Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
LA GIUSTIZIA
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
PARTE PRIMA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.
Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma: 12 anni ai due carabinieri.
Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.
Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.
Pietre sulla Petrelluzzi.
Ilaria Cucchi: una donna normale.
Il Concerto per Cucchi.
Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.
Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.
I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.
Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.
Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.
Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.
Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.
Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
Indimenticabile Avetrana
La sensitiva Rosemary Laboragine.
Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
Il Fioraio condannato.
Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.
Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi.
Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.
Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata.
SOLITA ABUSOPOLI.
Dentro ad un divorzio.
Padri separati (dai figli).
La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato.
Figli nullafacenti: niente mantenimento.
L’amore acido.
William Pezzullo. Due acidi, due misure?
Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.
Sempre più anziani malati costretti alla contenzione.
Matti da Slegare.
Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi.
"Pensa solo ai minori stranieri".
Quando l’assassino è in casa.
Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila.
La strage dei bambini innocenti.
Quando i figli e i nipoti picchiano genitori e nonni.
Quando i bimbi si menano a scuola.
Bullismo. Bulli da menare.
Quando son le donne le pedofili.
Pedofilia e tecnologia. L’app TikTok.
Codice Rosso. Violenza sulle donne. Due donne e due misure.
Stupri che non lo erano…
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
Uomini. Quando le vittime sono loro.
Il commercio delle adozioni.
Boy Scout, esplode lo scandalo abusi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
Dura Lex, Sed Lex?
Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo.
Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto.
Illuminismo e Garantismo. Da Cesare Beccaria a Giuliano Vassalli: Dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.
La magistratura in Italia: Ordine o Potere?
Le Toghe Show.
La riforma infetta della Giustizia.
Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.
Parentopoli giudiziarie e incompatibilità. Le compatibilità elettive: Io son io e tu non sei un cazzo.
Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli.
Violenza domestica: troppe leggi e male applicate.
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
Diffamazione: questo, sì; questo, no!
Credere nella giustizia, e la chiamano Legge.
Dal Dna il volto dell'assassino.
Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito.
La condanna degli innocenti. Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia.
Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati.
Caste e soldi. Le parcelle esose e la naturale conformità dei Pareri di Conformità dei colleghi dei Consigli dell'Ordine.
Innocente, ma rovinato dalle spese legali.
Intestare fittiziamente beni ai parenti è reato.
Le ingiustizie dei giudici. Credere nella Giustizia?
Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere".
A proposito di Prescrizione.
Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione.
Test psicologici su giudici e Pm.
Avvocati ed obbiettori di coscienza.
La vituperata Toga.
Il "populismo penale" dei gialloverdi.
Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga.
Mai dire pronto intervento e Denunce a perdere.
Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
L'astensione non esiste. E se li ricusi, ti denunciano.
Intercettazioni. L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure.
Le Fughe di Notizie.
Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa.
Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze.
In galera? Non ci si finisce più.
Le mie Prigioni.
Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti.
«L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”».
"Palazzi di ingiustizia".
Sovraffollamento nelle carceri.
41bis. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono.
La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane.
Quella pena doppia per i detenuti disabili.
Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante.
Carcere: Tabagismo e Psicologia.
I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati.
Vitto e sopravvitto.
Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua.
Di cella si muore.
Il 70% dei detenuti torna a delinquere Perché non c’è la riabilitazione?
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero.
Dalla parte delle vittime, vere.
Prima infangati e poi assolti. Gogna e calvario degli innocenti. Storie dei soliti noti.
Salvatore Proietto per 72 grammi di marijuana. Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella.
Antimo d’Agostino. Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa.
Giustizia. Franco Tatò: “evitate i processi”.
Le confessioni di Stefano Ricucci.
Mario Moretti. La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia.
Stefano Monti. Si dichiara innocente e si suicida.
Angelo Massaro e un’intercettazione distorta.
Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna.
Archiviato. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza.
Novara, Massimo Giordano ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine.
«Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino».
Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.
Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli.
Leonardo Rossi a Firenze. Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto.
E ora chi chiede scusa a Mimmo Lucano, Giulia Ligresti e Boschi Senior?
Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto) chiede i danni.
Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti.
"Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore".
Assolto Duilio Poggiolini.
Bassolino, assolto dopo 16 anni.
Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca.
Vincenzo Bommarito. Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo.
«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella».
Tortora, Brizzi, De Luca, Tavecchio: i volti della gogna.
"Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia.
«Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti.
Nicola Sodano. Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova.
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”.
Katharina Miroslawa, stanca di dirsi innocente.
Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento.
I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni.
Armando Riccardo. La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni.
Cosimo Commisso. «Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi».
La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa.
Strage di Erba e la revisione della sentenza.
Giorgio Magliocca. Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..».
Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito».
Nino Marano. Una vita fra le sbarre.
Aldo Scardella, suicida da innocente.
PARTE SECONDA
SOLITA MANETTOPOLI.
Il processo in Tv e la giuria popolare.
Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.
Viva la Forca!
La Sinistra: un Toga Party.
L’Esercizio Garantista.
I Giallo-Rossi manettari.
I Giallo-Verdi manettari.
I Rossi manettari.
Il Marco Travaglio manettaro.
Il Davigo Manettaro.
Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.
L’ingiustizia è uguale per tutti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.
“Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.
Intoccabili: Quelli che sono toccati…
Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.
Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».
Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.
Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».
La dolce vita dei Bancarottieri.
Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.
CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.
Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.
La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».
Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».
«Non cacciate il procuratore Rossi».
La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo.
Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno.
In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice.
Il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona.
Emilio Arnesano. Arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl.
Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera.
Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona.
Il magistrato Agostino Abate sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati».
Gaetano Maria Amato. Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere.
Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Michele Monteleone.
Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani Filippo Bortone.
Carlo Maria Capristo indagato per Falso complotto Eni.
L’assoluzione di Vendola. Il giudice Susanna De Felice: non si tocca.
Magistrati arrestati: Michele Nardi e Antonio Savasta.
Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate.
Giudice di Napoli: “Aveva legami con la camorra”.
Una volpe di Magistrato.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore.
Gente di Stato. I Suicidi Impossibili: Maria Teresa Trovato Mazza e Anna Esposito.
Il mostro di Modena.
Il mostro di Udine.
Antonino Sciacca. Uno sparo nella notte.
Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988.
Raed. Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo».
Dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro di Mirko Panattoni.
Alessandro Pieri. "Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore.
Il Caso Regeni.
Anatomia del complotto.
11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia).
Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.
Il Mistero di Piazza della Loggia.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati.
Strage alla stazione di Bologna.
L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi.
Il giallo di Eleonora Scroppo, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa.
Le sfide folli: Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
Il Mostro di Firenze non c'è più.
Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco.
Wojtyla-Agca, l’altra pista.
Il Caso Orlandi.
Il mistero di De Pedis.
Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali.
Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa.
Omicidio Mino Pecorelli, 40 anni dopo.
Antonio Logli e l’omicidio di Roberta Ragusa.
Omicidio Marco Vannini, speciale Le Iene.
Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione.
Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati.
«Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona.
Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere».
Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni.
Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere: il giallo di Padre Pierre.
Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra…e Massoneria.
La tragedia di Tommy.
Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti.
Il “killer delle carceri”.
Il giallo della morte di Marianna Greco.
Cinzia Cannella e Ivano Iannucci: amore «tossico.
Alfredo Rampi. L’eroe di Vermicino Angelo Licheri.
Le bestie di Satana.
Margarete Wilfling. La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti.
Massimo Galioto, Beau Solomon e la Giustizia sott’acqua.
Virginia Mihai. Uccisa da marito Valerio Sperotto e data in pasto ai maiali.
Vera Heinzl e Sandra Honicke, gialli fotocopia.
Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori.
Umberto Ranieri ucciso per un rimprovero.
Paolo Adinolfi, la fine di un giudice scomodo.
Mirko Panattoni. Sequestro senza colpevoli.
Ferdinando Carretta: "Li ho uccisi tutti io".
Ambrosoli, la vita di un uomo normale.
Mario Ferraro. Sole, sigari e baci.
Chi ha ucciso Lidia Macchi?
Davide Cervia, rose e intrighi.
Roma di sangue. I delitti: Nicoloso, Anniballi, Cannella, Adinolfi e Rosati.
Alessia Rosati, un mistero lungo 25 anni.
Pier Paolo Minguzzi. Ucciso 31 anni fa.
L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.
Thomas Quick. L'uomo che si inventò Serial Killer.
Delitto Khashoggi.
Daphne Caruana Galizia. I tre improbabili sicari e la scia dei dollari.
Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto.
Samuel Little: il Van Gogh dei serial killer.
John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia.
Laura e Paolo Fumu sono morti. Chi è stato?
Il rapimento di Claudio Chiacchierini.
Cristoforo Verderame. Ucciso davanti ai bimbi a scuola.
Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità?
Salvatore Pappalardi. Il padre di Ciccio e Tore.
Omicidio di Angelo Vassallo ed il ruolo dei carabinieri.
Il Giallo della morte di Re Cecconi.
Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana».
Bertrand Cantat, l'idolo assassin. Storia del delitto maledetto di Marie Trintignant.
Il mistero sulla morte di Desirée Piovanelli.
La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa Pomarelli nel pollaio».
Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose».
I delitti del Dams.
Delitto di Novi Ligure.
Il Caso Emanuele Scieri.
La morte di Denis Bergamini.
Simonetta Cesaroni. Il Delitto di Via Poma.
Busto Arsizio e la strana morte per peritonite.
Omicidio a Vercelli, il caso della donna nella valigia.
Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: Innocente?
Un alibi per Alberto Stasi?
Come è morto David Rossi.
Jennifer Levin, uccisa e umiliata dai media.
Curtis Flowers: Il «perseguitato d’America».
Il Caso Estermann.
La storia di Giuseppe Zangara.
LA GIUSTIZIA
PARTE PRIMA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.
Caso Cucchi, procedimento contro chi trasferì Casamassima. Adnkronos il 14 settembre 2019. Sulla vicenda Cucchi adesso irrompe l'Anac. A quanto apprende l'Adnkronos l'organismo di controllo anticorruzione, dopo aver ricevuto alcune segnalazioni di esponenti del Movimento cinque stelle e del Gruppo Misto, ha riscontrato irregolarità nella gestione del trasferimento dell'appuntato dei carabinieri Riccardo Casamassima, diventato "supertestimone" dell'inchiesta sulla morte del giovane Stefano Cucchi. In particolare l'Anac ha definito "sussistenti" i presupposti per l'avvio di un procedimento nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento di Casamassima che in passato denunciò di essere stato "trasferito e demansionato per aver testimoniato" al processo Cucchi. L'Anac ha così comunicato "l'avvio del procedimento sanzionatorio" ai sensi del "Regolamento sull'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro", il cosiddetto “whistleblowing”. Nelle motivazioni del provvedimento l'Anac riferisce quanto espresso dall'appuntato Casamassima il quale ha riferito di aver subito "numerose ritorsioni" sul luogo di lavoro. "Il whistleblower riferisce, inoltre, di aver subito presso la Scuola Allievi un ulteriore demansionamento, consistente nella sua assegnazione all’Ufficio Servizi presso il quale non avrebbe svolto alcuna mansione. La completa inattività alla quale Casamassima sarebbe stato costretto - aggiunge l'Anac - avrebbe quindi indotto quest’ultimo a richiedere la riassegnazione alla precedente e già demansionante attività di apertura e chiusura del cancello di ingresso della Scuola Allievi". L'Arma ha sempre respinto le accuse contenute nella versione di Casamassima e in tutte le sedi ha rimarcato la correttezza dei provvedimenti presi anche a tutela dell'Istituzione. Contattate dall'Adnkronos fonti dell'Arma spiegano "di attendere l'esito del procedimento" Per l'Arma infatti il trasferimento dell'appuntato dall'8° Reggimento Lazio alla Legione Allievi Carabinieri è arrivato a 3 anni dalle dichiarazioni rese nel caso Cucchi in quanto Casamassima più volte si era lamentato con i vertici su circostanze negative nei rapporti con altri carabinieri. Per l'Arma il trasferimento aveva avuto l'unico scopo di rasserenare Casamassima fornendogli un ambiente di lavoro più favorevole. Anche sul “'demansionamento” l'Arma ha sempre respinto l'accusa spiegando che ancorché non operativo, il compito assegnato a Casamassima coincide con quelli assegnati a suoi pari grado e non ha avuto ricadute economiche negative per l'appuntato. Nella sua difesa, l'Arma aveva rimarcato come il cambio di mansione era dovuto anche ad una richiesta dello stesso Casamassima di non svolgere turni che gli avrebbero reso difficoltosa la gestione della vita familiare. L'Arma dunque ha sempre respinto le accuse lanciate da Casamassima ma non è stata creduta dall'Anac sul fronte del "ripetuto rigetto - scrive l'autorità anticorruzione - di domande di trasferimento legittimamente avanzate per il ricongiungimento al coniuge lavoratore nonché in una generale azione di screditamento della sua persona". Casamassima è finito al centro del processo Cucchi e ha diviso l'opinione pubblica. C'è chi considera le sue rivelazioni un contributo fondamentale e coraggioso per la riapertura del caso, anche sul fronte del coinvolgimento di alcuni ufficiali dell'Arma nei presunti depistaggi. Altri invece nutrono dubbi sul personaggio in passato finito in vicende che sono tutt'ora al vaglio del tribunale e non hanno ad oggi alcun giudicato definitivo. Casamassima infatti torna in storie giudiziarie legate a questioni di droga. In una non avrebbe comunicato all'autorità giudiziaria presunti fatti di reato (su questa vicenda è in corso il primo grado) su un'altra, dove pende ancora una richiesta di rinvio a giudizio per lui e per la compagna, è accusato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. L'avvocato Serena Gasperini accoglie "con soddisfazione" l'avvio del procedimento sanzionatorio, da parte dell'Anac, nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento per Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri divenuto teste-chiave al processo per la morte di Stefano Cucchi. "Evidentemente le sue dichiarazioni e le sue motivazioni sono state riconosciute come fondate", dice l'avvocato Gasperini all'Adnkronos. Il graduato dell'Arma "è stato convocato dall'Anac, gli sono state poste domande e sono stati acquisiti documenti. Casamassima, che è stato oggetto di una campagna volta a screditarlo, è stato considerato credibile. Evidentemente -aggiunge- la coincidenza tra le dichiarazioni di Casamassima e i trasferimenti ha lasciato qualche dubbio e l'Anac ha voluto analizzare a fondo la vicenda".
· Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri.
Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Comincia con un colpo di scena il procedimento sui depistaggi del caso Cucchi. Si astiene per incompatibilità Federico Bonagalvagno, il giudice del cosiddetto processo ter. Bonagalvagno ha giustificato la sua astensione spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. Il processo sarà seguito dalla collega Giulia Cavallone: al via il cosiddetto Cucchi ter che punta a ricostruire quanto avvenne all’indomani della morte di Stefano Cucchi. Alla prima udienza hanno depositato la richiesta per la costituzione di parte civile, tra gli altri, il ministero della Giustizia e l’associazione Antigone. Secondo l’accusa, rappresentata dal pm Giovanni Musarò, un gruppo di carabinieri, alcuni dei quali ai vertici dell’Arma, falsificò i rapporti per coprire il pestaggio eseguito da due dei militari che arrestarono il ragazzo lanotte del 15 ottobre 2009. Si tratta di Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Massimiliano Colombo Labriola, Francesco Di Sano e Luciano Soligo, imputati al processo ter per falso ideologico. Altri due ufficiali contribuirono al depistaggio quando nel corso della seconda indagine sul caso Cucchi omisero di denunciare i falsi affiorati dai verbali dell’Arma. Per questo sono alla sbarra gli ufficiali Lorenzo Sabatino e Tiziano Testarmata. Infine il militare Luca De Cianni avrebbe manipolato un’annotazione di servizio attribuendo false dichiarazioni a un collega, Riccardo Casamassima, che aveva offerto il proprio contributo all’indagine bis, denunciando ciò che sapeva. Al processo, oltre ai familiari, sono parti civili la presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero della Difesa, l’Arma dei carabinieri, il ministero dell’Interno, gli agenti della polizia penitenziaria processati ingiustamente, il carabiniere Riccardo Casamassima e la onlus Cittadinanza attiva. In tutto, dunque, si tratta di otto imputati. Nel decreto che dispone il loro rinvio a giudizio sono ricostruite le singole responsabilità. In particolare Casarsa (ex comandante del gruppo Roma, di recente promosso a Capo di Stato Maggiore del Comando unità e specializzate “Palidoro”), Cavallo, Soligo, Colombo Labriola e Di Sano avrebbero modificato l’annotazione di servizio che riferiva le condizioni di salute di Cucchi attestando che il ragazzo «riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la accentuata magrezza». Ecco, in questo passaggio, compare per la prima volta l’accenno pretestuoso al peso di Cucchi come alla causa del suo malessere, discendente invece dall’avvenuto pestaggio. Quanto a Sabatino e Testarmata, di fronte alle annotazioni fasulle sulle condizioni di salute di Cucchi, emerse dai verbali dell’Arma, «omettevano di presentare denuncia per iscritto all’autorità giudiziaria» scrive la gip Antonella Minunni. Infine De Cianni attestava che «Cucchi si era procurato le lesioni più gravi compiendo atti di autolesionismo» e che «Casamassima avrebbe chiesto una somma di denaro aIlaria Cucchi in cambio di dichiarazioni gradite alla stessa Cucchi». L’avvio del Cucchi ter precede di due giorni la sentenza sull’altro processo quello per il pestaggio di Stefano Cucchi. Il 14 novembre è attesa la decisione del presidente della I Corte d’assise Vincenzo Capozza.
Da repubblica.it il 12 novembre 2019. Comincia con un colpo di scena il processo che riguarda i depistaggi sul caso Cucchi, il giovane detenuto morto nel 2009 all'ospedale Pertini di Roma. In apertura dell'udienza, la prima su altri otto carabinieri imputati, il giudice monocratico Federico Bona Galvagno, si è astenuto dal processo. Bona Galvagno si è giustificato spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. L'astensione c'è stata a seguito della richiesta sollevata dagli stessi familiari di Cucchi, che da fonti aperte avevano visto che il giudice è un carabiniere in congedo. Tutto rinviato. La prossima udienza che si dovrà pronunciare sugli 8 carabinieri imputati, con un nuovo giudice, si svolgerà il 16 dicembre. E' già stata designata Giulia Cavallone. Tutto è successo mentre si avvia a conclusione il processo principale sulla morte di Stefano Cucchi, nato dall'inchiesta su cinque carabinieri. Sentenza questa prevista per il 14 novembre. Stamani a piazzale Clodio si apriva invece il filone del procedimento, il cosiddetto Cucchi ter, che vede imputati otto militari per i depistaggi. Tra di loro, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono imputati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'Arma dei Carabinieri si è costituita parte civile insieme, tra gli altri, alla Presidenza del Consiglio, e alla famiglia Cucchi. Anche il ministero di Giustizia ha presentato istanza di costituzione. L'inchiesta del pm Giovanni Musarò ruota attorno alle annotazioni redatte da due piantoni dopo la morte del geometra romano e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che il giovane lamentava la notte dell'arresto dopo il pestaggio subito nella stazione della compagnia Appia.
Cucchi, si astiene il giudice del processo sul depistaggio. Simona Musco 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. Le ragioni: «Sono un ex carabiniere». Al processo sulla morte del ragioniere i legali chiedono l’assoluzione degli imputati: «nessun nesso tra il pestaggio e la morte». Nella settimana in cui verrà pronunciata la sentenza nei confronti dei cinque militari imputati per la morte di Stefano Cucchi, si apre con l’astensione del giudice Federico Bona Galvagno il processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine del 31enne romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il colpo di scena è arrivato in apertura dell’udienza, quando il giudice ha spiegato di non poter giudicare il caso in quanto ex carabiniere attualmente in congedo. Una decisione presa a seguito della richiesta dei legali della famiglia Cucchi, che ne avevano chiesto l’astensione dopo aver saputo, da fonti aperte, di alcuni convegni organizzati proprio da Bona Galvagno con la presenza di alti ufficiali dell’Arma. Il nuovo giudice monocratico nominato è Giulia Cavallone. Gli imputati sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Nel corso dell’udienza di oggi, il ministero della Giustizia ha presentato istanza di costituzione di parte civile. Tra le parti già costituite ci sono la presidenza del Consiglio dei ministri, l’Arma, il ministero della Difesa e quello dell’Interno. Nella lista dei testi della difesa di Casarsa, invece, c’è anche il primo pm che si è occupato della vicenda di Stefano Cucchi, il sostituto procuratore Vincenzo Barba. L’avvocato Carlo Longari lo ha inserito tra i suoi testimoni per la vicenda della relazione medica dell’ottobre del 2009 che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia del giovane geometra, di cui il Comando Provinciale dei carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. Sul punto citato come teste anche il generale Vittorio Tomasone, all’epoca numero uno del Comando provinciale. Si è detta soddisfatta dell’astensione Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, mentre indignazione è stata espressa dall’ex ministro Carlo Giovanardi, di Idea, popolo e libertà, già in passato entrato in polemica con la famiglia Cucchi per aver detto che ad uccidere il giovane sarebbe stata la droga. «Non soltanto il processo ai Carabinieri per la morte di Stefano Cucchi si svolge in una pressione mediatica che ne dà già per scontato l’esito prima ancora della sentenza di primo grado – ha commentato – ma passa il principio che un magistrato che abbia servito, sia pure di leva, nell’Arma e frequenti i Carabinieri non può esercitare la sua funzione quando sono imputati dei Carabinieri. Spero che non sfugga – ha aggiunto – l’enormità di questo pregiudizio, che ha indotto il giudice ad astenersi su richiesta della famiglia Cucchi, che aveva avanzato il sospetto di ombre sull’imparzialità del magistrato. Mi chiedo e lo chiedo alle istituzioni di questo Paese che cosa dovrebbe accadere, in base a questo precedente, tutte le volte che un magistrato viene chiamato a giudicare su di un altro magistrato». Nel corso del processo bis sulla morte del giovane, invece, i legali di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro – per i quali il pm Giovanni Musarò ha chiesto la condanna a 18 anni – hanno chiesto l’assoluzione dei propri assistiti, puntando il dito contro Francesco Tedesco, l’imputato che poi ha svelato il pestaggio subito da Cucchi accusando i suoi due colleghi. «Quello che dice non è oggettivo», hanno contestato i legali. «La morte di Stefano Cucchi è stata una perdita grave e ingiusta per la famiglia. Ma in questo processo si sta facendo una caccia alle streghe perché si deve trovare il colpevole di una morte ingiusta, non di un omicidio», ha sottolineato l’avvocato Antonella De Benedictis, difensore del carabiniere Di Bernardo, accusato di omicidio preterintenzionale. per la penalista, «non c’è un nesso diretto tra il pestaggio e l’evento morte, e in mezzo ci può essere stato un errore medico se è vero che Cucchi è morto per la crescita abnorme del globo vescicale dovuto all’ostruzione del catetere».
Ilaria Cucchi il 12 Novembre 2019 sulla sua pagina Facebook. "Ascoltando i difensori degli imputati che oggi ammettono tranquillamente il pestaggio inflitto a Stefano, non posso non pensare quanto esso sia stato ostinatamente negato dal prof. Paolo Arbarello, consulente della Procura nominato per l’esecuzione dell’autopsia sul suo corpo. Non posso non pensare alla prima perizia Grandi - Cattaneo che ipotizzando anche la caduta ha fatto morire mio fratello di fame e di sete. Non posso non pensare al braccio di ferro tra la Corte d’Assise di Appello e la Suprema corte di Cassazione sulla responsabilità dei medici per la sua morte. La prima assolve e riassolve. La seconda annulla e riannulla quelle assoluzioni. Un rimpallo di 4 sentenze. Si tratta di un processo sbagliato. Drammaticamente sbagliato. Anche questo processo andrà a sentenza il 14 novembre insieme a quello ben più importante in corso contro i veri responsabili della morte di Stefano. I reati contro i medici sono tutti prescritti. Ma si va avanti lo stesso contro di loro. Perchè? Perchè penso che verranno ancora una volta assolti nonostante le loro evidenti responsabilità. Nonostante la durissima ultima sentenza della Suprema Corte. È un mio pensiero. È solo un mio pensiero. Non si dichiarerà la prescrizione e questo sperano i difensori di D’Alessandro e Di Bennardo. Attendo il 14 novembre. Io ed i miei genitori siamo allo stremo delle forze. Mamma e papà sanno già di essere condannati all’ergastolo di processi che si protrarranno fino alla fine della loro vita. Comunque, grazie al lavoro dei PM Pignatone e Musarò, la verità è venuta a galla anche in un aula di giustizia ma c’è sempre qualcuno pronto a metter i bastoni tra le ruote di una Giustizia sempre più difficile da comprendere e spesso troppo lontana dai cittadini comuni in nome dei quali dovrebbe operare.
· Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.
· Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma: 12 anni ai due carabinieri.
Cucchi: prescrizione per quattro medici, uno assolto. Attesa la sentenza sui carabinieri. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. Sentenza appello ter, prescrizione per quattro medici e uno assolto. È quanto deciso dai giudici della Corte d’Assise di Appello di Roma per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi. Ad essere assolta la dottoressa Stefania Corbi. Accuse prescritte per il primario del reparto di Medicina protetta dell’ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è «per non commesso il fatto». Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici dell’ospedale Pertini ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l’accusa di abbandono d’incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d’Appello confermarono l’assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi. Ecco la prima delle due sentenze che ricostruiscono il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi e che vedono sul banco degli imputati sia i carabinieri che lo ebbero in custodia la notte del 15 ottobre 2009 che i medici dell’ospedale Sandro Pertini che lo curarono durante i giorni della detenzione fino al decesso il 22 ottobre 2009. Quanto ai militari Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, invece, sono imputati di omicidio preterintenzionale. Secondo il capo d’imputazione «in concorso fra loro colpendo Cucchi con schiaffi, pugni e calci, provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale, cagionavano al predetto lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni» ma che unite alle omissioni dei medici del Pertini che lo ebbero in cura portarono il ragazzo alla morte. Stando all’accusa del pm Giovanni Musarò, che ha sollecitato per i due imputati una condanna a 18 anni di carcere, D’Alessandro e Di Bernardo sarebbero stati responsabili di tumefazioni al viso, ecchimosi del cuoio capelluto e delle palpebre, fratture delle vertebre e infiltrazioni emorragiche in varie parti del corpo. L’indagine delegata alla Squadra Mobile di Roma ha ricostruito che le lesioni inferte a Cucchi determinarono una sorta di piano inclinato che condusse alla sua morte. C’è poi la posizione di Francesco Tedesco. Nei suoi confronti l’accusa aveva chiesto l’assoluzione per le percosse (il militare che aveva confermato il pestaggio ad opera dei suoi due colleghi, non vi aveva preso parte e anzi, aveva cercato di fermarlo) ma la sua condanna per aver falsificato il verbale d’arresto di Cucchi. Infine per Roberto Mandolini erano stati chiesti otto anni sempre per reato di falso, collegato al verbale d’arresto che fra le altre cose attestava un fotosegnalamento mai avvenuto. L’attesa verso le due sentenze è più che comprensibile. Non solo perché, trascorsi dieci anni, la famiglia di Stefano Cucchi si aspetta un punto fermo nella vicenda, ma anche perché il pronunciamento dei giudici influirà sul terzo processo Cucchi, quello relativo ai depistaggi e che vede otto militari dell’Arma indagati per reati che vanno dal falso all’omessa denuncia all’autorità giudiziaria. Dice Ilaria Cucchi: «La nostra famiglia è arrivata esausta a questo appuntamento. Ci aspettiamo giustizia».
Cucchi, fu omicidio: 12 anni ai due carabinieri. Il baciamano del militare in aula alla sorella Ilaria. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Responsabili del delitto loro ascritto al capo A», dice il presidente della corte d’assise Vincenzo Capozzi. Significa colpevoli della morte di Stefano Cucchi, un pestaggio che s’è trasformato in omicidio preterintenzionale. Per questo i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono condannati a 12 anni di carcere. Ilaria Cucchi e il suo avvocato-compagno Fabio Anselmo, si stringono forte la mano. Il giudice va avanti nella lettura della sentenza. Assolto dall’omicidio il carabiniere Francesco Tedesco, che dopo nove anni di silenzi e menzogne ha confessato di aver assistito alle botte rivelatesi letali, e condannato per i falsi commessi dal 2009 in poi. Condannato pure il suo ex comandante di stazione, Roberto Mandolini: tre anni e otto mesi di pena perché contribuì a manomettere le relazioni di servizio per proteggere i suoi sottoposti, e per le bugie dette durante l’altro processo, quello agli imputati sbagliati: i tre agenti penitenziari già assolti e ora presenti in aula come «parti offese»; anche per loro oggi è un giorno di riscatto. Ma è soprattutto la vittoria di ciò che resta della famiglia Cucchi: la sorella Ilaria, che sorride commossa al baciamano di un carabiniere addetto alla sicurezza che vuole renderle omaggio a nome dell’Arma, e i genitori Rita e Giovanni, che dopo dieci anni di battaglie e sconfitte possono sciogliersi in un abbraccio finalmente liberatorio con l’ex senatore, Luigi Manconi, sempre al loro fianco. Al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, arriva il verdetto di primo grado contro gli imputati «giusti», autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. Cominciarono le indagini e i processi contro agenti di custodia e medici (ieri assolti o prescritti nel terzo giudizio d’appello), ma solo nel 2015 la nuova inchiesta avviata dalla Procura di Roma ha imboccato la strada giusta. Grazie ai due carabinieri Riccardo Casamassima e Maria Rosati, che si presentarono ai Cucchi per raccontare ciò avevano sentito dire in caserma dopo la morte di Stefano; e al detenuto Luigi Lainà, che a Regina Coeli rivelò a Cucchi: «Mi hanno picchiato due carabinieri in borghese, di quelli che m’hanno arrestato, che se so’ divertiti, mentre uno in divisa gli diceva di smettere». Gli accertamenti del pubblico ministero Giovanni Musarò, che con l’accordo del procuratore Giuseppe Pignatone ha messo in campo tecniche investigative antimafia affidate alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Roma, ha portato alla luce l’identità degli imputati condannati, nascosta a suo tempo nei verbali d’arresto ma confermata dalle intercettazioni andate avanti per mesi. Compresa quella della ex moglie di uno dei due, che gli rinfacciava al telefono: «L’hai raccontato tu di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda!». L’impianto dell’accusa è stato accolto pressoché integralmente dalla corte: rispetto alle richieste le pene sono inferiori perché i giudici hanno concesso agli imputati in divisa le attenuanti che il pm aveva proposto di negare, considerati i dieci anni di omertà. Ma le difese, che continuano a reclamare l’innocenza dei condannati, hanno già annunciato appello. Le nuove indagini negli archivi dell’Arma, affidate al Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, hanno smascherato le false relazioni sulle condizioni di Cucchi. Manomesse con l’avallo degli ufficiali oggi imputati nel processo sui depistaggi che comincerà a dicembre, per evitare — all’epoca — che l’inchiesta sulla morte di Cucchi prendesse di mira chi l’aveva arrestato e tenuto in custodia. Ancora nel 2015 altri appartenenti all’Arma tentarono di ostacolare l’inchiesta, e nonostante ciò sono ugualmente venuti alla luce il registro della caserma in cui avvenne il pestaggio con il nome di Cucchi cancellato col «bianchetto», più altri elementi che hanno portato alla sentenza di ieri. Vicende che hanno spinto il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, a esprimere alla famiglia Cucchi «dolore e vicinanza», ribaditi ieri dopo le condanne «di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell’Istituzione».
Cucchi, 12 anni ai due carabinieri. La sorella: ora può riposare in pace. Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sentenza in Corte d’Assise. Reati prescritti per quattro medici, uno assolto. Processo ai medici, un’assoluzione e 4 prescrizioni. Per il pm Musarò, attorno alla sua morte fu realizzata «un’opera di depistaggio che ha toccato picchi da film dell’orrore», con lo scopo di far ricadere la colpa sugli agenti penitenziari. Stefano Cucchi morì per le botte in caserma la notte dell’arresto. Così ha deciso la prima Corte d’Assise di Roma, che ieri ha condannato a 12 anni, per omicidio preterintenzionale, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti dalla procura gli autori del pestaggio ai danni del geometra romano 31enne, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e picchiato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana. Mentre nulla, secondo i giudici, ha avuto a che fare con quel sopruso l’imputato- teste Francesco Tedesco, assolto dall’accusa di omicidio ma condannato a due anni e sei mesi per la compilazione del falso verbale di arresto. Stessa accusa per la quale la Corte ha inflitto 3 anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della Stazione dei carabinieri Roma Appia, dove la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu portato dopo il suo arresto. I giudici hanno poi riqualificato in falsa testimonianza l’originario reato di calunnia ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria, accusati ingiustamente e poi assolti del pestaggio di Cucchi, assolvendo Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi perché il fatto non costituisce reato. Per la corte d’assise, infatti, i tre militari furono sentiti senza l’assistenza di un difensore e, dunque, senza le garanzie di legge.
