bancario con la garanzia dell’ente. «Nel 2016 noi abbiamo garantito prestiti di consolidamento dei debiti a tassi contenuti, del 2% circa, per 1 milione 265 mila euro. Ma le banche, nonostante le garanzie, hanno di fatto erogato solo 869 mila euro. Inoltre chi fa domanda deve comunque poter essere in grado di restituire il prestito, avere ad esempio un minimo di reddito e non aver contratto il debito per futili motivi. Ecco perché a fronte di 500-600 richieste all’anno di accesso riusciamo al massimo ad approvarne un centinaio». Adiconsum precisa che l’attivazione della garanzia è gratuita, è un servizio fornito appunto dall’Associazione (per maggiori informazioni è possibile scrivere direttamente a prevenzioneusura@adiconsum.it). Al momento però l’organizzazione fa sapere di non essersi ancora occupata della legge di composizione della crisi da sovra-indebitamento che quindi resta  una procedura attivabile solo con mezzi propri. Il vantaggio però, riuscendo a pagare a rate anche il proprio legale, è scongiurare che le banche si prendano l’abitazione vendendola all’asta ma soprattutto agire in una dimensione molto più tutelata sia come debitori sia come creditori (che, in genere, con le liquidazioni e le aste al ribasso in ogni caso riescono a ottenere meno del dovuto). Si è tutelati, ad esempio, dalla pronuncia del giudice e dalle tempistiche decise con l’organo di composizione della crisi che impongono ai creditori di non sollecitare pagamenti se non a partire da una data certa. Senza la legge, inoltre, un debito di 500 mila euro con il fisco imporrebbe il pignoramento della casa, la vendita all’asta e, in caso di ricavato insufficiente, la continua richiesta di saldo della quota mancante da parte dei creditori. Con la legge invece è il soggetto indebitato a vendere la casa, al prezzo di mercato, e se l’accordo prevede che con 400 mila euro la partita debito si chiuda, basterà raggiungere quella cifra. E tornare ad avere una dignità.

“Legge sovraindebitamento: salva-suicidi o ammazza Imprese?” CONVEGNO OIC 25 Ottobre 2017 – Parlamentino del CNEL.Pubblicato su osservatorioimpreseconsumatori.com. Delle criticità e dei possibili sviluppi della Legge 3/2012 si è discusso il 25 Ottobre 2017 nel convegno dal titolo “Legge sovraindebitamento: salva-suicidi o ammazza Imprese?” che si è svolto presso la sede del CNEL a Roma e organizzato dall’ Osservatorio Impresa e Consumatori in collaborazione con Prodeitalia.

I lavori sono stati aperti da Antonio Persici - Presidente OIC, con i saluti e i ringraziamenti ai partecipanti.

Persici condivide con la platea la mission dell’osservatorio nato e ispirato al bene comune. “L’evento di oggi relativo ad un focus sulla Legge 3 del 2012 è stato ospitato dall’Osservatorio, poiché ci spingiamo verso tutte le tematiche che riguardano l’universo del credito. La legge 3, è una legge che ad oggi presenta molte lacune e di sicuro non ha funzionato molto. Necessita quindi di una rivisitazione e siamo qui oggi per un confronto tra gli esperti della materia” Persici ribadisce l’importanza di questi momenti di confronto sule tematiche attuali e spinge sul metodo con cui OIC ha lanciato di recente la cosiddetta “Democrazia delle competenze” rappresentante di tutti gli interessi, con il fine di acquisire il consenso degli stakeholder. Cita come esempio, il tavolo di lavoro organizzato di recente sul Tema della Riforma di Legge presentata dall’Onorevole Petrini e che ha visto riunirsi i maggiori esperti della materia per un confronto e una rivisitazione della Riforma stessa.

Viene data la parola all’Avvocato Francesca Scoppetta : “Presentazione lavori e focus sulla Legge 3/2012”

L’Avvocato ringrazia l’OIC per l’iniziativa messa in atto che rappresenta tra l’altro la seconda edizione. La prima tavola rotonda, molto utile, si era chiusa con tanti interrogativi e spunti di riflessione, da cui intende ripartire quali punti di miglioramento: alcuni principi cardine.

Intenzione: la normativa civile è presente in tutta Europa. L’intenzione del legislatore è prevedere un sistema e aiutare chi vuol pagare, ma non riesce a far fronte alle sue obbligazioni, ai suoi debiti. L’intenzione è quindi quella di riabilitare chi vuole essere riabilitato.

Collaborazione: il soggetto indebitato deve collaborare con il proprio avvocato e con l’Organismo di composizione, in un’ottica di assoluta chiarezza e trasparenza.

Esdebitazione: la riabilitazione è obiettivo della legge. Riportare il soggetto indebitato ad essere un soggetto attivo e produttivo all’interno della società. Dal circolo vizioso al circolo virtuoso. Per far sì che tutti questo possa essere applicabile è però necessario riflettere anche sul ruolo di banche e finanziare: le stesse non devono essere contrapposte ma devono porsi accanto al cliente, anche per avere un cliente pagante. Auspicabile e doverosa, altresì, l’eliminazione del divieto di falcidiabilità dei debiti per IVA Tale divieto è previsto nell’ambito del procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento. Con questa scelta le piccole imprese, artigiani e famiglie che si sono indebitate proprio a causa dei tributi non pagati vengono abbandonati, generando una grave forma di ingiustizia se si pensa che il criterio di falcidiabilità, invece, è previsto per molte grandi aziende Spa. E’ auspicabile e doveroso, dunque, prevedere l’eliminazione del divieto di falcidiabilità dei debiti per IVA. L’Avvocato Scoppetta chiude il suo intervento con l’auspicio che ci sia la possibilità anche per le SRL, sottosoglia che non possono fallire, di aderire alla Legge 3/2012.

1° Tavola rotonda. “Gli aspetti giuridici ed applicativi della legge 3 in rapporto agli organi della procedura e l'impatto nel rapporto cittadino - P.A ".

Interviene la Dottoressa Dominici, approfondisce il principio della Second Chance proposto dalla Legge. C’è il desiderio di capire cosa avviene dal mondo reale, poiché il consumatore si trova in uno stato di moderna schiavitù. In un momento di crisi e stress nel consumatore non sarebbe più opportuno che venisse sacrificato il diritto del creditore a favore di una maggior tutela del debitore. Il soddisfacimento dei creditori, deve avvenire, ma essere parziale e in tempi rapidi (2/3 anni). La Legge va migliorata. Nela legge delega all’art. 9 si prevedono nuovi principi che apporteranno modifiche importanti. Il raggio d’azione della legge va esteso, soprattutto in modo da considerare in senso più largo il concetto stesso di consumatore, così come sostenuto dalla Cassazione.

Il Dr Taverna pone subito la necessità di far avvicinare il nostro ordinamento a quello internazionale. E’ necessario, infatti, vedere cosa accade negli altri Paesi, poiché se non c’è omogeneità viene a mancare il principio della libera concorrenza. Legge 3 è più ampia della legge fallimentare e cura un aspetto in più, quello personale e psicologico del soggetto. Il soggetto sovraindebitato ad esempio può aver avuto la necessità di ricorrere al credito al consumo, per esigenze reali, ritrovandosi magari con uno stipendio di 1500 € e rate di 1200 € da pagare. Passa quindi da soggetto attivo a soggetto passivo. Diventa un malato destinato a scardinare il patrimonio economico. Taverna si sofferma poi su alcune alcune criticità della Legge, segnala per esempio il caso di Tribunali diversi con prassi diverse, richiedendo per esempio il deposito di somme diverse, da gratuita fino a più di mille euro. Questa E’ importante che si studino anche procedure di prevenzione (es. ripiegare di ricorrere a altri finanziamenti non è la soluzione). Soggetto sovraindebitato ha paura a parlare o teme di perdere il proprio patrimonio (es. sequestro del Tribunale).

2° Tavola rotonda. “Cause, soluzioni e punti di vista: sovraindebitamento e prospettive future”.

Interviene il Dr Massimo Cambi esponendo la sua esperienza: “Presso il Tribunale di Firenze su cui solitamente mi trovo ad operare, risulta che negli ultimi tre anni sono state presentate circa quaranta istanze di cui poco più di venti risultano aperte/omologate. In particolare, solo due piani del consumatore sono stati omologati. Nemmeno una al mese! La situazione in gran parte dei Tribunali non è migliore. Ciò delinea come l’impatto della legge 3 si sia rivelato insignificante, nonostante ci sia un sempre maggior interesse verso la materia. Nonostante sempre più sovraindebitati si presentino alla scrivania dei professionisti (sia nella loro veste di consulenti, sia in quella di nominati nell’ambito della legge 3) solo in pochissimi casi si riesce a completare l’iter previsto dalla legge. Le cause di questo insuccesso sono molteplici, in particolare:

1) La disinformazione: In primo luogo, occorre rilevare che c’è molta disinformazione, purtroppo anche tra gli addetti ai lavori. Esempio tipico di questa ignoranza è quella del debitore che appena seduto alla scrivania dichiara: “Ho dei debiti. Mi hanno detto che basta fare una pratica in Tribunale e non si paga più nulla”. Oppure quella del debitore reticente che non si ricorda quali debiti ha, quali contratti di finanziamento ha stipulato, non consegna alcuna documentazione e non sa (o non vuole) spiegare le ragioni dell’indebitamento. Si tratta di situazioni in cui il debitore non solo non mostra affatto la volontà di fatto di giungere all’esdebitazione ma dimostra di non comprendere le potenzialità e le prospettive della riabilitazione che offre la legge 3. Le procedure di sovraindebitamento prevedono la predisposizione di un piano e la sua attuazione, sia per l’accordo sia per il piano del consumatore, o comunque una durata minima di 4 anni per la liquidazione del patrimonio. Questo significa realizzare qualcosa che coinvolge la vita del debitore sia nei suoi comportamenti economici che non. Ci stiamo addentrando in problematiche di tipo psicologico e sociologico di cui francamente non ho le competenze. Sfortunatamente, appartengono alla stessa categoria quelli (compresi ahimè anche i loro professionisti) che pensano di bloccare le esecuzioni immobiliari con la nomina del professionista facente funzioni di OCC. Il reale intento non è quello di trovare una soluzione definitiva e raggiungere l’esdebitazione, ma solo quello di intralciare i procedimenti espropriativi sui beni del debitore, che tuttavia prima o poi completeranno comunque il loro corso.

2) Le problematiche normative: la legge 3 prevede situazioni o soggetti per cui è precluso in tutto o in parte l’accesso alle procedure. Mi riferisco ai soci illimitatamente responsabili di società di persone o ai casi di indebitamento costituito da fidejussioni. Tuttavia la problematica più rilevante è la questione del merito. Sia nel piano del consumatore che nella liquidazione del patrimonio l’esdebitazione è collegata alla meritevolezza. Per come è scritta la legge, questo requisito è molto stringente. Nella realtà, il sovraindebitato giunge di fronte al Tribunale non con rapidità, ma solo dopo anni di situazione debitoria gravosa ed insormontabile, con un ricorso continuo a prestiti da parte di società finanziarie che in parte riesce a restituire ma in larga parte non sarà mai in grado di rimborsare. E’ evidente che in tali situazioni, che sono le più frequenti, una interpretazione letterale e rigorosa della norma diventa automaticamente un ostacolo quasi del tutto insormontabile. Moltissimi Tribunali sono orientati in tal senso. In questi casi, l’unica alternativa è l’accordo con i creditori. Quest’ultimo, tuttavia, è un percorso che non si addice a tutte le situazioni di sovraindebitamento e non sempre può essere attuato. Si tratta di sottoporsi comunque ad un giudizio: non quello del giudice, ma quello dei creditori. Pertanto, i risultati scadenti che ho precedentemente enunciato non devono sorprendere, in quanto gli ostacoli all’accesso ed al completamento di una procedura di sovraindebitamento sono molteplici e spesso insormontabili.

Come uscirne? A mio avviso il problema è fondamentalmente culturale. L’esdebitazione, la second chance o il fresh start o come vogliamo chiamare la possibilità di chiudere con il passato e ripartire, non appartiene alla nostra tradizione, al nostro bagaglio culturale” La normativa in materia di fallimento ne è la chiara dimostrazione. Viviamo in un ordinamento in cui la vecchia legge fallimentare (mi riferisco al R.D. 267 del 1942) nella sua originaria formulazione, che ha perdurato quasi fino ai giorni nostri, costruiva un sistema estremamente punitivo nei confronti del fallito, ossia il debitore per eccellenza. Il fallito era iscritto nel pubblico registro dei falliti, aveva l’obbligo di residenza, perdeva il diritto alla riservatezza della propria corrispondenza, era soggetto a varie incapacità, erano (e lo sono tuttora) previsti reati specifici collegati alla dichiarazione di fallimento, e così via. Le cose sono fortunatamente in parte cambiate, ma l’imprinting al sistema ha lasciato le sue scorie. Introdurre l’istituto del fresh start, ovvero la possibilità di definire e chiudere la situazione di perdurante ed eccessivo indebitamento e di ripartire “pulito”, in un ordinamento originariamente punitivo non è per niente facile e le difficoltà finora mostrate dalla Legge 3 ne sono il chiaro esempio. Dovrà essere il legislatore nella scrittura dei decreti delegati dalla c.d. riforma Rordorf a districare la vicenda e rendere chiaro quale sarà il futuro dell’esdebitazione. In particolare, la legge delega recentemente approvata, all’art. 9 lett. b), prevede un allargamento delle maglie di accesso escludendo l’esdebitazione solamente nei casi di colpa grave, malafede o frode del debitore. Quel merito così stringente finora conosciuto dovrebbe giungere al capolinea e lasciare maggiori possibilità di accesso alle procedure.

Interviene L’Avvocato Nunzio Costa, partendo subito da un dato: “la presenza di cento organismi di composizione, che non coprono nemmeno tutti i Tribunali. Non c’è concorrenza. Siamo in presenza di una Legge vecchia non ancora applicata. Noi abbiamo come forma mentis la liquidazione del patrimonio. Non abbiamo ancora i presupposti per creare una classe di professionisti, dotati di un maggior orientamento di negoziato in favore del consumatore per trovare l’accordo con i creditori. Occorre quindi creare più OCC con competenze distrettuali con forma mentis diversa. Sul tema della falcidiabilità occorre che il funzionario pubblico sia responsabile. Merito creditizio: le banche informano e chiedono l’estensione delle garanzie. Valutazione di come il soggetto si presentava alla banca in quel momento (concorso nel aver creato una situazione debitoria). I giudici non sempre hanno il coraggio di sospendere le azioni esecutive. Urge quindi una maggiore elasticità e discrezionalità”.

Prende la parola il Dott. Stefano Fabiani il quale denuncia alcuni dati drammatici su suicidi a causa del sovraindebitamento, sui poveri assoluti e sulla disoccupazione giovanile. “Un fenomeno troppo rapido che ci ha colpiti impreparati e quando ci siamo resi conto è stato troppo tardi. Di cosa abbiamo bisogno o di cosa avevamo bisogno: di un progetto strategico, chiaro ed efficace che preveda una politica industriale di forte identità. Tale progetto deve affrontare dei temi fondamentali quali il contratto di lavoro, la riduzione certa ed efficace della tassazione, il posizionamento europeo, la partecipazione attiva ai temi internazionali. Il Paese ha bisogno di un intervento immediato e urgente per una concreta crescita e lo sviluppo economico. Serve il lavoro e dare assistenza per creare posti di lavoro. Cosa crea il sovraindebitamento? Innanzitutto forme di marketing aggressivo che sfruttano la non conoscenza del consumatore, (esempio le carte revolving spedite a casa con tassi usurai, i finanziamenti con tassi alla francese), acquisti con famosi interessi a tasso zero, le centrali rischi con le segnalazioni con termini di permanenza eccessivi e il ricorso ad usurai del paese soprattutto da Roma in giù. Gli usurai stanno facendo milioni di debiti. Anche i tassi soglia della banca d’Italia contribuiscono al fenomeno del sovraindebitamento, bisogna abbatterli in forma giusta. Il Dott. Fabiani cita poi tutte segnalazioni di aiuto che arrivano alla sua Associazione, tante e molte in forma disperata e tragiche e chiude il suo intervento con una riflessione sulla facilità con cui vengono concessi i prestiti da parte di banche e finanziarie, che portano i consumatori ad una situazione di indebitamento che va oltre la capacità reddituale e di sopravvivenza. Il consumatore si finanzia di volta in volta per chiudere la sua posizione debitoria, arrivando in alcuni casi a percepire uno stipendio di 1500 €, avendo un’esposizione debitoria pari a 1400 €”.

3° Tavola Rotonda “Case Study: Il sovraindebitamento dalla parte dei consumatori” Interviene l’Avvocato Graziella Castrenze: Il consumatore non sa cosa sia la Legge. Non c’è proprio la conoscenza di tale strumento. Non è possibile che la comunicazione parta solo dalle associazioni consumatori. Inoltre il consumatore risulta quasi spaventato, quando gli si prospetta la possibilità di attivare la procedura, soprattutto per la privacy (la sua reazione è quasi sempre quella legata alla volontà di evitare un giudizio e di non lasciare trapelare la sua situazione debitoria). Una legge, quindi, poco conosciuta, poco applicata e con molti limiti, quali quelli inerenti i costi della procedura stessa, che limitano il consumatore che si ritrova in una posizione delicata.

Interviene in ultimo l’Avvocato Carmine Laurenzano “Bene il concetto della mediazione, estremamente importante la fase della contrattazione. Molti sono gli strumenti a disposizione dei debitori con difficoltà. Ma nella stragrande maggioranza dei casi soprattutto gli istituì bancari rispondono con “Basilea non ci consente di.. ” Anche i fondi antiusura ci sono ma non vengono utilizzati. Laurenzano, infine, apre una riflessione sulla cultura finanziaria: abbiamo una cultura finanziaria molto bassa. Fino al 2010 non esisteva alcun progetto in materia finanziaria. L’italiano medio è un soggetto analfabeta in tema finanziario, emerge infatti un quadro drammatico, che è fondamentalmente alla base dell’esposizione debitoria. La situazione del sovraindebitato è patologica” Chiude il convegno Gianluca Di Ascenzo – Vice Presidente OIC, che ringrazia per quanto emerso durante i lavori della giornata e soprattutto invita ad una riflessione sul dato maggiormente preoccupante che è la mancanza di conoscenza della norma da parte del consumatore. OIC agisce proprio in questo senso: impegnarsi per diffondere la cultura e la conoscenza, attraverso il confronto continuo con la parte buona del mercato affinché si possono trovare le soluzioni nei casi in cui, appunto, il legislatore non ci aiuta. Le leggi a volta sono scritte male e di corsa. Di Ascenzo ricorda che attraverso le Associazioni di Consumatori, che rappresenta, si utilizzano gli strumenti che hanno a disposizione (esempio i tavoli di lavoro in Abi, Consob, Gruppi Bancari) per fare cultura, orientamento, informazione. Confermando in tal senso l’impegno dell’Osservatorio ad avviare costanti iniziative come quella odierna.

·         Case all’asta.

Siamo un Paese all’asta: 245.000 esecuzioni ancora aperte. Ecco chi ci guadagna. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Fabio Savelli. Quando non sei più in grado di pagare il mutuo la casa perde la metà del valore: un affare per immobiliaristi e riciclatori. Partiamo dai numeri per orientarci in questo girone dove i database sono infiniti. La fonte più attendibile diventa un soggetto privato legato al gruppo Gabetti, cioè la Astasy, che ha costruito e sviluppato negli ultimi cinque anni un archivio sofisticato. Grazie ai big data è possibile confrontare i numeri delle aste prima e dopo il 2015, quando è entrata in vigore una norma voluta dal governo Renzi. Siccome le aste andavano spesso deserte e ingolfavano i tribunali, la ratio è stata quella di accelerare le procedure di vendita applicando da subito uno sconto. Ha finito, suo malgrado, per penalizzare i debitori. Prima della nuova legge se un immobile valeva 100 mila euro, veniva prudenzialmente battuto a 110mila, ora viene battuto intorno ai 75mila, ma la legge 132 dà diritto all’offerente di presentare un’offerta più bassa del 25% (mentre prima non era consentito) cioè a 55/60 mila. Se l’asta va deserta, come continua ad accadere, viene riproposta a 55/60 mila con possibilità di offerte minime a 40/45 mila euro. Le perizie vengono redatte con il supporto di algoritmi di software in odore di conflitto di interessi, perché non di proprietà dei vari tribunali o del ministero della Giustizia, ma di società che detengono anche la pubblicazione di portali di settore come portaleaste.com, astegiudiziarie.it, asteimmobili.it, astalegale.net, o forum on line come in executivis.it che fanno migliaia di ore di formazione a magistrati e cancellieri. Se si escludono Milano, Torino, Roma, Firenze e Venezia, dove i prezzi restano alti, comprare all’asta significa entrare in un limbo di incertezza che favorisce solo chi acquista immobili per professione.L’esito lo sintetizzano con identità di giudizio sia la Astasy che Favor Debitoris: «Ormai assistiamo a uno sconto medio del 55% rispetto al valore di acquisto sul libero mercato. Significa che su 100 mila euro il debitore porta a casa solo 45mila euro, a cui va tolto mediamente un altro 33% fra compensi agli intermediari e spese di giustizia. Alla fine resta una cifra quasi sempre inferiore alla quota capitale rimasta pendente». Mirko Frigerio di Astasy calcola che l’ex proprietario, oltre a perdere l’immobile, «resti ancora con un debito residuo mediamente intorno ai 30mila euro». A quel punto scatta il rischio del pignoramento del conto corrente e di altre proprietà aggredibili, soprattutto se ereditate (auto, moto) da genitori ex garanti nel frattempo defunti. Inoltre il debitore verrà segnalato alla centrale rischi ed etichettato come cattivo pagatore, quindi nessun istituto gli farà più un prestito. Però il debito resta vita natural durante, perché la prescrizione si completerebbe dopo 10 anni, come prescrive il codice di procedura civile, ma la banca difficilmente abbandona la partita, come rileva Giovanni Pastore, tra i fondatori dell’associazione Favor Debitoris: «Il debitore è come il maiale per i contadini, non si butta via niente, e quel debito residuo viene a sua volta venduto, con una valutazione di circa l’1% del valore nominale, alle società di recupero credito, specializzate nello spolpare le ossa». Ovvero le ossa di persone abbandonate al credito gestito dalla criminalità «che si fanno banca erogando credito a tasso concorrenziale con quello bancario», spiega l’ex procuratore nazionale antimafia Roberti. In altre parole: finiscono nelle mani dei «cravattari».Rientrano in questa tipologia i figli che ereditano i debiti dei genitori, divorziati, chi ha perso il lavoro, i piccoli commercianti travolti dall’ecommerce, le partite Iva che hanno il torto di ammalarsi. Colpa di una macchina di recupero crediti inefficiente e spietata, costruita dallo Stato e per colpa dello Stato, dove ci perdono tutti, tranne l’infinita pletora di periti, avvocati, valutatori, delegati alla vendita per conto dei 140 tribunali d’Italia. Ma soprattutto ci guadagnano, e tanto, le società immobiliari che, approfittando di «gare al massimo ribasso» comprano per un tozzo di pane e poi rivendono a prezzo mercato.A complicare il quadro, che intasa ulteriormente i tribunali, le novità delle aste telematiche, alcune delle quali sono asincrone e permettono i rilanci a distanza di tempo, generando contenziosi infiniti, che si verificano anche quando l’asta telematica è sincrona mista, poiché consente contestualmente i rilanci sia live sia da remoto. Spesso la tecnologia si blocca e la connessione anche, innescando inevitabili sospensioni della procedura e interpretazioni giurisprudenziali infinite. Inoltre il sistema delle aste attualmente in vigore si configura come un meccanismo perfetto per pulire il denaro sporco, favorito da una «vacation» nella normativa che consente di non verificare la provenienza dei fondi neanche al saldo della vendita. Ad oggi infatti le esecuzioni immobiliari non hanno il controllo del denaro circolante e non avviene nessuna verifica antiriciclaggio.Molte società aprono finte ragioni sociali all’estero, poi avviano una succursale italiana che provvede all’acquisto pagando con bonifici che provengono per esempio da Malta, Lussemburgo o altri paradisi fiscali. A quel punto neanche la Banca d’Italia riesce a intervenire. Soltanto attraverso una richiesta di rogatoria internazionale, alla quale non sempre i Paesi rispondono, sarebbe possibile verificare l’origine del denaro. La Direzione Distrettuale Antimafia di Venezia ha recentemente sequestrato alla ‘ndrina calabrese Grande Aracri di Cutro 146 appartamenti nel parmense e nel nord-est. Tutti comprati all’asta utilizzando dei prestanome e con bonifici esterovestiti. A Tempio Pausania e Livorno sono finiti agli arresti giudici e periti perché avevano costruito un sistema di turbative d’asta a danno dei potenziali acquirenti. L’avvocato Biagio Riccio, presidente di Favor Debitoris, sostiene che sarebbe sufficiente che il Mef o l’Agenzia delle Entrate emanassero una circolare con la quale si chiede di inserire all’articolo 586 del codice di procedura civile, tra le parole «Avvenuto il versamento del prezzo» e «pronunciare decreto» le seguenti quattro righe: «Il Giudice dell’Esecuzione deve sospendere la vendita quando appare che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello di mercato, ovvero quando la provenienza del pagamento appaia illecita». Fra le migliaia gli emendamenti proposti nelle norme in approvazione a fine anno, si troverà la volontà politica?

Case all'asta, perché oggi sono un super affare. Centinaia di migliaia di famiglie vedono le loro case svendute all'asta anche per un sistema infernale di ribassi e caos normativo. Francesco Bonazzi il 5 settembre 2019 su Panorama. Ci sono casi in cui verrebbe da augurarsi il nulla, la paralisi politica, l’inazione dello Stato, il disinteresse delle donne e degli uomini di governo. Ma la casa, si sa, in Italia è una forza superiore alla quale non si riesce a resistere: muove miliardi di euro, legittima professioni, suscita interventi legislativi, piace alle banche perché attira e vincola i clienti e il 70 per cento dei cittadini ne possiede una. O meglio, ne possedeva, perché con l’inizio della crisi e la compressione dei redditi, milioni di italiani, sia privati sia aziende, non sono più stati in grado di onorare i mutui e si sono visti portare via l’immobile, venduto spesso all’asta a un terzo del proprio valore e con una coda velenosa: al termine di procedure opache e costose, il debitore non è neppure liberato interamente dal debito e non ha più accesso al credito bancario. Una beffa che invece non va in scena in Paesi come la Francia o la Spagna, dove quando ti hanno venduto la casa, almeno riparti vergine. L’effetto paradossale del sistema italiano, invece, è che oggi sono le stesse banche a essere preoccupate per l’aumento di persone che non possono aprire nuovi conti correnti e per i rischi reputazionali di esecuzioni talvolta affidate a soggetti terzi, sì, ma dai modi un po’ spicci. Per esempio, se per un mutuo si entra nella filiale di Monza di una banca famosa, si viene trattati in guanti bianchi, ma se poi qualcosa va male lo stesso cliente può trovarsi improvvisamente nelle mani di un’oscura società di squali del recupero crediti, senza volto e con sede chissà dove. Per la banca, se qualcosa va storto, è comunque una pessima pubblicità. L’esplosione delle sofferenze (Npl), in buona parte legati (ma anche garantiti) a beni immobili, ha spinto il governo di Matteo Renzi a intervenire nel 2015 con una legge (132/2015) che aveva lo scopo di abbreviare l’iter delle aste e facilitare il recupero dei crediti alle banche. Ma quattro anni dopo, si può purtroppo affermare che sia stato un intervento sciagurato: secondo dati di settore, dopo la riforma lo stesso immobile che valeva 100 mila euro viene mediamente venduto a 35 mila euro. Prima della legge Renzi, l’incasso era mediamente di 55 mila euro. Orientarsi un minimo in questo girone infernale non sarebbe possibile se non ci fosse un soggetto privato e legato al gruppo Gabetti, ovvero la Astasy guidata da Mirko Frigerio, che ha un database affidabile e con il quale si possono confrontare gli incassi prima e dopo il 2015, tenendo presente che per la consueta lentezza della «risposta» giudiziale italiana le nuove regole hanno cominciato a influire sulle esecuzioni concluse nel 2017. Vista la palude del sistema, Astasy ritiene di poter avere sicurezza statistica al 100 per cento su quanto è cambiato il valore di vendita dal 2015 a oggi, con il report 2019, che verrà pubblicato nel 2020. Ma alcune tendenze sono già ben delineate, come spiega anche Giovanni Pastore, savonese, imprenditore immobiliare a Milano da quarant’anni e soprattutto anima di Favor debitoris, un’associazione che si batte per i diritti di chi rischia di perdere la casa e che ha, per esempio, patrocinato il caso di Sergio Bramini, imprenditore brianzolo fallito per colpa dello Stato che non gli saldava le fatture. «Chi fa affari sul mercato delle aste impone ribassi del valore di vendita degli immobili spesso contrastati dagli stessi avvocati delle banche» spiega Pastore, «e 100 di valore immobiliare può essere messo all’asta fra 90 e 65»; mentre prima della nuova legge veniva prudenzialmente «battuto» a 110. Su questa valutazione dell’immobile, lasciata al libero arbitrio dei magistrati e dei creatori di software (che spesso coincidono con chi gestisce le aste), è intervenuta la norma del centrosinistra che permette un’offerta già nella prima asta inferiore di un altro 25 per cento al valore di base, e nella seconda asta si può presentare un’offerta inferiore di un ulteriore 25 per cento sulla precedente base d’asta. Ecco un esempio (ottimista), fornito a Panorama da due Ctu, i periti che lavorano per i tribunali: una casa che sul libero mercato vale 100 mila euro viene valutata dal Ctu 80 mila. Alla prima asta viene quindi proposta a 80 mila euro, ma si possono presentare offerte di 60 mila. Se va deserta, alla seconda tornata la stessa casa viene proposta a 60 mila euro, con possibilità di offerte minime da 45 mila. Alla terza asta, si chiedono 45 mila euro, ma se ne possono offrire soltanto 33.750. E dopo questa bella slavina, resta da pagare un 33 per cento del valore di vendita al drappello dei consulenti e dei mediatori. Insomma, nonostante l’intervento correttivo con la cosiddetta «norma Bramini» del 2018 - che cerca di difendere almeno le prime abitazioni delle famiglie - se prima della legge Renzi si poteva vendere una casa al 55 per cento circa (ed era già un disastro), oggi siamo precipitati al 35 per cento. Con le nuove norme, al consulente non viene più chiesto di indicare al giudice il valore di mercato dell’immobile, ma di calcolare anche quello di realizzo e quello di realizzo decurtato. E così il giudice dell’esecuzione ha tre prezzi tra cui scegliere. La vera strettoia, tuttavia, è quella che ha reso più vincolante l’utilizzo del software, di proprietà non dei vari tribunali o del ministero della Giustizia, ma di società private, accessibile dal sito del processo telematico. Come racconta un perito, che chiede garanzia di anonimato visto che lavora con i tribunali, «non possiamo più scrivere la perizia al meglio delle nostre competenze, nell’interesse di creditore e debitore, perché è tutto preimpostato nel software che siamo obbligati a utilizzare per le perizie di stima in tribunale». Ma soprattutto, in moltissimi tribunali ora accade che avvocati e professionisti siano obbligati a usare un certo software per accedere agli archivi processuali e per depositare telematicamente i loro documenti. Queste piattaforme riducono i tempi (forse), ma certamente riducono la discrezionalità delle stime e la loro accuratezza. Oltre al fatto che spesso il perito introduce uno sconto del 15 per cento sul prezzo di asta e il sistema ne impone un altro 20 per cento. Negli ultimi mesi questo automatismo del 20 per cento in meno è sparito in molti software, come segnalano avvocati, architetti e geometri che si occupano di aste. Si tratta di una coincidenza sospetta con la norma Bramini che introduce tutele per le famiglie sottoposte a esecuzioni (febbraio 2019). Come spiega un giudice di Roma, «evidentemente banche e proprietari del software sono stati costretti a ridurre l’abbattimento del valore del bene degli esecutati, per compensare le maggiori tutele ottenute con la legge Bramini». Non è invece stata accolta, già nel 2018 ovvero quando si cominciavano a vedere le storture della riforma Renzi, la proposta di legge di Elio Lannutti (M5s e fondatore di Adusbef), che voleva concedere ai debitori la possibilità di presentare un’offerta con prelazione sulla propria prima casa. «Si è preferito favorire, ancora una volta, i creditori, ovvero banche e fondi speculativi» ha lamentato Lannutti. Eppure, se anche i partiti capissero che è controproducente per tutti un sistema in cui al cittadino vendono la casa per pochi soldi e, in più, questo resta ancora «schedato» come un cattivo debitore e regalato all’usura, potrebbero guardare oltre confine. In Spagna, per esempio, il codice «delle buone prassi» prevede che se una famiglia perde l’immobile controllata dallo Stato, viene azzerato il debito della persona anche se il valore di realizzo è stato inferiore al valore nominale del debito. Ma almeno, alla fine, il sistema bancario recupera un potenziale cliente. Lo stesso accade in Francia, dove basta andare sul sito della banca centrale per trovare tutte le informazioni per accedere alla procedura di sdebitamento e poter vendere il proprio immobile pignorato, con una procedura che garantisce in modo trasparente il maggior prezzo possibile. Quando passerà la sbornia da smaltimento rapido e coattivo degli Npl, e anche degli Utp (incagli) che invece potrebbero essere meglio gestiti in banca con il cliente, forse si comprenderà che non si dovrebbe legiferare né in favore del creditore né in favore del debitore, ma solo ricordando che la legge è uguale per tutti.

1.500.000 italiani rischiano di perdere la casa. Sono 250 mila gli immobili finiti all'asta nel 2018; un numero in crescita legato alle difficoltà delle famiglie nel pagare il mutuo. E c'è chi ci specula, scrive il 27 marzo 2019 Panorama. Altro che «Fascisti su Marte». Più che altro, «Locuste su Roma». La scorsa settimana, al processo per una truffa da almeno 400 mila euro subita dal proprio agente, Corrado Guzzanti ha raccontato il calvario di un debitore qualunque. Un debitore a sua insaputa. Uno che sei anni fa scopre dall’ufficiale giudiziario che il manager gli aveva soffiato i risparmi, non gli aveva versato le tasse e aveva lasciato anche un bel buco in banca. L’istituto gli ha naturalmente pignorato la casa. «Per un lungo periodo sono andato avanti a scatolette di tonno; ho avuto difficoltà a dormire per gli incubi e gli scoppi di pianto nel sonno», ha detto l’attore al giudice. Per poi aggiungere un particolare non banale: «Questa cosa mi imbarazza molto a raccontarla, ma per fortuna, grazie alla mia compagna che mi è rimasta sempre vicina a farmi coraggio, con molta lentezza ho ripreso a vivere». Guzzanti aveva difficoltà perfino a fare la spesa, poi, nel 2014, gli sono arrivati due lavori con i quali si è «ricomprato» la casa dalla banca. Ma per quanti italiani non finisce così? Quanti, anche senza colpa, si vedono sfilare l’appartamento in cui vivono, a prezzi di saldo e con la beffa di rimanere ancora con gran parte del proprio debito sul groppone e di essere «impacchettati» e scagliati nel girone ancora più infernale del recupero crediti? Eppure, su un fenomeno così importante e doloroso, c’è una cronica mancanza di dati. Quello delle aste è un mondo neanche troppo «di mezzo», per dirla alla Massimo Carminati, il celebre affiliato alla banda della Magliana, dove spesso un cittadino normale ha difficoltà anche solo a fare una prima offerta, senza essere avvicinato da gente che gli fa capire che «non è cosa». Ma da qualche anno i big dell’immobiliare si sono dotati di una società che, dovendo lodare le ottime prospettive del settore «esecuzioni», ha alzato il velo su quello che spesso è solo il paradiso degli sciacalli. La società si chiama Astasy (Gruppo Gabetti), talvolta opera con uno slogan di dubbio gusto come «Impara con noi a trasformare le aste immobiliari in una grande opportunità di guadagno!», però è interessata a uno svolgimento delle aste non solo più celere, ma anche meno opaco e costoso. Anche per il debitore. Secondo Astasy, nel 2017 sono stati 234.340 gli immobili finiti all’asta, ovvero 27 ogni ora. E nel 2018 si è saliti a quota 245.100, per un valore di oltre 36 miliardi, con la Lombardia a fare la parte del leone (19,5 per cento), seguita dalla Sicilia (9,7), dal Veneto, dal Piemonte (8) e dal Lazio (6,9). E al 13 marzo di quest’anno, risultano già 93.288 immobili messi all’asta. Applicando i normali coefficienti familiari, per Astasy abbiamo un totale di oltre 1.470.000 persone coinvolte e che, a causa di un mutuo non onorato, sono e restano obbligati in solido anche se inseriti solamente come garanti. Mirko Frigerio, 44 anni, a.d. di questa società di consulenza, ammette che il sistema oggi non funziona: «Anche le banche, che sono nostre clienti, vorrebbero esecuzioni più rapide e a prezzi di vendita più alti, ma la colpa è del sistema giustizia che mediamente fa passare quattro anni per vendere un bene sul quale c’è un mutuo non onorato e addirittura sei se l’immobile viene da un fallimento». In media, se un cliente accende un mutuo da 120 mila euro e ne restituisce solo 15 mila, la sua casa verrà messa all’asta per 100 mila euro, ma la banca vedrà tornare indietro non più di 44 mila nell’arco di cinque anni. Tra banca e cliente, si mette in mezzo un nutrito drappello di professionisti dell’esecuzione, composto da avvocati, periti del Tribunale e custodi giudiziali, che secondo Astasy si porta a casa il 25,6 per cento del valore d’asta. Per Frigerio sarebbe necessaria anche «una giustizia più preparata e che magari si ricordasse, almeno ogni tanto, di informare il debitore che se non ha altre abitazioni ha diritto alle case popolari». Lo Stato ha anche deciso, nel 2015, di risparmiare sulle perizie, che ora vengono saldate solo al momento della vendita della casa, con il risultato che il perito, pur di incassare più in fretta, è invogliato a deprezzare il valore della stima. Anche in questo caso, a danno tanto del creditore quanto del debitore. Ma le banche, pressate dalla Bce, sugli Npl - i crediti inesigibili - vanno di fretta e quindi accettano i saldi. La platea di debitori delle quale stiamo parlando, però, non è certo fatta di ricconi. Il 74 per cento degli immobili ha un valore d’asta inferiore ai 115 mila euro e solo il 16 per cento arriva a 250 mila; mentre il 10 per cento va oltre questa soglia. Significa che otto esecuzioni su dieci si concentrano su un ceto medio-basso. Anzi sul famoso «ceto medio impoverito» del quale parlano tutti i politici, ma che qui non ha volto e volto non deve avere. In totale, secondo Astasy, oltre 1,1 milioni di italiani ha perso, o rischia di perdere, la casa dove vive. E di loro non sapremo nulla perché non sono attori famosi e perché non sempre, purtroppo, trovano il coraggio di un Sergio Bramini, l’imprenditore lombardo che era fallito perché lo Stato non lo pagava ed è diventato una (triste) celebrità con il risultato, almeno, che l’asta della sua abitazione è andata deserta, a ottobre, perché nessuno ha avuto il coraggio di speculare sulle sue sventure. William Shakespeare scriveva che «ognuno, con la morte, salda i propri debiti», ma la vita, purtroppo, è meno poetica. In questo milione abbondante sottoposto alle cosiddette esecuzioni immobiliari, locuzione involontariamente sinistra, ci saranno anche coloro che si sono comprati macchinoni che non si potevano permettere o che sono stati beccati a non pagare le tasse. Ma ci sono anche figli che ereditano i pasticci finanziari dei genitori, coppie che senza colpa perdono il lavoro, divorzi sanguinosi, attività commerciali travolte dalla crisi, lavoratori autonomi che hanno il torto di ammalarsi. Non solo, ma sono tantissimi anche i piccoli imprenditori che non avevano contratto alcun mutuo, però avevano fatto investimenti «sfortunati» consigliati dalla banca stessa, che alla fine gli porta anche via la casa. In Veneto, dove sono saltate due Popolari, ne sanno qualcosa. Il savonese Giovanni Pastore, settant’anni dei quali 40 passati a Milano da imprenditore, è uno dei fondatori dell’associazione Favor debitoris e alla fine è uno dei massimi esperti del ramo. Pastore ha calcolato che il creditore recupera solo il 30 per cento del dovuto, mentre il debitore che si vede sfilare una casa da 130 mila euro, mediamente rimane comunque con 50-60 mila euro da saldare. «Non solo gli portano via la casa, ma gli resta metà del debito e a volte gli immobili vengono rilevati da soggetti sui quali ha lanciato l’allarme anche la Procura nazionale Antimafia». Mercoledì 13 marzo, la Dda di Venezia ha sequestrato alla cosca Grande Aracri di Cutro ben 146 appartamenti nel Parmense. E un centinaio di immobili, la settimana prima, erano stati requisiti anche alla nuova cupola di Palermo. Ebbene, gli inquirenti fanno notare che molto spesso queste montagne di case e capannoni sequestrati alle mafie erano state comprate «cash» in asta. Chi riesce a comprare alle aste, di solito rileva la casa a un terzo del valore di chiamata, per poi rivenderlo al 70-80 per cento del valore di mercato. Pastore riassume così la faccenda: «Il drappello dei professionisti guadagna quasi un terzo di quanto recuperano i creditori. Invece gli speculatori, solo comprando e rivendendo lo stesso appartamento, lucrano più del creditore». Rimane incredibile, al netto della sofferenza e delle ingiustizie, che alle banche e alle loro fondazioni socie (spesso impegnate nel sociale) sfugga quanto sia suicida accettare un sistema così diseconomico e con un potenziale danno reputazionale tanto elevato. Oltre al fatto che non ci sarà mai una vera ripresa economica se oltre un milione di italiani resta stritolato in una macchina del recupero che riesce a essere contemporaneamente così spietata e inefficiente. 

·         Le Aste truccate e l’inutile dimenarsi delle vittime.

L'INCHIESTA "ASTA LA VISTA" DELLA PROCURA DI LAMEZIA TERME. Osservatoriosuicidi.unilink.it. Giovedì 4 luglio il direttore dell’Osservatorio Suicidi per Motivazioni Economiche Nicola Ferrigni, è intervenuto alla Conferenza Stampa, che si è svolta nella Sala Stampa della Camera dei Deputati, promossa dal Comitato “Diritto e Rovescio” presieduto da Fiorella de Septis, a seguito dell’inchiesta “Asta la Vista” avviata dalla Procura della Repubblica di Lamezia Terme lo scorso 6 aprile. Alla conferenza hanno preso parte Giuseppe d’Ippolito, Deputato Movimento 5 Stelle, Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici, l’Avv. Domenico Monteleone, il Prof. Nicola Ferrigni, Sociologo, Direttore Osservatorio Suicidi per motivazioni economiche della Link Campus University. L’operazione “Asta la Vista” ha visto coinvolte più di 86 persone per un centinaio di capi di imputazione, portando all’arresto di diversi soggetti (professionisti, funzionari del tribunale, faccendieri) facenti parte di un sistema a delinquere. L’indagine si è incentrata su alcune anomalie relative a numerose vendite giudiziarie nell’ordine di circa 30 aste pubbliche, che si sono tenute nel corso dell’anno 2018 presso il Tribunale di Lamezia Terme tramite l’associazione notarile ubicata all’interno dello stesso palazzo di giustizia, nell’ambito delle quali sono state rilevate turbative finalizzate a dirottare l’esito finale verso l’obiettivo prefissato dagli indagati. Durante la conferenza stampa sono stati presentati i casi che hanno visto protagonisti imprenditori di tutta Italia. Alla Conferenza Stampa, infatti, hanno preso parte l’Ing. Pasquale Materazzo già sindaco di Lamezia Terme dal Tribunale di Lamezia Terme, l’Avv. Anna Maria Caramia dal Tribunale di Taranto, l’imprenditrice Vanessa Mandara dal Tribunale di Latina, l’Avv. Tiziana Teodosi dal Tribunale di Salerno.

L’Osservatorio “Suicidi per motivazioni economiche”, istituito nel 2012 all’interno del Link LAB, il Laboratorio di Ricerca Sociale dalla Link Campus University, costituisce da molti anni l’unica fonte accreditata di dati sul fenomeno dei suicidi e dei tentati suicidi causati da difficoltà di carattere economico per Istituzioni, mezzi di informazione, associazioni di categoria, comunità scientifica e opinione pubblica. In occasione della Conferenza Stampa tenutasi alla Camera dei Deputati, il prof. Nicola Ferrigni ha illustrato i dati dei suicidi (998) e dei tentati suicidi verificatisi a partire dal 2012. Se dal 2012 a oggi, infatti, la categoria degli imprenditori interessa il 41,8% del totale dei suicidi per motivazioni economiche, il 40,1% ha avuto per protagonisti i disoccupati, mentre ben il 11,9% circa dei suicidi ha riguardato lavoratori o collaboratori di aziende, questi ultimi in significativa crescita rispetto all’3,0% rilevato a fine 2018. Per ciò che riguarda la distribuzione geografica del fenomeno si conferma una progressiva uniformità tra le diverse aree, nonostante il Nord-Est risulti ancora in cima alla lista: dal 2012 a oggi rappresentano infatti il 24,5% i suicidi nell’Italia Nord orientale, a fronte del 24,1% registrato al Sud, del 19,6% del Nord-Ovest e del 10,3% delle Isole.

Lamezia, blitz della Finanza: 21 ordinanze cautelari. 12 sono arresti per aste giudiziarie truccate. Pasqualino Rettura Sabato 06/04/2019 su Quotidianodelsud.it. Blitz dei militari della Guardia di Finanza di Lamezia Terme che, coordinati e diretti dalla locale Procura della Repubblica guidata dal procuratore Salvatore Curcio nel caso di specie coadiuvato dal sostituto procuratore Giulia Maria Scavello, hanno eseguito ventuno ordinanze cautelari nei confronti di persone indagati per reati vari contro la pubblica amministrazione ed il patrimonio nell'ambito dell'Operazione Asta la vista - Nomos. Si tratta di 12 arresti e 9 interdizioni. Tra le accuse c'è anche quella di aver dato vita ad una serie di aste giudiziarie truccate, dall’inchiesta, infatti, sarebbero emersi episodi di turbata libertà degli incanti al fine di condizionare l’esito delle aste giudiziarie, ma anche rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio, abuso d'ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, induzione indebita a dare o promettere utilità, senza tralasciare autoriciclaggio ed estorsione. Tra le persone nei confronti delle quali sono state eseguite le misure cautelari ci sono anche avvocati, commercialisti, pubblici dipendenti, curatori fallimentari e custodi giudiziari. Complessivamente l'inchiesta ha coinvolto 86 persone indagate a vario titolo, ed ha portato al sequestro di beni per un valore complessivo di 8 milioni di euro. Inoltre, i militari hanno realizzato 23 perquisizioni domiciliari e 10 locali riguardanti persone residenti a Lamezia Terme, Serrastretta, Soveria Mannelli, Gizzeria, Maida, Reggio Calabria e Palmi.

Le indagini e il sistema per pilotare le aste. L'indagine ha puntato su tutta una serie di anomalie relative a numerose vendite giudiziarie (circa una trentina nel 2018 ma l'indagine parla di un condizionamento durato almeno un decennio) presso il Tribunale di Lamezia Terme oppure presso l'associazione notarile sita sempre nel Palazzo di Giustizia. In queste aste, secondo l'accusa, sarebbe stato dirottato l'esito finale verso un obiettivo specifico e prefissato dagli indagati. Alla base del sistema c'era, secondo la procura, Raffaele Calidonna che «in alcuni casi partecipava personalmente e in altri si avvaleva - spiegano gli inquirenti - di compiacenti collaboratori tra cui avvocati, commercialisti, nonché ganci interni al Palazzo di Giustizia, e dell'interposizione fittizia di una agenzia di affari costituita ad hoc ed intestata alla figlia». Con questo sistema Calidonna «riusciva ad ottenere ribassi e/o prezione informazioni riservate relative alle aste giudiziarie dei suoi clienti, risultati il più delle volte debitori delle stesse». E se le notizie non erano sufficienti per piazzare l'offerta sicuramente vincente allora «Calidonna avvicinava gli altri offerenti intimidendoli al fine di farli desistere adducendo vicinanze ed appartenenze a cosche locali».

Ufficio esecuzioni Tribunale Lamezia, il caso diventa nazionale dopo interrogazione d’Ippolito (M5S). Il Lametino.it Giovedì, 04 Luglio 2019.  “Dopo una mia interrogazione al ministro della Giustizia, è diventato di interesse nazionale il caso dell'Ufficio esecuzioni del Tribunale di Lamezia Terme, in cui si sono registrate gravi anomalie procedurali a discapito di privati”. Lo afferma, in una nota, il deputato del Movimento 5 Stelle Giuseppe d’Ippolito, a conclusione della conferenza di presentazione nella sala stampa della Camera, del comitato “Diritto e Rovescio”, che si prefigge di aiutare le vittime di errori giudiziari, imprese e cittadini. Nel suo intervento all'iniziativa, il parlamentare del M5S si è soffermato sulla diffusa prassi dell'“abuso del diritto”, portando come esempio la vicenda di “un’azienda agricola dal valore, secondo il perito del Tribunale, di 31 milioni di euro, venduta a 700mila euro dopo 18 aste deserte”. Altro episodio portato ad esempio dal deputato riguarda il “concordato preventivo che pende da 25 anni presso l'Ufficio esecuzioni del Tribunale lametino”. Secondo l'esponente 5 Stelle, oggi “ci sono troppi margini di discrezionalità in capo al magistrato con evidente compiacenza e partecipazione da parte degli ausiliari del giudice, del curatore, dei custodi giudiziari e quant'altro. Tutto questo sistema – secondo d’Ippolito – va rivisto, avendo come capisaldi l'articolo 41 della Costituzione sulla funzione sociale della proprietà e l'articolo 2 della stessa Carta fondamentale, che stabilisce il principio della solidarietà sociale, per il quale sono inammissibili procedure grazie a cui ci guadagnano tutti, tranne il debitore e in alcuni casi il creditore”. “Io la mia scelta – ha proseguito il deputato – l'ho fatta circa 20 anni fa, quando mi sono accorto di non avere più il pelo sullo stomaco per continuare a difendere una banca che faceva dell'abuso del diritto il suo vessillo. Avevo 5mila cause, ho rimesso tutti i mandati. Questi sono i princìpi – ha concluso d’Ippolito – che devono ispirare gli avvocati, gli ausiliari del giudice e il magistrato. Non vogliamo che la credibilità della magistratura scenda a livelli prossimi allo zero. Secondo un recente un sondaggio Ipsos oggi, anche per via delle nebbie nel Csm, 2 cittadini su 3 non hanno più fiducia nella medesima. Questi dati ci devono fare riflettere e devono ispirare la nostra attività nei nostri rispettivi ruoli”.

TRIBUNALE DI LAMEZIA, NUOVE ANOMALIE NELL’UFFICIO ESECUZIONI. Giuseppe d'Ippolito il 4 giugno 2019. La recente interrogazione con cui ho riassunto al ministro della Giustizia questioni gestionali dell’ufficio Esecuzioni e Fallimenti del Tribunale di Lamezia Terme ha spinto molte vittime di procedure anomale a denunciare le loro storie a me e alle autorità competenti. Ciò significa che il mio intervento parlamentare è stato incisivo. Alcuni hanno perfino deciso di riunirsi in un comitato apposito, che ritengo doveroso seguire e sostenere. Tra i tanti casi che mi sono stati segnalati mi appare significativo uno: ancora non è stato concluso un concordato preventivo aperto circa 25 anni fa. Nel frattempo la procedura ha milioni di euro depositati in banca da destinare ai creditori e altrettanti milioni sono stati distribuiti a commissari, consulenti ed esperti. Nello specifico si tratta di un danno per i creditori, ancora più grave per il titolare d’impresa. Infatti questi ha avviato il relativo iter al fine di uscire da uno stato di crisi ed è invece rimasto bloccato per un’intera generazione. Mi vengono i brividi, se penso che da qualche settimana per Lamezia Multiservizi pende richiesta di ammissione a un’analoga procedura di concordato preventivo. Considerata la natura dei servizi pubblici forniti dalla società, sarebbe un guaio gigantesco se dovesse passare un altro quarto di secolo come per il caso ricordato. Con i nuovi fatti appresi integrerò l’interrogazione parlamentare e le motivazioni per la richiesta d’ispezione ministeriale nell’ufficio Esecuzioni e Fallimenti del Tribunale lametino e per l’avvio del procedimento disciplinare. Invito a scrivermi quanti fossero rimasti coinvolti nelle maglie dello stesso ufficio, se nella loro vicenda avessero ravvisato anomalie.

“ASTA LA VISTA”, HO CHIESTO L’ISPEZIONE AL TRIBUNALE DI LAMEZIA. Giuseppe d’Ippolito il 28 maggio 2019. Ho presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a seguito delle numerose ordinanze cautelari emesse nell’ambito della recente inchiesta della Procura di Lamezia Terme denominata Asta la vista, in cui si ipotizza l’esistenza di un sistema di gravi complicità che avrebbe permesso di truccare aste giudiziarie e ottenere utilità personali. Ho chiesto al Guardasigilli se non ritenga opportuno e urgente l’avvio di un’ispezione ministeriale sulla gestione dell’Ufficio esecuzioni e fallimenti del Tribunale di Lamezia Terme e se non intenda promuovere l’azione disciplinare a carico del magistrato che lo dirige, per accertarne ed eventualmente sanzionarne i comportamenti. A parte  le valutazioni d’ordine penale di competenza di altro potere dello Stato, la gravità, la reiterazione nel tempo, il numero e il titolo delle persone coinvolte e la vastità dei fatti segnalati comportano la necessità di verificare le eventuali responsabilità, sotto il profilo dell’organizzazione dell’Ufficio in argomento e del controllo su di esso e sulle procedure gestite, del magistrato preposto alla conduzione del medesimo. Altri sintomi (almeno) della incapacità gestionale del citato magistrato sono emersi in questi giorni. Essi vanno, è precisato nell’interrogazione, dalla ripetuta assegnazione a medesimi professionisti di incarichi, specie quelli con maggiori possibilità di remunerazione, a situazioni di possibile diniego del diritto di difesa personale, all’espresso mancato rispetto di norme costituzionali e di sentenze della Corte costituzionale, che come noto hanno forza di legge. Vi sono, poi, equilibri non chiari circa l’andamento temporale delle varie procedure esecutive immobiliari e perplessità in fatto di riservatezza e mantenimento del segreto d’ufficio. Si tratta di questioni contestualmente da me segnalate al CSM, alle Procure di Salerno e di Lamezia Terme e dei locali Consigli giudiziari e presidenza del Tribunale. È evidente che la vicenda merita un approfondimento specifico volto, in un settore molto delicato, a tutelare la concreta amministrazione della giustizia nonché sia i creditori che i debitori più deboli. Pertanto ho ritenuto doveroso esercitare i poteri di sindacato ispettivo propri del parlamentare.

Tribunale di Lamezia, D’Ippolito sollecita il ministro: «Avviare un’ispezione ministeriale all’Ufficio esecuzioni e fallimenti». Ilfattodicalabria.it il 29 Maggio 2019. Il deputato M5S Giuseppe d’Ippolito ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a seguito delle numerose ordinanze cautelaci emesse nell’ambito della recente inchiesta della Procura di Lamezia Terme denominata Asta la vista, in cui si ipotizza l’esistenza di un sistema di gravi complicità che avrebbe permesso di truccare aste giudiziarie e ottenere utilità personali. Ne dà notizia, in una nota, lo stesso esponente del Movimento 5 Stelle, che nell’interrogazione parlamentare ha chiesto al Guardasigilli «se non ritenga opportuno e urgente l’avvio di un’ispezione ministeriale sulla gestione dell’Ufficio esecuzioni e fallimenti del Tribunale di Lamezia » e se non intenda «promuovere l’azione disciplinare a carico» del magistrato che lo dirige, «per accertarne ed eventualmente sanzionarne i comportamenti». «A parte – ha scritto nell’interrogazione il deputato lametino – le valutazioni d’ordine penale di competenza di altro potere dello Stato, la gravità, la reiterazione nel tempo, il numero e il titolo delle persone coinvolte e la vastità dei fatti segnalati» comportano la necessità di verificare le eventuali «responsabilità, sotto il profilo dell’organizzazione dell’Ufficio in argomento e del controllo su di esso e sulle procedure gestite, del magistrato preposto alla conduzione» del medesimo. «Altri sintomi – ha proseguito il parlamentare – della incapacità gestionale del citato magistrato sono emersi in questi giorni». Essi vanno, è precisato nell’interrogazione, dalla ripetuta assegnazione a medesimi professionisti» di incarichi, specie quelli «con maggiori possibilità di remunerazione», a situazioni di possibile diniego del «diritto di difesa personale», all’espresso mancato rispetto di «norme costituzionali e di sentenze della Corte costituzionale», che come noto hanno forza di legge. Per il deputato vi sono, poi, equilibri « non chiari circa l’andamento temporale delle varie procedure esecutive immobiliari» e perplessità in fatto di  « riservatezza» e mantenimento del segreto d’ufficio. Si tratta di questioni contestualmente segnalate dal parlamentare al Csm, alle procure di Salerno e di Lamezia Terme e dei locali Consigli giudiziari e presidenza del Tribunale. «E evidente – commenta Giuseppe D’Ippolito – che la vicenda merita un approfondimento specifico volto, in un settore molto delicato, a tutelare la concreta amministrazione della giustizia nonché sia i creditori che i debitori più deboli. Pertanto ho ritenuto doveroso esercitare i poteri di sindacato ispettivo propri del parlamentare».

Mi sto occupando del caso “Asta la Vista” di Lamezia Terme, in riferimento alla conferenza stampa di Roma del 4 luglio 2019. Questo per integrare il mio saggio tematico. Come prova regina volevo allegare l’interrogazione parlamentare di Giuseppe D’Ippolito. Cercando sulla sua pagina della Camera dei Deputati, però, tale interrogazione non riesco a trovarla. Di essa non vi è traccia, se non solo sugli organi di stampa, così come riportata secondo la nota stampa dello stesso deputato. Mi serve per dare credibilità incontestabile alla vicenda ed ai protagonisti. Dr Antonio Giangrande

Operazione "Asta la vista", Ordine avvocati Lamezia: "Fiducia nella magistratura e vicinanza ai legali coinvolti". Il Lametino Mercoledì, 10 Aprile 2019. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lamezia Terme “esprime grande sorpresa e dispiacere per il coinvolgimento di alcuni iscritti oltre che di funzionari e dipendenti amministrativi del Tribunale, nell'operazione "Asta la vista"”, messa a segno dalla Procura di Lamezia Terme e che ha svelato un presunto sistema di diffusa corruzione e illegalità nella gestione delle aste giudiziarie. Gli avvocati di Lamezia rimarcano il valore del principio di innocenza fino a sentenza definitiva: "Per cui non si può non stigmatizzare il clamore dato anche a semplici notizie di reato e/o ad altrettanto semplici avvisi di garanzia (peraltro ancora non comunicati ad alcuni indagati)". "Per il resto - aggiungono - ribadendo totale fiducia nella Giustizia e nella Magistratura, si esprime la vicinanza agli iscritti colpiti a vario titolo dalla operazione in questione (in alcuni casi per vicende probabilmente prive di rilevanza penale), con l’auspicio che ognuno di essi riuscirà a dare adeguata giustificazione ai comportamenti posti a fondamento dei provvedimenti in questione".

Lamezia, operazione "Asta la vista": ecco come funzionava "l'autoriciclaggio". Il Lametino Lunedì 8 Aprile 2019. "Vantaggi economici prodotti attraverso la commissione del reato stesso". L'operazione “Asta la vista – Nomos” (12 arresti, 9 misure di interdizione, beni sequestrati del valore di oltre 8 milioni, per un totale di 86 indagati e quasi 100 reati contestati) delle Fiamme gialle di Lamezia, sotto le direttive del procuratore della Repubblica Salvatore Curcio e del sostituto procuratore Giulia Scavello, fa soprattutto luce sul vorticoso giro di denaro bottino del "sistema fraudolento che di fatto ha condizionato per oltre un decennio le vendite giudiziarie del comprensorio lametino" e il cui "deus ex machina" sarebbe Raffaele Calidonna. Questo "sistema" con cifre da capogiro è messo bene in evidenza nell'ordinanza a firma del gip Rossella Prignani, in cui si legge che "il Calidonna, direttamente o a mezzo di prestanome, dagli accertamenti reddituali svolti dal Gruppo della Guardia di finanza di Lamezia, dall'1 gennaio 2015 ha reimpiegato gli illeciti proventi in attività commerciali e ulteriori speculazioni immobiliari, compiendo plurime operazioni di autoriciclaggio per un profitto di euro 267.851,39, calcolato sul valore corrisposto e riscosso dalle operazioni di compravendita, a fronte di un'acquisizione di un patrimonio immobiliare del valore effettivo di euro 1.310.363,04". Molti i casi di "operazioni di autoriciclaggio" contenuti nella dettagliata ordinanza, per esempio in merito ad acquisizioni e vendite immobiliari dall'1 gennaio 2015. Si legge infatti in alcuni passaggi delle carte: "Prezzo di vendita dell'immobile: 24.970,00 - prezzo d'acquisto: 3.368,79 - profitto autoriciclaggio: 21.601,21 euro. Prezzo di vendita dell'immobile: 20.000,00 - prezzo d'acquisto: 15.500,00 - profitto autoriciclaggio: 4.500,00 euro. Prezzo di vendita dell'immobile: 35.000,00 - prezzo d'acquisto: 25.514,00 - profitto autoriciclaggio: 9.486,00 euro. Prezzo di vendita dell'immobile: 65.000,00 - prezzo d'acquisto: 13.299,00 - profitto autoriciclaggio: 51.701,00 euro. Prezzo di vendita dell'immobile: 55.000,00 - prezzo d'acquisto: 28.022,00 - profitto autoriciclaggio: 26.978,00 euro".  

"Così i beni pignorati tornavano ai proprietari", a Lamezia sgominata un'organizzazione: 80 indagati. Gazzetta del Sud 08 Aprile 2019. Facevano il bello e il cattivo tempo nelle vendite giudiziali e non si curavano di chi andavano a minacciare o allontanare per non avere concorrenti, anche se si trattava di militari. Emerge anche questo dato dall'inchiesta “Asta la vista” della Procura di Lamezia Terme che ha svelato i meccanismi di una presunta associazione a delinquere che nell'ultimo decennio avrebbe gestito gran parte delle aste giudiziarie grazie a una rete di infiltrati nel Tribunale lametino. Sarebbe stato il cosiddetto “sistema” Calidonna, dal cognome del 56enne Raffaele, colui che gli inquirenti coordinati dal procuratore capo Salvatore Curcio hanno indicato come il dominus dell'associazione che avrebbe operato attraverso un'agenzia di affari e servizi intestata alla figlia Sara e una rete di ufficiali giudiziari infedeli, commercialisti, avvocati e imprenditori. Oltre all'associazione a delinquere - Calidonna è finito in carcere, undici persone ai domiciliari, nove con misure interdittive e oltre 80 indagati come riporta la Gazzetta del sud in edicola- gli inquirenti contestano la turbata libertà degli incanti, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio, abuso d'ufficio, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, induzione indebita a dare o promettere utilità, autoriciclaggio ed estorsione. Abitazioni private, capannoni industriali, tutto sarebbe stato appetibile per il gruppo quando c'era da guadagnare e per fare in modo che ad acquistare gli immobili all'asta fossero il più delle volte gli stessi proprietari ai quali era stato pignorato; una procedura vietata dalla legge che veniva però aggirata attraverso prestanome.

Lamezia, operazione "Asta la vista": “Quando partecipano i padroni, le aste se le fanno i padroni”. Il Lametino Domenica, 07 Aprile 2019. "Quando c'è il padrone partecipa il padrone e non deve partecipare nessuno…è una regola!”. Parola di Raffaele Calidonna, colui che avrebbe avuto un ruolo centrale, stando alle indicazioni degli inquirenti, nell’operazione scattata ieri a Lamezia e denominata “Asta la vista”. Un sistema criminale consolidato che avrebbe puntato a condizionare, stravolgere e manomettere il delicato settore delle aste giudiziarie cittadine: 12 persone arrestate, 9 misure di interdizione e oltre 70 indagati per quasi 100 reati contestati e un cerchio che deve ancora chiudersi.  A giocare un ruolo chiave sarebbe stato appunto Calidonna, titolare di un'agenzia di assicurazioni e servizi intestata alla figlia, che si trova attualmente ai domiciliari all’interno dello stesso procedimento. Secondo l’accusa Calidonna avrebbe partecipato direttamente ai raggiri o si sarebbe avvalso di alcuni collaboratori, tra cui avvocati, commercialisti o complici all’interno del tribunale, oltre che dell’agenzia d’affari e servizi intestata alla figlia. Così riusciva ad ottenere ribassi e informazioni riservate relative alle aste giudiziarie dei suoi clienti. Quando le notizie non risultavano utili per il raggiungimento dello scopo, Calidonna però, avrebbe avvicinato altri offerenti, e, sempre secondo l'accusa, li avrebbe intimiditi al fine di farli desistere, adducendo vicinanze a cosche locali.

“Sono quelli che fanno il bello e il cattivo tempo”. Un episodio emblematico viene riportato all’interno del decreto di sequestro dell’operazione “Asta la vista”, dove si descrive il passaggio di una trattazione da parte di Calidonna per la vendita di otto lotti costituiti da altrettanti terreni in agro a Gizzeria. E’ l’asta del 9 aprile 2018 e lo stesso prova a far desistere alla partecipazione un finanziere che aveva già presentato domanda in busta chiusa, chiedendogli apertamente di non procedere ad alcun rialzo, al fine di consentirne l’aggiudicazione in favore di Vincenzo Iannazzo, sempre indagato all’interno della medesima operazione. In particolare, Calidonna, in seguito all’interessamento di Antonio Iannazzo (padre di Vincenzo), avrebbe condizionato l’esito della procedura intimando al finanziere: “omissis….No, no, no, no,…81/2011 c’è il padrone che partecipa”- “Quando si fa…ehm…l’offerta vi ritirate” - “E’ allora venite da me che vediamo di trovare qualcosa, che noi facciamo proprio questo lavoro. Noi siamo proprio un’agenzia d’affari. “Noo…e se ve lo dico io…c poi partecipano i padroni e quando partecipano i padroni le aste se fanno i padroni”. “Potete fare quello che volete- si legge ancora nel decreto - Mortilla (ndr: la contrada) e coso c’è il padrone e se la deve prendere il padrone! Quando c’è il padrone partecipa il padrone e non deve partecipare nessuno…è una regola!”. Sempre intimando il finanziare a ritirare la trattativa, Calidonna prosegue infine nel rimarcare: “Dico qua ci sono delle usanze, delle cose che si devono rispettare” - “No, no. Devi capire a me!- (ndr: indicando il nome IANNAZZO scritto sulla cartellina dell’asta appena conclusa) - Vai sulla cronaca mondana chi sono, punto” - “E non ti dico più niente. Sono quelli che fanno il bello e il cattivo tempo. Punto. Ecco perché ti ho detto tranquillo!”- Va be…E avere amici come noi conta assai! Amici che contano…omissis”. “Successivamente - è riportato poi nel dispositivo - avendo Iannazzo Vincenzo sbagliato per ben due volte a compilare l’offerta, ad aggiudicazione avvenuta in favore del finanziere, Calidonna Raffaele, nell’interesse di Caporale Carlo, prometteva al finanziere il risarcimento dell’importo corrispondente all’assegno circolare già depositato a garanzia per la partecipazione all’asta giudiziaria, in cambio del mancato versamento dell’importo a saldo”. 

Lamezia: operazione “Asta la vista”, Curcio: “Fatta luce su sistema illegale diffuso e paradossalmente accettato”. Giuseppe Maviglia Sabato, 06 Aprile 2019 su Il Lametino.  “Riteniamo di avere smantellato, grazie al lavoro svolto dalla Guardia di finanza, un vero e proprio sistema illecito di condizionamento delle vendite giudiziarie”. È questo il dato da evidenziare dell’operazione “Asta la vista – Nomos” secondo il procuratore della Repubblica Salvatore Curcio. Nella conferenza stampa convocata per illustrare i dettagli dell’operazione, Curcio, che ringrazia il gruppo lametino della Guardia di finanza “per un anno e mezzo quasi totalmente assorbito da questa attività d’indagine, che poggia su una capillare attività tecnica, da intercettazioni ambientali, quelle video e telefoniche”, denuncia la “sistematicità degli illeciti contestati e soprattutto l’accettazione, in alcuni versi anche passiva, di questo sistema da parte della generalità. Questo meccanismo illecito era piuttosto diffuso e altrettanto conosciuto ai più. Ciononostante, veniva passivamente accettato. Per cui era paradossalmente quasi diventata la regola”. Una mole di lavoro enorme portata avanti in sinergia, nonostante le note problematiche con cui la giustizia si trova a dover fare i conti quotidianamente. Dice infatti Curcio: “Gli uffici giudiziari di Lamezia, per il contesto in cui ci muoviamo, meritano sicuramente una attenzione particolare da parte del ministero della Giustizia e del Consiglio superiore della magistratura, che ha dimostrato nel caso di specie una sensibilità non indifferente. Gli organici vanno rivisti. Bisogna garantire una giustizia rapida ed efficiente in una città, in un circondario, più in generale in una terra di Calabria, che ha una grande sete di giustizia”. A scendere nello specifico dell’operazione è il sostituto procuratore della Repubblica, Giulia Scavello: “Le indagini sono in un certo senso ancora in corso, perché è un sistema che si compone di svariati livelli.  È stato particolarmente complesso e faticoso, perché l’attività tecnica di intercettazione ambientale e telefonica, anche nei luoghi di lavoro e negli uffici giudiziari, è astata capillare e combinata con attività di intercettazione telefonica e con sevizi di osservazione, controllo e pedinamento anche di tipo non convenzionale, cioè pedinamenti con macchine prese a noleggio per non farsi individuare. Nessun aspetto - continua Scavello - è stato lasciato insondato. E chiaramente ha dato i suoi buoni frutti, disvelando un vero e proprio sistema illecito di condizionamento del sistema delle aste giudiziarie, tra cui il Tribunale di Lamezia. I soggetti individuati sono riconducibili a un unico nucleo affettivo che, attraverso un’agenzia di affari e servizi, riusciva a contattare vari professionisti delegati e debitori esecutati e a interporsi condizionando i risultati delle vendite, a volte anche attraverso minacce pesanti”. Il comandante del gruppo della Guardia di finanza di Lamezia, tenente colonnello Clemente Crisci, spiega che “il deus ex machina è un soggetto che gestisce un’agenzia di assicurazione e servizi che sarebbe intestata alla figlia. Per tramite di questa agenzia, sarebbe intervenuto su numerose aste giudiziarie di un decennio nel Tribunale lametino, alterando in gran parte i risultati. Chi voleva partecipare a queste aste, si doveva rivolgere alla sua agenzia. Questo soggetto avrebbe ottenuto informazioni preziose, con ribassi fino all’80 per cento o, addirittura facendo andare deserte le aste per far crollare i prezzi. Il sistema criminale vede coinvolti funzionari della giustizia, cancellieri e avvocati. In seguito agli accertamenti patrimoniali, abbiamo sequestrato due bar, l’agenzia assicurativa, diverse unità immobiliari andate all’asta e illeciti profitti, frutto di presunto riciclaggio”. Ma le operazioni non sono terminate. “Ci sono 84 militari della Guardia di finanza dislocati nelle province di Catanzaro e Reggio Calabria. È un’attività particolarmente articolata, in quanto si tratta di ordinanze di carattere personale e contestuale misura patrimoniale” sottolinea infine il capitano Matteo Boarelli, comandante del nucleo operativo del gruppo della Guardia di finanza di Lamezia.

Dieci anni di aste giudiziarie “truccate” a Lamezia, ecco come funzionava il “sistema” Calidonna. Federica Tomasello il 6 Aprile 2019 su zoom24.it. Nel mirino della Procura di Lamezia Terme una trentina di vendite solo nel 2018. Gli indagati sono 86 e avrebbero accumulato un patrimonio di circa 4,5 milioni di euro. Un anno e mezzo di indagini è stato concretizzato stamani da un’operazione del gruppo della guardia di finanza di Lamezia Terme che ha accertato il condizionamento delle aste giudiziarie nel territorio lametino in un lasso temporale di circa dieci anni. Smantellato sistema illecito. L’attività investigativa ha evidenziato svariate irregolarità su un elevato numero di aste giudiziarie avvenute nell’anno 2018 presso il tribunale lametino. Una vero e proprio “sistema” illecito che – secondo l’accusa – avrebbe coinvolto anche diversi funzionari. “L’ufficio di Procura ritiene di avere smantellato un sistema illecito di vendite giudiziarie – ha dichiarato il procuratore della repubblica Salvatore Curcio -. Ciò che impressiona non è l’esistenza degli illeciti compiuti ma la loro sistematicità e l’accettazione passiva della generalità. 86 le persone indagate e quasi 100 i capi di imputazione contestati. Un’indagine delicatissima, sulla quale hanno lavorato anche i magistrati appena arrivati”.

Il “sistema” Calidonna. La figura focale dell’indagine era Raffaele Calidonna, lametino, che avrebbe influenzato il risultato delle vendite attraverso l’agenzia di servizi intestata alla figlia. “Chi voleva gli immobili doveva rivolgersi all’agenzia della figlia – ha spiegato il tenente colonnello della guardia di finanza Clemente Crisci -. Lui sarebbe intervenuto su numerose aste alterando svariati risultati, in circa dieci anni di aste giudiziarie”.

Minacce pesanti. Calidonna ed altri soggetti appartenenti alla sua famiglia sarebbero stati anche autori di minacce rivolte ad altri offerenti. Gli inquirenti hanno, infatti, individuato una serie di soggetti della stessa famiglia che riuscivano a contattare vari professionisti condizionando i risultati delle vendite anche attraverso minacce pesanti. Gli stessi soggetti sono risultati da un lato quasi nulla tenenti e dall’altro detentori di un patrimonio ingente.

Il pericolo di fuga di notizie. Un’indagine complessa avvalsasi di metodiche particolari e non convenzionali tra le quali pedinamenti e  focalizzata  anche minuziosamente ad impedire la fuga di notizie all’interno della Procura per evitare l’incrinarsi dell’indagine. “Un’inchiesta faticosa che ha necessitato di numerosi dispositivi. E’ stata capillare l’attività di intercettazione telefonica con i servizi di osservazione non convenzionali come i pedinamenti con macchine prese a noleggio- ha ricordato il sostituto procuratore Scavelli -. Tutelare il segreto istruttorio in un contesto così piccolo come il tribunale di Lamezia Terme è stato faticoso e nonostante le infinite cautele tuttavia ci sono state delle fughe di notizia”. La procura però si è detta fortemente soddisfatta del risultato ottenuto grazie al lavoro faticoso e incessante svolto dal gruppo della Guardia di Finanza.

Autoriciclaggio. È stata inoltre dimostrata  la sussistenza del reato di autoriciclaggio per un totale  di circa 270.000 euro, che Calidonna assieme ad altre figure a egli collegate avrebbero ottenuto dalla vendita, dall’anno 2006 di 20  strutture immobiliari dal valore di un milione di euro, rivendute successivamente ad un milione e 270 mila euro. Contestualmente, sono state eseguite 23 perquisizioni domiciliari e 10 locali nei confronti di persone residenti nei comuni di Lamezia Terme, Serrastretta, Soveria Mannelli, Gizzeria, Maida, Reggio Calabria e Palmi per reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali turbata libertà’ degli incanti, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio, falsita’ ideologica commessa dal pubblico ufficiale, induzione indebita a dare o promettere utilità, e contro il patrimonio, tra i quali autoriciclaggio ed estorsione.

·         La vera storia di Sergio Bramini.

«Basta coi giudici messi nel mirino dai media» La linea dura del Csm. Passa in consiglio la delibera in difesa del magistrato inseguito dalle Iene per aver sfrattato un imprenditore di Monza: «aggressioni assurde». È il primo documento del genere da cinque anni a questa parte, scrive Errico Novi l'11 Aprile 2019 su Il Dubbio. È una storia pesante. Fra tanti “processi mediatici”, la vicenda di Sergio Bramini è tra le più dolorose e controverse. L’imprenditore di Monza, sfrattato poco meno di un anno fa dalla casa ipotecata dalle banche, è stato protagonista di un fallimento intrecciato a crediti che diversi enti pubblici non gli avevano mai saldato. Caso ritenuto “esemplare” e seguìto con ridondanza da giornali e soprattutto tv, in particolare dalle “Iene”. È stato il programma di Italia uno a dare letteralmente la caccia, l’anno scorso, al giudice del Tribunale civile di Monza che aveva ordinato lo sfratto, Simone Romito. Ed è nei confronti di quest’ultimo, in particolare, che lo scorso 4 aprile il Csm ha approvato in plenum una “pratica a tutela”. Ha censurato sia la «falsa rappresentazione mediatica» sia la «assurda aggressione personale» compiuta, secondo Palazzo dei Marescialli, ai danni del magistrato. Con un passaggio, seppur più sfumato, sulle «plurime e indebite interferenze» che sarebbero arrivate da prefetto, sindaco di Monza e alcuni parlamentari. L’iniziativa dell’organo di autogoverno ha un peso tutt’altro che marginale. Si tratta infatti della prima pratica a tutela deliberata in plenum da cinque anni a questa parte. Una decisione, se non proprio storica, degna di essere colta quanto meno come un segnale. Nel senso che si riconosce la maggiore pericolosità, per i magistrati, delle contestazioni rivolte in ambito civilistico, in particolare nelle procedure fallimentari, rispetto a minacce e insulti urlati alla lettura delle sentenze penali. I fatti legati alla messa all’asta della casa di Sergio Bramini e allo sfratto, contestatissimo da politica e media, ordinato dal giudice Romito, preoccupano il Csm più di quel «ti aspettiamo fuori» rivolto al giudice di Avellino Luigi Buono dopo la sentenza sulla strage del bus l’ 11 gennaio scorso. Non c’è da sorprendersi. Il Csm è in allerta perché con fallimenti ed esecuzioni immobiliari si rischia la vita. E purtroppo in qualche caso la si perde. La strage del 2015 in Tribunale a Milano lo dimostra. Esattamente 4 anni fa, il 9 aprile, l’immobiliarista Claudio Giardiello uccise il giudice fallimentare Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e Giorgio Erba, suo coimputato in un procedimento per bancarotta. Al Tribunale di Perugia, nel settembre 2015, un uomo armato di coltello tentò di colpire una giudice e venne fermato all’ultimo istante da un altro magistrato. Finora il Csm ha tenuto un profilo prudente sulle pratiche a tutela istruite dalla prima commissione. Pratiche che, per inciso, non hanno conseguenze penali neppure indirette né per l’anchorman che va sopra le righe né per i leader politici che parlano di «vergogna» a proposito di scarcerazioni o sentenze “troppo” lievi. Si tratta di deliberati che, anche se votati in plenum, hanno solo valore morale. Ma seppur nei limiti previsti dall’ordinamento, il Csm non intende più scherzare. In realtà la maggioranza dei togati e gli stessi consiglieri laici sono determinati a non soprassedere più anche col resto. Ma è significativo il fatto che la prima “pratica a tutela” degli ultimi cinque anni riguardi un’ordinanza di sfratto. Segnala che la magistratura non intende tollerare situazioni particolarmente a rischio, ma anche che attende da media e politica maggiore continenza in casi forse meno pericolosi ma comunque allarmanti. La pratica a tutela del giudice Romito era stata avviata già nel corso della precedente consiliatura dai togati Nicola Clivio e Claudio Galoppi. L’ha istruita la prima commissione, come da regolamento interno. In plenum ne è stato relatore il consigliere di Unicoist Luigi Spina, promotore anche di una delibera a tutela dell’intera magistratura che la prima commissione ha tuttora in esame. Gli inseguimenti compiuti l’anno scorso dalle “Iene” nei confronti del giudice civile di Monza, costretto persino a rifugiarsi in un portone, si sono sommate alla «reiterazione» e all’ «insistenza» delle «notizie infondate e parziali propinate all’opinione pubblica sulla vicenda». Secondo la delibera, la campagna in favore di Sergio Bramini si è tradotta in «comportamenti lesivi del prestigio della giurisdizione». E tali condotte hanno costituto «la premessa ed il substrato di ulteriori comportamenti, probabilmente ancor più gravi». La situazione insomma avrebbe potuto degenerare. Nel documento approvato in plenum si parla apertamente di «campagna di stampa ingiustificata ed alimentata ad arte, che ha considerato solo le rumorose proteste del debitore esecutato, omettendo del tutto di valutare i contrapposti interessi dei creditori». Tra questi ultimi c’erano innanzitutto le banche. E le ragioni d Bramini non possono essere trascurate. Certo, aveva accumulato quasi 4 milioni di debiti a fronte di crediti non incassati da enti pubblici pari a meno della metà di quell’importo. Ma è anche vero che un imprenditore lasciato senza liquidità è costretto a farli, quei debiti. Il punto sul quale non si può dar torto al Csm è che un giudice non può essere additato come un infame solo perché applica la legge. Se non si scherza coi sacrifici fatti da un imprenditore nel corso di una vita, non si può scherzare neanche con la vita dei magistrati.

La vera storia di Sergio Bramini, l’imprenditore a cui lo Stato deve 4 milioni di euro, scrive il 18/05/2018 Giornalettismo. Sta succedendo un certo movimento in quel di Monza. Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono schierati a fianco di Sergio Bramini, 70 anni, ex titolare della “Icom“, azienda operante nel campo della gestione rifiuti. Bramini è sotto sfratto. La sua Icom è fallita nonostante vantasse 4 milioni di crediti dalle pubbliche amministrazioni. Soldi che l’azienda di Bramini non ha mai visto.

“Fallito per colpa dello Stato”, ha spiegato più volte l’imprenditore. Perché però è sotto sfratto?

Partiamo dall’inizio. Ovvero dalla sua Icom. L’azienda era florida, ha vinto diversi appalti nel Sud Italia, in Sicilia e a Napoli per l’emergenza rifiuti. Tutti contratti con pubbliche amministrazioni. Dal 2005 però gli enti pubblici hanno smesso di pagare. E quando raramente lo facevano lo facevano col contagocce. L’azienda – che nel suo core business vantava perlopiù questa tipologia di clientela – inizia ad avere grosse difficoltà. Per 5, 6 anni circa Bramini paga l’Iva su fatture “mai riscosse”. Che fare? Dichiarare fallimento e licenziare i dipendenti o andare avanti? L’imprenditore decide di fare due mutui. Uno di 500 mila euro sulla casa. E un altro, di 500 mila euro sugli uffici. “Per pagare il gasolio e il personale“, spiega alle Iene che lo seguono da mesi. Nel 2011 l’azienda fallisce. Al momento del fallimento il credito delle p.a oltrepassava i 4 milioni di euro. In particolare l’Ato di Ragusa aveva la fetta di pagamenti più alta. Giovanni Vindigni, ex presidente Ato Ragusa ambiente spiegò al tempo a Le Iene: “L’Ato era una società per azioni, i cui azionisti erano i comuni. Se il Comune non pagava l’Ato da chi poteva prendere i soldi?“. Giuseppe Nicosi, ex sindaco di Vittoria (paesino del ragusano) rigetta però la patata bollente del collega: “Inadempienze? Si pagava. C’erano dei ritardi, come è nell’ambiente“.

Ok, ci siete? Perché qui le cose si complicano. Il curatore fallimentare spiega a Bramini che doveva fallire prima e mandare tutti a casa. Andando avanti così per anni, in mezzo alle insolvenze altrui, avrebbe procurato un danno all’azienda pari a circa “un milione di euro“. Soldi che ora il Bramini deve. In pratica si risale così ai 500 mila euro chiesti sulla casa e quegli altri 500 mila euro di mutuo fatto sugli uffici. Il curatore fallimentare braccato da Le Iene ribadisce che Bramini ha sbagliato ma non fornisce ulteriori informazioni.

Come è stato chiesto il mutuo sulla casa di Bramini? A chiarire le cose è il Tribunale di Monza che ha scritto a Le Iene per il secondo servizio. L’immobile era intestato a Bramini e poi alla moglie (separata). A Monza si procede con lo sfratto sull’immobile pignorato da una banca con cui anni fa la Icom stipulava un contratto di mutuo. Contratto con cui Bramini da garanzia ipotecaria. Garanzia che per legge “dà diritto al creditore al creditore di agire direttamente sull’immobile ipotecato di fronte alla mancata restituzione del mutuo“.  La procedura di fallimento di Icom, spiegano da Monza, non è il fallimento personale del signor Bramini. A ciò si aggiunge il Tribunale di Milano, che invece segue il fallimento della società, e che ha dichiarato inefficace il cedimento dell’immobile alla moglie dell’imprenditore. Da Monza dichiarano la loro estraneità sulla procedura di fallimento seguita dei colleghi di Milano e spiegano che, per legge, non si poteva fare altrimenti.

Nel servizio de Le Iene Bramini punta il dito sulla gestione del curatore. Anche perché la certificazione dei crediti, prevedibili per legge, non è stata chiesta. E così il tutto (inclusi i materiali di azienda) è stato svenduto e i debiti sanati con riduzioni consistenti. Lo sfratto è stato anticipato al 18 maggio, perché il primo giugno, a causa della Festa della Repubblica dell’indomani, le forze dell’ordine potrebbero essere sotto organico. Bramini intanto si è appellato anche alla neopresidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Finora inutilmente. La casa è stata scelta come domicilio parlamentare dal senatore Gianmarco Corbetta (M5S) e di un altro parlamentare leghista. Un tentativo questo, l’ultimo, per impedire uno sfratto su cui c’è già stato un rinvio. I servizi de Le Iene e l’attenzione dei mass media hanno smosso critiche in rete. Perfino minacce, secondo quanto denuncia la sezione di Monza dell’associazione nazionale magistrati all’agenzia Ansa. L’associazione – in una nota – ha parlato di una eccessiva pressione mediatica sulla vicenda. “Non possiamo accettare che i singoli giudici siano oggetto di pressioni mediatiche volte a ostacolare il regolare corso del processo – si legge nella nota – attuate attraverso campagne denigratorie, che ledono la libertà personale del singolo e offendono l’intera magistratura monzese“. Secondo l’associazione dei magistrati “campagna mediatica” avrebbe l’intenzione di “condizionare l’attività dei giudici della terza sezione civile del Tribunale di Monza“. I magistrati hanno ribadito di non voler limitare il diritto di informazione, ma allo stesso modo “garantire l’opinione pubblica sul fatto che i Giudici di questo Tribunale esercitano e continueranno a esercitare le proprie funzioni con serenità e trasparenza, nel rispetto della legge, respingendo coercizioni di qualsiasi provenienza“. Ribadiscono “la regolarità delle procedure attuate dagli uffici preposti all’esecuzione“. Hanno precisato che “tutti i magistrati, e in particolare quelli che si occupano delle esecuzioni forzate, son ben consapevoli dei drammi umani di coloro che si trovano a subire l’esproprio della propria abitazione a causa di eventi sfortunati”. Tuttavia “non possono sottrarsi al dovere di applicare la legge“.

Cacciato di casa, ma con un credito di 4 milioni…, scrive su Butac Michelangelo Coltelli il 04/05/2018. Sia sui giornali che sulla stampa ha fatto molto scalpore la storia di Sergio Bramini, che sta rischiando di perdere la casa per via del fallimento della sua ditta, che, a quanto riportano i giornali (e Le Iene), avrebbe un credito di 4 milioni di euro dallo Stato. La storia mi ha incuriosito, ho visto il servizio delle Iene, ho letto i tanti articoli apparsi sui giornali, e ho fatto molta meno fatica di quella che credevo a ricevere tutte le informazioni sul caso. La storia che raccontano i media manca di tutto quello che è la verifica dei fatti su come si sia arrivati a quella situazione. Tutti fanno leva sulla facile indignazione della gente e sul fatto che alla maggioranza delle persone poco interessa andare a fondo delle questioni. So che non mi renderò simpatico, ma quanto segue è necessario. Perchè vi dicevo che non ho dovuto faticare molto? Ma perché una spiegazione, perfettamente logica, è pubblicata sullo stesso sito de Le Iene, nella pagina di approfondimento al servizio. La copia in PDF di quanto il Tribunale di Monza ha scritto alle Iene, il 24 aprile 2018.

Per i più pigri……il sunto di quanto riportato nel documento: Lo sloggio è effettuato perché sull’abitazione del signor Bramini pende un’ipoteca dal 2001, aperta per dare garanzia su un mutuo mai restituito. Quindi fallimento ICOM e sloggio dalla casa non hanno un collegamento diretto. La casa è ora di proprietà di una banca, a cui 17 anni fa si era rivolto lo stesso Bramini. Il tribunale di Monza è il referente per la causa di sloggio concernente debiti del signor Bramini. Quello di Milano per l’istanza di fallimento della ICOM. I crediti non sono 4 milioni dallo Stato, ma crediti con enti locali, che pertanto non possono coprire direttamente il debito con lo Stato. La legge non prevede preferenze per un caso piuttosto che un altro, va applicata, anche di fronte al caso umano. Lo sloggio forzato è causato dall’ostruzionismo del signor Bramini al concedere le visite dei potenziali acquirenti. Non vi fosse stato quell’ostruzionismo sarebbero probabilmente rispettate le promesse del sindaco (che aveva parlato di libero accesso per le visite di acquirenti – nel servizio delle Iene – e dal momento della vendita un preavviso di tre mesi per andarsene).

Dulcis in fundo, l’art.68 della Costituzione sfruttato a fini politici da ben due esponenti di diversi partiti recita: I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. Da nessuna parte si parla di sloggio per debiti. Quindi cercare di eleggere a domicilio o ufficio la casa del signor Bramini non serve assolutamente a niente. Se non a far perdere ulteriormente tempo alla macchina statale che, ricordiamo sempre, si muove per merito delle nostre tasse. Ogni minuto perso in cose inutili è un minuto sprecato per la collettività. Il tutto per un po’ di notorietà in più, per un posto al sole se si torna a votare.

Per i lettori di BUTAC: Vi riporto qui tutta la lettera del Tribunale, nulla rende meglio del testo originale:

con riferimento a notizie e giudizi espressi su organi di comunicazione circa la vicenda giudiziaria inerente il sig. Sergio Bramini, e ad integrazione di quanto già portato alla vostra attenzione nella nota del 6.4.2018, ritengo necessario, per garantire completa e adeguata informazione sulla vicenda, evidenziare i riscontrati profili che caratterizzano le procedure pendenti rispettivamente presso il tribunale di Milano e il tribunale di Monza, quali acquisiti presso i due uffici. pende avanti il tribunale di Milano dal 2011 il fallimento di 1com Milano s.r.f in hquid., società di capitali facente capo al sig. Sergio Bramini e di cui lo stesso era amministratore (non si tratta di fallimento personale dei sig.Bramini).

Avanti al tribunale di Monza pende dal 2013 il giudizio di pignoramento della casa in Monza nella titolarità della moglie separata, cui Sergio bramini trasferiva la proprietà in sede di separazione consensuale poco prima del fallimento.

Il pignoramento è stato autonomamente azionato da una banca, cui bramini nel 2001 aveva concesso ipoteca sulla casa a garanzia di mutuo in favore della icom, successivamente non più restituito, garanzia che dà diritto al creditore di agire direttamente sul bene ipotecato.

L’esecuzione immobiliare concerne anche credito del fallimento icom di € 200.000 nei confronti di bramini personalmente, in forza di transazione esecutiva del 2014 – proposta dallo stesso bramini e poi inadempiuta e tuttora contestata – a definizione di giudizio promosso dal fallimento nei confronti dello stesso per assunte responsabilità come amministratore (per realizzare tale credito il fallimento è intervenuto nel pignoramento immobiliare).

La procedura esecutiva pendente presso il tribunale di Monza si svolge in applicazione di normativa vigente che, a fronte di crediti impagati, consente di agire esecutivamente sui beni mobili e immobili dei debitori, prevedendo la liberazione dell’immobile pignorato anche prima della vendita. si evidenzia che il divieto di sloggio dalla “prima’ casa può valere solamente quando a procedere sia Equitalia (oggi agenzia entrate riscossione), mentre nel caso del sig. bramini si tratta di procedura esecutiva ordinaria (azionata da una banca, con intervento del fallimento).

Nello specifico si sta procedendo ad azione di sloggio del sig. Bramini e della sua famiglia dalla casa di Monza, in quanto, dopo iniziale impegno a consentire le visite di persone interessate all’acquisto, c’è stata un’attività ostruzionistica dello stesso ad ogni iniziativa in tal senso. una sola persona sinora è riuscita a visitare l’immobile; l’unica asta celebrata è andata quindi deserta per mancanza di offerte. non si contano le diffide e intimazioni a non procedere oltre, quali inviate dal legale dei bramini al custode giudiziario negli ultimi sei mesi.

Questo ufficio non è di certo insensibile al dramma che investe le famiglie, tutte le famiglie, e sono circa 1.000 ogni anno coinvolte nelle procedure esecutive immobiliari di questo tribunale, costrette ad uscire dalle proprie case: tale problema non può essere posto a carico del tribunale, che deve applicare la legge senza trattamenti preferenziali, ciò pur comprendendosi la vicenda umana del sig. bramini e della sua famiglia.

per quanto emerge dagli atti delle procedure, va peraltro osservato che, se vengono prospettati da parte del già amministratore di icom consistenti crediti della società prima del fallimento (circa € 4 milioni), emerge anche che sono crediti vantati verso enti locali (non verso l’amministrazione statale), come tali non immediatamente compensabili con debiti della fallita verso lo stato, crediti allo stato accertati nell’ordine della metà, in quanto in parte già ceduti a creditori di icom prima del fallimento, in parte oggetto di contestazione, in parte accertati giudizialmente come inesistenti, profilandosi in termini inferiori al passivo fallimentare (nell’ordine di € 3.500.000). va detto che l’accertamento di crediti e debiti è rimesso al tribunale fallimentare di Milano e non già al giudice di Monza, cui non compete alcun ambito di intervento in proposito.

In ogni caso tali crediti sono inidonei a paralizzare l’azione dì esecuzione in corso, ove confluiscono le pretese della banca mutuante, che agisce sull’immobile in forza di ipoteca, e quelle del fallimento, creditore del sig, Bramini personalmente. Nè compete alla magistratura trovare soluzioni innovative rispetto al mancato pagamento delle somme dovute dagli enti pubblici, in quanto non ne ha i poteri.

Quanto all’asserita violazione dell’art.68 della costituzione, in riferimento a iniziativa di senatore di porre nell’abitazione oggetto di esecuzione il suo ufficio parlamentare sul territorio, va detto – come già diffusamente argomentato dal giudice del procedimento – che la norma costituzionale prevede preventiva autorizzazione della camera di appartenenza solo per l’esecuzione di perquisizione personale o domiciliare, di arresto, o di provvedimento altrimenti privativo della libertà personale, quale non può ritenersi un provvedimento civile di esecuzione su beni mobili o immobili, in applicazione di norme dello stato.

Non può pertanto che esprimersi forte preoccupazione per condotte di contrasto all’azione giudiziaria fatte proprie anche da chi riveste alte cariche istituzionali, con valenza delegittimante nei confronti dei giudici, tenuti ad applicare normative indefettibili, il cui avvio è rimesso all’iniziativa dei creditore e in funzione della prevista tutela giuridica della sua posizione.

il presidente del tribunale Laura Cosentini

Trovo curioso notare che il documento sia datato 24 aprile, ma nel servizio delle Iene, andato in onda il 29 aprile, di tutto quanto spiegato qui sopra non si faccia alcun cenno. Ma anzi, si insiste sul credito di 4 milioni da parte dello Stato, e si insegue un giudice che sui quei 4 milioni non può dire nulla. Lui ha emesso un decreto di sloggio seguendo la normativa in vigore. Applicando la legge. Capisco benissimo perché non abbia molto da dire alla Iena. Il video delle Iene in realtà è stato registrato quasi tutto prima d’aver ricevuto la lettera con le informazioni sul caso da parte del Tribunale di Monza. Sarebbe bastato spiegarlo in apertura di servizio, ma purtroppo, come avete potuto capire, tutto il girato avrebbe avuto decisamente meno senso e meno appeal per il pubblico che vuole potersi indignare.

Sergio Bramini: la storia dell’imprenditore fallito nonostante un credito di 4 milioni di euro, scrive Giordano Giusti il 26 Febbraio 2019 su  TPI. Bramini si è visto portare via la villa ipotecata per scongiurare il fallimento e salvare l’azienda e i suoi 32 dipendenti. Dopo le denunce e l’interessamento da parte dei media – tra cui Le Iene – l’imprenditore ha ricevuto l’appoggio del nuovo governo e dei vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio: è stato quindi scelto come consulente per scrivere una legge sulle procedure fallimentari.

Il Giorno riporta una recente dichiarazione di Bramini: “Ho già scritto i punti della mia proposta, bisogna ritoccare profondamente la legge fallimentare: la prima casa non va toccata, specie per chi vanta crediti con lo Stato. E va rivisto l’articolo 560 del Codice di Procedura Civile, che consente al custode giudiziario poteri enormi, come scaraventare il debitore fuori di casa prima che sia avviata la vendita forzata dell’immobile. Anche a costo di buttare in mezzo a una strada bambini, disabili o anziani pur di rendere appetibile l’asta”.

In realtà, secondo quanto detto dallo stesso Bramini a Panorama, qualcosina sembra non funzionare circa l’incarico: “Le dico solo che a oggi non ho preso un quattrino. Ho lavorato un mese senza nulla, poi mi è stato fatto un contratto che è partito a fine luglio, ma non bastava neppure a coprire le spese. Ci rimettevo. Ora è stato ritoccato ma non mi resta in tasca un euro”.

Bramini ha poi smentito l’intervista in quanto “oggetto di una ricostruzione mirata a screditare il governo attuale”.

A riassumente per punti la storia di Bramini e della sua Icom è Agi:

1995 – Tra i vari appalti che la Icom vince ci sono quelli con la Ato di Ragusa per la gestione delle discariche di Vittoria e Scicli (mezz’ora di macchina dalla casa di Montalbano, per intenderci).

2007 – La pubblica amministrazione smette di pagare o lo fa molto lentamente, mettendo in crisi di liquidità la Icom che deve avere dalla Ato 2,5 milioni di euro. La chiusura delle due discariche di Vittoria e Scicli – per le quali la Icom ha dovuto anticipare le spese di gestione – la porta a non poter gestire finanziariamente altri appalti e non potersi garantire la sopravvivenza.

2011 – La Icom fallisce, il curatore contesta a Bramini di non aver chiuso prima i battenti impedendole di accumulare un milione di debiti: 500 mila euro di ipoteca sugli uffici e 500 mila sulla casa dell’imprenditore.

2018 – Il Tribunale di Monza decreta che Bramini deve essere sfrattato e la sua villa deve passare alla banca creditrice. Lo sfratto viene eseguito il 18 maggio in diretta Facebook nonostante due parlamentari vi avessero eletto domicilio.

Documento Csm: minacce e debiti con lo Stato, lʼaltra verità su Sergio Bramini, scrive il 14 aprile 2019 TGcom24. Un documento del Consiglio superiore della magistratura - anticipato da "La Stampa" - evidenzia come lʼimprenditore avesse debiti con Fisco, fornitori e banche. Spuntano minacce al custode giudiziario. Per anni ha rappresentato il simbolo delle vittime dello Stato vessatore: il credito di 4 milioni di euro che vantava dalla Pubblica Amministrazione aveva portato al fallimento la sua azienda di rifiuti. Con Sergio Bramini si sono schierati subito politici, social e mass media. Ora il Consiglio Superiore della Magistratura racconta un'altra verità. Lo fa in un documento "a tutela" di Simone Romito, il giudice di Monza incaricato del pignoramento della casa di Bramini. Il Csm evidenzia una serie di debiti pregressi per l'imprenditore, scorciatoie per evitare il Fisco, minacce al custode giudiziario. Il testo è anticipato dal quotidiano La Stampa.

Lo Stato debitore che porta al fallimento? - Il ritratto di un imprenditore onesto e di successo rovinato dallo Stato che non onora i suoi debiti (quattro milioni di euro stando alle parole di Bramini stesso) viene confutato dal Consiglio superiore della Magistratura che per la prima volta in cinque anni "vota una pratica a tutela di un magistrato", Romito, "aggredito, denigrato, offeso, diffamato" da una campagna politico-mediatica costruita sulle fake news. Così, in 18 pagine, l'organo di autogoverno dei magistrati ricostruisce la vicenda. A partire dalla situazione creditizia vantata da Bramini nei confronti della P.A. Citando il Tribunale fallimentare di Milano, ammonterebbe a 1,6 milioni di euro la somma che gli enti pubblici dovrebbero all'imprenditore brianzolo. La cui storia debitoria iniziò nel 2001, e non nel 2005, come lui stesso ha sempre dichiarato. Quello che nessuno ha detto finora è che la sua azienda era indebitata per 3.8 milioni di euro. Di questi 1,7 dovevano andare allo Stato (come Iva, Irpef, Irap e Tfr non pagati), 1,1 ai fornitori e il resto alle banche. Il Csm comunque mette nero su bianco la responsabilità dello Stato. Con un ma. "E' falso - si legge - che la sua azienda sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici che pure ci sono state e non si vuole trascurare".

Le nuove accuse. Un capitolo a parte merita la casa che l'uomo, nel tentativo di salvare dal pignoramento, intestò alla moglie dalla quale risulta ufficialmente separato. Oggi i due vivono insieme in un appartamento in affitto "per risparmiare". Su quella casa, la pratica del Csm racconta anche di intimidazioni di Bramini al custode giudiziario incaricato di vendere l'abitazione. Si parla di "minacce di morte con utilizzo di armi legalmente detenute" da parte di Bramini al funzionario. Le armi sono poi state ritirate dalla polizia col relativo porto d'armi. Il giudice dell'esecuzione immobiliare Romito, dunque, per il Csm, non ebbe atteggiamento persecutorio nei confronti di Bramini, ma seguì leggi e procedure standard.

La difesa di Bramini. L'avvocato dell'imprenditore, Monica Pagano, attraverso le colonne de La Stampa, continua a sostenere che il suo assistito "non è un furbo, ma una persona perbene" e che se anche il credito vantato nei confronti dello Stato non è di 4 milioni "ma della metà, è comunque una somma che se fosse stata riscossa gli avrebbe evitato il fallimento".

L'altra verità su Sergio Bramini, l'imprenditore "fallito per colpa dello Stato" ora consulente del governo gialloverde. La casa alla moglie, i debiti e 570 mila euro di stipendio. Un'indagine del Csm racconta diversamente la storia di Sergio Bramini, scrive il 14/04/2019 huffingtonpost.it. Molti lo ricorderanno come un imprenditore onesto e di successo rovinato dalle istituzioni, umiliato dai giudici e vessato dalle banche, costretto con moglie e figli a lasciare la casa in lacrime. Ma La Stampa racconta un'altra verità, contenuta in un documento del Consiglio superiore della magistratura che mette in discussione la rappresentazione che mass media, i due vicepremier e le autorità locali hanno dato di Sergio Bramini, l'imprenditore brianzolo reso celebre dalla trasmissione televisiva "Le Iene" perché "fallito nonostante 4 milioni di euro mai pagati dallo Stato e sgomberato da casa". Sostenuto da Lega e M5S in campagna elettorale, la sua villetta diventa meta di pellegrinaggio di parlamentari e ministri (Di Maio e Salvini in primis), ma anche di centinaia di persone solidali. Una sottoscrizione in suo favore raccoglie 150 mila euro. Dopo la formazione del governo gialloverde, Di Maio lo chiama come consulente al ministero a 46.800 l'anno per studiare norme a tutela degli imprenditori come lui.

La storia è questa: Bramini è un imprenditore nel settore rifiuti: la Icom, società che ha fondato nel 1980, lavora per enti pubblici. Fatturato intorno a 3 milioni di euro, una dozzina di dipendenti. Racconta Bramini che dal 2005 cominciano a non pagarlo. Per mandare avanti l'azienda, pagare le tasse e non lasciare gli operai senza stipendio, s'indebita con le banche per 1 milione di euro e mette a garanzia anche la sua casa. Nel 2011, con 4,2 milioni di crediti da enti pubblici non riscossi, si arrende e porta i libri in tribunale. La banca aggredisce la casa e il giudice lo manda «in mezzo a una strada».

Dopo un anno di istruttoria il Csm la racconta diversamente, in un documento di 18 pagine, sempre secondo la Stampa, si legge: I mutui bancari risalgono al 2001, prima del 2005: quindi non seguono il blocco dei pagamenti degli enti pubblici, ma lo precedono. Dopo il 2011, il curatore fallimentare avvia un'azione di responsabilità contro Bramini «per gravi condotte di aggravamento del dissesto»: gli imputa di "essersi attribuito quale amministratore, nell'ultimo periodo di vita della Icom, un compenso di 570 mila euro". La contestazione si chiude con una conciliazione: Bramini s'impegna a restituire 200 mila euro (mai versati). Il curatore aziona anche una revocatoria perché Bramini «circa un mese prima del fallimento aveva ceduto alla moglie, in sede di separazione consensuale», la casa ora pignorata (dopo lo sloggio forzato i due abitano insieme in affitto, "per risparmiare"). Anche i crediti vantati dalla Icom verso gli enti pubblici sono controversi. Secondo il tribunale fallimentare di Milano "non erano certi, liquidi ed esigibili, bensì tutti contestati e in buona parte insussistenti". In soldoni: tra cause perse e cessioni già effettuate, la Icom ha incassato solo 500 mila euro e nella migliore delle ipotesi vanterebbe circa 1,6 milioni di crediti, non 4,2 milioni.

Chiude La Stampa: "I debiti della Icom: 3,8 milioni di euro: 1,7 con il fisco; 1,1 con i fornitori, il resto con le banche. Dunque il principale creditore di Bramini (che non pagava Iva, Irpef, Irap, Tfr contributi previdenziali) è lo stesso Stato da lui additato come aguzzino. E per una cifra quasi doppia rispetto a quella, pur cospicua e ingiusta, che la Icom non ha mai incassato dalle pubbliche amministrazioni. Conclude il Csm: «È falso che la Icom sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici, che pure ci sono state e non si vuole trascurare». Perciò il Csm, per la prima volta in cinque anni, vota una "pratica a tutela" di un magistrato: il giudice Romito di Monza "aggredito, denigrato, offeso, diffamato", stretto in una tenaglia politico-mediatica alimentata da una campagna costruita su fake news.

"Bramini non è un furbo, ma una persona perbene", replica l'avvocato Monica Pagano, che lo assiste (...). L'avvocato spiega che Bramini ha sempre negato «comportamenti ostruzionistici»; i crediti della Icom erano di almeno 4 milioni «ma anche se li vogliamo dimezzare a 2 milioni, comunque è una somma che se fosse stata pagata avrebbe evitato il fallimento»; i 570 mila euro di stipendio «si riferivano a sette annualità ed erano lordi». Dunque circa 80 mila euro all'anno. L'ultimo bilancio della Icom nel 2010, redatto dallo stesso Bramini e pubblicato da Altreconomia, recita: perdite operative per 1,2 milioni di euro, compenso dell'amministratore 160 mila euro. L'anno dopo è fallita.