Per il sostituto procuratore Giovanni Musarò, attorno alla morte di Cucchi sarebbe stata realizzata un’opera di depistaggio che ha «toccato picchi da film dell’orrore», con l’unico scopo di far ricadere la responsabilità di tutto su alcuni agenti della Polizia penitenziaria, poi assolti in maniera definitiva. Il 3 ottobre scorso, il pm aveva chiesto una condanna a 18 anni per Di Bernardo e D’Alessandro per l’omicidio, chiedendo, per tale reato, l’assoluzione di Tedesco, ieri a Rebibbia per la lettura della sentenza. Per Musarò, sarebbe «impossibile» negare il nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. «I periti aveva spiegato – parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Ma nelle stesse ore, mentre ancora deve partire il processo sul depistaggio, che vede alla sbarra otto militari, si è chiuso anche un altro capitolo della vicenda, con la sentenza del terzo processo d’appello nei confronti dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, dove Stefano, che ormai pesava solo 37 chili, morì il 22 ottobre 2009. E si è chiuso con una sentenza di assoluzione e una di “non doversi procedere”, perché il reato di omicidio colposo è ormai prescritto. Ma la seconda corte d’Assise di appello ha comunque fatto una distinzione essenziale tra la posizione dei medici: non è colpevole Stefania Corbi, assolta per non aver commesso il fatto, mentre per gli altri imputati i giudici hanno recepito le conclusioni del sostituto pg Mario Remus, che lo scorso 6 maggio aveva sollecitato la prescrizione nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, che seguirono a vario titolo Stefano. Una sentenza, dunque, che stabilisce comunque un giudizio di merito sull’operato dei quattro sanitari. I medici finirono a processo, inizialmente, con l’accusa di abbandono d’incapace, assieme a tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, furono poi assolti in appello. E da lì, due annullamenti con rinvio della Cassazione, fino alla sentenza di ieri. Nella sua requisitoria, il pg fu lapidario: «questo processo dovrà concludersi con la prescrizione del reato – disse -, ma è una sconfitta della giustizia. Per salvare Stefano Cucchi sarebbe bastato un tocco di umanità, un gesto, per convincerlo a bere e a mangiare». Una vicenda contorta e intricata, quella di Cucchi, dalla quale sono scaturiti già sette processi e riaperta grazie alla tenacia della famiglia del giovane, in particolare della sorella Ilaria, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo. Dopo la morte del geometra, la procura di Roma aveva aperto un’inchiesta mettendo sotto accusa i tre agenti penitenziari che accompagnarono il ragazzo il giorno dopo il suo arresto in tribunale per la convalida. Ma si trattava di un depistaggio, svelato da Musarò, che ha ribadito il nesso tra le botte e la morte, inizialmente attribuita ad un attacco di epilessia. La svolta ad aprile scorso, quando Tedesco ha raccontato in aula le fasi del pestaggio. Facendo i nomi degli autori: Di Bernardo e D’Alessandro.
Da roma.repubblica.it il 15 Novembre 2019. Quello di Stefano Cucchi fu un omicidio preterintenzionale. La Corte d'Assise di Roma ha condannato i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro a 12 anni. Assolto dall'accusa di omicidio Francesco Tedesco, l'imputato-accusatore che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio subito da Stefano Cucchi in caserma la notte del suo arresto, a suo carico rimane solo la condanna a 2 anni e sei mesi per falso. Stesso reato che viene contestato a Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione Appia: 3 anni e otto mesi. Assolti, invece, Vincenzo Nicolardi e Tedesco e Mandolini dall'accusa di calunnia. La corte ha disposto il pagamento di una provvisionale di 100mila euro ciascuno ai genitori di Cucchi e alla sorella Ilaria. Di Bernardo, D'Alessandro, Mandolini e Tedesco, a vario titolo, dovranno risarcire, in separato giudizio, le parti civili Roma Capitale, Cittadinanzattiva e i tre agenti della polizia penitenziaria e intanto sono stati condannati al pagamento delle loro spese legali per complessivi 36mila e 500 euro. Di Bernardo e D'Alessandro sono stati inoltre interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, mentre un'interdizione di cinque anni è stata disposta per Mandolini. I legali dei quattro carabinieri condannati annunciano ricorso in appello. "Come si concilia questa sentenza sul piano tecnico-giuridico col fatto che oggi stesso la corte d'Assise d'Appello ha dichiarato la prescrizione per i medici?" si domanda Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini. "Se secondo la corte d'assise d'appello non è escluso che Cucchi sia morto per colpa dei medici - prosegue- come si può concepire una morte per omicidio preterintenzionale? Leggeremo le motivazioni della sentenza e faremo certamente appello. Abbiamo aspettato 5 anni per farci riconoscere dalla Cassazione, nel processo mafia capitale, quello che abbiamo sostenuto fin dall'inizio. Abbiamo pazienza anche per questo processo".
La famiglia: "Finalmente ci sono i colpevoli". "Stefano è stato ucciso, lo sapevamo, forse adesso potrà riposare in pace e i miei genitori vivere più sereni. Ci sono voluti 10 anni di dolore ma abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano l'ultima volta che ci siamo visti che saremmo andati fino in fondo". Lo ha detto Ilaria Cucchi in lacrime dopo la sentenza di primo grado del processo bis per la morte, ad ottobre 2009, del fratello Stefano. "Questa sentenza parla chiaro a tutti.. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente dopo 10 anni di processi li abbiamo" commenta Giovanni, il padre del geometra. "Era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Io considero Mandolini corresponsabile quanto i due condannati per il reato. Vedremo le motivazioni della sentenza. La verità è che Stefano è morto per le percosse subite" sottolinea Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.
Il baciamano del carabiniere a Ilaria Cucchi: "Finalmente giustizia". E subito dopo la sentenza, visibilmente commosso un carabiniere ha fatto il baciamano a Ilaria. "L'ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia", dice il militare mentre accompagna i genitori di Stefano Cucchi, anche loro commossi, fuori dall'aula di Rebibbia dove si è celebrato il processo.
Medici del Pertini: 4 prescrizioni e un'assoluzione. Un'assoluzione e quattro prescrizioni che riconoscono le colpe dei medici ma che di fatto li salvano. Hanno deciso così i giudici della Corte d'Assise di Appello di Roma i per camici bianchi dell'ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano, morto una settimana dopo nel Reparto detenuti dell'Ospedale Sandro Pertini di Roma. Assolta il medico Stefania Corbi. Accuse prescritte dunque per il primario del Reparto di medicina protetta dell'ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è "per non commesso il fatto". Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici del 'Pertinì ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l'accusa di abbandono d'incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). "Una sentenza che lascia l'amaro in bocca. Non è comprensibile dal punto di vista logico perché l'assoluzione della dottoressa Corbi avrebbe dovuto comportare come conseguenza anche l'assoluzione del primario. Aspettiamo di leggere le motivazioni e quasi sicuramente faremo ricorso in Cassazione" commenta a caldo l'avvocato Gaetano Scalise, difensore di Aldo Fierro. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d'Appello confermarono l'assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi.
Generale Nistri: "Dolore ancora più intenso per responsabilità di alcuni carabinieri". "Abbiamo manifestato in più occasioni il nostro dolore e la nostra vicinanza alla famiglia per la vicenda culminata con la morte di Stefano Cucchi. Un dolore che oggi è ancora più intenso dopo la sentenza di primo grado della corte d'Assise di Roma che definisce le responsabilità di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell'istituzione". Così il comandante generale dell'Arma dei carabinieri generale Giovanni Nistri dopo la sentenza.
Rinviato il processo sui depistaggi. Martedì scorso era stata rinviata al 16 dicembre la prima udienza del processo cosiddetto Cucchi-ter sui successivi 10 anni di depistaggi sulla morte del geometra, che vede imputati 8 alti ufficiali dell'Arma. Il rinvio perché il giudice monocratico Federico Bona Galvagno ha ammesso - dopo l'istanza di ricusazione presentata dai legali della famiglia Cucchi - di essere un carabiniere in congedo e di essere legato da rapporti di conoscenza con l'ex comandante generale Tullio Del Sette.
Il padre di Magherini; "Sono contento". "Sono contento, è una cosa giusta" commenta Guido Magherini, padre dell'ex calciatore Riccardo morto dopo essere stato fermato per strada a Firenze dai carabinieri. "Sarebbe stato giusto", continua facendo riferimento a una sentenza di condanna, "anche per Riccardo - continua il papà di Magherini - ma a Roma sono bravi a fare i 'giochi di prestigio': oggi non è stato così". "Ilaria deve ringraziare sicuramente la sua forza e dedizione, ma anche Riccardo Casamassima", sottolinea Magherini.
"Se Stefano Cucchi è morto per colpa dei miei colleghi Carabinieri io non posso più tacere". Nove anni di silenzi. Poi uno degli agenti imputati rompe il muro di omertà sulla morte del giovane. E rivela i pestaggi subiti dal ragazzo. Parla il suo avvocato per la prima volta. Giovanni Tizian il 21 maggio 2019 su La Repubblica. Francesco Tedesco: «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto». Eugenio Pini è l’avvocato di Francesco Tedesco, il carabiniere che ha rotto il muro dell’omertà sul caso Cucchi, il geometra romano morto dopo l’arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Avremmo voluto intervistarlo, ma l’Arma non glielo permette. E così abbiamo chiesto al suo avvocato di raccontarci la genesi di una denuncia che ha sovvertito le regole interne e non scritte degli apparati militari: il silenzio sui misfatti che riguardano le forze armate. Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Il vicebrigadiere non è solo imputato a Roma. È stato sospeso per cinque anni. Su di lui pesa un procedimento disciplinare e rischia peraltro la destituzione. Che ne sarà di lui dipenderà molto dalle decisioni che assumerà l’Arma guidata dal generale Giovanni Nistri, che ha annunciato di volersi costituire parte civile nel futuro processo per i depistaggi architettati dagli ufficiali per coprire il pestaggio di Stefano Cucchi. Il futuro di Tedesco sarà nell’Arma? «È molto sconfortato. Vorrebbe tornare in servizio ma teme che non gli verrà consentito. Non posso però tacere che Tedesco è anche l’esempio che l’Arma ha anticorpi per superare pagine come queste. Lui ha sempre detto che i colleghi non si dovevano permettere di toccare Stefano Cucchi. Perciò sostengo che Francesco Tedesco si sia messo a difesa di un ultimo (come la famiglia ha definito Stefano Cucchi) in un ambiente nel quale la possibilità dell’impunità è elevata. Tedesco è il carabiniere che ha difeso, soccorso e protetto Cucchi e che immediatamente ha denunciato il fatto prima oralmente e poi con un annotazione di servizio. Da quel momento nove anni di silenzio e di sofferenza. Credo che questi siano elementi meritori che l’Arma dovrà considerare». Spetta al comandante generale Giovanni Nistri valutare la posizione di Tedesco. Pini è ottimista, perché con Nistri le cose sono cambiate: «Credo che il generale abbia gestito il caso Cucchi con rispetto delle Istituzioni e dell’Autorità Giudiziaria». Negli anni precedenti non è stato così. E il terrore che ha frenato Tedesco per nove lunghi anni ne è la dimostrazione.
Stefano Cucchi e quella verità raggiunta dopo dieci anni. Ma non è ancora finita. Il primo grado riconosce l'omicidio preterintenzionale da parte di due agenti. Gli esecutori del pestaggio sono stati condannati a 12 anni e il super testimone assolto dal reato più grave. Ora il prossimo passo è accertare le responsabilità di chi ha depistato per tutto questo tempo. Giovanni Tizian il 15 novembre 2019 su La Repubblica. Dieci anni per ottenere verità e giustizia. Dieci anni per chiarire una volta per tutte che Stefano Cucchi non è morto di droga. È stato ucciso della botte dei carabinieri. Due di loro sono stati condannati a 12 anni: Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Il processo di primo grado che si è concluso con il riconoscimento da parte della corte del reato di omicidio preterintenzionale ha avuto la sua svolta ad aprile scorso. Quando cioè Francesco Tedesco uno dei militari presenti quella notte, per troppo tempo ostaggio del silenzio corporativo dell’Arma, durante la sua testimonianza da imputato ha deciso di dire la verità. Non ha retto più il peso della menzogna. Da quel momento si è aperto uno squarcio profondo nel muro di gomma alzato dall’Arma anche attraverso falsi ripetuti e depistaggi, per i quali si aprirà un nuovo processo. Le parole di Tedesco sono crollate come macigni sulle spalle dei suoi colleghi, forti della protezioni ricevute nei dieci anni dal pestaggio di Cucchi. L’Espresso aveva intervistato l’avvocato Eugenio Pini, che segue Tedesco e lo ha accompagnato nel percorso di “pentimento”. «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto», ricordava con L’Espresso Eugenio Pini . Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Anche l’avvocato parla di muro di gomma. Quel muro che cadrà definitivamente nel processo sui protagonisti dei depistaggi che per dieci anni hanno reso impossibile accertare la verità su quella notte iniziata in via Lemonia. Omissioni che portano il timbro della catena gerarchica dell’Arma.
Cucchi, la sorella: «Ci sono voluti 10 anni, ma forse ora Stefano può riposare in pace». Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sorella Ilaria: «è stato ucciso, lo abbiamo sempre saputo, ma ora I miei genitori potranno vivere più sereni». Il padre Giovanni: «non volevamo un colpevole, ma il colpevole». Ci sono voluti dieci anni, «ma Stefano ora può riposare in pace», dice sua sorella Ilaria dopo la lettura della sentenza. Un carabiniere, visibilmente commosso, le prende la mano e la bacia: «l’ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia», sussurra il militare mentre accompagna i genitori di Stefano, con le lacrime agli occhi, fuori dal palazzone di Rebibbia. «Stefano è stato ucciso – continua Ilaria -, questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni. Forse i miei genitori potranno vivere più sereni. Abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano». Rita, sua madre, ha lo sguardo stanco. «Un po’ di sollievo dopo 10 anni di dolore e di processi non veri», dice abbracciando il marito. Giovanni, che al suo fianco a stento trattiene le lacrime. Rincorre il pm Giovanni Musarò per stringergli la mano prima che lasci l’aula bunker, anche lui stremato. «Volevo ringraziarla», afferma grato. «Questa sentenza parla chiaro a tutti aggiunge -. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente li abbiamo». Fabio Anselmo, legale della famiglia e compagno di Ilaria, non ha dubbi: «era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Stefano è morto per le percosse subite». Ilaria pensa al carabiniere Riccardo Casamassima, che grazie alle sue rivelazioni ha aperto il processo. «Il nostro pensiero va a lui e alla moglie Maria Rosati, per tutto quello che stanno passando», sottolinea. Stefano non è caduto dalle scale, non ha avuto le convulsioni. Era un relitto di 37 chili, con la mandibola rotta e il corpo livido. Ad esultare è anche Francesco Tedesco, il carabiniere che ha fatto i nomi dei suoi colleghi. «La corte gli ha creduto: è stato un percorso partito con aspettative di legalità e finito con la realizzazione di queste aspettative», dicono i suoi legali, gli avvocati Eugenio Pini e Francesco Petrelli. Ma le difese promettono battaglia: i due carabinieri, giurano, sono estranei alla morte e faranno ricorso in appello. «Non ci fu pestaggio dice Maria Lampitella, difensore del carabiniere Raffaele D’Alessandro -. È una condanna ingiusta». Così come per Giosuè Naso, legale del maresciallo Roberto Mandolini. «Se non è escluso che sia morto per colpa dei medici come si può concepire una morte anche per omicidio preterintenzionale?».
Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, e le condanne per omicidio: «Il suo corpo ha raccontato la verità». Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. La voce è tonica, le parole fluide: alle 20,30 Giovanni Cucchi è davanti al televisore di casa, con la moglie Rita a guardare i notiziari e aspettare di vedere Ilaria, ospite di «Porta a porta». «Sapete che effetto mi fa tutto questo viavai mediatico?»
No, quale?
«Rinvia l’appuntamento con il silenzio che presto o tardi arriverà anche se finora, in questi dieci anni, non c’è mai stato il tempo».
É un appuntamento con Stefano?
«Sì. Finora abbiamo dovuto combattere e siamo stati sempre circondati da gente: ci sono stati i media che hanno svolto un ruolo importante ma quando calerà questo caos allora mi troverò, ci troveremo soli con Stefano».
Quanto le manca?
«Ogni giorno».
Cosa prova in una giornata come questa?
«Un leggero sollievo».
Tutto qui? Vuol descriverci il suo stato d’animo?
«Sono stati anni di trincea. Ora avremo un po’ di pace: conforta».
Condanna per omicidio preterintenzionale e condanna per falso. Pestaggio e depistaggi. Cosa ne pensa?
«Possiamo cominciare a credere nella giustizia».
È scattata la prescrizione per i medici.
«L’esperienza di questi anni mi ha insegnato che la verità processuale è un’altra da quella sotto gli occhi di tutti. Per quella processuale occorrono le prove. Ma quei medici hanno grandi responsabilità. Che dire di un infermiere che non sa manovrare un catetere?».
Il primo processo si concluse con l’assoluzione degli agenti penitenziari. Per la morte di Stefano Cucchi nessun colpevole. Come si sentì?
«Me lo ricordo bene quel giorno. Uscii dal tribunale impietrito. Come se qualcosa dentro di me si fosse guastato. Non riuscivo a capacitarmi. Sa quel giorno cosa disse mia figlia?».
No, che disse?
«Disse rivolta a Fabio Anselmo: “Abbiamo vinto”. E lui rispose “Ma che dici?”. E lei: “Ma sì abbiamo vinto di fronte all’opinione pubblica”».
Un lungo calvario?
«Sì, ricordo l’invito del presidente del Senato Pietro Grasso. Disse: “Chi sa parli”. Iniziò con una piccola crepa, poi la crepa si allargò. E oggi...»
Luigi Manconi oggi era in aula, commosso anche lui.
«Gli ho detto grazie. É stato l’uomo che ci ha convinto a mostrare le foto di Stefano, noi non volevamo, pensavamo che a Stefano dispiacesse. Il suo corpo, in tutti questi anni, ha raccontato la verità».
Finalmente qualcuno vi ha creduto.
«I magistrati Giovanni Musarò e Giuseppe Pignatone hanno avuto l’audacia e il coraggio di riscattare la giustizia».
Stefano Cucchi, la sorella Ilaria valuta querela a Salvini: «La droga non c’entra». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», afferma Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, i, dopo che commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, il leader leghista Matteo Salvini ha detto che rispetta la famiglia ma il caso «dimostra che la droga fa male». «Anch’io da madre sono contro la droga - ha aggiunto Ilaria Cucchi - ma Stefano non è morto di droga». Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi - ha aggiunto Ilaria Cucchi in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital- ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini».
Stefano Cucchi, la sorella Ilaria pronta a querelare Matteo Salvini: "Mio fratello non è morto di droga". Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte del ragazzo, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". La Repubblica il 15 novembre 2019. "Stefano non è morto di droga, cosa c'entra la droga?". Ilaria Cucchi non ci sta. Ed è pronta a querelare Matteo Salvini. Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". "Che c'entra la droga? Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto", ribatte Ilaria in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital. "Anch'io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini". I due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro sono stati condannati ieri in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale nel processo per la morte di Stefano Cucchi. La sentenza è arrivata dopo dieci anni. Il reato contestato: omicidio colposo. Francesco Tedesco, che denunciò il pestaggio, imputato al processo, è stato condannato a due anni e sei mesi per falso ed assolto dall'accusa di omicidio. Il maresciallo Mandolini, condannato a tre anni 8 mesi per falso, assolto dalla calunnia. Accuse prescritte per 4 medici e una assoluzione. "Ora mio fratello riposa in pace", è stato il commento di Ilaria Cucchi. "Sono ancora frastornata, sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia". Prosegue Ilaria ai microfoni di RTL 102.5. Il baciamano ricevuto da un uomo dell'Arma "è stato un momento emozionante, perché racchiude un po' quello che diciamo da sempre - spiega -. Anche se da più fronti si è voluto far passare il concetto che noi fossimo in guerra con le istituzioni e con l'Arma dei Carabinieri, quello che sta accadendo oggi anche nel processo sui depistaggi, dimostra che non è così e anzi, tutt'altro. L'Arma dei Carabinieri è stata danneggiata quasi quanto la famiglia di Stefano Cucchi da ciò che è avvenuto". C'è anche l'attore Alessandro Borghi, che ha interpretato Stefano Cucchi nel film 'Sulla mia pelle', tra coloro che ieri sera hanno gioito per la sentenza. Borghi, che per prepararsi al film ha conosciuto bene la famiglia di Stefano e la loro vicenda giudiziaria, ha scritto sui social, una sorta di dedica della sentenza al ragazzo: "A Stefano. Sempre".
Ilaria Cucchi conferma: «Probabilmente querelerò Salvini». L’avvocato Fabio Anselmo: «La battaglia non è ancora finita». Il Dubbio il 17 novembre 2019. «Sì, probabilmente sì». Così conferma Ilaria Cucchi, rispondendo nel corso del programma “In mezz’ora in più” sui Raitre alla domanda della conduttrice Lucia Annunziata, sull’intenzione di querelare l’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini, per le sue dichiarazioni sulla morte del fratello Stefano a causa della droga. «Al di là di questo – aggiunge Ilaria -, Salvini delle volte mi fa sorridere, è davvero imbarazzante: nel giorno in cui, dopo dieci anni, c’erano state le condanne per omicidio preterintenzionale per la morte di mio fratello, lui vivendo forse in un’altra dimensione, ha minacciato una controquerela, continuando a parlare di droga. Anche a me fa paura la droga, ma mio fratello Stefano non è morto a causa della droga: questo lo abbiamo appurato nel processo anche se era chiaro fin dal principio; ora è ancora più chiaro». Per l’avvocato Fabio Anselmo – che è anche il compagno di Ilaria Cucchi – «è chiaro che si tratta di un’uscita pubblica che ha uno scopo comunicativo ben preciso: distrarre l’opinione pubblica da quello che era il nocciolo della notizia e cioè della vittoria della giustizia e della dimostrazione che aveva ragione la famiglia Cucchi. Semmai – aggiunge il legale – fa specie che il ministro dell’Interno era costituito parte civile nel processo e dunque Salvini deve veramente mettersi d’accordo con se stesso». «Abbiamo ottenuto una importante vittoria, però non è ancora finita: di questo dobbiamo essere consapevoli», ha aggiunto Anselmo. «Il processo non è finito, si è svolto soltanto il primo grado e ho ben memoria di cosa è successo in altre occasioni, con condanne in primo grado e in appello e poi una sentenza della Cassazione, ritenuta eccentrica un po’ da tutta la giurisprudenza, con cui sono state annullate tutte le sentenze. Purtroppo, considerando i vari gradi processuali, potremmo dire che la famiglia Cucchi sia stata “condannata” a una sorta di ergastolo giudiziario, nel senso degli anni che ancora ci vorranno da qui alla fine». «Anche io ho paura – confessa Ilaria Cucchi – ma il messaggio che dobbiamo lanciare è un messaggio di speranza: non bisogna mai smettere di credere nella verità e nella giustizia, bisogna sempre battersi fino in fondo per quello in cui crediamo, andando a testa alta, sfidando le istituzioni ma sempre nel rispetto delle stesse istituzioni».
Ilaria Cucchi pronta a querelare Salvini: «Stefano fu ucciso». Il leader della Lega: «Questa storia prova che la droga fa male». Simona Musco il 16 Novembre 2019 su Il Dubbio. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto». Ilaria Cucchi non ci sta e preannuncia azioni legali contro Matteo Salvini che dopo la sentenza di condanna a 12 ai due carabinieri accusati di aver brutalmente pestato suo fratello, morto in ospedale sette giorni dopo l’arresto, si è lasciato andare ad un commento infelice e, soprattutto, fuori luogo: «questo caso testimonia che la droga fa male sempre», ha affermato, da Bologna, il leader leghista. Parole di troppo, che fanno riferimento al motivo per cui Cucchi, in quel momento, si trovava sotto custodia in un carcere di Roma: possesso di droga. Ma a causare la sua morte, secondo quanto stabilito dai giudici della Corte d’Assise di Roma, non è stata affatto la droga, né le convulsioni o l’eccessiva magrezza, bensì botte e percosse che hanno causato una violenta caduta a terra e la frattura di due vertebre, con conseguenze che lo portarono alla morte. Tant’è che i due militari sono stati condannati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. «Anch’io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga – ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di “Circo Massimo”, su Radio Capital -. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini». Sin da subito, l’ipotesi che a provocare la morte del giovane fossero stati uomini dello Stato provocò levate di scudi da parte di diversi esponenti della politica. Da Carlo Giovanardi, secondo cui «la causa delle lesioni è la malnutrizione», avendo avuto «una vita sfortunata», passando per Ignazio La Russa, certo del «comportamento corretto dei carabinieri». Fino a Salvini, secondo cui è «difficile pensare che in questo, come in altri casi, ci siano stati poliziotti o carabinieri che per il gusto di pestare abbiano pestato». Posizioni mantenute dai protagonisti anche dopo la pubblicazione delle foto che ritraevano il giovane disteso sul lettino dell’obitorio, con il viso sfigurato, livido all’inverosimile. Uno corpo di soli 37 chili mezzo fratturato e ormai senza vita. E quel corpo era ridotto così per un pestaggio, secondo la famiglia. Un pestaggio confermato poi dal carabiniere Riccardo Casamassima, che nel 2016 consentì al pm Giovanni Musarò di riaprire l’inchiesta accusando i colleghi e, ad aprile scorso, anche da uno degli imputati, Francesco Tedesco, che ha indicato in Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro gli autori di quella aggressione. Da Bologna, a chi gli chiedeva se non fosse il caso di chiedere scusa alla sorella di Stefano Cucchi, Salvini ha risposto cercando di rimanere fermo sulla propria posizione. «Scuse? Perché, io ho ucciso qualcuno? Ho invitato la sorella al Viminale, in Italia chi sbaglia, paga. Però non posso chiedere scusa per eventuali errori altrui – ha affermato -. Se qualcuno l’ha fatto, ha sbagliato e pagherà», ha detto riferendosi alle violenze dei carabinieri. Aggiungendo: «Ma io devo chiedere scusa anche per il buco dell’ozono? Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga, posso dirlo? Io sono contro lo spaccio di droga sempre e comunque» . «Sono ancora frastornata – ha commentato Ilaria Cucchi ai microfoni di Rtl -. Sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in un’aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia». Le parole di Salvini hanno subito fatto insorgere la politica. Dal sindaco di Roma, Virginia Raggi, che le ha definite «vergognose», al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra, che si è posto la stessa domanda di Ilaria Cucchi. «Cosa c’entra la droga? – ha scritto sul suo profilo Facebook – Il giudice ha detto che Stefano è stato ammazzato da mani umane. Potresti chiedere scusa alla famiglia Cucchi. Sarebbero le tue uniche parole sensate in tutta questa vicenda. Ma non lo fai perché non conosci umiltà e vergogna, perché non sai cosa sia l’umanità dell’errore e del riconoscere le proprie responsabilità. Cinicamente vuoi apparire invincibile. In realtà sei solo inguardabile per la strafottenza che ostenti». E il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha rincarato la dose. «Salvini, non puoi dire che la sentenza su Cucchi dimostra che la droga fa male. Cosa significa? Che se uno sbaglia nella vita deve essere pestato a morte? Credo che sarebbe meglio porgere le scuse…». Mentre Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana- Leu, ha invitato Salvini a vergognarsi. «Quanta differenza ha detto – fra la compostezza e la dignità della famiglia Cucchi e l’arroganza, il cinismo, le trivialità e le meschinità di un Salvini qualunque».
Francesca Bernasconi per il Giornale il 19 novembre 2019. Ilaria Cucchi ha deciso di presentare querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Dopo aver appreso della condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, il leader della Lega aveva affermato: "Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". La sorella del 31enne morto nel 2009, a seguito di un pestaggio, avvenuto in caserma a Casilina, aveva già annunciato la volontà di sporgere querela nei confronti dell'ex vicepremier. Lo scorso 14 novembre, i militari dell'Arma Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, sono stati condannati a 12 anni di carcere, per l'omicidio colposo di Stefano Cucchi. Decaduta invece l'accusa di omicidio per Francesco Tedesco, che aveva denunciato il pestaggio, falsificando i verbali: per lui la condanna è di 2 anni e 6 mesi. È stato assolto dall'accusa di calunnia il maresciallo Mandolini, che è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per falso. A seguito della sentenza, Matteo Salvini aveva commentato la condanna, sostenendo che "se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà. In divisa e non in divisa". Poi, aveva aggiunto: "Sono vicinissimo alla famiglia, ho invitato la sorella al Viminale. Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga. Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". Una dichiarazione, che aveva fatto indignare la sorella della vittima, che aveva risposto al leader del Carroccio, durante un'intervista a Radio Capital: "Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto. Anche io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto per droga. Chiaramente non c'entra assolutamente nulla, va contro questo pregiudizio, va contro questi personaggi. Noi abbiamo dovuto batterci per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia e non escludo che uno di questi possa essere proprio Salvini". E infatti, oggi arriva la notizia della querela. A renderlo noto è la stessa Ilaria, tramite un post su Facebook: "Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi", scrive la donna. "Stefano Cucchi ha sbagliato ed avrebbe dovuto pagare ma non morire in quel modo - continua Ilaria Cucchi -Il giorno in cui viene pronunciata la sentenza ha il coraggio di dire quelle parole come se fosse al bar e parlasse ai suoi amici? Sono solo una normale cittadina e non posso fare altro che querelarlo". Ma Matteo Salvini non sembra essersi lasciato intimorire e risponde: "Me ne farò una ragione, mi ha querelato anche Carola Rackete. Dopo le minacce di morte dei Casamonica, i proiettili in busta e le scritte sui muri, non è una querela a farmi paura anzi". Poi aggiunge: "Andremo avanti perchè il Parlamento approvi la legge 'droga zero' per cancellare la droga, gli spacciatori di droga da ogni angolo della città". E in quelle parole ("Il caso dimostra che la droga fa male") il leader della Lega non ha mai letto una provocazione: "Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia chi ha sbagliato ha pagato".
Ilaria Cucchi e la foto della querela a Salvini: «Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. «Ora basta. Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre. Questo signore deve smetterla di fare spettacolo sulla nostra pelle». Poche parole, postate su Twitter, accompagnate da una fotografia. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha pubblicato le immagini della querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, annunciata nei giorni scorsi. Dopo la sentenza di condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati dell'omicidio di Cucchi, Salvini aveva affermato che il caso testimonia che «la droga fa male sempre». Cucchi ha presentato una denuncia — formalizzata attraverso il legale Fabio Anselmo — «nei confronti di Matteo Salvini, nonché di chiunque altro venga ritenuto responsabile» per il reato di diffamazione. «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo. Questo era il suo volto quando io e i miei genitori lo vedemmo all'obitorio il 22 ottobre del 2009. Questo era quel che rimaneva di Stefano. Dei suoi diritti. Della sua dignità di essere umano», aveva scritto subito dopo su Facebook la sorella del ragioniere romano morto dieci anni fa dopo l'arresto, postando l'immagine drammatica dell'autopsia del fratello. «Lo devo a mia madre che, pur estremamente sofferente, ha trascorso tutta la giornata del 14 novembre scorso in attesa di una sentenza che ci rendesse giustizia. Lo devo a mio padre la cui fiducia nello Stato ha fatto sì che compisse il sacrificio più pesante che si potesse chiedergli: denunciare il proprio figlio, da morto e dopo averlo visto in queste terribili condizioni, per la sostanza stupefacente trovata a casa sua». «Dopo Carola Rackete, mi querela la signora Cucchi? Nessun problema, sono tranquillissimo, dopo le minacce di morte dei Casamonica e i proiettili in busta, non è certo una querela a mettermi paura», aveva replicato il segretario della Lega. Provocazione? «Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia, chi ha sbagliato ha pagato».
Minacce di morte a Ilaria Cucchi: «Salvini che ne pensa?» Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Una pallottola in testa. È l’auspicio contenuto in un messaggio di morte, scritto nero su bianco, indirizzato a Ilaria Cucchi a 24 ore dall’annuncio della querela nei confronti del leader della Lega, Matteo Salvini. Ed è proprio all’ex ministro che si rivolge la sorella di Stefano, il ragazzo per la cui morte sono stati condannati due carabinieri, pubblicando l’immagine in cui le viene augurata la morte. «Chiedo a Matteo Salvini e a tutti gli iscritti alla Lega cosa pensano di questo post - scrive Ilaria -. Dato che viene da un soggetto che ha un profilo nel quale si dichiara loro sostenitore. Non posso far altro che denunciare ma mi rendo conto che di fronte a tutto questo io e la mia famiglia siamo senza tutela». Il post («a sta str...a qualcuno metterà una palla in testa prima o poi, a prescindere da quest’ultima stronzata») è stato pubblicato da un account che ha tutte le caratteristiche dell’odiatore seriale, probabilmente creato ad hoc per diffondere messaggi diffamatori e minacce sui social, come troppo spesso accade. Quello rilanciato da Ilaria Cucchi non è l’unico messaggio minatorio indirizzato alla donna, tirata in ballo già il 19 novembre scorso, commentando l’intenzione della sorella di Stefano di querelare Salvini. «Insistendo, insistendo otterrà quello che vorrà», aveva scritto aggiungendo l’emoticon di un diavolo. Innumerevoli i post contro il movimento delle Sardine e a favore della Lega e del suo leader. In un paio di messaggi auspicava un attentato alle moschee o al parlamento europeo tanto da essere sospeso da Facebook più di una volta. Esattamente come accaduto subito dopo la sentenza di condanna dei carabinieri, e come ribadito ieri dopo l’annuncio della querela partita da Ilaria Cucchi, anche oggi Matteo Salvini è tornato a rilanciare la stessa identica dichiarazione, senza citare direttamente il caso Cucchi. «La droga fa male sempre e comunque - ha detto -, spero di non essere denunciato se il sabato pomeriggio denuncio che la droga fa male, sempre e comunque». Proprio ieri la stessa Ilaria era tornata a chiedere di interrompere lo «spettacolo» dell’ex ministro «sulla pelle» della famiglia Cucchi, depositando ufficialmente la querela contro l’ex vicepremier e contro chiunque infanghi il nome di Stefano.
Lettera aperta a Ilaria Cucchi. Il Corriere del Giorno il 15 Novembre 2019. Un allievo ufficiale dei Carabinieri dell’Accademia Militare scrive senza firmarsi a Ilaria Cucchi, il cui comportamento è del tutto riprovevole. "Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, sono un carabiniere senza infamia e senza lode, un onesto lavoratore, e volevo dirle che poche parole si possono trovare per commentare questa assurda tragedia, stante che quanto accaduto a suo fratello è qualcosa di aberrante, atroce, ingiusto, qualcosa che non avrebbe mai dovuto succedere. Lei non ha mollato fino alla fine e grazie alla sua caparbietà ora giustizia è stata fatta. Chi ha pestato e ucciso Stefano non era evidentemente degno di portare la divisa che indossava. Ma questi soggetti non devono pagare solo per Cucchi, per Lei e per i suoi familiari, devono pagare per tutti quegli uomini che dentro quella divisa ci mettono l’anima, il cuore, il sudore e molto spesso ci rimettono la loro stessa vita, per il bene di tutti e ciò per pochi soldi. Perchè il loro è un sacrificio quotidiano che non puó e non deve essere infangato da 4 delinquenti. Suo fratello meritava di più, meritava assistenza, aiuto, comprensione, meritava di tentare l’ennesimo percorso di recupero e non certo di morire in questo modo. Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato ed a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia, in risposta, al telefono, sono volati solo insulti nei confronti di Stefano, e sua madre aggiunse che “non avrebbe speso altri soldi per quel delinquente di suo figlio e avrebbe dovuto fare avanti il barbone per strada”. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi che fu lei a non far vedere i nipoti a Stefano da ben 2 anni, certo per proteggerli da lui, dal suo stato di tossicodipendenza, da suo fratello che frequentava ambienti loschi, e fu sempre lei che non volle più nella sua vita, ed anche tutta la sua famiglia emarginò ed abbandono. Rimase così solo e perduto come un cane randagio. Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico, conseguendo anche un giusto rimborso di un milione di euro (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano. La “pulizia” andava fatta (anche per i fiancheggiatori) ed era sacrosanta. Dispiace però un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli, non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece, da quando si è candidata per la sinistra, ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe! Una perdita immensa! No sig.ra Ilaria, Stefano non era un eroe, gli eroi son altri, era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato, anche se si era perduto. Forse sarebbe stato meglio dimostrarsi caparbia anche nei tragici momenti della dipendenza, quando era un ragazzo allo sbando e finì nelle mani dei suoi aguzzini, ovvero preoccuparsi di lui prima di tutto ciò, prima che tutto diventasse “troppo tardi“! Stefano aveva tanto bisogno della sua grande caparbietà!!!! Ma ormai è troppo tardi per tutti! Da questa vicenda ne usciamo sconfitti tutti quanti, tutta la nostra società, Lei compresa. Da par mio spero di continuare a servire il mio paese nel miglior modo possibile: la morte di Stefano ha insegnato a me e ad altri tante cose, per non errare di nuovo in futuro. Spero che tale insegnamento abbia raggiunto anche Lei! Firmato: un carabiniere qualunque". (La lettera non è firmata e circola sul web, ma interpreta il comune sentire di milioni di cittadini).
Cucchi, parla per la prima volta il generale Gallitelli: «Quei militari hanno tradito l’Arma». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Sono addolorato per l’afflizione della famiglia Cucchi, provocata da chi ha commesso violenze, ha tradito la verità e con essa anche l’Arma», dice in tono grave il generale Leonardo Gallitelli. Tra il 2009 e il 2015 — dunque al tempo dell’arresto, del pestaggio, della morte di Stefano Cucchi e dei falsi con cui si tentò di inquinare le prove — è stato comandante dei Carabinieri, e raggiunto dopo la sentenza che per quei fatti ha condannato quattro appartenenti all’Arma concede solo questo rapido e sofferto commento. Ammettendo e stigmatizzando per la prima volta, dopo dieci anni di riserbo, responsabilità e reati che non si fermano all’omicidio preterintenzionale, ma comprendono anche le bugie contenute nei primi atti sul fermo di Cucchi redatti dagli imputati. Gallitelli sa bene che le manomissioni della verità da parte di ufficiali e sottufficiali dell’Arma, secondo quanto emerso dalle indagini della Procura di Roma, vanno oltre il verdetto dell’altro ieri, e saranno giudicate nel processo contro altri otto carabinieri che comincerà tra un mese. Di quello però il generale in pensione non vuole e non può parlare: il suo nome è inserito nella lista testi presentata dai legali dei Cucchi, e dunque è possibile che sia chiamato a deporre in tribunale. Tuttavia la reazione alle quattro condanne di altrettanti uomini in divisa si inserisce nel solco di quella dell’attuale comandante, Giovanni Nistri. Che oltre a ribadire solidarietà alla famiglia della vittima, s’è costituito parte civile nel processo sui depistaggi. La parola chiave è «tradimento» dei doveri e dei valori dell’Arma. Addebitato ai responsabili (seppure ancora solo nel giudizio di primo grado) sia della morte di Cucchi — i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo — sia a chi ha sottoscritto i falsi contenti nel verbale d’arresto del detenuto: il maresciallo ex comandante di stazione Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, che confessò di aver assistito al pestaggio con nove anni di ritardo (le false testimonianze commesse durante il processo agli agenti penitenziari poi assolti, invece, sono state giudicate non punibili dalla Corte d’Assise). Ma in un Paese dove la macchina della propaganda elettorale è sempre in moto, la sentenza finisce per alimentare anche le immancabili polemiche politiche. L’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini non fa in tempo a esprimere vicinanza ai Cucchi che aggiunge: «Questo dimostra che la droga fa male, sempre e comunque, e io combatto lo spaccio di droga, sempre e comunque». Una postilla che solleva l’indignazione di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano con cui il capo leghista aveva già battibeccato quando disse che un suo messaggio su facebook «faceva schifo». Ieri Ilaria ha replicato: «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», annunciando la possibilità di querelare l’ex ministro. La famiglia di Stefano non ha mai negato che avesse avuto in passato problemi di droga, né che fosse uno spacciatore. La sera dell’arresto Cucchi, sorpreso a cedere due «canne» a un amico, aveva con sé 20 grammi di hashish e 2 di cocaina. Ma soprattutto, all’indomani del decesso sono stati i genitori a scoprire, nella casa in cui abitava da solo, oltre un etto di cocaina e quasi un chilo di hashish, non recuperati dai carabinieri. Potevano distruggere la droga e nessuno ne avrebbe saputo niente, invece l’hanno consegnata alla polizia, di fatto denunciando il figlio dopo la sua morte. Avvenuta — secondo la sentenza di giovedì — come conseguenza del pestaggio, che nulla aveva a che vedere con lo spaccio. La frase di Salvini ha riacceso lo scontro con gli ex alleati del Movimento Cinque Stelle: Luigi Di Maio e Nicola Morra lo invitano a chiedere scusa alla famiglia Cucchi, mentre la sindaca di Roma Virginia Raggi definisce «vergognose le parole di Matteo Salvini su Stefano Cucchi».
Cucchi, bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale Palozzi: "La sorella sfrutta il fratello tossico". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. È bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Adriano Palozzi. Il totiano è finito nel mirino delle critiche per aver accusato la sorella di Stefano Cucchi di aver sfruttato la tragedia per un briciolo di notorietà. "Stefano ha avuto finalmente giustizia (Bah)! La sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare) - scrive sul suo profilo Facebook a ridosso della sentenza che condanna due carabinieri -. Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso!". Poi Palozzi conclude il discorso con un'altra durissima frase: "Per carità nessuno può morire e deve morire di botte ma neanche può passare per vittima o per eroe lui e tantomeno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!". A replicare ci ha pensato il segretario del Pd del Lazio, il senatore Bruno Astorre. "Non varrebbe la pena replicare né fare polemica con chi immagino sia in cerca di visibilità sfruttando il dramma di una famiglia - fa sapere in una nota -. Voglio, tuttavia, ringraziare Ilaria Cucchi per aver combattuto una battaglia di civiltà, sui diritti che ha aiutato tutto il Paese a compiere passi avanti nelle coscienze di ciascuno perché lo stato di diritto vale per tutti anche per chi specula sui drammi".
Matteo Salvini a Ilaria Cucchi: "Mi quereli pure, la droga fa male. Punto". La sfida è totale. Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Dopo la querela presentata da Ilaria Cucchi nei suoi confronti, Matteo Salvini non arretra di un millimetro. Il leader della Lega, dopo la condanna di due carabinieri a 12 anni per l'omicidio di Stefano Cucchi, aveva commentato la sentenza dicendo che "la droga fa sempre male". Parole per le quali, come detto, la Cucchi lo ha querelato. E oggi, mercoledì 20 novembre, alla Camera per presentare degli emendamenti alla manovra sul comparto sicurezza, Salvini è stato interpellato sulla querela: "Ilaria Cucchi? Non entro nella mente di nessuno, la droga fa male, punto. E combatto la droga ovunque e comunque, punto. A meno che qualcuno mi dimostri che la droga fa bene". Insomma, Salvini ribadisce il concetto dopo la querela. Quindi, aggiunge: "La giustizia sta facendo il suo corso, che poi la droga non aiuti i nostri ragazzi mi sembra evidente. No, lo ripeto ogni giorno: la droga fa male, la droga fa male. Se poi secondo lei la droga fa bene abbiamo due punti di vista scientificamente diversi". E ancora, sui carabinieri condannati: "Se qualcuno ha sbagliato andrà in galera, alla fine del percorso. Ribadisco che la droga fa male. Se qualcuno dei qui presenti sostiene che la droga faccia bene sono disposto ad un dibattito accademico". Un giornalista, infine, dice rivolgendosi al ministro dell'Interno che accostare le due cose non ha senso: "Se vuole andare avanti a farmi la stessa domanda, le do la stessa risposta", conclude Matteo Salvini, tranchant.
Ilaria Cucchi: «Candidata sindaco a Roma? Ecco cosa volevo dire». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Ho detto che sono pronta a presentarmi come sindaco di Roma purché tutti i partiti facciano un passo indietro. Più una provocazione che altro e infatti sono rimasta a casa. Ora penso a godermi questo momento di riconciliazione con me stessa. Avevamo ragione noi, faccio ancora fatica a pensare che ce l’abbiamo fatta». Con queste parole Ilaria Cucchi è intervenuta durante il programma Lavori in Corso in onda su Radio Radio e Radio Tv, commentando la recente condanna a 12 anni dei due carabinieri accusati dell’omicidio preterintenzionale del fratello. Nel corso dell’intervista, è poi tornata ad attaccare l’ex ministro dell’Interno che aveva affermato «il caso testimonia che la droga fa male». Matteo Salvini —ha chiarito Cucchi — «fa speculazione su mio fratello, è uno sciacallo. Fa politica di basso livello sulla morte di mio fratello e sulla nostra storia. Arriva al punto di parlare ancora di droga nel momento in cui sono state emesse le sentenze di condanna per omicidio dopo dieci anni dalla morte di mio fratello». Ma che ci vuole dire — ha aggiunto — «che i drogati devono essere uccisi? Secondo me lui è completamente fuori dal mondo». Il giorno della sentenza, ha raccontato, «mia madre che sta molto male è rimasta tantissime ore in quell’udienza ad aspettare la pronuncia. Mio padre è una persona talmente per bene e onesta che a pochi giorni dalla morte di Stefano ha denunciato suo figlio per aver trovato un quantitativo di droga nella sua abitazione di Morena. Questa è la nostra famiglia. Anche io da madre ho paura della droga, anche io sono contraria, ma qui parliamo di omicidio preterintenzionale non di droga». E ha concluso: «Salvini si preoccupi di casa sua, pensi a loro, non alla mia famiglia. Probabilmente sarà ancora sotto gli effetti del mojito. La querela — ha concluso — è in via di presentazione».
Sentenza Cucchi, la frase di Salvini applicata a Salvini: anche rubare fa male. Francesco Oggiano il 19/11/2019 su Notizie.it. Immaginate che Matteo Salvini venga convocato in Procura per riferire sui 49 milioni rubati dalla Lega e nascosti ai cittadini italiani. E che durante l’interrogatorio venga picchiato dagli agenti di Polizia. Ora immaginate che un esponente politico avversario, anziché gridare allo scandalo, condannare i colpevoli e chiedere giustizia, commenti: “Questo prova che il furto fa male”.
La pseoudoideologia portata avanti dalla destra. Pressapoco il medesimo, è il senso logico adottato da Salvini dopo la condanna dei poliziotti per il pestaggio di Cucchi. “Il caso dimostra che la droga fa male”. Davanti alla querela annunciata dalla sorella Ilaria, il leader leghista ha rilanciato e ha offerto una pratica lezione di giornalismo: “Ancora adesso si ricorda qualcuno che sarebbe stato (occhio al condizionale, ndr), in passato, malmenato (occhio pure al verbo, ndr) dalle forze dell’ordine, però scommetto che oggi quasi nessun giornale, quasi nessun telegiornale ricorderà che proprio il 19 novembre di 50 anni fa fu ucciso il primo poliziotto a Milano, Antonio Annarumma”.
Però, continua, “Si rompono le scatole a qualcuno se dice che la droga fa male”. È l’ultimo rifugio della pseudoideologia portata avanti a pappagallo da diversi esponenti di destra in questi anni, che hanno voluto marcare la tossicodipendenza della vittima per cercare di renderla un po’ meno vittima, una frase alla volta. Tra le più assurde: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze“, Gianni Tonelli, leghista ed ex capo del sindacato di polizia Sap. “Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell’attenzione di oggi, sarebbe ancora vivo”, Maurizio Gasparri. “Cucchi era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”, Roberto Formigoni. “Se Cucchi avesse condotto una vita sana, se non si fosse drogato, se non fosse entrato in un tunnel che poi l’ha portato agli arresti, non sarebbe successo”, Carlo Giovanardi. Ora ci è tutto chiaro: l’hanno massacrato di botte coi panetti di fumo.
Carlo Cambi per “la Verità” il 5 dicembre 2019. La droga fa male? È comunque una storia di dipendenza. Perché dipende: se la droga serve a sottacere che quattro africani clandestini hanno stuprato e ammazzato una quasi-bambina di 16 anni, se è utile a non far emergere che con l' immigrazione abbiamo importato la mafia nigeriana e che un nigeriano ha fatto a pezzi una ragazzina di 18 anni, oppure se va rimossa da una storiaccia di botte e di violenza finita con la morte di un uomo, ancora più grave se a picchiare è chi porta una divisa della Repubblica Italiana. Sono tutte storie di droga, ma c' è una certa differenza. In due è in dosi mortali, in una è solo uno sfumato fondale della scena del delitto. Lo spunto per rifletterci lo ha fornito l'house organ del politicamente corretto. Per annunciare il processo cominciato in Corte d' assise a Roma per l' uccisione di Desirée Mariottini, 16 anni, ieri Repubblica ha dedicato una mezza pagina a un' intervista a Barbara Mariottini, la mamma della quasi-bambina ammazzata. Non c' è una riga sul fatto che ieri mattina nell' aula bunker del carcere di Rebibbia sono comparsi come imputati con l' accusa di omicidio volontario aggravato, violenza carnale aggravata, cessione di stupefacenti a minori quattro africani: Alinno Chima, Mamadou Gara, Yussef Salia e Brian Minthe. Per l' accusa sono loro ad aver prima drogato Desirée con un cocktail micidiale di stupefacenti, poi abusato a turno e per ore della ragazza e infine ucciso quella quasi-bambina. Tutto è avvenuto la sera del 19 ottobre di un anno fa in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, a due passi dalla Stazione Termini. Quello è un luogo proibito anche alle forze dell' ordine: lì bivaccano i clandestini, lì il domino è delle bande di criminali africani che spacciano. Ma per Repubblica che ha un tono contrito con mamma Roberta tanto da non fare nessuna domanda sui presunti assassini, Desirée è stata ammazzata dalla droga. Nell' intervista si cerca di scavare nel passato di quella quasi-bambina. Che passato può essere quello di una creatura che ha vissuto 190 mesi? Eppure c' è spazio solo per determinare come Desirée ha cominciato a usare psicotropi, o per sapere da una mamma che ha perso una figlia massacrata da quattro spacciatori clandestini se è giusto denunciare un figlio che si droga per salvarlo. Perché la morte di Desirée è come l' intervista: stupefacente. Se ne conclude che Repubblica ha scoperto e ribadisce che la droga fa male. Ma dipende. Perché quando Matteo Salvini da ministro dell' Interno lo ha detto a proposito dell' uccisione di Stefano Cucchi gli sono saltati addosso tutti. Per prima la sorella del geometra arrestato per spaccio, Ilaria Cucchi, che nei giorni scorsi si è fatta fotografare con la querela depositata contro Salvini. Che cosa aveva detto il capo della Lega? Commentando la sentenza di condanna di cinque carabinieri, di cui due per omicidio preterintenzionale, pronunciata dalla Corte d' Assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi procurata - così hanno stabilito i giudici - dalle botte che l' uomo ha ricevuto in caserma dopo il suo arresto per spaccio Salvini aveva affermato: «Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l' ho invitata al Viminale. Se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la droga fa male, sempre e comunque. E io combatto la droga in ogni piazza». Ma a Ilaria Cucchi questo non è piaciuto affatto. Perché come ha scritto su Facebook la sorella: «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo». Ed è certamente vero che la morte di Stefano Cucchi - il 22 ottobre di dieci anni fa - è avvenuta dopo l'arresto e il ricovero al Pertini di Roma, ma è del pari vero che il geometra romano aveva precedenti per spaccio. E allora la droga fa male? Dipende: dal caso Cucchi la droga è sparita. Il racconto era altro perché è aberrante che un arrestato venga pestato a morte. Non è accettabile che uomini in divisa che devono difendere la legge e portano le insegne della Repubblica si macchino di una così feroce violenza. Ma allora perché la droga e solo la droga emerge nel caso di Desirée? È inaccettabile che quattro immigrati africani uccidano una quasi bambina attirandola con gli stupefacenti e facciano scempio della sua adolescenza. Ma è un dejà vu. Pamela Mastropietro, la diciottenne romana drogata, violentata e ammazzata a Macerata il 31 gennaio 2018 e il cui corpo fu ritrovato fatto a pezzi in due trolley. Per il delitto sconta l' ergastolo Innocent Oseghale un nigeriano spacciatore anche lui arrivato da clandestino. Si sospetta che sia un esponente della mafia nigeriana, ma la Procura lo ha sempre smentito. Anche lo scempio di Pamela si è cercato di spiegarlo con la droga. Lei, si è detto in ambienti della sinistra, era una povera tossicodipendente. Pamela, Desirée sono morte perché la droga fa male. Anzi crea dipendenza. Perché dipende se serve al politicamente corretto.
· Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.
Stefano Cucchi, l’avvocato di Tedesco: “Non è rimasto inerte davanti al pestaggio. Piccola rondella di un ingranaggio potente”. Alla fine della sua arringa l'avvocato ha chiesto l'assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula "per non aver commesso il fatto". Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l'assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale "per non aver commesso il fatto" e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. Il Fatto Quotidiano il 29 ottobre 2019. “Francesco Tedesco non è rimasto inerte davanti al pestaggio di Cucchi, lo stavano massacrando di botte, Tedesco intima a Di Bernardo e D’Alessandro di smetterla, non vi permettete dice, e riferisce l’accaduto a un superiore”. Per difedendere il suo assistito l’avvocato Eugenio Pini ha ripercorso in aula le parti principali della sua testimonianza sul pestaggio di Stefano Cucchi. Francesco Tedesco è l’imputato-testimone che con le sue dichiarazioni ha accusato altri due carabinieri svelando le botte che, secondo l’accusa, portarono alla morte del giovane, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e poi morto in ospedale una settimana dopo. Nel processo in corso sono imputati cinque carabinieri, tre dei quali – compreso Tedesco – accusati di omicidio preterintenzionale. E oggi Tedesco è presente in aula al fianco dei suoi difensori. Il difensore nel suo intervento ha spiegato che Tedesco era presente al momento del pestaggio ma intervenne per bloccare i suoi due colleghi. Tedesco, ha ricostruito il legale, ha liberato Cucchi “dalla morsa” dei due carabinieri “prima richiamando verbalmente il collega Di Bernardo e poi stoppando materialmente Raffaele D’Alessandro. Tedesco ha soccorso e protetto il ragazzo salvo poi, una volta lasciata la caserma, avvertire il comandante Mandolini di quanto accaduto poco prima”. Da lì, però, passarono nove anni prima che raccontasse la verità a un magistrato. “Le parole pronunciate da Tedesco mentre D’Alessandro e Di Bernardo stavano pestando Stefano, "Smettetela!! Non permettetevi!! Che cazzo fate?!?!", non sarebbero state sicuramente sufficienti a fermare la furia della violenza dei colleghi. Ci doveva essere un intervento fisico come è effettivamente accaduto”, ha scritto su facebook Ilaria Cucchi al termine dell’udienza. “In questa vicenda Francesco Tedesco ha rappresentato inconsapevolmente la più piccola e debole rondella di un ingranaggio smisurato e potente che per una volta ha ruotato in controfase. Lui ha cercato di fermare questo meccanismo ma ne è stato inesorabilmente travolto, investito”, ha detto il legale nella sua arringa. “Francesco Tedesco – ha aggiunto l’avvocato Pini – ha percorso un sentiero solitario; poi c’è stata la sua vittoria, una vittoria umana. Oggetto di questo processo è accertare se ha o meno concorso nell’omicidio di Stefano Cucchi, non misurare la tempestività o la puntualità delle sue dichiarazioni. Anche perché noi dobbiamo pensare in termini di relatività agli anni di silenzio; sia in termini soggettivi, domandandoci cosa avremmo fatto noi o meglio cosa avremmo potuto fare noi, sia in termini oggettivi. C’è qualcuno in questa aula che possa con certezza affermare che il pacchetto conoscitivo di cui disponeva Tedesco, se svelato anche un giorno prima, sarebbe restato integro e fruibile e non sarebbe stato sminato e combattuto fino a farlo disperdere?”. La richiesta è di “restare sordi innanzi a ogni tentativo di correlare il momento delle sue dichiarazioni alla sua credibilità; restare sordi innanzi ai tentativi di farlo nuovamente immergere nel silenzio; restare sordi innanzi a ogni tentativo di renderlo ridicolo; restare sordi innanzi a tutto quanto è periferico al processo anzi extraperimetrale”. Alla fine della sua arringa l’avvocato ha chiesto l’assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula ‘per non aver commesso il fattò. Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale ‘per non aver commesso il fatto’ e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. L’accusa ha chiesto invece di condannare a 18 anni di carcere Di Bernardo e D’Alessandro, i due presunti autori del pestaggio. Chiesta poi per l’accusa di falso la condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini, mentre il non doversi procedere per prescrizione dall’accusa di calunnia è stata chiesta per Tedesco, Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.
Lorenzo Attianese per l'ANSA il 31 ottobre 2019. Testimoni eccellenti in aula, per fare chiarezza sulla vicenda dei presunti depistaggi che sarebbero avvenuti dopo la morte di Stefano Cucchi. A chiedere che vengano a testimoniare nei prossimi mesi, in vista della prima udienza al nuovo processo Cucchi, quello sui presunti insabbiamenti messi in atto dalla scala gerarchica, sono i legali della famiglia di Stefano. In una lista di oltre trenta testi, che verrà depositata dall'avvocato Fabio Anselmo in vista della prima udienza al quinto processo Cucchi, ci sono anche i due ex ministri della Difesa, Elisabetta Trenta e Ignazio La Russa, e il comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri. Tra i generali c'è anche Vittorio Tomasone, che la parte civile chiede di ascoltare in merito a quanto l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma apprese circa l'inchiesta disposta dopo la morte di Stefano, sulla riunione che lo stesso generale tenne con i militari qualche giorno dopo e sulle informazioni apprese sugli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo del giovane. E proprio quelle note mediche presenti nella relazione del 30 ottobre saranno sotto l'attenzione degli inquirenti, perché all'epoca quel documento anticipava le conclusioni di esperti medici legali che ancora dovevano essere nominati. Tra gli altri generali che figurano nella lista testimoni e che potrebbero essere convocati in aula, ci sono Leonardo Gallitelli, Tullio Del Sette, Biagio Abrate e Salvatore Luongo. Alla sbarra, dal prossimo 12 novembre, ci saranno otto carabinieri, tutti componenti della catena di comando che secondo gli inquirenti avrebbe depistato le indagini per accertare le cause sulla morte di Stefano. Tra gli imputati ci sono anche alti ufficiali dell'Arma, che avrebbero orchestrato il tentativo di insabbiamento della verità sulla morte del geometra romano. L'imputato al processo con il più alto grado nell'Arma, l'allora comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa. Per l'accusa i depistaggi partirono proprio da quest'ultimo e a cascata furono 'messi in atto' dagli altri secondo i vari ruoli di competenza. Gli altri imputati sono il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, accusato di omessa denuncia; Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, già comandante della Compagnia Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all'epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni. Nel procedimento l'Arma dei carabinieri si è costituita parte lesa. Il prossimo 14 novembre sono invece previste due sentenze riguardo ad altri due importanti procedimenti sul caso Cucchi: quella al processo d'appello 'ter', nei confronti medici dell'ospedale Pertini, e quella riguardante la Corte d'Assise, che prenderà la decisione nell'altro processo a cinque militari dell'Arma, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per il presunto pestaggio.
L’ultima anomalia del caso Cucchi. La famiglia chiede che un giudice si astenga dal processo sui presunti depistaggi perché “troppo vicino ai carabinieri”: avrebbe partecipato a convegni con ufficiali dell’Arma. Maurizio Tortorella il 28 ottobre 2019 su Panorama. Tra le mille stranezze e anomalie del caso di Stefano Cucchi, il giovane tossicodipendente morto nell’ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare (da anni le cause della sua morte e le responsabilità sono oggetto di procedimenti giudiziari che coinvolgono alcuni militari dell’Arma dei Carabinieri e i medici dell'ospedale Pertini), ora c’è anche la decisione dei suoi familiari di chiedere l’astensione dal giudizio di Federico Bona Galvagno, magistrato del Tribunale di Terni. Galvagno dovrebbe giudicare nel processo appena avviato su presunti depistaggi legati al caso, un procedimento che vede fra gli imputati alcuni alti ufficiali dei carabinieri, ma secondo i familiari di Stefano Cucchi lo stesso Galvagno tra il 2016 e il 2018 avrebbe partecipato a una serie di convegni, inaugurazioni e conferenze cui ha preso parte fra gli altri anche l’ex comandante generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette. Per Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi, questo motivo basterebbe a fare del giudice Galvagno un magistrato “troppo vicino ai carabinieri”. In realtà, se passasse il principio che non debba partecipare a un qualsiasi giudizio che coinvolge aderenti alle forze dell’ordine un giudice che abbia partecipato a iniziative o manifestazioni pubbliche organizzate dalle stesse, probabilmente nessun processo di quel tipo potrebbe aver luogo. A essersene accorto è il solo Carlo Giovanardi, ex ministro, oggi rappresentante di Idea Popolo e Libertà: “A me pare un principio impossibile” dice. Giovanardi ricorda anche che la richiesta della famiglia Cucchi “avrà comunque un suo effetto sul prossimo processo, sia che il giudice Galvagno si astenga, sia che invece decida di confermare il suo impegno, ipotizzando ombre sul suo svolgimento, avendo lo stesso avvocato Anselmo precisato che questa scelta è stata fatta con l’obiettivo di sgomberare qualsiasi ombra da questo processo”.
Carlo Bonini per ''la Repubblica'' il 26 ottobre 2019. La battaglia della famiglia Cucchi non è finita. E alla vigilia ormai del terzo processo che si aprirà il 12 novembre agli otto tra ufficiali e sottufficiali dell' Arma imputati a diverso titolo per i depistaggi che, nel 2009 e nel 2015, impedirono di arrivare tempestivamente alla verità sull' omicidio di Stefano e sui suoi responsabili, Ilaria e i suoi genitori Rita e Giovanni (e con loro tutte le parti civili private che si sono sin qui costituite, dunque anche gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente processati nel primo giudizio di merito), chiedono formalmente, con un' istanza che è stata depositata al presidente del Tribunale di Roma, che il giudice monocratico assegnato a quel dibattimento si astenga "per gravi ragioni di convenienza". Il magistrato si chiama Federico Bona Galvagno e, fino alla primavera scorsa, è stato giudice a Terni. Ma, quel che conta, per la parti civili del processo per il depistaggio degli ufficiali dei carabinieri, è stato ed è "troppo vicino" all' Arma. E in particolare a uno dei suoi ex comandanti generali, Tullio Del Sette, per altro attualmente imputato proprio a Roma per violazione del segreto di ufficio nell' inchiesta Consip. «Da un casuale accesso a fonti aperte - si legge infatti nell' istanza depositata in tribunale - è emerso che il giudice Bona Galvagno ha partecipato, quale magistrato appartenente al Tribunale di Terni, a una serie di eventi (convegni, inaugurazioni, conferenze) tenutisi tra il 2016 e il 2018 che, sia per l' oggetto, sia per i partecipanti (tra gli altri, alti appartenenti all' Arma dei carabinieri), hanno attirato l' attenzione degli scriventi». In particolare, l' istanza ne elenca due: L' incontro dell' 8 maggio 2018, dal titolo "Sicurezza e Carabinieri: l' Arma oggi tra le forze dell' ordine" alla presenza dell' allora comandante generale Tullio Del Sette. E quello del successivo 22 novembre dello stesso anno - "Il ruolo dei Carabinieri nell' attuale mutamento socio-culturale", sempre alla presenza del generale Del Sette. Troppo - a giudizio dei Cucchi - per scacciare il dubbio che quel magistrato coltivi un' istintiva e consolidata vicinanza o, comunque, una non sufficiente serenità, per sedersi da giudice monocratico nell' aula dove si dipanerà il filo del più importante forse dei tre processi celebrati per la morte di Stefano. Quello sui depistaggi, appunto. Dove per altro il generale Del Sette, quale ex comandante generale dell' Arma negli anni in cui uno dei due depistaggi si consumò, verrà chiamato a deporre. E dove, inevitabilmente, uno dei nodi cruciali sarà comprendere per quale motivo un' intera catena gerarchica (quella dei carabinieri di Roma) cospirò per il silenzio lasciando che venissero accusati degli innocenti (tre agenti della polizia penitenziaria). E, soprattutto, se di quel silenzio fu o meno complice il vertice stesso dell' Arma (due i comandanti generali che si sono avvicendati tra il 2009 e il 2015, Gallitelli e Del Sette). «La situazione di fatto che si è venuta a creare - si legge così nell' istanza di astensione - può concretare quelle gravi ragioni di convenienza che i difensori delle parti civili ritengono sussistenti in relazione allo specifico tema del processo () Inoltre, dato il clima di forte sospetto dell' opinione pubblica sul tema oggetto del processo, la divulgazione mediatica delle informazioni sopra riportate, potrebbero far nascere speculazioni che finirebbero per influire sul clima di sereno giudizio necessario al corretto svolgersi del dibattimento». Si vedrà quale sarà la decisione del tribunale. Certo, questo incipit aiuta a comprendere quale sia la partita che andrà a cominciare tra due settimane (appena due giorni prima della sentenza che deciderà sui tre carabinieri imputati per l' omicidio di Stefano). Un processo dove l' Arma, per altro, sarà a sua volta parte civile e dunque accusa privata contro i suoi otto ufficiali.