L'altra verità su Sergio Bramini, l'imprenditore "fallito per colpa dello Stato", scrive Il Corriere del Giorno il 14 Aprile 2019. Un’indagine del Csm racconta diversamente la storia di Sergio Bramini diventato consulente del governo gialloverde la casa alla moglie, i debiti e 570 mila euro di stipendio. Un documento del Consiglio Superiore della Magistratura mette in discussione la rappresentazione che mass media, i due vicepremier e le autorità locali hanno dato di Sergio Bramini, l’imprenditore brianzolo reso celebre dalla trasmissione televisiva “Le Iene” perché “fallito nonostante 4 milioni di euro mai pagati dallo Stato e sgomberato da casa”. In molti infatti  lo ricorderanno come un imprenditore onesto e di successo rovinato dalle istituzioni, umiliato dai giudici e vessato dalle banche, costretto con moglie e figli a lasciare la casa in lacrime. La sua villetta diventata meta di pellegrinaggio in campagna elettorale di parlamentari e ministri a partire da Luigi  Di Maio (M5S)  e Matteo Salvini (Lega) in testa , ma anche di centinaia di persone solidali. Una sottoscrizione in suo favore aveva raccolto 150 mila euro. Dopo la formazione del governo gialloverde, il vicepremier grillino Di Maio lo ha “sistemato” come consulente al ministero a 46.800 l’anno per studiare norme a tutela degli imprenditori come lui. La proposta è arrivata dal giornalista e neo-senatore 5stelle, Gianluigi Paragone, per poter “raccogliere le storie come la sua e x col nuovo esecutivo”. A raccontarla è sempre stato lui, l’imprenditore di Monza. Con una differenza sostanziale rispetto al quadro tracciato dalle Iene o dai partiti che sostengono il governo: il Bramini che racconta è quello che ha firmato tutti i bilanci della I.CO.M. Milano depositati in Camera di Commercio. Capitoli ufficiali di una storia che non c’entra nulla con l’esecuzione immobiliare sulla sua abitazione e che pare molto diversa da quella andata in onda in tv e sui social network. Importante fare una premessa: come più volte ribadito anche dal tribunale di Monza, Sergio Bramini non è “fallito” personalmente, e in Camera di Commercio non risultano peraltro “protesti” a suo carico. Il fallimento in questione che pende a Milano è quello della sua società. Che non è l’unica della “galassia Bramini”. All’inizio di giugno 2018, infatti, l’imprenditore-consulente risultava ancora amministratore della Techtrade-ICOM GEIE (rifiuti), amministratore unico e socio della Waste & Energy Srl (bilancio mancante in Camera di Commercio), consigliere del Consorzio Prom. Eco. e presidente del consiglio direttivo di Biopetrol (queste ultime due sono inattive). Ma non solo. È anche socio con il 30% delle quote di T.D. Plast Srl (ultimo bilancio depositato è quello del 2007) e della Omnia Service (5%).

Veniamo ora all’azienda “solida” affossata dallo Stato, la ICOM Milano. “Lavoravo per il 99% per gli enti pubblici. In Sicilia per quasi 19 anni, ho lavorato anche in Campania per l’emergenza rifiuti”, ha spiegato Bramini a Le Iene. “Fatturavo circa 350mila euro al mese, 26 operai, 9 impiegati”. Dopodichè, però, è successo qualcosa. “Sergio lavora bene -ricordava il servizio televisivo-, mai un incidente, mai una contestazione, fino a quando nel 2005…”. “Gli enti pubblici han cominciato a non pagare, o meglio mi pagavano con il contagocce, facevano piani di rientro che non rispettavano”, ricostruiva davanti alle telecamere l’imprenditore brianzolo. “I comuni dicevano: ‘I cittadini non pagano la tassa rifiuti, non incassiamo e quindi non riusciamo a far fronte’; eh nel frattempo io però continuavo a lavorare. I soldi non arrivavano. Io per diversi anni ho continuato a pagare l’Iva di fatture che non incassavo. Ma per cinque o sei anni, non per un giorno”. E qui parla di conseguenze drammatiche: “Non ce la facevo più – ricordava Bramini -. Ho dovuto accendere due mutui: un mutuo per 500mila euro sulla casa e un altro per 500mila sugli uffici, dovevo mandare avanti la società, pagare i dipendenti, il gasolio dei macchinari”. Il risultato raccontato ? “Pur avendo più di 4 milioni di euro di crediti dallo Stato -spiegano Le Iene – è stato costretto a fallire”. e  porta i libri in tribunale nel 2011. “Colpa dell’Ato Ambiente Ragusa che gli deve 2,2 milioni di euro –ha dichiarato il 3 giugno il ministro Di Maio-. Un credito enorme che non l’ha aiutato a salvare la sua azienda”.

Il Tribunale di Monza però ha già smentito questa ricostruzione: il pignoramento della casa deriva da un’ipoteca messa a garanzia di un mutuo datato 2001 a favore di ICOM , cioè quattro anni prima, e mai più restituito. Il fatto è che nel 2005 è successa un’altra cosa, che lo stesso Bramini mette nero su bianco dallo stesso. Il fatturato aziendale è diminuito sensibilmente (da 3,6 milioni dell’anno prima a 2,7 milioni di euro) in quanto come si legge nel bilancio “verso la fine del 2004 è giunta a termine la costruzione di una discarica controllata per la Provincia di Ragusa”. Quindi il lavoro è finito. “Nello stesso periodo è avvenuta la chiusura di un impianto di trattamento rifiuti realizzato dalla società per conto del Consorzio Intercomunale CE4 e a cui il Commissariato rifiuti della Regione Campania ne ha revocato l’autorizzazione”. Sapete per quale motivo? Lo spiega il sito AltraEconomia:  “Irregolare gestione effettuata dal Consorzio della discarica collegata all’impianto”. È un problema perché in quell’impianto in Campania “revocato” per irregolarità, ICOM avrebbe dovuto fornire un composto chimico brevettato per il trattamento del rifiuto organico che avrebbe “determinato introiti pari a circa 700mila euro all’anno”. I crediti sono comunque alti: 3,4 milioni di euro soltanto verso i clienti “Italia Sud”, e cioè enti pubblici siciliani e campani. Erano 4,2 milioni di euro nel 2002. Ma la situazione nel 2005, come scriveva lo stesso  Bramini , “è tenuta costantemente sotto osservazione e nei casi di sofferenza le pratiche di recupero vengono affidate a legali”. La società chiude con una perdita di 195mila euroe il nulla osta del collegio sindacale. Che non riscontra “operazioni atipiche e/o inusuali” quando la società “Daliam Snc di Bramini Sergio & C.” rileva il 71% del capitale di ICOM. È la proprietaria dell’immobile in cui hanno sede gli uffici della società, che paga un affitto a valori di mercato. Già a quella data la ICOM era indebitata però per 4,3 milioni di euro, un dettaglio questo che manca dalle ricostruzioni fatte in tv dalle Iene, che evidentemente sono poco pratiche di fact-checking e di bilanci societari. Infatti la prima voce non sono le banche (in testa il Monte Paschi di Siena o l’Istituto San Paolo IMI) ma bensì i fornitori. E in quello che dovrebbe essere stato l’anno della tempesta, la ICOM – che non ha 35 dipendenti ma in quel momento ne conta solo 13- riconosce un compenso da 161mila euro all’amministratore Sergio Bramini. Dopo un anno le cose cambiano. Il giro di affari della ICOM sembrerebbe risalire grazie a una gara vinta per la realizzazione di invasi di raccolta dei rifiuti a Jesolo. Le previsioni sono rosee anche per il 2007, visto l’esito positivo di una gara relativa a una discarica a Castel Volturno. I crediti restano alti a Sud (4.305.706 euro), tanto quanto i debiti verso i fornitori (2.512.568 euro) o le banche (per un totale di 5,5 milioni). La perdita economica sfiora ancora i 200mila euro. Bramini però sembra ottimista. “Il passaggio dei rapporti riguardanti l’attività di gestione dai Comuni alle ATO, dovrebbe garantire una costante e regolare puntualità dei pagamenti delle tariffe di smaltimento”. I sindaci della società invece la pensano diversamente. Mettono a verbale una “persistente situazione di tensione finanziaria causata prevalentemente dalle difficoltà di incasso di alcuni significativi crediti nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni”. E aggiungono: “Abbiamo verbalizzato più volte […] come tale situazione, di fatto, incida pesantemente sullo sviluppo delle potenzialità aziendali drenando risorse sia finanziarie sia organizzative, altrimenti riutilizzabili ed ingenerando una situazione generale di incertezza aggravata dai contenziosi in essere”. Ma se è vero che la Pubblica amministrazione dovrebbe essere sempre solvibile, questo “non deve comunque spingere ad ignorare che la società necessità di un apporto finanziario adeguato per fronteggiare l’ormai cronico e preoccupante sfasamento temporale tra incassi e pagamenti connaturato alla tipologia della propria clientela”, concludono i sindaci. È questa la loro ultima relazione reperibile. In quel momento delicato spunta anche un contratto derivato con Intesa Sanpaolo “Interest rate swap”  dalla durata di tre anni e valore nozionale di 700mila euro. E anche in quel caso, con l’azienda in perdita ed esposta a “generale incertezza”, all’amministratore Bramini è riconosciuto un compenso da 177mila euro. Il 2007 è un altro anno difficile, l’utile riprende ma è ridotto ai minimi termini (9mila euro). I ricavi calano per “aspetti aleatori legati all’aggiudicazione delle gare d’appalto”. Termina il lavoro di Jesolo, prende le mosse quello di una discarica comunale di Regalbuto (Enna). La “regolare puntualità dei pagamenti a lungo auspicata” non è stata garantita dal passaggio agli ATO, scrive Bramini, che conta 4,2 milioni di euro di crediti con enti pubblici di Sicilia e Campania e debiti per 4,5 milioni.

Stando ai bilanci della società però l’azienda di Bramini non starebbe lavorando in perdita poiché “la raccolta rifiuti è un servizio pubblico che non si può interrompere”, come sostenuto dalle Iene. E non starebbe “pagando l’Iva di fatture che non incassavo”: dal 2005 al 2010, bilanci alla mano, l’Iva è “in sospensione”, voce “debiti”. Inoltre nel 2007 la gestione delle discariche prosegue “grazie anche al rinnovo della gestione concessa dall’ATO Ragusa ambiente Spa”. Sono le parole di Bramini. E così ancora nel 2008 (10mila euro di utile, 15 dipendenti). “La società ha proseguito l’attività di gestione delle discariche di Vittoria e Scicli nella provincia di Ragusa grazie ai rinnovi dei servizi di conduzione e manutenzione degli impianti concessi dall’ATO Ragusa ambiente”. Non parrebbe esserci alcuna forzatura. Fino ad arrivare al 2010, l’ultimo anno prima dei “libri in tribunale” (liquidazione volontaria e fallimento). ICOM ha “terminato l’attività” nella provincia di Ragusa perché il rinnovo dei servizi non è stato confermato. Tra ricavi e costi si registra una perdita da 1,2 milioni di euro. I dipendenti sono 12. Bramini mette a verbale che le informazioni sulla esigibilità dei crediti ricevute in passato da “precedenti legali” sarebbero “inadeguate”. Procede alla svalutazione, che in quel momento si tratta  di 3,6 milioni di euro.

Dopo una controversa e faticosa battaglia giudiziaria, il Tribunale Fallimentare di Monza aveva deciso a suo tempo di requisire quella casa e di metterla all’asta. E mentre le prime aste erano andate deserte, nello scorso mese di novembre 2018 – a sorpresa – quella villa era stata assegnata all’imprenditore cinese Federico Zheng. Socio della catena di centri commerciali “999”, specializzati soprattutto in casalinghi – “ma io sono il titolare soltanto di quelli di Cassano d’Adda e Binzago” ha precisato – si era fatto ingolosire da quella incredibile possibilità: accaparrarsi una casa da 30 stanze, con finiture di pregio, parco, piscina riscaldata coperta e taverna, in vendita a una base d’asta così irrisoria A dire il vero, l’asta era stata dichiarata deserta dalla delegata alla vendita, visto che nessuno per ben due volte aveva risposto alla chiamata. Sulla scrivania della delegata però una busta c’era. Ed era quella presentata proprio dall’imprenditore cinese. Poco più di 500mila euro per aggiudicarsi una casa del valore di oltre due milioni di euro. Sergio Bramini aveva provato a opporsi e aveva presentato due ricorsi in tal senso per le presunte irregolarità ravvisate in quell’asta. Dichiarata deserta, appunto, eppure conclusasi il giorno dopo con l’apertura di una busta, quella presentata da Zheng. Ma per il momento quei ricorsi sono stati respinti, anche se il secondo dovrebbe ancora essere discusso l’8 maggio. Dal canto suo, Federico Zheng si era detto immediatamente pronto a tirarsi indietro. Non appena scoperta la storia dolorosa, anche dal punto di vista mediatico e giudiziario che si nascondeva dietro quella villa, aveva detto: “Sono pronto a tirarmi indietro, a patto però di non doverci rimettere la pena da 50mila euro prevista in questi casi». Di qui il suo dietrofront. “Speravo annullassero quell’asta come aveva chiesto Bramini– spiega -, ma questo non è avvenuto. E alla fine ho capito che tirarmi indietro per me sarebbe stato un rischio“. Non solo per la penale, ma soprattutto per il valore dell’immobile. E qui seguire il filo del ragionamento di Zheng, anche per le difficoltà nella lingua, non è facile. “Se la casa fosse stata rimessa all’asta, il suo valore sarebbe sceso ancora del 30 per cento. E io rischiavo di perderci i 500mila euro offerti al Tribunale per acquistarla“. Ma non solo. “Ho parlato col mio avvocato, mi ha fatto capire che avrei rischiato di avere conseguenze penali, di finire in galera se non avessi più voluto comprare la casa“.

Federico Zheng ci tiene a precisare: “Ho sempre lavorato e mi sono costruito tutto con le mie mani, vivo in Italia da 12 anni: non sapevo cosa si nascondesse dietro quella casa, vorrei sempre aiutare se potessi, ma alla fine i giudici hanno deciso che quell’asta non sarebbe stata annullata e non concludere l’acquisto per me sarebbe stato un pericolo“. Zheng aveva però chiesto ed ottenuto una dilazione di un mese per ottemperare a quell’acquisto. Perché l’aveva chiesta ? Lo spiega proprio lui: “speravo che l’asta venisse annullata, ho chiesto tempo in più proprio per quello, in attesa della decisione del Tribunale sul ricorso, ma è stato inutile. ed adesso Ci andrò a vivere con la mia famiglia, moglie e tre figli”. Bramini è un imprenditore che operava nel settore rifiuti: la Icom, società che aveva fondato nel 1980, lavorava per enti pubblici. Fatturato intorno ai 3 milioni di euro, una dozzina di dipendenti. Bramini raccontava che dal 2005 cominciano a non pagarlo, e lui per mandare avanti l’azienda, pagare le tasse e non lasciare gli operai senza stipendio, si era indebitato con le banche per 1 milione di euro offrendo  garanzia anche la sua casa. Nel 2011, con 4,2 milioni di crediti da enti pubblici non riscossi, si arrende e porta i libri in tribunale. La banca che lo aveva finanziato a quel punto vedendo persi i propri soldi, aggredisce la casa e il giudice lo manda come lui diceva “in mezzo a una strada“. Dopo un anno di accertamenti ed istruttoria il Csm, cioè il Consiglio Superiore della Magistratura  – come rivela il quotidiano La Stampa – invece, scopre altre verità e la racconta diversamente, in un documento di 18 pagine. In pratica i suoi mutui bancari accesi risalgono al 2001, ben quattro anni prima del 2005: quindi in realtà non seguono il blocco dei pagamenti degli enti pubblici, ma lo precedono. Il curatore fallimentare dopo il 2011,  avvia un’azione di responsabilità contro Bramini “per gravi condotte di aggravamento del dissesto” e  gli imputa di “essersi attribuito quale amministratore, nell’ultimo periodo di vita della Icom, un compenso di 570 mila euro“. La contestazione si chiude con una conciliazione: Bramini s’impegna a restituire 200 mila euro (che non vengono però mai versati). Il curatore fallimentare della Icom, aziona anche un procedimento di revocatoria in quanto  Bramini “circa un mese prima del fallimento aveva ceduto alla moglie, in sede di separazione consensuale”, la casa successivamente pignorata. E dopo dopo lo sfratto i due “sparati consensualmente” abitano insieme in una casa affitto, “per risparmiare“. Ma non è finita qui. Infatti anche i presunti crediti vantati dalla Icom verso gli enti pubblici sono controversi. Secondo il tribunale fallimentare di Milano “non erano certi, liquidi ed esigibili, bensì tutti contestati e in buona parte insussistenti”. In pratica ed in soldoni: tra cause perse e cessioni già effettuate, la Icom ha incassato solo 500 mila euro e nella migliore delle ipotesi vanterebbe crediti per circa 1,6 milioni di euro, e non di 4,2 milioni, come aveva sempre sostenuto. “I debiti della Icom: 3,8 milioni di euro: 1,7 con il fisco; 1,1 con i fornitori, il resto con le banche. Dunque il principale creditore di Bramini (che non pagava Iva, Irpef, Irap, Tfr contributi previdenziali)è lo stesso Stato da lui additato come aguzzino. E per una cifra quasi doppia rispetto a quella, pur cospicua e ingiusta, che la Icom non ha mai incassato dalle pubbliche amministrazioni. Conclude il Csm: “È falso che la Icom sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici, che pure ci sono state e non si vuole trascurare“.

Per questo motivo per la prima volta in cinque anni, il Csm,  vota una “pratica a tutela” di un magistrato: il giudice Romito di Monza “aggredito, denigrato, offeso, diffamato“, stretto in una tenaglia politico-mediatica alimentata da una campagna costruita su fake news. In perfetto stile… “neo-governativo”. Su quella casa, la pratica del Csm racconta anche di intimidazioni di Bramini fatte al custode giudiziario incaricato di vendere l’abitazione. Si parla di “minacce di morte con utilizzo di armi legalmente detenute” da parte di Bramini al funzionario. Le armi successivamente sono state poi ritirate dalla Polizia unitamente al relativo porto d’armi. Il giudice dell’esecuzione immobiliare Romito, dunque, per il Csm, non ebbe atteggiamento persecutorio nei confronti di Bramini, ma seguì leggi e procedure standard. “Bramini non è un furbo, ma una persona perbene”, ha replicato l’ avvocato Monica Pagano, suo difensore (…). L’avvocato spiega che Bramini ha sempre negato “comportamenti ostruzionistici“; i crediti della Icom erano di almeno 4 milioni “ma anche se li vogliamo dimezzare a 2 milioni, comunque è una somma che se fosse stata pagata avrebbe evitato il fallimento” e precisa che i 570 mila euro di stipendio “si riferivano a sette annualità ed erano lordi“. Quindi circa 80 mila euro all’anno. L’ultimo bilancio della Icom nel 2010, redatto dallo stesso Bramini e pubblicato da Altreconomia, riporta: perdite operative per 1,2 milioni di euro, compenso dell’amministratore 160 mila euro. L’anno dopo è fallita. Nonostante il conto economico dell’azienda Icom a non reggere, il compenso per l’amministratore resta comunque fissato a 159mila euro. “Sergio lavora bene, mai un incidente, mai una contestazione”, raccontano in televisione  Le Iene. Sicuramente. resta il fatto che anche nell’ultimo bilancio pubblico sono riportate due contestazioni a carico della ICOM per mancato versamento IRPEF, IVA e IRAP (oltre 200mila euro). Non è una novità visto che già in passato la società aveva già pagato a rate sanzioni risalenti addirittura al 1998. Incredibilmente la vicenda Bramini è diventata una bandiera indiscutibile. L’imprenditore, intervistato dal Corriere della Sera il 2 giugno 2018, sarebbe già a Roma al lavoro su “un pacchetto di norme che mi hanno detto che si chiamerà legge Bramini”. La domanda legittima da porsi è: quale Bramini?

Sergio Bramini, perché è fallito l'imprenditore di Monza? Scrive il 15 aprile 2019 la redazione de Le Iene. Quattro giorni fa il Consiglio superiore della magistratura ha scritto che Le Iene hanno rappresentato la vicenda giudiziaria di Bramini “in maniera distorta e faziosa turbando il regolare svolgimento della funzione giudiziaria”. Alessandro De Giuseppe ripercorre la storia di Sergio, per come l’abbiamo sempre vista noi, e prende in considerazione quanto scritto dal Csm. “Tutto quello che ho detto è vero” dice Sergio Bramini, l’imprenditore monzese di cui vi abbiamo raccontato la storia in numerosi servizi di Alessandro De Giuseppe. A più riprese abbiamo riferito di come Bramini sia fallito e abbia pure perso la casa anche perché gli enti pubblici per cui lavorava non lo pagavano. Quattro giorni fa, però, il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati italiani, ha scritto che Le Iene hanno rappresentato la vicenda giudiziaria di Bramini “in maniera distorta e faziosa turbando il regolare svolgimento della funzione giudiziaria”. In particolare, ha scritto il Csm, abbiamo “denigrato, offeso e diffamato” il giudice di Monza Simone Romito, che ha firmato il provvedimento di sgombero della casa di Sergio. In uno stato di diritto, quale quello in cui viviamo, nessuno può mettere in dubbio l’operato del Csm e sicuramente quando abbiamo provato a confrontarci con il giudice siamo stati irruenti. Il fatto è che a volte prendiamo troppo a cuore le persone e le storie che raccontiamo, e questo ci porta anche a sbagliare. Di questo ci scusiamo. Il Consiglio della magistratura, però, ha anche scritto che abbiamo barato “sia per ciò che è stato detto, sia per ciò che non è stato detto, sia per i modi, allusivi e denigratori, che sono stati utilizzati”. Questo non lo capiamo. Le cose, per come le abbiamo sempre viste, sono andate così: Sergio aveva un’azienda di raccolta e smaltimento rifiuti, che dagli anni 2000 ha cominciato a non essere pagata dalle amministrazioni pubbliche per cui lavorava.  Essendo la raccolta rifiuti un pubblico servizio che non si può interrompere una volta firmato il contratto, Sergio per andare avanti ha fatto dei debiti, ipotecando anche la casa. Ma dopo sei anni, continuando a non essere pagato, ha dichiarato fallimento, pur avendo un credito nei confronti di enti pubblici di più di 4 milioni di euro. Così, oltre all’azienda, Sergio perde anche la casa. Al terzo tentativo di sloggio forzato di Bramini da casa sua, si sono presentati anche Luigi Di Maio e Matteo Salvini, entrambi portando avanti la causa dell’imprenditore così come l’abbiamo raccontata noi. Ma la polizia è entrata in azione. E Sergio è stato costretto ad andarsene e la sua casa è finita all’asta. Il Csm, però, ritiene che le cose non stiano così e che noi e molti altri organi d’informazione e alcuni politici abbiamo raccontato una versione che non ci sembra aderente alla realtà. Dicendo, per esempio, che i debiti della società di Bramini “sopravanzavano di gran lunga l’attivo sociale che si potrebbe riscuotere ove gli enti pubblici coinvolti pagassero i loro debiti”. “Io l’anno del fallimento ho emesso fatture per 4.233.252, 93 euro. Erano fatture reali e avevo un passivo di 3.841.505, 66. Quindi, se la matematica non è un’opinione, non sussiste questo fatto”. Ma perché allora sostengono che sia così? “È una scelta che ha fatto il curatore”, ci dice l’avvocato di Bramini. “È ovvio che qualora arrivino contestazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, il curatore può alla svelta dire ‘per me non è un credito certo’. Ma se si fosse approfondito quei crediti potevano sicuramente essere incassati e portati alla ricchezza del fallimento”. In poche parole, sostiene l’avvocato di Sergio, i crediti c’erano, ma sarebbero stati conteggiati al ribasso per scelta del curatore fallimentare. “C’è la grave inesattezza del presidente del Tribunale di Monza secondo cui i debiti di Sergio sono di natura personale. Non è così”, spiega il suo avvocato. Il presidente del tribunale di Monza dice anche di aver mandato a Le Iene “due note di chiarimenti in proposito”, ma che di questo “non è stato dato in alcun modo conto”. In realtà tali note sono state, e sono tuttora, pubblicate sul nostro sito dove si possono legger integralmente (clicca qui per leggere uno degli articoli da cui si possono scaricare le note in questione). “Il 97% del mio fatturato era nei riguardi di enti pubblici, se mi avessero pagato forse sarei ancora a lavorare con i miei operai”, dice Sergio. “Non so se ho esagerato nei miei atteggiamenti. Bisognerebbe mettersi nei miei panni. Trovarsi a 64 anni senza un lavoro, rovinato, col pensiero di dover tirare avanti una famiglia”. Sicuramente abbiamo passato il limite inseguendo un giudice per strada e sicuramente ci stiamo sbagliando ancora, da qualche parte in questo racconto. Il fatto è che non capiamo dove e per approfondire non possiamo far altro che cercare un confronto con chi ha preso determinate decisioni. Non perché sia dovuto a noi, ma per il pubblico, che in una vicenda di questa rilevanza sociale, ha diritto di sapere. 

·         Le aste immobiliari e gli affari dei magistrati furbetti.

Sì al sequestro dei beni della giudice sotto processo per aver pilotato i fallimenti. In attesa della sentenza del giudice di merito, la Cassazione dà il via libera alla confisca dei beni. Patrizia Maciocchi il 6 novembre 2019 su Il Sole24ore. Via libera alla confisca per 1 milione e mezzo di euro sui beni dell’ex giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Roma ,Chiara Schettini, imputata nel processo per peculato, con l’accusa di essersi appropriata di oltre 1.115.000 euro del fallimento della Srl Tecnoconsult. L’allora giudice delegato, ora sotto processo a Perugia, era stata rinviata a giudizio dal Gup del Tribunale umbro, che riteneva esistente il fumus del reato, messo a punto, in almeno quattro procedure fallimentari, con l’aiuto di curatori, commercialisti e avvocati, per appropriarsi del denaro destinato al pagamento dei creditori. Un meccanismo che consisteva nel nominare curatori fallimentari infedeli e nel redigere, con l’aiuto di avvocati, falsi atti di insinuazione al passivo.

I consulenti infedeli. Il contributo di consulenti compiacenti sarebbe stato utile per redigere perizie “aggiustate”. Il tutto con l’obiettivo, secondo le imputazioni, di creare crediti fittizi da riscuotere e dividere. La Cassazione, con la sentenza 44899, limita il suo esame al fallimento della “Tecniconsult”, la quale, come parte civile, aveva chiesto il sequestro conservativo. Nello specifico, la misura era stata estesa anche ai beni dell’avvocato Rossella Galante, coimputata nel processo, essendo l’immobile della Schettini gravato da più trascrizioni, oltre che da un altro sequestro in favore di un altro creditore per oltre 3 milioni di euro. Secondo l’accusa, infatti, sarebbero quattro i fallimenti finiti alla ”attenzione” della Schettini: uno per circa 3 milioni di euro, un secondo per 770mila euro, Tecnoconsult per oltre un milione di euro e un quarto per oltre 860mila euro. La ricorrente, nella causa esaminata, contestava l’esistenza di una legittimazione ad agire in giudizio da parte della Tecnoconsult, per la mancata dimostrazione di un pregiudizio patito dalla società che non era persona offesa dal reato.

Parte civile la società danneggiata. La società si era, infatti, costituita solo dopo la chiusura del fallimento, ragione per cui si potevano considerare danneggiati soltanto i creditori rimasti insoddisfatti. Ma la Cassazione respinge il ricorso. I giudici, pur chiarendo che una decisione definitiva sulla fondatezza del reato di peculato spetta al giudice di merito, affermano la necessità di valutare la fondatezza della domanda di risarcimento della società, che, al contrario di quanto affermato dalla difesa, è persona offesa dal reato. Il peculato, per il quale la Srl si è costituita parte civile, è infatti un reato plurioffensivo perché non tutela solo la legalità, l’efficienza, la probità e l’imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche il suo patrimonio e quello dei terzi. In questo contesto si inserisce la pretesa risarcitoria della compagine, che non può dunque ritenersi manifestamente infondata. La domanda non è priva di basi neppure rispetto all’importo da sequestrare, che i giudici di merito hanno calibrato sulla misura del profitto che si ipotizza sia stato indebitamente conseguito dall’imputata. A questo vanno aggiunti i connessi pregiudizi economici per la società, che derivano dal non aver potuto disporre delle somme che, secondo la contestazione, sarebbero state sottratte all’attivo fallimentare. Per la Suprema corte un parametro ragionevole, in attesa della completa ricostruzione dei fatti.

Il Coa di Latina si dimette «Dal Tribunale gestione anomala delle nomine». Giulia Merlo l'1 Novembre 2019 su Il Dubbio. Bufera sulla presidente del tribunale Chiaravalloti. L’ordine chiede un’ispezione ministeriale. Il presidente Lauretti: «incarichi giudiziari non conferiti ad avvocati del foro, ma a colleghi romani e calabresi». Il consiglio dell’ordine degli avvocati di Latina si è dimesso quasi in blocco ( 10 consiglieri su 13), in aperta polemica con la presidente del Tribunale pontino, Caterina Chiaravalloti. La decisione è stata presa dopo più di un anno di tensione ed è arrivata insieme alla richiesta «con carattere di estrema urgenza, di una ispezione ministeriale» per verificare la gestione anomala nell’assegnazione degli incarichi giudiziari nei settori fallimentare, delle esecuzioni civili e della volontaria giurisdizione da parte di Chiaravalloti. E di rimuovere «ove accertata, la grave situazione di incompatibilità ambientale». Parole pesanti, quelle contenute nella nota del consiglio, «che ora decadrà, ci sarà il commissariamento e poi verranno indette nuove elezioni», ha spiegato il presidente, Giovanni Lauretti. La vicenda è iniziata nei primi mesi del 2019 ( Chiaravalloti è stata nominata nel gennaio 2018, prima è stata presidente del Tribunale di Castrovillari), quando il Consiglio ha registrato numerose segnalazioni di avvocati su un «anomalo e crescente ricorso ai professionisti iscritti in albi di altri circondari, soprattutto nelle nomine effettuale, nel settore della volontaria giurisdizione, dalla presidente del Tribunale, sin dal momento del suo insediamento nella funzione», scrive l’Ordine pontino. Di conseguenza, il Coa aveva chiesto la pubblicazione sul sito istituzionale del tribunale di tutti gli incarichi giudiziari conferiti nel settore civile, «come previsto dalle linee guida in tema di trasparenza dal Csm». La pubblicazione, tuttavia, ha riguardato solo un elenco di professionisti che avevano avuto incarichi, ma senza alcuna indicazione in merito al tipo di incarico nè sul giudice che lo aveva conferito. Davanti ad altre tre analoghe richieste, la risposta di diniego è stata giustificata con la necessità di «tutela della privacy». Secondo l’Ordine, tuttavia, una gestione anomala nelle nomine degli avvocati da parte della Presidente sarebbe facilmente dimostrabile coi numeri: nel corso del 2019, settore fallimentare, solo 4 incarichi su 47 sono stati assegnati a legali di Latina, mentre i restanti 43 a professionisti romani e calabresi. Nel 2018, invece, tutti e 48 gli incarichi sono stati assegnati ad avvocati pontini, «e le stesse penalizzazioni si registrano nel settore della volontaria giurisdizione e delle esecuzioni immobiliari». La scelta di nominare avvocati di altri fori, secondo Lauretti, sarebbe «assolutamente immotivata e senza alcuna giustificazione», anche perchè non si tratterebbe di questioni giuridiche di particolare complessità e dunque non reggerebbe nemmeno la eventuale necessità di nominare professionisti più esperti provenienti da fori in cui il contenzioso nel settore è maggiore. Proprio dalle reiterate richieste di chiarezza sulle nomine, sarebbe cominciato l’atteggiamento di ostilità da parte della presidente Chiaravalloti nei confronti dell’avvocatura: revocati gli inviti alle cerimonie di insediamento dei nuovi giudici, nessuna presenza alla Giornata Europea per la Giustizia Civile. «Eppure la nostra era una legittima domanda per l’accesso a informazioni che, in passato, ci erano state date senza alcun problema», chiarisce Lauretti. Lo stesso presidente, inoltre, si è sentito attaccato in prima persona: con un provvedimento che lui definisce «irragionevole e ingiustificato» da parte della Camera di Consiglio, è stato revocato l’incarico ai due curatori del fallimento del Latina Calcio, perchè avevano conferito allo stesso Lauretti l’incarico di difensore della curatela ai fini della costituzione di parte civile, nonostante la nomina avesse ottenuto il preventivo nulla osta del giudice delegato. «Si è trattato di un evidente attacco a me come presidente, perchè si sostiene in modo del tutto infondato che io abbia accettato un incarico incompatibile con la mia carica e che quindi abbia anche commesso una violazione deontologica. Invece, a conferma della mia correttezza, c’è la stessa legge professionale forense e un parere del 2016 del Cnf», ha spiegato Lauretti. Davanti a questi atteggiamenti e ad una «volontà di ghettizzazione dell’avvocatura pontina», la maggioranza del consiglio ha deciso di presentare le proprie dimissioni: una scelta forte, che punta ad accendere i riflettori sul caso sia a livello ministeriale, che di Csm e di Consiglio giudiziario. Ora il caso passa a Via Arenula, cui ora spetta la decisione di inviare gli ispettori ministeriali.

La “strana” asta per la masseria di Pulsano svenduta al senatore 5Stelle. Al di là di tutto, che non è poco, nessuno tanto più un senatore, del M5S, per aggiunta, non avrebbe dovuto mai partecipare all'asta contro una famiglia di Taranto dove è stato eletto (che l'ha anche votato) a cui la banca ha pignorato la masseria e che ha trovato la forza per ricomperarla. O no?. La Voce di Manduria sabato 04 maggio 2019. Sandra Amurri, autrice dell'articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano. “Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Piange come un bambino, Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli alla Masseria Galeota, che era anche la casa dove abitava con la compagna e la figlia di 16 anni, costruita con il sudore della fronte. Siamo a Leporano, sulla litoranea salentina, a 8 chilometri da Taranto, ai piedi del Parco archeologico di Saturo, tra costoni rocciosi, insediamenti in grotta, sorgenti d’acqua e natura rigogliosa. Enzo Papa, nel 2002, acquista per 300 mila euro, grazie anche alla buonuscita del padre, quello che era un rudere. Chiede un mutuo di 200 mila euro, erogato da Banca della Nuova Terra, per trasformarlo in una masseria B&B, oleificio, ristorante: costo della ristrutturazione 850 mila euro. L’attività va molto bene, fino a che, per la crisi economica, sommata alla tragedia dell’Ilva con le foto dei camini che spruzzano veleno e fanno il giro del mondo, i turisti iniziano a scarseggiare ed Enzo non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca, nel 2012, pignora la masseria: viene messa all’asta. La masseria viene valutata circa un milione di euro. Le prime tre aste vanno deserte, altre annullate per ricorsi vari, fino a quando il prezzo del bene arriva a scendere a 375 mila euro. Nel frattempo, Enzo, per poter continuare a lavorare, chiede – e ottiene dal giudice dell’esecuzione – l’affitto della masseria, per sette mesi versa 12.500 euro. Il 17 gennaio scorso decide di partecipare, con la società Kanapa srl, all’asta telematica per tentare di “ricomprare” la masseria: versa una “caparra” di 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo d’acquisto), come da procedura, depositando l’offerta al ministero della Giustizia che la invia, per prassi, al sito che gestisce le aste telematiche. Dal ministero, via Pec, arriva la ricevuta della registrazione dell’offerta. Ma quando Tonia Macripò, delegata alla vendita dal Giudice di Taranto, Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale risulta una sola offerta: quella di Mario Turco, senatore del M5S, anche se i bonifici sono due (uno di Turco e uno di Kanapa). Dell’offerta di Kanapa non si ha traccia. Il sito “Aste telematiche” invia al delegato una comunicazione via email: l’offerta di Kanapa srl non era stata inviata dal ministero al portale delle aste, perché era stato rinominato il file generato all’atto della registrazione. Il delegato dal Giudice aggiudica quindi la masseria al prezzo d’asta di 375 mila euro a Mario Turco, senza mettere a verbale l’esistenza di un secondo bonifico, quello di Kanapa srl. Il legale di Kanapa srl, Stefania Maselli, deposita istanza di revoca al Tribunale di Taranto, chiedendo di invalidare l’aggiudicazione della masseria e di indire l’asta, in quanto non vi era stata alcuna competizione con i conseguenti rialzi, perché i partecipanti, visti i bonifici, dovevano essere necessariamente due, e dimostrando di non aver violato la legge nell’aver rinominato il file. Ma il senatore Turco si oppone all’istanza di revoca presentata da Kanapa. Il giudice Paiano rigetta l’istanza, motivandola con la presunzione che il bene non è detto sarebbe stato aggiudicato a un prezzo più alto, anche se si fosse svolta l’asta. Kanapa srl deposita, attraverso il suo legale, un reclamo formale al Tribunale di Taranto: l’udienza è fissata per il 26 giugno prossimo. Nonostante le diverse opposizioni pendenti con istanza di sospensiva, il 3 aprile scorso, il giudice Paiano, firma il decreto di trasferimento in favore del senatore Turco, e il 29 aprile, senza alcuna notifica al signor Papa, immette il bene nel possesso di Mario Turco. Lo stesso giorno, alla masseria Galeota arrivano due carabinieri, il funzionario senza delega dell’Istituto vendite giudiziarie Paolo Annunziato, e Grazia Peluso, mamma del senatore Turco, con il legale del figlio. L’inventario dei beni presenti dura otto ore, con tanto di beneauguranti paste e cappuccino offerti dalla mamma del senatore. “Lavoro da molti anni anche per il Sunia, il sindacato degli inquilini, faccio tanti sfratti, ma non ho mai visto tanta disumanità. Anche il suo legale avrebbe chiesto all’onorevole Turco di concedere po’ di tempo in più, ma inutilmente”, racconta Alexia Serio, l’avvocato della famiglia Papa presente in loco. Cambiata la serratura, consegnate le chiavi a un incaricato del senatore Turco, al cancello della masseria Galeota sono stati affissi i sigilli: dentro, chiusi, sono rimasti tutti gli animali allevati dalla famiglia Papa. “Prego che il senatore si muova a pietà”, aggiunge Enzo Papa. “Non so dove andare a vivere. Fra un mese, entro il 28 maggio, verrà tutto distrutto… E nel vedere svanire i sacrifici di una vita, ho creduto di morire… La vigilanza privata che ha istituito il senatore mi ha anche vietato di entrare in casa per prendere un cambio di vestiti, e i libri di scuola di mia figlia. Ho scritto un mese fa ai membri della Commissione Giustizia del Senato, spiegando la mia storia, ma non ho ricevuto risposta”. Nemmeno dal senatore Arnaldo Lomuti (M5S), che il 17 novembre 2018 aveva presentato un’interrogazione in Parlamento proprio sulle aste definite “vili”, con riferimento al meccanismo “consolidato e finalizzato all’espropriare a soggetti falliti ed esecutati”: un meccanismo più volte denunciato, inutilmente. Sandra Amurri

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie, scrive Maria Elena Vincenzi il 10 aprile 2018 su L'Espresso. Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi. Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo. Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia. L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni. Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati. L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi. Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte». A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa». La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito. Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «Lavicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura». Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma. Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso». Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno. Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.

Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

Legislatura 18 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-00820. Pubblicato il 7 novembre 2018, nella seduta n. 55.

LOMUTI, CRUCIOLI, D'ANGELO, LANNUTTI, DI NICOLA - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

alcuni dei fatti riportati nella presente interrogazione sono stati già oggetto di precedenti atti di sindacato ispettivo della XVII Legislatura, 4-06370 e 4-06628, a prima firma del senatore Buccarella, dirette al Ministro pro tempore della giustizia, ai quali ci si riporta integralmente, tenendo conto che gli stessi non hanno mai ottenuto alcuna risposta;

inoltre, la questione che si intende sottoporre con il presente atto, fu evidenziata già dall'on. Zazzera (IDV) nel 2010 (AC 4-07339);

sul punto, un articolo della testata "TarantoBuonaSera" del 13 luglio 2016 riporta un allarmante quadro riferito alla circoscrizione del Tribunale di Taranto, nella quale ci sarebbero circa 750 case all'asta, con l'effetto inevitabile della perdita della propria abitazione per numerose famiglie;

per quanto riguarda il Tribunale di Taranto, nel corso degli ultimi anni, diversi cittadini hanno lamentato abusi e violazioni di legge da parte di magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento per i loro diritti;

i suddetti atti di sindacato ispettivo, infatti, riportano casi emblematici di cittadini opponenti a procedimenti di esecuzione immobiliare che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto;

in particolare, gli atti ispettivi citati riportavano i casi dei signori Montemurro, Provveduto, Bello, Spera, e dei coniugi Notarnicola;

le doglianze riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio "sistema" aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche;

nell'atto 4-06628 veniva riportata la denuncia penale del signor Delli Santi, depositata presso la Questura di Taranto in data 23 settembre 2016 (inviata per conoscenza anche al Ministro pro tempore della giustizia), nella quale, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema (da lui definito "criminale, consolidato ed efficace") finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati. Inoltre, nella denuncia, sarebbe stata evidenziata l'esistenza di una rete di collegamenti tra i tribunali di Taranto e Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nel precedente atto di sindacato ispettivo 4-06370 in riguardo alla vicenda della signora Spera;

la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line "Basilicata24" attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;

sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all'avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un'evoluzione in peius della situazione. Lo stesso legale sarebbe intervenuto più volte sulla non astensione dei magistrati tarantini delle sezioni esecuzioni e fallimenti nei casi di amicizie o inimicizie, nonché sulle trattazioni anche in altre fasi dello stesso magistrato che si era già occupato della questione in giudizi e gradi aventi ad oggetto le stesse questioni. Consta agli interroganti che l'avvocato Anna Maria Caramia sia destinataria di due esposti all'ordine degli avvocati su istanza del presidente del Tribunale di Taranto e del presidente dell'ordine degli avvocati. Ella ha motivo di ritenere che le suddette azioni siano frutto della volontà di impedirle di continuare la propria azione a difesa dei vessati da parte del tribunale;

considerato che, a giudizio degli interroganti:

dai fatti esposti si evincerebbero importanti anomalie occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale di Taranto, così come per la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini;

purtroppo, nel nostro Paese, si registra un importante numero di omicidi-suicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta ai cittadini la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme;

a giudizio degli interroganti, tali anomalie, impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto e presso il Tribunale e la Procura di Potenza,

si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall'ordinamento presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione di necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

Cercola, indagine sulle aste: Castello del “Re degli orafi” svenduto per un indirizzo sbagliato, scrive martedì 12 febbraio Paolo Lami su Secolo D’Italia. Un Castello di tre piani nel cuore di Cercola, provincia di Napoli, parte dell’immenso patrimonio immobiliare di una storica e famosa famiglia di orafi campani imparentati con una nobildonna italo-svizzera, danneggiato dal terremoto dell’80, valutato un milione di euro, e, poi, finito all’asta e svenduto per quattro soldi – quasi un decimo del suo valore reale – grazie ad una serie di incredibili passaggi su cui sta indagando la Procura di Napoli. E affittato, a un certo punto, anche a un pregiudicato legato al clan Sarno. È l’incredibile storia emersa grazie alla determinazione di uno dei proprietari di quel Castello che non si è voluto arrendere e, per anni, ha tentato di denunciare pubblicamente, senza essere creduto, quanto stava accadendo. Una lotta impari che ha portato il proprietario a bussare a tutte le porte istituzionali, perfino al Quirinale, per farsi ascoltare. Inutilmente. In un caso si è persino sentito rispondere con molta franchezza: «Se sei incudine stai, se sei martello dai». Come dire: abbozza e zitto. Ora, finalmente, sulla vicenda stanno indagando gli investigatori del commissariato di Ponticelli guidati dal vicequestore Maria Maione delegati dal pm partenopeo Gennaro Damiano. L’inchiesta, inizialmente archiviata nel gennaio 2016 perché priva «di elementi di specificità atti a configurare ipotesi di reato», dopo un esposto presentato ai carabinieri dai proprietari del Castello di Cercola nel 2014, è stata riaperta recentemente. E punta a far luce anche su un altro aspetto incredibile: la sparizione dei finanziamenti per la ricostruzione del dopo-terremoto del 1980 in Campania. Milioni di euro scomparsi nel nulla e mai arrivati a chi ne aveva diritto per ricostruire gli edifici danneggiati e periziati, in questo caso, dal Comune di Cercola. Dove sono finiti quei soldi?

Il Castello di Cercola danneggiato dal terremoto, ma i fondi sono spariti. Ma partiamo dall’inizio, da quando quel Castello, nel 1980, viene danneggiato dal terremoto che devasta la Campania. Il Comune di Cercola invia i suoi tecnici che periziano l’immobile e stimano i danni in 286 milioni di lire. La procedura prevede che sia la stessa amministrazione locale a richiedere, attraverso il proprio ufficio tecnico, i fondi stanziati e a scegliere, tramite alcune gare d’appalto, le ditte che dovranno ripristinare il Castello di Cercola anche con iniezioni di cemento armato per rinforzare l’intera struttura. Passano i mesi, poi gli anni ma dei fondi non c’è traccia. Alle legittime e ripetute richieste dei proprietari dell’edificio viene risposto di attendere. Oggi quei soldi non si sa che fine abbiano fatto o chi li abbia intascati. Di certo ai proprietari del Castello non è mai arrivato nulla. Agli atti del Comune di Cercola, a guida Pd, non risulta neanche la perizia con la quale lo stesso Ctu dell’amministrazione locale stabilì i danni in 286 milioni di lire. Tutto scomparso. Il ministero competente rinvia alla Regione Campania, amministrata dal Pd Vincenzo De Luca. E, informalmente, i proprietari del Castello vengono a sapere che non è il primo caso di questo genere. Ma è tutto scomparso, documenti e finanziamenti. Come è potuto accadere?

Nel frattempo muore il capostipite della famiglia dei proprietari del Castello di Cercola, orafi da generazioni e proprietari, fra l’altro, anche di uno dei parchi più prestigiosi di Ischia, il Negombo, e della spiaggia di San Montano. E le successioni iniziano a complicarsi fra figli, nipoti e zie che si contendono lo sterminato patrimonio immobiliare del “Re degli orafi”. Si arriva così alla divisione dei beni attraverso un giudice. Prima vanno all’asta appartamenti e locali commerciali di Napoli e, poi, per ultimo, il Castello di Cercola valutato dai periti oltre 1 milione di euro. E qui inizia la magagna. Su cui ora indaga la Procura di Napoli e il Commissariato di Ponticelli. Perché le pubblicazioni dell’asta parlano di un immobile che si trova in corso Ricciardi 197, a Cercola, una via inesistente. A Cercola, in realtà, c’è Corso Domenico Riccardi. Al civico 197 di Corso Domenico Riccardi – non Ricciardi – c’era una salumeria, all’epoca, ora c’è un negozio di motorini, come hanno accertato, nel corso di un recente sopralluogo, gli investigatori del Commissariato di Ponticelli. Ma il Castello di certo non si trova neanche lì, si trova in una via nascosta aldilà di un arco, viale Mazzei 17, a quasi un chilometro di distanza.

Inutili le richieste degli eredi del castello di Cercola a notai e giudici. Uno dei proprietari si accorge dell’errore perché i conoscenti di Cercola che incontra iniziano a chiedergli cosa ci sia sotto, ipotizzando una truffa messa in atto addirittura dalla famiglia, conosciutissima e stimatissima, che ha mandato il Castello di Cercola all’asta per poter dividere i beni fra gli eredi. Insomma, oltre al danno anche la beffa. Anche perché inutilmente e ripetutamente uno degli eredi scrive e chiama più volte lo studio notarile incaricato della vendita chiedendo da dove fosse stato preso questo indirizzo sbagliato e pregando di modificarlo. Niente. Scrive anche un fax al giudice chiedendo la rettifica. Inutilmente. Chiede formalmente la documentazione ma gli viene negata. Eppure si scopre che il perito che ha stilato la stima del Castello si è recato, per ben due volte, all’indirizzo corretto, in viale Mazzei 17 e non in Corso Ricciardi. Ma, sulle carte, l’indirizzo del Castello di Cercola continua a restare quello sbagliato di Corso Ricciardi.

Cosa comporta tutto questo? Che le aste si susseguono, una dopo l’altra, andando a vuoto poiché gli acquirenti interessati non trovano, ovviamente, l’immobile ogni volta che vanno a visitarlo, come pubblicizzato, in Corso Ricciardi, che, come abbiamo visto, non esiste a Cercola. E al 197 di Corso Domenico Riccardi c’è, invece, la salumeria che poi lascerà il posto a un negozio di ciclomotori. Del Castello “nascosto” nella stradina laterale, viale Mazzei 17, nessuna traccia. Il prezzo dell’immobile scende, così, di asta in asta a vuoto. Mentre i proprietari continuano inutilmente a scrivere e a telefonare ai giudici e ai notai chiedendo di correggere l’indirizzo. Si avvicendano tre notai, gli ultimi due padre e figlio. E tutti perseverano con lo stesso errore dell’indirizzo. I proprietari si rivolgono anche al Consiglio dei Notai di Napoli che avvisa il notaio responsabile della vendita. Neanche questo serve. L’indirizzo resta, comunque, quello sbagliato. Alla fine il Castello viene frazionato in lotti e svenduto. Il valore iniziale di oltre 1 milione di euro è un ricordo lontano.

Le aste del Castello di Cercola vanno a vuoto per quell’indirizzo sbagliato. Un appartamento di 143 metri quadri nel Castello di Cercola con una pertinenza di 396 metri quadri di giardino a frutteto viene venduto a 45.000 euro, laddove un valore di mercato oggi, per un appartamento del genere, secondo il Borsino Immobiliare e Immobiliare. it è di almeno 340.000 euro considerando un prezzo medio al metro quadro di 1.898 euro (ma in zona si parla anche di 2.700 euro al metro quadro) e una superficie commerciale di 179,6 metri quadrifra appartamento e giardino. In pratica, di asta in asta andata a vuoto, a causa dell’indirizzo sbagliato, l’appartamento è stato venduto quasi a un decimo del valore stimato. Come se non bastasse, uno dei locali del Castello viene affittato ad un pregiudicato arrestato nel 2015, che si vanta, di fronte agli acquirenti che si presentano per vedere gli appartamenti in vendita, di essere il cognato di un noto malavitoso legato al clan Sarno. Ai potenziali acquirenti il pregiudicato racconta, con dovizia di particolari, mettendoli in fuga, delle gesta del cognato: decapitazioni e occultamenti di cadavere. Un altro appartamento del Castello di Cercola di 147 metri quadri più un cortile viene dato via a 39.000 euro. E tutto il piano superiore, compreso di terrazzo e torretta – 188 metri quadri in totale – viene venduto a circa 45.000 euro. Solo poco prima di quest’ultima vendita, quando oramai il Castello di Cercola è quasi completamente alienato e smembrato, viene finalmente modificato l’indirizzo mettendo sugli annunci dell’asta quello giusto. Ma oramai è troppo tardi. Il Castello è stato svenduto. Di quel bene da oltre 1 milione di euro gli eredi non vedranno che un pugno di soldi.

Bari, parcelle gonfiate: condannato a 5 anni ex curatore fallimentare. L'avv. Gaetano Vignola si sarebbe appropriato di 6 milioni di euro falsificando mandati di pagamento di otto procedure. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2019. l Tribunale di Bari ha condannato alla pena di 5 anni e 2 mesi di reclusione l’avvocato civilista barese Gaetano Vignola, ex curatore di numerose procedure fallimentari. Vignola è stato ritenuto responsabile dei reati di peculato e falso, per essersi appropriato di circa 6 milioni di euro falsificando i mandati di pagamento di otto procedure fallimentari, alterandoli con l’aggiunta di cifre per gonfiare gli importi. I fatti contestati risalgono agli anni 2007-2010. Per altri tre coimputati, accusati in concorso con Vignola di corruzione in atti giudiziari, l’imprenditore Sergio Rossi, il commercialista Lorenzo Ferrari e Michele Di Lella, fiduciario e collaboratore dell’azienda di Rossi, i giudici hanno dichiarato la prescrizione. Questa seconda vicenda risale al 2008. Secondo l'accusa Vignola avrebbe ricevuto la somma di 260 mila euro per favorire l’imprenditore in una procedura fallimentare. Il pm Marco D’Agostino aveva chiesto per Vignola la condanna a 9 anni di reclusione e per gli altri il non doversi procedere per prescrizione. La difesa di Vignola aveva chiesto la riqualificazione del peculato in truffa, non condivisa dai giudici. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 90 giorni.

Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Provvedimento non definitivo: il caso riguarda l'acquisto di un immobile, vicenda per la quale è stato archiviato in sede penale e in precedenza prosciolto disciplinarmente, scrive il 12 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Il giudice Michele Monteleone è stato destituito dalla magistratura su decisione della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di un provvedimento non definitivo disposto sugli stessi fatti per i quali in passato la precedente consigliatura dell’organo di autogoverno della magistratura aveva «assolto» il magistrato, e per i quali il gip del Tribunale di Lecce, su richiesta della stessa Procura salentina, aveva archiviato la posizione nel procedimento penale. Tutto ruota intorno a una vecchia indagine sulla gestione di alcuni fascicoli fallimentari che il giudice, oggi presidente di sezione del Tribunale di Benevento, curava quando era in servizio nella sezione Fallimentare del Tribunale di Bari. Nel mirino, sostanzialmente, era finita la presunta mancata «sorveglianza» sui mandati di pagamento che sarebbero stati truccati dall’avvocato barese Gaetano Vignola e in cambio dei quali, il magistrato e la sua compagna, commercialista (anche la posizione di quest’ultima era stata archiviata) avrebbero potuto acquistare da Vignola un appartamento nel centro di Bari a un prezzo inferiore a quello di mercato. Il fascicolo era stato aperto a gennaio 2012, quando la procura di Bari aveva trasmesso per competenza uno stralcio dell’indagine sull’avvocato Gaetano Vignola. Nel procedimento penale, però, l’ipotesi iniziale non ha retto visto che al termine delle indagini era emerso come fosse stato proprio Monteleone a denunciare le presunte falsificazioni compiute da Vignola. I pm salentini non avevano dunque ritenuto la sussistenza di elementi di responsabilità a carico di Monteleone, riconoscendo la correttezza del suo operato. Una valutazione condivisa anche dal giudice delle indagini preliminari.

Chiusa la vicenda penale, però, era partita quella disciplinare a carico del magistrato. Nel mirino, sostanzialmente, la sua mancata astensione in procedure per le quali era interessata la compagna e poi un presunto vantaggio legato alla storia dell’appartamento. Un primo procedimento disciplinare, però, si era concluso anche in questo caso con un nulla di fatto. Il Csm aveva infatti «assolto» Monteleone. Una decisione, quest’ultima, impugnata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione. Il Supremo Collegio, a Sezione Unita, aveva ordinato un nuovo processo disciplinare. E venerdì scorso la Sezione disciplinare del nuovo Consiglio, andando anche oltre rispetto alla richiesta della accusa che chiedeva per Monteleone la perdita di tre mesi di anzianità, ha disposto la sanzione più grave: la rimozione. Un provvedimento, va detto, che non è definitivo, né immediatamente esecutivo.

«Si tratta di una decisione severa e che non ci aspettavamo, ma riteniamo il giudice Monteleone estraneo alla vicenda e per questo impugneremo il provvedimento», fa sapere il dottor Alfonso Pappalardo, presidente del Tribunale di Brindisi e «avvocato» di Monteleone nel procedimento disciplinare. Insomma, la palla torna davanti alla Cassazione.

Per questo motivo, forse, cioè per avere un curriculum immacolato e senza macchie da ritrovarsi sul web, che l’avv. Gaetano Vignola, tramite il suo avvocato, chiese al dr Antonio Giangrande, di voler deindicizzare il suo nome dai siti che esso gestiva. Esso chiedeva, a seguito delle nuove normative relative al Diritto all’Oblio e alla Privacy, la immediata rimozione e cancellazione dal web dei dati personali, in specie del nome e cognome e ogni riferimento a fatti di cronaca pregressi per i quali la stampa ha dato comunque già ampiamente notizia sui giornali in passato, in modo che i motori di ricerca NON debbano più pescare le notizie obsolete a Lui riferibili, atteso che NON rivestono più i connotati dell’interesse pubblico.  Esso continuava dicendo che al riguardo infatti, e per totale trasparenza processuale, la vicenda giudiziale si  è conclusa con una sentenza già passata in giudicato con la condanna ad anni 2, pena sospesa  (così come già riportato dalla stampa locale quasi 3 anni fa) e che il procedimento civile si è concluso con la transazione proposta nel 2014 c/o  il Tribunale Fallimentare ed accettata in via transattiva dalle stesse curatele (n.8), cosi come da Voi pubblicato, già nel lontano luglio 2016.  Il Vignola, per gli effetti, specificava ed intimava che il destinatario WEBMASTER del sito web interessato (erroneamente indicava un sito web, ove in effetti era il libro pubblicato su Google Libri: GIUSTIZIOPOLI - ANTONIO GIANGRANDE), che ha pubblicizzato oltre ai fatti, anche il nome e cognome del mio cliente, è tenuto – senza potersi trincerare dietro il diritto di cronaca – a cancellare IMMEDIATAMENTE i dati e/o a deindicizzarli in modo tale che Google non “peschi” più l’articolo. Puntualizzava che la richiesta di cancellazione rimanda alle prescrizioni già sancite dalle seguenti note Sentenze della Suprema Corte di Cassazione:

1.    Sentenza Cassazione n. 5525/12 del 5 aprile 2012: il giornale è tenuto – a semplice richiesta dell’interessato a:

cancellare la pagina con la notizia;

oscurare il nome e cognome dell’interessato, rimuovendo i tag che collegano tali dati ai motori di ricerca, impedendo così che, alla digitazione degli estremi dell’interessato, l’articolo possa essere ripescato;

mantenere l’articolo nell’archivio interno del sito del giornale, ma provvedendo alla sua deindicizzazione;

2.    Sentenza Cassazione n. 13161 24 giugno 2016: il diritto all’oblio quando ancora il processo è in corso, se la notizia – intesa come fatto in sé e per sé – o la singola fase del processo cui si riferisce l’articolo sono ormai vecchi.

Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento Generale sulla protezione dei dati), prettamente art. 17: Diritto alla cancellazione («diritto all'oblio»): L'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l'obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti:

a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;

3 Art.17 del GDPR. Ovviamente non si contesta la liceità ab origine dell’articolo stesso - in quanto libera espressione del diritto di cronaca dell’epoca-, ma la sua attuale sussistenza essendo ad oggi, 27 giugno 2018, notizia ormai obsoleta e anacronistica.

La richiesta così concludeva: Nel caso in cui, non ricevendo risposta nei termini di legge ovvero venisse disattesa la presenta richiesta, si anticipa che si procederà mediante ricorso al Garante della Privacy e/o mediante le Autorità Giudiziarie competenti per eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori che non abbiano adottato le misure necessarie previste o non si siano conformati alle norme, oltre eventuali azioni per il risarcimento del danno occorso al richiedente Avv. Gaetano Vignola.  

Inchiesta sui giudici fallimentari di Bari, il tribunale di Lecce archivia 8 posizioni. A vario titolo gli indagati erano accusati di peculato e falso materiale e ideologico, scriveva il 13 febbraio 2014 Il Corriere del Mezzogiorno. Il Tribunale di Lecce ha archiviato la posizione di otto persone, tra cui il giudice del Tribunale Fallimentare di Bari Luigi Claudio e sette cancellieri, coinvolte nell'indagine sulla gestione di alcune procedure fallimentari. Il giudice ha accolto la richiesta della Procura di Lecce. L'inchiesta era partita da alcuni accertamenti svolti dal pm della Procura di Bari, Ciro Angelillis, e dalla guardia di finanza sull'avvocato Gaetano Vignola, accusato insieme con altre sei persone di reati che vanno, a vario titolo per i diversi indagati, dal peculato al falso materiale e ideologico, dall'omessa dichiarazione dei redditi alla corruzione in atti giudiziari. Il fascicolo fu trasmesso per competenza alla Procura di Lecce che dal dicembre 2012 ad oggi ha chiesto l'archiviazione con due distinti e successivi provvedimenti, l'ultimo depositato nelle scorse settimane, e ha chiuso le indagini per i restanti indagati, tra cui lo stesso Vignola. Nel decreto di archiviazione nei confronti di Claudio e degli altri sette, che segue quello di un anno fa nei confronti di altri sette indagati tra cui quattro giudici baresi, il gip condivide «le ragioni analiticamente esposte dal pm" riportando interamente la richiesta di archiviazione a firma del procuratore aggiunto Antonio De Donno e del sostituto Antonio Negro. ''Dalle indagini svolte - scrivono i pm leccesi - non è emersa alcuna consapevolezza da parte del suddetto indagato (il giudice Luigi Claudio, ndr) che con il proprio comportamento, quale giudice delegato della procedura fallimentare, avrebbe agevolato la consumazione del reato di peculato da parte di Vignola, con il quale non risulta, peraltro, aver avuto alcun tipo di ulteriore rapporto».

Ma dai dati di fatto, risulta, però, che il nome Vignola sia sempre attuale.

Bari, fallimenti truccati: condannato Marco Vignola. La Corte dei conti: l’avvocato pagherà 280mila euro per il danno all’immagine dello Stato, scrive Massimiliano Scagliarini il 12 Febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Sono stati gli articoli di giornale sulla sua condanna penale a innescare i giudici contabili. Ed è proprio a seguito della pubblicazione delle notizie sui reati compiuti nel ruolo di curatore del fallimento «Nova Tessile» che l’avvocato barese Marco Vignola, 49 anni, è stato condannato a risarcire il danno d’immagine all’ordine giudiziario: poco più di 281mila euro, pari al doppio della cifra che - secondo le indagini all’epoca compiute dalla Finanza - Vignola avrebbe sottratto illecitamente dai conti di una procedura. La sentenza della Corte dei conti (presidente facente funzione Daddabbo, relatore Laino) ha ridimensionato, e di molto, la pretesa economica della procura contabile, che con il viceprocuratore Pierpaolo Grasso (oggi trasferito nelle Marche e sostituito dal collega Carlo Picuno nell’aprile scorso chiese e ottenne il sequestro conservativo dei beni di Vignola (29 appartamenti sparsi tra Bari, Vietri di Potenza, Conegliano e San Vito di Cadore, oltre a vari conti correnti) per un valore pari a 3,7 milioni di euro. In sede di convalida, infatti, il sequestro fu circoscritto a 281mila euro, perché nel frattempo il notissimo professionista barese aveva proceduto a restituire buona parte dell’ammanco dai conti del fallimento, inizialmente quantificato in circa 1,5 milioni di euro e poi progressivamente ridotto a 146mila euro: per quest’ultima somma, peraltro, la stessa curatela ha nel frattempo eseguito un pignoramento sui beni di Vignola. I giudici contabili hanno dunque preso atto della «già avvenuta precostituzione di un titolo giudiziale idoneo a ristorare il danno» (il pignoramento dei 146mila euro), e hanno provveduto a quantificare il danno d’immagine prodotto dal «disdicevole episodio», comunque limitato per via «dell’assenza di un pubblico dibattimento penale». Dopo l’arresto cautelare patito nel 2011, nel 2015 Marco Vignola patteggiò una condanna poi divenuta definitiva a due anni e quattro mesi (di cui due anni coperti da indulto) per peculato, truffa aggravata, falso ideologico e per vari reati tributari. Questa vicenda, comunque, non si è ancora conclusa del tutto: Gaetano Vignola, padre di Marco, è ancora a processo davanti al Tribunale di Bari. Anche lui ha provveduto a restituire parte delle somme illecitamente prelevate dai conti dei fallimenti che gestiva. 

Le cimici della Guardia di Finanza scoprono truffe, affari internazionali, prestanome e fiumi di soldi. Intercettato anche il giudice di Forum (Rete4), scrive il 22 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". La cerchia di professionisti coinvolta annovera persone già note alle cronache giudiziarie per gli stessi reati per i quali la Guardia di Finanza di Catania ha eseguito le misure restrittive personali e reali disposte dal Gip Anna Maria Cristaldi. Coinvolto nelle intercettazioni della Finanza anche l’avvocato Francesco Foti e noto volto televisivo come giudice di “Forum” la popolare trasmissione di Rete 4. La corruzione arriva dappertutto e le intercettazioni della Guardia di Finanza a Catania hanno coinvolto l’avvocato Mariolino Leonardi, arrestato alcuni giorni fa per bancarotta e riciclaggio in una vicenda di truffe, affari internazionali, prestanome e fiumi di soldi, intercettato “con Francesco Foti”, avvocato e noto volto televisivo di “Forum” dove fa il giudice, la popolare trasmissione di Rete 4, il quale afferma di non avere mai incontrato il Leonardi e di non essere lui la persona identificata dalla Guardia di Finanza. A pubblicare in esclusiva le intercettazioni è il collega Antonio Condorelli su Livesicilia.it. Dietro delega della Procura di Catania, la Guardia di Finanza ha dato esecuzione a un’ordinanza di misure cautelari emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania nei confronti di 11 persone per la perpetrazione continuata, a partire dal 2013, di bancarotte fraudolente e reati tributari (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) e di autoriclaggio e riciclaggio. L’indagine delle Fiamme Gialle ha rivelato l’esistenza di un collaudato sistema fraudolento finalizzato a garantire a gruppi familiari imprenditoriali la totale sottrazione dal pagamento delle imposte e la contestuale elusione di procedure esecutive e concorsuali. Il ruolo di regia è stato assunto da alcuni professionisti (avvocati, dottori commercialisti, esperti contabili, consulenti e broker esteri) abili nel delocalizzare all’estero imprese caratterizzate da manifesti squilibri finanziari, con l’unico scopo di trasferirne il patrimonio immunizzandolo così da azioni esecutive erariali. La cerchia di professionisti coinvolta annovera persone già note alle cronache giudiziarie per gli stessi reati per i quali la Guardia di Finanza di Catania ha eseguito le misure restrittive personali e reali disposte dal Gip Anna Maria Cristaldi. Si tratta dell’avvocato Mariolino Leonardi, 56enne, destinatario della misura cautelare in carcere, e promotore principale delle operazioni societarie straordinarie che consentivano a gruppi d’imprese di sottrarre alla giurisdizione nazionale patrimoni oggetto di bancarotte, reati tributari e riciclaggio. Leonardi si è avvalso della collaborazione degli indagati Fabio Castaldi, 54enne, per il trasferimento delle imprese italiane in Gran Bretagna, e Mario Bariggi, 48enne, referente per le localizzazioni in Croazia; con entrambi, le relazioni commerciali si sono interrotte per incomprensioni professionali. Sul territorio nazionale, in specifiche vicende, ha collaborato con gli indagati Giuseppe Bentivegna, 58enne, dottore commercialista e consulente aziendale, destinatario del “divieto temporaneo di esercitare la professione” per un anno, e Salvatore Falgares, 54enne, anch’egli dottore commercialista, nei cui confronti i Finanzieri del Nucleo hanno già eseguito, nell’ottobre del 2018, un decreto di sequestro preventivo di 4 immobili del complessivo valore di oltre 250mila euro, emesso, dal giudice per le indagini preliminari Cristaldi del Tribunale di Catania in quanto indagato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Gli inquirenti coordinati dalla Procura di Catania guidata da Carmelo Zuccaro hanno documentato che l’avvocato Mariolino Leonardi ancora oggi al centro degli approfondimenti dei magistrati catanesi, divide  uno studio legale con un collega a Roma, dove sono stati seguiti dalla Guardia di Finanza, sin dentro un ristorante dove hanno pranzato in compagnia dell’avvocato Francesco Foti, “noto come avvocato e giudice arbitro della trasmissione televisiva Forum in onda su Rete 4” come si legge negli atti notificati. I finanzieri dotati di potenti e sofisticati strumenti di intercettazione ambientale ascoltano l’avvocato-giudice di “Forum” mentre chiede informazioni su come costituire una società all’estero. Leonardi dimostra di conoscere bene come organizzare il tutto, gli propone di conferire beni mobili e immobili a una società croata per evitare che possano essere “aggrediti”. Così facendo infatti “non si è più proprietari di nulla” in quanto “in Croazia è pure possibile creare società anonime – continua l’avvocato Leonardi – completamente sconosciute o con un codice fiscale croato”. Leonardi spiega a Foti che queste operazioni servono per evitare che in Italia si risulti proprietari di beni di lusso sui quali pagare le tasse. A questo l’avvocato Foti gli risponde anticipando che lo metterà in contatto con un suo cliente spiegando “che fa transazioni e falsi finanziamenti su fatturati di società francesi”. L’avvocato Leonardi intercettato chiede cosa siano questi “falsi finanziamenti” e Foti gli spiega che “viene creato un deposito a garanzia che successivamente viene sbloccato con una Pec fasulla” aggiungendo anche che “la cosa importante è far sparire subito i soldi non appena questi vengono sbloccati” concludendo “la società francese prende contatti con un’altra società che di fatto esiste ma i personaggi non sono quelli reali. I personaggi si incontrano presso gli uffici romani del suo cliente dove la società truffata chiede un finanziamento che gli viene concesso ma chi concede il finanziamento vuole in garanzia un 10% depositato che si sbloccherà al momento che viene erogato il finanziamento”. L’avvocato Foti diventato un noto “giudice televisivo” sembra conoscere molti particolari e spiega che la società truffata chiede un deposito cauzionale da sbloccare solo dopo che il finanziamento viene erogato e il tempo che se ne accorgono svuotano tutto. Leonardi Sembra molto interessato e chiede anche se gli serva una società dove far entrare i soldi. E Foti gli risponde che la società deve essere costituita all’estero “con i costi che una operazione di questo tipo può avere, visto che è un 648 bis, operazione di riciclaggio”. Leonardi chiede anche se gli servono delle persone da mettere nella società o se lui abbia già qualcuno che faccia formalmente l’operazione di riciclaggio. Foti risponde a Leonardi che “fino ad ora le persone le ha avute, tuttavia, siccome ci sono state un paio di operazioni per le quali sono sotto processo, ora vuole cambiarle perché altrimenti determinate persone potrebbero riconoscerle”. All’avvocato Leonardi l’operazione sembra “fattibile”, e Foti si raccomanda che chi riceve i soldi sia persona di fiducia, per evitare che dopo “succede la guerra”. Quindi l’avvocato Leonardi consiglia di introdurre nella società in qualità di amministratore una persona di fiducia del cliente, mentre per quanto riguarda i soci dice che non è necessario che compaiano, faranno solo la nomina. E’ qui che l’avvocato Leonardi si addentra nei particolari: “Il problema è dimostrare che non ci siano problematiche, quindi io come faccio a dimostrarlo? Perché faccio una società, una fattura alla società che mi deve fare il bonifico e gli dico, compensi per consulenza, per esempio. Poi ovviamente io ci devo pagare le tasse su questi compensi per consulenza. A lui va bene così?”. Foti non ha dubbi a proposito: “Ma se servono a lavare i soldi certo che gli va bene, no?”. Così facendo, conferma anche Leonardi, i soldi vengono “puliti”. Il legale catanese chiede a chi debbano andare i fondi neri. E Foti: “Quando questo fondo viene diviso, compenso per l’avvocato, se la vede lui, compenso per quello che fa il finto banchiere e compenso suo. Ognuno per sé”. Le operazioni estere. L’avvocato Leonardi si chiede se i soldi partano dalla Francia, ma Foti lascia capire che arrivano in Italia e quindi esiste una società italiana che riceve il finanziamento. Foti quindi si addentra nell’operazione tecnico-legale e spiega che l’avvocato che viene incaricato, garantisce l’operazione nel senso che l’avvocato della banca che emette il finanziamento è della società italiana e quindi il conto è intestato a lui, che deve svincolare le somme nel momento in cui gli viene data conferma che il finanziamento è stato erogato e quindi potrà distribuire questa somma. Leonardi si chiede se l’avvocato sia pulito in questa operazione, e Foti gli risponde e spiega che è pulito ma che in questa operazione verrà denunciato. Praticamente l’avvocato garantisce che sono suoi clienti ma è d’accordo con loro. L’avvocato “televisivo” nel corso delle trattative, quando si scoprono le parti, prima dell’incontro in ufficio l’avvocato prende contatti e loro dicono: “prendete contatti con questo avvocato perché l’avvocato deve dire “io li conosco, sono clienti miei”, invece poi risultano essere tutte persone finte, allora questa è la compromissione dell’avvocato”. A questo punto tutto è chiaro per Leonardi, che capisce che l’avvocato fa l’affidavit e che l’erogazione avviene per questo. Foti riapre il discorso spiegando che a fronte dell’ottenimento di un finanziamento da 10milioni di euro , bisogna versare 100milioni, “in genere le somme sono di un milione…i 100milioni sono quelli che la banca che finanzia o si occupa del finanziamento…quindi si versano quei 100milioni che devono restare vincolati sul conto dell’avvocato fin quando all’avvocato non viene comunicato che il finanziamento è stato erogato e che quindi quei 100milioni possono essere dati a chi gli ha fatto fare il finanziamento”. Sempre Foti si addentra nelle spiegazioni: “Li dà alle due società che hanno mediato il finanziamento uno che sono i clienti ed una di questi finti francesi…che hanno la banca e quindi fa due bonifici, uno per quelli lo fa in Croazia…mi pare e uno per il mio cliente lo fa in Romania…solo che oramai questa strada l’hanno scoperta e allora lui mi chiedeva se io avessi un avvocato da coinvolgerlo nelle prossime due operazioni che naturalmente prende bei soldi perché ogni operazione…si parla di un milione e quindi all’avvocato gli danno un paio di centomila euro e se ci abbiamo un’altra strada da seguire per non fare sempre la stessa cosa…”. Leonardi spiega che può reperire qualche avvocato in crisi economica, ma Foti pretende di sapere sempre chi si ha davanti. Annotano gli inquirenti: “Per questa operazione rischia un concorso in truffa”. E sempre Foti aggiunge che gli uomini da mettere ce li avevano ma vogliono sostituirli in quanto sono già stati individuati. C’è una parte delicata e poco chiara delle intercettazioni, durante le quali Foti parla di pentiti “e dei rapporti con Brusca”. “La naturalezza con la quale il Leonardi e i suoi soci d’affari – scrive la Procura di Catania – descrivono le operazioni illecite realizzate o da realizzarsi ne prova la professionalità e irriducibilità nel delitto e in specie nella commissione di reati di stampo economico”. Leonardi è stato arrestato, anche sulle basi delle intercettazioni con Foti, che “palesano come il Leonardi non solo sia capace di reperire sempre nuovi contatti e nuovi collaboratori, ma anche come sia disponibile a riqualificarsi professionalmente per la realizzazione di nuove operazioni illecite, soprattutto per la commissione di reati di stampo economico”.

Forum, il giudice Francesco Foti sospeso: guaio con la giustizia, la pesantissima intercettazione, scrive il 24 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". La procura di Catania ha intercettato l’avvocato Francesco Foti, il noto giudice di Forum, mentre parlava con Mariolino Leonardi, civilista catanese ora in carcere con l’accusa di riciclaggio e bancarotta. Come riporta corriere.it, i due avrebbero discusso di soldi da riciclare, precisamente di "falsi finanziamenti" e "denaro da lavare". Parole pesanti, che hanno spinto Rete 4 hanno a sospendere, per il momento e in via cautelativa, il contratto di collaborazione con Foti. A rendere nota la vicenda è stato inizialmente un giornalista di live.sicilia.it. Pare che Leonardi, prima di entrare in prigione, abbia incontrato il giudice Foti in un ristorante romano. Lì i due sono stati intercettati dalla guardia di finanza che, dopo averli sorpresi insieme, si è appostata nelle vicinanze. "L’importante è far sparire subito i soldi": è così che Foti avrebbe tranquillizzato Leonardi in merito alla costituzione di una nuova società all'estero. Intanto dalla produzione del programma condotto da Barbara Palombelli non sono state rilasciate dichiarazioni, ma come detto per il momento è stata sospesa la collaborazione con il giudice, in attesa di saperne di più dalle indagini condotte dalla Procura catanese.

Coinvolto in una intercettazione ambientale all’interno dell’inchiesta London Windows lui sottolinea la sua estraneità ai fatti, scrive il 12 febbraio 2019 la Redazione Tvzap. Sospeso dal programma a tempo indeterminato e la reputazione compromessa: il giudice di Forum, Francesco Foti paga lo scotto di essere finito incolpevolmente in un’intercettazione ambientale nell’ambito dell’inchiesta London Windows con Mediaset che lo ha immediatamente lasciato a casa. “Quella mattina me lo hanno detto così, in cinque minuti”. Francesco Foti, il giudice di Forum, sospeso dal programma dopo un’intercettazione ambientale in cui parla con Mariolino Leonardi, avvocato civilista arrestato nell’ambito dell’inchiesta della procura di Catania London Windows su bancarotte, riciclaggio e autoriciclaggio, ricorda la giornata in cui Mediaset gli ha fatto sapere che era sospeso dal programma. “Tra i danni c’è anche questo. “Comunque a Forum ragionano così, e io non voglio entrare nel merito”, sottolinea in una lunga intervista concessa all’Adnkronos.

Il giudice di Forum spiega la sua estraneità ai fatti. “Io non sono nemmeno indagato in quell’inchiesta eppure sono stato sbattuto con tanto di foto su tutti i giornali d’Italia, come un mostro, un delinquente”. Francesco Foti, il giudice di Forum, ribadisce: “Forum mi ha sospeso, la mia immagine pubblica e privata è compromessa e non si può fare niente – aggiunge Foti – Tutto questo solo perché ero noto e facevo il giudice a Forum. Allora nella vita bisogna fare il barbone così nessuno ti viene a stuzzicare?”. L’ex giudice di Forum, che a parte l’esperienza nel programma di Mediaset, fa l’avvocato, precisa di essere “talmente estraneo ai fatti, che il giudice ha ritenuto di non nominarmi mai nell’ordinanza, di non rinviarmi a giudizio, di non indagarmi”.

"Sono stato sbattuto sui giornali come un delinquente". “Io Mariolino Leonardi non lo conosco, l’ho incontrato per caso perché un mio ex praticante, Leonardo Ferlito, mi aveva chiesto la cortesia di andare a pranzo con lui per fare bella figura. “Così gli faccio vedere chi è il mio maestro”, mi aveva detto. E io sinceramente non ci ho trovato niente di male. Leonardi non l’ho mai visto e conosciuto prima e non l’ho mai visto e conosciuto dopo, non ho il suo telefono, lui non ha il mio. Salvo che a quel pranzo, non abbiamo mai parlato né prima né dopo”. “La Guardia di Finanza – racconta l’ex giudice di Forum, che a parte l’esperienza nel programma di Mediaset, fa l’avvocato – ha ritenuto che io parlassi con questo Leonardi di costituire banche all’estero. Io non ricordo bene quel pranzo, nemmeno dove andammo a mangiare ma posso ipotizzare che stessi parlando di un processo di cui mi stavo occupando in quel momento: difendevo due personaggi accusati di truffe e riciclaggio a carattere transnazionale e di trasferire all’estero denaro provento delle truffe. Avevano banche in Francia, in Croazia e ai Caraibi. E poi, secondo lei, se avessi bisogno di una banca la chiederei a uno sconosciuto?”. Insomma Foti ha ricordato che la sua intercettazione “era assolutamente ininfluente ai fini dell’indagine” eppure “sono stato sbattuto con tanto di foto su tutti i giornali d’Italia come un delinquente”.

·         Il «caso Gazzetta» e le aziende sequestrate: «Lo Stato non deve depauperare i beni».

Il «caso Gazzetta» e le aziende sequestrate: «Lo Stato non deve depauperare i beni». La solidarietà del presidente della Corte d'Appello e la criticità della norma sulla gestione delle aziende sequestrate, partendo dalla vicenda del nostro quotidiano, scrive il 26 Gennaio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Il «caso» della Gazzetta del Mezzogiorno è citato in un passaggio della relazione del Presidente della Corte d'appello di bari in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2019. Il riferimento viene fatto in relazione alla gestione delle aziende in sequestro affinché «debba avere necessariamente finalità conservative, non essendo accettabile l'idea che lo stato sequestri ricchezze per restituire eventualmente beni depauperati. In questo ruolo - ha precisato il dott. Franco Cassano - un ruolo essenziale svolge anche il tempo, in relazione al quale spesso sono divergenti le esigenze delle aziende in sequestro e quelle del processo. Anche in ciò è la ragione della crisi del nostro quotidiano locale, la gazzetta, densa di significati per il futuro di questa città sicché ai giornalisti di quei giornali va la nostra solidarietà e l'auspicio di una rapida definizione della crisi». La Gazzetta del Mezzogiorno, ricordiamolo, dal 24 settembre è sottoposta da una gestione da parte di 2 amministratori giudiziari per effetto di una sentenza sequestro-confisca del 70% delle quote azionarie della Edisud spa che fanno capo all'imprenditore catanese Mario Ciancio Sanfilippoo imputato in un procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa. In tale vicenda il giornale i suoi giornalisti sono assolutamente estranei pur tuttavia da 4 mesi a questa parte, la Testata, come rappresentato in due lettere indirizzate dal cdr al Presidente della Repubblica) soffre una gestione che, da quanto afferma il Presidente della corte d'Appello di Bari, è incompatibile con i tempi del processo. Il prossimo 6 febbraio a seguito del tavolo istituzionale aperto presso la task force del lavoro della Regione puglia, è previsto un ulteriore incontro a Catania (dopo quelli a Bari del 28 dicembre e del 22 gennaio tra commissari, Regione, rappresentanze sindacali di giornalisti e poligrafici) alla presenza del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale etneo. I giornalisti e tutti i lavoratori della Gazzetta non hanno percepito lo stipendio di dicembre, la tredicesima e non sono ancora a conoscenza del futuro della testata nè sinora i commissari hanno fatto cenno a un ipotetico piano di rilancio. 

Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha incontrato oggi a Bari il presidente della Tosinvest Giampaolo Angelucci, che ha illustrato al presidente i contenuti dell’offerta vincolante e il piano di rilancio della Gazzetta del Mezzogiorno. Il presidente Emiliano ha sottolineato la necessità di garantire una prospettiva professionale a tutti i dipendenti accanto al piano di rilancio della testata e ha quindi chiesto a Giampaolo Angelucci di partecipare al tavolo di crisi incardinato presso la Regione Puglia, tavolo che verrà convocato già nel corso della prossima settimana. “L’incontro è stato molto positivo - dichiara Emiliano - e apre prospettive concrete per la salvaguardia di tutti i posti lavoro e per la tutela dell’immenso patrimonio culturale, sociale e professionale rappresentato dalla Gazzetta del Mezzogiorno. La Regione Puglia segue questa vertenza con la massima attenzione, in particolare sotto il profilo della tutela dei lavoratori. Per questo, acquisite oggi le ultime informazioni, riunirò la prossima settimana il tavolo di crisi, alla presenza del presidente della Toninvest Angelucci, che ringrazio, per condividere questo percorso con tutte le parti”.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Le fusioni dei potenti.

Quando le fusioni nel mondo auto non funzionano. Fca e Renault preparano un grande matrimonio. Ma anche se con Chrysler la Fiat ha fatto bene, a volte queste unioni sono un fallimento: ecco le loro storie. Guido Fontanelli 29 maggio 2019 su Panorama. Sulla carta la fusione tra Fca e Renault sembra un’ottima operazione: il nuovo gruppo avrebbe una presenza mondiale, che spazia dai marchi Jeep e Ram nel Nord America, Fiat e Renault in Sud America, Nissan e Mitsubishi in Asia e naturalmente Fiat e Renault in Europa. In più la gamma del colosso partirebbe dalle economiche Dacia per arrivare ai marchi premium di Alfa Romeo e Maserati e alle elettriche sviluppate da Renault e Nissan, leader di mercato. Molte sinergie e poche sovrapposizioni, dunque. E c’è anche da dire che la Fiat ha dimostrato con Chrysler di saper gestire in modo efficace una grande acquisizione internazionale, trasformandola in una storia di successo. Ma quando queste mega-operazioni scendono dalla teoria alla pratica non sempre funzionano, come dimostrano i numerosi casi di insuccesso. E in questo caso c’è l’aggravante di una fusione alla pari, che rende le cose ancora più complicate: chi comanderà davvero, gli Agnelli o lo Stato francese? Ecco come sono sfumati alcuni grandi matrimoni nel settore delle quattro ruote.

Ford-Jaguar. Un esempio di come una casa mass-market può distruggere un marchio di lusso. Nel 1989 la Ford acquistò la Jaguar con l’obiettivo di fare concorrenza alle case tedesche premium. Ma gli americani fecero alcune scelte infelici: introdussero la trazione anteriore, un modello con molte parti della Mondeo, i motori diesel, addirittura una station wagon. Solo nella seconda parte degli anni Duemila la casa Usa risollevò la Jaguar grazie a un design più elegante. Ma alla fine la Ford gettò la spugna e vendette la società britannica all’indiana Tata, che proseguì il rinnovamento della gamma seguendo un design più moderno, già avviato sotto la gestione Ford, e lanciando i primi Suv tra cui uno elettrico.

General Motors-Saab. Nel 1990 la General Motors acquistò per 600 milioni di dollari il 51% della Saab Automobile, garantendosi anche l'opzione di rilevare le quote rimanenti entro dieci anni. E infatti nel 2000 la casa Usa comprò per 125 milioni di dollari il rimanente 49% delle quote di Saab. Come nel caso di Ford-Volvo (vedi più avanti), il tentativo di creare sinergie tra le due case danneggiò il prodotto Saab, snaturandone l’immagine: molti dei prodotti lanciati in quegli anni, spesso versioni di vetture Opel o Subaru rimarchiate, si rivelarono un fallimento. Nel 2008 la Gm mise in vendita la società svedese che, due anni dopo venne rilevata per 74 milioni di dollari dalla Spyker, specializzata in vetture sportive. Ma dopo qualche anno Saab cessò di esistere.

Bmw-Rover. Nel 1994 la British Aerospace cedette il gruppo Rover, alleato della giapponese Honda, ai tedeschi della Bmw. La Honda, contraria all’operazione, ruppe la joint venture con la casa inglese. Durante l'era Bmw, l'unico modello progettato con l'aiuto della casa bavarese fu la Rover 75. Nel 2000 la società tedesca decise di vendere la Rover a una cordata di investitori, mentre la Land Rover fu ceduta alla Ford (che in seguito la vendette all’indiana Tata). Bmw si è tenuto invece il marchio Mini.

Daimler-Chrysler. Era stata annunciata proprio come una fusione tra pari quella formata nel 1998 tra l’americana Chrysler Group e la tedesca Daimler-Benz. E fu un disastro. Le culture delle due aziende non si unirono, i tedeschi presero il comando con una certa arroganza e i prodotti nati dalla collaborazione tra le due case non ebbero il successo sperato. Dopo neppure dieci anni, nel 2007, Daimler si liberò della Chrysler vendendola a un gruppo di investitori. Nel 2008 la casa americana fu investita dalla crisi globale e fu salvata nel 2009 dalla Fiat.

Ford-Volvo. Nel 1999 la Ford acquistò per 6,45 miliardi di dollari la divisione auto della Volvo. Il gruppo Volvo (compresi anche i camion) era nel mirino della Fiat, ma l’attacco degli italiani non andò in porto. Sotto la gestione degli americani la casa svedese perse progressivamente appeal, venne snaturata e di conseguenza vide ridursi le quote di mercato. Dieci anni dopo l’acquisizione, nel 2009, la Ford cedette la casa svedese per 1,8 miliardi di dollari ai cinesi di Geely, che sono riusciti a ridarle slancio e restituirle il prestigio perduto.

Fiat-General Motors. Nel 2000 venne annunciata l’alleanza industriale strategica tra Fiat e General Motors che prevedeva l’ingresso di Gm con il 20% in Fiat Auto, in cambio di azioni della stessa Gm per una quota pari a circa il 5,1% (percentuale tale da far diventare Fiat il primo azionista industriale della casa Usa). Inoltre l’intesa portò alla creazione di due joint venture paritetiche, una negli acquisti e l’altra nei motori e nei cambi. Neppure cinque anni dopo arrivò il divorzio, che costrinse la casa americana a sborsare 1,5 miliardi di euro per non esercitare la put che la avrebbe obbligata ad acquistare il gruppo italiano. In seguito alla fine dell’alleanza, tutte le joint venture paritetiche vennero sciolte.

Renault e Alfa Romeo: storia della prima joint venture (1959-1964). 60 anni fa l'Alfa Romeo produsse le Renault Dauphine e le R4 al Portello e a Pomigliano. Un successo bloccato poco dopo dal protezionismo del Governo italiano. Edoardo Frittoli 29 maggio 2019 su Panorama. Tra il 1959 ed il 1964, Renault fu protagonista della prima joint-venture con una casa automobilistica italiana: l'Alfa Romeo, allora parte del gruppo IRI. La scelta strategica era finalizzata alla penetrazione di un marchio estero nel mercato italiano (allora protetto da imponenti dazi sulle importazioni) e per strappare una fetta di clientela dall'egemonia della Fiat nella fascia delle utilitarie dell'ultima fase del boom economico. L'accordo industriale interessò inizialmente una vettura di fascia medio-bassa di successo lanciata nel 1956 in Francia, la Dauphine. La piccola francese "tutto dietro" fu prodotta su licenza presso gli stabilimenti milanesi dell'Alfa Romeo al Portello, con l'intenzione di incalzare le piccole di casa Fiat, in particolare la "600". Gli esemplari marchiati dal biscione furono le Dauphine con livello di allestimento medio (motore da 31 Cv) e l'unico dettaglio che le distingueva dalle sorelle costruite in francia era la targa sopra il parafango anteriore "Alfa Romeo-Dauphine". Dal 1962 alla piccola d'oltralpe fu affiancata la "Ondine", una versione della Dauphine più accessoriata (aveva anche l'autoradio di serie personalizzata). A partire dallo stesso anno fu lanciata sul mercato italiano anche la nuova e spaziosissima utilitaria con portellone posteriore, la Renault 4. L'utilitaria era prodotta dalla società costituita ad hoc, la Sviluppo Automobilistico Meridionale SpA, con sede a Napoli. La Renault 4 assemblata in Italia era infatti prodotta sia al Portello che negli stabilimenti aeronautici di proprietà Alfa Romeo (ex IMAM e nel dopoguerra Aerfer) di Pomigliano d'Arco. Il successo delle due utilitarie d'oltralpe in Italia non si fece attendere. Da un indagine dell'ACI del 1962 risultò che su un totale di24.697 Renault vendute sul mercato italiano, 11.786 erano Dauphine-Ondine e 10.686 erano Renault 4. Il risultato era più che lusinghiero e poneva la casa della losanga apparentata con il biscione al terzo posto nelle vendite dopo Fiat e la stessa Alfa Romeo. Tali risultati eccezionali bastarono per mettere in allarme i vertici delle case automobilistiche italiane, anche perché la Renault 4 era una vettura rivoluzionaria per la praticità e lo spazio interno che surclassava le minimali "600" e "500". Il successo crescente della R4 (una vettura di fatto estera solamente assemblata in Italia) fece sì che il Governo giunse ad introdurre una nuova forma di tassazione anche per la pressione esercitata dai costruttori italiani (in primis Fiat) che riguardava l'aumento delle imposte sulla base della lunghezza e della larghezza del veicolo. L'utilitaria francese assemblata a Pomigliano d'Arco rientrava pienamente -date le sue generose dimensioni - nelle maglie della nuova imposta sull'acquisto. Alla disposizione ministeriale seguirà una nota della casa d'oltralpe nella quale la Renault rifiutava di assumersi gli oneri della maggiore tassazione per rimanere sul mercato italiano. Poco più tardi il sodalizio commerciale italo-francese giungerà al capolinea: La Sviluppo Automobilistico Meridionale SpA, terminata la produzione a Pomigliano delle R4, sarà impegnata temporaneamente nella commercializzazione delle utilitarie e nella gestione della rete assistenza e ricambi (500 officine autorizzate). Nel 1968 la SAM sarà sciolta e diventerà Renault Italia, mentre a Pomigliano d'Arco veniva posata la prima pietra del nuovo grande stabilimento Alfa Romeo Alfasud.

·         Ue, 11.800 lobby per influenzare le istituzioni.

Ue, 11.800 lobby per influenzare le istituzioni. I casi di corruzione. Pubblicato lunedì, 08 aprile 2019 da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu su Corriere.it. In Europa spendono 1,5 miliardi l’anno. Ai primi posti Cefic (12 milioni), Google (6 milioni) e Microsoft (5 milioni). Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni) BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017.Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’impresa e della società. Un’attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza. Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbisti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International –, esercitare il lobbismo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».Ci sono tanti modi per fare lobbismo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza. Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altronsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati. Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro, e il contributo degli aderenti di 816.331 euro.Il lobbismo delle imprese è più aggressivo. Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più e in questi casi possono infilarsi quelli proposti, o scritti direttamente, dai lobbisti e ricopiati pari pari dai deputati. L’ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’high tech, dall’altra musicisti, editori, giornalisti e le società che raccolgono i loro diritti d’autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul web di opere che hanno diritto a un copyright. Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbisti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto 3 incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’autore ancora di più). In estate i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila e-mail pro o contro le nuove norme. Virginie Rozière, deputata favorevole, ne ha ricevuto 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’high tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti. Un’altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara 6 milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata. L’attività delle lobby è per sua natura opaca e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del «Sunday Times» con telecamera nascosta si presentano come lobbisti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. Come l’eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100 mila euro a colpo. Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’erano in ballo 60 milioni.

La grande truffa. Aerei, auto, bollette. Ecco come le grandi case si alleano per truffare gli italiani, scrive il 25 febbraio 2019 Panorama. «E' il mercato che decide chi diventa ricco e chi diventa povero». Flavio Briatore è un genio quando si tratta di coniugare il famoso ascensore sociale con gli spiriti animali del mercato. Ma quando il mercato decide, gioca sempre pulito, oppure, a volte, gioca sporco? E giocare sporco vuol dire aziende che si accordano sottobanco per danneggiare i consumatori, o che costringono lo Stato a spendere di più per comprare beni e servizi. L’ultimo caso eclatante è stato raccontato sullo scorso numero di Panorama e riguarda una multa da 678 milioni che l’autorità Antitrust ha comminato alle principali case automobilistiche che operano in Italia per aver fatto cartello sulle condizioni offerte dalle rispettive finanziarie a chi compra a rate o in leasing. E però basta guardare i fronti aperti anche solo nell’ultimo biennio, tra procedimenti iniziati e sanzioni già inflitte, per rendersi conto che queste pratiche scorrette hanno un impatto su ognuno di noi, coprono uno spettro di consumi e situazioni amplissimo e quotidiano. Sulla base di casi reali, ecco la «24 ore della pastetta» di un cittadino comune, un cinquantenne che fa il revisore dei conti, quindi non uno sprovveduto in balia delle clausole per ipervedenti, con due figli grandi e che non potremo che chiamare Flavio. Sono le undici di sera, in una grande città del Sud, e Flavio sta tornando in albergo dopo una giornata passata a spulciare i conti di una serie di municipalizzate una più indebitata dell’altra. Il sindaco, però, non ne vuole sapere di fare un minino di chiarezza sui debiti fuori bilancio e a cena c’è stato uno scontro aspro anche con l’assessore cosiddetto competente. L’anno prossimo, sarà difficile che la società per la quale lavora Flavio ottenga il rinnovo del contratto. Ma mentre fa queste considerazioni, il suo cellulare va in palla, come se avesse esaurito tutta la memoria. È un modello costoso ma vecchiotto e da un mese, da quando ha avuto la pessima idea di accettare un certo aggiornamento, l’apparecchio è come colto da demenza senile galoppante. La stessa cosa è successa qualche tempo fa anche a sua moglie, che però ha un telefonino dell’altra grande marca di prestigio. La figlia liceale, che invece ha un modello molto più vecchio, si ostina a non accettare gli aggiornamenti e non ha problemi. La mattina seguente, Flavio si alza presto perché deve andare all’aeroporto e tornare al Nord. Con la luce del giorno, nota che in alcune strade è come se i rifiuti fossero letteralmente esplosi. Il tassista gli racconta che il Comune ha fatto una gara per il servizio di raccolta, ma le principali ditte non si sono neanche presentate. Alla fine, è stato costretto ad andare a trattativa privata con un solo gruppo, che ovviamente ha spuntato un prezzo da capogiro. Ma ci sono tanti ricorsi. La storia è maledettamente simile a quella che gli hanno raccontato altri genitori del liceo dove studia sua figlia, dove si sprecano le lamentele dei ragazzi per la sporcizia. Quattro colossi delle pulizie, prima di partecipare a un bando pubblico da 1,6 miliardi di euro, si sono accordati sotto banco per scambiarsi i vari lotti, anche con il sistema dei subappalti incrociati. Una volta arrivato all’aeroporto, il nostro revisore scopre che per salire con il suo bagaglio a mano sul volo low cost che ha comprato dovrà pagare un sovrapprezzo. L’Antitrust bloccherà la pratica, sostenendo che impedisce all’ignaro consumatore di paragonare correttamente i prezzi delle varie compagnie. Ma intanto Flavio paga e subisce. L’aereo decolla e Flavio può finalmente chiudere gli occhi. L’assedio alle sue finanze, però, non dorme mai. Quando riaprirà il computer, a metà mattina, per eseguire un paio di bonifici online, troverà ancora una volta una serie di popup della sua banca in cui gli si chiede di autorizzare urgentemente l’addebito in conto corrente degli interessi passivi, facendogli anche presente che, altrimenti, rischia di essere segnalato nelle banche dati tra i cattivi debitori. Stremato da un pressing che va avanti da un mese, accetta, e così l’istituto, con il suo consenso, potrà fargli pagare gli interessi sugli interessi. Si chiama anatocismo, è oggetto di battaglie legali da decenni, ma le banche non hanno spiegato ai clienti che vi sarebbero alternative meno suicide. Flavio va in ufficio, riferisce ai capi lo sgradevole soggiorno al Sud con quel cliente pubblico così allergico a qualunque disciplina di bilancio. Sul cellulare, gli arriva una notifica dal suo gestore; ecco la nuova bolletta, che però è calcolata su mesi di 28 giorni e con questa scusa nasconde un aumento dell’8 per cento annuo, spalmato su 13 mesi. Flavio pensa che se lo facesse lui, ai suoi clienti, probabilmente gli manderebbero la Guardia di finanza a casa. Chiama la moglie e le dice: ok, basta, cambiamo compagnia telefonica. Ma è inutile, perché le quattro principali società hanno fatto la stessa identica mossa. Dopo aver accorciato i mesi a piacere, a questo punto manca solo che i minuti di tariffazione scendano a 50 secondi. Tornato dalla sua trasferta, il nostro revisore si occupa di un po’ di faccende di casa. C’è il figlio universitario che gli ha chiesto di comprare quattro biglietti per due concerti rock che si terranno in estate, uno dei Foo Fighters e uno dei Red Hot Chili Peppers. Flavio va sul sito dove si comprano i tagliandi, non li trova e viene indirizzato sul cosiddetto «mercato secondario», dove spenderà oltre 600 euro. Il figlio lo cazzia amabilmente: «Papà, ti sei mosso troppo tardi». Ma non è vero, si è mosso al secondo giorno di offerta. L’Antitrust multerà più avanti la società che organizza i concerti e vende i biglietti, con l’accusa di averne destinati apposta troppo pochi alla vendita diretta, favorendo così il bagarinaggio. Pardòn, il «mercato secondario». Come fa sempre quando torna da fuori, Flavio rientra a casa presto e a va a fare un po’ di spesa. È un’attività che lo rilassa. Ma fino a un certo punto. Il sabato, quando può, gli piace andare al mercato e ha notato che la grande distribuzione organizzata, che è conveniente su tanti prodotti, su frutta e verdura pratica prezzi assai elevati. In ogni caso, compra al supermercato mele del Trentino, peperoni olandesi, un cavolfiore e zucchine. Spende una cifra assurda, ma d’altronde non può aspettare sabato. La spiegazione è molto semplice: tra i coltivatori e la Gdo si infilano troppi intermediari e i prezzi finali possono anche triplicare. L’Antitrust interviene regolarmente da anni, ma gli agricoltori lamentano di essere strozzati da supermercati che adottano tutti le stesse pratiche. Da bravo revisore, il nostro protagonista passa in rassegna i prezzi delle varie marche di pasta e rimane colpito dal fatto che, dall’ultima volta che ha fatto la spesa, sono tutte più o meno aumentate della stessa, identica, percentuale: quelle che costavano un euro e venti centesimi al chilo adesso costano un euro e quaranta, quelle che erano vendute a 95 centesimi sono passate a un euro e dieci e così via. Flavio si chiede come sia possibile che di fronte allo stesso aumento del prezzo del grano, aziende grandi come Barilla o piccole come Di Martino si comportino come se avessero la stessa struttura di costi e sinergie. Quando Flavio sta per tornare a casa, gli arriva un messaggino della moglie: «Compra il pane!». Torna indietro al supermercato, ma nonostante siano solo le sette di sera, praticamente non ne trova. Come mai? Perché i panificatori che vogliono lavorare con i supermercati si devono impegnare a ritirare l’invenduto come fossero giornali. La mattina dopo, Flavio va in ufficio di buon’ora e scova una notiziola che lo riguarda da vicino: la gara dello scorso anno per la fornitura di consulenza alle pubbliche amministrazioni sulla gestione dei fondi Ue, rovinosamente persa dalla sua società, era taroccata. L’Antitrust ha scoperto che le Big four della revisione mondiale si erano accordate sottobanco per non presentare offerte competitive fuori dai lotti che si erano spartiti in segreto. Non solo la Pubblica amministrazione ha speso di più, ma per quella gara persa, nella sua società sono partiti dei tagli e a una decina di colleghi non è stato rinnovato il contratto di lavoro a tempo determinato. Ma questi «effetti collaterali», di solito, non finiscono sui giornali. Nella già impegnativa giornata del nostro Flavio avremmo potuto aggiungere anche le pratiche scorrette sulla vendita di polizze assicurative in abbinata a dei prestiti, la banca dati segreta delle compagnie telefoniche con i dati dei clienti morosi, fino alle pratiche orribili dei prezzi artificiosi sui farmaci antitumorali. In compenso, tutto quello che si è raccontato (per difetto) è accaduto e accade realmente. Lo scorso ottobre sono state multate Apple (10 milioni) e Samsung (5) per gli aggiornamenti-killer del software. A metà dicembre, su segnalazione del Comune di Roma, l’Antitrust ha aperto un’indagine su una serie di grandi gruppi che si occupano di raccolta e smaltimento rifiuti, accusati di aver mandato deserte due aste, per poi presentarsi a trattativa privata e spuntare tariffe maggiori. A gennaio del 2016, l’Antitrust guidata da Giovanni Pitruzzella ha multato per 110 milioni di euro Cns, Manutencoop, Roma multiservizi e Kuadra, che si sarebbero accordate per spartirsi i lotti di una gara Consip da 1,63 miliardi per la pulizia delle scuole. A ottobre dello scorso anno, l’Autorità ha sospeso la pratica di Ryanair e Wizz Air, che dall’estate volevano far pagare ai passeggeri un sovraprezzo per imbarcare i loro trolley, una volta arrivati al gate. A novembre del 2017, Bnp Paribas, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno ricevuto una sanzione da 11 milioni per pratiche scorrette nel calcolo degli interessi bancari a debito. Lo scorso novembre, il Tar del Lazio ha annullato le sanzioni da 4,4 milioni comminate dall’Agcom a Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb per la farsa del mese di 28 giorni. I risarcimenti in bolletta sono salvi, ma devono ancora partire. Ad aprile del 2017, invece, Antitrust ha multato Ticketone e quattro rivenditori online per 1,7 milioni, con l’accusa di aver fatto «sparire» troppo rapidamente i biglietti a prezzo base per i migliori concerti rock. La battaglia di Antitrust, consumatori e organizzazioni agricole contro la grande distribuzione, accusata di praticare prezzi bassi ai fornitori e di «ammazzare» il mercato con sconti non concordati, meriterebbe un libro a parte. Il caso forse più scandaloso è quello della «resa obbligatoria» sul pane fresco, sul cui da settembre indaga ancora l’Antitrust. Sollevato dai panificatori della Confcommercio, il problema è interessante anche dal punto di vista delle dinamiche del famoso «libero mercato», perché sposta il rischio d’impresa dal venditore al fornitore. Sotto inchiesta sono finiti Coop Italia, Conad, Esselunga, Eurospin, Auchan e Carrefour, insomma tutto l’arco costituzionale della Gdo. Nel 2009 l’Antitrust ha multato per 12,5 milioni di euro il cartello della pasta: ben 26 aziende si erano messe d’accordo, di fronte a un forte aumento dei prezzi del grano che avrebbe potuto alterare le quote di mercato, per praticare i medesimi aumenti sugli scaffali. Dal maggio 2006 al maggio 2008, il prezzo di vendita della pasta al canale distributivo aveva registrato un incremento medio del 51,8 per cento, che è stato scaricato sui consumatori con rincari finali del 36 per cento. Per finire, anche la gara persa dalla società del nostro Flavio non è di fantasia: a novembre del 2017, l’Antitrust ha multato per 23 milioni di euro le principali società di revisione e consulenza appartenenti ai network internazionali Deloitte, Kpmg, Ernst&Young e Pwc. L’accusa è di essersi divisi a scacchiera i lotti di una maxi-gara Consip da 66 milioni per le consulenze di audit e gestione dei fondi Ue agli enti locali. Perché il libero mercato a volte è cieco, ma la pastetta ci vede benissimo.

·         Se comandano i Tassisti.

Taxi di Roma, giro di vite dopo Le Iene: 3 sospesi e 13 multati. Le Iene il 13 dicembre 2019. Dopo il nostro servizio sono scattati i controlli ai taxi di Roma. Le forze dell’ordine hanno multato i tassisti irregolari attorno alla stazione Termini, dove il nostro Ismaele La Vardera ha rimediato uno schiaffone dai così detti “battitori liberi”. Multe e controlli ai taxi di Roma dopo il servizio de Le Iene sui “battitori liberi” attorno alla stazione Termini. Per documentarvi l’aggressività e i trucchi con cui lavorano alcuni tassisti che cercano le corse più redditizie a danno dei clienti, Ismaele La Vardera si è preso anche uno schiaffone come potete vedere nel servizio qui sopra. Nelle ultime ore sono scattati i controlli da parte delle forze dell'ordine: multati 13 tassisti che non rispettavano quanto stabilito dal Regolamento taxi. A questi si aggiungono 3 a cui è stata sospesa la licenza. Da inizio anno sono 64 i tassisti sospesi per questioni disciplinari e 26 per informative di reato. A questi numeri si sommano le 116 licenze multate e 5 revocate. Non sappiamo se questi tassisti sono i cosiddetti “battitori liberi” che cercano di accaparrarsi le corse più “ghiotte”. Loro si fanno pagare in nero e alla fine aumentano anche il prezzo della corsa, nonostante le tariffe fisse siano indicate sullo stesso taxi. Un fenomeno che danneggia i tassisti con regolare licenza. Uno di loro ha raccontato a Ismaele La Vardera: “Sono più di 13 anni che faccio questo lavoro e loro ci sono sempre stati. A Termini ne ho visti alternarsi più di 40. E Termini è solo la punta dell’iceberg, piccoli gruppi sono sparpagliati in tutta Roma”. I battitori liberi sono disposti a tutto pur di continuare a fare i propri affari: “Una volta un collega cercava di combatterli ha trovato la bomba davanti alla porta”. E aggiunge, per farci capire il giro d’affari di queste persone: “Guadagnano il doppio, il triplo degli altri colleghi. Basti pensare che dalla stazione a Piazza di Spagna chiedono 30 euro, il prezzo che un tassista normale chiede per arrivare a Ciampino”. Mandiamo un nostro complice a prendere uno di quei taxi, per andare proprio a piazza di Spagna. Il tassista chiede 25 euro ma una volta arrivati a destinazione, ecco che ne pretende 30. Facciamo la stessa tratta con il tassametro acceso, prendendo un taxi che lavora secondo le regole e quella stessa corsa costa, in realtà, appena 6,70 euro! Facciamo un altro tentativo per capire se fanno i furbi anche con le corse a tariffe fisse, i cui prezzi sono indicati obbligatoriamente sugli stessi taxi. Per una corsa all’aeroporto di Fiumicino ci vengono chiesti 55/60 euro, mentre la tariffa dovrebbe essere per legge 48 euro. Ma una volta arrivati all’aeroporto, quel prezzo lievita addirittura sino a 75 euro! Quando Ismaele La Vardera va a chiedere spiegazioni proprio ad alcuni di questi battitori liberi sul cui taxi siamo saliti, non la prendono benissimo. All’inizio negano anche solo di conoscere questa categoria di tassisti: “Se è come mi dice è una cosa sbagliata certamente” e poi fugge via. Arriva un suo collega che con un fare molto aggressivo vuole allontanarci. “Toglietevi di mezzo che lui è pericoloso”, spiega un altro indicando l’uomo che vuole allontanarci. Proprio quest’uomo, mentre altri due cercano di bloccare l’operatore, tira uno schiaffone in piena faccia alla Iena. Decidiamo di andare dalla sindaca Virginia Raggi, la prima che è chiamata a tutelare i tassisti regolari e anche l’immagine della Capitale. “Non posso commentare una cosa che non conosco. Mi faccia vedere i materiali che avete raccolto e poi commento”, dice. Lasciamo i video registrati alla persona indicata dalla sindaca e parliamo con l’assessore alla Mobilità del comune di Roma, Pietro Calabrese, che ha il potere di rilasciare o sospendere le licenze dei taxi. “La ringrazio perché questa cosa non sa quanto ci è di aiuto, noi abbiamo già incrementato i controlli. Ogni volta che accadono queste cose ci sono sanzioni molto pesanti, addirittura fino all’annullamento della licenza. A questi tassisti mi sento di dire ‘avete finito di lavorare con Roma capitale’”. Finalmente è stato dato un giro di vite ai tassisti furbetti con i primi controlli e multe!