Omicidio di Stefano Cucchi: dieci anni senza giustizia. Le Iene il 21 ottobre 2019. Dieci anni fa Stefano Cucchi moriva dopo un pestaggio violento di alcuni carabinieri. Un pestaggio che i Pm hanno definito "degno di teppisti da stadio". Con Gaetano Pecoraro e Pablo Trincia vi abbiamo raccontato in più servizi la tragica vicenda di Stefano Cucchi e la coraggiosa lotta per la verità portata avanti dalla sorella Ilaria. Dieci anni fa moriva Stefano Cucchi. Di un pestaggio violento da parte due carabinieri, un pestaggio che i giudici hanno definito “degno di teppisti da stadio”. Mentre si trovava nelle mani di uomini dello Stato, che avrebbero dovuto essere un presidio di giustizia. È un tristissimo anniversario quello che si consuma il 22 ottobre 2019 per un crimine che non ha ancora avuto giustizia. Proprio in questo giorno esce il libro della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi e dell'avvocato Fabio Anselmo, che ha seguito tutti i processi, "Il coraggio e l'amore". Il libro ricorda quel ragazzo sano e allegro di 31 anni: "Nulla poteva far pensare che fosse in pericolo di vita" e ripercorre una battaglia giudiziaria che è già storia d’Italia. Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso della morte di Stefano Cucchi. Il ragazzo viene fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. Stefano muore il 22 ottobre, in ospedale, mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di depistaggio e due di omicidio preterintenzionale. Uno di questi carabinieri, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Lo stesso pm Giovanni Musarò, nella requisitoria del processo ai militari, ha ricostruito le ultime tragiche ore di Stefano: “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore. Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. Il detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli, aveva raccontato: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... 'Si sono divertiti', mi aggiunse". Pablo Trincia aveva intervistato l’ex moglie di un altro imputato (nel servizio che potte rivedre sopra), il carabiniere Raffaele D’Alessandro che racconta come l’ex marito parlava del caso: “Eh, c'ero anch'io quella sera là, quante gliene abbiamo date a quel drogato di merda”. Una tragedia a cui si è aggiunto un vergognoso depistaggio, come ha spiegato ancora il pm: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il prossimo 14 novembre è attesa la sentenza nel processo bis che vede indagati i cinque carabinieri, due dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Il pm ha chiesto 18 anni di carcere per i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.
«Senza le fratture Stefano Cucchi non sarebbe morto». Le parole dei periti in aula. La sorella Ilaria: «Dopo 10 anni è stato detto in tribunale quello che tutti sapevamo fin dall’inizio» Simona Musco il 16 giugno 2019 su Il Dubbio. A causare la morte di Stefano Cucchi ci sono più cause legate tra loro. Ma senza la frattura alla vertebra, causata dal pestaggio in caserma, probabilmente il giovane non sarebbe morto. È quanto ha detto ieri in aula bunker, a Rebibbia, Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari e perito del gip, sentito nel processo bis sulla morte del geometra romano, in merito alla perizia redatta nel 2016 dal collegio di esperti nominati dal gip, nella quale si parla di «morte improvvisa ed inaspettata per epilessia». Ma la malattia, hanno chiarito ieri i periti, non era «l’unica causa del decesso di Stefano Cucchi. Non abbiamo certezze». Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Per la sua morte sono imputati cinque militari, tre dei quali per omicidio preterintenzionale. Sono due le ipotesi sul piatto. La prima, non per importanza, ha chiarito Introna, parte da elementi concausali, come «il grave dimagrimento ( 15 chili in 7 giorni), la inanizione marcata, cronica, e la presenza anche di cardiopatie mai emerse» e che «da sole non avrebbero mai portato alla morte il soggetto». La seconda , invece, è quella di maggiore rilievo, ha spiegato il medico legale, ed è proprio quella che chiama in causa le fratture. Ed «ha un peso maggiore – ha aggiunto – essendo documentata». Si basa sulle «lesioni inferte», ovvero una frattura a livello del rachide lombare e una a livello del rachide sacrale. Quest’ultima, ha spiegato Introna, ha determinato «una vescica neurogena, ovvero una mancata sensazione della vescica» e una sua «dilatazione», con conseguente «riflesso vagale». Situazione che «insieme alla cardiopatia, all’inanizione, alla tossicodipendenza» ha determinato «la morte per un’aritmia». Ma quanto ha influito sull’evento morte quella frattura? «Se non ci fosse stata la lesione alla vertebra S4 il soggetto, verosimilmente, non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni, ovvero immobile nel letto, per problemi connessi alle fratture lombari. Non avrebbe avuto la vescica atonica e neurogena, probabilmente avrebbe avuto uno stimolo alla diuresi». Insomma, senza la frattura «e se il catetere non si fosse inginocchiato o ostruito, verosimilmente la morte del Cucchi non sarebbe accorsa o sarebbe accorsa in un altro momento». E oggi, dopo 10 anni, secondo la sorella della vittima, Ilaria Cucchi, «è stata detta la verità in un’aula di tribunale», quella che «tutti sappiamo fin dal principio: se Stefano Cucchi non fosse stato vittima di quel pestaggio non sarebbe mai finito in ospedale e non sarebbe molto». «Ora nessuno potrà dire che è morto per colpa propria», ha aggiunto l’avvocato Anselmo. Diverso il parere di Antonella De Benedictis, difensore di Alessio Di Bernardo, uno dei cinque carabinieri imputati. «Se anche venisse provata la lesione S4 come causa della vescica neurogena, la stessa non si sarebbe distesa e quindi non ci sarebbe stato il globo vescicale, qualora il catetere avesse funzionato correttamente – ha affermato Quindi il problema non è la lesione in sé, ma il malfunzionamento del catetere».
Caso Cucchi, i periti del gip: «Senza lesioni non sarebbe morto». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Ascoltato in udienza Francesco Introna che ha coordinato il collegio dei periti, incaricato dal tribunale di stendere una relazione sulle circostanze che portarono alla morte di Stefano Cucchi, sottolinea un elemento. L’insorgenza della vescica neurogenica nella vittima. Una dilatazione vescicale che non si sarebbe verificata se il ragazzo fosse stato adeguatamente sorvegliato. Ma che certamente non si sarebbe verificata se non fosse stato colpito in precedenza. «In sostanza se non ci fossero state lesioni non sarebbe finito in ospedale e non sarebbe morto» dicono i periti. Il collega di Introna, Vincenzo d’Angelo spiega nei dettagli come funziona: «Il parasimpatico fa svuotare la vescica — dice — ma quando c’è una lesione il parasimpatico può paralizzarsi. Se la vescica si dilata in eccesso può portare a disturbi anche cardiaci». Certamente, spiegano gli esperti, non c’era più una autonoma gestione dello svuotamento della vescica. Cucchi non riusciva più ad andare in bagno. Mille quattrocento centilitri sono stati trovati con autopsia sottolineano i periti. Introna sottolinea come sulla base delle risultanze dell’autopsia Stefano Cucchi inalò sangue. Fu trovato nei bronchi e nello stomaco. Il collegio dei periti spiega di aver rintracciato un edema nel corpo. Quanto all’epilessia, i periti confermano su sollecitazione della parte civile, avvocato Stefano Maccioni, che, dalla documentazione disponibile, Cucchi non risultava avere mai avuto crisi epilettiche durante il sonno. Il processo Cucchi bis è iniziato un anno fa, mentre un terzo filone della vicenda è in discussione in questi giorni davanti al giudice per le udienze preliminari. Si tratta della tranche che vede indagati sette carabinieri per il reato di depistaggio, falso e favoreggiamento. Secondo l’accusa, infatti fra il 2009 e il 2015 un gruppo di carabinieri, fra cui anche un generale, avrebbero contribuito a depistare le indagini sulla morte di Stefano Cucchi. Per quest’ultimo filone la presidenza del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri si sono dichiarati parti lese, la decisione dei giudici è attesa a luglio.
Caso Cucchi, i periti del gip: "Morte dovuta a concatenazione di eventi". Secondo gli esperti nominati dal giudice "senza la frattura della vertebra non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento". la Repubblica il 14 giugno 2019. Stefano Cucchi è morto per "una concatenazione di eventi". Lo hanno affermato nell'aula bunker di Rebibbia i periti nominati a suo tempo dal gip e ascoltati oggi al processo bis sul pestaggio e sul decesso del geometra 31enne, morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Entrando nel dettaglio e ripercorrendo la perizia redatta nel 2016, gli esperti hanno spiegato che "l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata di un paziente affetto da epilessia resta la principale, ma non abbiamo mai detto che la malattia fosse l'unica causa del decesso di Stefano Cucchi". Infatti, hanno affermato, "anche in assenza della frattura della vertebra S4 la morte di Cucchi non sarebbe capitata o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso". "Nessuno può avere certezze. Se non ci fosse stata la lesione S4 il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento", ha detto uno dei periti. "Non abbiamo certezze, parliamo sempre e comunque di ipotesi" sulle cause che hanno portato al decesso del ragazzo, hanno aggiunto i periti che hanno definito come "più attendibile" l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata. "C'è un vuoto tra la notte del 21 ottobre e il 22 ottobre 2009 - hanno ribadito -. Il secondo momento è quello in cui al Pertini si sono accorti che Cucchi era morto; ma non sappiamo cosa sia accaduto in quelle ore". "Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto", ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al termine dell'udienza al processo sulla morte del detenuto che si è svolta nell'aula bunker di Rebibbia. "Ora nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria", ha aggiunto Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.
Il caso Cucchi e la strage di Bologna visti da un medico di carcere. "uomini come bestie", il libro, scritto da Francesco Ceraudo, ex presidente dell’Associazione medici penitenziari, ipotizza una lettura originale per le due vicende giudiziarie. Maurizio Tortorella il 13 giugno 2019 su Panorama. Dubbi sul caso Cucchi, con un indice puntato soprattutto sui medici dell’Ospedale Pertini, che a suo dire non avrebbero adeguatamente curato e nutrito il detenuto, meritevole di un trattamento sanitario obbligatorio. Dubbi anche sulla verità giudiziaria sulla strage di Bologna, e la convinzione che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non ne siano i veri colpevoli. Questo e altro scrive Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere di Pisa, poi presidente dell'Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana, nel suo libro “Uomini come bestie, il medico degli ultimi” (edizioni Ets, 310 pagine, 19 euro) la cui prefazione è stata scritta da un detenuto di fama: Adriano Sofri.
Su Cucchi, Ceraudo scrive: “Da medico penso che si sarebbe dovuti intervenire immediatamente e fare un certificato di incompatibilità con la carcerazione, così che il magistrato avrebbe potuto mandarlo agli arresti domiciliari”. Il professore ricorda anche che la famiglia di Cucchi “è stata già risarcita dall'Ospedale Pertini con 1 milione e 340 mila euro, e anche questo dice molto sul versante delle responsabilità”.
Sulla strage di Bologna, per la quale a suo tempo è stato interrogato come teste (peraltro ritenuto inattendibile) Ceraudo ricorda che Francesca Mambro è stata sua paziente per tanti anni a Pisa: “Ha riferito con molta chiarezza ciò di cui è stata responsabile” scrive Ceraudo, mentre il medico si dice convinto non abbia fatto altrettanto uno dei principali testimoni dell’accusa, e cioè Massimo Sparti, “un pregiudicato romano di simpatie neo-naziste, appartenente alla banda della Magliana”. A sua volta rinchiuso nel carcere di Pisa nel dicembre 1981, Sparti fu messo in libertà sulla base di accertamenti diagnostici che indicavano un cancro al pancreas. “Dal momento in cui è stato liberato” scrive però il professor Ceraudo “Sparti ha vissuto altri 23 anni ed è deceduto per tutt’altro motivo”.
· Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.
Processo Cucchi, medici verso la prescrizione. Il pg: «E’ una sconfitta per la giustizia». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Una prescrizione che rappresenta anche una sconfitta della giustizia. Così, nove anni dopo, invocando l’estinzione del reato (omicidio colposo) nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, primario e medici del «Sandro Pertini» dove Stefano Cucchi, detenuto, morì, il procuratore generale Mario Remus sottolinea la resa giudiziaria implicita in questo (inevitabile) passaggio. Perché qualunque sia, a questo punto, l’esito del processo bis nei confronti dei carabinieri accusati di aver picchiato Cucchi, o di quello eventuale verso ufficiali e sottoufficiali che, secondo la nuova inchiesta della Procura, depistarono le indagini, è certo che nel reparto dell’ospedale «Pertini» si verificarono «negligenze imperdonabili». Di più: è lecito parlare, secondo Remus, di una mancanza di «umanità» da parte dell’ospedale. Non solo Cucchi non fu trattato con la dedizione e il riguardo che meritava. Ma, come sottolinea anche l’avvocato del Campidoglio (parte civile), Enrico Maggiore, ci furono lacune e superficialità imperdonabili. Neppure la disidratazione del paziente fu rilevata. Un fatto che, per il pg, rappresenta l’indice «di una trascuratezza inammissibile e di una sciatteria che imperversava in quell’ambiente». Dunque l’accusa di omicidio colposo nei confronti degli imputati, pur in via di prescrizione, appare supportata da elementi incontrovertibili né è vero che il ragazzo non collaborasse: «Cucchi — dice Remus — era un paziente difficile sotto l’aspetto psicologico ma non è vero che non collaborava. Un tocco di umanità sarebbe bastato per salvarlo». Da quei medici, conclude l’accusa, non fu ascoltato «dal punto di vista sanitario e da quello psicologico». Quanto al primo processo, messo in piedi tra «imputazioni traballanti» nei confronti dei medici e accuse ingiustificate nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, è «iniziato male» e proseguito «peggio». L’esito — prescrizione per i sanitari del Pertini — è frutto dei depistaggi dell’Arma secondo la famiglia Cucchi. In questa direzione il commento dell’avvocato Fabio Anselmo: «Credo che la dichiarazione di prescrizione sia lo stigma finale di sette anni di depistaggi dei quali, dal 21 maggio (giorno in cui è fissata l’udienza davanti al gip per gli otto carabinieri indagati dal pm Giovanni Musarò, ndr) in poi, saranno chiamati a rispondere generali e alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri». Sul punto interviene anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: «Un processo del tutto sbagliato fatto a spese e sulla pelle della nostra famiglia che ha pagato un prezzo altissimo ma che, fortunatamente, oggi si trova in una fase completamente diversa. Una fase di verità, arrivata grazie al nostro impegno e soprattutto a quello di Fabio Anselmo, ma anche grazie alla presenza di tutti coloro che, in tutti questi anni, non ci hanno mai abbandonati perché da soli non si fa niente».
· Pietre sulla Petrelluzzi.
Ilaria Cucchi contro Un giorno in Pretura: "Spazio solo a show". Ma è uno show che serve. Le due puntate non sono piaciute alla sorella di Stefano. Che scrive su Facebook tutta la sua rabbia e amarezza per i tagli e le omissioni. «Grazie per il servizio pubblico offerto». Ma da casa l'impressione è stata ben diversa. E ciò che resta è il senso immane di ingiustizia per aver dovuto attendere 10 anni. Beatrice Dondi il 25 novembre 2019 su L'Espresso. «Anche stasera 'Un giorno in Pretura' non si è smentito. Ha completamente tralasciato due intere udienze sul tema medico legale, che hanno risolto il nostro processo, per dar spazio allo show dell'avv. Naso. L'avv. Anselmo ovviamente è stato totalmente oscurato così come i nostri medici legali ma soprattutto quelli del Giudice quando affermano che Stefano senza le botte non sarebbe morto. Ma non avevamo dubbi. Posso solo dire che mi dispiace per il Dott. Musarò e per il Dott. Pignatone ma d'altra parte tutti ricordiamo bene i selfie fatti in aula mentre si svolgeva il processo. Mi ha chiamata mia madre disgustata. Pubblicherò sulla mia pagina tutto ciò che "Un giorno in Pretura" ha omesso. Grazie per il servizio pubblico offerto». Scrive così Ilaria Cucchi su Facebook, quando la seconda puntata del programma in onda su Rai Tre si è chiuso sulla sentenza. Lo scorso maggio aveva fortemente criticato la condutrice del programma Roberta Petrelluzzi per quella foto in Aula con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini, un atteggiamento confidenziale con la difesa ritenuto del tutto fuori luogo. E lo stesso sentimento di indignazione lo esprime l'avvocato Anselmo, che definisce il programma di Rai Tre "Imbarazzante. Tutte le questioni medico legali liquidate ed oscurate. Il taglio della vertebra l3. Il nesso causale. La testimonianza scioccante della dottoressa Feragalli. Quella del Prof. Masciocchi. Quella dei Periti. Che tristezza. Mi spiace per il lavoro del dott. Musarò e del Procuratore Pignatone completamente annichiliti. Va beh. Lo sapevo fin dalla imbarazzante udienza dei selfie. Il processo Cucchi è stata tutta un’altra cosa. Lo sappiano coloro che hanno guardato la trasmissione. Si è arrivati addirittura al tifo per l’appello". Ma da casa ciò che resta nella testa del pubblico che ha visto la trasmissione è altro. Rabbia sì, ma in primis per aver dovuto attendere 10 anni prima di sentire le parole "colpevoli". Era il 2009, una sera di fine ottobre. Durante Anno Zero, condotto da Michele Santoro, una giovane donna si alzò in piedi. Per raccontare la tragica storia di suo fratello Stefano, arrestato per spaccio e morto “all’improvviso” dopo sei giorni all’ospedale Pertini. Ilaria Cucchi aveva cominciato a denunciare cosa era accaduto a quel ragazzo massacrato, «con un occhio fuori dalle orbite, una mascella visibilmente rotta», ucciso da uno Stato che aveva il dovere di proteggerlo. E non avrebbe più smesso, Ilaria, in tutti gli studi, davanti a ogni telecamera, come un dito spinto nel costato delle coscienze. Ma nulla sembrava bastare, non le interviste, non i faccia a faccia, neppure il film “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi calato nei lividi, nel filo di voce, nel respiro spezzato di Stefano Cucchi era riuscito a tutelare quella verità terrificante dalla violenza dell’insinuazione, del dubbio. Per trasformare quelle parole già lette e sentite, quelle lacrime, già viste e asciugate in purissima realtà per tutti ci volevano i microfoni accesi tra le mura di un tribunale di una televisione una volta tanto testimone silente. Per questo vedere quelle due puntate di “Un giorno in pretura”, che in prima serata, seppur parziali, tagliate, rimontate hanno mostrato le fasi del processo in cui i carabinieri autori del pestaggio sono stati condannati per omicidio ha avuto un effetto roboante. Non droga, ma botte. E all’improvviso la tv diventa portatrice di realtà. I ricordi e le testimonianze che per anni Ilaria ha ripetuto con fermezza ricevendo spesso in cambio manciate di commenti esecrabili, vanno in onda aprendo occhi sinora rimasti chiusi. E l’esperienza a quel punto, diventa un dolore comune non più negabile. Dal racconto monocorde di Francesco Tedesco, che srotola i fatti, il calcio all’altezza dell’ano, la caduta di Stefano, il rumore della testa che sbatte sul pavimento. All’immagine dell’obitorio, le urla del padre, i depistaggi, le bugie, gli schiaffi. Sino alle parole della signora Rita, che ripercorre quei minuti in cui un carabiniere entra in casa sua, le chiede di seguirlo per andare in caserma a firmare dei documenti e poi, senza guardarla, prende i fogli, li piega e le dice: «Le devo dare una brutta notizia, suo figlio è deceduto». «Ma sei giorni fa stava bene»... «Io non lo so, le dico soltanto che suo figlio è morto». Senza filtri, luci, mediazioni. Solo una voce spezzata. Che rompe in due chiunque la guardi. Mancano, certo, tanti tasselli al puzzle. Ma quando si arriva alla sentenza, tutti da casa si devono sono obbligati a vedere, senza più un alibi che permetta di girare la testa.
PIETRE SULLA PETRELLUZZI. Ilaria Cucchi sulla sua bacheca Facebook: il 20 maggio 2019. Alla fine ho deciso di parlare. Ieri, un giorno in Pretura. Anzi no. Un giorno in Corte d’ Assise. Uno dei tantissimi giorni trascorsi in Tribunale da me e dai miei genitori. Era un momento di pausa quando, uscendo, dall’aula ho notato la conduttrice della notissima trasmissione televisiva “Un giorno in Pretura“, Roberta Petrelluzzi, parlare in modo strettamente confidenziale con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini. Non l’avevo mai vista prima di persona. Nulla di male, per carità. La mia memoria va a sei anni fa, quando, in un momento di nostra grande difficoltà, la trasmissione dedicò un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate. La redazione ci chiese tutti gli atti che fornimmo regolarmente. Chiesi di poter parlare con lei ma mi venne opposto un netto rifiuto. “Non le vuole parlare per non essere influenzata”. Rispettai quella decisione anche se il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte. Quando, dopo qualche minuto, sono rientrata in aula, la scena che ho avuto davanti è la seguente: la signora Petrelluzzi che, con sorrisi e grande cordialità, spalle ai banchi della Corte, si fa fare numerosi selfie, guancia a guancia, con gli avvocati degli imputati. Si rivolge poi all’avvocato Pini che era nelle vicinanze per chiedergli: “Ma tu chi difendi?” “Tedesco”, gli risponde lui. “Stai sempre dalla parte sbagliata eh!”, ribatte lei. Tutto questo è avvenuto di fronte a noi famigliari e giornalisti. Che dire? Facciamoci un selfie che tutto passa. Farò una segnalazione all'ordine dei giornalisti ed alla direzione generale della Rai. Intanto pubblico la foto con il difensore di D'Alessandro mentre con me non ha mai voluto parlare perché doveva essere super partes.
Selvaggia Lucarelli il 20 maggio 2019. L'ammirazione e la riconoscenza che provo per per Ilaria Cucchi rimarranno immutate, ma quello che ha scritto su fb su Roberta Petrelluzzi è ingiusto. La giornalista di "Un giorno in pretura" non ha fatto alcun selfie sorridente in aula. Quella che l'avvocato della controparte ha fatto scattare da non so chi e pubblicato è una foto che lo stesso avvocato le ha chiesto perchè "suo mito". Parlare di selfie è fuorviante e scatena un sentimento negativo e immeritato. Sostenere che la Petrelluzzi, sei anni fa, quando stava per raccontare le prime fasi del processo Cucchi si sia rifiutata di parlare con lei per rimanere imparziale e trovare inopportuno che oggi invece si scambi qualche parola con gli avvocati degli imputati, è scorretto. Fa bene la Petrelluzzi a non voler rimanere coinvolta emotivamente dalle storie che racconta, perchè lei racconta i processi, non i sentimenti. E gli avvocati non sono gli imputati, questo processo di identificazione è profondamente sbagliato. Scambiare due parole in aula con un avvocato che magari si conosce da tempo, non significa nulla. Se si fosse appartata a chiacchierare con gli imputati sarebbe stato diverso. I difensori non sono i loro assistiti e un rapporto cordiale tra la Petrelluzzi e due avvocati non vuol dire, di conseguenza, una narrazione sbilanciata a favore dei loro clienti. E a tal proposito, Ilaria Cucchi fa un velato riferimento a Un giorno in pretura e a "un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate... il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte". Quel processo, dalla Petrelluzzi, fu raccontato, non interpretato o giudicato. Era sbilanciato, dunque è normale che sia stato raccontato così. Se Ilaria Cucchi ritiene che la Petrelluzzi lo abbia raccontato con malafede o realizzando montaggi ingannevoli, ci dica cosa intende, altrimenti sono accuse sfocate, che massacrano la conduttrice senza chiarire il perchè. La minaccia di segnalazioni all'Odg e alla Rai sono francamente insensate. Non si capisce cosa vada segnalato. Il rapporto cordiale della Petrelluzzi con degli avvocati? Una foto fatta in un tribunale? (anche la Cucchi ha pubblicato foto fatte in tribunale) Cosa? La battuta che la Petrelluzzi avrebbe fatto all'avvocato di Tedesco poi si presta a varie interpretazioni. Non credo, francamente, che una Petrelluzzi si sia messa pubblicamente a fare ironia sulla vicenda lasciando intendere che lei sia dalla parte di chi ha picchiato Stefano o più genericamente da quella degli omertosi. E' più probabile che intendesse dire "sei dalla parte sbagliata della storia, ovvero dei carabinieri", al di là del fatto che alla fine Tedesco abbia raccontato del pestaggio. Voglio dire, vi pare plausibile che volesse dire ad alta voce che la parte sbagliata è quella di Ilaria Cucchi e di chi ha cominciato finalmente a parlare? Ecco. Chiudo con un'ultima osservazione: io capisco che dopo tutto quello che ha passato Ilaria Cucchi la sua suscettibilità, l'amarezza, la frustrazione non possano essere misurate attenendosi a parametri comuni, ci mancherebbe. E posso pure capire che abbia trovato inelegante la Petrelluzzi, perchè chiunque non mostri disprezzo verso chi ha mentito per anni è tuo nemico, perfino se è un avvocato e fa solo il suo lavoro. Perfino se è una conduttrice che alla fine mostra solo quello che succede nelle aule, senza letture e dietrologie. Però la mia sensazione è che quest'accusa pubblica sia una mannaia troppo grossa, immeritata. Ilaria Cucchi, in questo momento, ha un enorme potere mediatico e lasciando intendere che la Petrelluzzi sia una pessima giornalista nonchè una che tifa per i cattivi ("Mostrerò i video!"), annienta la reputazione di una giornalista che fa questo lavoro da decenni. Le macchia una carriera appassionata e rigorosa. E non sono cose da cui ci si risolleva facilmente, specie a 75 anni. Roberta Petrelluzzi è una delle poche giornaliste che ha sempre raccontato la cronaca senza fronzoli, senza falsi scoop, senza i sensazionalismi così di moda, cercando di narrare quello che accade nelle aule di giustizia con l'asciuttezza e la distanza che tutti le hanno sempre riconosciuto. E se tanti hanno conosciuto la storia di Stefano è anche grazie a Un giorno in pretura, che a questa storia ha dedicato tante puntate. Continuo ad ammirare Ilaria, ma no, questa volta non posso darle ragione. Poteva farle una telefonata e urlarle la sua rabbia, ma questa gogna la Petrelluzzi non se la meritava. Per niente.
· Ilaria Cucchi: una donna normale.
Ilaria Cucchi ospite a Domenica In, sui social tanti insulti vergognosi. La Repubblica il 27 ottobre 2019. "Mi manca mio fratello, mi manca da morire" e intanto, mentre Ilaria Cucchi legge su Rai Uno alcuni passi del libro dedicato alla morte del fratello Stefano, sotto il post dedicato all'ospite condiviso sui social da Domenica In spunta una vergognosa sequenza di insulti. "Pensi ai soldi", "Ma basta! E i poliziotti e i carabinieri che hanno perso la vita?", "Morto da solo come un cane...hai detto bene ma questo è accaduto per scelta sua e vostra come famiglia" . E anche, "Scusa, perchè non parli di Bibbiano?". E' questo il tenore di moltissimi dei commenti, in tutto oltre 400, postati sotto una breve clip dell'intervista a Ilaria Cucchi, accompagnata dall'avvocato ( e suo compagno) Fabio Anselmo. Una testimonianza forte che evidentemente però ha "disturbato" il pubblico della tivvù domenicale. Che forse tanto placido non è, stando almeno al tenore delle cattiverie che tributa a Ilaria Cucchi. C'è chi se la prende direttamente con la Venier: "Domenica la gente vuole un pò di leggerezza ed in questo tu sei brava, e invece quel tono di voce lacrimevole non ci sta proprio", chi contro la giovane donna: "Quando finirà questa telenovela, ancora a lucrare sul fratello, sappiamo vita morte e miracoli di questa storia, non se ne può più". E un altro che commenta: "Oggi mio figlio si è sintonizzato su Rai 1 per sbaglio. Mi ha rovinato la domenica. Ho smemorizzato il primo canale, così neanche per sbaglio lo vedremo più". E sono poche le voci che cercano di porre un freno a tanto veleno.
Cucchi, una famiglia in lotta per tutti noi. È stata una vittoria importante quella dei parenti di Stefano. Perché combattuta con grande coraggio, e soprattutto ottenuta attraverso il Diritto. Roberto Saviano il 24 novembre 2019 su L'Espresso. Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il “colpevole” e lo colpisce a morte», scrisse Marco Pannella nel 1973. In queste parole come fare a non leggere ciò che ha significato per l’Italia la vicenda Cucchi? La vicenda Cucchi, sì, perché non riguarda solo Stefano, ma anche la sua famiglia, una famiglia che non è arretrata, che non ha avuto paura, o che forse ne ha avuto, ma si è comunque aggrappata con una determinazione incredibile a tutto il coraggio che aveva a disposizione. Pannella, nella frase che ho ricordato, usa le virgolette per la parola “colpevole” e lo fa perché spessissimo si punisce la vittima, credendola qualcos’altro. Si punisce la vittima spacciandola per colpevole o peggio: la vittima è vittima, ma una volta morta, deve diventare qualcos’altro per evitare che il nostro sistema di “valori” vada in frantumi. I Radicali si sono negli anni occupati di tutti quei casi, che poi sono persone, in cui “colpevoli” hanno perso la vita mentre erano affidati alle cure o alla tutela dello Stato; quindi so che se non racconto qui ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi, a Giuseppe Uva e a Riccardo Magherini sto omettendo una parte importante della storia della difesa dello Stato di Diritto, sto omettendo informazioni che per voi che leggete potrebbero essere importanti per comprendere come si arrivi al caso Cucchi; per comprendere fino in fondo con quale senso di ingiustizia ci siamo specchiati nel volto tumefatto di Stefano che Ilaria ha avuto il coraggio di mostrarci. In quel volto abbiamo visto i nostri volti perché sappiamo di non essere al riparo, perché non crediamo di essere migliori, immuni, lontani; ci siamo specchiati perché siamo uomini e sappiamo che ciò che accade a uno di noi, può accadere a tutti. E Ilaria ha mostrato il corpo martoriato di Stefano sapendo bene almeno due cose: che avremmo ricordato suo fratello così e non come in quelle foto, in cui sono insieme, fratello e sorella, e sorridono. E che chi ha in famiglia persone cadute nella rete della tossicodipendenza è solo. Le famiglie dei tossicodipendenti sono sole, sole a gestire problemi troppo più grandi di loro. Sole e spaventate, tra l’incudine e il martello. E nessuno, se non poche, pochissime persone, a tendere una mano. Non è facile lottare per avere giustizia dopo la morte di un familiare che ha avuto problemi di droga, decidere che nonostante quello che penseranno le persone, nonostante quello che diranno, avere giustizia è l’unico modo per non perdere fiducia in tutto. «Da oggi potrai riposare in pace», dice Ilaria Cucchi pensando a suo fratello, lei che dieci anni fa aveva fatto una promessa e, agendo nel Diritto, l’ha mantenuta. Aveva promesso che avrebbe lottato perché sulla morte di Stefano emergesse la verità, e cioè che Stefano non è morto per droga - perché “tossico”, “drogato”, “spacciatore”, sì, così negli anni lo hanno chiamato - ma perché picchiato a morte. Servirebbe un trattato per dire quanto la lotta della famiglia Cucchi nel Diritto sia preziosa per il nostro Paese perché ha portato alla luce, una volta per tutte, un fatto che deve essere chiaro: chi è affidato allo Stato deve sentirsi al sicuro e non minacciato. E, per corollario, che chi fa uso di droghe, va curato e non punito. Mi ha commosso la foto di Ilaria Cucchi in Tribunale, mi ha commosso vedere la sua mano stretta nella mano del maresciallo presente in aula, che l’ha portata alla bocca e l’ha baciata: «Finalmente dopo 10 anni è stata fatta giustizia», ha detto quel carabiniere mentre compiva un gesto antico. Dal 2006 vivo tra carabinieri e so che questa sentenza ti rompe dentro se sai che qualcuno, con la tua stessa missione, ha tradito ciò in cui credi. Ma so anche che i carabinieri che conosco non permetterebbero mai che un colpevole si nascondesse dietro la loro divisa. La verità sulla tua morte, caro Stefano, è importante per te e per la tua famiglia, ma è fondamentale per noi, perché è l’affermazione dello Stato di Diritto. E oggi sappiamo che non c’è divisa sotto la cui protezione i colpevoli potranno trovare riparo. Mai più.
Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo: un amore nato dalla lotta per Stefano. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Sul magazine la storia di dolore e felicità. Ilaria Cucchi, 45 anni, insieme con Fabio Anselmo, 62 anni, suo avvocato e compagno, nella loro casa di Roma (foto Ada Masella)In occasione del decimo anniversario della morte di Stefano Cucchi (qui il podcast di Corriere.it), pubblichiamo un’anticipazione dell’articolo di Giovanni Bianconi per 7 sulla relazione tra la sorella del giovane romano morto dopo l’arresto, Ilaria Cucchi, e l’avvocato che l’ha seguita in tutti questi anni: Fabio Anselmo. L’articolo completo sarà pubblicato sul prossimo numero di 7 in edicola venerdì 25 ottobre. Le ultime parole sono affidate a Fabio che ricorda quando il carabiniere Francesco Tedesco, davanti alla Corte d’Assise, terminò la confessione del pestaggio di Stefano Cucchi: «Si alza dal banco dei testimoni e non si avvia subito all’uscita dell’aula. Viene verso di noi. Va da Ilaria, che nel frattempo si è alzata in piedi. Le porge la mano. Ilaria ha una breve incertezza, poi accetta quella stretta». Il libro finisce lì. Ma poi che è successo? Che cosa ha pensato, provato, e detto lei? Risponde Ilaria: «Io la mano non gliela volevo stringere. Tedesco aveva appena finito di raccontare ciò che fino a quel momento avevamo solo potuto immaginare, e i suoi nove anni di silenzio sono stati la causa del nostro dramma. Poi ho ripensato ai silenzi e all’omertà degli altri testimoni e imputati, e a quanto gli dev’essere costata una confessione che avrebbe continuato a pagare cara. Così ho teso la mia mano. Lui ha detto “mi dispiace”; io avrei voluto rispondere “dispiace più a me”, invece ho detto “grazie”». Gli scatti dei fotografi hanno immortalato la scena. Un dolore esposto in pubblico e ripercorso nel libro che Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, il suo avvocato diventato il compagno di una nuova vita, hanno deciso di pubblicare nel decimo anniversario di una morte ancora in attesa di giustizia: Il coraggio e l’amore - Giustizia per Stefano: la nostra battaglia per arrivare alla verità. Un altro passo sotto la luce dei riflettori, che durante questi dieci anni non si sono mai spenti. Per non far calare l’attenzione dell’opinione pubblica ma anche — potrebbe sospettare qualcuno — per strumentalizzare e orientare le inchieste e il processo. Tanto più alla vigilia della sentenza per i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. Fabio: «Non abbiamo strumentalizzato niente e non rinnego nulla di quello che abbiamo fatto. Se mi volto indietro e rivedo ciò che abbiamo dovuto subire, da un processo sbagliato (agli agenti penitenziari assolti, ndr) ai continui interventi a gamba tesa di ministri e scale gerarchiche, mobilitate con tutto il loro potere, credo che abbiamo fatto quel che dovevamo. Come dimenticare che il medico incaricato di stabilire le cause della morte di Stefano annunciò in tv le sue conclusioni prima ancora di cominciare il lavoro? E che la Procura rimase a guardare in silenzio? Avevamo lo scopo di farli vergognare, denunciando tutto, perché di fronte a certe storture e violazioni non c’era altra strada. E ci siamo riusciti».
Sempre mettendo avanti la faccia di Ilaria, che dalla prima intervista in tv, la sera stessa in cui morì suo fratello, è apparsa dura e gentile insieme, distesa e decisa, serena anche quando era arrabbiata: «È la mia arma migliore», confessa nel libro l’avvocato Anselmo. Fabio: «È vero. In tanti altri casi ho dovuto farmi carico di rappresentare il dolore dei familiari delle vittime, e non c’è cosa più triste. Stavolta no, perché il volto di Ilaria era perfetto. E quello che diceva ancora di più». Ilaria: «Mi sono trovata catapultata in un mondo che non era il mio, con un microfono davanti alla bocca, all’improvviso, senza sapere cosa dire. Mi è sempre venuto tutto spontaneo, ma ho dovuto rinunciare alla dimensione privata del dolore per metterlo in piazza. Ho faticato a prendere la decisione, ma non a interpretare una parte, perché non l’ho mai fatto: ho sempre detto quello che pensavo, e tirato fuori ciò che avevo dentro». Fabio: «Lei è sempre uguale, davanti a una telecamera o in casa; naturale e diretta, veloce come un Frecciarossa. Senza il suo viso e il suo modo di essere, la sua semplicità così dirompente, non ce l’avremmo mai fatta. E io mi sono innamorato anche di questo»...
Davide Desario per Leggo l'8 ottobre 2019. Ilaria Cucchi ha 45 anni. Ha un lavoro (il suo studio amministra condomini). E ha due figli. Ma da dieci anni non ha più suo fratello: Stefano, è morto a 31 anni all’ospedale Pertini di Roma (reparto detenuti) dove era stato ricoverato in condizioni disumane dopo essere stato fermato dai carabinieri perché trovato in possesso di un piccolo quantitativo di sostanze stupefacenti. Era il 22 ottobre del 2009. Pesava appena 37 chili.
Partiamo dalla fine: nell’ultima udienza del processo il Pubblico ministero Giovanni Musarò ha chiesto 18 anni di reclusione per i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Che ne pensa?
«Penso che il Pm non abbia chiesto pene esemplari ma pene giuste. Sono passati dieci anni e finalmente lo Stato è al nostro fianco. Ma abbiamo dovuto soffrire. Io e i miei genitori abbiamo dovuto sopportare indagini truccate, depistaggi e momenti di sconforto che non auguro a nessuno».
Mi dica il primo che le viene in mente.
«La requisitoria di primo grado nel 2013, quando il pm Maria Francesca Loy definì mio fratello un cafone maleducato. Sembrava che il processo fosse contro Stefano e non contro chi lo aveva ridotto così mentre era nelle mani dello Stato. È stata dura ma ne è valsa la pena. Le cose ora sono cambiate. Lo Stato sta dimostrando che la legge è uguale per tutti, senza sconti. Anche per chi si nasconde dietro una divisa».
Cosa avete organizzato per questo anniversario?
«Questo fine settimana ci sarà uno splendido memorial in due giornate. Sabato una serata di musica e diritti all’Angelo Mai. E domenica mattina una maratona e tanto sport, come piaceva a mio fratello, nel Parco di Torre del Fiscale. E per la prima volta vivrò tutto questo senza il peso di dover chiedere scusa a Stefano per averlo sottoposto a dieci anni di processi».
Dieci anni: tanto tempo? Poco tempo?
«A me sembra ieri. Il tempo sembra si sia fermato. Sarà che non mi sono fermata un attimo. Che non ho avuto il tempo di pensarci perché dovevo lottare per lui. Anzi dovevamo: perché da soli non si fa niente. Poi però, quando faccio fatica a ricordare com’era la voce di Stefano, mi rendo conto di quanto tempo è andato via».
In questi dieci anni c’è mai stato un giorno che non abbia pensato a suo fratello?
«No, mai. Mi sveglio ogni mattina con il suo pensiero. E questo pensiero mi ha dato la forza per andare avanti. Per superare problemi di ordine economico, sì ci sono anche quelli in una brutta storia come questa. Ma soprattutto problemi sul piano emotivo. Io e la mia famiglia abbiamo dovuto patire delle sofferenze che non riesco nemmeno a spiegare. Basti pensare a come ce lo hanno restituito, a come l’hanno ammazzato. Non solo di botte. Ma di pregiudizi. Di solitudine».
Le tornano in mente ricordi di quando giocava con suo fratello da bambina?
«Certo. Quando venivano le mie amiche a casa, per esempio, lo usavamo come un bambolotto e ci divertivamo a vestirlo. E lui stava al gioco».
Come la chiamava Stefano?
«Usava sempre il mio diminutivo, Ila».
E lei?
«Io lo chiamavo tappetto, perché è sempre stato piccolo».
Oggi c’è una canzone su tutte che glielo ricorda subito?
«Sì, il Cielo di Renato Zero».
Perché?
«Ricordo una scena di qualche anno fa. Eravamo a Tarquinia in campeggio. Stavamo facendo un barbecue in famiglia, cercavamo un momento di serenità. Il mio compagno ha messo un po’ di musica all’Ipad ed è partita la canzone di Renato Zero. Ci siamo voltati e abbiamo visto mio padre Giovanni piangere come un bambino».
Cosa le è rimasto nel suo cassetto di Stefano?
«Conservo tante cose. Ma su tutte c’è quello che rappresenta la voglia che Stefano aveva di cambiar vita. Si stava dando molto da fare nel seguire le pratiche nei cantieri. Ci credeva. Gli piaceva. E così si era fatto fare i bigliettini da visita. Ma sono arrivati, qualche giorno dopo la sua morte».
Cosa c’è scritto?
«Stefano Cucchi, geometra. Via Ciro da Urbino 55 (l’indirizzo dello studio di famiglia ndr.). E il telefono. Sono lì. Nessuno li ha toccati».
Ha dei rimorsi?
«No. Rimorsi zero». Silenzio, un sospiro. «No, forse un rimorso ce l’ho, è vero. Quello di non aver buttato giù quella porta quando stava in ospedale. Ma ero un’altra donna, più giovane, più ingenua. Mi fidavo dello Stato».
Oggi non si fida più? Cosa ha detto ai suoi figli?
«Ai miei ragazzi ho detto la verità. Che ci sono stati dei carabinieri che hanno sbagliato con una crudeltà disumana. Ma ho detto loro che non tutte le persone che indossano una divisa sono così. Dobbiamo continuare ad avere il diritto di credere in quel che rappresentano le forze dell’ordine».
In questi anni i politici le sono stati vicini?
«Sì, tante persone. Di destra e sinistra, senza bandiera. Davvero».
Faccia un nome.
«Mi viene subito da ricordare Luigi Manconi, fu il primo a chiamare pochi giorni dopo il decesso. E ci è stato molto vicino».
E chi è che l’ha ferita di più?
«Carlo Giovanardi. Ha accusato me e la mia famiglia di cose orribili. Ma mi sono fatta una grande risata. Ma la cosa peggiore è che ha insultato Stefano. E Stefano non poteva difendersi».
Eppure non ha avuto rigetto della politica, anzi si è candidata due volte.
«La prima nel 2013, seguendo Antonio Ingroia. Credevo che potesse essere l’opportunità per portare all’attenzione di tutti i temi che mi stavano a cuore, quelli dei diritti umani, temi che sembra che non interessano a nessuno e di cui si parla sempre troppo poco.
E la seconda?
«Nel 2016. Alle amministrative di Roma. Fu più una provocazione per chiedere a quei politici di fare un passo indietro. Ma non l’hanno fatto. E allora me ne sono andata io».
Oggi ci proverebbe ancora?
«No. Perché credo che la politica è quella che io e la mia famiglia abbiamo fatto in questi dieci anni lottando per la giustizia. E non solo per Stefano ma per tutti gli ultimi. Perché ognuno pensa che quello che è successo a Stefano sia lontano dalla sua vita ma purtroppo non è così».
A proposito di credere, crede in Dio?
«Sono una persona profondamente cattolica. Io e Stefano siamo cresciuti tra la parrocchia e gli scout. La fede è stato un altro importante elemento che mi ha permesso di andare avanti. Nel film Sulla mia Pelle c’è un passaggio, forse l’unico minimamente ironico, in cui gli chiedono se è credente e lui risponde “no sperante”. Ecco anche io sono sperante».
Da credente come se lo immagina Stefano ora?
«Che mi sorride per la prima volta. Quando ancora non sapevamo e non potevamo immaginare nulla di quel che gli era accaduto, Stefano apparì in sogno. Era sorridente e disse che dovevo andare avanti ad accertare la verità. Non solo per lui. Ma per tutti quelli come lui. Ecco penso che gli sia tornato il sorriso dopo dieci anni».
La Chiesa le è stata vicina?
«Sì, sono stata ricevuta insieme ai parenti di tante altre vittime da Papa Ratzinger. Ma la cosa che mi colpì fu quando, dopo la riesumazione della salma, lo rinchiusero nel loculo del cimitero senza dirci nulla. Ancora una volta Stefano moriva da solo. Come un cane. Senza nemmeno qualcuno al suo fianco. Raccontammo tutto questo al nostro vescovo, monsignor Giuseppe Marciante, e lui venne con me e i miei genitori a pregare sulla tomba di Stefano».
Non crede che ora il film Sulla Mia Pelle meriterebbe un seguito?
«Sì, certo. Dopo aver raccontato la tragedia di Stefano bisognerebbe raccontare il dramma della sua famiglia. Di me, dei miei genitori che sono distrutti, e degli altri familiari. Come i miei figli a cui forse non ho dato un’infanzia come tutti gli altri. Ho sofferto anche per questo, ma oggi credo di avergli dato un grande esempio».
In attesa di un nuovo film, tra poco uscirà il suo libro.
«Sì, il 22 ottobre proprio nell’anniversario della sua morte. L’ho scritto insieme all’avvocato Fabio Anselmo che nel frattempo è diventato il mio compagno. Raccontiamo la nostra storia, la nostra battaglia, la nostra sofferenza».
Come si intitola?
«Il coraggio e l’amore».
Già, più coraggio o più amore?
«Non lo so. Ma sicuramente l’amore ci ha dato il coraggio di andare avanti. Di non smettere di crederci anche nei momenti più bui. Quelli che non ti fanno dormire».
Come sono le sue notti?
«Mi sveglio in preda al panico come se mi accorgessi all’improvviso che è proprio vero che mio fratello non c’è più. A volte quando mi risveglio questa sensazione ce l’ho ancora addosso».
Ma Ilaria Cucchi ha più sorriso?
«Certo. Non dobbiamo mai smettere di sorridere, altrimenti è davvero la fine».
L’ultima volta?
«Oggi a pranzo. Con mia figlia siamo andati da Mc Donald’s. Lei è una simpaticona. Abbiamo parlato molto, soprattutto di lei. Aveva voglia di raccontare. E quando siamo uscite mi ha detto: “Mamma è già finito il nostro momento delle confidenze?”. E io sorridendo le ho promesso che dopo cena avremmo ricominciato».
Ultima domanda: per tanti anni ha scritto sulle pagine di Leggo, tornerà?
«Volentieri. Davvero. Appena posso».
Ilaria Cucchi e il coraggio di mostrare il corpo del reato. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Umiliare la persona che ami per avere giustizia. Esporre la foto del cadavere di tuo fratello per scoprire la verità sulla sua morte. È questa la battaglia che Ilaria Cucchi ha deciso di combattere, la guerra che alla fine è riuscita a vincere. Perché Ilaria ha fatto quello che inizialmente non avrebbe mai pensato di dover fare: usare il corpo per scoprire il reato. Lo racconterà il 13 settembre dal palco del Tempo delle donne, festa-festival del Corriere della Sera che si tiene ogni anno alla Triennale Milano. Ricorderà quei primi giorni dopo aver seppellito Stefano, quando non sapeva che fare per scoprire cosa fosse accaduto prima nelle caserme dei carabinieri, poi in tribunale e nel carcere di Regina Coeli, infine all’ospedale Pertini. Fino all’incontro con Luigi Manconi, il parlamentare del Pd che decise di affiancarla e aiutarla. E alla telefonata con l’avvocato Fabio Anselmo, che aveva seguito altri casi analoghi, che le spiegò in maniera forte ma efficace come muoversi. Era il 2009. Dieci anni sono trascorsi, ma recentemente Ilaria è stata costretta a parlare del proprio corpo per smentire il sospetto che Stefano fosse morto perché indebolito dall’anoressia. Quanto basta per comprendere l’odissea di questa donna apparentemente fragile, e invece forte e determinata, che si è fatta carico del dolore della sua famiglia riuscendo a trasformarlo nella sua forza. È un cammino pieno di ostacoli quello che Ilaria Cucchi intraprende quando suo fratello non è ancora stato sepolto. È Manconi a guidare le sue prime mosse, lui che di quanto accade nelle carceri si occupa da sempre e di casi come quello di Stefano Cucchi ne ha seguiti tanti. Nel frattempo Ilaria aveva contattato il legale che già assisteva la famiglia Aldrovandi, determinata a far processare i poliziotti che nel 2005 avevano fermato per strada e poi picchiato Federico, 18 anni, fino a farlo morire. E che le rimarrà sempre accanto. Adesso Ilaria lo racconta quasi con fierezza, ma nel 2009 fa quel consiglio dell’avvocato le era suonato quasi come un oltraggio: «Parlai con Anselmo e lui mi disse “la prima cosa è scattare foto al corpo”. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare». Ben presto si rese conto che non era affatto così e adesso lo conferma: «Senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque». L’obiettivo di Ilaria era soltanto uno: scuotere le coscienze, mostrare la propria disperazione per avere il sostegno dell’opinione pubblica. L’esibizione delle foto è stata la prima mossa per consentire all’avvocato e agli esperti scelti dalla famiglia, che seguivano ogni passo delle indagini, di avere una voce forte, anche mediatica. Nulla è stato facile, le resistenze, le bugie e le omissioni di chi avrebbe dovuto invece raccontare sin dall’inizio che cosa fosse accaduto erano evidenti. E lei non si è arresa. Il 13 giugno 2019 — alle battute finale del processo-bis in Corte d’Assise, dopo quello rivelatosi sbagliato contro gli agenti penitenziari definitivamente assolti — arriva la dimostrazione che l’esibizione del corpo di Stefano Cucchi avvenuta dieci anni prima è servita. Perché i periti del giudice per la prima volta stabiliscono il possibile nesso di causa-effetto tra le lesioni vertebrali provocate dal pestaggio subito da Cucchi e la sua fine. Vuol dire che non sarebbe morto se le botte prese in quella caserma dei carabinieri, dove fu portato dopo essere stato arrestato e confessate dopo quasi nove anni di silenzi e coperture da uno degli attuali imputati, non avessero fiaccato il suo fisico in maniera irreversibile. Ilaria lo racconterà per dimostrare quanto è importante in un’indagine giudiziaria far «parlare il corpo». Ma anche quanta sofferenza provoca e soprattutto quanta determinazione e forza bisogna avere per andare avanti. Racconterà quello che sono stati questi dieci anni per i suoi genitori, le loro iniziali resistenze a rendere noto tutto, anche il fatto che Stefano fosse uno spacciatore. Svelerà che cosa accade quando in una famiglia normale, abituata ad avere fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti, devi compiere scelte dolorose e rischiose per valicare il muro di omertà. E soprattutto come ha vissuto lei, che ha dovuto a sua volta subire insulti e umiliazioni, ma non ha mai chinato il capo. Anzi. L’ultima volta è accaduto qualche settimana fa, quando si è ricominciato a parlare della possibilità che Stefano fosse morto perché anoressico. E allora lei ha deciso di rendere pubblica una foto che la ritrae pochi giorni prima dell’arresto del fratello. È in costume, in braccio ha la sua bambina. «Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... non me ne sono accorta. Certo se mi avessero pestata violentissimamente...».
Ilaria Cucchi: «Pesavo 40 chili come Stefano, non ero malata. E nessuno mi ha picchiato». Pubblicato lunedì, 18 marzo 2019 da Corriere.it. Ha pubblicato su Facebook una foto che la ritrae proprio nei giorni precedenti all’arresto del fratello. Uno scatto per raccontare che anche lei, come lui, pesava 40 chili. Ilaria Cucchi torna a parlare della morte del fratello Stefano, di quei verbali dei Carabinieri in cui i militari riferiscono che il fratello, tra le altre cose, fosse anoressico. «Questa ero io pochi giorni prima dell’arresto di mio fratello. Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... io non me ne sono accorta - scrive Ilaria nel post che accompagna l’immagine, che la ritrae sorridente con la figlia - Certo se mi avessero pestata violentissimamente spezzandomi la colonna vertebrale in due punti e provocandomi una commozione cerebrale avrei sicuramente smesso di stare bene. Se poi ne fossi morta in ospedale dopo sei giorni, sono certa che qualunque medico legale avrebbe mandato in carcere i miei aggressori» prosegue nel messaggio. Per poi concludere: «A meno che non fossero intervenuti con le loro “consulenze“ fatte in casa ma preveggenti i Generali Casarsa e Tomasone»,e il riferimento è proprio a quei documenti dell’Arma in cui Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale a Roma, e l’allora comandante del gruppo Roma Alessandro Casarsa, arrivano alle conclusioni sulle cause della morte di Cucchi prima che vengano effettuate le perizie. Documenti in cui si legge appunto che «i risultati parziali dell’autopsia sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi», e dove si parla di «malessere attribuito al suo stato di tossicodipendenza», di «gravi patologie, anoressia, epilessia e sieropositività». Gli stessi documenti su cui si basò l’informativa del ministro della Giustizia Alfano al Senato il 3 novembre 2009. Casarsa, che fino a gennaio era capo dei corazzieri in servizio al Quirinale, è stato iscritto nel registro degli indagati ed è accusato di falso.
Ilaria Cucchi: «Stefano voleva che fossi felice. L’amore con Fabio è un suo regalo». Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. «Abbiamo scritto una piccola pagina di storia. Abbiamo cambiato il corso di un processo dall’esito annunciato», dice Ilaria Cucchi al Corriere. Dicendo «abbiamo», parla di lei e dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha combattuto al suo fianco da quando suo fratello Stefano è morto, dopo un arresto per spaccio. Nel frattempo, Anselmo è diventato il suo compagno. Lei racconta: «A volte, gli dico: io e te cambieremo il mondo. E lui: non esagerare». L’altro giorno, nel Cucchi Ter, che vede imputati per presunto depistaggio otto carabinieri, si sono costituiti parte lesa l’Arma, i ministeri dell’Interno e della Difesa, la presidenza del Consiglio: un gesto simbolico che premia la tenacia di Ilaria. Stasera, alle 21.25, sul Nove, va in onda Stefano Cucchi, la seconda verità. Il documentario ripercorre quelli che lei chiama «sei anni di processi sbagliati» più quelli del Cucchi Bis e Ter in cui per la prima volta, dice lei, «la giustizia non mi ha fatto sentire sola e mi ha dato una speranza per Stefano e per tutti gli ultimi».
Come sono stati questi dieci anni?
«Io non ho ancora lasciato andare mio fratello, non l’ho salutato. Lo farò quando avrò la verità. Sono ferma a quando, guardando il corpo martoriato all’obitorio di Roma, gli dico: è colpa mia, non ho saputo salvarti, ma ti prometto che andrò fino in fondo».
Perché «colpa sua»?
«Perché nei sei giorni in cui fu agli arresti, non riuscii a ottenere l’autorizzazione per vederlo. E io, che credevo nelle istituzioni, mi dicevo: però, è in buone mani, non può succedergli nulla. Invece, Stefano stava morendo solo come un cane, pensando che l’avessimo abbandonato. Questo farò fatica a perdonarlo, se arriverà il giorno del perdono».
Chi era Ilaria Cucchi, prima di quel 22 ottobre 2009?
«Una ragazza normale, che s’era sposata a 26 anni, aveva avuto Valerio a 28, Giulia a 34 e che non aveva mai preso una decisione da sola. Mi ero sempre affidata ai genitori, poi a mio marito. Ero una perfettina, diceva Stefano. Nell’ultima telefonata, mi parlava della difficoltà di reinserirsi dopo la comunità, io gli facevo coraggio. E lui: “Ma che ne sai? Tu hai una vita perfetta”».
Come si perde Stefano?
«Era sempre il più piccolino di tutti. Per camuffare la fragilità faceva lo spavaldo, ha incontrato brutte compagnie e la droga. Ma era buono, e simpatico al punto che io, da timida, me lo portavo dietro per fare amicizia più facilmente. Mi chiedeva “ma sei felice?”. Era così sensibile da aver capito che la mia vita era perfetta solo all’apparenza».
Dov’era l’imperfezione?
«In questi dieci anni, Stefano mi ha fatto tanti regali. Il primo è farmi capire che certe cose non possiamo cambiarle, mentre per altre abbiamo il dovere di lottare. E poi, nel tempo, ho trovato la mia dimensione di donna e la felicità che lui mi augurava. Mi sono separata e l’altro regalo di Stefano è stato Fabio, che a volte mi fa: vorrei non averti conosciuta, perché significherebbe che Stefano è vivo».
È un amore straordinario.
«Lo è. Ci ha consentito di trovare forza l’uno nell’altra. In un’udienza in cui pareva che sotto accusa ci fosse Stefano perché drogato o magro, Fabio ha chiesto di fare una domanda ai medici che l’avevano visitato vivo. Gliel’hanno negata. L’ho visto lanciare in aria la toga e urlare “io vengo da Ferrara tutte le settimane a spese di questa famiglia e voi non mi consentite di fare il mio lavoro”. In quell’istante, mi sono innamorata di lui».
Non l’immaginava quando lo scelse perché aveva seguito il caso Aldrovandi.
«Mi disse: la prima cosa è scattare foto al corpo. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare. Invece, senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque. Lasciavo i figli a casa, Giulia mi vedeva solo in tv. Lì ho scoperto che parlare significa non elaborare il lutto, rivivere sempre lo stesso dolore».
Quando avrà dei colpevoli come si sentirà?
«So che comunque, avremo perso anni e serenità. Io non ho mai portato mia figlia a una festa. Però, ho anche insegnato ai figli molto di più di quanto avrebbe fatto la mamma perfettina che ero».
Ilaria Cucchi, senza retorica. La vita straordinaria di una donna normale, scrive Valentina Della Seta il 15 Aprile 2019 su rivistastudio.com. In un altro universo di Ilaria Cucchi non ho mai sentito parlare. Magari l’ho intravista nel gruppo di madri e padri alla piscina comunale, aspettano i figli per aiutarli ad asciugarsi i capelli dopo la lezione di nuoto il sabato pomeriggio. O è una vicina di casa, di quelle che si accorgono se qualcuno sta arrivando al portone con le mani occupate e lo lascia aperto. Me la immagino riservata, saluta sorridendo ma non si ferma a chiacchierare in cortile. Ci sono persone che fioriscono e prosperano nella normalità, nell’anonimato. Ilaria Cucchi, vista da lontano, mi è sempre sembrata una di queste. La prima cosa che noto se cerco di ricostruire la sua storia, se leggo in giro quello che è stato scritto su di lei, è che è quasi impossibile raccontarla senza frasi retoriche. Ovunque si parli di Ilaria Cucchi trovo rappresentazioni di «eroine che non si arrendono, ferite che non si rimarginano, muri che crollano, veli di polvere marcia, verità che squarciano il buio». Non mi pare che queste visioni ne colgano l’essenza. Cucchi, ogni volta che ha preso la parola in questi anni, lo ha fatto con semplicità e senza la minima retorica: «In sei anni avrò pianto un paio di volte la morte di mio fratello, io quel lutto non l’ho mai completamente elaborato perché non ce n’era il tempo», ha detto per esempio in un’intervista del giugno 2016 firmata da Fabrizio Rostelli. In quel «non ce n’era il tempo» si può trovare forse qualcosa che unisce l’Ilaria Cucchi di prima della tragedia con quella di adesso, una sorta di amorevole e solida praticità nei confronti della vita che più di ogni altro dettaglio la caratterizza.
Tutto accade a Roma, ma in una zona un po’ lontano da San Pietro, il Colosseo, il Circo Massimo o Piazza Venezia: «Una matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi (…), una fossa di mattoni e sabbie mobili fortificata dall’abitudine e dal futuro che non arriva», la descrive Claudia Durastanti in Cleopatra va in prigione (Minimum Fax 2016). Ilaria Cucchi nasce nella metà degli anni Settanta in un posto così. A Torpignattara, quartiere sorto tra gli anni Venti e Trenta all’inizio della Casilina subito dopo il Pigneto. Una delle periferie storiche della città: «Negli anni Settanta e Ottanta non era ancora il quartiere (per fortuna) multietnico, ma pieno di realtà atomizzate e contraddizioni, che conosciamo oggi. Torpignattara era la tipica borgata romana di una volta, in cui si mescolavano famiglie della piccola borghesia impiegatizia, artigiani, commercianti, muratori», spiega Valerio Mattioli, che a settembre pubblicherà con Minimum Fax un libro sulle periferie romane. «Facendo attenzione a non romanticizzare troppo il passato, si può forse dire che Ilaria Cucchi, con il suo impegno titanico e solitario, è l’incarnazione di come poteva essere il quartiere quando c’era un diverso senso della collettività».
Roma non è mai diventata una vera metropoli, forse perché ci sono troppi ministeri, o perché le zone sono così mal collegate che ognuna resta una sorta di Paesone a sé. Di sicuro non è mai stata come Londra, dove i ragazzi che restano in giro di notte possono finire accoltellati. O come New York, da cui sono arrivate storie (come un saggio di Joan Didion) di ragazze andate a fare jogging all’alba stuprate e uccise nel parco. È una città tutto sommato inoffensiva, di parrocchie e mercati rionali, dove i piccoli fuorilegge sono tradizionalmente detti «malandrini», una parola che si porta dietro una connotazione anti-drammatica e in un certo senso accogliente.
Stefano Cucchi non era El Chapo e, per restare da queste parti, non era nemmeno Massimo Carminati (che condivide l’avvocato con i carabinieri imputati per la morte di Cucchi); era più probabilmente il fratello minore un po’ inquieto e malandrino di una sorella maggiore che, dal giorno della sua nascita (Ilaria allora aveva quattro anni), aveva iniziato a prendersene cura come una seconda mamma: «Era la persona che amavo di più al mondo», ha detto lei. Nei casi di morte violenta per mano dello Stato sono state quasi sempre le madri a affrontare la lotta per la verità e giustizia (quelle che ne hanno avuto la forza, perché devono essere molte di più le storie che non conosciamo). Ci sono le madri argentine di Plaza de Mayo, e qui, per citarne alcune, la madre di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Giulio Regeni. Ilaria Cucchi in Italia è stata forse l’unica sorella a ricoprire questo ruolo (in Francia c’è Assa Traoré, 32 anni, che si definisce «portavoce di una famiglia numerosa e affiatata» originiaria del Mali, e cerca la verità per la morte per soffocamento in una gendarmeria del fratello Adama di 23 anni). Non che Ilaria Cucchi fosse preparata: «In tribunale c’ero stata solo dal giudice di pace, per le questioni dei condomini che amministro. Non avevo mai messo piede in un’aula giudiziaria», ha raccontato un milione di udienze più tardi.
Sorellanza e fratellanza sono tra le parole giuste per descriverla, non solo perché è cresciuta andando a catechismo e agli scout. Alla morte di Stefano, ancora sotto choc, aveva cercato il numero dell’avvocato Fabio Anselmo di Ferrara. Anselmo ha creato un precedente importante nella storia dei procedimenti contro le violenze delle forze dell’ordine, facendo condannare i poliziotti che nel 2005 avevano ucciso a manganellate il diciottenne Federico Aldrovandi («Non ho concorrenti. Solo un pazzo come me può fare il mio lavoro», ha detto lui a Vanity Fair qualche anno dopo). Nel libro di Carlo Bonini Il corpo del reato(Feltrinelli, 2016) è descritto il primo incontro nello studio di Anselmo tra Ilaria Cucchi e Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi: «Rimasero a parlare con Patrizia per un tempo che le sembrò lunghissimo, durante il quale sentì crescere una confidenza istintiva», scrive Bonini. «La mia nuova famiglia è formata da Patrizia Moretti, Lucia Uva, Domenica Ferrulli. Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli sono i loro morti», gli fa eco Ilaria Cucchi sull’Huffington Post. Colpisce il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua.
In un’immagine tra le più note della vicenda Cucchi c’è Ilaria davanti al tribunale a Roma nel 2014. Tra le mani tiene una foto ingrandita con la faccia del fratello all’obitorio, come un poster che è quasi l’unica cosa che riesci a vedere. Ma lei, dietro, la noti lo stesso: gli occhiali da vista con la montatura bicolore, i capelli lisci con le schiariture tagliati alle spalle, la bocca stretta di una persona che si sta facendo forza per resistere a tutto. Colpisce anche il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua. O come qualcuno che da anni si ripeta a mente sempre lo stesso discorso per paura di dimenticarne dettagli essenziali. Senza mai alzare la voce o perdere la pazienza, Ilaria Cucchi resiste da più di tremila giorni alle voci di chi ha tentato di infangarla in tutti i modi. Si sa di chi si tratta, vorrei evitare di riverberarne una volta di più i nomi nell’algoritmo. Ministri dallo sguardo incattivito che hanno tentato di approfittare dell’idea antiquata ma diffusa che la dipendenza da sostanze sia come l’invasione degli ultracorpi, che chi si droga si ritrovi posseduto come i bambini biondi nel film del 1960 Il villaggio dei dannati.