Dagospia il 13 dicembre 2019. Da La Zanzara – Radio 24. “Il tassista è stato provocato. Non vi hanno fatto vedere tutto il video, ma solo una parte. Il cliente del taxi insultava il mio assistito, gli ha detto più volte pezzo di merda. Ma il pugno è sbagliato”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 Luciano Randazzo, il legale di Stefano Miconi, il tassista romano che alla fine di novembre ha colpito con un pugno un cliente all’aeroporto di Roma Fiumicino. “Prima del pugno – dice Randazzo – succedono delle cose, avvengono delle situazioni un po’ particolari. Primo: questo signore prende il taxi, urla, strilla, è arrabbiato, incavolato, alterato. Non so perché, ma era alterato. Ha chiesto l’utilizzazione del tassametro e non della tariffa fissa, ma il tassametro in quel momento non poteva essere attivato perché il signore ha detto che voleva andare a Roma e basta. Ma da Fiumicino a Roma sono 48 euro fissi, punto. Il tassista gli dice: io non posso metterlo. Lui era già dentro il taxi”. Scusi, cos’è che non abbiamo visto?: “Vi fanno vedere solo quello che vogliono loro. Il cliente lo insulta pesantemente. Gli dice le parole più irripetibili:  pezzo di merda, stronzo, come tutti i tassinari romani, siete pezzi di merda, siete pezzi di merda. Il tassista, che ha vent’anni di esperienza, non ha mai avuto nessuna segnalazione, non è un picchiatore, non è uno che si droga, è una persona normale, poveraccio”. Scusi, che prove ha di tutto questo, dice Parenzo?: “Abbiamo due testimonianze, e non sono tassisti”. Vedremo se ci sono, risponde Parenzo: “Non ci sono? Lo dice lei, Parenzo, che non ce le abbiamo. Non si permetta. Come farò a dimostrarlo? Questi sono problemi miei, non suoi, abbiamo due testimoni che lo dicono”. Comunque un tassista che dà subito un pugno al cliente è una follia o no?:  “Confermo che dare un pugno è una follia. La violenza non esiste. Però c’è quello che succede prima. Anzitutto il cliente arriva e dà del tu al tassista dicendo: metti il tassametro”. Ma il tu non è un reato: “Non è un reato, è maleducazione”. Magari gli ha dato del tu perché sono stati colleghi, quello colpito ha fatto il tassista: “Chi l’ha detto che era un ex collega? Lo dite voi. A me non risulta”. Poi che succede?: “Il tassista lo fa scendere. Gli dice: lei si sta arrabbiando, non capisco perché, lei è una persona molto alterata, quindi cortesemente scenda. Apre la porta e lo fa scendere. Lui scende, gli prende le valigie, gliele mette sul marciapiede, arriva un altro taxi, lui intanto prende un’altra persona, la persona sale, mentre l’altro inizia a dare dei pugni al taxi”. Lo ha danneggiato?: “Si, abbiamo delle foto. Ma non è quello il fatto grave”. E che diceva mentre dava i pugni?: “Che era un fijo de ‘na mignotta. A quel punto il tassista con la persona a bordo scende per vedere cosa sta succedendo. Il tizio si avvicina in modo molto aggressivo col viso vicino, quasi a volerlo picchiare, a mo’ di sfida, ed a quel punto parte il cazzotto”. Dunque lei afferma che il guanto di sfida l’ha lanciato il signore che ha poi subito il pugno?: “Si. Cercava una reazione, gli ha dato un pugno. Punto. Quello è caduto, s’è rialzato subito. Guardate bene il video, si rialza immediatamente”. Ma ha avuto la rottura del setto nasale: “Questo lo dite voi. Io non so nulla.  Voi avete visto il referto? Io no”. Giusto sospendere la licenza?: “Per me è un provvedimento politico, perché se questo tassista stava ai giardinetti di Piazza Vittorio e litigava con una persona non sospendevano la licenza”. Il suo cliente può continuare a fare il tassista secondo lei?: “Ma certamente. Perché no?”. Ma ha dato un pugno a un cliente: “Ma queste sono stupidaggini. Certo che può continuare a guidare un taxi, qual è il problema?”.

Daniele Autieri per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Stazione Termini. Domenica pomeriggio. La città è deserta e almeno cento persone aspettano l' arrivo di un taxi. Il parcheggio delle auto bianche ha settanta posti vuoti e alle spalle una fila che corre lungo la pensilina. La risposta a un disservizio pubblico diventato una delle vergogne della capitale d' Italia arriva non troppo lontano da lì, dalla bocca di un concierge che lavora all'ingresso di un hotel a pochi metri dalla stazione. «Ormai la voce si è sparsa - confessa - e tanti turisti vengono qui o negli altri hotel della zona chiedendoci di chiamare un taxi al telefono». I turisti allungano una mancia, gli addetti degli hotel chiamano e i taxi arrivano, comparendo dal nulla nel mezzo del deserto di Termini. La verità, difficile da raccontare, è che ancora una volta a Roma un servizio pubblico viene sottomesso a un interesse privato. « Per molti di noi - spiega un conducente di un taxi - non è economico fermarci a Termini. I turisti ci chiedono di portarli negli hotel del centro, troppo vicini alla stazione». Meglio starne alla larga quindi e magari fermarsi in piazza della Repubblica dove invece stranamente il parcheggio è pieno. I taxi ci sono - lo ammette anche Loreno Bittarelli, presidente di Radiotaxi 3570 - ma tanti preferiscono evitare la stazione. E questo nonostante regole e leggi. Dalla stazione è vietato chiamare il taxi personalmente, mentre le auto blu non possono sostare e sono quindi obbligate a tornare ai loro depositi prima di prendere una nuova chiamata. Un problema enorme, come conferma il Codacons che negli ultimi mesi ha raccolto 50 segnalazioni arrivate da utenti inferociti, e ha presentato 6 esposti in procura per interruzione di pubblico servizio. Esposti inviati anche alla sindaca, all' Autorità di regolazione dei trasporti e al dipartimento mobilità e trasporti del Campidoglio. Nessun politico ha finora risposto. Il presupposto è che la categoria dei taxi rientra nel trasporto pubblico non di linea, e per questo è sottoposta agli obblighi di servizio pubblico, al fine di garantire continuità, universalità e copertura territoriale della città. Presupposti che non vengono rispettati e sui quali il Comune di Roma, nonostante le responsabilità dirette, non è mai intervenuto. Il 29 ottobre del 2007 l'allora assessore alla Mobilità Mauro Calamente sollevò il caso dopo aver passato circa un' ora in attesa per prendere un taxi a Termini. Nel settembre del 2015 l' attrice Claudia Gerini affidò il suo sfogo ai social con un post di denuncia seguito poi a un messaggio di scuse. dopo aver ricevuto una valanga di critiche. Oggi come ieri, quel disservizio è ancora tale, con la scoperta però che un' apparente inefficienza potrebbe in realtà essere il frutto di una scelta consapevole e di un calcolo preciso. Lo stesso calcolo che all' aeroporto di Fiumicino porta la maggioranza dei conducenti a non accettare carte di credito. Il pos non funziona: è questa la scusa trasformata in mantra, secondo quanto denuncia ancora una volta il Codacons, che anche su questo tema ha condotto battaglie e presentato denunce. Nulla cambia però, anche da parte di chi - come il Campidoglio - dovrebbe garantire l' efficienza del servizio. Anzi, accade il contrario. In una città come Roma le licenze sono appena 7.705 ( dati dell' Agenzia per il controllo dei servizi pubblici), contro le oltre 12mila di Madrid, dove peraltro i viaggiatori possono utilizzare 12 linee metropolitane che funzionano alla perfezione, contro le due romane che invece camminano a singhiozzo.

Rinaldo Frignani per Corriere.it il 7 dicembre 2019. Un pensionato romano di 60 anni, di ritorno da Madrid, è finito in ospedale il 27 novembre scorso dopo essere stato colpito da un autista che pretendeva di applicargli la tariffa fissa di 48 euro per un tragitto molto più breve e non fino alle Mura Aureliane. Quaranta giorni di prognosi. E una complicata operazione per riprendere la funzionalità fisica. Sono le conseguenze dell’aggressione subìta la mattina del 27 novembre scorso fuori dagli arrivi del Terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino da un pensionato romano di 60 anni, residente a Spinaceto, appena rientrato nella Capitale dopo un soggiorno a Madrid dove lavora la moglie. A colpirlo un tassista coetaneo, anche lui romano, denunciato dagli agenti della Polaria per lesioni gravi, aggravate dai futili motivi. L’uomo è stato rintracciato dagli investigatori dopo indagini complicate perché non appartiene ad alcuna cooperativa e la sua auto bianca non ha simboli sulle portiere. Il motivo dell’aggressione sta nel fatto che il cliente avrebbe osato chiedere all’autista se avesse avuto l’intenzione di attivare il tassametro visto che nel suo caso non si sarebbe potuta attivare la tariffa fissa da Fiumicino alle Mura Aureliane di 48 euro, perché doveva tornare a casa a Spinaceto. Una corsa da una ventina di euro al massimo. Da qui la reazione scomposta e volgare del conducente, («Fai come ti pare, se non va bene scendi e non rompere i c......») che ha poi preso a bordo una seconda cliente accompagnata da un volontario del taxi service - il personale con il fratino giallo -, che aveva assistito a tutta la scena e anche al drammatico seguito-. A un certo punto infatti, sotto l’occhio delle telecamere di sicurezza, il cliente, visto che il suo posto era stato preso da un altro, dopo che il tassista gli aveva scaricato i bagagli già a bordo, ha bussato sulla carrozzeria del taxi per far presente al conducente che non poteva comportarsi in quel modo: per tutta risposta il 60enne è sceso dalla vettura e gli ha sferrato un pugno al volto provocandogli la frattura del setto nasale. Poi è ripartito senza che nessuno muovesse un dito per aiutare il ferito, successivamente soccorso all’interno dell’aeroporto da due agenti della Polaria. Le indagini sono scattate subito fino all’individuazione dell’aggressore. «Mi ha danneggiato la macchina, ho perso la testa», si è giustificato il tassista, che ha la licenza rilasciata dal Comune di Roma, e per il quale la sindaca Virginia Raggi ha chiesto la sospensione, mentre il primo cittadino di Fiumicino Esterino Montino ha già deciso di emettere nei suoi confronti il daspo urbano con l’allontanamento dallo scalo aereo.

Roma, tassisti violenti: schiaffi a La Vardera dai battitori liberi. Le Iene il 7 dicembre 2019. Ismaele La Vardera, nel servizio in onda domenica a Le Iene, ci racconta i soprusi e le truffe messi in atto dai tassisti “battitori liberi” della Capitale. Proprio quelli che all’aeroporto di Fiumicino hanno preso a pugni un turista che aveva chiesto solo di accendere il tassametro. Aeroporto di Roma Fiumicino: un uomo appena arrivato dalla Spagna si avvicina a un tassista e gli chiede una corsa con il tassametro acceso. La risposta è immediata, ma non il sì o il no che vi aspettereste: il tassista gli sferra un pugno in pieno volto, rompendogli il setto nasale. Non è una scena di un film, ma un fatto incredibile appena accaduto, che racconta una realtà di cui anche Ismaele La Vardera ci parla, nel servizio in onda domenica 8 dicembre a Le Iene su Italia1. È un viaggio nel mondo dei “battitori liberi”, che anche per la Iena ha comportato una sorte simile: uno schiaffone in pieno volto. Ismaele La Vardera ci racconta di alcuni tassisti che cercano di accaparrarsi le corse più “ghiotte”, facendosi pagare in nero e aumentando il prezzo della corsa una volta arrivati a destinazione. E quando la Iena è andata a chiedere spiegazioni proprio ad alcuni di quei tassisti, la cui truffa avevamo smascherato con l’uso di una telecamera nascosta, è stato aggredito a suon di schiaffi.

Tassisti “battitori liberi” di Roma: truffe, minacce e schiaffoni. Le Iene il 9 dicembre 2019. Ismaele La Vardera ci racconta come operano, tra soprusi e presunte truffe ai clienti, i “battitori liberi” della Stazione Termini, ovvero i tassisti romani che cercano di accaparrarsi in ogni modo le corse più vantaggiose. Quando Ismaele Vardera va a chiedere spiegazioni ad alcuni di loro, “beccati dalle nostre telecamere nascoste, rimedia anche uno schiaffone in pieno volto. Ce la siamo cavata, si fa per dire, con uno schiaffone in pieno volto. Ismaele La Vardera è andato alla stazione Termini di Roma e ci ha raccontato come lavorano “i battitori liberi”, quei tassisti che con aggressività e trucchi cercano le corse più redditizie a danno dei clienti. Solo un giorno fa all’Aeroporto di Roma Fiumicino, un cliente era stato colpito con un pugno in pieno volto da un tassista, al quale aveva “osato” chiedere di accendere il tassametro. I battitori liberi di cui ci parla Ismaele La Vardera non sono meno aggressivi: cercano di accaparrarsi le corse più “ghiotte”, si fanno pagare ovviamente  in nero e alla fine aumentano anche il prezzo della corsa, nonostante le tariffe fisse siano indicate sullo stesso taxi. Eravamo stati contattati da una fonte che ci aveva raccontato: “Sono tassisti regolari, con licenza che si battono per la corsa che gli interessa scegliendo il cliente. Sono più di 13 anni che faccio questo lavoro e loro ci soni sempre stati. A Termini ne ho visti alternarsi più di 40. E Termini è solo la punta dell’iceberg, piccoli gruppi sono sparpagliati in tutta Roma.” I battitori liberi, spiega ancora questo collega, sono disposti a tutto pur di continuare a fare i propri affari: “Una volta un collega cercava di combatterli, ha trovato la bomba davanti alla porta”. E aggiunge, per farci capire il giro d’affari di queste persone: “Guadagnano il doppio, il triplo degli altri colleghi. Basti pensare che dalla stazione a Piazza di Spagna chiedono 30 euro, il prezzo che un tassista normale chiede per arrivare a Ciampino”. Mandiamo un nostro complice a prendere uno di quei taxi, per andare proprio a piazza di Spagna. Il taxista chiede 25 euro ma una volta arrivati a destinazione, ecco che ne pretende 30. Facciamo la stessa tratta con il tassametro acceso, prendendo un taxi che lavora secondo le regole e quella stessa corsa costa, in realtà, appena 6,70 euro! Facciamo un altro tentativo per capire se fanno i furbi anche con le corse a tariffe fisse, i cui prezzi sono indicati obbligatoriamente sugli stessi taxi. Per una corsa all’aeroporto di Fiumicino ci vengono chiesti 55/60 euro, mentre la tariffa dovrebbe essere per legge 48 euro. Ma una volta arrivati all’aeroporto, quel prezzo lievita addirittura sino a 75 euro! Quando Ismaele La Vardera va a chiedere spiegazioni proprio ad alcuni di questi battitori liberi sul cui taxi siamo saliti, non la prendono benissimo. All’inizio negano anche solo di conoscere questa categoria di tassisti: “Se è come mi dice è una cosa sbagliata certamente” e poi fugge via. Arriva un suo collega che con un fare molto aggressivo vuole allontanarci. “Toglietevi di mezzo che lui è pericoloso”, spiega un altro indicando l’uomo che vuole allontanarci. Proprio quest’uomo, mentre altri due cercano di bloccare l’operatore, tira uno schiaffone in piena faccia alla Iena. Ismaele La Vardera va anche dalle cooperative di tassisti a cui appartengono alcuni di questi battitori liberi e ci rispondono così: “Segnaliamo queste situazioni da tempo, nessuno vuole intervenire”. “Purtroppo il Comune di Roma negli ultimi dieci anni non ha fatto dei controlli assidui sulla categoria”, aggiunge un altro sindacalista.

Un terzo spiega: “Posso arrivare fino a un certo punto, sopra non posso andare, lei deve andare a chiedere in Comune”. Decidiamo di andare dalla sindaca Virginia Raggi, la prima che è chiamata a tutelare i tassisti regolari e anche l’immagine della Capitale. “Non posso commentare una cosa che non conosco. Mi faccia vedere i materiali che avete raccolto e poi commento”, dice. Lasciamo i video registrati alla persona indicata dalla sindaca e parliamo con l’assessore alla Mobilità del comune di Roma, Pietro Calabrese, che ha il potere di rilasciare o sospendere le licenze dei taxi. “La ringrazio perché questa cosa non sa quanto ci è di aiuto, noi abbiamo già incrementato i controlli”, dice. “Ogni volta che accadono queste cose ci sono sanzioni molto pesanti, addirittura fino all’annullamento della licenza. A questi tassisti mi sento di dire ‘avete finito di lavorare con Roma capitale’”. Il Comune di Roma è stato di parola e ci ha fatto sapere che, a seguito dei video che abbiamo fornito, l’assessorato ha girato il materiale alla Polizia Locale per l’avvio delle indagini necessarie.

·         Il Pd è lobby continua.

Il Pd è lobby continua. Attenti gialloverdi ai favori per i re del tax free shopping! Scrive il 6 Settembre 2018 Libero Quotidiano. Una volta la sinistra italiana si contraddistingueva per la sua capacità di fare “lotta continua”. I tempi sono cambiati, e non è detto che sia un male. Oggi però il principale partito di quell’area, il Partito democratico, è diventato “lobby continua”. Coccolato per troppo tempo in salotti e accarezzato dai poteri forti, è sempre in prima fila nel difendere gli interessi di gruppi nazionali e internazionali. Dopo le polemiche sul caso Autostrade e i favori dispensati al gruppo Benetton fin dal governo di Romano Prodi del 2007, ancora una volta il Pd decide di travestirsi da lobbista di lusso in questo caso per difendere il duopolio in Italia di multinazionali.

Il settore è forse meno noto di quello autostradale, ma con percentuali di redditività non meno interessanti: il tax free shopping. Che cosa è? Semplice: un sistema inventato anni fa un italiano- Arturo Aletti, grazie a cui i turisti extraeuropei che fanno shopping in Italia pagano al momento dell’acquisto l’Iva che poi viene loro parzialmente restituita a fine viaggio- di solito in aeroporto- grazie a un intermediario accreditato. Una rete di esercizi commerciali si è messa d’accordo con gli intermediari, espone un simbolo sulla vetrina del negozio con la scritta “Tax free” che indica la convenzione con l’intermediario accreditato, che poi si adopera a fare avere alla dogana l’Iva trattenuta al turista americano, cinese, giapponese, russo, australiano e così via. Trattenendo però la propria percentuale di intermediazione. Il giro di affari è di circa 10 miliardi all’anno in Italia, e l’Iva da restituire quindi ammonterebbe a più di 2 miliardi di euro. Ma il condizionale qui è d’obbligo, perché dipende dalla commissione presa dall’intermediario, che spesso è molto alta e arriva a seconda dei casi fra il 30 e il 50%. Il sistema di fatto non è regolamentato, e capita che gli intermediari si mettano d’accordo con gli esercizi commerciali per fare un accordo a vantaggio di entrambi: commissioni alte, e una parte di queste retrocessa ai negozi che ci stanno. Il mercato italiano è di fatto dominato da due multinazionali: la Global Blue e Tax premier. Ed è chiuso ad altri soggetti, che pure provano a inserirsi come alcune interessanti e giovani start up (l’ultima è la Stamp fondata da Stefano e Michele Fontolan insieme a Federico Degrandis e Wagner Eleuteri). Ed è qui che entra in scena il Pd. Per aprire il mercato a soggetti terzi e spazzare via quel grigiore che avvolge il settore doveva entrare in vigore dal primo gennaio scorso l’obbligo di fatturazione elettronica per tutte le transazioni del tax free shopping, cosa che avrebbe fatto emergere tutte le cifre un po’ oscure che oggi ci sono sulle commissioni. E che avrebbe consentito di fare giocare su quel mercato tutti ad armi pari. Ma in vigore la norma non è entrata a quella data, perché nella scorsa legislatura ci ha pensato il Pd Sergio Boccadutri a far passare un emendamento che faceva comodo a Global Blue e Tax premier, rinviando la fatturazione elettronica al primo settembre 2018. La data finalmente è arrivata, nonostante le lamentele dei due monopolisti che fino all’ultimo hanno brontolato perché il primo rinvio non bastava, i software non erano abbastanza testati e le griffes del lusso non erano ancora pronte. Ma in Parlamento è di nuovo pronto il Pd della lobby continua a servire le due multinazionali del tax free shopping. Così nel fascicolo del milleproroghe ecco il nuovo emendamento Pd per spostare la fatturazione elettronica un altro po’, almeno al 15 novembre 2018. Boccadutri non è più stato eletto in Parlamento, così ci hanno pensato i renziani Mauro Del Barba e Silvia Fregolent che hanno firmato la loro proposta. A differenza della scorsa legislatura il partito della lobby continua non ha più una maggioranza che veniva da un’alleanza truffa con Sel. Conta poco, ed è all’opposizione. Ma questi sono bravissimi a fare lobby, e pure capaci di convincere qualche collega leghista o pentastellato che in fondo lo chiedono i commercianti, e che il rinvio è così breve e non fa male a nessuno. In alto le antenne quindi, altrimenti gli unici a vincere sempre sono i soliti noti…

Boccadutri: io lobbysta? Macchè. Caro Franco sono Sergio Boccadutri, ti ho risposto su twitter ma mi sa che non hai visto. Dato che la norma che secondo quanto scrivi serve ad “aprire il mercato a soggetti terzi e spazzare via quel grigiore che avvolge il settore” porta la mia firma, ti chiederei di riportarlo almeno nella notizia, come tra l’altro fu scritto anche sul tuo giornale qui Sergio Boccadutri.

Del Barba: siamo noi ad avere inventato la fattura elettronica. Segnalo che l’articolo omette alcuni aspetti fondamentali per chiarire il nostro intervento. Fummo noi (PD) a istituire l’obbligatorietà della fatturazione elettronica e a prevedere il sistema Otello 2.0. Fu proprio l’alto tasso di innovazione da noi introdotto a prendere in contropiede agenzia entrate e dogane che non furono pronte a inizio anno e a farci ipotizzare il primo settembre come data congrua per portare a regime l’intero processo. Solo a giugno sono terminate le ultime procedure ed è parso congruo anche alla stessa agenzia delle dogane sostenere la richiesta di un brevissimo allungamento dei tempi di chiusura progetto. Questi i fatti che testimoniano la nostra volontà di introdurre e rendere obbligatoria la fatturazione elettronica in questi casi. È nostra abitudine fare in modo che le norme cogenti siano adeguatamente supportate dalla pubblica amministrazione proprio per togliere ogni alibi agli esercenti e rendere applicabile ció che noi stessi abbiamo voluto e che stiamo dimostrando di volere con ostinazione e con giudizio. Ti ringrazio per l’integrazione che vorrai apportare all’articolo e per lo spazio che vorrai dare a queste precisazioni che, mi pare, ne cambiano completamente il segno. Cordialmente, On. Mauro Del Barba.

Avreste potuto dire altro? Fatto sta che i rinvii pro monopolisti portano quelle firme…Come è giusto fare, accolgo e pubblico qui le due note che mi hanno fatto arrivare gli esponenti Pd citati nell’articolo. Boccadutri in effetti si occupa di queste cose da lungo tempo, di Del Barba ho notizia solo ora. In realtà la dogana digitale è nata non dalla politica, ma dall’Agenzia delle Dogane stessa che nel 2015 firmò il primo accordo con Ikea Italia. Per altro lanciare l’obbligo di fatturazione elettronica per poi presentare uno dopo l’altro emendamenti che ne fannio slittare l’entrata in vigore non mi sembra che sia gran merito da intestarsi, e rende lecito il sospetto che poi siano più forti le lobbies delle buone intenzioni dei parlamentari o della stessa Agenzia delle Dogane. Quando si decide una cosa, si fa. E non la si rinvia continuamente con mille scuse. E siccome un po’ di trasparenza e chiarezza sui margini del mercato del tax free shopping è necessaria, la si finisca con i continui rinvii (poi ne arriva un altro) fra mille scuse. L’emendamento in commissione è stato appena bocciato, ed è un bene sia avvenuto così. Franco Bechis

·         Camera dei Deputati. Elettricisti a peso d'oro.

Elettricisti a peso d'oro. Quella casta invisibile che prospera con Fico. A Montecitorio 1.083 dipendenti: ai baristi 137mila euro annui, agli idraulici 154mila, scrive Domenico Di Sanzo, Mercoledì 30/01/2019, su "Il Giornale". Anno nuovo, vecchi tormentoni, per il Movimento Cinque Stelle. Complice il ritorno pre-natalizio di Alessandro Di Battista, i grillini, in vista delle elezioni europee di maggio, hanno rispolverato la battaglia delle battaglie. La lotta agli sprechi dei Palazzi della politica è di nuovo il catalizzatore dell'azione politica pentastellata, e in cima alla lista dei simboli del potere dell'«eurocasta» c'è la sede del Parlamento Europeo di Strasburgo. «Va chiusa - hanno detto Di Battista e Di Maio - perché può costare anche 200 milioni di euro l'anno». Tutto mentre in Italia il M5s continua a tambureggiare su un taglio agli stipendi dei parlamentari. Misura da approvare, hanno promesso, in tempi relativamente brevi attraverso la presentazione di un apposito ddl alle Camere. Sullo stesso tema, uno dei provvedimenti bandiera dei primi mesi dell'autoproclamato «governo del cambiamento» è stata la riduzione dei vitalizi agli ex onorevoli di Montecitorio. In pratica, un ricalcolo retroattivo degli assegni secondo il metodo contributivo. Si sa che le sforbiciate dirette alle tasche dei politici hanno un impatto elettorale immediato. Ma tra i corridoi e gli arazzi della Camera presieduta dal grillino Roberto Fico si annida anche un'altra casta, di cui si parla poco, nonostante l'assiduo vociare sull'abbattimento degli sprechi delle Istituzioni. Si tratta dei 1.083 dipendenti di Montecitorio. Un gruppone di impiegati che comprende le professionalità più varie, riuniti in ben 11 sigle sindacali. Ci sono dirigenti, commessi, tecnici documentaristi, interpreti e una serie di figure «tecniche», anche loro retribuite con compensi nettamente superiori alla media dei loro colleghi estranei al Palazzo. E le paghe sono aumentate a partire dal 1° gennaio del 2018, quando sono scaduti i tetti e i limiti agli stipendi in vigore nei tre anni precedenti. I gialloverdi hanno annunciato di voler mettere mano ai 179 milioni di spese per i dipendenti, ma non ci sono dettagli. Anzi, pare che l'unica cosa ragionevolmente fattibile sia quella di ripristinare il tetto agli stipendi scaduto l'anno scorso. E stiamo parlando comunque di cifre altissime. Per quanto riguarda la categoria degli operatori tecnici e assistenti parlamentari, ovvero centralinisti, baristi, commessi e i celebri 4 barbieri di Montecitorio lo stipendio, ai 40 anni di servizio, può arrivare fino a 137mila euro all'anno, con il tetto che si vorrebbe ripristinare saremmo sui 99mila euro. Sempre secondo la tabella della Camera, datata 1 luglio 2018, i collaboratori tecnici (elettricisti, idraulici ecc.) possono raggiungere i 154mila euro all'anno a fronte del famoso tetto di 106mila. Numeri inarrivabili per chi opera negli stessi settori, ma non è dipendente della Camera. Con il grado più alto, quello di consigliere parlamentare, che può intascare anche 361mila euro all'anno. Segretario parlamentare e Documentarista Tecnico Ragioniere sono, rispettivamente, a un massimo di 157mila euro all'anno e 240mila. In passato, i dipendenti che temevano di più la scure di possibili tagli erano i barbieri. Ridotti da sette a quattro a inizio 2016, ma comunque ancora inossidabili al loro posto nell'elegante salone in stile Liberty al piano aula di Palazzo Montecitorio. E c'è di più: l'11 ottobre scorso il Collegio dei Questori della Camera ha autorizzato l'acquisto di una nuova postazione proprio per l'odiato e amato «Reparto Barberia».

·         La Casta dei Sindacalisti.

Marco Ruffolo per “la Repubblica” il 17 ottobre 2019. C'è tra i sindacalisti del pubblico impiego chi, grazie al modo in cui viene interpretata una legge del 1996, è riuscito ad avere una pensione tre volte maggiore di quella che avrebbe dovuto percepire in base ai contributi versati . In media, se venisse abolito questo "favore", l' assegno scenderebbe del 27%. In tutti questi anni il problema delle "pensioni d' oro" sindacali è venuto fuori, risprofondato e riemerso decine di volte. Finché nel 2016 la Corte dei Conti ha stabilito che quel "favore" deve cessare. Adesso una circolare dell' Inps sembra rispondere a quella sentenza, ma secondo l' ex presidente dell' Istituto, Tito Boeri, non fa che confermare quella prassi estendendola a tutti i sindacalisti. Chi viene distaccato o si mette in aspettativa per svolgere attività sindacale, può ricevere dal proprio sindacato una "contribuzione aggiuntiva" rispetto a quella del proprio datore di lavoro. Può così recuperare gli aumenti di stipendio che si è perso con il distacco. Ma gli anni di attività sindacale, anche se svolti dopo il 1992, possono contare, ai fini pensionistici, sulla normativa pre-92, molto più vantaggiosa di quella successiva, perché il calcolo della pensione viene fatto sulla base dell' ultima retribuzione (quota A) e non sulla media degli ultimi 10 anni (quota B). Non poche volte è successo così che nell' ultimo mese prima di lasciare il lavoro il sindacalista ottenga forti aumenti di stipendio, elargiti proprio per gonfiare il suo assegno previdenziale. Così è andata per Raffaele Bonanni (ex leader Cisl), che ha visto la sua retribuzione salire fino a 336 mila euro lordi, tanto da poter andare in pensione con 8 mila euro al mese. Da un campione Inps di sindacalisti, viene fuori che, ricalcolando la loro pensione sulla base degli ultimi dieci anni, l'assegno scenderebbe in media del 27%, con un picco del 66%. Il picco riguarda un "pensionato d' oro", ex sindacalista ed ex dirigente pubblico, con assegno annuo di 114 mila euro. Senza il calcolo di favore scenderebbe a 39 mila. Nel 2016 qualcosa cominciò a muoversi quando la Corte dei Conti intervenne respingendo il ricorso di un segretario della Gilda insegnanti. L'Inpdap aveva riconosciuto ai fini pensionistici solo una parte della sua retribuzione. Lo stipendio di questo sindacalista si era in realtà quadruplicato nell' ultimo anno. Altro caso: è di poco tempo fa l' archiviazione dall' accusa di truffa per due rappresentanti degli insegnanti palermitani, che durante il loro periodo di distacco presso lo Snals, avevano percepito una retribuzione- extra solo l'ultimo anno. Il sistema non sembra in realtà violare le leggi. La discussione è invece sulla opportunità che circa duemila sindacalisti del pubblico impiego (questa è la stima di Boeri) possano avere un trattamento economico ben più generoso dei loro pari-grado e pari-mansione che non lavorano nel sindacato e che hanno la pensione calcolata sull' ultima retribuzione solo per gli anni precedenti il '92, non dopo.

Il paradosso dei sindacalisti. Tito Boeri. Editoriale tratto dal quotidiano La Repubblica il 14 Ottobre 2019. Il sindacato ha un ruolo fondamentale nelle nostre democrazie, non può perdere ulteriore credibilità, ma una circolare dell’Inps stabilisce che possono beneficiare di un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri lavoratori. Si può giustificare il fatto che le organizzazioni dei lavoratori vogliano contribuire ad aumentare la pensione di chi ha lavorato nel sindacato. Ma non possono farlo gravando sulle spalle di tutti, tanto di chi è sindacalizzato che di chi non lo è affatto. Soprattutto non possono appesantire ulteriormente il fardello che domani si ritroverà sulle spalle chi ancora non è nato. I populisti si presentano come gli unici veri rappresentanti del popolo in contrapposizione a un’élite totalmente corrotta. Il popolo ha sempre ragione, ma, a guardare bene, non tutti fanno parte del popolo. Tanto per i populisti della prima generazione (Getúlio Vargas) che per quelli della terza generazione (Jair Bolsonaro), gli indios dell’Amazzonia non erano, non sono, né mai saranno parte del popolo : “Hanno già a disposizione troppa terra“. Anche per Juan Perón il pueblo non ha mai incluso le popolazioni indigene della Pampa meridionale e della Patagonia. Per Donald Trump chi non ama il presidente, cioè lui stesso, non è “our people”. Il popolo di Umberto Bossi abitava da qualche generazione sopra la linea del Po. Per Matteo Salvini del popolo non fanno parte gli immigrati presumibilmente fino alla ventesima generazione. Per Luigi Di Maio i cittadini extra-comunitari non sono popolo tant’è che, nella conversione del decreto che ha istituito il reddito di cittadinanza, ha permesso di inserire un meccanismo che impedisce che percepiscano il sussidio quando ne avrebbero diritto. Confidiamo in un ravvedimento di Conte II rispetto a Conte I prima del 21 ottobre quando la tagliola scatterà per 170 mila extracomunitari. Come già messo in luce su queste colonne, basterebbe un decreto interministeriale che stabilisca che i documenti che vengono pretestuosamente richiesti dalla legge solo a loro non possono essere ottenuti nei paesi d’origine. I populisti reclamano per sé il monopolio dell’opposizione al punto da non concepire alcun ruolo per i corpi intermedi e per le associazioni della società civile. Nel 2013 Beppe Grillo aveva scritto l’epitaffio del sindacato: “I sindacati dovrebbero essere aboliti; sono una struttura vecchia, una struttura politica; non c’è più bisogno dei sindacati!“. Per queste ragioni ha destato alquanto stupore una recente circolare Inps vidimata dal Ministero del Lavoro (quindi sicuramente con il placet M5S) che stabilisce che i sindacalisti di ogni ordine e grado potranno beneficiare di un trattamento pensionistico di favore rispetto a tutti gli altri lavoratori, coloro cioè che il sindacato dovrebbe rappresentare. Vediamo di cosa si tratta. Un sindacalista che va in aspettativa o distacco sindacale si vede versare o accreditare dal proprio datore di lavoro o dall’Inps contributi previdenziali proporzionati allo stipendio del suo passato inquadramento, aggiornato in base agli accordi collettivi e agli scatti di anzianità. Il sindacato ha però la facoltà di integrare questi contributi con una propria contribuzione aggiuntiva proporzionata all’indennità che versa al sindacalista durante il periodo in cui opera a tempo pieno per il sindacato. Si tratta di una facoltà, non sono contributi obbligatori come quelli che riguardano circa un terzo della busta paga di un dipendente. Ragione vorrebbe perciò che questa contribuzione aggiuntiva venisse valorizzata con le regole del sistema contributivo: in altre parole i contributi dovrebbero sì aumentare la pensione del sindacalista, ma senza gravare sulle generazioni future.

Così non è secondo la circolare. Il sindacato e solo il sindacato può versare quando vuole questa contribuzione aggiuntiva e farla valere come una ulteriore componente fissa e continuativa della retribuzione del dipendente, valutandola ai fini pensionistici in base al regime pensionistico del dipendente. Prendiamo il caso di un sindacalista in distacco o aspettativa dal settore pubblico (sono circa 2 mila persone in questa condizione) che abbia, poniamo, 20 anni di contributi versati prima del 1992 e che avrebbe diritto nel suo inquadramento a una retribuzione di 1000 euro. Il sindacato può pagargli nel suo ultimo mese di lavoro un’indennità di 2500 euro e su questa indennità versare la contribuzione aggiuntiva. Se così facesse, il sindacalista si vedrebbe riconosciuti oltre 1300 euro in più di pensione al mese per sempre. La circolare dà così legittimità a una prassi, resa pubblica nell’operazione “Porte aperte“, che ha gonfiato le pensioni dei sindacalisti anche del 65% rispetto a quanto avrebbero ricevuto se le contribuzioni aggiuntive, cui solo loro hanno diritto, fossero state valutate col metodo contributivo. L’atto vidimato dal ministero impedirà all’Inps di recuperare somme non indifferenti erogate a molti ex-dirigenti sindacali e, di fatto, trasforma il sindacato in un datore di lavoro che può fare aumentare la quota retributiva pensionistica del rappresentante sindacale come se quell’aumento gli fosse stato concesso dal proprio datore di lavoro . In passato erano stati soprattutto i sindacati autonomi della scuola (a partire dallo Snals) e molte sigle minori a beneficiare di questa prassi. La circolare ora concede questa possibilità a sindacati di ogni ordine e grado, indipendentemente dalla loro rappresentatività (che oggi, diversamente che in passato, può essere misurata). Questo significa che anche un’associazione di pochi lavoratori, magari affiliati mediante criteri di appartenenza politica, può aspirare a concedere ai propri aderenti questo trattamento. Forse è proprio per questo che il ministero a guida populista ha approvato la circolare. Offre una sponda per premiare i dipendenti pubblici che mostrano di assecondare maggiormente i dettami dei “rappresentanti del popolo“. Contrariamente alle visioni dicotomiche dei populisti, il sindacato, come molti altri corpi intermedi, ha un ruolo fondamentale nelle nostre democrazie. Oggi ha perso credibilità agli occhi dei lavoratori e questi trattamenti di favore non sono certo un bel biglietto da visita per chi dovrebbe rappresentare operai e impiegati impoveriti dalle crisi di questi anni. Se il sindacato chiedesse di cambiare la circolare Inps, proponendo di valorizzare la contribuzione aggiuntiva in base alle regole del sistema contributivo, darebbe un segnale di correttezza e responsabilità che verrebbe molto apprezzato. Si può giustificare il fatto che le organizzazioni dei lavoratori vogliano contribuire ad aumentare la pensione di chi ha lavorato nel sindacato. Ma non possono farlo gravando sulle spalle di tutti, tanto di chi è sindacalizzato che di chi non lo è affatto. Soprattutto non possono appesantire ulteriormente il fardello che domani si ritroverà sulle spalle chi ancora non è nato.

Landini: Renzi mai lavorato, non capisce dramma licenziamento, scrive il 31 marzo 2015 La Press. "Quando si dà la libertà di licenziare, si deve sapere che il licenziamento, per uno che lavora, è un dramma. Forse lui, non avendo mai lavorato, fa fatica a capire questo tema. Ma per una persona che viene licenziata è un dramma personale". Lo ha detto il segretario della Fiom, Maurizio Landini, a margine del convegno su Pietro Ingrao alla Camera, riferendosi al premier Matteo Renzi.

Articolo 18, Landini (Fiom): "Alfano? Non ha mai lavorato...", scrive Alberto Maggi Giovedì, 14 agosto 2014, su Affari italiani. Abolire l'articolo 18 come chiede il ministro dell'Interno? "E' una sciocchezza colossale. Forse Alfano, non avendo mai lavorato in vita sua, non capisce", attacca Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil, intervistato da Affaritaliani.it. Che poi aggiunge: "L'hanno già cambiato, proprio il suo governo Monti e, come noto, non ha creato un posto di lavoro in più e ha fatto aumentare i licenziamenti". Renzi vuole riscrivere lo statuto dei lavoratori? "Sono d'accordo, ma per estendere diritti e tutele a chi non li ha".

Il premier Renzi vuole riscrivere lo statuto dei lavoratori. E' d'accordo?

"Penso che vada esteso anche a tutti quelli che non ce l'hanno. Siccome lo statuto vale solo per chi ha più di quindici dipendenti e non copre i lavoratori precari sono assolutamente d'accordo che vadano estesi diritti e tutele a tutti quelli che non ce li hanno. Anzi, penso che siamo in ritardo perché in questi anni sono state fatte troppe leggi che hanno aumentato la precarietà e ridotto i diritti delle persone che lavorano".

Alfano vuole abolire l'articolo 18. Che cosa ne pensa?

"E' una sciocchezza colossale. Forse Alfano, non avendo mai lavorato in vita sua, non capisce ma è una sciocchezza pura. Del resto l'articolo 18 l'hanno già cambiato, proprio il suo governo Monti e, come noto, non ha creato un posto di lavoro in più e ha fatto aumentare i licenziamenti. E come si è visto, pur modificando l'articolo 18, le imprese straniere non sono venute a investire in Italia. Il problema non è quello di rendere più facili i licenziamenti. Oggi le imprese non assumono perché non hanno da lavorare, quindi il problema è quello di far ripartire gli investimenti. Renzi farebbe bene ad ascoltare quello che dicono i lavoratori, se vuole cambiare questo Paese, e non quello che dice Alfano. Il ministro dell'Interno è stato in tutti gli ultimi governi e quindi qualche responsabilità per i disastri in cui ci troviamo ce le ha anche lui... Non è proprio nuovo".

Un giudizio sui primi mesi del governo Renzi?

"Su alcune cose ha fatto bene, penso agli 80 euro che andrebbero estesi. Su altre cose non sono d'accordo, come sulle riforme costituzionali che ha fatto. Il vero banco di prova è la politica economica e sociale ed è anche la politica che deve cambiare i vincoli europei. Se davvero Renzi vuole cambiare l'Italia, e i prossimi mesi saranno decisivi, deve fare i conti insieme ai lavoratori e alle lavoratrici di questo Paese".

Manovra correttiva, ci sarà?

"Non lo so. Non sono un economista ma dico che la situazione è gravissima e pesante e penso che bisogna andare a prendere i soldi dove ci sono per ridurre il debito pubblico. Si devono combattere l'evasione e la corruzione e fare tutte quelle cose che negli ultimi anni in questo Paese non sono state fatte dai governi precedenti. E poi bisogna rivedere la palla al piede dei vincoli europei, che è il vero punto su cui agire".

Landini: "Di Maio dice sciocchezze. Il mio stipendio pagato dagli iscritti, non con soldi pubblici", scrive il 28 febbraio 2019 Repubblica TV. "Sui privilegi dei sindacalisti Di Maio dice sciocchezze. Noi siamo pagati dagli iscritti, il mio stipendio non lo pago con i soldi pubblici ma con i soldi degli iscritti che versano l'1% in un fondo". Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini interviene a Otto e mezzo, il programma di Lilli Gruber in onda su La7 e si difende così dalle accuse del vicepremier Di Maio sui "privilegi dei sindacalisti". "La mia busta paga è pubblica, come segretario generale, dovrebbe essere secondo il nostro regolamento di 3700 euro netti".

Di Maio ha ragione e Landini sbaglia: le maxi pensioni dei sindacalisti sono un privilegio a carico dei cittadini, scrive Giuliano Balestreri su it.businessinsider.com il 28 febbraio 2019. “Sui privilegi delle pensioni dei sindacalisti, Di Maio dice sciocchezze”. Il neo segretario della Cgil, Maurizio Landini, parte all’attacco del vice premier e ministro del Lavoro, ma scivola sulla sua prima buccia di banana. D’altra parte a fare i conti è stato l’Inps con l’operazione “Porte aperte” dalla quale emerge che i contributi versati dai sindacalisti valgono – in media – il 27%. Un esempio? Prendete due dipendenti della stessa azienda: il primo sviluppa tutta la propria carriera al proprio posto; il secondo dopo qualche anno inizia a dedicarsi al sindacato e ottiene il distacco; con gli stessi anni di contributi versati, il primo prenderà un assegno da mille euro mese, il secondo da 1.270 euro. Un bonus finanziato “della collettività dei lavoratori contribuenti” dell’ente previdenziale. In alcuni casi, però, l’assegno arriva fino al 66% in più di quanto spetterebbe a un lavoratore comune. Quindi, quando Landini dice che il suo stipendio è pagato dagli iscritti alla Cgil dice la verità, ma quando parla di pensioni fa parecchia confusione e sembra dimenticare degli enormi vantaggi di cui lui stesso beneficia grazie al distacco. Peraltro Landini gode di privilegi ancora superiori perché ha iniziato a lavorare ben prima del 1993 e dopo cinque anni in fabbrica ha iniziato a dedicarsi al sindacato in distacco. “Abbiamo intenzione di intervenire sui privilegi di alcune categorie. Cominceremo con una circolare che interviene su quello che si sono concessi i sindacalisti” aveva detto all’inizio del 2017 l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri ricordando che “alla fine della loro carriera (i sindacalisti, ndr) hanno versato copiosamente contributi per rimpinguare la loro posizione previdenziale”, con l’effetto di aumentare l’importo della pensione percepita. Scaricando i costi del privilegio sull’intera collettività. Il provvedimento varato dall’Inps è, però, rimasto in un cassetto affossato dal Pd (proprio in quei mesi, peraltro, la Cgil si ammorbidiva molto nei confronti del Jobs Act). A far tornare d’attualità la questione è il Movimento 5 Stelle e la paura dei sindacalisti di vedersi ridotta la maxi pensione ha fatto gridare all’attentato alla libertà. Il punto ruota sul diritto – sacrosanto – dei rappresentati dei lavoratori in aspettativa non retribuita o in distacco sindacale (l’aspettativa retribuita utilizzata nel settore pubblico, ndr) a ricevere l’accredito dei contributi figurativi durante l’assenza dal loro impiego. Spesso, però, per lo stesso periodo vengono loro versati anche i contributi dal sindacato che, per i dipendenti del settore pubblico, vengono ancora valorizzati applicando le regole precedenti al 1993 (la pensione viene quindi calcolata sull’ultima retribuzione percepita). Certo i contributi figurativi “non comprendendo quegli emolumenti collegati all’effettiva prestazione lavorativa o condizionati da una determinata produttività, né incrementi retributivi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell’anzianità di servizio”, ma è anche vero che “per compensi per attività sindacale non superiori alla retribuzione figurativa del lavoratore, l’organizzazione sindacale non paga mai alcun contributo” e che “i contributi sulla retribuzione figurativa del lavoratore sono a carico della gestione previdenziale di appartenenza , quindi della collettività dei lavoratori “contribuenti” della gestione”. Il versamento dei contributi aggiuntivi non incide su quando si può andare in pensione, ma ha riflessi importanti sul livello dell’assegno, in particolare per i dipendenti pubblici che si trovano nel regime misto o retributivo precedente alla riforma Fornero. “I periodi di contribuzione aggiuntiva – spiega l’Inps – vengono riconosciuti ai fini del calcolo della quota di pensione determinata per le anzianità maturate fino al 1992 (la cosiddetta quota A). La quota A di pensione è determinata sulla base della retribuzione percepita l’ultimo giorno di servizio ed è quindi soggetta a regole più generose rispetto a quelle applicate dal 1992 in poi per il calcolo della quota B di pensione, che considera la media delle retribuzioni percepite in un periodo di tempo più lungo”. Tradotto: un versamento elevato di contribuzione aggiuntiva sull’ultima retribuzione incide in modo molto significativo sulla quota A, “facendo aumentare anche di molto la pensione complessiva dei sindacalisti del settore pubblico, cosa che non è possibile per tutti gli altri lavoratori”. Trasferendo la contribuzione aggiuntiva dei sindacalisti dalla quota A alla quota B, si assisterebbe a “una riduzione media dell’ordine del 27% sulla pensione lorda”. Nel frattempo, del costo del privilegio si fanno carico tutti gli italiani.

Landini, quel gran lavoratore che non lavora da trent'anni. Il segretario della Fiom, astro nascente della sinistra radicale, si vanta di avere fatto l'apprendista a 15 anni. Ma non dice che dagli anni '80 fa il sindacalista a tempo pieno, scrive Massimiliano Scafi, Domenica 02/11/2014, su "Il Giornale". No, nessun Partito del Lavoro, giura il nuovo astro Maurizio Landini. Innanzitutto perché non c'è un partito da fondare: «Non mi va di discutere di queste cavolate». E poi perché, almeno da un po' di tempo, non c'è nemmeno un lavoro. Sempre in piazza e mai in fabbrica, sempre al tavolo delle trattative e mai al chiodo: la regola aurea dei sindacalista non sbaglia mai, però stavolta per il segretario della Fiom fa una piccola eccezione. «Ho cominciato a quindici anni a fare l'apprendista saldatore. Eravamo un gruppo di ragazzi giovani in una cooperativa di Reggio Emilia. Dovevamo lavorare all'aperto, faceva freddo d'inverno e c'era un disagio». Landini ha cominciato presto ma presto ha pure finito, visto che a metà degli anni ottanta era già nel sindacato e che nel 1991 era segretario degli operai metallurgici di Reggio Emilia. Insomma, sono trent'anni che la fabbrica la frequenta dal di fuori, come del resto tempo fa gli ha ricordato a brutto muso Sergio Chiamparino, all'epoca sindaco di Torino. Landini lo aveva invitato, insieme a Piero Fassino, ad andare alle catene di montaggio se voleva conoscere davvero i risvolti dell'intesa con la Fiat su Mirafiori. E Chiamparino: «Cadute di stile demagogiche e populistiche. Noto che certe critiche vengono da alcuni esponenti della Fiom, e in certi casi vengono da persone a cui si può rispondere l 'as mai cercà la busca , non ha mai strappato l'erba, né alla catena di montaggio né altrove. Io almeno qualche anno di lavoro normale l'ho fatto, anche se da laureato, però c'è qualcuno che di lavoro normale non ha mai fatto un'ora». In realtà non è proprio così, gli esordi di Landini sono stati duri. Classe 1961, quattro fratelli, figlio di un cantoniere che aveva fatto la Resistenza e di una casalinga, dopo le scuole medie si iscrisse a un istituto per geometri, ma fu costretto ad abbandonare la scuola dopo due anni per contribuire alle magre entrate familiari. A quindici anni entrò in un'azienda metalmeccanica in qualità di apprendista saldatore. Lavorava, racconta, all'aperto. «Era una cooperativa rossa, eravamo tutti iscritti al Partito Comunista e i dirigenti ci dissero che sì, avevamo ragione, però dovevamo tenere conto che la cooperativa aveva dei problemi e che dovevamo fare degli sforzi». Già all'epoca Landini, come adesso con la Cgil della Camusso, faticava a sopportare le rigide regole del partito. «Io ero giovane e d'istinto mi venne di interromperlo e di dirgli: Guarda, tu sei un dirigente, e io in tasca ho stessa la tessera che hai anche tu. Però ho freddo lo stesso. Lì ho capito una cosa: il sindacato deve rappresentare le condizioni di chi lavora e non deve guardare in faccia nessuno». A metà degli anni ottanta diventò delegato sindacale della Fiom e venne convinto a impegnarsi a tempo pieno all'interno della struttura sindacale. Da lì iniziò l'itinerario che lo avrebbe portato venticinque anni dopo a raggiungere il vertice dell'organizzazione. Ha trattato vertenze difficili, Electrolux, Indesit, Piaggio, ha scritto libri nel 2010 ha conquistato la segreteria dei metalmeccanici, ha sfidato la Camusso, Ha pure flirtato con Renzi, con il quale adesso sembra entrato il rotta di collisione, anche se qualcuno pensa che si tratti di un gioco della parti. E ha litigato con Alfano, usando paradossalmente il solito argomento: «Abolire l'articolo 18 come chiede il ministro dell'Interno? E' una sciocchezza colossale. Forse, non avendo mai lavorato in vita sua, non capisce». E ora lo vorrebbero alla testa di un partito alla sinistra della sinistra. I sondaggi sono buoni, i possibili compagni di strada, Stumpo, Fassina, Vendola, Zoggia, un po' meno. Così lui si defila. Altri lo rivorrebbero il pista per scalzare la Camusso. Landini nega deciso: «Io mio mandato alla Fiom scade tra tre anni e vorrei completarlo». Però, mai dire mai: «La nostra è una battaglia sindacale, che certo ha anche un significato politico, perché stiamo proponendo un modello sociale differente». Insomma, dopo aver diversamente lavorato per trent'anni, non vuole andarsene in pensione.

Tiziana Caprini (M5S): “Basta privilegi, tagliamo le pensioni d’oro dei sindacalisti”, scrive il 19 Gennaio 2019 Agenpress. Sono più di 30 anni che i lavoratori vedono i propri diritti calpestati, grazie ai sindacati troppo impegnati a tutelare i propri privilegi. Basti sapere che attualmente ci sono sindacalisti che godono dei benefici della legge Mosca, la n. 252 del 1974, che calcola la pensione in base allo stipendio degli ultimi mesi – dichiara sul suo Blog Tiziana Caprini. La classifica dei big che prendono una pensione tra gli ex sindacalisti vede in prima fila Susanna Camusso che si porta a casa 4mila euro netti, seguita da Annamaria Furlan che arriva a 3964 euro e Carmelo Barbagallo con 2800 euro. Nel decreto che contiene Reddito di Cittadinanza e Quota100 ci sarà anche il taglio mensile delle pensioni d’oro dei sindacalisti: gli emolumenti per il ritiro dal lavoro dei sindacalisti dovrebbero essere ricalcolati con il metodo contributivo e non con quello retributivo. È arrivato il momento che i privilegiati inizino a pagare: al contrario, chi è stato massacrato deve riavere indietro ciò che gli spetta, così da cancellare ogni ingiustizia sociale! – conclude Tiziana Ceprini –.

In questa sezione pubblichiamo informazioni che chiariscono le regole previste per la composizione e l'effettivo funzionamento delle maggiori gestioni pensionistiche amministrate dall'Istituto, scrive l'Inps il 10 novembre 2015. Che cos'è "Porte Aperte"?