Non è così. La droga non trasforma le persone. Forse mette in crisi le famiglie, e Ilaria Cucchi, nella propria, si è data sempre da fare per convincere il fratello a curarsi, a andare in comunità. Non è un compito facile: «Sono stata anche la sua peggior nemica», ha detto lei. Che Stefano Cucchi non sia morto di droga ma di violenza meschina, riservata a persone considerate di serie B, vigliacca e oscena, che si consuma nelle celle isolate, di notte, in tanti contro uno, oggi è accertato. C’è la confessione di uno dei carabinieri presenti la notte del 22 ottobre 2009 nella caserma Appia di Roma: «Il momento è arrivato. Lui c’era e finalmente può raccontare», ha scritto Ilaria Cucchi sul suo profilo twitter l’8 aprile. Lei resta fedele all’immagine che ce ne siamo fatti, dice: «Ho visto delle cose così brutte in carcere che quasi non lo auguro nemmeno agli assassini di mio fratello». È rimasta a vivere a Roma Est. Si prende cura dei genitori, che per il dispiacere si sono ammalati. Un amico che fa il cameriere in un bar famoso al Pigneto racconta che va spesso a pranzo li con Fabio Anselmo: «Sono sempre gentili». È l’unico particolare non triste di questa storia, il fatto che Cucchi e Anselmo si siano innamorati: «Un regalo che mi ha fatto Stefano», ha detto lei. «Mi chiedeva sempre se ero felice, perché si accorgeva che non lo ero».
· Il Concerto per Cucchi.
“LO “SCONCERTO” DEL PRIMO MAGGIO MI METTE UNA TRISTEZZA INFINITA”. Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Non so a voi, ma a me lo «sconcerto» del 1° maggio in piazza San Giovanni a Roma mette una tristezza infinita. Colpa mia, lo ammetto, perché leggo che ad altri è piaciuto molto. Forse perché ragiono in termini di comunicazione, ma il maglioncino di Ambra con la scritta «Cgil Cisl Uil» era come mettere il dito nella piaga. Ambra ha assorbito lo spirito polemico del suo fidanzato Massimiliano Allegri e ha voluto infilarsi uno straccetto in polemica con quanti lo scorso anno l' avevano criticata per aver indossato una mise griffata. Avrei voluto essere Lele Adani e spiegarle alcune cose. Forse perché la pioggia suggerisce mestizia, desiderio di un riparo: «C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo». O forse per tutti quegli omaggi iniziali a illustri scomparsi: Kurt Cobain, Lou Reed, metà dei Beatles Il problema non è Ambra (per quanto), il problema è la scritta, un vero paradosso. In termini simbolici, il concertone è quanto di più distante esista dalle politiche sindacali, dal tipo di comunicazione di Maurizio Landini (anche lui ha un suo modo di vestirsi), dal vuoto di Carmelo Barbagallo, dalle lezioncine di Annamaria Furlan. E infatti il sindacato è assente, non si rivolge ai giovani, lavora su altre piazze. Certo, la presenza di Noel Gallagher che canta «All you need is love», accanto ai suoi successi con gli High Flying Birds, ha portato un respiro internazionale e ha elevato il tasso di rock della serata dopo un pomeriggio segnato, bisogna dirlo, da bande di misconosciuti (a parte i portentosi Pinguini Tattici Nucleari) in cerca della necessaria visibilità. Poi, come dicono le cronache, «Carl Brave diverte, Manuel Agnelli fa sognare, Daniele Silvestri fa sfogare la piazza con un liberatorio "mortacci", i Subsonica fanno ballare». Accanto ad Ambra c' era Lodo Guenzi. Due spalle (di cui una spalluccia) non fanno un conduttore.
Poche cantanti sul palco. Ma le donne conquistano la scena. Polemiche per una scaletta quasi tutta di uomini ma Ambra Angiolini, Ilaria Cucchi e a Bari Valeria Golino sono le protagoniste di un immaginario che sta cambiando. Meno star e più artisti che parlano ai giovani. Angela Azzaro il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio. La scaletta del Concertone a piazza San Giovanni le aveva tenute fuori, ma le donne si sono riprese la scena. La polemica che aveva caratterizzato la vigilia del classico appuntamento del Primo Maggio non era campata in aria e bene hanno fatto le artiste che hanno organizzato un contro evento all’Angelo Mai, lo spazio occupato a Roma. Ma accesi i riflettori, iniziata la “festa” la voce delle donne si è fatta sentire con forza. Si è sicuramente sentita quella di Ambra Angiolini, una attrice e donna di spettacolo che ogni volta, come una sorta di maledizione, deve dimostrare di non essere più la ragazza teleguidata di “Non è la Rai”. Anche questa volta c’è riuscita dominando il palco senza sbavature, con simpatia e professionalità. Ilaria Cucchi, che da anni porta avanti con raro coraggio la battaglia perché emerga la verità sulla morte di Stefano, l’altro ieri ha conquistato anche il palco di San Giovanni. Il suo esempio, più di tanti altri discorsi politici, riesce a parlare alla generazione in piazza, rappresenta un simbolo importante anche per loro che hanno urlato, in coro, il nome del fratello. A Bari, dove era in corso la manifestazione di cinema Bifest, Valeria Golino nel salutare la platea ha osato addirittura fare l’augurio di un buon Primo Maggio con il pugno chiuso, con un gesto fino a qualche anno fa scontato, quasi retorico, ma che oggi in pochi, soprattutto nel mondo del cinema, sembrano ricordarsi e che assume quindi una valenza quasi dirompente. Ma come è possibile che l’accusa di esclusione delle donne dal Primo Maggio e questo protagonismo femminile vadano insieme? La risposta è semplice da enunciare, difficile da rimuovere. Il problema delle artiste che non arrivano sul palco dei grandi eventi non dipende certo dalla mancanza di talenti o dalla mancanza di artiste determinate, ma da una struttura di potere che – più si sale – più resta nelle mani degli uomini. Giustamente gli organizzatori del Primo Maggio hanno protestato contro produttori e agenzie delle cantanti che hanno detto no alle loro proposte di ingaggio. Sotto accusa è la struttura che va cambiata, anche forzando la mano, perché niente accade per caso o con facilità. Ma nonostante il potere continui a restare nelle mani maschili in vari ambiti ( politica, arte, sapere) le donne sono diventate più forti, più determinate e appena conquistano lo spazio pubblico si fanno sentire. Il Primo Maggio lo hanno fatto cogliendo anche il bisogno di simboli di una generazione. Il tifo quasi da stadio per Ilaria, il pugno chiuso di Valeria, la forza di Ambra di uscire dallo stereotipo che le era stato cucito addosso raccontano un immaginario in cui le nuove generazioni cercano di identificarsi. Per tanti anni si era pensato che la società liquida, secondo la definizione stra abusata ( anche da lui stesso) del sociologo Zygmunt Bauman, non avesse bisogno di simboli, che la caduta del muro portasse con sé un immaginario pacificato, lineare. In questi anni abbiamo scoperto, anche amaramente, che non è così. La mancanza di simboli ha generato l’identificazione nella rabbia, nel rancore. La comunità ha trovato coesione non sulla solidarietà ma sull’odio nei confronti dell’altro, un meccanismo profondo, che ha poi avuto nei social network lo strumento per diffondersi e rigenerarsi. Oggi le nuove generazioni sembrano voler chiedere altro, vogliono poter credere in qualcosa. Il successo del film sulla vicenda di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, il calore con cui Ilaria è stata accolta sul palco del Primo Maggio sono i segni di questa necessità, di questo bisogno di uscire dal presente e di credere nel futuro. E’ lo stesso meccanismo che ha fatto scattare Greta Thunberg ( un’altra giovanissima donna). Non solo la questione ambientale, ma il bisogno di credere in qualcosa. La preoccupazione per il pianeta che stiamo distruggendo come necessità di condividere la stessa idea di mondo, di umanità. E per questo che il Concertone funziona ancora: perché dà una risposta anche se occasionale alla necessità di stare insieme intorno a un ideale condiviso. Quest’anno l’offerta era molto giovane, nomi forse non noti a tutti, ma amati dal pubblico che va a piazza San Giovanni. Rancore, Anastasio, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ghali, Motta e gli ormai “vecchi” Daniele Silvestri e i Negrita. I quaranta, cinquantenni si sono molto lamentati. Ma questa volta tocca a loro, a quei ragazzi e a quelle ragazze che hanno urlato “Stefano, Stefano”.
· Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.
Processo Cucchi, gli agenti penitenziari scagionati ora chiedono un milione a testa. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it. Una vicenda giudiziaria che ha «devastato la loro vita». E ora «va resa giustizia a Stefano, ma anche a chi è stato accusato ingiustamente». I tre agenti della polizia penitenziaria, assolti in maniera definitiva nel primo processo sulla morte di Stefano Cucchi, attraverso i propri legali chiedono ora giustizia, nelle battute finali del procedimento contro cinque carabinieri. La sentenza è prevista a novembre. Le parti civili chiedono anche un risarcimento di un milione di euro per ognuno dei tre agenti della penitenziaria. Per il legale Diego Perugini, parte civile per uno degli agenti imputati nel primo processo, la vita del suo assistito «è stata distrutta da una cronaca giudiziaria che l’ha descritto come l’omicida di Stefano Cucchi. Gli hanno strappato la vita dalle mani. La sua vita è stata devastata. Un danno fatto anche alla giustizia». Per l’avvocato Massimo Mauro, dev’essere «resa giustizia a Stefano Cucchi e giustizia a tre appartenenti della polizia penitenziaria che devono riacquisire quella dignità che è stata loro calpestata». Sulla stessa linea la parte civile che rappresenta Rita Calore, madre di Stefano, e l’associazione Cittadinanzattiva onlus: «Il processo Cucchi diventerà un simbolo di come il sistema giudiziario possa rimediare ai propri errori - ha spiegato l’avvocato Stefano Maccioni -. Esattamente oggi, dieci anni fa, in queste ore - ha ricordato il penalista - Stefano veniva portato in tribunale per l’udienza di convalida del suo arresto». In aula è intervenuto anche il legale di Vincenzo Nicolardi, uno dei carabinieri imputati per calunnia. L’avvocato Alessandro Poli ha spiegato le ragioni del suo assistito: «In merito alle annotazioni di servizio dei carabinieri dopo la morte di Cucchi, prese in esame in aula, Nicolardi ha riconosciuto solo quella del 27 ottobre 2009 perché quella redatta il 16 ottobre non era stata scritta e firmata né mai vista da lui. Nella relazione del 27 ottobre, Nicolardi aveva specificato: fin quando è stato con noi non aveva lamentato nessun dolore. Quelle annotazioni erano state redatte dopo la morte di Stefano per fare chiarezza sulla vicenda, su richiesta dei vertici dell’Arma». Poli ha poi segnalato «le incongruenze» all’interno delle dichiarazioni dell’imputato-testimone, il carabiniere Francesco Tedesco, il quale ha denunciato di aver assistito al pestaggio di Cucchi da parte - secondo la sua testimonianza - dei colleghi Di Bernardo e D’Alessandro nella stazione Appia. I tre carabinieri sono accusati di omicidio preterintenzionale. Tedesco, così come Vincenzo Nicolardi e l’allora comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini, deve rispondere anche dell’accusa di falso e calunnia, per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, e aver testimoniato il falso al processo di primo grado, con dichiarazioni che portarono all’accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità nei confronti di Cucchi.
Roma, al processo Cucchi il pm chiede 18 anni per i due carabinieri. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni, Giovanni Bianconi. Musarò: «Non chiediamo pene esemplari ma giuste». «Vi chiedo di condannare per omicidio preterintenzionale Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a 18 anni di carcere e per il falso e calunnia Roberto Mandolini a 8 anni e Vincenzo Nicolardi, e di assolvere Francesco Tedesco per l’omicidio preterintenzionale ma di condannarlo a 3 anni e 6 mesi»: le richieste del pubblico ministero Giovanni Musarò chiudono la requisitoria del processo Cucchi bis, durante la quale sono stati ripercorsi i passaggi più importanti dal punto di vista processuale. Dopo due anni di dibattimento la discussione si avvia verso la conclusione. Il momento più significativo era venuto dalle rivelazioni in aula dell’imputato Francesco Tedesco il quale aveva ricostruito i momenti successivi all’arresto di Stefano Cucchi: «Cucchi e Di Bernardo (il carabiniere Raffaele Di Bernardo ndr) cominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano... Fu un’azione combinata» aveva rivelato l’imputato l’11 ottobre 2018. In seguito alla morte di Stefano Cucchi era scomparsa una relazione dello stesso Tedesco sul pestaggio, ha raccontato Tedesco assistito dal suo avvocato Eugenio Pini: «Pensavo — ha detto — che di lì a breve mi avrebbe convocato il maresciallo Mandolini per chiedermi conto dell’annotazione ma io ero determinato ad attestare quanto era accaduto. Qualche giorno dopo, invece, mi resi conto che, sulla copertina del fascicolo, era stato cancellato con un tratto di penna quello che avevo scritto e che le due annotazioni erano scomparse». La testimonianza è importante anche ai fini della ricostruzione del depistaggio che sarà affrontato al processo ter (inizierà il 12 novembre prossimo). Infine ci sono le dichiarazioni del collegio dei periti presieduto dal professor Francesco Introna che per la prima volta, a giugno, ha ammesso l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi. «Nessuno può avere certezze — ha detto Introna — però, se non ci fosse stata la frattura trasversale del bacino (causata dalle botte, ndr), Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni». La sentenza potrebbe arrivare già il 6 novembre.
Cucchi, chiesti 18 anni per i due carabinieri che lo pestarono. Il pm: "Depistaggi da film dell'orrore". Le richieste di condanna nel processo bis per le responsabilità dei cinque militari, tra cui i due autori del pestaggio rispondono di omicidio preterintenzionale e l'allora comandante della Stazione Appia per il quale sono stati chiesti 8 anni oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sorella Ilaria: "Questo processo ci riavvicina allo Stato". La Repubblica il 03 ottobre 2019. Diciotto anni per i due autori del pestaggio. Con la specifica che non si tratta di "un processo all'Arma dei carabinieri anche se nella vicenda Cucchi i depistaggi hanno toccato picchi da film dell'orrore". Sono arrivate le richieste di condanna nell'ultimo giorno di requisitoria nell'aula bunker di Rebibbia del pm Giovanni Musarò nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell'ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell'ospedale Pertini di Roma. "Questo è un processo contro cinque esponenti dell'Arma dei Carabinieri che - ha spiegato subito Musarò - come altri esponenti dell'Arma oggi imputati in altro procedimento penale, violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte". La sentenza è slittata al 14 novembre. La decisione è stata presa dai giudici della prima Corte d'Assise di Roma a causa dei numerosi avvocati difensori degli imputati che dovranno intervenire e per permettere eventuali repliche. Cinque gli imputati: si tratta Francesco Tedesco, che a nove anni di distanza ha rivelato che il 31enne venne 'pestato' da due suoi colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, accusati come lui di omicidio preterintenzionale per i quali è arrivata la richiesta di 18 anni di carcere. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia (nei confronti degli agenti penitenziari) assieme al maresciallo Roberto Mandolini, mentre solo di calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. Per Tedesco, accusato dello stesso reato di omicidio, il pm ha sollecitato l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Per lui, però, che risponde anche del falso, è stata chiesta una condanna a 3 anni e 6 mesi. Otto anni di reclusione, poi, sono stati avanzati per il maresciallo Mandolini (all'epoca comandante interinale della Stazione Appia), anche lui per il reato di falso. Il 'non doversi procedere' per prescrizione dalla calunnia commessa ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria è stato sollecitato, infine, oltre che per Tedesco e lo stesso Mandolini, anche per il quinto imputato, Nicolardi. "La responsabilità è stata scientificamente indirizzata verso tre agenti della polizia penitenziaria - ha detto il pm ricostruendo la drammatica morte del ragazzo - ma il depistaggio ha riguardato anche un ministro della Repubblica che è andato in Senato e ha dichiarato il falso davanti a tutto il Paese". Il riferimento è alla giornata di martedì 3 novembre 2009, quando nell'aula del Senato il ministro della giustizia, Angelino Alfano, nell'ambito dell'informativa del governo sulla vicenda, venne chiamato a riferire sulle circostanze della morte del giovane. “Un pestaggio violentissimo – ha proseguito l’accusa - in uno stato di minorata difesa. Sono due le persone che lo aggrediscono. Colpito quando era già a terra con calci in faccia, di questo stiamo parlando. La minorata difesa deriva dal suo stato di magrezza". "Stefano era magro – ha spiegato - era sottopeso, pesava circa 43 kg perché aveva la necessità di stare sotto i 44 kg dato che doveva combattere nei pesi 'super mosca'. Non era una magrezza patologica. Sul tavolo dell'obitorio invece pesava 37 kg. Perché perse 6 kg in 6 giorni? Perché durante la degenza al Pertini non si alimentava a causa del trauma subito. Si è speculato sulla sua magrezza". "Nel comportamento di Cucchi all'ospedale - ha sottolineato - vi era un atteggiamento di chiusura, chiarissimo sintomo da 'disturbo post traumatico da stress' a causa del pestaggio subito, come dichiarato dal professore Vigevano. Cucchi rifiutava le cure e prendeva le medicine solo quando venivano aperte davanti". "Venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata – l’affondo del pm - nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria". "Questo processo ci riavvicina allo Stato, riavvicina i cittadini e lo Stato", commenta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, a conclusione della requisitoria: "Non avrei mai creduto di trovarmi in un'aula di giustizia e respirare un'aria così diversa. Sembra qualcosa di così tanto scontato, eppure non è così. Se ci fossero magistrati come il dottor Musarò non ci sarebbe bisogno di cosiddetti eroi o della sorella della vittima che sacrifica dieci anni della sua vita per portare avanti sulle sue spalle quella che è diventata la battaglia della vita".
Da Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. Diciotto anni per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri autori del pestaggio costato la vita a Stefano Cucchi. È la richiesta del pm Giovanni Musarò, a conclusione della sua requisitoria nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Di Bernardo e D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso con Francesco Tedesco, il militare che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi. Per Tedesco il pm ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto sul reato di omicidio preterintenzionale e la condanna a tre anni e sei mesi per il reato di falso nella compilazione del verbale di arresto di cui risponde insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Per Mandolini il pm ha chiesto otto anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Chiesto il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di calunnia nei confronti di Mandolini, Tedesco e Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, a giudizio per le calunnie contro i tre agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso del primo processo. “Questo non è un processo all’Arma ma a cinque carabinieri traditori che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’Istituzione di cui facevano e fanno parte” ha detto Musarò prima di formulare la richiesta di condanna nel processo per la morte del geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. Un riferimento, quello del tradimento, anche per gli altri carabinieri accusati del depistaggio nell’inchiesta-bis: il generale Alessandro Casarsa, il colonnello Francesco Cavallo, il tenente colonnello Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e il carabiniere Francesco Di Sano. Istituzioni tradite, ha aggiunto Musarò, raggiungendo “picchi di depistaggio inimmaginabili, da film dell’orrore“. Sul banco degli imputati, come detto, ci sono cinque militari dell’Arma: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assoluti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso). Per tutti, alla fine della requisitoria, l’accusa formulerà alla corte, probabilmente in giornata, le richieste di pena. Stefano Cucchi “venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata. Nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria”, ha spiegato il pm. Secondo Musarò anche così si tentò di “coprire la verità”. Quando venne arrestato, ha proseguito Musarò, Cucchi “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro”. Era “complessivamente” in “buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”.
Omicidio Cucchi, il pm chiede l’assoluzione del brindisino Tedesco. L’accusa ha chiesto 18 anni di carcere per i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro per omicidio preterintenzionale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Ottobre 2019. «Questo non è un processo all’Arma dei Carabinieri, ma è un processo contro cinque esponenti dell’Arma dei Carabinieri che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte». Ieri mattina nell’aula bunker di Rebibbia si è conclusa la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale «Pertini» di Roma. Il pm doveva formulare le richieste di condanna nei confronti degli imputati, tutti e cinque carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assolti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso) e prima di farlo ha posto quella premessa che concludeva le argomentazioni in fatto ed in diritto col rappresentante dell’accusa che precisato come «i depistaggi del 2009» avessero «assunto grande rilevanza, perché hanno condizionato la ricostruzione dei fatti» oggetto del processo, ed ha aggiunto che «la migliore riprova di tale assunto è rappresentata dal fatto che l’acquisizione di alcuni elementi decisivi, sia ai fini di questo processo sia ai fini di quello sui depistaggi del 2015, è stata possibile grazie alla leale collaborazione offerta nel 2018 e nel 2019 proprio dall’Arma dei Carabinieri, in particolare dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, dal Reparto Operativo e dal Nucleo Investigativo, i cui componenti hanno profuso impegno e intelligenza ai fini della esatta ricostruzione dei fatti». Secondo il pm «per sgombrare definitivamente il campo da strumentali insinuazioni, non si può sottacere che straordinaria importanza ha assunto la costituzione di parte civile del Comando Generale dei Carabinieri nel cosiddetto processo dei depistaggi» ha fatto rilevare ancora ponendo all’attenzione dei giudici una osservazione: «È impossibile dire che non ci sia un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte» di Stefano Cucchi. «Unica spiegazione medico-legale su causa morte che ha una dignità è quella del riflesso vagale bradicardizzante - ha aggiunto Musarò - I periti parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Del resto, secondo il pm, «quando la sera del 15 ottobre Stefano Cucchi fu arrestato “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro. Era complessivamente in buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”». E «non mangiava - ha ripreso - non da quando era al Pertini, bensì da quando era a Regina Coeli: lui non mangiava perché non stava bene. E il prof. Vigevano dice che era dovuto anche a un disturbo post traumatico da stress, i cui sintomi sono rinvenibili anche dal comportamento complessivo di Cucchi in quei giorni». Secondo il Pm, dunque, «due persone l’aggrediscono, lo colpiscono anche quando lui era già a terra, di notte. La tanta evocata magrezza diventa a carico anche sotto il profilo del dolo. Aggredire con quelle modalità una persona fragile e sottopeso, significa aggredire una persona che può riportare anche danni più gravi, com'è accaduto a Stefano Cucchi. E di questo occorrerà tenerne conto». Le conclusioni della requisitoria sono state dunque queste: condanne a 18 anni di carcere per due dei carabinieri della Stazione Roma Appia, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi. Cosa diversa per l’imputato-testimone Francesco Tedesco, per il quale il rappresentante dell’accusa ha sollecitato una sentenza d’assoluzione con la formula «per non aver commesso il fatto», ma la sua condanna a tre anni e mezzo di reclusione per l’accusa di falso. Una sentenza di condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini (all’epoca comandante interinale della Stazione Appia) per l’accusa di falso. Il non doversi procedere per prescrizione, infine, dall’accusa di calunnia è stata sollecitata per il carabiniere Vincenzo Nicolardi e per Francesco Tedesco e Roberto Mandolini.
Lettera di Ilaria Cucchi pubblicata da ''Leggo'' il 4 ottobre 2019. Siamo tornati nella stessa aula dove ci avevano insultati, attaccati, dileggiati. Quanto tempo è passato. 3650 giorni. Un centinaio di udienze. Siamo stremati. Un pubblico ministero come si deve. Finalmente. Lo ascolto ricostruire la verità. È bravo. È preparato. È onesto. È giusto. Ho dietro i miei genitori. Mia madre. Quando Fabio (l’avvocato Anselmo) inizia a parlare di loro mi viene da piangere. «Siamo stanchi - dice - siamo stremati. Guardateli i genitori di Stefano Cucchi. Hanno dato a tutti noi una lezione di rigore morale, di fiducia nella Giustizia». A Fabio si rompe un attimo la voce. Sento la sua stanchezza. È quella di tutti noi. Noi, famiglia di Stefano Cucchi, siamo stati condannati all’ergastolo da coloro che lo pestarono selvaggiamente causandone la morte tra atroci sofferenze. L’ergastolo più dieci anni di tortura. Non nutro odio né sentimento di vendetta. Sono troppo stanca anche per quelli e, poi, non mi sono mai appartenuti. Ho solo voglia di verità e giustizia. Sentire parlare così il Pubblico Ministero mi restituisce quella fiducia nello Stato che stava vacillando. L’altro ieri era il compleanno di mio fratello. Stefano vorrei tanto dirti che non eri solo. Ma già lo sai.
Caso Cucchi, il pm in aula: "Primo processo kafkiano, depistaggio scientifico. È stato pestato". La requisitoria del pubblico ministero nel processo bis in Corte d'Assise contro i cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio del geometra romano di 31 anni morto nel 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. La Repubblica il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi 'professoroni'. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise.
Caso Cucchi, le accuse del pm: «Pestaggio degno di teppisti». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Stefano Cucchi viene evocato più volte nell’atto conclusivo del processo bis per la sua morte. E non solo come vittima del pestaggio sul quale la procura conduce una requisitoria di sette ore, che avrà una coda il 3 ottobre con le richieste di condanna. Ma come una persona alla quale restituire dignità: «Non l’ho conosciuto ma lo immagino quando per orgoglio si rifiuta di parlare con chi può aiutarlo», dice il pm Giovanni Musarò. «Cucchi — aggiunge — è stato vittima di un vile e violentissimo pestaggio, degno di teppisti da stadio. La caduta gli ha causato gravi lesioni alle vertebre. E poi di uno scientifico depistaggio cominciato fin dal verbale di arresto, dove mancano i nomi di chi oggi è imputato e nel quale fu scritto che era senza fissa dimora per tenerlo in carcere. Questo “giochino” gli è costato la vita». I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale assieme a Francesco Tedesco, anche se la posizione di quest’ultimo è diversa. Perché non colpì il detenuto e provò a fermare i colleghi. E perché «ha rotto il muro del silenzio (arrivando a chiedere scusa in aula, ndr). Tedesco è accusato poi di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre Vincenzo Nicolardi risponde solo di calunnia (prescritta). Il magistrato che ha riaperto il caso prova a guidare la corte d’Assise in una rivisitazione storica di fatti che all’interno del processo hanno acquisito tutt’altro significato: «Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi», dice prima di incrociare tra loro testimonianze chiave (il detenuto Lainà che parlò con Cucchi («L’hanno ridotto come una zampogna, mi disse “si sono divertiti a picchiarmi”») e intercettazioni choc («Magari morisse»), prove materiali (i registri sbianchettati) e deduzioni logiche in una architettura in cui ogni elemento dà credibilità agli altri ma nessuno è indispensabile («neanche Tedesco»). «Non avevamo tesi precostituite, cercavamo la verità e non abbiamo fatto sconti». Il pm ricorda anche gli agenti della penitenziaria e i medici accusati nel «processo kafkiano» finito senza colpevoli, in cui «vittima e testimoni diventavano imputati» e fatto di «incredibili perizie mediche» che portarono la corte alla «resa cognitiva». «Ci hanno detto che Cucchi era sorridente e collaborativo per nasconderne la reazione che ha innescato il pestaggio, poi che era tossico, anoressico e sieropositivo, un morto che cammina, per sminuire la gravità dei colpi». Anche su questo il pm restituisce a Cucchi la sua immagine: «Pesava 43chili, ne ha persi sei in sei giorni perché non riusciva a mangiare dal dolore. La sua magrezza era però evidente a tutti ed è un aggravante per chi si è accanito selvaggiamente su un soggetto debole». Parole quasi di affetto per la famiglia: «Ci hanno detto che Cucchi era rimasto solo mentre il padre Giovanni era in aula ad abbracciarlo». E poi: «Si parla sempre della loro tenacia in questi anni, io ne apprezzo la fiducia con cui sono tornati a rivolgersi a noi». «Mi piacerebbe tanto che Stefano potesse aver sentito le parole del pm — il commento della sorella Ilaria — . Penso che sarebbe felice. Al mio avvocato ho detto “Allora è così che si fa un processo?”. Sto facendo pace con quest’aula. Sono commossa. Lo Stato è con noi».
Da repubblica.it il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi professoroni. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. "Le lesioni più gravi sono state prodotte dalla caduta di Cucchi, dopo un violentissimo pestaggio. Quella caduta - spiega Musarò - è costata la vita a Stefano Cucchi, si è fratturato due vertebre. Lui stesso, a chi gli chiese cosa fosse successo, disse: Sono caduto". Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise. "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz", continua Musarò citando Lainà. "Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana - era stato il ricordo di Lainà -. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse".
Cucchi, il pm: «Dalla storia di un pestaggio ne esce una di depistaggi». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. «È una discussione non semplice sia per la durata del processo, sia per quello che è venuto fuori. Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi che non possiamo ignorare». È l’incipit della requisitoria del pm Giovanni Musarò, l’atto finale del processo bis in corte d’Assise sul pestaggio e la morte di Stefano Cucchi, in cui sono imputati cinque carabinieri. A tre di loro viene contestato l’omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno di questi, il vicebrigadiere Francesco Tedesco che - chiedendo pubblicamente scusa in aula alla famiglia Cucchi - ha chiamato in causa i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Vincenzo Nicolardi. Il pm ha voluto ricordare anche i nomi degli agenti della polizia penitenziaria e dei medici ingiustamente accusati e poi assolti in un «processo kafkiano» in cui «la vittima diventava imputato» e del quale il pm ricorda come punto di partenza anche «incredibili» perizie mediche fatte su Cucchi che, si è scoperto poi, risentirono dello «scientifico depistaggio» dei vertici dei carabinieri. In aula oltre al pm Giovanni Musarò, c’è il capo della Dda capitolina e procuratore reggente, Michele Prestipino. Oltre naturalmente a Ilaria Cucchi con i suoi genitori, che assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo hanno seguito tutte le udienze del processo. Nel processo nato dal filone principale sono contestati ad altri otto carabinieri, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Imputati sono il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del gruppo Roma, il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, ex comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. E ancora il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo di Roma, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Infine il carabiniere Luca De Cianni, autore di una nota in cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima.
Cucchi, il pm: “Pestaggio violentissimo, poi un depistaggio kafkiano”. Le Iene il 20 settembre 2019. “Non riusciva a mangiare per il dolore, ha perso 6 chili in 6 giorni”, ha aggiunto il pubblico ministero durante la requisitoria. Noi de Le Iene abbiamo seguito con più servizi e articoli il caso della tragica morte di questo ragazzo dopo il fermo. Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, ma è stato vittima di un violento pestaggio. E anche se quella caduta alla fine gli è stata fatale, le botte subìte lo avevano già ridotto in condizioni disperate: “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore”. Il terribile racconto dell’inferno vissuto da Stefano Cucchi arriva dal pm Giovanni Musarò, durante la requisitoria nel processo che vede tre carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale: “Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. E dopo la sua morte è arrivato il depistaggio: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il magistrato ha ricordato anche le parole del detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli: "Cucchi lascia una sorta di testamento a Lainà dicendogli che a picchiarlo sono stati due carabinieri in borghese della prima stazione da cui è passato". Le parole di Lainà, pronunciate nel corso del primo processo e ricordate oggi, fanno inorridire: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse". Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso Cucchi. Il ragazzo è stato fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. È morto il 22 ottobre in ospedale mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati tre carabinieri per omicidio preterintenzionale. Uno di questi, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Subito dopo l’ammissione di Tedesco, Ilaria Cucchi ha detto a Gaetano Pecoraro: “La promessa che feci a Stefano davanti al suo corpo in obitorio l’ho mantenuta: sono sicura che per lui verrà fatta giustizia”.
La requisitoria del pm: «Su Cucchi pestaggio da stadio». “I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, autori di un’aggressione così vile, se la sono presa con una persona che sotto peso, di appena 40 kg, che consideravano un drogato”. Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Sulla morte di Stefano Cucchi è stato messo in atto «uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato». È iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis in Corte d’Assise contro cinque militari dell’Arma, accusati del pestaggio del geometra romano, morto a 31 anni il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato. Un processo «delicato», ha spiegato, nato dopo un primo processo che il magistrato ha definito «kafkiano» e che vedeva gli attuali imputati sul banco dei testimoni. Un processo in cui si è parlato di «cateteri applicati per comodità» e fratture lombari «non viste apposta da famosi “professoroni”» . Per la morte di Cucchi sono a processo i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, e Vincenzo Nicolardi. Quello su Cucchi fu un «pestaggio violento e repentino», cominciato con uno schiaffo in pieno viso, seguito da un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano e poi una spinta che provocò una rovinosa caduta a terra, determinante per la morte, perché causò la frattura delle vertebre L3 e S4, alla quale seguì un calcio in faccia. Un pestaggio «degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso» ha sottolineato Musarò. Dopo la caduta, «Tedesco interviene, blocca i colleghi, evita che a Cucchi arrivi un altro calcio, aiuta il ragazzo a tirarsi su e avverte subito il maresciallo Roberto Mandolini per raccontargli quello che era successo». Il depistaggio trova il suo punto di inizio già nel verbale d’arresto, nel quale Mandolini inserì per Cucchi la dicitura – falsa – “senza fissa dimora”, nonostante le perquisizioni domiciliari nella casa in cui il giovane viveva con la madre. «Per questo il giudice applica la misura in carcere – ha sottolineato il pm – E se a Cucchi fossero stati dati i domiciliari, questo processo non lo avremmo mai fatto. Questo giochetto del “senza fissa dimora” è costato la vita a Cucchi». Fu quel verbale d’arresto «il primo atto scientifico di depistaggio». Cucchi perse sei chili in sei giorni, un calo repentino di peso «riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all’epoca. Non mangiava perché aveva dolore, stava male». Una sofferenza testimoniata da Luigi Lainà, il detenuto che incontrò Cucchi il giorno dopo il suo arresto e diventato teste chiave per la riapertura del processo. «Era gonfio come una zampogna. Pure a me hanno massacrato ma mai a quei livelli ha raccontato – A quei livelli o lo fa un folle, o più folli o una persona senza scrupoli, si erano divertiti a picchiarlo». Ed era stato proprio Cucchi a dirgli che a picchiarlo brutalmente erano stati gli stessi due carabinieri in borghese che lo avevano arrestato, una sorta di «testamento» lasciato dal giovane a Lainà.
Cucchi, l’Arma e la Difesa chiedono di essere parte civile Ilaria: «Sono emozionata». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Il giudice per le indagini preliminari Antonella Minnuni si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusato del depistaggio dell’inchiesta su Stefano Cucchi. Nel frattempo l’Arma e il ministero della Difesa hanno depositato la richiesta di costituirsi parte civile al processo. Di seguito ecco i nomi e le accuse nei loro confronti: il primo è il generale Alessandro Casarsa, fino a qualche mese fa comandante dei corazzieri al Quirinale che, secondo il capo d’imputazione, chiedeva la modifica «della prima annotazione redatta dal carabiniere Francesco Di Sano nella parte relativa alle condizioni di salute di Stefano Cucchi». In particolare, sempre secondo il capo d’imputazione, Casarsa induceva Di Sano ad «attestare falsamente che “il Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza” omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare palesate da Stefano Cucchi». Il generale, all’epoca colonnello, è accusato di falso. Stessa accusa per il colonnello Francesco Cavallo che, rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con il maggiore Luciano Soligo, chiedeva espressamente a quest’ultimo la modifica della prima annotazione di Di Sano. Falso anche per Soligo che «veicolando una disposizione proveniente dal gruppo carabinieri di Roma, ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola di redigere una seconda annotazione di servizio recante la falsa data del 26/10/2009» e nella quale si omettevano le difficoltà accusate da Cucchi nel camminare. Accusato di falso pure l’allora luogotenente Massimiliano Colombo Labriola che guidava la stazione di Tor Sapienza e che riceveva, stampava e faceva firmare la mail con l’annotazione modificata sulle condizioni di salute di Cucchi. E accusa di falso, infine, per Francesco Di Sano che sottoscriveva l’ annotazione di servizio con data e contenuti falsificati e omissivi. Secondo il pm Giovanni Musarò Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero fabbricato anche un’ altra nota sulle condizioni di salute di Cucchi: un appunto nel quale «si attestava falsamente che Cucchi manifestava “uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio” omettendo ogni riferimento ai dolori al capo, ai giramenti di testa e ai tremori manifestati dall’arrestato» Infine il depistaggio recente, quello contestato al colonnello Luciano Sabatino e al capitano Tiziano Testarmata, accusati di favoreggiamento e omessa denuncia all’autorità giudiziaria perché, nel 2015, ometteva « di denunciare la sussistenza dei reati di falso ideologico in atto pubblico e ometteva di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa». Falso anche per il carabiniere Luca De Cianni che, nel redigere una nota ufficiale in merito a un incontro con Riccardo Casamassima (fra i primi ad aver accusato i suoi colleghi di aver mentito sulla vicenda Cucchi), attribuiva a Casamassima alcune falsità fra le quali anche quella secondo la quale Cucchi «si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo».
Cucchi, inchiesta depistaggi: Arma, Difesa e Interni chiedono di costituirsi parte civile. Ilaria: "E' una cosa senza precedenti". Il gip si è riservato di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo La Repubblica il 21 maggio 2019. Il ministero della Difesa, l'Arma dei carabinieri, rappresentata dal comandante generale Giovanni Nistri, il ministero degli Interni e i familiari di Stefano Cucchi, i genitori e la sorella Ilaria, vogliono costituirsi parte civile nel procedimenti a carico di otto militari, accusati dei falsi e dei depistaggi legati alla vicenda del geometra 31enne deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di droga e picchiato in caserma per essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. L'istanza di costituzione, su cui il gip Antonella Minunni si è riservata di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo, è stata presentata anche dal carabiniere Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni ha consentito alla procura di riaprire le indagini sulla morte di Stefano, dai tre agenti della polizia penitenziaria, già processati con l'accusa di essere gli autori materiali del pestaggio e assolti in tutti i gradi di giudizio, dalla onlus Cittadinanzattiva e dal Sindacato dei Militari, guidato dal segretario generale Luca Marco Comellini. l pm Giovanni Musarò contesta agli imputati (che hanno chiesto di procedere con il rito ordinario) i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia in riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza: per tutti l'accusa è di falso. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni (autore di una nota di pg), cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccatè riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Stefano "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla corte d'assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato al pm e ribadito in aula da uno degli imputati (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. "Dopo 10 anni oggi è una giornata significativa e sono davvero emozionata per la decisione dell'Arma dei carabinieri di volersi costituire parte civile, è una cosa senza precedenti". Così Ilaria Cucchi al termine dell'udienza preliminare nell'ambito del filone dell'inchiesta sui presunti depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 dopo essere stato arrestato per droga. "Dedico questo a chi continua a insinuare che la famiglia Cucchi sia contro i carabinieri e viceversa" ha aggiunto. "Quanto accaduto oggi in udienza rappresenta un momento di riavvicinamento non solo tra la famiglia Cucchi e le istituzioni ma tra i cittadini e le stesse istituzioni - ha aggiunto Ilaria Cucchi - perché tante volte in questi anni le persone normali si sono ritrovate a vivere quel senso di frustrazione che la nostra famiglia ha provato in questi continui scontri con le istituzioni". Commentando poi la richiesta di costituzione di parte civile da parte del sindacato dei militari, Ilaria Cucchi ha poi affermato: "In vicende come la nostra troppe volte ho visto i sindacati di polizia intromettersi contro le nostre famiglie. In quest'aula per la prima volta un sindacato si è schierato al nostro fianco e non contro di noi. Questo lo dedico al signor Gianni Tonelli (ex segretario generale del sindacato di polizia Sap e parlamentare della Lega che ha denunciato Ilaria per diffamazione, ndr)". Dal canto suo, Luca Marco Comellini, segretario generale del sindacato dei militari, ha spiegato così la sua richiesta di costituzione: "Siamo qui perché vogliamo tutelare gli interessi della parte sana dell'Arma perché c'è ancora una parte sana".
Caso Cucchi: droga, chiesto il processo per il teste chiave Casamassima. Oltre al carabiniere, che nel 2016 con le sue dichiarazioni fece riaprire l'inchiesta sul pestaggio, coinvolte anche altre persone, tra cui la compagna, anche lei appuntato dell'Arma. La Repubblica 14 maggio 2019. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio dell'appuntato dei Carabinieri Riccardo Casamassima, teste chiave nel caso Cucchi, per il reato di detenzione di droga ai fini di spaccio. Assieme al militare risultano coinvolte nell'inchiesta del pm Giuseppe Bianco altre quattro persone, tra cui la sua compagna, anche lei appuntato dei Carabinieri, Maria Rosati. Secondo quanto riporta il capo d'imputazione, Casamassima e la compagna, "in concorso tra loro, detenevano nella loro casa a Roma quantitativi non determinati di sostanza stupefacente di tipo cocaina". Casamassima è il carabiniere che nel 2016 ha consentito al pm Giovanni Musarò di riaprire l'inchiesta sul pestaggio subito in caserma da Stefano Cucchi, quando venne arrestato da alcuni militari dell'Arma la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Il geometra di 31 anni morì all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo quel pestaggio. Casamassima ha ribadito le accuse ai suoi colleghi anche nel processo per omicidio preterintenzionale che si sta celebrando in corte d'assise e ha denunciato di essere stato demansionato con riduzione dello stipendio per la collaborazione fornita alla magistratura. Un mese fa sempre la procura di Roma ha chiesto il processo per otto carabinieri, dal generale Casarsa in giù, nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Tra loro anche il carabiniere Luca De Cianni, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Pochi giorni fa invece il procuratore generale ha chiesto la prescrizione per i medici dell'ospedale Pertini, ricordando però che "con più umanità" Cucchi "poteva essere salvato".
Depistaggio sull’omicidio Cucchi: chiesto il processo per otto carabinieri. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Adesso sono tutti imputati. Un generale, tre colonnelli, un capitano e altri tre carabinieri dell’Arma dei carabinieri dovranno rispondere davanti a un giudici dei reati di falso, favoreggiamento e calunnia contestati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, per i depistaggi attuati nell’ambito delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata dopo che circa un mese fa era stato inviato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Un salto di qualità non solo negli accertamenti che la magistratura romana ha svolto sulla fine del detenuto arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi mentre era detenuto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, ma anche nel livello delle persone coinvolte, che coinvolge buona parte della scala gerarchica romana dell’Arma. Il generale Alessandro Casarsa, fino all’autunno scorso comandante dei corazzieri in servizio al Quirinale, è imputato di falso insieme ai colonnelli Francesco Cavallo, Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano per aver modificato, nell’ottobre 2009, la relazione che Di Sano fece subito dopo la morte di Cucchi, cancellando alcune frasi che davano atto delle cattive condizioni del detenuto la mattina dopo l’arresto e inserendone altre meno compromettenti. Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola sono accusati dello stesso reato anche in relazione all’annotazione del carabiniere Gianluca Colicchio, dove pure furono eliminate le frasi relative ai «“forti dolori al capo, giramenti di testa e tremore» sostituite con un «malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza». Casarsa e Cavallo, a differenza di Soligo, hanno prima risposto alle domande dei pm quando furono convocati nella qualità di indagati, fornendo versioni considerate non convincenti dagli inquirenti, ma poi hanno scelto di avvalsi del diritto di non parlare quando sono stati chiamati a deporre davanti alla corte d’assise che sta processando altri cinque carabinieri per la morte di Cucchi. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capotano Tiziano Testarmata sono invece imputati di omessa denuncia perché nel 2015, quando scoprirono le doppie versioni delle relazioni di Di Sano e Colicchio, le trasmisero all’autorità giudiziaria senza segnalare che una delle due era necessariamente falsa. Inoltre Testarmata risponde di omessa denuncia perché quando scoprì che l’originale del registro del fotosegnalamento era stato “sbianchettato” alla data del 16 ottobre 1009 (giorno dell’arresto di Cucchi) non prese l’originale per portarlo in procura ma si limitò ad acquisire una copia. Infine il carabiniere Luca De Cianni è imputato di falso e calunnia perché con una relazione di servizio redata nell’ottobre 2018 ha cercato di screditare il collega Riccardo Casamassima che con le sue dichiarazioni aveva fatto riaprire, nel 2015, le indagini sul caso Cucchi.
Caso Cucchi: la procura di Roma chiede il processo per otto carabinieri. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi. Agli otto militari, incluso il generale Casarsa, coinvolti nell'inchiesta sui depistaggi sono contestati, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco", scrive il 17 aprile 2019 La Repubblica. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri della stazione Appia per detenzione di stupefacenti, la procura di Roma chiede il processo per otto militari dell'Arma (dal generale Alessandro Casarsa in giù) nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Le accuse, formulate dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone, fanno riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo adesso, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccate' riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Cucchi "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla Corte d'Assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno degli imputati poi diventato superteste (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. E ieri Tedesco ha stretto per la prima volta la mano a Ilaria Cucchi, dicendole: "Mi dispiace". Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco". "Sarò felice di avere l'Arma dei Carabinieri al mio fianco contro coloro che depistarono e scrissero le perizie che davano a Stefano tutta la colpa della sua morte ancor prima che venissero poi partorite dai medici legali del processo precedente". E' il primo commento di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di otto carabinieri.
Cucchi, il legale della famiglia: "Valutiamo azione risarcitoria contro lo Stato". Per l'avvocato Anselmo la presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte del geometra romano potrebbero avere costituito un danno alla famiglia, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte di Stefano Cucchi potrebbero avere non solo costituito un danno d'immagine all'amministrazione della giustizia ma sicuramente un danno alla famiglia, da sempre alla ricerca della verità. Per questo il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, starebbe valutando "un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato" ma anche un'iniziativa legale contro il Campidoglio", unico ancora costituito parte civile nei confronti dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, dove il geometra morì nel reparto protetto. "Quel processo però ora sta emergendo che si basa su atti e documenti falsi", spiega Anselmo. "Il primo processo, quello sui medici, sarebbe terminato con la prescrizione ma rimane allo stato in piedi solo per l'ormai unica parte civile, che è il Comune di Roma. Di fatto tutto ciò sta aiutando processualmente medici e carabinieri, i quali sperano di usufruire di una perizia che si basa su un processo sbagliato e sulle deposizioni di carabinieri che oggi sono imputati e coinvolti nell'inchiesta bis", precisa ancora Anselmo. Ma la questione dei presunti falsi, che sta emergendo ora con forza durante le udienze del processo nei confronti di 5 carabinieri, potrebbe indurre anche la Corte dei Conti a considerare nel fascicolo già aperto sul caso Cucchi il reato di danno all'amministrazione della giustizia. Ciò perchè i presunti atti modificati e falsificati avrebbero innescato depistaggi e di fatto impedito per anni di accertare la dinamica dei fatti che portarono alla morte di Cucchi. "Alla Corte dei Conti c'è un fascicolo aperto ma per muoversi su un eventuale danno di immagine la norma prevede il passaggio in giudicato della sentenza - spiega Massimiliano Minerva, consigliere della Corte dei Conti del Lazio, a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - stanno venendo fuori reati diversi come il falso o il cosiddetto depistaggio che potrebbero essere reati contro l'amministrazione della giustizia". L'annuncio della difesa della famiglia Cucchi arriva dopo l'udienza di ieri con l'audizione in aula del generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. Un'audizione in qualità di testimone fatta anche di molti “non ricordo” e che è arrivata dopo le parole del pm Giovanni Musarò che ha ricostruito ciò che l'accusa descrive come un depistaggio iniziato nell'ottobre del 2009. Da quel momento, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, la catena di comando dei Carabinieri mette in atto una serie di iniziative per "allontanare" la verità su quanto avvenuto. Un percorso fatto di falsi che è riuscito ad approdare perfino in Parlamento quando l'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, basò, in maniera del tutto inconsapevole, il suo intervento al question time sulla vicenda del geometra utilizzando una nota redatta dai carabinieri della stazione Appia. "In Aula il ministro riferì il falso su atti falsi", ha affermato il pm Giovanni Musarò. Ora quei falsi potrebbero portare ad un'azione risarcitoria contro lo Stato.
Caso Cucchi, il generale Nistri: "Pronti a costituirci parte civile contro i carabinieri". Esclusivo La svolta del comandante generale dell'Arma in una lettera alla famiglia: “Provvedimenti anche per gli ufficiali del depistaggio. Crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Una lettera di quattro pagine su carta intestata "Il Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri", a inchiostro stilografico e dalla calligrafia rotonda, consegnata a mano la mattina di lunedì 11 marzo a Ilaria Cucchi, spinge la storia della morte del fratello Stefano, le sue conseguenze, oltre un confine che, in nove anni, non era ancora stato superato. Il generale Giovanni Nistri torna infatti a inginocchiarsi di fronte al dolore di Ilaria e a quello dei suoi...
Cucchi, la lettera del generale Nistri a Ilaria: "Inflessibili con chi ha infangato uniforme". Esclusivo Ecco il testo della lettera inviata dal comandante generale dell'Arma alla sorella di Stefano: "Il suo dolore è il nostro. Ogni responsabilità sia chiarita e si faccia giustizia", scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica.
Roma, 11 marzo 2019. Gentile Signora Cucchi, ho letto con grande attenzione la lettera aperta che ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Sabato scorso a Firenze, nel rispondere alla domanda di un giornalista, pesavo a Voi e alla Vostra sofferenza, che ho richiamato anche nel nostro ultimo incontro. Pensavo alla Vostra lunga attesa per conoscere la verità e ottenere giustizia. Mi creda, e se lo ritiene lo dica ai Suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi sia mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. La abbiamo perché il Vostro lutto ci addolora da persone, da cittadini, nel mio caso mi consenta di aggiungere: da padre. Lo abbiamo perché anche noi - la stragrande maggioranza dei Carabinieri, come Lei stessa ha più volte riconosciuto, e di ciò la ringrazio - crediamo nella Giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un'aula giudiziaria. Proprio il rispetto assoluto della Legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Non possiamo fare diversamente perché, come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Per questo abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, "chi" ha fatto "che cosa". Nell'episodio riprovevole delle studentesse di Firenze il contesto era definito dall'inizio. C'erano due militari accusati, con responsabilità sin da subito impossibili da negare, almeno nell'aver agito all'interno di un turno di servizio e con l'uso del mezzo in dotazione, quando invece avrebbero dovuto svolgere una pattuglia a tutela del territorio e dei cittadini. In questo caso abbiamo purtroppo fatti nei quali discordano perizie, dichiarazioni, documenti: discordanze che saranno però risolte in giudizio. Le responsabilità dei colpevoli porteranno al dovuto rigore delle sanzioni, anche di quelle disciplinari. I tre accusati di omicidio preterintenzionale sono già stati sospesi. Non sono stati rimossi, è vero. Ma è vero che, se ciò fosse avvenuto, si sarebbe forse sbagliato. Faccio al riguardo due esempi. Oggi emerge che uno dei tre - secondo quanto egli ha dichiarato, accusando gli altri due - potrebbe essere innocente. Erano innocenti gli agenti della Polizia Penitenziaria, che pure erano stati incolpati e portati in giudizio. Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero, ora nella fase delle indagini preliminari, nella quale saranno giudicati anche coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita per quei Valori che fin qui ho richiamato, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell'essere accostati a comportamenti che non ci appartengono. Con sinceri sentimenti, Giovanni Nistri.
Caso Cucchi, la sorella Ilaria: “Mi si scalda il cuore, finalmente non mi sento sola”. “Oggi posso dire che l’Arma è con me e non con Mandolini, imputato di calunnia nel processo, o con Casarsa, indagato per i falsi che dovevano nascondere la verità”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Della lettera del generale Nistri, Ilaria Cucchi parla tradendo una evidente emozione. Dice: "La lettera è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi. Non dimenticherò mai la telefonata del generale Vittorio Tomasone pochi giorni dopo la morte di Stefano. Disse a mia madre che i carabinieri erano estranei, mentre oggi sappiamo altro. E cioè che mentre faceva quella...
Ilaria Cucchi: "Dopo la lettera dellʼArma mi sento meno sola, i giudici ora abbiano coraggio", scrive l'8 aprile 2019 Tgcom24. La sorella di Stefano commenta su Facebook e parla dallʼAula della Corte dʼAssise nel giorno dellʼinterrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco. "L'abbraccio dell'Arma ci arriva oggi, caldo e finalmente rassicurante". Ilaria Cucchi, dalla Corte d'Assise, nel giorno in cui Francesco Tedesco, imputato insieme ad altri due colleghi nel processo bis sulla morte del fratello Stefano, confesserà in aula quanto già messo a verbale, commenta così la lettera scritta dal generale Giovanni Nistri. "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - aggiunge, riferendosi anche al suo ultimo post su Facebook. - Mi rivolgo ai giudici: abbiate coraggio". "Mi sono emozionata a leggere la lettera di Nistri""La lettera scritta di proprio pugno dal generale Nistri - racconta ai microfoni di NewsMediaset Ilaria Cucchi - rappresenta un momento estremamente significativo per la mia famiglia, che per anni non solo si è sentita abbandonata, ma tradita". "E' un momento di svolta - aggiunge - ed è un enorme segnale perché la parte lesa, come dice il generale Nistri, non è solo la famiglia, ma anche l'Arma e ciò che rappresenta". "Leggerla - confessa - è stato molto emozionante; ho pensato che finalmente non siamo soli e che l'Arma è fatta dalla parte buona rappresentata dalla stragrande maggioranza dei carabinieri". "Il generale Nistri ci è vicino e non manca di farci sapere che il suo dolore è il nostro, che la nostra battaglia di verità è anche la sua". Inizia così il lungo post su Facebook in cui Ilaria Cucchi raccontava di aver ricevuto la lettera. "L’Arma non rimarrà spettatrice nei confronti dei depistatori - continua il messaggio. - I giudici ora abbiano coraggio e responsabilità ed acquisiscano quei documenti di verità imbarazzanti che fanno ora paura solo agli imputati di oggi. Ci sarà anche mia madre, nonostante la sofferenza per la grave malattia, ad ascoltare Tedesco che le racconterà come è stato ucciso suo figlio". "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale". La vicenda, dunque, ora è in mano ai giudici. "Tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di NewsMediaset. - Così mi rivolgo ai giudici: acquisite la documentazione del dottor Musarò, perché dimostra che tutto era già deciso, dai carabinieri oggi indagati, un istante dopo la morte di mio fratello". "Quel processo era sbagliato, quel processo era già scritto - conclude. - A nove anni dai fatti la mia famiglia ne esce devastata ma andiamo avanti perché siamo alla svolta, in un processo vero. Per quanto riguarda le botte, è tutto chiaro".
Cucchi, il giorno della confessione. L’Arma: «Pronti a essere parte civile». Pubblicato lunedì, 08 aprile 2019 da Corriere.it. Al processo per la morte di Stefano Cucchi è atteso per oggi l’interrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre imputati di omicidio preterintenzionale che alcuni mesi fa ha deciso di confessare il “violentissimo pestaggio” del detenuto da parte di due suoi colleghi, al quale dice di aver assistito. Ma nel giorno della deposizione più importante, la famiglia Cucchi ha deciso di rendere nota – consegnandola a la Repubblica – una lettera ricevuta quasi un mese fa, l’11 marzo, dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, che segna un mutamento di atteggiamento da parte dell’Arma nei confronti dei Cucchi e dei carabinieri coinvolti in questa vicenda. A Ilaria, la sorella di Stefano che dall’ottobre 2009 si batte per conoscere la verità sulla morte di suo fratello, Nistri scrive di nutrire «la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». I tre carabinieri imputati sono già sospesi dal servizio, in attesa di un procedimento disciplinare che potrà avviarsi dopo la conclusione del processo penale nei loro confronti, ma nella sua lettera Nistri si riferisce anche all’inchiesta-bis nei confronti di altri carabinieri che abreve saranno imputati di favoreggiamento e falso. Con i loro comportamenti, secondo la Procura di Roma, otto militari, tra i quali un generale e tre colonnelli, avrebbero ostacolato e depistato l’accertamento della verità, e chiamati a deporre nel processo in corso si sono avvalsi del diritto al silenzio. Nella lettera a Ilaria Cucchi il loro comandante generale scrive: «Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di consapevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla corte d’assise, e varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere». Nistri sottolinea che lui, in qualità di comandante, insieme agli oltre centomila carabinieri in servizio, «soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili, e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole dietro le quali si nasconderebbe l’intenzione – che l’Arma avrebbe fatto conoscere alla famiglia Cucchi – di costituirsi, qualora ne ricossero i presupposti giuridici, parte civile nel prossimo processo contro i carabinieri accusati dei depistaggi.
Giovanni Bianconi per corriere.it il 19 marzo 2019. L’inchiesta sui depistaggi e l’occultamento delle prove sulla morte di Stefano Cucchi è finita, e otto carabinieri - dal grado di generale in giù- rischiano di diventare presto imputati con le accuse di falso e favoreggiamento. Il pubblico ministero di Roma Giovanni Musarò ha inviato l’avviso di conclusione indagini, firmato anche dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.
Le accuse. Le accuse si riferiscono alle manipolazioni delle relazioni di servizio redatte dai militari dell’Arma nell’ottobre 2009 (all’indomani della morte di Cucchi avvenuta all’ospedale Pertini una settimana dopo l’arresto da parte dei carabinieri) e alle mancate consegne dei documenti richiesti dalla magistratura nel novembre 2015, quando fu avviata la seconda indagine dopo l’assoluzione degli agenti penitenziari nel primo processo.
I coinvolti. La lista degli indagati avvisati si apre con il generale Alessandro Casarsa, che insieme ai colonnelli Francesco Cavallo e Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano, risponde di falso per la manipolazione dei documenti. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capitano Tiziano Testarmata sono invece accusati di favoreggiamento e omessa denuncia.
Le modifiche alle relazioni. Le modifiche delle relazioni di almeno due carabinieri che avevano visto Cucchi la sera dell’arresto - ordinate dalla catena gerarchica del comando provinciale di Roma - servirono, secondo l’accusa, a indirizzare le dichiarazioni in Parlamento dell’allora ministro Angelino Alfano per allontanare ogni possibile sospetto sul comportamento dei carabinieri. Da quegli appunti vennero fatti scomparire i riferimenti alle difficoltà del detenuto a camminare, inserendo considerazioni che legavano le sue precarie condizioni di salute alla tossicodipendenza.
«Violentissimo pestaggio». Tutto fu orchestrato, nella ricostruzione dell’accusa, per coprire le tracce del «violentissimo pestaggio» subito da Cucchi nella caserma della stazione dove doveva fare il fotosegnalamento, confessato mesi fa da uno dei carabinieri autori dell’arresto. I presunti favoreggiamenti avvenuti nel 2015, invece, si riferiscono al fatto che quando la Procura ordinò nuove acquisizioni di atti, i carabinieri incaricati di raccogliere quei documenti redatti nel 2009 evitarono di denunciare i falsi alla Procura, che solo in seguito e per altre vie si accorse delle manipolazioni. L’elenco degli indagati si chiude con Luca Di Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni del 2015 diede il primo impulso alla riapertura dell’inchiesta. Per la morte di Cucchi sono attualmente sotto processo, davanti alla corte di assise, altri cinque carabinieri, di cui tre imputati di omicidio preterintenzionale e gli alti due per falsa testimonianza e calunnia.
«Calci in faccia a Cucchi»: Arma e Difesa parti civili. Il testimone Tedesco: «Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile», scrive Valentina Stella il 9 Aprile 2019 su Il Dubbio. Forse ora Stefano Cucchi avrà finalmente giustizia. Non solo il comando dei Carabinieri è pronto a costituirsi parte civile, ma anche il ministero della Difesa. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dichiarando di parlare a nome del governo. Ieri il superteste Francesco Tedesco, il vicebrigadiere dei carabinieri imputato di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte del geometra romano, ha rivelato, a nove anni di distanza, il “pestaggio” ad opera di due suoi colleghi. «Al fotosegnalamento Cucchi si rifiutava di prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito. A un certo punto Di Bernardo ha dato uno schiaffo violento in pieno volto a Stefano. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi “state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più”. Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi “Come stai?” lui mi rispose “Sono un pugile sto bene”, ma lo vedevo intontito». È il drammatico racconto reso ieri in aula dal superteste Francesco Tedesco che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Il giovane geometra era stato arrestato il 15 ottobre 2009 e condotto nella caserma della Compagnia Casilina. Le cause del decesso di Cucchi sono in fase di accertamento ma è certo che il ragazzo morirà sotto la custodia dello Stato dopo qualche giorno. Prima di rispondere alle domande del pm, Tedesco – assistito dall’avvocato Eugenio Pini -, dopo quasi un decennio di silenzio, ha chiesto scusa alle vittime di questa vicenda: «Anzitutto voglio chiedere scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria imputati nel primo processo per questi 9 anni di silenzio. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile». Ma, ha aggiunto Tedesco, «non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno». Tedesco è un fiume in piena, la sua coscienza forse si è finalmente liberata di questo macigno che lo ha schiacciato per tutto questo tempo, diviso com’era tra il dovere della verità e l’appartenenza all’Arma: «Dire che ebbi paura è poco. Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo – ha detto Tedesco – contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C’era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza». “Tu devi continuare a seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere”, è quanto infatti il maresciallo Mandolini avrebbe detto al vicebrigadiere Tedesco, quando questi gli chiese come doveva comportarsi se fosse stato chiamato a testimoniare in merito alla vicenda della morte di Cucchi. «Ho percepito una minaccia nelle sue parole». In aula ieri come sempre la sorella di Stefano Cucchi: «Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno”. E sulla eventualità dell’Arma dei Carabinieri di costituirsi parte civile nei confronti dei carabinieri autori del depistaggio, come ipotizzato in una lettera del generale Giovanni Nistri inviata proprio alla famiglia Cucchi, Ilaria ha risposto: «Le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma ci fanno sentire finalmente meno soli, si è schierato ufficialmente dalla parte della verità». Molte le reazioni a quanto accaduto ieri in aula, a cominciare dal vice- premier Luigi Di Maio dalla sua pagina Facebook: «La deposizione del carabiniere Tedesco è sconvolgente e restituisce dignità a una famiglia che chiede giustizia da anni. E rispetto anche per l’Arma dei Carabinieri». Ha scelto twitter Nicola Zingaretti: «La verità grazie al coraggio della famiglia Cucchi e al percorso della giustizia sta finalmente emergendo. Un plauso alla scelta del Generale Nistri che può portare nuova forza e credibilità alle Istituzioni dello Stato». Per Silvja Manzi e Antonella Soldo, Segretaria e Tesoriera di Radicali Italiani, «la battaglia della famiglia Cucchi per la verità sulla morte di Stefano rappresenta il più grande esempio di fiducia nelle istituzioni della nostra storia contemporanea». Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale rivolge lo sguardo agli altri Stefano Cucchi: «Grazie Ilaria, per non aver mai mollato. Occorre – e tu lo stai urlando – che altri Stefano Cucchi non siano torturati e uccisi nell’indifferenza e nell’omertà». L’esponente del Partito Democratico Walter Verini plaude invece alla scelta di Nistri: «Mi ha riportato alla mente un altro gesto del nostro Stato democratico. Quello con il quale l’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, chiese scusa per i fatti della Diaz, che rappresentarono un’onta per il Paese. Anche quello fu un gesto dovuto, ma coraggioso». Donato Capece, segretario generale del Sappe ha ricordato la gogna subita dagli agenti penitenziari.
Caso Cucchi, il rammarico per il tempo perduto e il dolore per quella vita uccisa. Soddisfazione per la lettera del comandante Giovanni Nistri, scrivono Luigi Manconi e Valentina Moro il 9 aprile 2019 su Il Dubbio. Ad ascoltare la descrizione dettagliata e crudele delle violenze subite da Stefano Cucchi nella caserma Casilina, la notte del 15 ottobre del 2009, a opera di due carabinieri, tra le molte emozioni una risulta la più intollerabile, quella che porta a chiederci: ma tutto ciò non si poteva già leggere nelle foto del volto e del corpo del giovane scattate all’obitorio? Perché sono stati necessari quasi dieci anni e mille menzogne e altrettanti oltraggi prima che la verità esplodesse, nitidamente, nella testimonianza del vicebrigadiere Francesco Tedesco? Mentre finalmente una così lunga battaglia giunge al suo passaggio cruciale, è impossibile non rammaricarsi per tutto il tempo perduto e per l’immenso scialo di sofferenza che ha seguito il dolore per quella vita uccisa e che ha richiesto una tenacia senza pari e una inesausta pazienza ai familiari di Stefano Cucchi e al loro avvocato Fabio Anselmo. E così, anche la soddisfazione per il fatto che il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri, in una lettera alla famiglia, esprima il suo rammarico per il comportamento di alcuni militari e si impegni a costituirsi parte civile contro di loro, è attenuata dalla sensazione che ciò arrivi molto, forse troppo, tardi. Già nel febbraio del 2017, con Ilaria Cucchi incontrammo l’allora Comandante Generale Tullio Del Sette che definì estremamente grave che alcuni carabinieri avessero potuto “perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’avessero poi riferito e che alcuni altri avessero potuto sapere senza segnalarlo”. Da allora sono passati altri ventisei mesi e questo periodo di tempo non solo ha ancora differito l’accertamento della verità ma, temiamo, ha puntellato la costruzione della menzogna intorno a quella notte del 15 ottobre 2009, sorreggendo ulteriormente un castello di manipolazioni, deviazioni e deformazioni della verità. E ha ancora prolungato quell’atteggiamento di omertà che ha consentito in questo e in altre decine di non troppo dissimili casi Cucchi che lo spirito di corpo prevalesse su tutto, rafforzando legami di complicità all’interno dell’Arma, irrobustendo solidarietà di appartenenza e di corporazione, esaltando forme aggressive di chiusura. A tutto ciò ha contribuito l’inerzia di comandi dell’Arma, talvolta addirittura conniventi e la codardia di gran parte della classe politica nazionale. Quest’ultima rivela da sempre un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti dell’Arma dei carabinieri, una sudditanza psicologica che induce a ritenere come unico bene da perseguire l’unità – comunque e a qualunque costo – del corpo militare, invece che la sua democratizzazione che potrebbe comportare anche conflitti interni tra diverse idee del ruolo dell’Arma e della sua identità. In altre parole, piuttosto che favorire una evoluzione dei carabinieri verso una fisionomia costituzionale, rispettosa dei diritti e delle garanzie del cittadino, e al suo servizio, si opta tutt’ora per la sua connotazione come strumento essenzialmente, se non esclusivamente, di mera repressione. Questo, nonostante qualche segnale positivo e qualche misura riformatrice, fa sì che la grande questione della formazione degli appartenenti all’Arma resti trascurata e comunque sottovalutata. La formazione culturale e, appunto, costituzionale, ma anche quella operativa, strettamente collegata all’esigenza di tutelare sempre e comunque l’integrità del cittadino, è tutt’ora un problema irrisolto. Un esempio solo. Nel gennaio del 2014, il Comando generale dell’Arma aveva emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può costituire causa di asfissia posturale». Appena qualche settimana dopo, a Firenze, Riccardo Magherini moriva per strada sottoposto da parte di tre carabinieri esattamente a quella presa che la circolare del comando dell’Arma intendeva interdire. E, a quanto si sa, quella circolare è stata poi ritirata. E allora è impossibile non chiedersi quanti altri cittadini, italiani e non, in questi anni e nei prossimi, rischino di finire vittime di “asfissia posturale”.