Le pensioni dei sindacalisti. I sindacalisti, al contrario di altre categorie analizzate in questa sezione, non appartengono ad una gestione previdenziale a sé stante. Tuttavia hanno regole contributive diverse dagli altri lavoratori perché possono vedersi ugualmente versati i contributi (o addirittura lo stipendio) da enti terzi rispetto al sindacato presso cui prestano effettivamente il proprio lavoro e perché possono, prima di andare in pensione, farsi pagare dalle organizzazioni sindacali incrementi delle proprie pensioni a condizioni molto vantaggiose. Vediamo come.

I contributi dei sindacalisti. I lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali o nazionali possono avvalersi dell'istituto dell'aspettativa per motivi sindacali (art. 31 dello Statuto dei lavoratori). L'aspettativa può essere retribuita, nel qual caso si parla di distacco, oppure non retribuita. L'aspettativa non retribuita non comporta, per il datore di lavoro originario, il versamento dei contributi previdenziali per il lavoratore. Nel caso del distacco, nonostante l'assenza di una prestazione lavorativa a suo favore, il datore di lavoro originario continua ad erogare la retribuzione e a versare i contributi previdenziali. E' quindi molto più onerosa per il datore di lavoro originario. Secondo le banche dati dell'istituto, i lavoratori in aspettativa non retribuita nel settore privato sono stati 2773 nel 2013 mentre è molto rara, in questo settore, l'aspettativa retribuita. Viceversa, è frequente nel settore pubblico. Le banche dati dell'Istituto evidenziano che, nel 2013, i lavoratori del settore pubblico in distacco sindacale erano 1045¹ mentre i dipendenti in aspettativa sindacale erano 748. I dati diffusi il 19 ottobre 2011 dal Ministero della pubblica amministrazione e la semplificazione segnalano che le giornate di assenza dei pubblici dipendenti per motivi sindacali (inclusi i permessi) nel 2010 rappresentano lo 0,16% delle giornate complessive di lavoro, pari al lavoro di 3.655 dipendenti per un anno e si traducono in un costo complessivo annuo valutabile in 113.277.390 euro. Aspettativa non retribuita e aspettativa retribuita (il distacco sindacale) sono soggetti a due regimi contributivi diversi che passeremo ora a descrivere.

1. L'ASPETTATIVA NON RETRIBUITA. Con l'aspettativa non retribuita si verifica una vera e propria sospensione del rapporto di lavoro. Vengono meno per il lavoratore il dovere della prestazione lavorativa e, per il datore di lavoro, l'obbligo di erogare la retribuzione e la contribuzione correlata. Normalmente l'organizzazione sindacale presso cui il lavoratore presta servizio gli corrisponde una somma per l'attività svolta. Nonostante la sospensione del rapporto di lavoro, la posizione del rappresentante sindacale in aspettativa non retribuita viene tutelata sotto il profilo pensionistico con l'accredito dei contributi figurativi (sia quelli dovuti dal datore sia quelli dovuti dal lavoratore) a carico della gestione previdenziale alla quale il lavoratore è iscritto. Inoltre vi possono essere ulteriori contributi (contribuzione aggiuntiva) versati dal sindacato.

La contribuzione figurativa. Durante tutto il periodo di aspettativa, sulla posizione assicurativa del sindacalista vengono accreditati contributi figurativi, commisurati alla retribuzione che avrebbe percepito in costanza di rapporto di lavoro. Questa retribuzione è comprensiva degli incrementi contrattuali e degli scatti di anzianità. Non comprende, invece, gli emolumenti che presuppongono l'effettiva prestazione lavorativa, ad esempio i compensi per lavoro straordinario o i premi di produttività. Per i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali il collocamento in aspettativa è efficace, ai fini del beneficio della copertura figurativa, dopo che è decorso il periodo di prova previsto dal contratto collettivo di lavoro della categoria di appartenenza e comunque un periodo non inferiore a sei mesi. La contribuzione figurativa non è riconosciuta a chi, non essendo dipendente dell'azienda al momento della dell'incarico sindacale, è stato assunto successivamente, nel corso dello svolgimento del mandato o incarico per il quale è fatta richiesta.

Il riconoscimento della contribuzione figurativa opera esclusivamente ai fini pensionistici e non è applicabile alle gestioni previdenziali (TFS/ TFR).

Gli oneri corrispondenti alla contribuzione figurativa sono addebitati alla gestione previdenziale alla quale è iscritto il lavoratore.

Con l'art.3, comma 9 del decreto legislativo 564/96 il diritto alla contribuzione figurativa per i periodi non retribuiti di aspettativa per cariche sindacali è previsto anche per i lavoratori iscritti ai fondi esclusivi dell'assicurazione generale obbligatoria.

Le aspettative sindacali non retribuite comportano la sospensione dell'attività lavorativa per tutta la durata dell'aspettativa sindacale. La tutela previdenziale viene meno quando:

il provvedimento di aspettativa perde efficacia;

per il rientro in servizio;

per interruzione del rapporto di lavoro;

per cessazione dell'attività aziendale.

Per gli iscritti alla Gestione Dipendenti Pubblici è esclusa la possibilità di fruizione di periodi di aspettativa sindacale non retribuita per periodi inferiori a tre mesi. Condizione per l'accredito del periodo di contribuzione figurativa, per i pubblici e per i privati, è la presentazione dell'apposita domanda, per ogni anno solare o frazione di esso, entro il termine tassativo del 30 settembre dell'anno successivo a quello in cui il lavoratore ha usufruito dell'aspettativa, pena la decadenza dal diritto.

La contribuzione aggiuntiva. La contribuzione aggiuntiva è una contribuzione di natura volontaria, contemplata dall'art.3, commi 5 e 6, del decreto legislativo 564/1996, destinata ad integrare la contribuzione figurativa o effettiva versata a favore dei lavoratori dipendenti, che siano dirigenti sindacali o componenti degli organismi direttivi statutari delle confederazioni ed organizzazioni sindacali, aventi il requisito della rappresentatività nel comparto o area di riferimento. In particolare, il comma 5 prevede che dal 1° dicembre 1996, a favore dei lavoratori collocati in aspettativa, possa essere versata, facoltativamente, una contribuzione aggiuntiva sull'eventuale differenza tra le somme corrisposte per lo svolgimento dell'attività sindacale e la retribuzione di riferimento per il calcolo della contribuzione figurativa. Come detto, la retribuzione figurativa corrisponde alla retribuzione commisurata a quella cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in base ai contratti collettivi di categoria, non comprendendo quegli emolumenti collegati all'effettiva prestazione lavorativa o condizionati da una determinata produttività, né incrementi retributivi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell'anzianità di servizio. Dalle regole suesposte discende quanto segue: per compensi per attività sindacale non superiori alla retribuzione figurativa del lavoratore, l'organizzazione sindacale non paga mai alcun contributo; I contributi sulla retribuzione figurativa del lavoratore sono a carico della gestione previdenziale di appartenenza, quindi della collettività dei lavoratori "contribuenti" della gestione.

2. L'ASPETTATIVA RETRIBUITA O DISTACCO SINDACALE. Con il distacco sindacale retribuito, al lavoratore che ricopre una carica sindacale è consentito di sospendere l'attività lavorativa, completamente o parzialmente, per potersi dedicare allo svolgimento dell'attività sindacale. Come già accennato, a differenza dell'aspettativa non retribuita, al dirigente sindacale è garantita la retribuzione ed i periodi di distacco sono equiparati a tutti gli effetti al lavoro svolto presso il datore di lavoro originario anche ai fini del trattamento pensionistico. Quest'ultimo versa tanto lo stipendio che i contributi per il sindacalista. Nel distacco, il rapporto di lavoro viene sempre ritenuto vigente, evidentemente considerando di interesse pubblico lo svolgimento di attività sindacale, equiparandola all'ordinaria prestazione lavorativa del dipendente. Poiché il distacco sindacale rappresenta un notevole costo per la pubblica amministrazione (nel settore privato è rarissimo), sia come singolo datore di lavoro che nel suo insieme, i distacchi sindacali sono contingentati da norme contrattuali e di legge. Per i pubblici dipendenti esistono delle limitazioni anche alle aspettative. Sulla materia è intervenuto da ultimo il Governo Renzi. Con l'articolo 7 del DL 90/2014, convertito con legge 114/2014, i distacchi e permessi sindacali retribuiti presso ciascuna amministrazione e per ciascuna organizzazione sindacale sono stati ridotti del 50%. Gli effetti a regime di questa misura decorrono dal 2015. Anche per i sindacalisti in distacco delle PPAA è previsto l'istituto della contribuzione aggiuntiva. Il comma 6 dell'art.3 del decreto legislativo 564/1996 prevede che la facoltà di cui al comma 5 (la contribuzione aggiuntiva) possa essere esercitata per gli emolumenti e le indennità corrisposti dall'organizzazione sindacale ai lavoratori in distacco sindacale con diritto alla retribuzione erogata dal proprio datore di lavoro. A differenza dell'aspettativa non retribuita, in questo caso il sindacato, se sceglie di versare la contribuzione aggiuntiva, è tenuto a versare i contributi sull'intera indennità corrisposta al rappresentante per l'esercizio dell'attività sindacale e non solo su compensi superiori alla retribuzione figurativa. Il sindacalista ha quindi un vantaggio poiché questo comporta un importo maggiore di contributi versati a suo favore. Spesso usufruiscono del distacco coloro che ricoprono cariche dirigenziali all'interno del sindacato.

L'effetto dei contributivi aggiuntivi sulla pensione. I contributi aggiuntivi possono essere versati sia nel caso dell'aspettativa non retribuita che in quello del distacco. La facoltà può essere esercitata dall'organizzazione sindacale, previa richiesta di autorizzazione al fondo o regime pensionistico di appartenenza del lavoratore. La contribuzione aggiuntiva va determinata applicando la relativa aliquota pensionistica:

per i lavoratori collocati in aspettativa non retribuita sull'eventuale differenza tra le somme corrisposte nell'anno per lo svolgimento dell'attività sindacale e la retribuzione figurativa complessivamente accreditata nell'anno medesimo;

per i lavoratori  con  distacco  sindacale  retribuito  dal datore  di  lavoro  sul totale degli emolumenti  e indennità corrisposte dall'organizzazione sindacale.

I compensi attribuiti quali corrispettivi per lo svolgimento dell'attività sindacale sono destinati ad integrare la retribuzione ordinaria (virtuale, nei casi di aspettativa senza assegni, o effettiva, nei casi di distacco con retribuzione) ai soli fini pensionistici. La contribuzione aggiuntiva deve quindi necessariamente coesistere con quella principale (figurativa o effettiva) e non dà luogo di per sé al riconoscimento di anzianità contributiva. Se il versamento della contribuzione aggiuntiva non incide su quando si può andare in pensione, ha riflessi importanti sul livello della pensione, soprattutto per i dipendenti pubblici che si trovano nel regime misto o in regime retributivo ante riforma Fornero. Infatti, i periodi di contribuzione aggiuntiva vengono riconosciuti ad ai fini del calcolo della quota di pensione determinata per le anzianità maturate fino al 1992 (la cosiddetta quota A). La quota A di pensione è determinata sulla base della retribuzione percepita l'ultimo giorno di servizio ed è quindi soggetta a regole più generose rispetto a quelle applicate dal 1992 in poi per il calcolo della quota B di pensione, che considera la media delle retribuzioni percepite in un periodo di tempo più lungo. In sintesi un versamento elevato di contribuzione aggiuntiva sull'ultima retribuzione incide in modo molto significativo sulla quota A, facendo aumentare anche di molto la pensione complessiva dei sindacalisti del settore pubblico, cosa che non è possibile per tutti gli altri lavoratori. Per valutare gli effetti di questo trattamento particolarmente vantaggioso riservato ai sindacalisti, vediamo cosa avverrebbe trasferendo la contribuzione aggiuntiva dei sindacalisti dalla quota A alla quota B in una serie di casi effettivi.

Cosa avverrebbe trasferendo la contribuzione aggiuntiva dalla quota A alla quota B. Qui di seguito si riportano alcuni casi di pensionati appartenenti al settore pubblico per i quali la pensione è stata ricalcolata escludendo la contribuzione aggiuntiva dalla quota A e attribuendola alla quota B. Il grafico mostra la pensione lorda annua effettivamente percepita e la pensione che ciascun soggetto percepirebbe se la contribuzione aggiuntiva fosse conteggiata all'interno della quota B anziché nella quota A. Sebbene il campione sia ridotto si nota una riduzione media dell'ordine del 27% sulla pensione lorda. In un caso si avrebbe addirittura una riduzione del 66% della somma percepita.

1 Il dato sui distacchi sindacali è una stima per difetto in quanto ricavato dai flussi telematici mensili delle OOSS per i soggetti con contribuzione aggiuntiva. 

2 Concessa a partire dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.564/1996

·         Gli uomini d'oro di Banca d'Italia.

Gli uomini d'oro di Banca d'Italia. Commissari, avvocati, potenti e rispettati con incarichi super retribuiti. Francesco Bonazzi il 24 maggio 2019 su Panorama. E' bellissima, la Costituzione italiana. A un certo punto recita perfino: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme». Oddio, per chi è scaramantico, il fatto che l’articolo in questione sia il numero 47 (’O muorto, nella Smorfia napoletana) potrebbe suonare come un avvertimento. Però promettere «tutela» è sempre meglio che dire: «La Repubblica lascia a sé stesso il risparmiatore». Come invece è avvenuto in questi ultimi cinque anni (a parte il decreto di Pasqua per i truffati meno abbienti) per mezzo milione di famiglie coinvolte nei crac delle due Popolari venete, delle quattro Casse «risolte» a dicembre del 2015 (Popolare Etruria, Banca Etruria, CariFerrara e Carichieti), o per i risparmiatori che hanno perso tutto o quasi con Monte dei Paschi e Carige. Dietro ogni crisi, però, si nascondono sempre grandi occasioni di guadagno e tra queste non si raccontano mai le imprese di un ristretto drappello di grandi professionisti delle magagne bancarie. Sono i commissari, avvocati e commercialisti di assoluta fiducia della Vigilanza e del governatore Ignazio Visco, temuti e rispettati nel mondo del credito, ascoltati con riverenza dai magistrati (spesso pm di piccole procure) e che poi, tra un commissariamento e l’altro, offrono consulenza alle varie banche in tema di fusioni e acquisizioni, o addirittura su come tenere i rapporti con le autorità di vigilanza. «Il mondo è la mia ostrica, e io l’apro con la spada», fa dire Shakespeare a Pistol nelle Allegre comari di Windsor, tre secoli e mezzo prima della Costituzione della Repubblica italiana. E loro, gli uomini d’oro di Bankitalia, sanno come aprire l’ostrica delle banche finite in cattive acque con il calibrato uso di leggi, regolamenti, direttive e decreti. Il caso di cui si parla di più in questa primavera è quello di Carige, dalla quale il fondo Usa Blackrock è scappato a gambe levate. A Natale scorso, Bankitalia e Bce trasformano in commissari i due manager che stavano combattendo con i grandi soci per l’aumento di capitale, ovvero Fabio Innocenzi e Pietro Modiano, e affianca loro Raffaele Lener. In più, istituisce un comitato di sorveglianza composto da Gianluca Brancadoro, Andrea Guaccero e Alessandro Zanotti. Due di questi, Lener e Brancadoro, hanno gestito i principali problemi bancari degli ultimi anni.

Lener, romano, 49 anni, insegna diritto privato a Roma-Tor Vergata e ha liquidato per conto di Bankitalia due banche arabe come l’iraniana Sepah e la Ubae Arab Bank. Prima, era stato commissario del Credito triestino. Nel suo curriculum esibisce anche queste competenze: «Assistenza a istituti di credito nel contenzioso, nonché nell’ambito di piani di ristrutturazione (di crediti bancari); consulenza generale a istituti di credito quotati; assistenza nella stesura di piani di recovery e resolution». E in queste settimane, Lener è il legale che sta assistendo Banca Igea, l’erede di Banca Nuova, nel salvataggio della Banca del Fucino.

Molto attivo anche l’avvocato Gianluca Brancadoro, napoletano, 62 anni, cattedra di diritto commerciale a Teramo. Nei primi anni Novanta è stato vicecommissario della Federconsorzi, poi è stato commissario della Popolare di Spoleto, della Banca di Pistoia e della Banca etrusca salernitana, ex consigliere dell’Isvap, promotore della sfortunata Banca del Mezzogiorno per conto del ministero dell’Economia, consigliere della Sga, la società che gestisce le garanzie del Tesoro alle banche in difficoltà. E ora è a Genova, dove forse alla fine dovrà intervenire lo Stato. Come a Siena.

Il decano riconosciuto di questa particolare congregazione laica è comunque Bruno Inzitari, settant’anni, cagliaritano di nascita, ma milanese di adozione, cattedra di diritto civile alla Bicocca. Per rimanere agli ultimi anni, è stato commissario di CariFerrara, di Banca Marche, della Delta di San Marino e della milanese Banca Mb. Nel suo studio, lavora Anna Maria Paradiso, avvocato che ha guidato il commissariamento di Banco emiliano romagnolo e si è occupata di San Marino e delle sue banche. Il professore sardo è stato anche scelto dal Tribunale civile di Vicenza come consulente tecnico per stabilire l’insolvenza della banca guidata per un ventennio da Gianni Zonin, accertata solo a gennaio di quest’anno. Alle competenze giuridiche indiscusse, Inzitari unisce anche un asset familiare non da poco, perché la moglie, Tiziana Togna, dal 2011 è capo della divisione della Consob che vigila su intermediari e promotori finanziari. Una vigila, l’altro risolve.

Un altro professionista abituato a risolvere qualunque pasticcio è Giambattista Duso, commercialista padovano, senior advisor della società di consulenza Grant Thornton. Ex manager di Antonveneta e Monte Paschi, tra il 2013 e il 2014 viene spedito nel cuneese a commissariare un piccolo istituto, Bene Banca, che è poi diventato l’emblema del doppio binario di Via Nazionale; debole con i forti e forte con i deboli. La banca era sana e fu commissariata per qualche decina di posizioni irregolari sull’antiriciclaggio. Nell’anno di commissariamento, Duso ha fatto a tempo a far investire il grosso della liquidità in azioni della Popolare di Vicenza, il tutto essendo anche a.d. di Marzotto sim, a sua volta partecipata dalla Vicenza. Del resto Duso aveva molte conoscenze, visto che nel 2010 era stato nominato amministratore delegato della Centrale finaziaria generale, con Giancarlo Elia Valori come presidente e Andrea Monorchio, ex ragioniere delle Stato e vicepresidente di Pop Vicenza, nel collegio sindacale. E da due anni, l’ex commissario Duso si occupa di crediti bancari deteriorati con una società privata, la Turnaround management.

Altro uomo di assoluta fiducia di Bankitalia è Nicola Stabile, ex ispettore della vigilanza, in passato di scena anche a Vicenza in una delle tante, inutili, ispezioni nel reame di Zonin. Nel 2013, Stabile viene mandato a commissariare la Spoleto, insieme a Brancadoro e a Giovanni Boccolini. In meno di un anno e mezzo fanno un po’ di pulizia e consegnano l’istituto umbro al Banco Desio, come da suggerimenti di Via Nazionale, ma tra mille polemiche per le cordate scartate.

Alla Cassa di risparmio di Chieti, nel 2015, sono invece stati mandati Francesco Bochicchi e Salvatore Immordino. I due professionisti, a fine 2017, risultavano indagati per bancarotta perché avrebbero svalutato e venduto crediti a prezzi esageratamente di saldo, poco prima della risoluzione. Ma dell’indagine si sono perse le tracce. Al contempo, nella sua attività pubblicistica, Bochicchio non manca mai di lodare Banca d’Italia («Gestione delle crisi impeccabile»), mentre nel sito del suo studio legale, tra i servizi offerti, giustamente campeggia «la gestione dei rapporti della banca con gli organi di vigilanza». Invece Immordino, che oltre che a Chieti è stato commissario della Bcc Padovana e della Bcc San Francesco, siciliana, ora è amministratore delegato di Rev, la società di Bankitalia che si occupa proprio di Npl.

Ha schivato un paio di indagini anche il ragionier Riccardo Sora, che ha fatto il commissario a Banca Etruria, alla Carim di Rimini, nella Tercas poi rifilata alla già debilitata Popolare di Bari e a Carichieti. Cresciuto in Ubi, 68 anni, Sora è uno degli uomini più discreti e fidati della Vigilanza di Bankitalia. Ben più noto Alessandro Leproux, avvocato ternano con studio a Roma, 64 anni, ex liquidatore di Veneto Banca, ex consigliere del Credito fiorentino di Denis Verdini, ex commissario della Banca di Romagna e membro dell’Arbitro bancario su designazione di Via Nazionale al fianco di Giuseppe Conte, poi diventato premier.

Oltre al prestigio innegabile di lavorare per Bankitalia, e ai clienti che si ottengono accorrendo laddove esplodono i bubboni bancari, i commissari vengono ovviamente retribuiti per il lavoro che svolgono. I compensi li fissa Bankitalia, ma li pagano le banche vigilate. A quanto ammontino è un segreto, ma scavando nei bilanci, talvolta capita di riuscire a scorporare dal generico «costo degli organi amministrativi» quello dei commissari. Per esempio, dai bilanci 2014-2015 di Bene Banca, si ricava che il commissario e i tre membri del comitato di sorveglianza hanno incassato poco meno di 600 mila euro per un anno di lavoro, ovvero il doppio di quando prendevano i nove membri di cda e collegio sindacale. Secondo la logica per cui se gli amministratori di prima hanno fatto pasticci e sono costati dieci, con le vacche magre arrivano i «buoni» e si prendono venti. Succede anche questo, quando si sanno aprire le ostriche.

·         La guerra dei medici ai medici.

La guerra dei medici ai medici: "No ai neolaureati in corsia". Gli ospedalieri impugnano la delibera della giunta veneta e inviano una denuncia alla Corte dei conti. Francesca Angeli, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. «Inaccettabile, pericolosa ed illegittima». I medici bocciano l'iniziativa autonomista del governatore del Veneto, Luca Zaia. I primi ad attaccare sono gli ospedalieri aderenti all'Anaao Assomed che non si limitano ad una critica e annunciano di aver dato mandato ai propri avvocati affinché vengano impugnate le delibere regionali e sia inviato un esposto-denuncia alla Corte dei Conti. Nel mirino la decisione della giunta veneta di avviare un percorso parallelo di formazione che prevede di impegnare neo laureati in ospedale senza attendere che si specializzino. Un piano che coinvolge circa 500 neo laureati: 320 verranno destinati al Pronto Soccorso e altri 180 andranno a coprire i buchi in Geriatria e Medicina Generale. La Regione ha finanziato il piano con 25 milioni di euro. Una scelta che manda i giovani laureati «allo sbaraglio», accusano gli ospedalieri. «La carenza dei medici in corsia è un problema che va affrontato ma quella scelta da Zaia non è la strada giusta» avverte Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed. Palermo ritiene «doveroso bloccare sul nascere questa iniziativa al fine anche di evitare l'emulazione da parte di altre regioni» creando così «una mortificante e costosissima area di parcheggio per i giovani colleghi neolaureati senza alcuna prospettiva professionale, che comporta un autentico spreco di danaro pubblico». Per i camici bianchi non si può risolvere il problema della carenza di personale con una scelta che mortifica la professionalità. «Non è questa la soluzione per la grave carenza di specialisti da noi denunciata da anni. Molto meglio sarebbe stato l'utilizzo di queste risorse per incrementare il numero delle borse di specializzazione di competenza regionale», insiste Palermo. Impensabile che un corso di 92 ore di formazione in aula e due mesi di tutoraggio nei reparti delle aziende sanitarie possa anche essere paragonato ad una specializzazione che comporta 4 o 5 anni e richiede migliaia di ore di formazione in aula e migliaia di ore di affiancamento con il tutor. Palermo ricorda pure che «la Corte Costituzionale in merito è stata tassativa: ai ruoli del servizio sanitario nazionale si accede solo con il pubblico concorso e in possesso del titolo di specialista a garanzia della salute dei cittadini». Sul piede di guerra anche la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo) che si è rivolta al presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini e in riferimento alla scelta del Veneto parla di «rimedio peggiore del male» e di «soluzioni affrettate e prive di garanzie». Grande preoccupazione viene espressa anche dai presidenti delle Scuole di Medicina e Chirurgia delle Università di Padova e Verona Mario Plebani e Domenico De Leo, che chiedono un «confronto immediato» con il governatore «per impedire che le delibere si traducano in un abbassamento dei livelli di cura e sicurezza per i pazienti e in un danno per i neolaureati, ossia in una pericolosa caduta dei livelli qualitativi della sanità regionale».

Zaia aveva fatto sapere che al Veneto mancano già almeno 1.300 medici e dunque difficilmente il governatore sarà disposto a fare marcia indietro. Potrebbe ripetersi lo stesso scenario del passato quando le dispute tra istituzioni sul processo dell'autonomia che coinvolgono Sanità e Scuola sono finite davanti alla Consulta. Resta il fatto che la carenza dei medici è un problema reale da affrontare subito e che non riguarda soltanto il Veneto. É stato calcolato che di qui a 5 anni mancheranno circa 16.000 medici.

·         La Giustizia può attendere.

LA GIUSTIZIA PUÒ ATTENDERE. Paolo Bracalini per “il Giornale” il 29 maggio 2019. Quasi due mesi di ferie, dal 15 luglio al 7 settembre. Per i magistrati la prossima estate sarà più rilassante del solito. Ad allungare il loro periodo di riposo estivo ha pensato il Consiglio superiore della Magistratura nella seduta dello scorso 22 maggio. Il Csm ha infatti anticipato la data a partire dalla quale, in estate, non si possono convocare le udienze: dal 26 luglio, originariamente fissato dal ministero della Giustizia, al 15 luglio. E ha poi stabilito lo stesso divieto per il periodo dal 3 al 7 settembre. Di fatto, quindi, allungano le ferie dei magistrati, anche se formalmente i termini sono diversi. Il Csm infatti parla nella delibera di «periodo cuscinetto», ovvero - racconta Italia Oggi - «un lasso di tempo in cui non potranno essere fissate udienze ordinarie e in cui potranno essere trattati soltanto gli affari urgenti e indifferibili». Secondo il Consiglio «dovrà essere adottata in tempi brevi una compiuta rivisitazione della tematica della fruizione delle ferie, attraverso la revisione della normativa. Ad oggi si impone comunque l' urgenza di intervenire sulla rideterminazione del cosiddetto periodo cuscinetto». Per capire la motivazione dietro la decisione del Csm bisogna ricordare che nel 2014 il governo tagliò le ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni. Una riduzione che non è mai andata giù alle toghe, che reagirono duramente contro la sforbiciata alle loro vacanze estive. «Parlare del taglio delle ferie dei magistrati è mortificante e anche offensivo» protestò l' Anm di Torino. «Basta con le favole sulle ferie e sugli stipendi dei magistrati» si inalberò Rodolfo Sabelli, presidente dell' Associazione Nazionale Magistrati. E il suo successore, Piercamillo Davigo, ha rilanciato la battaglia contro il taglio delle ferie fin dal primo discorso di insediamento: «Perché il nostro datore di lavoro deve tagliarci le ferie senza neppure consultarci? E perché far credere che il disastro della giustizia dipenda dalle nostre ferie, quando siamo i giudici che lavorano di più in Europa?».  Una lunga dissertazione consultabile sul sito dell' Anm spiega tutti danni prodotti dal taglio delle loro ferie: «La riduzione delle ferie, inevitabilmente, spinge alla burocratizzazione del lavoro del magistrato, con il rischio di una transizione dal modello lavorativo professionale, che valorizza come si lavora, a quello impiegatizio, che valorizza quanto si lavora». Insomma, per il bene della democrazia, urge allungare le vacanze dei magistrati e tornare ai vecchi 45 giorni l' anno. Ma i magistrati non si sono certo fermati alla protesta verbale, sei giudici del tribunale di Roma hanno anche fatto ricorso-pilota. Solo che il mese scorso il Consiglio di Stato, dopo tre anni, lo ha bocciato, spiegando in sostanza che le ferie più lunghe della norma non sono un diritto sancito dalla «specialità» delle toghe, ma un privilegio «anacronistico». Il Consiglio ha però anche chiesto al Csm di prescrivere ai capi dei tribunali di non fissare udienze a ridosso delle ferie, per dare il tempo ai giudici di scrivere le motivazioni delle sentenze già emesse. Prescrizione tradotta ora dal Csm nella delibera sul «periodo cuscinetto», prima e dopo le ferie, che di fatto allunga le vacanze dei magistrati ripristinando i famosi 45 giorni annui. Soddisfatti i relatori, due togati di Magistratura Indipendente: «In tal modo sottolinea in una nota il gruppo consiliare di MI sarà assicurato il godimento effettivo dei giorni di ferie in modo uniforme su tutto il territorio nazionale».

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         I politici massoni.

«Pensioni di invalidità in cambio di voti ai politici massoni»: 27 arresti. Pubblicato giovedì, 21 marzo 2019 da Corriere.it. L’ex deputato di Forza Italia ed ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana Francesco Cascio, 55 anni, è stato arrestato dai carabinieri insieme da altre 26 persone con l’accusa di fare parte di una loggia massonica segreta che a Castelvetrano, il paese del boss mafioso Matteo Messina Denaro nel Trapanese, avrebbe condizionato la pubblica amministrazione e le indagini della magistratura. Altre 10 persone sono indagate a piede libero per reati contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia e per associazione a delinquere segreta. Le indagini dei Carabinieri, coordinati dalla Procura di Trapani, avviate nel 2015, ruotano attorno alla figura di Giovanni Lo Sciuto, 56 anni, nella scorsa legislatura vicepresidente della Commissione Lavoro e componente dell’Antimafia regionale, deputato regionale fino al 2017, accusato di aver commesso numerosi reati contro la Pubblica amministrazione con l’obiettivo di ampliare la sua base elettorale e il suo potere politico. Lo Sciuto avrebbe creato uno «accordo corruttivo» con Rosario Orlando, che era responsabile del Centro Medico Legale dell’ Inps, poi collaboratore esterno dello steso ente quale «medico rappresentante di categoria in seno alle commissioni invalidità civili». Lo Sciuto avrebbe ottenuto da Orlando la concessione di numerose pensioni di invalidità per i suoi elettori, anche in assenza dei presupposti previsti dalla legge. Sono 70 quelle al vaglio degli inquirenti. Il medico dell’Inps sarebbe stato corrotto attraverso regali ed altre utilità, e anche attraverso l’intercessione con l’ex Rettore Roberto Lagalla, oggi assessore regionale all’Istruzione e destinatario di un’informazione di garanzia, per l’aggiudicazione di una borsa di studio a favore della figlia presso l’università di Palermo. Secondo gli inquirenti l’indagine ei reati sono stati commessi da «una associazione a delinquere promossa ed capeggiata da Lo Sciuto» con la collaborazione, nel settore organizzativo, del massone Giuseppe Berlino. Gli aderenti alla loggia massonica, secondo i pm, «non si limitavano alla esecuzione di una serie indeterminata di delitti ispirati da un medesimo disegno criminoso», ma miravano anche al «condizionamento e l’asservimento dell’attività di organi costituzionali e di articolazioni territoriali della pubblica amministrazione alle finalità segrete del gruppo criminale». In carcere tre poliziotti e risulta indagato per abuso d’ufficio l’attuale assessore all’Istruzione, Roberto Lagalla, ex rettore di Palermo in relazione, secondo i magistrati di Trapani guidati dal procuratore Alfredo Morvillo, a una borsa di studio destinata alla figlia di uno degli arrestati nell’operazione «Artemisia». Dell’associazione a delinquere farebbero parte anche l’ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante, l’ex vice sindaco Vincenzo Chiofalo e il commercialista massone Gaspare Magro. Lo Sciuto godeva inoltre del rapporto privilegiato con il presidente dell’ente di formazione professionale Anfe, Paolo Genco, anche lui arrestato, che gli garantiva sostegno economico e raccolta di voti per le sue candidature, nonché il suo consenso popolare, strettamente connesso alle assunzioni presso l’Anfe. In cambio avrebbe agevolato la concessione dei finanziamenti a favore dell’ente. Tra gli arrestati numerosi esponenti politici e istituzionali della provincia di Trapani, che insieme a professionisti e massoni avrebbe fatto parte di una vera e propria loggia segreta. Ai domiciliari anche l’ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante. Gli indagati devono rispondere, a vario titolo, di corruzione, concussione, traffico di influenze illecite, peculato, truffa aggravata, falsità materiale, falsità ideologica, rivelazione ed utilizzazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento personale, abuso d’ufficio ed associazione a delinquere segreta finalizzata ad interferire con la pubblica amministrazione (violazione della cosiddetta legge Anselmi). Emersi diversi episodi di violazione del segreto istruttorio e favoreggiamento nei confronti di Lo Sciuto da parte di appartenenti alle forze dell’ordine e di esponenti politici regionali quali l’ex deputato regionale Cascio. L’ex deputato Cascio è agli arresti domiciliari: esponente di primo piano di Forza Italia, ha ricoperto la carica di presidente del Parlamento siciliano dal 2008 al 2012; è stato anche deputato nazionale nel ‘94 e nel ‘96. Cascio in passato era stato accusato di aver fatto ottenere, quando era assessore regionale al Turismo, di aver fatto ottenere un finanziamento europeo di sei milioni di euro per costruire un golf club a un’impresa che non aveva i requisiti per ottenerli. Nell’ottobre del 2016 era stato condannato in primo piano dal Gup di Palermo, con il rito abbreviato, a due anni e 8 mesi e sospeso dall’Assemblea regionale siciliana per effetto della Legge Severino, ma nel dicembre di due anni fa era stato assolto e riabilitato.

Castelvetrano, arrestati 27 massoni di una loggia segreta: in manette politici e poliziotti, scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Massoni, politici e professionisti: tutti legati da quello che i magistrati di Trapani considerano un patto scellerato che aveva il suo cuore a Castelvetrano, la città di Messina Denaro, e in grado di condizionare le scelte del Comune, di dirottare finanziamenti regionali e pilotare nomine. Una vera e propria loggia a capo di un vasto sistema corruttivo di cui erano tasselli i 27 arrestati di oggi dai carabinieri e che secondo la procura era pure in grado di ottenere notizie riservate sulle indagini. Indagate altre 10 persone.

ASSOCIAZIONE SEGRETA. Così sono contestati i reati contro la pubblica amministrazione, contro l'amministrazione della giustizia nonché l'associazione a delinquere segreta. Tra gli arrestati, dunque, numerosi esponenti politici e istituzionali della provincia di Trapani, tra cui l'ex deputato regionale di Castelvetrano di FI Giovanni Lo Sciuto, ex medico di 56 anni, nella scorsa legislatura vicepresidente della Commissione Formazione e Lavoro e componente dell'Antimafia regionale: sarebbe stato lui ad avere un ruolo preminente nel sistema illegale creato secondo chi indaga da numerosi esponenti politici e della pubblica amministrazione: "un vasto sistema corruttivo negli enti locali", sottolineano i pm, con in testa il Comune di Castelvetrano e l'Inps di Trapani.

SINDACI E RETTORI. Parte di questa rete l'ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l'ex deputato e assessore regionale Francesco Cascio accusato di avere favorito l'organizzazione. In carcere tre poliziotti e risulta indagato per abuso d'ufficio l'attuale assessore all'Istruzione, Roberto Lagalla, ex rettore di Palermo in relazione, secondo i magistrati di Trapani guidati dal procuratore Alfredo Morvillo, a una borsa di studio destinata alla figlia di uno degli arrestati nell'operazione "Artemisia". Nel dettaglio i reati contestati a vario titolo sono corruzione, concussione, traffico di influenze illecite, peculato, truffa aggravata, falsità materiale, falsità ideologica, rivelazione ed utilizzazione del segreto d'ufficio, favoreggiamento personale, abuso d'ufficio ed associazione a delinquere segreta finalizzata ad interferire con la pubblica amministrazione (violazione della legge Anselmi). Emersi diversi episodi di violazione del segreto istruttorio e favoreggiamento nei confronti di Lo Sciuto da parte di appartenenti alle forze dell'ordine e di esponenti politici regionali quali l'ex deputato regionale Cascio. Notificati anche 5 obblighi di dimora e una misura interdittiva della sospensione dall'esercizio del pubblico ufficio, nonchè notificate altre 4 informazioni di garanzia ad altrettanti indagati. Le indagini sono iniziate nel 2015 e hanno avuto come fulcro l'ex deputato Lo Sciuto, in carica fino al 2017, a carico del quale sono emersi gravi indizi in ordine alla commissione di numerosi reati contro la pubblica amministrazione "il cui fine ultimo era quello di ampliare la sua base elettorale in vista delle varie elezioni e di conseguenza il proprio potere politico".

BORSE DI STUDIO E PENSIONI DI INVALIDITA'. Accertato "uno stabile accordo corruttivo", viene spiegato con Rosario Orlando - già responsabile del Centro Medico Legale dell'Inps, fino al maggio 2016, poi collaboratore esterno dello stesso ente quale medico rappresentante di categoria in seno alle commissioni invalidità civili che riusciva a corrompere, attraverso regalie e altri favori, nonchè la sua intercessione con l'ex rettore Lagalla, destinatario di informazione di garanzia, per l'aggiudicazione di una borsa di studio a favore della figlia presso l'università di Palermo. Da Orlando l'ex deputato regionale ha ottenuto la concessione di numerose pensioni di invalidità, anche in assenza dei presupposti previsti dalla legge. Ogni pensione di invalidità fatta concedere, rappresentava per l'ex deputato un cospicuo pacchetto di voti certi. Circa 70 sono i casi di pensioni di invalidità, attualmente al vaglio degli inquirenti. Lo Sciuto godeva inoltre del rapporto privilegiato con il presidente dell'ente di formazione professionale Anfe, Paolo Genco, anche lui tratto in arresto che gli garantiva sostegno economico e raccolta di voti per le sue candidature, nonchè il suo consenso popolare, strettamente connesso alle assunzioni presso l'Anfe. In cambio agevolava la concessione dei finanziamenti a favore dell'ente.

ISTITUZIONI ASSERVITE. Soprattutto l'indagine ha dimostrato ancora "l'esistenza di una associazione a delinquere promossa ed capeggiata da Lo Sciuto" con la collaborazione, nel settore organizzativo, del massone Giuseppe Berlino, associazione che vede tra i suoi membri l'ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante, l'ex vice sindaco Vincenzo Chiofalo e il commercialista massone Gaspare Magro. Gli scopi, secondo i pm, "non si limitavano alla esecuzione di una serie indeterminata di delitti ispirati da un medesimo disegno criminoso", ma ha avuto ad oggetto anche "il condizionamento e l'asservimento dell'attività di organi costituzionali e di articolazioni territoriali della pubblica amministrazione alle finalità segrete del gruppo criminale". Tali finalità venivano, in particolare, perseguite "con modalità che garantivano la segretezza degli scopi associativi e della reale composizione dell'organizzazione, anche e soprattutto grazie al ruolo di appartenenti alle istituzioni". Venivano così stretti "accordi collusivi con esponenti di rilievo del mondo politico, delle forze dell'ordine, delle istituzioni e degli enti di governo del territorio, del comparto sanità e dell'imprenditoria, nell'infiltrazione nei centri di potere di membri dell'associazione segreta o comunque di soggetti diretti dagli associati in modo da strumentalizzarne l'azione al perseguimento delle finalità del gruppo", e infine, infiltrando appartenenti o altri personaggi legati al Lo Sciuto da vincoli di fedeltà all'interno delle logge massoniche e sfruttando a fini elettorali l'appoggio delle logge, appoggio che veniva ricambiato con il sostegno alle richieste di nomina, segnalazioni e raccomandazioni provenienti da affiliati alla massoneria - come avvenuto nella scelta fatta dall'ex sindaco Errante di nominare, su indicazione del Lo Sciuto, 4 nuovi assessori iscritti a logge massoniche. Insomma, un "controllo generalizzato e penetrante delle scelte politiche ed amministrative, al condizionamento delle scelte inerenti le nomine in enti pubblici o di interesse pubblico" (come nel caso dell'Ipab Infranca e del Parco Archeologico di Selinunte e della nomina del massone Berlino all'interno della segreteria dell'assessorato regionale), la predisposizione di bandi e l'assegnazione di finanziamenti regionali, all'assegnazione di pensioni di invalidità o indennità di accompagnamento ed all'assunzione in strutture pubbliche e private (una fra tutte l'Anfe) di soggetti scelti da Lo Sciuto "sulla base di interessi clientelari, affaristici o personali". Una "macchina di potere", capace di condizionare nomine e elezioni "grazie all'enorme rete clientelare creata".

'PUPARI' AL COMUNE. In tale contesto di profondo condizionamento della corretta amministrazione della cosa pubblica, è estremamente sintomatico il caso del Comune di Castelvetranoin cui Lo Sciuto e i suoi, dopo aver "governato" tramite gli ex sindaco e vice sindaco dal 2012 al 2017, hanno raggiunto un accordo con l'ex rivale politico Luciano Perricone, raggiunto dalla misura cautelare degli arresti domiciliari, finalizzato alla sua elezione a sindaco in occasione delle elezioni del 2017. Non viene contestata l'appartenenza alla massoneria in quanto tale. Non viene addebitata infatti alcuna responsabilità al maestro venerabile della Loggia al cui interno si annidava l'associazione segreta, in quanto è emerso come il gruppo prendesse autonomamente le decisioni: una super loggia più' forte della loggia.

La Massoneria si prepara al voto: e intanto la loggia si sposta su Whatsapp. Il prossimo 3 marzo il Grande Oriente, negli ultimi anni travolto da vari scandali, eleggerà il suo Gran Maestro. E l'opposizione interna, alla faccia della segretezza, si riunisce su un gruppo della chat, scrive Gianfrancesco Turano il 26 febbraio 2019 su L'Espresso. Il Grande Oriente d'Italia (Goi) va alle elezioni di domenica 3 marzo senza che i bookmakers possano accettare scommesse. Nei termini del defunto Totocalcio è uno fisso. Il Gran Maestro uscente, Stefano Bisi. Il giornalista senese guida l'unica lista presente. Non accadeva dal 1985 quando l'assemblea del Goi aveva rieletto in modo plebiscitario il cagliaritano Armando Corona. La principale obbedienza massonica italiana al tempo era ancora scossa dallo scandalo della P2, la loggia coperta di Licio Gelli e Umberto Ortolani. Oggi tra le inchieste della commissione parlamentare antimafia e la fatwa grillina contro la libera muratoria, gli oltre 23 mila iscritti (ma votano solo i 17 mila con il grado di maestro) alle 858 logge del Goi ritengono che il livello di allarme sia simile. «Non è obbligatorio litigare nella vita», commenta sornione Bisi, «e io non mi sono certo messo davanti alla sede di Villa del Vascello con la pistola a impedire la presentazione di liste concorrenti. È stato un moto spontaneo. Evidentemente i fratelli avranno ritenuto che la giunta uscente abbia fatto bene e che ci sia coesione e serenità all'interno dell'obbedienza». Bisi si avvia dunque ad altri cinque anni di mandato con l'intima speranza che siano più tranquilli dell'ultimo biennio caratterizzato da un processo per ricettazione per le vicende del Mps-Mens Sana basket e dal sequestro delle liste disposto dal presidente dell'antimafia, Rosi Bindi, proprio due anni fa, il 2 marzo 2017. Il processo penale a Bisi si è chiuso con un'assoluzione. L'indagine dell'Antimafia, mirata ad accertare i legami fra massoneria e criminalità organizzata in Calabria e Sicilia, è all'attenzione della nuova commissione, guidata dal grillino Nicola Morra, che ha annunciato di volere insistere sulla via di Bindi. La “massofobia”, come con sprezzo dell'etimologia si intitola un pamphlet del Gran Maestro uscente e presto rientrante, ha compattato all'interno il Goi e ha messo nell'angolo i dissidenti, soprattutto quelli che avrebbero preferito un rapporto meno antagonistico verso un'istituzione repubblicana. Sulla coesione interna e sulla serenità c'è però motivo di dubitare. Alcuni membri sono stati sospesi e poi espulsi, come l'ex Gran Tesoriere del Goi, Giovanni Esposito, per non avere pagato qualche migliaio di euro di spese del suo processo massonico. «Certo che potevo pagare. Non ho voluto», dice Esposito. «Ero stato accusato di essere il responsabile morale della pubblicazione sui media di una mia lettera, mandata per conoscenza a una dozzina di alte cariche del Goi, in cui chiedevo a Bisi di sospendersi per il processo di Siena. Lui oggi è stato assolto ma solo perché il fatto non costituisce dolo. I soldi li prendeva e questo pone un dubbio di moralità proprio sul suo comportamento. Io non vivo di massoneria e sono fiero di esser stato cacciato da queste persone. I fratelli della Gran loggia d'Inghilterra mi hanno già proposto di entrare». Su base locale il commercialista napoletano è passato a sostenere l'iniziativa politica del suo concittadino Luigi De Magistris, che da sostituto procuratore a Catanzaro si era messo in luce per le inchieste contro le infiltrazioni della massoneria deviata nella stessa magistratura. Ancora più rilevante è che l'eccesso di segretezza in età di social abbia spinto un gruppo di iscritti al Goi a incontrarsi su WhatsApp per confrontarsi sul ruolo dell'istituzione nella società civile. Così nel novembre 2017, in piena tempesta Bindi, l'avvocato con studio a Roma ed ex Grand'ufficiale del Goi Antonio Fava ha organizzato un gruppo con 245 partecipanti. Il nome del gruppo è “SVoltaire”, con un gioco di parole fra la necessità di cambiamento rispetto al “pensiero unico” di Bisi e il nome del filosofo illuminista preso a riferimento dal pensiero massonico. Per entrare nel gruppo WhatsApp era necessario fornire le generalità, la loggia e l'oriente (città) di appartenenza. Inoltre, bisognava avere raggiunto il grado numero tre, quello di maestro. «C'erano fratelli di ogni provenienza regionale», racconta l'abruzzese Massimo Bomba, che si è visto espellere e cancellare la loggia di appartenenza, dedicata al padre Americo. «Il nostro obiettivo era semplicemente quello di confrontare le nostre opinioni in libertà, che dovrebbe essere uno dei capisaldi della massoneria. Alcuni non erano d'accordo con le prese di posizione verso l'Antimafia e si è posto il problema di presentarci a viso aperto, di portare i nostri valori nella società civile come fanno altre associazioni». Chi ha partecipato alla chat sostiene che il successo dell'iniziativa è stato superiore a ogni attesa, con centinaia di messaggi al giorno e qualche abbandono dovuto al bombardamento di notifiche. Com'era inevitabile, una manina si è resa parte diligente e ha avvertito i vertici del Goi. La replica si è concretizzata in una tavola d'accusa di 87 pagine datata 9 novembre 2018 contro Fava a firma del Grande Oratore Claudio Bonvecchio, che corre nella lista Bisi per essere eletto, dunque promosso, a Gran maestro aggiunto. L'equivalente massonico di un capo d'imputazione firmato da un pubblico ministero non risparmia le censure al comportamento dell'inventore di Svoltaire. Fava sarebbe colpevole di avere messo a rischio la riservatezza dei fratelli su una chat che può finire in mano a chiunque, dall'esperto di hacking alla colf che viene colta da curiosità profana mentre spolvera il telefonino. La giustizia massonica ha iniziato il suo corso secondo i gradi previsti dall'ordinamento. Prima è toccato al tribunale circoscrizionale (regionale) che ha condannato Fava. Il secondo grado, che porta alla sentenza definitiva, era previsto per metà febbraio. La corte centrale ha però aggiornato il verdetto al martedì seguente le elezioni, il 5 marzo. Forse per non turbare il voto? «È probabile», commenta Fava che conferma di avere replicato alla tavola d'accusa con una querela penale per sottrazione di corrispondenza, violenza privata e diffusione fraudolenta di conversazioni telefoniche. «Le accuse del Grande oratore sono lesive del diritto alla libera espressione sancito dalla Costituzione sulla quale i liberi muratori prestano giuramento prima che sulle Costituzioni di Anderson». Fava ha inoltre assunto il patrocinio del fratello abruzzese Bomba, nella causa per danni che l'ex maestro di Lanciano ha intentato al Grande Oriente d'Italia. A raccontarla così può sembrare la solita vicenda di grembiuli più o meno di periferia alle prese, come Bomba, con fratelli da mettere in sonno o con medaglioni e collane da conquistare per la parata della Gran loggia che si tiene ogni anno in primavera a Rimini. Lanciata dal predecessore di Bisi, l'avvocato romagnolo Gustavo Raffi, la Gran Loggia sarebbe diventata una parata trionfale per l'attuale Gran maestro, almeno secondo i suoi critici. Fra questi ci sarebbe lo stesso Raffi che pure, dopo quindici anni di gran maestranza giunti al limite del mandato, era stato il principale sponsor del senese alle elezioni del 2014. La rissosità interna al Goi è replicata dai fratelli della Gran loggia d'Italia di palazzo Vitelleschi, che andrà al voto il prossimo dicembre. Sul Gran maestro in carica, Antonio Binni, pende al tribunale ordinario una richiesta di espulsione da parte di un gruppo di fratelli che Binni ha, a sua volta, espulso. «Se anche il tribunale ci darà ragione», dice Sergio Ciannella, che guida i fuoriusciti degli Alam, «non so se ho voglia di rientrare. «La spinta ideale delle grandi obbedienze si sta affievolendo e questo spiega il ritorno verso le logge di base, le cosiddette logge di San Giovanni più radicate sul territorio». Resta difficile stabilire la linea fra chi aderisce in buona fede a un ideale e chi cerca vantaggi da un'associazione trasversale con una forte componente di segretezza iniziatica. Lo dimostra una vicenda giudiziaria recente, quella del membro del Goi Giulio Occhionero e della sorella Francesca, accusati di avere spiato attraverso virus informatici cellulari e mail. Nel loro mirino c'erano politici, imprenditori ma anche trecento massoni. Fra i sorvegliati figurava lo stesso Antonio Fava che ha presentato querela contro Giulio Occhionero. Per il cyberspionaggio gli Occhionero sono stati condannati in primo grado a giugno del 2018 (cinque anni Giulio, quattro anni Francesca) senza ammettere colpe e senza rivelare gli eventuali committenti. Sul fronte dell'Antimafia, la commissione insediatasi con la nuova legislatura non ha ancora fatto passi avanti salvo dedicare una delle sue sedici sottocommissioni allo studio delle infiltrazioni criminali fra le colonne iniziatiche di Jachin e Boaz. Gli elenchi delle obbedienze massoniche interessate dal sequestro del marzo 2017 (oltre il Goi, la Gran Loggia degli Alam, la Gran loggia regolare d'Italia e la Serenissima Gran Loggia, per un totale di 17067 nominativi in Calabria e Sicilia) sono stati trasmessi alle procure, in particolare, di Trapani, Palermo, all'aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, e la procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, che avrebbe in vista un'operazione a breve. Come aveva rivelato l'Espresso a febbraio del 2018, va ricordato che negli elenchi sequestrati dalla Finanza su ordine dell'Antimafia figuravano poco meno di tremila nomi non identificabili. Dopo l'espulsione di alcuni candidati dalle liste delle politiche del 4 marzo scorso e la proposta di legge sull'incompatibilità dei massoni nella funzione pubblica, il presidente dell'Antimafia Morra è determinato a riprendere il testimone dell'operazione Bindi ma, al momento, una parte del Movimento sembrerebbe essersi messa di traverso. Il commento di Amerigo Minnicelli, anch'egli espulso dal Goi per avere chiesto chiarezza sul boom di affiliazioni in Calabria, merita di essere riportato: «Mi pare si possa dire che il M5S abbia molto in comune con la struttura della massoneria, anche al di là dell'amicizia fra Gianroberto Casaleggio e il Gran maestro Giuliano Di Bernardo. Sto preparando un breve saggio al riguardo».

·         Aboliamo la Democrazia.

“LA DEMOCRAZIA DIRETTA VA COMBATTUTA”.  Carlo Tecce per “il Fatto quotidiano” l'11 maggio 2019. Il gran maestro Antonio Binni, accento bolognese, espressione bonaria, avvocato classe '37, irrigidisce la mascella e socchiude gli occhi: "Non mi piace il termine paura: a noi massoni non ci fa paura niente. La politica non ci spaventa". Binni è il capo della Gran Loggia d' Italia degli Alam, antichi, liberi, accettati, muratori. È un' obbedienza di rito scozzese: sede a palazzo Vitelleschi a Roma, 23 immobili di proprietà, 600 logge, 9.000 iscritti.

I massoni governano ancora l' Italia?

«Un tempo, l' abbiamo plasmata e guidata con una splendida classe dirigente, adesso la studiamo, ci sentiamo scienziati, ci limitiamo ai suggerimenti. Il nostro ruolo in politica è indiretto, la influenziamo con le idee».

E varcate i confini, suggerite pure in Europa oppure è un' illusione?

«Per la nostra obbedienza è un momento felice. Abbiamo ricevuto in marzo l' Unione massonica del Mediterraneo e abbiamo proposto soluzioni di un certo tipo che passeranno al Parlamento europeo: la rappresentanza va rafforzata e va combattuta la democrazia cosiddetta diretta perché si dà voce a una folla di persone che, per definizione, non hanno competenze specifiche per trattare materie delicate».

E che soluzioni ha Binni per le materie delicate dell' Europa?

«Più poteri al Parlamento europeo, politica estera comunitaria, così come l' esercito e la difesa. E per tornare in Italia, noi siamo contrari a una riduzione degli eletti con la scusa dei soldi risparmiati».

Chi sono i vostri riferimenti in politica?

«Non abbiamo preferenze, escluso chi ci attacca».

I Cinque Stelle e Claudio Fava chiedono trasparenza e la dichiarazione di appartenenza a una loggia per gli eletti.

«Noi ci difendiamo ovunque, a partire dai tribunali amministrativi, perché ci opponiamo a leggi liberticide. E vinciamo, tranquilli».

Però la segretezza massonica ha prodotto l'eversione piduista, accolto la criminalità organizzata, generato scandali, malaffare, misteri.

«I nostri elenchi sono a disposizione dei magistrati per le circostanze giudiziarie, ma noi siamo un corpo intermedio - come i sindacati - e la politica vuole colpirci. Io l' ho detto a Rosy Bindi, ex presidente della Commissione Antimafia: la massoneria è un concetto astratto, le obbedienze sono tre: noi, la Femminile e il Grande Oriente d' Italia, gli altri sono spuri. Va pensata una legge per norme chiare, per evitare abusi. Se quattro mascalzoni fanno un' associazione e si definiscono massoni, noi che c' entriamo? Non va confuso un fratello con un delinquente».

Chi vi ascolta in politica?

«Non ci sono contatti con i Cinque Stelle per i succitati motivi, ma da sempre c' è sintonia con i liberali, come Forza Italia, il Partito democratico, la Lega di Salvini. Pochi giorni fa ho chiesto un incontro al ministro dell' Interno e mi aspetto una risposta positiva».

Un politico che stima?

«Mi piace Antonio Tajani, un uomo capace e perbene che è riuscito ad assumere il prestigioso incarico di presidente del Parlamento europeo«.

Chi sono i vostri fratelli?

«Noi siamo anime inquiete e curiose, seguiamo i nostri riti e decifriamo il mondo, così anche i giovani sono attratti. Abbiamo tanti studenti universitari, oltre a medici, docenti, avvocati, funzionari pubblici, imprenditori privati con grossi fatturati, gente che per un' iniziativa di solidarietà offre 10.000 euro, mica monetine».

Relazioni e potere, e poi perché si diventa massoni?

«Semplice: per stare assieme. Il nostro motto è libertà, uguaglianza, fratellanza. Le prime due regole possono essere imposte con la legge, l' ultima no. È il nostro compito principale: divulgare e praticare la fratellanza, aiutarsi e aiutare».

·         Aboliamo la Massoneria.

Aboliamo la Massoneria. Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati. E la commissione Antimafia vuole i nomi degli affiliati. Era ora. Ma non basta, scrive Gianfrancesco Turano il 10 febbraio 2017 su L'Espresso. Abolire la massoneria? Nessun esponente delle istituzioni può rispondere sì in modo formale. Non le procure, né la commissione parlamentare antimafia. Ma le loro indagini hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il Venerabile per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica. Oggi i parlamentari sono spariti, almeno così dicono i Maestri. Ma i guai giudiziari rimangono. Forse perché in 35 anni la legge 17 del 1982 sulle associazioni segrete, firmata da Tina Anselmi e da Giovanni Spadolini, non certo un massonofobo, è rimasta inapplicata. I due tentativi fatti nel 1992 dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e negli anni Duemila dall’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris (inchieste Why not e Poseidone), non hanno raggiunto risultati significativi.

E il Gran Maestro vacilla. Stefano Bisi alla guida del Grande Oriente d’Italia dal 2014: «Confido nell'archiviazione dell'inchiesta. Non capisco l’accanimento contro di noi sugli elenchi, ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste. Noi collaboriamo. Se le procure ci danno l’elenco dei mafiosi, provvediamo subito a cacciarli». Tre decenni e mezzo dopo Tina Anselmi, la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha chiesto, come fece Cordova nel 1992, l’esibizione degli elenchi ai Gran Maestri con scadenza 8 febbraio. Le resistenze opposte dalle due obbedienze più frequentate, il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia degli Alam (antichi liberi accettati muratori), hanno seri appigli giuridici nella libertà di associazione prevista dalla Costituzione, più che dalla legge sulla privacy ed è prevedibile che lo scontro durerà a lungo. Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene. Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: «Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni». La cronaca sembra confermare il teorema. In Calabria le inchieste Meta, Lybra, Decollo Money, Purgatorio, Fata Morgana, solo per citarne alcune, rivelano una compenetrazione fra ’ndrangheta e massoneria dove la seconda avrebbe inglobato la prima, come ha sintetizzato in una celebre intercettazione il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso “Vetrinetta”. In Sicilia, nel trapanese in particolare, il binomio fra grembiuli e Cosa nostra sembra solido quanto lo è in Calabria. A Roma Giulio Occhionero, ingegnere informatico e hacker con server negli Stati Uniti, arrestato a gennaio, spiava politici, manager ed esponenti dell’intelligence, senza dimenticare circa 300 suoi fratelli del Grande Oriente d’Italia (Goi). Siena, la città del Gran Maestro del Goi Stefano Bisi, è stata scossa da uno scandalo ad alta densità massonica come quello del Monte dei Paschi, che ha coinvolto lo stesso Bisi (intervista a pagina 12). E l’aeroporto della città del Palio, un’avventura chiusa con un buco da 9 milioni di euro, ha travolto la società di gestione presieduta da Enzo Viani, l’uomo che amministra l’immobiliare del Goi (Urbs). Anche il crac della Bf dei costruttori Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, molto vicino a Denis Verdini, ha coinvolto alcuni iniziati fra le colonne di Jachin e Boaz. Perfino il tormentato caso Cucchi ha visto la fallita ricusazione da parte della famiglia del perito e medico legale Francesco Introna, massone in sonno. Vietato generalizzare, certo. I massoni si sono difesi attaccando le magagne dei partiti o dei preti pedofili. Ma i partiti non si sono mai più ripresi sul serio dallo choc di Tangentopoli e la Chiesa, quanto meno, si è dissanguata in cause di risarcimento. La massoneria, invece, prospera a dispetto degli scandali. In alcune zone, forse proprio grazie alla sua aura di impunità e riservatezza, oltre alla capacità di fornire una rete relazionale a livello nazionale e internazionale. Anche ai vertici della libera muratoria qualcuno teme che le logge abbiano accolto un tasso di criminali superiore alla media e che le tegolature, come i massoni chiamano i controlli di ingresso sui candidati o “bussanti”, siano state poco conformi alle norme edilizie del Gadu, il grande architetto dell’universo sul quale l’iniziato deve giurare.

Statistiche e interpretazioni. Tutti i Gran Maestri negano in modo risoluto che esistano logge segrete e che sia ancora in voga l’iniziazione all’orecchio (o “sulla spada”) nota soltanto al Venerabile che guida la loggia. Sono anche concordi nel riferire la grande crescita di iscrizioni all’aumento delle vocazioni esoteriche, in una fase di crisi dei valori. Qualunque sia il motivo, i dati raccontano una storia di successo. Nel 1992, in piena tempesta Cordova, quando il gran maestro cosentino Ettore Loizzo denunciava all’allora numero uno del Goi Giuliano Di Bernardo che 28 logge calabresi su 32 erano in mano alla ’ndrangheta, i fratelli in Calabria erano circa 800 su circa 9 mila affiliati in Italia. Dopo il boom di iscrizioni a livello nazionale durante i 15 anni di granmaestranza di Gustavo Raffi (21 mila in 802 logge), l’attuale Gran Maestro Stefano Bisi ha dichiarato che su 23 mila iscritti al Goi in 805 logge (dati al 31 dicembre 2015) ce ne sono 2634 in Calabria e 2208 in Sicilia. Il 21 per cento degli affiliati è nelle due regioni più a sud dell’Italia. Le logge calabresi sono passate dalle 32 dei tempi di Loizzo alle attuali 80. La stessa proporzione (21 per cento) vale per la Gran loggia regolare d’Italia, obbedienza fondata da Di Bernardo e retta da Fabio Venzi con 2400 iscritti in Italia. La Gran Loggia degli Alam di Antonio Binni, seconda obbedienza in Italia con 8114 iscritti, ha la proporzione più bassa con complessivi 1357 fratelli calabro-siculi (16,7 per cento). In compenso 104 logge degli Alam su 510 totali sono in Calabria o in Sicilia (20,3 per cento). La piccola Serenissima Gran Loggia di Massimo Criscuoli Tortora (197 membri) ha la percentuale più alta con circa 60 fratelli affiliati alle tre logge calabresi (30 per cento) oltre agli iscritti alla loggia di Messina-Catania. Per ovvi motivi non si hanno cifre sulle obbedienze irregolari o spurie che sovrastano in numero le circa dieci obbedienze regolari. Le massonerie fai da te sono 124 secondo Criscuoli Tortora e 192 secondo Binni, di cui 97 nella sola Arezzo, patria di Gelli. La sproporzione è evidente, considerato che i residenti di Calabria e Sicilia sono 7 milioni, cioè l’11 per cento della popolazione nazionale. Inoltre, non è dato sapere quanti calabresi e siciliani siano affiliati a logge che non sono in Calabria o in Sicilia, per non parlare delle logge estere facenti capo a obbedienze italiane in vari paesi: Malta, Libano, Romania, Ucraina e in Canada a Toronto, città strategica nello scacchiere internazionale del crimine italo-americano.

Trapani esoterica. Nelle varie obbedienze si nota una prevalenza di iscritti a livello provinciale di Reggio, per la Calabria, e di Trapani, per la Sicilia, con una particolare vivacità esoterica a Campobello di Mazara e a Castelvetrano. È il regno di Matteo Messina Denaro, il capo latitante di Cosa nostra. Già nel 1986 a Trapani è emerso il radicamento della massoneria più oscura quando la polizia scoprì che il centro studi Scontrino era la copertura di sette logge inaugurate da Gelli sei anni prima e frequentate da politici, imprenditori e mafiosi. Le spiegazioni date dai responsabili a questo surplus di spirito iniziatico in Calabria e a Trapani sono le più varie. Sostiene Bisi che la prima Loggia italiana sarebbe stata fondata a Girifalco (Catanzaro) nel Settecento e si sa che i calabresi amano le loro tradizioni. Binni invece ha preso le distanze e dice: «Io non sono amato dai fratelli di Calabria e Sicilia. Hanno moltiplicato il numero di logge per contrastare la mia elezione». Più articolato il discorso di Venzi. In commissione antimafia il Gran Maestro con maggiore anzianità in circolazione (è stato eletto nel 2001 a 39 anni) ha dichiarato: «Bisogna verificare gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale». Il presidente Bindi ha colto l’assist e ha replicato: «Questa è gente che si fa anni di galera. Si figuri se si spaventano per una conferenza». Ma il tema della cinghia di trasmissione fra massoneria ufficiale, non ufficiale e associazioni paramassoniche non è da trascurare. Nel tempio, come sostiene Venzi, «un fratello non mi deve sbagliare una deambulazione». Vietatissimo parlare d’affari. In una cena al Rotary è diverso. Non si portano guanti e grembiule. L’ambiente è più informale. E il Venerabile o gli Ispettori Magistrali non sorvegliano. Più problematico è il ragionamento sulle massonerie irregolari. Che ci sia una proliferazione è indiscutibile. Basta navigare mezz’ora sul web per essere sommersi da sigle mistiche rette da Gran Commendatori e Supremi Sovrani, in un’orgia di abbreviazioni che ricorda le targhe sulla porta dei direttori galattici nei film di Fantozzi. È vero che per creare un’associazione massonica bastano cinque minuti, sette persone un notaio. Ma poi? Aldo Alessandro Mola, storico di riferimento della massoneria in Italia, risponde: «Non vedo quale interesse potrebbe avere la ’ndrangheta a inserirsi in logge massoniche spurie che non hanno contatti su base nazionale o internazionale con le obbedienze regolari. Anche quando si parla di P2, se ne parla in modo inesatto. La P2 non era affatto una loggia coperta. Era una loggia speciale affiliata al Goi con tre caratteristiche. Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita. La loggia di Gelli era una replica della Propaganda massonica, costituita nel 1877 come vetrina e fiore all’occhiello del Goi tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote. Anche la P2 aveva capitazioni ridicole. Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».

Ingiustizia massonica. La giustizia interna alla massoneria, esercitata in parallelo con quella dello Stato o “profana”, è un tema chiave dello scontro. Per quanto i giuramenti sulle costituzioni dei liberi muratori siano abbinati alla dichiarazione di fedeltà alla Costituzione della Repubblica e alla presentazione di certificati giudiziari e di carichi pendenti, l’indulgenza della giustizia massonica è un dato di fatto. Il timore è che questa inclinazione al perdonismo si estenda alle aule dei tribunali ordinari quando un fratello giudica un fratello o alle commissioni parlamentari quando un fratello scrive una legge che può favorire altri fratelli. Anche su questo i Gran Maestri, alle domande di Rosy Bindi, hanno dato una risposta compatta: nelle logge non ci sono magistrati, che non possono starci pena censura del Csm, e non ci sono parlamentari. Dipendenti pubblici sì, militari sì, professionisti in abbondanza e persino qualche sacerdote, ma nessuna traccia degli oltre 100 deputati e senatori che furono trovati negli elenchi della P2. E i santisti? Mai sentiti nominare, hanno risposto compatti i Gran maestri a proposito degli esponenti riservati del crimine organizzato. Nemmeno del progetto separatista al Sud, durante la transizione fra Prima e Seconda Repubblica, si è parlato direttamente nell’aula della Commissione a palazzo San Macuto. Se ne stanno occupando i magistrati fra Sicilia e Calabria tirando le fila di una tradizione che inizia con il massone Andrea Finocchiaro Aprile, antifascista e leader indipendentista, figlio di Camillo, carbonaro, massone e ministro del Regno. Anche sui picciotti ordinari di Cosa nostra e ’ndrangheta la giustizia massonica è stata piuttosto pigra. A fronte dell’emergenza mafiosa, Raffi e Binni hanno demolito in 17 anni tre logge nel reggino (Caulonia, Brancaleone, Gerace) e una nel Lazio, per insufficienza di iscritti. Un altro caso è significativo. Nel 1992, mentre reggeva il Goi, Di Bernardo ha abbattuto la Rispettabile Loggia Colosseum di Roma, creata nell’immediato dopoguerra per accogliere gli agenti della Cia operativi in Italia. Il più noto era Frank Gigliotti, calabrese emigrato negli States. Anche Binni ha chiuso alcune logge degli Alam in Sicilia, per questioni amministrative: non pagavano le quote in polemica con il Gran Maestro. È un bilancio striminzito e, in materia di giustizia massonica, Di Bernardo ha confermato all’Antimafia che la condanna è un caso straordinario. In genere, si censura, magari si sospende. «Alla fine, tutti assolti». Le due eccezioni note sono quelle di Gelli, cacciato dopo lo scandalo P2 con un processo giudicato sommario e scorretto dallo stesso Di Bernardo, e Amerigo Minnicelli da Rossano (Cosenza), promotore di una lettera a Raffi nell’ottobre 2011 dopo l’inchiesta penale Decollo Money (riciclaggio e narcotraffico fra Italia e San Marino), che coinvolgeva l’imprenditore massone calabrese residente in Umbria Domenico Macrì. A fine gennaio Minnicelli ha consegnato all’Antimafia la lettera, firmata da altri trenta fratelli dissidenti rispetto alla gestione del numero uno regionale Marcello Colloca. L’Espresso ha potuto leggerla. Nella lista delle richieste a Raffi, che includono la consegna delle liste alla Direzione distrettuale antimafia, risalta il punto 3: «Non accada che i fratelli vengano “risvegliati” in Orienti diversi da quelli di loro provenienza». Tradotto in linguaggio profano, si sottolinea la fluidità eccessiva nei passaggi da una loggia all’altra di iniziati che hanno avuto problemi con la giustizia ordinaria o massonica. Né è pensabile che gli agenti segreti della Colosseum si siano iscritti alla bocciofila di quartiere dopo l’abbattimento della loggia da parte di Di Bernardo. L’ex Gran maestro del Goi e della Gran loggia regolare d’Italia, unica riconosciuta dalla Gran Loggia Madre di Inghilterra fondata tre secoli fa (1717), è uno dei quattro testimoni-chiave della Procura di Reggio Calabria, guidata da Federico Cafiero de Raho, nella sua inchiesta per associazione segreta ribattezzata Gotha dopo l’unificazione di cinque procedimenti (Fata Morgana, Araba Fenice, Sistema Reggio, Rhegion e Mammasantissima). Gli altri quattro sono tre collaboratori di giustizia siciliani: Tullio Cannella, Gioacchino Pennino e Antonio Calvaruso, che ha indicato il boss Leoluca Bagarella come uno dei pochissimi in Cosa nostra a conoscere la componente apicale segreta, e unificata, del crimine calabro-siculo infiltrato nei templi dei liberi muratori. Di Bernardo, 76 anni, è stato pubblicamente criticato dal successore Venzi per non avere tentato di ripulire il Goi dall’interno. Di sicuro ha molto da rievocare dei suoi 55 anni di militanza frammassonica. Ne ha dato prova all’antimafia parlando di un fallito traffico d’armi con il presidente del Togo, che al tempo era Gnassingbé Eyadéma, massone come molti leader della cosiddetta Françafrique. Il business sarebbe stato gestito dal suo predecessore alla guida del Goi. In audizione Di Bernardo non lo ha mai nominato ma è Armando Corona, il professionista cagliaritano chiamato a guidare il Grande Oriente dopo lo scandalo P2. Corona è scomparso nel 2009, quattro anni dopo Eyadéma. Ma i Fratelli d’Italia sono spesso coltelli, da vivi e da morti.

La massoneria torna a fare paura: sono tremila gli affiliati non identificabili. Dopo il caso P2, le obbedienze avevano promesso trasparenza. Invece regna l’opacità assoluta come dimostrano gli elenchi visionati dalla Commissione parlamentare sulle logge calabresi e siciliane, scrive Gianfrancesco Turano l'8 febbraio 2018 su L'Espresso. Secondo Agatha Christie, un indizio è un indizio. Due indizi sono una coincidenza. Tre indizi sono una prova. Nell’inchiesta della Commissione parlamentare antimafia sui rapporti fra massoneria e crimine organizzato gli indizi sono 2.993. Tanti sono gli affiliati alle logge calabresi e siciliane che non è stato possibile identificare. Per un caso da manuale di eterogenesi dei fini, il lavoro della Commissione ha trovato il suo risultato più clamoroso in un contesto giuridico diverso da quello di partenza che era la caccia ai mafiosi fra le colonne mistiche di Jachin e Boaz. I pregiudicati per 416 bis sono sei su 17.067 nominativi, una percentuale da beatificazione degli ordini massonici rispetto a qualunque categoria professionale calabro-sicula. E le cose non cambiano di molto se si considerano i 193 soggetti «aventi evidenze giudiziarie per fatti di mafia... concluse in grande parte con decreti di archiviazione» o le «25 posizioni per cui vi sono ancora processi pendenti». A tornare in ballo nella relazione finale della Commissione è lo spettro della legge Anselmi sulle associazioni segrete nata all’indomani dello scandalo P2, la loggia coperta guidata dal Venerabile Licio Gelli con 962 affiliati, un terzo degli ignoti trovati nelle liste sequestrate per ordine di Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, il primo marzo del 2017. Per trentasei anni i dirigenti delle varie obbedienze hanno giurato di avere stroncato il fenomeno delle affiliazioni cosiddette all’orecchio o sulla spada cioè la pratica di occultare agli stessi fratelli, con l’eccezione del gran maestro, l’identità di iscritti che dovevano rimanere sotto il cappuccio. Lo hanno ribadito anche durante le audizioni davanti alla Commissione e Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi) lo ha anche detto sotto la forma dell’interrogatorio (18 gennaio 2017) ossia in una delle fasi in cui l’Antimafia è investita dei suoi poteri giudiziari in base all’articolo della legge che la istituisce. Gli scontri polemici di Bisi con la presidente Bindi, senese come il gran maestro del Goi, sono stati i più accesi di tutte le audizioni. Esiste anche la possibilità che il suo caso venga segnalato alla procura e che Bisi (appena assolto a Siena nel processo Timeout, legato a Montepaschi) sia l’unico leader massonico a finire indagato per falsa testimonianza in relazione alla segretezza degli iscritti e alle vicende della loggia Rocco Verduci nella Locride, sospesa nel 2013 dopo l’inchiesta “Saggezza” per disposizione del predecessore di Bisi, Gustavo Raffi, e poi cancellata. Quel che si può dire fin da adesso è che nelle due regioni a maggior rischio di infiltrazione della criminalità organizzata la trasparenza è un sogno. I consulenti della Commissione, lo Scico della Guardia di finanza e i magistrati Marzia Sabella e Kate Tassone, hanno suggerito che non si può «escludere in maniera aprioristica fenomeni di mera superficialità nella tenuta degli elenchi». Ma la trascuratezza qui è sistema. Ottanta nomi sono inseriti con semplici iniziali, in parte riferibili a soggetti cancellati. Altri 1.883 presentano generalità incomplete e 1.030 sono «anagraficamente inesistenti» perché non possono essere associati a un codice fiscale che riveli la certezza dell’identità.

“Irriconoscibili” ovunque. In grandissima parte, quindi, si tratta di fratelli attivi che, presumibilmente, partecipano alle attività sociali e che pagano la quota annuale e i contributi in mancanza dei quali si è passibili di sospensione e poi di espulsione. Esoterica quanto si vuole, con i soldi la massoneria non scherza e intere logge sono state abbattute perché non versavano il dovuto. Eppure proprio la più mistica delle obbedienze, la Gran loggia regolare d’Italia (Glri) del gran maestro Fabio Venzi, successore di Giuliano Di Bernardo, presenta il numero più alto di iscritti non identificabili. Sono 1.515 nelle 25 logge calabresi e nelle 44 logge siciliane su un totale di 1959 affiliati. La proporzione di fratelli non riconoscibili è del 77,3 per cento. La più grande obbedienza italiana, il Grande Oriente d’Italia (Goi) ha 1185 nomi non identificabili, la Gran loggia degli Alam ne ha 258 e 35 la piccola Serenissima guidata da Massimo Criscuoli Tortora (appena 197 affiliati in tutta Italia di cui 60 nella sola Calabria). Il confronto con la precedente inchiesta sulla massoneria italiana, di stampo giudiziario perché condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi e dal suo capo di allora Agostino Cordova nel 1993-1994, lascia scarso spazio all’ottimismo sulla voglia di trasparenza delle logge. Sui 5.743 nominativi di massoni calabresi e siciliani analizzati da Cordova un quarto non era identificabile. Oggi è il 17,5 per cento. Oltre vent’anni dopo il miglioramento è trascurabile. Non solo, ma l’Antimafia segnala un passaggio inquietante. «Premesso che gli elenchi agli atti della Procura di Palmi nel 1993-1994 riguardavano un novero di obbedienze in parte diverso e più ampio rispetto a quelli oggetto di esame da parte di questa Commissione, va rilevato che vi è una parziale discordanza tra di essi nella misura in cui non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti nel 2017, come noto riferiti a un arco di tempo che va dal 1990 a oggi, taluni nominativi di soggetti all’epoca censiti e poi coinvolti in fatti di mafia». È il caso dell’Asl di Locri commissariata per infiltrazioni della “masso-’ndrangheta” e già al centro dell’omicidio mafioso di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale, nell’ottobre del 2005. «Alcune delle modalità di tenuta dei registri sequestrati alle quattro obbedienza massoniche», dice il membro dell’antimafia Davide Mattiello (Pd), «fanno pensare a pratiche di segretezza che nulla hanno a che fare con la riservatezza. Una sostanziale pratica di segretezza e di irriducibilità all’ordinamento repubblicano delle obbedienza massoniche desumibile anche da altre caratteristiche raccontate dai gran maestri auditi in Commissione. Non poter parlare di quel che si fa, non poter conoscere quel che si farà nei livelli successivi del percorso iniziatico, né chi ci sia, non poter denunciare alla giustizia profana un fratello colpevole, riservarsi un autonomo giudizio massonico non riconoscendo validità alle sentenze della giustizia profana».

Tra esoterismo e fascismo. Fatte le proporzioni, il dato più clamoroso riguarda l’obbedienza di Venzi (Glri) che raccoglie il 63 per cento dei suoi 2400 affiliati nelle due regioni a massimo rischio. Non è soltanto una questione numerica. La Glri è l’unica loggia italiana a potersi fregiare del riconoscimento internazionale più ambito, quello della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (Ugle), vera casa madre della libera muratoria per filiazione diretta dalle Costituzioni di Anderson del 1717. A cavallo dello scandalo P2, che lo storico della massoneria Aldo Alessandro Mola ha definito una loggia “speciale” del Goi, era proprio il Grande Oriente d’Italia a godere del riconoscimento. Con l’uscita polemica e la scissione dell’ex gran maestro Di Bernardo nel 1993, in piena tempesta Cordova, la Ugle ha concesso il riconoscimento alla Regolare di Di Bernardo. Il suo erede Venzi, sociologo esperto di esoterismo, di Julius Evola e di rapporti tra massoneria e regime fascista che regna incontrastato sull’obbedienza dal 2001. Romano di origini calabresi, Venzi è il più restio ai rapporti con la stampa. In audizione ha messo in evidenza una volontà di massima di consegnare gli elenchi sua sponte senza poi metterla in pratica, in modo simile ad Antonio Binni, gran maestro degli Alam, e a differenza di Bisi che si è opposto fin dall’inizio. Per rafforzare la sua posizione di trasparenza, Venzi ha dichiarato di presentare due volte all’anno gli elenchi al ministero dell’Interno e in particolare alla Digos per controlli. A prendere per vere queste parole, si dovrebbe concludere che i controlli sono stati negligenti: oltre tre quarti degli iscritti alla Regolare non sono identificabili. Venzi in audizione ha spostato il problema sulle associazioni paramassoniche. «Bisogna verificare», ha detto il gran maestro, «gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale».

In nome di San Giovanni. La tempesta che investe la massoneria sta portando alla luce un fenomeno che l’Antimafia non ha avuto il tempo e la possibilità di verificare. La disgregazione di alcune obbedienze come la Gran Loggia degli Alam, che avrebbe perso tremila affiliati sugli oltre ottomila che Binni aveva dichiarato solo un anno fa alla presidente Bindi, sta facendo proliferare nuove obbedienze e le cosiddette “logge di San Giovanni”. Due fuoriusciti dagli Alam, l’ex gran maestro Luigi Pruneti e il numero tre dell’obbedienza Sergio Ciannella, si sono messi in proprio ognuno con una loro organizzazione all’inizio e alla fine del 2017. «Noi aspettiamo che si risolva il contenzioso legale con Binni», dice Ciannella. «Se vinceremo ci riprenderemo palazzo Vitelleschi, se no, resteremo dove siamo e cercheremo di lanciare un discorso giuridico sull’articolo 18 della costituzione per stabilire i requisiti fondamentali su che cosa è la libera muratoria in collaborazione con la Serenissima, il Sovrano ordine massonico italiano e la Federazione del Diritto Umano. Oggi chiunque può dirsi massoneria e certamente esiste una proliferazione incontrollata di logge di San Giovanni. In parte, si spiega con la tendenza a sfuggire alla tirannia del gran maestro, che è un dato tipicamente italiano, mentre la massoneria nasce come loggia, non come obbedienza. In Svizzera il gran maestro è un semplice coordinatore, non un monarca. In parte, però, c’è la tendenza a coprire certe deviazioni malavitose che vogliamo e dobbiamo combattere insieme a quelle che un tempo si chiamavano logge coperte». Bastano sette fratelli, magari espulsi da un’altra obbedienza, a organizzare un nuovo tempio. È a questo fenomeno che ha fatto riferimento il numero uno degli Alam Binni quando in Commissione ha dichiarato che soltanto ad Arezzo esistevano 92 raggruppamenti massonici autonomi.

Obiettivo lobby. In Italia il fenomeno delle logge di San Giovanni è così diffuso che è nata anche una federazione di queste monadi massoniche, con tanto di sito web e pagina Facebook. Da anni il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, sta affrontando il fenomeno. Una delle sue fonti principali è il collaboratore di giustizia Cosimo “Mino” Virgiglio che si è dilungato sull’attività della sua Loggia dei garibaldini, fra comitati d’affari, riti iniziatici da reality-show e ’ndrine di Gioia Tauro. «Noi non riconosciamo», si difende Stefano Bisi, «associazioni come quella dei garibaldini ed è motivo di provvedimento disciplinare frequentarsi in riti misti, anche se fra obbedienze regolari. La massoneria irregolare noi l’abbiamo sempre combattuta». Ma il fenomeno non è mai stato debellato. Come ha dichiarato Virgiglio, l’obbligo di assistenza fra massoni va oltre l’appartenenza alle obbedienze e, secondo quanto racconta all’Espresso un fratello di provenienza Alam, sta tornando di attualità una riedizione perversa delle vecchie camere tecnico-professionali della massoneria pre-gelliana, quando i fratelli si riunivano per categorie di appartenenza (medici, giornalisti, avvocati) allo scopo di presentare proposte agli iniziati che sedevano in parlamento. Questo lobbying discreto in Calabria e in Sicilia ha visto partecipare migliaia di iscritti dei quali non si conosce l’identità. Se si pensa che mafia e ’ndrangheta hanno da tempo esteso la loro attività imprenditoriale ben più a nord del Pollino e che la Commissione non ha potuto approfondire le sue ricerche nelle altre diciotto regioni, c’è da sperare che la prossima legislatura continui il lavoro iniziato, anche se Bindi non si ricandiderà.

·         Il rapporto massoneria-mafia.

'Ndrangheta stragista: il rapporto massoneria-mafia raccontato dal Gran Maestro Di Bernardo, scrivono Aaron Pettinari e Francesca Panfili l'11 Gennaio 2019 su antimafiaduemila.com. Dai contatti con la P2 di Gelli al traffico di armi ed il progetto separatista. “Una compenetrazione tra massoneria e la 'Ndrangheta? Penso che ci sia sempre stato”. “La P2 di Gelli? Gelli è stato inventato dalla Cia, dagli americani, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti e iniziava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista. Una volta mi offrì gli elenchi veri della P2 per essere riammesso al Goi (Grande Oriente d'Italia)”. Sono queste solo alcune delle dichiarazioni che il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo (in foto) ha rilasciato oggi durante l'udienza al processo 'Ndrangheta stragista, in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e che vede come imputati il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone ritenuti mandanti degli agguati ai carabinieri nella stagione delle stragi dei primi anni Novanta. Una deposizione piuttosto articolata in cui Di Bernardo, uomo chiave nella storia della massoneria italiana, ha ripercorso diversi momenti vissuti al vertice del Grande Oriente d'Italia (fu eletto l'11 marzo 1990, ndr), in un momento storico in cui la più grande organizzazione massonica italiana era riconosciuta dalla massoneria inglese e rientrava quindi nel novero delle cosiddette “massonerie regolari”. Nel corso delle sue funzioni, Di Bernardo venne a conoscenza di un fenomeno di infiltrazione della mafia nei vertici meridionali del Grande Oriente d’Italia e, prima di andare via sbattendo la porta, indagò a fondo raccogliendo diversi documenti. E sul punto fu anche sentito dal giudice Agostino Cordova che in quegli anni stava conducendo la delicatissima indagine “Mani segrete”. Il lavoro di Cordova era partito dalla morte sospetta di un notaio esponente della ‘ndrangheta, Pietro Marrapodi, Grande Oratore della loggia di Reggio Calabria ‘Logoteta’ che iniziò a rivelare retroscena scottanti sui rapporti tra ‘Ndrangheta e massoneria calabrese ed iniziò a fare i nomi dei massoni reggini collusi. Nonostante una richiesta di scorta negata, Marrapodi fu trovato morto impiccato nello scantinato della sua abitazione in città e la sua morte fu archiviata velocemente come omicidio, anche se ancora oggi i dubbi sulla sua dipartita rimangono.

La giusta direzione. Di Bernardo, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha confermato che l'inchiesta del giudice Cordova stava andando nella giusta direzione comprendendo che i clan calabresi controllavano il Nord Italia attraverso le infiltrazioni le logge. "Io gli misi a disposizione documenti importanti e i risultati delle mie scoperte - ha ricordato in aula - ma poi non è successo nulla. Quando l'inchiesta gli fu tolta il fascicolo è passato in mano a più procuratori. Poi venne trasferita a Roma per competenza e lì è stata archiviata per decorrenza termini". Dunque il Gran Maestro è entrato nello specifico dei fatti: "Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza e mio vice al Goi nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia disse che poteva affermare con certezza che in Calabria su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io saltai e gli dissi: 'E cosa vuoi fare?'. Lui mi rispose: 'Nulla, assolutamente nulla'. E mi spiegò che viceversa lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Mi recati allora dal duca di Kent a cui esposi la situazione, ma mi disse che ne era già a conoscenza". "A Londra - ha specificato - mi dissero che grazie all'ambasciata ed ai servizi di sicurezza erano a conoscenza delle infiltrazioni della 'Ndrangheta e questo è normale, perché in Inghilterra la massoneria è un'istituzione riconosciuta. Il capo è il duca di Kent se ci fosse il Re, sarebbe il Re, quindi è normale che le associazioni con cui sono in rapporti siano sotto osservazione". Di Bernardo allora, su suggerimento del duca di Kent ha fondato un nuovo ordine la Gran loggia regolare d’Italia.

Infiltrazioni in Sicilia e in Calabria. Secondo Di Bernardo: “La Calabria era indubbiamente il centro di questo fenomeno di infiltrazione, come messo in evidenza da Procuratore Cordova, ma già segnali venivano dalla Sicilia. Ci fu un fatto che fece tremare i vertici del Grande Oriente ossia l’arresto del sindaco di Castelvetrano per suoi coinvolgimenti con la mafia, ma in Sicilia ebbi altri segnali da parte dei vertici del GOI”. Questi segnali venivano da un avvocato massone, Massimo Maggiore di Palermo, ai vertici del Grande Oriente siciliano, che informò confidenzialmente Di Bernardo di rifiutare l’invito a visitare la loggia che faceva capo ad un noto avvocato del trapanese perché in quella zona tutte le logge del GOI erano state occupate da mafia. “Gli chiesi come avevano potuto permetterlo - ha aggiunto il teste - e lì mi rispose che non aveva potuto evitarlo. Lì cominciai a capire che i vertici che avrebbero dovuto applicare le regole della massoneria nel territorio erano in realtà state subordinate a logiche di altro potere. E questo avveniva già prima dell’inchiesta di Cordova” ha affermato Di Bernardo. “Io sono stato eletto Gran Maestro ignorando completamente quali fossero le realtà locali” ha proseguito dando l'impressione di volersi giustificare rispetto a determinati fatti avvenuti.  Il sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, rifacendosi ad un verbale del maggio 2014 in cui Di Bernardo aveva dichiarato che la situazione in Calabria era più preoccupante di quella siciliana, ha voluto chiarire la differenza tra le logge in quei territori. Secondo Di Bernardo “nella massoneria siciliana non c’era per così dire un punto di vista unitario. La massoneria era frastagliata e ogni parte aveva il suo centro di potere. In Calabria invece c’era una mente che regolava, al di là di tutti, i contrasti che esistevano tra le obbedienze massoniche di quel territorio. Si percepiva un filo conduttore” continua Di Bernardo “Loizzo mi diede l’imprinting più forte però poi io iniziai a vedere il contorno e sono arrivato a capire che la massoneria calabrese è più potente di quella siciliana per la visione unitaria che possiede”.

I movimenti separatisti e la stagione stragista del 92-94. Rispetto ai movimenti separatisti che si stavano diffondendo in quegli anni in tutto il territorio nazionale, Di Bernardo parla delle informazioni che aveva dalla sua posizione di Gran Maestro del Grande Oriente in Italia. La sua fonte era il suo segretario personale Luigi Savina che riceveva informazioni direttamente dai massoni calabresi i quali sostenevano i movimenti separatisti e cercavano un appoggio del loro Gran Maestro. “Il mio segretari persona mi diceva che parte della massoneria appoggiava i movimenti separatisti. Reggio Calabria era il centro propulsore di questi movimenti separatisti - ha dichiarato Di Bernardo - Cosenza aveva una sua specificità e la situazione era meno grave. Catanzaro non contava molto. Quella visione non rientrava nella mia visione d'Italia, per questo fin quando sono stato Gran Maestro ho sempre respinto tali richieste di coinvolgimento ch arrivavano. Non conosco la situazione al Nord, ma posso immaginare che non fosse interessato, sebbene non possa escludere che ci fosse chi gettava benzina sul fuoco". Rispetto al collegamento tra la massoneria e la mafia durante la stagione delle stragi, Di Bernardo ha detto al sostituto Lombardo: “Io un’idea me la sono fatta e penso che fosse tutto all’interno di uno stesso contesto seppur con separazioni interne. L’idea che mi sono fatto era che lì c’era qualcuno che tirava le fila all’interno di contesti diversi. Sì quella stagione è maturata a contatto con ambienti massonici". L’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia aveva parlato di questo anche con i vertici della massoneria inglese, nello specifico con il Duca di Kent che era già al corrente di tutto quello che riguardava la massoneria italiana e la situazione politica nazionale.

Il traffico di armi e il Grande Oriente d’Italia. All’interno del quadro descritto questa mattina da Giuliano Di Bernardo, su sollecitazione dal procuratore aggiunto Lombardo, vi è anche una misteriosa telefonata che l’ex Grande Maestro del GOI ricevette di notte nella sua residenza romana a Villa Vascello in cui un uomo dall’accento straniero, che lui definisce africano, scambiandolo per il suo predecessore, Armando Corona, iniziò ad avanzare delle richieste di armi pesanti e leggere. "Ero nella mia residenza sul Gianicolo e suona al telefono alle tre di notte. Era il 1991. Mi sento dire con una voce da straniero 'Gran maestro noi avremmo bisogno delle stesse cose che ci ha dato prima'. Io avrei potuto dire 'sta parlando con un’altra persona'. Però sono stato al gioco e ho chiesto 'cosa avete bisogno in particolare?' e inizia a farmi un elenco di armi non solo leggere ma anche pesanti. Quando lui si accorge del senso delle mie domande, mi dice “Sto parlando con Armando Corona?”. Io dico 'No con Giuliano Di Bernardo' e lui mette giù. Per me si è accesa una spia. Capii che quella telefonata proveniva dall’Africa, forse dalla Somalia". Di Bernardo avvisò subito i vertici della massoneria francese da cui dipende a livello massonico il territorio africano e venne a sapere dai francesi dei legami che Corona, e quindi i vertici del GOI, avevano con il Presidente del Gabon, anche egli massone, e degli scambi di armi presenti a livello internazionale tra massoneria e il paese africano. Anche di questo Di Bernardo parlò al Procuratore Cordova. Di Bernardo ha anche sostenuto di aver presentato la questione anche alla giunta del Grande Oriente d’Italia per giudicare Corona ma coloro che dovevano esprimere un giudizio "erano suoi amici e quindi tutto si concluse con un nulla di fatto. La corte centrale del GOI era presieduta dal numero uno della massoneria siciliana".

Massoneria e mafia a confronto secondo Giuseppe Di Bernardo. Di Bernardo nel corso dell’interrogatorio ha poi descritto quello che accomuna l’appartenenza massonica e quella mafiosa e che potrebbe essere una delle chiavi per spiegare la fitta rete di legami che intercorre tra queste appartenenze. “Penso che punto di giuntura tra mafia e massoneria sia nel rituale. Quello usato in massoneria e quello nella ‘Ndrangheta hanno una base in comune: in entrambi i casi si usa un rituale che ha lo stesso significato cioè vincolarti ad un segreto una volta che sei dentro” afferma Di Bernardo. “Questo secondo me ha facilitato molto la compenetrazione in Calabria tra mafia e massoneria. Penso che questo ci sia sempre stato” ha continuato.

Massoneria inglese e massoneria americana in Italia. Nel suo racconto Giuliano Di Bernardo ha anche ripercorso la storia della massoneria italiana spiegando che l’indirizzo contemporaneo delle logge italiane si è formato in seguito alla seconda guerra mondiale quando in Italia la massoneria è rinata dopo lo sbarco in Sicilia "su basi nettamente differenti rispetto alla massoneria ottocentesca terminata con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo". “Quando gli americani vengono in Italia - ha spiegato il teste - portano una nuova immagine della massoneria che è quella della massoneria democratica diversa da quella nata in Inghilterra e in questo cambia tutto”.

Licio Gelli e il Grande Oriente d’Italia. Altro tema importante toccato durante l'udienza odierna dal Gran Maestro è stato quello sui contatti con la P2 e Licio Gelli. Secondo l’ex Gran Maestro del GOI, Licio Gelli sarebbe stato l’uomo che gli americani attraverso Cia e FBI, avrebbero ‘inventato’ per evitare il sorpasso comunista in Italia nel momento in cui Moro e Andreotti avevano tradito la loro fiducia. "Il governo americano iniziava a temere che ci potesse essere il sorpasso comunista. Quando gli americani non hanno più fiducia negli organi istituzionali, vanno alla ricerca dell’uomo nuovo, fuori da ogni contesto" ha ricordato Di Bernardo. Per evitare l’ascesa del comunismo in Italia, secondo il teste, gli americani intervennero tramite Frank Gigliotti, importante massone che favorì lo sbarco Usa in Sicilia chiedendo aiuto alla mafia. "Fu lui a rifondare la massoneria in Italia - ha spiegato Di Bernardo - e sempre lui propose Gelli. Disse: 'Il salvatore dell’Italia è quest’uomo'. Da quel momento Gelli è stato il referente unico ed esclusivo del governo americano, per evitare che in Italia si facesse il sorpasso dei comunisti. Gelli ha avuto montagne di dollari, ma soprattutto il governo americano ha messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani economici, militari e della magistratura. Tutti nella sua obbedienza. Quest’uomo all’improvviso si è ritrovato un potere che penso nessuno ha mai avuto in Italia. Ed è vero: si parla di questo progetto politico di Gelli, il piano di rinascita. Ma cosa avviene? Gelli si era impegnato a modificare l’Italia per evitare il sorpasso. Ma quando Gelli riceve i soldi dagli americani fa i suoi affari e non pensa allo scopo fondamentale. Gli americani cominciano a sollecitarlo. E allora lui, come confidato a qualche suo collaboratore, non ce la fa più e si mette a scrivere così un progetto a caso. Tradisce gli americani, mettendo da parte i fini politici". Di Bernardo ha spiegato come il "Venerabile" godesse di grande approvazione anche all'interno del Grande Oriente d'Italia: "Aveva una base molto forte. Ufficialmente tutti osannavano Gelli. Ma io ho avuto modo di capire che questo non era vero. Gelli, dopo la mia elezione, mi invia due lettere in cui mi chiede di essere riammesso. Io le leggo e informo la giunta che mi sono arrivate queste lettere e non faccio nulla. Una sera Eraldo Ghinoi mi viene a trovare e mi chiede se ho ricevuto le lettere. Io dico che, a parte la mia idea personale, Gelli non può né deve tornare. E che se anche io volessi voluto proporre il suo rientro, l’avrei dovuto presentare in Gran Loggia con la certezza che sarebbe stato bocciato a grande maggioranza. E lui mi dice: qui ti sbagli. Prova a metterlo all’approvazione e vedrai che sarà approvato. A questo punto, mi dice, 'io sono amico di Gelli da tanto tempo' e mi fa vedere una medaglia di oro e platino ricevuta da Gelli. Io cominciai a pensare: è questa la massoneria".

I veri elenchi della P2. Ma i tentativi di riammissione non si conclusero qui. Di Bernardo ha ricordato di aver ricevuto anche una prima offerta in denaro e, successivamente, una proposta indecente: il possesso del vero elenco della P2. "Quello sequestrato dalla magistratura era solo parziale. Gelli mi offrì l'elenco vero della P2 tramite un suo emissario che commentò: 'così puoi ricattare tutta l'Italia'". Alla domanda del pm Lombardo su chi fosse questo soggetto il teste ha preferito trincerarsi nel silenzio: "Preferisco non dirlo". "No dico di non averci pensato - ha ammesso Di Bernardo - Ma poi ho deciso di non procedere". Che l'elenco segreto della P2 fosse qualcosa di reale il teste si è convinto dopo un altro episodio: "Dopo la mia elezione chiede di incontrarmi il segretario personale del gran maestro Battelli. Questo segretario voleva fare una dichiarazione al Gran maestro da firmare. Infatti lo incontro e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del Gran maestro Battelli con un gran fascicolo e gli dice 'questo è l’elenco della P2'. Battelli inizia a sfogliarlo e diventa di tutti i colori. Alla fin fine, Battelli chiude e dice a Gelli: “Riprendilo, questo io non l’ho mai visto”. E dice al suo segretario che i nomi che ha visto lì non li vuole dire. Il segretario si sente in dovere di fare questa dichiarazione. Io ho la cognizione che il vero elenco esiste ma non sappiamo dove. Questo avviene dopo che la loggia P2 è stata sciolta. Per sciogliere la P2 è stata necessaria la legge Anselmi, anche se non scioglie proprio nulla perché contiene una contraddizione che contrasta con un articolo della Costituzione". 

Questa tesi è stata perseguita recentemente anche dall’ultima Commissione antimafia. In questo modo, secondo Giuliano Di Bernardo, anche il suo predecessore Armando Corona, poté fondare una loggia coperta i cui partecipanti non erano individuabili se non dal Gran Maestro. Di questa vicenda Di Bernardo venne a conoscenza quando fu Gran Maestro del GOI: “Un giorno mi viene a trovare un personaggio calabrese che mi dice: Gran Maestro io sono all’obbedienza di Armando Corona della loggia coperta, però voglio stare sempre accanto al numero uno e voglio entrare nella sua loggia coperta - ha proseguito nel racconto Di Bernardo - E io dissi che per prendere in considerazione la sua richiesta avevo bisogno di un documento scritto. Così mi scrisse una lettera su carta intestata in cui allegò una foto con Corona vestito con paramenti massonici e mi fornì la prova documentale dell’esistenza di una loggia coperta. Non ho mai saputo se fosse in Calabria ma il soggetto che venne da me era un calabrese. Io quel punto diedi tutto a Cordova. Le logge coperte sono di fatto comitati d'affari. Corona ha preso quegli imprenditori che secondo lui potevano essergli utili nei suoi progetti e li ha riuniti in una loggia coperta”.

Gli indirizzi massonici di Di Bernardo. Viste le infiltrazioni del Grande Oriente con la mafia e la presenza di correnti interne che non rispecchiavano più il suo ideale massonico, Giuliano Di Bernardo ha poi parlato delle sue dimissioni nel 1993 dal Grande Oriente d’Italia e della fondazione della “Gran Loggia Regolare d’Italia” riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra che pochi mesi dopo la formazione di questa nuova realtà massonica in Italia, troncò i rapporti con il Grande Oriente d’Italia. Di questa nuova realtà massonica, nata su ispirazione inglese, Di Bernardo fu Gran Maestro per nove anni fino al 2002. Dopo poco tempo si ritirò dalla massoneria per fondare l’Accademia degli Illuminati. All’interno dell’udienza Di Bernardo ha dichiarato di come anche la Gran Loggia Regolare d’Italia, come risulta dalla relazione della Commissione Antimafia, ha il 77,3 percento di affiliati non identificabili in regioni come la Calabria e la Sicilia.

Vaticano e massoneria. Nel corso dell'udienza il pm Lombardo ha anche chiesto al teste le sue conoscenze sui legami che si sviluppano tra le massonerie ed il Vaticano. “Per me sono solo invenzioni - ha detto il teste - Tuttavia non escludo che ci siano stati rapporti tra massoneria e vaticano ma oggi non esistono più. Il Vaticano oggi si è buttato alle spalle queste cose, i cardinali accusano di questo altri cardinali per le loro lotte interne”. Di Bernardo ha poi raccontato di non aver avuto rapporti con il Vaticano quando era Gran Maestro del GOI. “Nel 2002 quando avevo costituito l’Accademia degli Illuminati, ricevetti richiesta di includere un rappresentante del Vaticano nell’Accademia e mi proposero un signore bulgaro, capo servizi segreti e diplomazia, personaggio che aveva seguito la pista bulgara dell’attentato al Papa" ha detto rivolgendosi alla Corte. "Lui - ha concluso Di Bernardo - mi disse che in Vaticano c’era una persona che mi voleva conoscere personalmente e mi ritrovai di fronte il Sottosegretario agli Esteri Pietro Parolin. C’è stato subito sintonia sulle cose da fare. Più volte sono tornato lì e ho aiutato Parolin a risolvere un problema con il governo cinese di qualche anno fa”. Il processo è stato rinviato al prossimo 18 gennaio.

Poteri massonici e mafia in Italia. Stevenà di Caneva, 12 Aprile. Pubblicato: 10 Aprile 2019 da Antimafiaduemila. Venerdì 12 aprile si terrà alle ore 20.45, presso la Sala Convegni di Villa Frova, in piazza San Marco a Stevenà di Caneva (Pordenone), l'incontro "Poteri massonici e mafia in Italia". Durante la serata verrà presentato anche il libro dell'avvocato ed ex magistrato Carlo Palermo dal titolo "La Bestia, dai misteri d'Italia ai poteri massonici che manovrano le democrazie". Modera l'incontro il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni*, con le letture animate del movimento culturale internazionale Our Voice. L'evento è promosso dall'associazione G.A.S. Caneva.

L'autore. Carlo Palermo (Avellino, 1947), avvocato, è stato giudice istruttore presso il Tribunale di Trento dal 1980 al 1985, anno in cui, da febbraio a ottobre, è stato sostituto procuratore presso la Procura di Trapani. Nel 1990 ha lasciato la magistratura. È stato deputato e consigliere regionale e provinciale a Trento, dove abita. Ha pubblicato, tra gli altri, L'Attentato (1993), Il quarto livello. Integralismo islamico, massoneria e mafia (1996), Il quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? (2002).

Il libro. 2 aprile 1985: l'auto che porta Carlo Palermo al suo ufficio, nella Procura di Trapani, salta per aria. Lui e la scorta si salvano, muoiono invece una giovane donna e i suoi due bambini. Che cosa, nelle sue inchieste, ha scatenato la vendetta? Il giudice continua a indagare, anche dopo aver lasciato la magistratura. Le sue ricerche prendono corpo quando, nel 2016, scopre che pochi mesi prima di morire Giovanni Falcone aveva curato un'operazione segreta: l'estradizione negli Stati Uniti di un terrorista arabo, il primo fabbricatore di autobombe realizzate con l'esplosivo militare usato per gli attentati di Pizzolungo, dell'Addaura, di via D'Amelio. Una nuova luce sulle stragi "mafiose"? Di più. Vecchie carte e atti processuali rimasti per anni sepolti negli archivi conducono a un'inedita lettura di alcuni tra i più grandi misteri italiani, dall'omicidio di Aldo Moro all'attentato a papa Wojtyla, alle stragi del 1992-1993, e anche degli attacchi terroristici alle Torri gemelle e al Bataclan, a Parigi. Collegamenti criminosi documentati permettono di individuare incredibili attività concepite da un direttorio internazionale - radicato negli apparati politici e militari degli Stati, nella Chiesa, nei vertici delle oligarchie finanziarie - che ha manovrato la storia europea, gli equilibri nel Mediterraneo, la crescita dell'estremismo islamico, la democrazia incompiuta del nostro Paese fino al suo inesorabile declino. Le chiavi interpretative di questo complesso quadro sono massoniche. Sono nascoste nei palazzi del potere d'Italia, Francia, Svizzera, di Londra e New York. L'autore le insegue in una ricerca infaticabile tra misteri, occulte ispirazioni e macchinazioni diaboliche che riconduce, alla fine, a Trapani, proprio là dove, trent'anni prima, l'indagine ha avuto inizio.

Mafia, servizi e massoneria, Carlo Palermo ad Erice presenta ''La Bestia''. Pubblicato: 03 Aprile 2019 da Aaron Pettinari su Antimafiaduemila. La presentazione del libro inserito nel programma delle commemorazioni per la strage di Pizzolungo. A trentaquattro anni di distanza dalla strage di Pizzolungo che aveva come obiettivo il giudice Carlo Palermo e che ha visto il sacrificio di vittime innocenti come Barbara Rizzo ed i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta, ricordati ieri mattina nel luogo dell'eccidio, ci sono ancora tante domande che ancora attendono una risposta: perché Cosa nostra decide di colpire un magistrato che si è appena insediato nel territorio in maniera così violenta? C'era solo Cosa nostra dietro quella strage? Lo stesso Carlo Palermo, oggi avvocato, sopravvissuto ma profondamente segnato da quanto avvenuto, nel suo libro "La Bestia" (edizione Sperling & Kupfer) ha cercato di mettere in fila i pezzi e di ricostruire le ragioni di quel delitto consumato nei suoi confronti. L'opera è stata presentata ieri per la prima volta nel trapanese, ad Erice, presso il seminario vescovile, nell'ambito della rassegna “Non ti scordar di me”, un cartellone con diverse iniziative che da anni si svolge per accompagnare l’impegno per la memoria e la giustizia di Margherita Asta, figlia e sorella delle tre vittime. In una sala gremita, stimolato dalle domande di Rino Giacalone e Giacomo Pilati, Palermo ha riavvolto il nastro partendo da quelle sue prime indagini sul traffico internazionale di armi e droga, svolte a Trento e che gli furono tolte per intervento del Csm (su esposto, tra gli altri, di Bettino Craxi), per arrivare fino a Trapani. "Quelle indagini furono bloccate - ha ricordato l'ex magistrato - ma io ho sempre cercato di capire quali fossero le connessioni per cui vi fu la strage a Pizzolungo. Nel 2015, rileggendo alcune carte, ho capito una cosa semplice, che avevo in mano dal 1982 nell'indagine di Trento. Ovvero che nelle mie inchieste emergevano dei nomi di due che per lungo tempo avevo creduto essere dei siriani, invece erano dei palestinesi che erano membri di Settembre nero, l'organizzazione terroristica che aveva compiuto la strage delle Olimpiadi di Monaco. Quelle indagini offrivano una chiave di lettura per qualcosa di più grande e l'ho capito rileggendo anche le lettere di Aldo Moro, al tempo del sequestro, che parla chiaramente di un accordo tra lo Stato italiano ed i terroristi di questa organizzazione che operava sotto l'ombrello dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndr). Tramite il “Lodo Moro”, infatti, i terroristi di "Settembre Nero" "potevano vivere e operare in Italia usufruendo del beneficio dell’impunità. In cambio c'era la garanzia che in Italia non venissero fatti gli attentati". "Questo filo - ha proseguito Palermo - è rimasto taciuto, segreto. Un segreto di Stato che vive ancora oggi. E cosa dire di quell'esplosivo Semtex che fa parte di una lunga lista di sangue che fu usato dalla mafia ma che era usato anche dai palestinesi e dai servizi di sicurezza? Quello speciale tritolo militare è stato usato a Pizzolungo, nell’attentato nel dicembre 1984 al treno Rapido 904, a San Benedetto Val di Sambro, ma anche nel fallito attentato all’Addaura al giudice Falcone il 21 giugno 1989, e in via d'Amelio il 19 luglio 1992. La strage che ha colpito Pizzolungo è un anello di una catena ma per comprenderla bisogna mettere in fila i pezzi, incrociare le date e rileggere i documenti dei processi che ci sono già stati. Dietro questi fatti c'è la mafia ma non è vero, come dicono altri magistrati, che sopra di essa non c'è nulla. Sopra di essa ci sono altri poteri occulti, Servizi e massoneria, che stanno sopra. E la mafia è un organo esecutivo". Nelle trecento pagine del libro, tramite documenti, viene fatto riferimento anche alla storia della massoneria che passa anche dal territorio trapanese, proprio ad Erice. Simboli che fanno riferimento, ad esempio, ai Rosa-Croce e alla Grande Madre. Simboli presenti anche sui frontali delle chiese (come la Chiesa Madre di Erice) e in testi storici. "In carte e documenti del passato - ha proseguito l'ex magistrato - troviamo gli agganci che portano ad individuare il ruolo centrale che hanno avuto certi poteri in questo territorio". Mentre sullo schermo alle spalle dei relatori scorrevano le immagini di cartine e fotocopie del libro, compariva un riferimento chiaro al dispositivo Gladio, creato nel 1958, di cui si saprà in Italia solo quando Andreotti ne svelerà l'esistenza nel 1991. "Quella struttura serviva per impedire che il comunismo arrivasse al potere in Italia e per proteggere il Paese da un'eventuale invasione sovietica - ha ricordato Palermo - In una cartina tratta dal libro di Paolo Inzerilli (fino al 1991 alto dirigente del servizio segreto militare, capo di Gladio dal 1974 al 1980, ndr), vi è un numero inserito non a caso, e cerchiato: il 58. questo numero che si vede proprio vicino la Sicilia è il numero esatto dei candelotti che furono recapitati a Giovanni Falcone all'Addaura. Poi c'è una freccia che indica in Trapani il punto estremo di quella struttura Stay behind". Altra "coincidenza" che si evince dalle carte è la presenza in un documento, sempre rispetto al periodo dell'attentato all'Addaura, in cui si parla di un'operazione stay behind a largo di Mondello. "E' il 18 giugno 1989 - ha evidenziato Palermo - e viene autorizzata un'esercitazione Domus Aurea in ambito Nato. E si scrive di un posizionamento del radio comando in un villino imbarcadero Torre del Rotolo. Se non sbaglio anche alcuni collaboratori parlano di un villino a Torre del Rotolo dicendo che quel luogo era in possesso della famiglia Madonia". Parlando della massoneria l'ex magistrato ha evidenziato come "i canali occulti consentono di mettere in contatto persone apparentemente divergenti tra loro. La massoneria è qualcosa che esiste da secoli. Qualcosa che resiste nel tempo. C'è una parte che è legata allo sviluppo della conoscenza e della sapienza e che opera in modo lecito. Ma un'altra parte strumentalizza quel senso e manovra in maniera occulta e deviata e che portano a chi governa il mondo". Nella sua analisi storica Palermo ha individuato due fasi: "La prima che riguarda il passaggio che va dal 1947 al 1989, in cui il mondo ruota attorno alla guerra fredda. La seconda è quella immediatamente successiva e che poi porterà all'individuazione del terrorismo e l'integralismo islamico come il 'nemico' e che sarà in gioco finché non verrà messo in mezzo il rapporto con la Cina". Parlando del ruolo della mafia in questo puzzle Palermo ha ribadito che "essere braccio armato non è comunque da poco e quando economicamente si muovono miliardi si detiene comunque un potere. Dove vanno a finire i soldi delle mafie? Entrano nel sistema economico e produttivo e passano nelle banche entrando in un sistema che connette tra loro più dimensioni. Questo schema non è facile da ricostruire perché presenta come tante scatole cinesi ed oggi è ancora più frazionato". Infine Palermo, mentre il pubblico, in piedi, gli rendeva onore con un lungo applauso, ha concluso invitando tutti i presenti a non smettere di informarsi: "Solo oggi mi trovo qui ad Erice a parlare di queste cose. A Trapani ancora non si vogliono far emergere certi aspetti. E' necessario far emergere queste cose brutte perché possono liberare la popolazione da certe ombre che sembrano inficiare tutto e tutti. Se queste ombre vengono dichiarate e rivelate si apre un nuovo percorso". Una strada necessaria, anche se dolorosa, per giungere ad un cambiamento.

Carlo Palermo: “Non si può nascondere la verità con una colata d’asfalto”. Con "La Bestia" l’ex giudice rivela fonti e documenti inediti rileggendo la storia degli ultimi quaranta anni, scrive Monica Mistretta il 24 ottobre 2018 su L'Indro. Il titolo e la simbologia della copertina, che rimanda alla massoneria e ai suoi riti, sono volutamente provocatori, raccontano subito, senza mediazioni, la tesi sottostante. Con il suo nuovo libro, "La Bestia" l’ex giudice Carlo Palermo torna a parlare dei grandi traffici di armi che dagli anni 80 hanno segnato la storia del nostro Paese, rimanendo impuniti fino ai nostri giorni. Seguendo il filo di documenti inediti e basandosi sulle rivelazioni di alcune fonti interne a servizi segreti e a grandi e piccole banche internazionali coinvolte nei traffici illeciti, Palermo arriva a ricostruire a quaranta anni di distanza dalle sue prime indagini di giudice a Trento il ruolo delle organizzazioni occulte che governano il mondo delle armi, della finanza e del mondo. Un ruolo solo accennato per ipotesi perché i segreti di Stato che ne custodiscono l’esistenza stessa vanno oltre le carte processuali e le fonti sulle quali l’ex giudice ha potuto fare affidamento. Nel 1984 le sue indagini giudiziarie si erano fermate: l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi aveva chiesto un procedimento disciplinare contro quel giudice che da Trento stava mettendo le mani su traffici che coinvolgevano banche e paesi del mondo occidentale connettendoli tutti, uno dopo l’altro, carta dopo carta, con terroristi e trafficanti mediorientali. Nell’aprile del 1985 il giudice si era miracolosamente salvato dall’attentato a Pizzolungo, in provincia di Trapani, dove nel frattempo era stato trasferito. Nello scoppio della bomba che avrebbe dovuto ucciderlo, erano morti una mamma e i suoi due figli. Palermo poco dopo aveva lasciato la magistratura, ma non le indagini che continuerà a seguire negli anni in veste di avvocato nei casi più controversi del nostro Paese: Ustica, la scomparsa dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, la tragedia del Moby Prince. "La Bestia" è il punto di arrivo di tutte le indagini seguite, l’anello mancante delle ricerche e dei casi irrisolti che hanno tormentato l’ex giudice negli ultimi quaranta anni. A noi ha raccontato solo una piccola parte di quello che ha scoperto. Che è anche una minima parte di quello che, ci fa capire, ha potuto scrivere.

Nel corso delle ricerche, mentre inseguivi i traffici di armi protagonisti delle tue inchieste negli anni 80, ti sei imbattuto in un documento molto speciale, scritto a mano, con ogni probabilità dal colonnello Stefano Giovannone. Cosa hai trovato in quelle righe?

«Non sono righe. Sono 11 pagine scritte fittamente. Il documento deve essere stato redatto tra l’ottobre 1983 e il gennaio del 1984. Colpisce il prospetto che occupa tutta la prima pagina, una sorta di organigramma nel quale figurano, collegati da frecce, i nomi di personaggi appartenenti alle oligarchie del petrolio e della finanza dell’epoca: inglesi, americani, italiani, arabi. C’è il colonnello del Sifar e del Sid Massimo Pugliese, da me arrestato nel corso delle indagini a Trento. Troviamo l’immancabile capo del Sismi Giuseppe Santovito, anche lui inquisito nella mia inchiesta. Le frecce indicano i rapporti tra i personaggi e le varie oligarchie bancarie. Al vertice figurano arabi, come il libanese Mafud Fustok, attivo fino al 2010: a lui sembra risalire una misteriosa operazione internazionale di investimenti in metalli preziosi, soprattutto argento, che sarebbero stati letteralmente rastrellati dal mercato in quantità smisurate, per farne incetta. C’è il nome del presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, sopra il quale, seguendo le frecce, troviamo curiosamente gli stessi nomi che figuravano sui biglietti da visita rinvenuti sul suo cadavere a Londra due anni prima, nel 1982. Pochi mesi dopo la redazione di questo organigramma, scritto a mano nel 1984, la corte di Appello di New York dichiarava che il Banco Ambrosiano aveva diritto alla restituzione di migliaia di dollari da parte di una società araba, la Artok Bank, mai toccata da alcuna indagine. Questi soldi furono pagati, ma dove finirono? Dalle carte della corte d’Appello di New York veniamo a sapere che arrivarono in una filiale del Banco Ambrosiano in Perù. Sono gli anni della misteriosa Operazione Lima, condotta da Gladio e coperta ancora oggi da segreto di Stato. A questa operazione prese parte il maresciallo Vincenzo Li Causi, morto in circostanze controverse in Somalia nel 1993. Nessuno fino a oggi si è preso la briga di spiegarci quale fosse il senso della presenza della nostra Gladio in America Latina. Il documento con l’organigramma, mai reso pubblico, venne consegnato alla Commissione di inchiesta sulla P2 dal comandante generale del IV reparto della Guardia di Finanza, quello, per intenderci, che si occupa dei rapporti con i servizi segreti. Parrebbe essere stato recapitato a mano anche alla Procura di Palermo. Nessuno ne ha mai parlato. Eppure, era importante perché dal Banco Ambrosiano partirono traffici di armi, forniture dirette in Medio Oriente e in Sud America. Perché nessuno ha mai indagato? Perché io, che in quegli anni indagavo sui traffici a Trento, non ho mai saputo niente di questo documento e del suo contenuto?»

A proposito di armi e traffici, ci sono novità sulla scomparsa della giornalista italiana Graziella De Palo e del collega Italo Toni in Libano nel settembre del 1980?

«Sì, ma la questione è molto delicata. Una fonte, un uomo che in quegli anni lavorava alle dirette dipendenze del colonnello Stefano Giovannone, allora capo centro del Sismi a Beirut, mi ha riferito che i due giornalisti vennero portati a conoscenza, anche visiva, della presenza nella capitale libanese di certi personaggi italiani. Una presenza che, se resa nota, avrebbe alterato i rapporti in corso con altri Paesi e che non doveva in nessun modo emergere: parliamo di rapporti tra Italia, Libano, Olp e Settembre Nero. Ma anche di Lodo Moro e di affari e traffici di carattere internazionale che ancora oggi sono sottoposti a segreto di Stato. Noi ci muovevamo sotto l’ombrello degli Stati Uniti e della Nato, ma le contraddizioni tra gli interessi erano molteplici. Sappiamo ormai che, oltre agli armamenti tradizionali, all’epoca in Medio Oriente erano in circolazione diverse sostanze radioattive di provenienza occidentale, alcune da smaltire in loco. Ci siamo occupati del problema di smaltimento di queste sostanze a partire dalla fine degli anni 80, grazie alle grandi campagne di sensibilizzazione delle organizzazioni ambientaliste. Ma prima dove finivano gli scarti nucleari? Buio totale. Un problema che, dopo la scomparsa di Graziella e Italo, riemergerà sinistramente con la morte di Ilaria Alpi in Somalia. E che dire del fatto che da noi non è mai stata svolta un’inchiesta seria sulla Somalia, Paese chiave dei nostri rapporti con il Medio Oriente?»

Perché la massoneria nei tuoi libri ha sempre un ruolo rilevante?

«Perché ho continuato a imbattermi nelle sue organizzazioni: dalle carte della mia inchiesta giudiziaria a Trento fino a quel documento della fine del 1983 di cui ho parlato, continuano a emergere riferimenti precisi a una massoneria diversa da quella conosciuta fino a oggi. Un’organizzazione dedita a operazioni internazionali, traffici di armi e finanza sporca, i cui sodali escono dai processi di tutto il mondo sempre con lo stesso esito: l’assoluzione. Non sto parlando di Licio Gelli e della sua P2, ma di qualcosa di superiore. Gelli aveva accennato a una struttura a piramide rovesciata e aveva ragione. In questi ultimi quaranta anni un apparato superiore perfino agli Stati ha condizionato tutti i rapporti politici, governando finanza e petrolio, connessioni tra mafia e politica, mafia e terrorismo, reggendo le fila di strutture occulte come Gladio. I politici di turno ci raccontano di poter togliere il segreto di Stato, fare luce. In realtà, i politici sono solo i detentori temporanei di un potere che li sovrasta: i segreti appartengono a un livello superiore. Semplicemente, i nostri politici non hanno le chiavi per svelarli. Io quelle carte che inchiodano questa struttura superiore le ho avute tra le mani e le ho studiate a lungo: sono complesse, mi ci sono voluti anni di ricerche per ricostruire. So che questa organizzazione massonica ha propaggini importanti nella nostra Sicilia. Ma ancora oggi sento di poter fare solo ipotesi. Di una cosa, però, sono certo: la verità non può essere seppellita. Sulla verità non si può stendere l’asfalto».

C’è una continuità tra i traffici e le connessioni di allora e quelli di oggi? Ti è capitato di imbatterti in alcune costanti che dalle tue carte di allora arrivano fino ai nostri giorni?

«Sì, forse quando considero il modo in cui ci hanno insegnato a leggere gli eventi più tragici. Fino alla caduta del muro di Berlino alla fine degli anni 80 il terrorismo portava dritto all’Olp, alle organizzazioni palestinesi, agli accordi segreti che gli Stati occidentali intrattenevano con loro. Poi c’è uno stacco. Dopo il quale arriviamo ad Hamas, allo jihadismo islamico e all’Iran. È come se questi avversari venissero intenzionalmente tenuti in vita finché servono, finché rispondono a una finalità. Si prolungano guerre, consegne di armi, torture e tragedie che vengono liquidate solo quando gli equilibri cambiano. È l’esercizio del governo della guerra, è la Bestia. La guerra deve esserci sempre, sovrastando tutte le altre questioni per finalità che ci sfuggono. Forse solo per tenere in piedi un potere che altrimenti, se non ci fosse una guerra, anzi la guerra, verrebbe messo in discussione».

Carlo Palermo : “La Bestia” e “Quarto livello”, dai misteri d’Italia ai poteri massonici che manovrano le democrazie, scrive Antonio Gentile il 30 Dicembre 2018 su ilpopolo.news. I libri dell'ex magistrato Carlo Palermo “La Bestia” e quel fantomatico intreccio di poteri occulti attorno ai misteri italiani e "Il quarto livello". Integralismo islamico, massoneria e mafia. Dalla rete nera del crimine agli attentati al papa nel nome di Fatima. Un viaggio nel periodo del caso Aldo Moro al terrorismo.

CARLO PALERMO (Avellino, 1947), avvocato, è stato giudice istruttore presso il Tribunale di Trento dal 1980 al 1985, anno in cui, da febbraio a ottobre, è stato sostituto procuratore presso la Procura di Trapani. Nel 1990 ha lasciato la magistratura. È stato deputato e consigliere regionale e provinciale a Trento, dove abita. Ha pubblicato, tra gli altri, L’Attentato (1993), Il quarto livello. Integralismo islamico, massoneria e mafia (1996), Il quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? (2002). Oggi per la rubrica libri vi voglio presentare due libri di spessore culturale che ci porteranno a rivivere gli anni del terrorismo e delle stragi mafiose in Italia ed nel mondo, passando ai casi di mafia, all’attentato al Papa,  alla massoneria e arrivare all’integralismo islamico. La Bestia, l’ultimo libro di Carlo Palermo – Un direttorio internazionale radicato negli apparati politici e militari degli Stati, nella Chiesa, nei vertici delle oligarchie finanziarie e le sue trame. Chiudo questo libro sentendomi come qualcuno che abbia preso un gran pugno nello stomaco: quell’impressione di non riuscire più a respirare, per qualche istante addirittura il timore di non riuscirci mai più. Poi l’ossigeno che arriva di nuovo ai polmoni, il dolore e una specie di stordimento. Ho letto con fatica ciò che scrive Carlo Palermo, per diversi motivi. Ho bisogno di metabolizzare, di rendermi conto per davvero, di lasciare che domande prendano forma da tanti collegamenti sconcertanti. A dispetto di una copertina che sembra ammiccare ai romanzi di Dan Brown, questo volume appena pubblicato da Sperling & Kupfer (ottobre 2018) tutto è tranne che un’opera di fantasia. E’ invece il resoconto delle indagini di una vita, quella di un magistrato, oggi avvocato, che – da uomo di legge – è abituato a seguire i fatti e le carte, disciplinando intuito e ricostruzioni a quei rigorosi termini. Segue gli stessi criteri anche qui: cita persone, relazioni, passaggi, istituzioni e vicende reali e documentati; pubblica in fac-simile documenti, rimanda ad altri consultabili pubblicamente; lascia aperte questioni laddove il segreto di Stato o l’omertà di alcuni bloccano il passo a ulteriori chiarimenti. Non un romanzo, dunque. Lo stile asciutto e scabro concede pochissimo ai commenti, così come ai riferimenti autobiografici che sono comunque sufficienti a lasciare intravedere quale sia stato il prezzo di certe scelte coraggiose. 2 aprile 1985: l’auto che porta Carlo Palermo al suo ufficio, nella Procura di Trapani, salta per aria. Lui e la scorta si salvano, muoiono invece una giovane donna e i suoi due bambini. Che cosa, nelle sue inchieste, ha scatenato la vendetta? Il giudice continua a indagare, anche dopo aver lasciato la magistratura. Le sue ricerche prendono corpo quando, nel 2016, scopre che pochi mesi prima di morire Giovanni Falcone aveva curato un’operazione segreta: l’estradizione negli Stati Uniti di un terrorista arabo, il primo fabbricatore di autobombe realizzate con l’esplosivo militare usato per gli attentati di Pizzolungo, dell’Addaura, di via D’Amelio. Una nuova luce sulle stragi «mafiose»? Di più. Vecchie carte e atti processuali rimasti per anni sepolti negli archivi conducono a un’inedita lettura di alcuni tra i più grandi misteri italiani, dall’omicidio di Aldo Moro all’attentato a papa Wojtyla, alle stragi del 1992-1993, e anche degli attacchi terroristici alle Torri gemelle e al Bataclan, a Parigi. Collegamenti criminosi documentati permettono di individuare incredibili attività concepite da un direttorio internazionale – radicato negli apparati politici e militari degli Stati, nella Chiesa, nei vertici delle oligarchie finanziarie – che ha manovrato la storia europea, gli equilibri nel Mediterraneo, la crescita dell’estremismo islamico, la democrazia incompiuta del nostro Paese fino al suo inesorabile declino. Le chiavi interpretative di questo complesso quadro sono massoniche. Sono nascoste nei palazzi del potere d’Italia, Francia, Svizzera, di Londra e New York. L’autore le insegue in una ricerca infaticabile tra misteri, occulte ispirazioni e macchinazioni diaboliche che riconduce, alla fine, a Trapani, proprio là dove, trent’anni prima, l’indagine ha avuto inizio.

Quarto Livello. Autore :  Carlo Palermo. Editore: Editori Riuniti. Il quarto livello. Integralismo islamico, massoneria e mafia. Dalla rete nera del crimine agli attentati al papa nel nome di Fatima: Questo libro tenta di cogliere alcuni fatti e alcune convergenze legate ai più vasti intrecci tra interessi occidentali e integralismo islamico che hanno riguardato “anche” la storia italiana, che si sono inseriti “anche” nei nostri misteri. Un gioco occulto e distorto nel quale massoneria, poteri politici e bracci operativi criminali hanno avuto un ruolo da protagonisti tra lotte interne e guerre, traffici illeciti, commerci di armi, lavaggi di danaro sporco in paradisi fiscali protetti da oculati segreti bancari. Dietro tutto questo c’è solo un’apparente giustificazione: la ragione di Stato. Un dubbio di fondo però assale l’autore: ma di quale Stato? Antonio Gentile

·         "Avete paura? Non ci conoscete”.

L'INTERVISTA A STEFANO BISI. Massoneria, parla il Gran Maestro: "Avete paura? Non ci conoscete”, scrive Maria Teresa Camarda su Live Sicilia Domenica 13 Gennaio 2019. Il duro attacco di Stefano Bisi, a capo del Grande Oriente d'Italia, contro la legge siciliana. E contro chi giudica senza conoscere. "Mi scusi, posso toccarla? Sa, non ho mai toccato un massone". È lo spaccato di una conversazione che si è svolta davvero qualche tempo fa nelle stanze di Montecitorio. La Commissione Antimafia era alle prese con un disegno di legge sulla massoneria e la "strana" richiesta è stata rivolta poco prima della seduta al Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi, dal deputato siciliano della scorsa legislatura Andrea Vecchio. "Ho risposto 'certo', lui mi ha toccato il bavero della giacca, poi si è allontanato", racconta Bisi. Senza troppe inflessioni. Senza accenni di giudizio. "Che dire – aggiunge infine il Gran Maestro – questo mi sembra il modo migliore per spiegare che molto di quello che si pensa e si dice sulla massoneria ha a che fare con la non conoscenza. Temono la massoneria perché non la conoscono".

Chi la teme?

«Chi governa».

E non pensa che forse questo derivi dalla vostra natura di "associazione segreta"?

«Non abbiamo vincoli di segretezza. Anche in posti difficili, non so, come a Castelvetrano o a Campobello di Mazara, ci sono delle targhe nei posti in cui ci riuniamo. Facciamo soltanto rispettare il nostro diritto alla riservatezza, come molte altre associazioni. È un po' come per le squadre di calcio, ci sono due momenti: quello dello spogliatoio, a cui possono accedere solo giocatori e allenatore, e quello del campo, della partita, in cui il pubblico può assistere, applaudire o fischiare. Il Tempio è il nostro spogliatoio, ma anche noi abbiamo i nostri appuntamenti pubblici».

Come il convegno organizzato questa settimana a Palazzo dei Normanni dopo l'approvazione della legge della Commissione Antimafia dell'Ars sulla massoneria.

«Una legge mostruosa, occorre ribadirlo, perché punta a individuare gli amministratori pubblici soltanto in base alla loro appartenenza o meno alla massoneria. L'obiettivo è quello di additare all'opinione pubblica gli amministratori massoni. E questo ci pare ingiusto, iniquo. C'è una legge simile in Toscana, del 1983, che pur con tutte le violazioni della privacy che prevede è comunque più giusta di quella siciliana in quanto prescrive di dover indicare tutte le associazioni di cui si fa parte, non solo la massoneria».

Quali altre associazioni dovrebbero essere "rivelate", secondo lei.

«Tutte. Che sia la Croce rossa Italiana, le società sportive, l’Azione cattolica, l’Arci. Quello che mi colpisce è che durante il dibattito all’Ars alcuni deputati hanno anche fatto questa proposta e non è passata, così come non è stato accolto nemmeno il suggerimento dell’ufficio studi del Parlamento regionale che affermava l'inopportunità di indicare solo l'appartenenza alla massoneria. Lo Curto e Catalfamo lo hanno fatto presente, ma non è servito».

Eppure il governo nazionale non ha impugnato la norma, come mai?

«Io me l’aspettavo, infatti. D'altronde, forse sbagliavo, visto che i componenti di questo esecutivo hanno scritto delle regole per cui i massoni non possono fare i ministri. Un'idea un po’ strana, in verità, perché per esempio non avrebbero potuto essere ministri del governo Lega-M5s personaggi del calibro di Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica, e non avrebbe potuto fare il ministro della Cultura il siciliano Salvatore Quasimodo, Premio Nobel per la letteratura».

I capigruppo di Udc e Fdi all'Ars, Lo Curto e Catalfamo, non hanno compilato le certificazioni e ora attendono le sanzioni per poter fare ricorso e far arrivare il caso alla Corte Costituzionale.

«I due parlamentari attendono di essere puniti, sì. Direi che si tratta di un caso più unico che raro. Seguiamo con molta attenzione quello che succede in Sicilia».

Secondo lei è possibile che tra i 70 parlamentari regionali ci sia stato chi, pur essendo massone, ha negato di esserlo nella certificazione per mantenere la segretezza dell'appartenenza.

«Non credo. Certo, è stato brutto vedere che c'è stato un consigliere comunale di Mazara del Vallo che ha dichiarato di essere un massone e pochi giorni dopo è stato sbattuto in prima pagina. Che motivo c'era?»

Al di là della "non conoscenza" evidentemente deve esserci qualcosa di più. Perché la massoneria fa così paura? Glielo chiedo di nuovo. Perché vi considerano alla stregua della mafia?

«Perché non la conoscono. E noi respingiamo quanti ci trattano come criminali».

Vi associano alla P2?

«Quella è stata una pagina nera del Grande Oriente d'Italia, ma è una storia che non si può ripetere. Negli anni settanta il Grande Oriente è stato piegato agli interessi di una sola persona, Licio Gelli, a cui furono dati più poteri di quelli previsti. Ma è stata solo una deviazione».

Deviazione?

«È come nel caso dei preti pedofili o di esponenti delle forze dell’ordine corrotti: la loro presenza non scatena la caccia ai cattolici o a tutti gli uomini in divisa».

La vostra organizzazione è così complessa che appare quasi come un'organizzazione parastatale.

«Capisco la difficoltà a orientarsi, per questo avevo chiesto con lettera formale all'Ordine nazionale dei giornalisti di organizzare un corso di formazione con persone capaci di divulgare per cercare di evitare il più possibile errori grossolani. Apprendista, maestro, loggia, comunione, bussanti: anche il nostro linguaggio è complesso. Ma la proposta ci è stata bocciata: “argomento troppo specifico” ci hanno detto».

"Bussanti"?

«Chi vuole entrare nella massoneria. Un procedimento che oggi passa anche dal web, dal nostro sito, ma che può durare tantissimo: per me è durato dal 1978 al 1982, mentre la vicenda P2 era ancora calda».

Poi c'è la cerimonia di iniziazione. Forse anche questa ritualità fa pensare alla mafia...

«Nella società italiana le società iniziatiche esistono e questo non vuol dire essere mafiosi».

Migranti e donne possono iscriversi alla massoneria?

«Ci sono dei motivi per cui le donne non posso essere massoni e per cui l'argomento non è in agenda. Un motivo è storico: noi ci consideriamo gli eredi dei costruttori delle cattedrali medievali e lì non c'erano donne. Inoltre, il Grande Oriente d'Italia è in rapporto di reciproco riconoscimento con oltre 200 comunioni massoniche del mondo, dove la regolarità è la non presenza di donne».

Quindi o tutti o nessuno?

«Esatto. Ma ci sono organizzazioni massoniche miste o femminili. Diverse dal Grande Oriente».

E sui migranti che mi dice?

«Abbiamo assegnato il Premio Galileo Galilei a Pietro Bartolo per la sua attività a favore di chi arriva nel nostro Paese. Però siamo convinti che da soli noi italiani non risolveremo nulla, occorrerà che ci sia una mobilitazione europea per riuscire a trovare accoglienza civile».

Qual è il vostro rapporto con la politica?

«La massoneria non fa politica. I massoni sono liberi di fare politica come e dove vogliono».

Anche nel Movimento 5 stelle? Qualche tempo fa si è battuto in prima persona contro la clausola sulla massoneria nel contratto di governo...

«Un nostro fratello, in sonno quando si è candidato (ovvero che non partecipa ai lavori della loggia, ndr), è stato eletto alla Camera per il Movimento 5 stelle e almeno altri due o tre sono stati candidati. Ognuno nella massoneria è libero di votare per il partito che ritiene più vicino alle sue idee. Noi giuriamo sulla Costituzione italiana. Non mi risulta che lo facciano nei partiti o nel Movimento 5 stelle».

·         Carlo Freccero Direttore Di Rai2: Bestemmie, Porno Rai E Massoneria.

Carlo Freccero Direttore Di Rai2: Bestemmie, Porno Rai E Massoneria, scrive UCCR l'11 Gennaio 2019. Il presidente Rai, Marcello Foa, ha nominato Carlo Freccero a RaiDue. Un personaggio controverso, già sospeso dalla Rai a causa di minacce e comportamento violento dopo la censura della sua serie Tv omo-pornografica in onda in fascia protetta. Il nome del nuovo presidente della Rai, il “giornalista sovranista” Marcello Foa, fu sostenuto apertamente dal quotidiano La Verità e anche da molti cattolici, convinti di vedere in lui un condottiero nemico del pensiero unico. Eletto nel settembre scorso, dopo la nomina da parte del governo Lega-Movimento 5 Stelle, tanti si stanno già pentendo. Il nuovo anno è stato infatti inaugurato da Foa con il film Wine to Love, uscito in pochissime sale cinematografiche il 18-19 dicembre. Uno spot Lgbt, con lungo e insistito bacio tra uomini che il neo-presidente ha scelto per la programmazione del 4 gennaio, in prima serata e su RaiUno. Ed è pronto anche un secondo film, Il Giorno più bello, la storia di un matrimonio gay. «Marcello Foa, questa è la Rai del cambiamento 2019? Quella in cui certi programmi poco rispettosi della sensibilità delle famiglie italiane vengono spostati da Raitre a Raiuno in prima serata?», ha domandato Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia.

Chi è Carlo Freccero, neo-direttore di RaiDue. Ancor meno condivisibile è la decisione di Foa su Carlo Freccero, 71 anni, neo-promosso a direttore di RaiDue dopo che Mario Monti snobbò la sua auto-candidatura a presidente generale della Rai. L’ambizioso personaggio, di fede grillina ed affamato di potere, avrebbe voluto approdare a RaiUno: «me l’hanno impedito i poteri forti e parte del Vaticano, in particolare il Cardinal Bertone», si è sfogato. E con molta umiltà ha aggiunto: «Anche stavolta mi aspettavo di arrivare sulla poltrona dell’ammiraglia, è una direzione che manca nel mio curriculum. L’hanno diretta tutti, tranne uno come me. E’ una cosa oscena».

Porno Rai, bestemmie e “i cardinali pedofili”. L’obiettivo del neo direttore Freccero è di riportare Daniele Luttazzi in televisione (noto per le offese volgari alla figura di Cristo e alla religione cattolica), una rubrica sull’Islam e, secondo alcuni, una rassegna stampa soltanto “sovranista”. E poi, ovviamente, sdoganare film omosex e la cosiddetta Porno Rai: un suo pupillo da sempre, lo fece già con la serie tv “Fisica o chimica” in onda su Rai4, da lui diretta nel 2012. In orario mattutino ed in replica nel primo pomeriggio, in piena fascia protetta, mandò in onda scene da bollino rosso con orge, scambi di coppia, rapporti sessuali alunni-professori, droga tra adolescenti. Ovviamente condito da rapporti omosessuali. «E’ tutto pedagogico, cretino, non si può fare solo don Matteo!!», si giustificò al telefono con il giornalista di Libero, Francesco Borgonovo. Quella tra Borgonovo e Freccero fu una telefonata passata alla storia. 8 minuti di insulti, volgarità, minacce (anche personali) e bestemmie, a causa della critica avanzata dal giornalista (che oggi lavora a La Verità, sponsor di Foa e dello stesso Freccero). Dopo la denuncia, i dirigenti Rai spostarono la Porno Rai di Freccero in seconda serata, e lui non la prese affatto bene: «Fascisti, siete un giornale di m**a, mi censurate. Ma io chiedo a tutti quanti di assalirvi e vi mando i forconi sotto la redazione. Prendete ordini dai cardinali pedofili! Racconterò che i cardinali pedofili mi fanno chiudere attraverso un giornalista!! Sarà sangue e sangue scorrerà», urlò al telefono. La Rai sospese Freccero per 10 giorni, oggi Marcello Foa gli ha regalato Rai2. Ricordiamo che Ferruccio Pinotti, nel suo Fratelli d’Italia (Rizzoli 2007), ha scritto che, nel 2002, Freccero ha fondato gli Illuminati, un ordine legato agli Illuminati di Baviera, una società segreta massonica che aspirerebbe ad esercitare pressioni mediante l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale. Il neo-direttore di RaiDue si difese dicendo di aver poi abbandonato il gruppo massonico ma il giornalista Luciano Corrado, autore di importanti inchieste sulla massoneria, ha precisato che «dopo il giuramento massonico, per gli espulsi o i dimissionari-dimissionati, esiste solo quello che i testi “sacri” della massoneria definiscono il “sonno”. Si perde, insomma, lo status, come avviene per i sacerdoti cattolici, ma la “consacrazione” resta». Ne avevamo parlato più approfonditamente nel giugno 2012.

San Coerenza prega per noi...e salva dall’inferno Pertini e Freccero. Le ultime (benedette?) rivelazioni su massoneria e potere, scrive Luciano Corrado su truciolisavonesi.it. Nelle librerie savonesi è “arrivato” giovedì e venerdì. Il suo titolo: “Fratelli d’Italia”. Ovvero storie (note e inedite) di massoneria e dintorni. Il blog “Uomini Liberi” di Antonio Signorile - editore aveva dato spazio alle prime indiscrezioni del sito “Dagospia”. Nel testo di presentazione si parlava di <nomi e cognomi della lobby più potente del pianeta>. Con: <Il ballo del massone di Cuccia, Pertini, Ciampi, Sindona, Freccero, Totò...>. I personaggi savonesi che pare superfluo definire illustri e supernoti, sono Sandro Pertini (le sue ceneri sono onorate nel camposanto di Stella) e Carlo Freccero, tornato finalmente in auge anche in tv. “Trucioli Savonesi”, per completezza di informazione, pubblica il testo integrale …...LEGGI... della citazione davanti al Tribunale civile di Genova che Freccero aveva sottoscritto il 16 marzo 1999, citando l’allora direttore responsabile del Secolo XIX, Gaetano Rizzuto e la Sep (proprietaria del quotidiano), con richiesta di condanna a danni patrimoniali e non patrimoniali. Rizzuto ora è direttore responsabile del quotidiano “Libertà” di Piacenza. Il Secolo XIX resta un pilastro dell’informazione ligure, nonostante il robusto dimagrimento in termine di copie e di forza lavoro.

FRECCERO TIRATO IN BALLO DA SECOLO XIX E LETIMBRO. Freccero contro il Decimonono (poi esploderà la pace). Una documentazione inoppugnabile. Col suo valore. Senza pretesa di fare i giudici o i moralisti, ma cronisti di ieri e di oggi. Colmando, se volete, quel vuoto informativo che da qualche anno caratterizza l’informazione locale, come ha già denunciato, sinteticamente, un altro collega cronista-testimone, Bruno Lugaro, che ha ottenuto di lasciare la redazione di Savona per Genova. La storia. Carlo Freccero si era ritenuto diffamato da un articolo (titolino a una colonna) pubblicato dal Secolo XIX, a firma di R.Sang, cioè Roberto Sangalli (l’articolista non venne comunque chiamato in giudizio). Articolo definito nella richiesta danni  <diffamatorio nei confronti di Freccero, ledendone l’onore, il prestigio, nonché l’identità civile e professionale>. L’articolo venne pubblicato il 5 maggio 1997 (dieci anni fa), col titolo “A Savona nessuno tocca i massoni”...LEGGI...  Si faceva esplicito riferimento a quanto riportava il giorno prima “Il Letimbro”, organo di informazione della Diocesi di Savona-Noli, titolando “Il tallone d’Achille di Freccero” e a firma di A. M. (don Antonio Magnano che resta tuttora l’anima del periodico).

LE PRIME INCHIESTE SUI MASSONI A SAVONA. Un passo indietro sembra utile. Per la cronaca non risponde a verità che a Savona nessuno aveva fino a quel momento toccato i massoni. Ci fu una prima indagine-inchiesta dell’allora Pm, Filippo Maffeo, con tanto di “blitz” in alcune logge, con acquisizione di documenti (21 novembre 1981). I servizi (11) furono ampiamente riportati dal Secolo XIX, a firma di Daniele La Corte e Luciano Corrado. Non solo, nel maggio-giugno 1985, Il Secolo XIX, fu il primo quotidiano italiano (17 servizi a firma di Luciano Corrado), a riportare tutti i nomi delle logge massoniche della provincia di Savona ed i loro iscritti. Il giornale fece un record di vendite, secondo soltanto al periodo del processo a Gigliola Guerinoni per l’omicidio di Cesare Brin e all’elenco dei primi coca-party scoperti a Savona e dintorni (giudice istruttore ancora Maffeo). Si arrivò ad una media giornaliera di 16.472 copie vendute (elenco massoni), con il picco delle 23.287 (processo Guerinoni-Geri e soci). Mentre il 17 e 18 febbraio del 1990, sempre Il Secolo XIX, questa volta in cronaca nazionale, con un inviato di punta, Claudio Sabelli Fioretti (ora spesso alla ribalta nel piccolo schermo, su Rai e reti Mediaset), pubblicò una lista, molto istruttiva di massoni dell’imperiese, con la collaborazione dei colleghi Claudio Donzella e Loredana Demer. E ancora, durante il processo “Teardo” i giudici Del Gaudio e Granero non trascurarono neppure questo filone, tanto che toccò al colonnello (allora) Nicolò Bozzo dedicare un apposito capitolo, con tanto di nomi e cognomi, ruoli, connessioni, collegamenti. Uno spaccato che ripubblicheremo, nelle prossime puntate della Teardo story, con tutti i protagonisti, ma anche con molti elementi mai divulgati.

COSA RIVELA IL LIBRO “FRATELLI D’ITALIA”. Ora, oltre al testo dell’atto presentato al tribunale di Genova (9 pagine) pubblichiamo le tre pagine (copertina, 469 e 101)…GUARDA… in cui si citano espressamente Freccero e Pertini. Dal libro si apprende che l’11 luglio 2002 (ricordiamo che la citazione in tribunale è del 1999, tre anni prima, dunque) <a Roma nascono gli Illuminati, un consesso che si richiama al gruppo degli Illuminati di Baviera fondato nel Settecento; ma che si rifà anche ad altre esperienze più recenti, soprattutto statunitensi>. E’ lo stesso Gran Maestro, Giuliano Di Bernardo, a rivelare a La Stampa del 23 marzo 1990 che l’ex presidente americano George Bush senior sarebbe un grado 33 della massoneria di Rito Scozzese e lo stesso Bill Clinton, pure ex presidente, farebbe parte degli Illuminati. E Di Bernardo parlando di “poteri forti”, annovera l’Opus Dei nella chiesa cattolica, la massoneria e certe organizzazioni ebraiche: l’Anti-Defamation League, considerato un vero e proprio braccio operativo del B’nai B’rit, associazione fraterna ebraica fondata negli Stati Uniti nel 1843. Tornado al “caso Freccero”, il volume scritto da Ferruccio Pinotti dice: <Sul fronte laico, tra i fondatori degli Illuminati troviamo un big della comunicazione, Carlo Freccero –classe 1947, già potente direttore di Rai 2 e brillante programmista Fininvest, nei primi anni ottanta direttore dei palinsesti di Canale 5 e Italia 1 – che però ha lasciato in seguito>. Il testo rimanda ad una posticilla: <Freccero ha dato a Panorama il 22 giugno 2006 questa versione sul frettoloso abbandono: <Ho firmato l’atto di fondazione perché me lo aveva chiesto un amico. Sono una persona curiosa e mi interessava conoscere questi ambienti, ma mi sono subito dimesso>. Perché? Freccero: <Erano riunioni noiosissime, per nulla divertenti>. Piccoli inciso. Dopo il giuramento massonico, per gli espulsi o i dimissionari-dimissionati, esiste solo quello che i testi “sacri” della massoneria definiscono il “sonno”. Si perde, insomma, lo status, come avviene per i sacerdoti cattolici, ma la “consacrazione” resta. Pochissimi, forse, sapevano che Freccero fosse stato un affiliato in loggia. Non avevano letto “Panorama” (casata berlusconiana). Esisteva soltanto l’archivio “Freccero- Secolo XIX- Letimbro”. Conteneva la transazione raggiunta tra le parti e la pubblicazione da parte del Decimonono di un pezzo di chiarimento-scuse.

COSA HA SCRITTO “UOMINI LIBERI”. Su “Uomini Liberi”, prima che fosse reso noto l’uscita del libro, abbiamo scritto nell’ambito dell’iniziativa del calendario anticemento e antimostri, a Savona, pubblicizzato dall’Espresso (titolo Sandokan Freccero).  e prima della trasmissione su Rete 4 (rubrica “Tempi Moderni”) questa frase: <Forza Freccero! Ricordi quando eri direttore di Rai Due? Dapprima il settimanale Il Letimbro, poi Il Secolo XIX, a firma di R.Sang., titolavano....Qualcuno voleva farti passare per quello che non eri o non sei. Alla fine hanno dovuto chiederti scusa...Tempi passati da consegnare alla storia e agli archivi. Ricordarli, aiuta>. Una clamorosa cantonata? Pare certo, pare confermato che all’epoca (1997-1999) Freccero non fosse un “fratello”. Solo don Angelo Magnano, definito nella citazione in tribunale <portavoce della diocesi ed assistente dell’ufficio comunicazioni sociali della Cei (Conferenza episcopale italiana) di Roma> potrebbe dare utili spiegazioni sul “dietro le quinte”.  Don Magnano, del resto, ha dimostrato nella direzione del Letimbro di essere molto più “aperto” ad alcuni temi cruciali di Savona (devastazione edilizia e modello di crescita urbanistica) di altri organi di informazione indipendente. Il Letimbro, su alcuni temi di “fratellanza trasversali”, ha dimostrato di essere fuori dal “coro”.

Un altro passaggio significativo sottoscritto da Freccero sempre nella citazione giudiziaria:<.....non fa parte, né ha mai fatto parte, di alcuna associazione massonica....è una distorsione dell’immagine del signor Freccero nello svolgimento della propria attività professionale, improntata, sui valori dell’indipendenza e dell’imparzialità, non certo dell’asservimento ad occulti centri di potere...da qui il carattere diffamatorio dell’articolo...>.

UNA VOCE DISSENZIENTE CONTRO FRECCERO E SATRAGNO. Diamo voce, anche su “Trucioli savonesi”, ad una reazione riportata da “Uomini Liberi” e firmata da Antonio Pastorino, a proposito, questa volta, della trasmissione televisiva (Savona & cemento) e della presenza, tra gli altri, di Freccero come sponsor. Ha scritto Pastorino: <Calendario e coerenza. Ottimo il servizio di Lombezzi, veloce e chiaro.  Ottima l’iniziativa del calendario. Mi ha invece lasciato perplesso... che ci facevano tra i protagonisti Carlo Freccero e la Satragno visto che i suddetti personaggi fanno parte del Partito Democratico, costola del partito dei più grandi cementificatori savonesi Carlo Ruggeri e Massimo Zunino? Coerenza avrebbe voluto che quei due personaggi rinunciassero ad apparire>. E’ un’opinione, condivisibile o meno. Carlo Freccero resta un punto di riferimento per la “Savona che fa notizia”. Ma soprattutto per la sua caratura professionale. Non è un caso che anche lui finì, per un certo periodo, nel limbo dei giornalisti scomodi, da “purificare”. A Savona ha fatto il maestro di scuola, è stato tra i più convinti sostenitori di “Film Studio” e del suo animatore (Mirco Bottero). A livello nazionale ha ricoperto ruoli come presidente di RaiSat, autore di riferimento del celebre Rockpolitik. Freccero autore televisivo che dice a Giorgio Bocca: <Sai cos’ha Biagi più di te? E’ capace di mettersi all’unisono con la gente comune>. E non sono pochi a sostenere che dopo la cacciata di Freccero, Rai due <sia sprofondata in una gestione dilettantistica, grazie allo zampino della Lega Nord, con perdita di ruolo, prestigio e spettatori>. Michele Del Gaudio, giudice istruttore titolare dell’inchiesta su Teardo (la seconda “Mani Pulite” italiana, la prima nacque a Torino, la terza, quella di Di Pietro, a Milano), ha scritto: <La massoneria attraversa in senso orizzontale le istituzioni, diversamente dai partiti che le attraversano verticalmente>. L’autore del libro “Fratelli d’Italia”, Ferruccio Pinotti, giornalista e scrittore (ha lavorato a New York per la CNN e collaborato con “International Herald Tribune”) ha sentenziato al termine del suo “viaggio di 750 pagine”: <... la massoneria, una cosa che ha il cuore a sinistra e la testa a destra. Di certo “non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone” come disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone>. Massoneria e malaffare, un errore generalizzare, ma non siamo solo noi a sostenerlo. E’ la storia di tante logge, anche savonesi, di “fratelli”, di “maestri venerabili”. Come resta un errore storico coinvolgere, infangare la memoria, la statura morale e politica, di Sandro Pertini.

LE VISITE DI PERTINI NELLA “SUA SAVONA”. Nella foto che riproduciamo, Pertini in una delle sue visite a Savona, da presidente della Repubblica, mentre stringe la mano all’allora presidente del tribunale, Giovanni Tartuffo (fine anni ’70). Alle spalle del giudice l’inviato speciale del Decominono (Luisa Forti) che seguiva quasi tutte le visite di Pertini in Liguria. Luisa Forti era stata autrice di interessanti servizi sulla massoneria e lei stessa rese noto di essere figlia di un maestro venerabile. Il libro “Fratelli d’Italia” riporta una testimonianza del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, secondo il quale Gelli fu sostenitore della candidatura di Pertini, con una circolare inviata ai massoni deputati e senatori di votarlo. Cita un Pertini circondato da massoni e indica come suo grande elettore Teardo, socialista della P2. Seguendo questa strada tortuosa si potrebbe aggiungere il nome di un alto funzionario, della Camera dei deputati, anche all’epoca della presidenza Pertini e suo collaboratore, arrestato nell’ambito del “ciclone Teardo”. Si tratta di Franco Gregorio, classe 1937, originario di Messina, residente a Roma, che rivelò di essere entrato nella P2 su richiesta di Teardo. A Gregorio, da Savona finirono sui suoi conti correnti 250 milioni, oltre al regalo di un’auto (Alfa Romeo), una casa ad Urbino e persino una pistola nel giorno del giuramento alla loggia di Gelli. E che il deputato savonese Paolo Caviglia, socialista, fosse ai suoi “ordini”. Perché allora non sproloquiare dicendo che Pertini sapeva? Chi ha avuto modo di frequentare Pertini, almeno nel savonese, sa che non ha mai “condannato” la massoneria, ma le sue deviazioni, gli infiltrati affaristi e stragisti. In quanto ai rapporti Pertini-Teardo nonostante lo accusassero (Pertini) di non <aver mai guardato da dove provenissero i soldi per le sue campagne elettorali>, ci sono molte testimonianze che confermano la “sentenza” politica e morale nei confronti di chi venne scoperto nel pantano delle tangenti, della corruttela, dell’arricchimento personale attraverso il partito. Pertini cacciò quelli che ormai considerava “nemici” e inaffidabili, i “nemici” cacciarono e denigrarono Pertini. E di questo sono ricche le cronache, le testimonianze. Luciano Corrado   

·         Quelli del Bilderberg.

Bilderberg, lobby di "Fatto". IlGiornale Giovedì 30/05/2019. Tra i tanti bersagli del «Fatto quotidiano» ci sono da sempre i «lobbisti», intesi ovviamente come loschi faccendieri che tramano nell'ombra. Il Fatto vede lobby un po' ovunque: affari, politica, giornali, televisioni. Basta che due persone si incontrino per caso ed è subito lobby. Un'ossessione. Nel mondo dei complottisti però la lobby per eccellenza è una sola: il Club Bilderberg, il salotto che governerebbe le sorti del mondo, l'accolita di burattinai che guiderebbe dall'ombra economia e politica. Indovinate un po' chi hanno invitato quest'anno al super esclusivo Bilderberg? Stefano Feltri. Vicedirettore del Fatto. Sembra una lobby di Fatto.

Quelli del Bilderberg. Dagospia il 28 maggio 2019. Una nuova poltrona per Matteo Renzi, che entra direttamente nel gruppo Bilderberg. La prossima riunione si terrà in Svizzera dal 30 maggio al 2 giugno, circa 130 i partecipanti di 23 Paesi provenienti dal mondo della politica, della finanza, dell'industria e dei media. Un gruppo da sempre al centro dell'attenzioni dei complottisti e che per quel che riguarda la compagine italiana conta anche Lilli Gruber e Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano e fedelissimo di Marco Travaglio. La conduttrice di Otto e Mezzo fa parte del Bilderberg ormai da anni: a lei, come detto, ora si aggiunge l'ex premier ed ex segretario del Pd, Renzi. Al centro della riunione di quest'anno undici temi che verranno affrontati in quattro giorni di riunione: "Un ordine strategico stabile", "Cosa adesso per l'Europa?", "Cambiamenti climatici e sostenibilità", "Cina", "Russia", "Il futuro del capitalismo", "Brexit", "L'etica dell'intelligenza artificiale", "I social media come arma", "L'importanza dello spazio", "Le minacce cyber".

Bilderberg, vietato parlarne. L'incontro segreto nell'hotel di lusso coi big del mondo, ma anche questa volta è impossibile sapere cosa si son detti. Ecco perché. Costanza Tosi, Mercoledì 12/06/2019, su Il Giornale. “La maggior parte delle persone che si appassiona a Bilderberg è gente che conosce poco come funziona il mondo". Ne è convinto il giornalista Stefano Feltri, uno dei tre italiani ad aver partecipato, insieme all’ex premier Matteo Renzi e alla giornalista Lilli Gruber, all'incontro segreto del riservatissimo gruppo Bilderberg nato nel 1954, al tempo della Guerra Fredda. Capi di stato, famosi banchieri, manager milionari, uomini dell’alta finanza. Tra di loro anche giornalisti che, però, per tre giorni all’anno, devono dimenticare di esserlo. Tutti riuniti sotto lo stesso tetto. Tutti costretti alla regola del silenzio. La parola d’ordine è "riservatezza". Sì, anche per loro, per i cronisti. Bocche cucite. Una regola valida anche per il vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. "La nostra partecipazione è a titolo personale" ammette lo stesso Feltri che minimizza: "È un semplice convegno, non è nulla di che". E allora perché non parlarne? Perché non raccontare tutto ciò che avviene tra le mura lussuose degli hotel che li ospitano? Perché non mettere nero su bianco, magari proprio sulle pagine del Fatto Quotidiano, ciò che gli "uomini che contano" si dicono? Forse perché il Bilderberg non appassiona molto Marco Travaglio. A dirlo era stato lui stesso sul blog di Beppe Grillo, fondatore di quel Movimento, oggi al Governo, da sempre contro la casta e le lobby. Travaglio, in un video pubblicato nel 2013, punta il dito contro Emma Bonino e insinua: "La signora (Bonino ndr.) fa parte di una certa cerchia di uomini piuttosto dentro l’establishment. Chi non è dentro l’establishment nel gruppo Bilderberg non ce lo fanno nemmeno entrare, nemmeno di straforo. Nemmeno per fare le pulizie". Dunque, Stefano Feltri, il suo vice-direttore è un uomo dell’establishment? Lui, che firma ogni giorno su quel giornale anticasta fa forse parte di una lobby segreta? "Io sono stato invitato da Lilli, non ne so nulla". Ci dice il giovane Feltri. Marco Travaglio non è il solo ad attaccare Bilderberg e i suoi partecipanti. Nel 2017 il senatore grillino e giornalista Gianluca Ferrara scrive proprio sul sito de Il Fatto “...nulla potranno riferire perché, proprio come accade con la Mafia e la Massoneria, è vietatissimo far uscire notizie; viene da domandarsi cosa ci vadano a fare dei giornalisti se poi non possono svolgere quello che dovrebbe essere il loro compito e cioè informare i cittadini. Perché i maggiori organi di “informazione” non reputano sia importante dare la notizia che gli uomini più potenti del mondo si incontreranno per alcuni giorni tutti insieme e a porte chiuse?". Ferrara ora ha la possibilità di chiederlo direttamente a Stefano Feltri. Magari d’avanti ad un buon caffè nei corridoi del Fatto. Sempre se dopo la sua esperienza a Bilderberg non lo consideri un massone mafioso. Ferrara, in articoli precedenti, definisce i partecipanti del Bilderberg “gli incappucciati del nuovo millennio.” Intanto Stefano Feltri minimizza e, a suo modo, cerca di smontare il mito. "È un evento come tanti altri, un convegno, un semplice scambio di idee". Semplice sì, ma caro. L’incontro tra i "potenti" del mondo occidentale quest’anno si è svolto in Svizzera, a Montreux. In hotel di lusso, da 580 euro a notte. Stanze impenetrabili, sicurezza ai massimi livelli. 128 gli eletti accusati di fare parte di un gruppo “para-massonico”. Al vertice internazionale più esclusivo del mondo (da quel poco che trapela), pare si sia parlato di intelligenza artificiale, cybersecurity, rapporti con la Cina, del futuro dell’Europa e della conquista dello spazio. Nel "think tank” dell'ideologia neoliberalista però, non si parla di Italia. È lo stesso Feltri a dirlo: "Non gliene frega niente a nessuno del nostro Paese, è il posto ideale solo per le vacanze estive". Eppure, proprio l’Italia negli anni è stata rappresentata da uomini potenti. I primi furono Gianni e Umberto Agnelli, assidui frequentatori che fecero parte anche del Comitato Direttivo del Club esclusivo. Ma i fratelli Agnelli non sono stati gli unici italiani a partecipare. Tra gli eletti molti politici come l’ex premier Enrico Letta, Ugo La Malfa, Emma Bonino, l’austero Mario Monti, Romano Prodi. Ma chi è che muove le fila, chi sceglie e invita gli ospiti illustri? Nessuno lo sa. Neanche chi, in quelle segrete stanze, ci ha dormito. La natura pseudo-massonica degli incontri in oltre mezzo secolo di esistenza di Bilderberg ha generato una convinta serie di teorie complottiste. Per molti, i potentissimi membri del consiglio avrebbero come unico obiettivo quello di “dirigere” il mondo globalizzato. L’evento annuale rimane coperto da un velo di mistero. Un velo che dura da 67 anni. E che magari un giorno cadrà, quando i giornalisti come Stefano Feltri si decideranno a raccontare. Noi ci speriamo.