Saul Caia per il “Fatto quotidiano” il 10 luglio 2019. L' ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d' ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l'organismo sindacale dell'Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall' accusa di omissioni di atti d' ufficio. Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall' inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari). Comincia tutto con l'indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l'uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti "puniti" avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall' abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore. Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall' Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l' archiviazione. Per loro mancano gli "elementi costitutivi" dell' abuso d' ufficio, "sia dal punto di vista dell' elemento oggettivo che di quello soggettivo", perché "non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari". Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l'imputazione coatta per tutti e tre gli indagati. Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il "coinvolgimento" di "esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell' Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare "una lezione" a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici". Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile "affinché si attivasse per punire" Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea "la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015", quando "Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente" dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie. A Roma, l' ex comandante dell' Arma è imputato per favoreggiamento (con l' ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d' ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all' epoca presidente Consip, l' esistenza di un' indagine sull' imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.
IL CASO CUCCHI FA ESPLODERE L'ARMA DEI CARABINIERI. (ANSA il 9 aprile 2019.) - "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile nel caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". Lo afferma all'ANSA - parlando del comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri - il colonnello Sergio De Caprio, presidente del Sindacato italiano militari Carabinieri, noto come Capitano Ultimo.
Capitano Ultimo contro il comandante dell'Arma "Parte civile? Si dimetta". Il colonnello De Caprio contro il generale Nistri che ha deciso di costituire l'arma parte civile nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive Giovanni Neve, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile sul caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". A dirlo è il colonnello Sergio De Caprio, conosciuto come il "Capitano Ultimo" e attuale presidente del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri che incalza così il comandante generale dell'Arma, il generale Giovanni Nistri. "Per dieci anni i vertici dei carabinieri hanno ignorato e negato il caso Cucchi. Solo ora se ne accorge", dice De Caprio parlando della morte di Stefano Cucchi come riporta Tgcom24, "Qualcuno dirà meglio tardi che mai. Invece, no è troppo tardi. E noi carabinieri ci sentiamo parte lesa per questo ingiustificabile ritardo. Le lettere del generale Nistri non mi interessano. Non è questione di chiedere scusa. Mi interessano i fatti e i fatti sono un silenzio lunghissimo. Non lo dico io, lo dice il calendario. L'Arma vuole fare piena luce? Stiamo parlando di ovvietà e banalità. La violenza va condannata sempre e i responsabili vanno perseguiti, anche se si trovano all'interno della nostra istituzione: alla fine ci si è arrivati, ma con tantissimo ritardo rispetto ai fatti. Ora bisogna indagare e capire come mai e la procura lo sta facendo benissimo. Il sindacato dei carabinieri è con la famiglia Cucchi e con tutte le vittime di violenza. Nessuno potrà strumentalmente allontanarci da Ilaria Cucchi e dalla sua famiglia. Siamo da sempre accanto alle vittime e per le vittime contro ogni abuso e non al servizio di altri padroni. Da carabinieri, ci sentiamo parte lesa dall'assenza e dall'incapacità del vertice dell'Arma, che per dieci anni ha ignorato e negato l'esistenza stessa del caso Cucchi'. Vorremmo sapere perché, come tutti i cittadini".
Francesco Grignetti per ''la Stampa'' il 9 aprile 2019. La politica vuole una svolta sul caso Cucchi. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ricevendo Ilaria al ministero, aveva già espresso chiaramente con chi stava. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ieri lasciava intuire come la pensa: «È una di quelle occasioni in cui mi piacerebbe dire qualcosa, però non dico nulla». E dice anche il presidente della Camera, Roberto Fico: «Sono contento delle parole del generale Nistri. Questo è un passaggio molto importante, perché rafforza le istituzioni». Ma è il governo tutto che si sta schierando. Sempre ieri, il premier Giuseppe Conte ha annunciato di essere «favorevole alla costituzione di parte civile da parte del ministero della Difesa». Il vero colpo di scena viene dal comando generale dei carabinieri. Con una lunga lettera alla famiglia, il generale Giovanni Nistri ha annunciato la volontà dell' Arma, qualora matureranno i presupposti giuridici, di costituirsi come parte civile contro i militari imputati. Scrive Nistri ai Cucchi di «nutrire la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». La svolta è clamorosa. Evidentemente le novità che un passo alla volta emergono dal palazzo di Giustizia, grazie alla tenacia del procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, stanno demolendo le residue resistenze dell' Arma. A Ilaria Cucchi non sfugge il valore di queste parole. «La lettera - ha raccontato - è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi». Un cambio di passo che però rischia di spaccare l' Arma, dove lo spirito di corpo è fortissimo e così anche la tentazione di lavare i panni sporchi in famiglia. Il malumore ha trovato voce in un neonato sindacato, il Sim-Sindacato dei militari, la cui costituzione è appena stata autorizzata dal ministro, e che da ora in avanti sarà sempre più una vera controparte per la gerarchia. «Il Sim Carabinieri - scrivono - prende atto della dichiarazione del comandante generale dell' Arma, esprimendo soddisfazione della volontà di difendere l' immagine di tutta l' Arma, nella misura in cui verrà accertata ogni responsabilità di pochi infedeli, per la tutela di tutti i Carabinieri che svolgono il loro servizio con dedizione ed onestà». E fin qui sembrerebbe una posizione allineata al vertice. Ma non è così. «Il Sim Carabinieri allo stesso modo non può non dichiarare con fermezza, la profonda delusione e amarezza per non aver mai sentito dagli stessi vertici dell' Arma, la possibilità di costituirsi parte civile in favore e a difesa dei Carabinieri che subiscono sputi e insulti da manifestanti nelle piazze o negli stadi, dai Carabinieri che vengono insultati solo per avere indosso una divisa, dai Carabinieri che sui social vengono posti come bersaglio di frasi di odio e nefandezze al loro indirizzo e dei loro familiari». I carabinieri raccolti nel sindacato si sentono abbandonati, insomma. In rotta con la politica e con l' opinione pubblica. «Il Sim Carabinieri auspica che da oggi, e per tutti i giorni a venire, il generale Giovanni Nistri senta l' impulso per chiedere all' Arma di costituirsi parte civile in ogni processo in cui ogni Carabinieri è parte lesa. Noi lo faremo, perché nessuno sarà mai più lasciato solo!». E c' è da crederci, perché il presidente del sindacato è il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio, una leggenda vivente dentro l' Arma, ancorché in rotta da sempre con le gerarchie.
“NON DEVO CHIEDERE SCUSA ALLA FAMIGLIA CUCCHI”. Da “la Zanzara – Radio24” il 9 aprile 2019. Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24: “Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi”. “Io assolto dalle accuse dei Cucchi per diffamazione. Per questa storia io e i miei familiari siamo stati minacciati di morte”. “Porto in tribunale 29 consiglieri comunali di Torino che mi hanno dato del diffamatore”. “Nessuna relazione tra percosse dei carabinieri e morte di Cucchi, lo dicono le perizie”. “Morte Cucchi è avvenuta per una serie di concause tra cui la tossicodipendenza, il fisico debilitato e lo sciopero della fame. Lo dicono le perizie”. “Tutte le perizie escludono la relazione tra botte e morte”. “Chiedere scusa? Di cosa? Per cosa? La droga è una delle cause della morte”. “La verità è che a casa di Cucchi hanno trovato marijuana e cocaina già pronte per lo spaccio”. “Cucchi non è un benemerito, no a una strada in suo nome. Non è come Cavour e Garibaldi”. “Strada in suo nome? E alle vittime della droga non ci pensa nessuno?”. “Carabinieri? Aspetto la condanna definitiva, i linciaggi sono nazismo".
Morte di Stefano Cucchi: spuntano 17 ricoveri, 1 kg di hashish e cocaina. Il caso del giovane geometra morto diventa un enigma e secondo il senatore Giovanardi esiste un'altra realtà, scrive l'11/01/2016 blastingnews.com. A parlare della morte di Stefano Cucchi stavolta è il senatore Carlo Giovanardi che non ci sta e dice la sua sulla dipartita del giovane geometra, raccontando attraverso "Il Foglio" la verità sull'altro Cucchi e precisando che dopo la sentenza di assoluzione nei confronti degli agenti della Polizia Penitenziaria pronunciata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma, si è verificato un grave caso di disinformazione. In particolare dopo l'ultimo episodio mediatico che ha visto la sorella del Cucchi pubblicare la foto di un agente presentandolo come assassino di suo fratello.
La verità di Giovanardi. Un grave problema di disinformazione, questo è quanto dichiarato dal senatore che a sua volta racconta l'altro Cucchi, un ragazzo che attraverso gli organi d'informazione è passato per "pestato indifeso" e "ucciso da guardie bigotte", mentre a causa di alcuni media sono passati in secondo piano i seri problemi di droga e di spaccio che riguardavano il ragazzo. Attualmente la verità che viene fuori è quella che vede Stefano Cucchi trovato in possesso di 1 kg di hashish, vittima di 17 ricoveri per lesioni e ferite ma che ha come causa dichiarata della sua morte un arresto cardiocircolatorio da disidratazione.
L'altro Cucchi, il caso. Attraverso l'articolo pubblicato da "Il Foglio", Giovanardi vuole chiarire la posizione giudiziaria del Cucchi cercando di fare informazione e rivelando alcune informazioni che attraverso i principali organi di stampa sono passate in secondo piano e che a suo dire "hanno fatto disinformazione". Il senatore vuole precisare che non tutti sanno che Stefano Cucchi venne arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e che a seguito di perquisizione domiciliare venne trovato in possesso di 2 "panetti" di hashish del peso di 905 grammi, 103 grammi di cocaina, tre bilancini di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi.
Riguardo i 17 ricoveri al pronto soccorso causati da ferite, lesioni e fratture certificate negli anni, Giovanardi è convinto non si tratti di problemi con lo Stato, bensì del mondo che il ragazzo frequentava.
OLIO DI FEGATO DI MELUZZI. Gisella Ruccia per Il Fatto Quotidiano l'11 aprile 2019. L’esponente di Fratelli d’Italia afferma di aver pubblicato sui social un breve filmato sul processo Cucchi: “Ha avuto moltissime visualizzazioni”. “Non è sinonimo di intelligenza, anche il fascismo ebbe tanti voti“, obietta Parenzo. Meluzzi continua: “Ho un amore viscerale nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Il mio grande maestro Francesco Cossiga 20 anni fa diceva che le tre uniche istituzioni che ci sono in Italia sono la Chiesa Cattolica, il Partito Comunista e l’Arma dei carabinieri. Di queste tre oggi mi pare che rimanga in piedi solo l’Arma dei carabinieri. E io mi auguro che continui a rimanere in piedi. Quindi, mi sono permesso di fare un’osservazione modestamente critica sull’idea bizzarra, che poi si è rivelata falsa, del fatto che l’Arma dei carabinieri si costituisse parte civile contro i militari dell’Arma che sono attualmente indagati per la morte di Stefano Cucchi. E’ vero che questo forse accade in qualche pubblica amministrazione, come ad esempio nel catasto, ma l’Arma dei carabineri non è un’amministrazione qualsiasi dello Stato. E’ una istituzione fondamentale della storia italiana”. E aggiunge: “Quindi, come il comandante generale dell’Arma ha chiesto scusa alla famiglia Cucchi, per un principio ovvio, la famiglia Cucchi dovrebbe chiedere scusa a tutte quelle famiglie di giovani a cui il geometra Cucchi spacciava la droga. E’ un problema di reciprocità, io amo un principio di giustizia”. Insorge Parenzo: “Una persona più offensiva e più malevola di te non esiste. Non c’è nessun principio di giustizia. C’è un ragazzo che è morto nelle mani dello Stato“. “Questo lo accerterà la magistratura – rincara Meluzzi – Se io avessi avuto mia figlia morta nelle mani dello Stato, mentre faceva la spacciatrice di droga, avrei chiesto innanzitutto scusa alle famiglie a cui veniva rifilata quella droga”. La polemica deflagra irrimediabilmente. Parenzo ribatte: “Stefano Cucchi non faceva lo spacciatore di droga, smettila di infangare la sua memoria e la sua famiglia, che ha già subito dieci anni di deliri. Ti devi solo vergognare. E poi fai pure il prete caldeo e il religioso di ‘sta minchia”. ” Ma cosa c’entra? La base del Cristianesimo è la giustizia. I deliri sono quelli di chi come te nega l’evidenza”, afferma Meluzzi. Parenzo dà allo psichiatra della "macchietta televisiva e radiofonica" e del ‘pagliaccio che infanga la memoria delle persone’. Meluzzi annuncia a più riprese una querela nei suoi confronti e rivendica la sua tesi, invocando “un principio di simmetria”. “Me ne fotto della tua querela – risponde Parenzo – ti devi vergognare delle cose che hai detto. Cruciani, se non gli dici che si deve vergognare, sei complice di questa immondizia. Non gli puoi consentire questa immondizia. Tu gli permetti di dire menzogne. Vergognati anche tu”. Meluzzi dà dell’incivile al conduttore e ribadisce: “Chi detiene droga e la vende per strada si chiama spacciatore. Non ci sono altre parole per definire questo reato. Tanto che nobilmente la madre di questo ragazzo ha detto: ‘Mio figlio avrebbe pagato per il suo reato, ma non con la morte’. In questo ha ragione. E siccome il comandante Nistri ha chiesto scusa ufficialmente di questo fatto, allo stesso modo, per un principio giuridico, umano, morale di simmetria, se io fossi il padre di un ragazzo che spacciava chiederei scusa alle famiglie dei giovani a cui la droga è stata spacciata”. Parenzo decide di non intervenire più, Cruciani definisce "stronzata" l’insieme di argomentazioni addotto dallo psichiatra, che ripete il suo assunto: “La morte di una persona non cancella i comportamenti di quella persona. Non esiste questo fatto. Non esiste in nessun principio giuridico. Quello dei carabinieri sarà stato anche un reato, se il tribunale lo accerterà, ma spacciare droga è un reato che provoca la morte“. E a Parenzo che, alla fine, decide di esprimere il suo disgusto per le affermazioni di Meluzzi, quest’ultimo ribadisce: “Ti querelerò perché mi hai insultato in maniera insopportabile”.
"Ilaria Cucchi mi fa schifo". Ora Salvini querela il Pd per la fake news sulla sorella di Stefano. Il ministro dell'Interno ha annunciato di querelare il Partito Democratico, colpevole di aver diffuso un suo falso virgolettato circa la sorella di Stefano Cucchi, scrive Pina Francone, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Ilaria Cucchi mi fa schifo". Il Partito Democratico ha attribuito questo falso virgolettato a Matteo Salvini e ora i dem sono stati denunciati dal ministro dell'Interno. Già, il responsabile de Viminale ha deciso di querelare il Pd per aver diffuso, attraverso i suoi canali social, la dichiarazione contro Ilaria Cucchi. Insomma, una fake news vera e propria per gettare fango sul leader della Lega su un caso così tanto delicato. La verità, per l'appunto, è che Salvini non ha mai detto di provare schifo per la sorella di Stefano, come aveva già precisato nei mesi scorsi. Il ministro, altresì, faceva riferimento a un post della donna. E proprio Ilaria Cucchi, a conferma che quella uscita social fu infelice, la cancellò e ammise l'errore.
"BASTA. Avevo già smentito: la mia affermazione riguardava non la persona ma un POST di Ilaria Cucchi. Post che lei stessa cancellò successivamente, ammettendo l'errore. E al PD arriverà una querela", il post odierno su Facebook del vicepremier.
Caso Cucchi, chi è il magistrato che ha svelato la partita truccata. Salentino, silenzioso, riservato. Prima Giovanni Musarò è stato in Calabria, a indagare sui boss della 'ndrangheta. Ora è alle prese con l'inchiesta più delicata che mette sotto accusa la catena di comando dell’Arma dei Carabinieri. Floriana Bulfon l'8 aprile 2019 su La Repubblica. «Anime salve in terra e in mare, / sono state giornate furibonde». La voce di Fabrizio De André filtra da una porta chiusa, facendo scorrere lungo il corridoio deserto l’inno agli spiriti solitari, liberi e diversi per scelta. È tarda sera e negli uffici grigi della procura di Roma il freddo comincia a farsi sentire: dopo le cinque il riscaldamento si spegne e molti ascensori si fermano. Orari di un’altra epoca, quando questo palazzo era chiamato “il porto delle nebbie”, dove le indagini svanivano nell’ombra del potere. Altri tempi, altri ritmi. Come testimoniano i versi di De André. Provengono da due altoparlanti incastrati tra lo schermo di un pc e i faldoni pieni di carte che fanno sembrare la scrivania una trincea. Dietro c’è Giovanni Musarò, il magistrato che ha risollevato da un destino ormai già scritto la storia di Stefano Cucchi: quella di un ragazzo morto nelle mani dello Stato e sepolto dalle menzogne di un sistema rivelatosi omertoso. Un pubblico ministero ancora giovane (46 anni, cinque più di Cucchi), che con il suo lavoro sta scuotendo le gerarchie dell’Arma, portando alla luce manipolazioni e depistaggi. Anche questa sera è qui fino a tardi, impegnato a cercare le anomalie nella montagna di fascicoli alterati per sotterrare la verità sulla fine di quel detenuto troppo fragile: sottolinea con l’evidenziatore giallo relazioni modificate, confronta documenti e testimonianze per scoprire parole, opere e omissioni, per smascherare il gioco falso e feroce di appuntati e ufficiali. Non lo fa per ostinazione, ma per senso dello Stato. «È il mio mestiere», ripete spesso quasi sentisse l’obbligo di una giustificazione. Un mestiere che non ammette deroghe: l’obbligatorietà dell’azione penale implica il dovere della verità, sempre e comunque. Anche a costo di mettere in discussione la credibilità della gerarchia dei carabinieri pur di capire cosa sia successo al corpo martoriato di un cittadino, considerato solo «un drogato de merda». Musarò si stringe nella giacca blu. La indossa sempre, persino quando è alla tastiera sotto il gagliardetto della Juventus, esposto in un ambiente pieno di tifosi della Roma: ha una venerazione per Dino Zoff, lo vorrebbe conoscere. Non sa quando ci riuscirà, come se il suo tempo fosse sospeso dentro quelle carte. Che gli raccontano una storia diversa da quella che si voleva far credere a un intero Paese e lo portano ad accusare coloro che avrebbero dovuto stare dalla sua stessa parte. E invece hanno tradito la legge e la lealtà ai valori dell’Arma. Lui li conosce bene quei valori. Su una mensola del suo ufficio c’è una scarpetta di cuoio. È la prima che ha indossato il suo unico nipote, quella con cui ha compiuto il primo passo il figlio di suo fratello, sottufficiale proprio dei carabinieri. L’altro fratello è nell’Esercito, spesso in missione in zone di guerra. Tre maschi, tutti “servitori dello Stato”. Oggi Musarò incarna lo Stato che processa lo Stato. Avvista depistaggi e coperture e non si ferma di fronte al rischio di urtare sensibilità, perché in gioco c’è molto di più. Il caso Cucchi è la contraddizione e l’incoerenza di quello Stato. Che finisce tra i ripetuti «non ricordo» e «mi avvalgo della facoltà di non rispondere» delle alte gerarchie dell’Arma, dopo dieci anni di relazioni di servizio modificate su richiesta dei “superiori”. Relazioni dove le fasi dell’arresto non sono più concitate e i malori spariscono. («Meglio così», commentano in una mail). Dove Cucchi è epilettico, anoressico, peggio, malato di Hiv. Documenti in cui i carabinieri riescono a dichiarare le cause della morte di Stefano prima della scienza, quando ancora non è stata condotta alcuna perizia, anzi quando i periti non sono nemmeno stati nominati. Dopo, i consulenti della procura, quelli che ancora non erano stati scelti, scriveranno le stesse cose. Ma per i carabinieri era già tutto chiaro subito, a pochi giorni dalla morte: «non attribuire il decesso a traumi», di più «non rilevati segni macroscopici di percosse». Una macchinazione che porta a mentire l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano davanti al Parlamento e a scaricare le responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria che sono costretti ad affrontare tre gradi di giudizio per essere assolti. Dopo dieci anni dal mancato foto-segnalamento nella caserma dove avvenne il violentissimo pestaggio confessato ora da Francesco Tedesco, uno dei carabinieri presenti, Musarò vede «la partita truccata» e avverte: «arrivati qui non è più una questione di ricerca della verità doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo. A questo punto è in ballo la credibilità dell’intero sistema». Quella democrazia tradita e minacciata nelle sue fondamenta, con il mancato rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. Con le intimidazioni per chi si ribella al sistema malato, a una catena di comando che nasconde la verità. Musarò è cresciuto nel Salento, all’ombra di enormi e contorti ulivi. Allevato dal nonno adorato e da una zia da cui ha imparato l’ostinazione da applicare sul lavoro. Una famiglia del Sud, il padre impiegato in banca, la madre insegnante. Che quel figlio promettente lo fanno studiare all’università di Roma. Si trasferisce così in un appartamento con altri studenti proprio nella prima periferia della Capitale, nei quartieri dove comandano i Casamonica: il clan rom su cui poi indagherà. Supera rapidamente l’esame da magistrato nel 2002 e sceglie la sede di Reggio Calabria. Si occupa prima di reati sessuali e anche in questo caso lo fa senza occhi di riguardo per nessuno: indaga, e fa condannare, un maggiore della Guardia di finanza a capo del reparto investigativo che, abusando del ruolo, molesta giovani coppie. Quando arriva a Reggio il procuratore Giuseppe Pignatone lo vuole nella squadra dei suoi più stretti collaboratori e lo affida al suo vice Michele Prestipino. Lavorare con i colleghi provenienti da Palermo è una grande scuola, soprattutto per chi come lui è cresciuto negli anni delle stragi e adesso può imparare dagli inquirenti che ne hanno svelato le trame. Con Prestipino riescono a ottenere dalla Cassazione una sentenza storica: il riconoscimento dell’unitarietà delle varie forme di ’ndrangheta, sancendo il disegno mafioso unico che mette insieme clan sparsi in diverse province. Un verdetto pari per rilevanza a quelli nati negli anni Ottanta dal maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra. L’indagine reggina si chiamava “Crimine”. Il giorno degli arresti 500 carabinieri indossavano una maglietta nera con quel nome stampato sopra. Una gliel’hanno regalata e Musarò l’ha incorniciata nel suo ufficio accanto alla foto del collega Antonio De Bernardo, immortalati insieme il giorno della requisitoria davanti al tribunale di Locri. Quell’esperienza calabrese si tramuta nell’approccio innovativo con cui il pm affronta la questione dei clan capitolini, sostenendo la caratura mafiosa dei Casamonica. Dando consistenza alla «condizione di assoggettamento e omertà» - come recita l’articolo 416 bis del codice penale - che loro esercitano nelle strade della capitale. Per concludere senza un filo di dubbio: la brutalità e gli affari del “padrino” Giuseppe e dei suoi parenti, il raid con le cinghiate dentro a un bar di periferia, quella testata degli Spada di Ostia al cronista televisivo, tutto questo è mafia. Quella che a Roma per decenni nessuno ha voluto vedere. Questo magistrato però parla solo con i provvedimenti: mai un’intervista, né un commento sui social. Evita la mondanità romana e i salotti che contano. «Lo fa per non rischiare cattivi incontri e per via della sua ironica sottile malinconia», sostiene chi lo conosce bene. Si concede solo qualche serata con pochi, fidati amici, e una passeggiata con la fidanzata per il quartiere dove abita. Un lusso per chi vive da anni sotto scorta per le minacce della ’ndrangheta. La tutela è al massimo livello ma non è bastata a proteggerlo dall’ergastolano Domenico Gallico. Intercettando la posta e i colloqui in carcere, Musarò ha disposto l’arresto di tutta la rete familiare. Il boss vuole essere interrogato e lui non si può rifiutare. Nel carcere di massima sicurezza chiede però la presenza di due agenti per difesa personale: «Se questo detenuto avrà la possibilità di colpirmi, lo farà». Quel giorno nemmeno lo storico avvocato dei Gallico si presenta, arriva soltanto un giovane difensore che non conosce il detenuto. Nella saletta sono soli. Gallico entra, gli va incontro col passo sostenuto e dice «procuratore, finalmente ci conosciamo, posso stringerle la mano?». Lui gliela porge e quello gli sferra un pugno in piena faccia, un sinistro che gli rompe il naso. Cade tra la sedia e il muro e allora ancora calci e pugni fino a che non arrivano i poliziotti e a fatica glielo staccano di dosso. Può denunciarlo, togliersi da una situazione pericolosa, ma significherebbe astenersi dal processo. Preferisce invece continuare la sua battaglia. «È il mio mestiere», taglia corto. I colpi della ’ndrangheta non si arrestano, arrivano anche in modo più subdolo. Maria Concetta Cacciola è una giovane donna che decide di diventare testimone di giustizia, collaborando con le sue indagini. Maria Concetta muore per ingestione di acido muriatico. Uccisa in quel modo atroce per cancellare la volontà di parlare. Musarò svela le violenze che subisce, la vita da segregata e umiliata che il sistema mafioso le impone e da cui prova a fuggire. A quel punto entra in azione la strategia diffamatoria della famiglia, millanta un inesistente stato depressivo, un’alterazione psichica. A tre giorni dalla morte Maria Concetta viene uccisa un’altra volta. I Cacciola, con un esposto, accusano i magistrati di aver estorto le dichiarazioni. Il tutto anche tramite la complicità di due avvocati che poi saranno condannati per questa calunnia. Dietro alla testa di Musarò ci sono la mappa del Salento e la foto con le colleghe con cui ha condiviso gli anni di Reggio Calabria. Sorride insieme a Beatrice Ronchi, il pubblico ministero che ha svelato la presenza della ’ndrangheta in Emilia, la sua migliore amica. Un ufficio arredato con le cose preziose che fanno compagnia nel silenzio rotto solo dai tasti e dalla musica di sottofondo. Lui sogna di guidare ancora l’auto, nella sua Squinzano: la libertà di una birra con gli amici d’infanzia e di un tuffo nel mare del Salento. Ma è un sogno impossibile, c’è sempre la scorta. In compenso quando parte per Roma la madre, come se fosse ancora studente, gli prepara una borsa con taralli, pasticciotti e altre prelibatezze: da dividere con i collaboratori nella cancelleria, tra stampante, timbri e cartelline. Un momento di familiarità che termina troppo rapidamente perché il telefono squilla. «Gianni ti dobbiamo parlare». Il procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino lo attendono giù al primo piano. Loro l’hanno visto crescere e lo conoscono bene. Sorridono quando si tocca la testa, perché sta riflettendo, alla ricerca di una soluzione al problema del momento. Scende le scale con una borsa stracolma di carte da cui sporge una copia di “Conversazione nella «Catedral»” di Mario Vargas Llosa. Un romanzo sulla dittatura e sull’abuso di potere, capace di infettare come un’epidemia ogni fascia sociale. Qualcosa di simile, seppur in dimensioni diverse, a quello che ha incontrato nelle sue indagini romane, con quel senso di impunità che sembra avere unito criminali di periferia e ufficiali dei carabinieri. E che lui non intende accettare.
Caso Cucchi, chiusa l'inchiesta per i depistaggi: rischio processo per 8 carabinieri. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo, scrive il 19 marzo 2019 La Repubblica. Falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia: sono questi i reati contestati, a seconda delle singole posizioni, a otto militari dell'Arma, coinvolti nell'inchiesta bis sui depistaggi legati al pestaggio di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per detenzione di droga. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo. Il 415 bis è firmato dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone. Tra gli altri carabinieri che sono a rischio processo figurano Francesco Cavallo, già tenente colonnello nonché a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, Luciano Soligo, all'epoca dei fatti maggiore e comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza, il capitano Tiziano Testarmata, già comandante del nucleo investigativo, e Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg. Casarsa, Cavallo, Colombo Labriola, Di Sano e Soligo sono accusati dalla procura di concorso nel reato di falso. Sabatino e Testarmata, invece, rispondono di omessa denuncia, mentre Testarmata ha anche l'accusa di favoreggiamento. A De Cianni sono attribuiti il falso e la calunnia. "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano) fosse modificato - è detto nel capo di imputazione - nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo i pm, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo e Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che "Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezzà omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Sabatino e Testarmata, invece, secondo la Procura erano stati incaricati di acquisire una serie di documenti nel novembre del 2015, nell'ambito dell'inchiesta bis sui depistaggi legati al caso di Stefano Cucchi, ma, resisi conto che le due annotazioni di servizio del 26 ottobre del 2009 sullo stato di salute dell'arrestato, una sottoscritta dal carabiniere scelto Francesco Di Sano e l'altra dal pari grado Gialuca Colicchio, "erano idelogicamente false", "hanno omesso di presentare denuncia per iscritto all'autorita' giudiziaria". "In questi momenti di difficoltà emotiva per la nostra famiglia è di conforto sapere che coloro che ci hanno provocato questi anni di sofferenza in processi sbagliati verranno chiamati a rispondere delle loro responsabilità. È un'enorme vittoria per la nostra famiglia e la nostra giustizia", ha detto Ilaria Cucchi commentando la chiusura indagini.
· Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.
Cucchi, ecco come e chi lo picchiò. Il super test: "A Stefano schiaffi e calci in faccia, poi mi minacciarono". Tedesco, imputato per omicidio, davanti alla prima Corte d'assise di Roma nel processo ai cinque carabinieri: "Chiedo scusa alla famiglia e agli agenti della penitenziaria". Il vicebrigadiere: "La mia nota venne cancellata, ero terrorizzato". L'Arma è pronta alla svolta: "Ci costituiremo parte civile". Esclusiva di Repubblica: Nistri scrive una lettera alla famiglia di Stefano, scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica. "Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile". E' iniziata così al processo Cucchi-bis la deposizione davanti alla Corte d'Assise del carabiniere Francesco Tedesco, il supertestimone che ha rivelato a nove anni di distanza che Stefano, 31 anni, venne "pestato" da due suoi colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, imputati come lui di omicidio preterintenzionale.
Il pestaggio di Stefano Cucchi. L'imputato-superteste ha raccontato le fasi del pestaggio di Stefano Cucchi nella caserma della compagnia Casilina la notte del suo arresto a Roma, il 15 ottobre del 2009, dopo essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. "Al fotosegnalamento - racconta Tedesco - Cucchi si rifiutava di prendere le impronte, siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Di Bernardo è proseguito. Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D'Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all'altezza dell'ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: "Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete". Ma Di Bernardo proseguì nell'azione spingendo con violenza cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbattè anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D'Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi "state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più". Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi "Come stai?" lui mi rispose "Sono un pugile sto bene", ma lo vedevo intontito".
Le annotazioni sparite del carabiniere Tedesco sul pestaggio di Stefano Cucchi. "Non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno". Poi aggiunge: "Ho scritto una annotazione il 22 ottobre parlando dell'aggressione ai danni di Cucchi e della telefonata a Mandolini ma non che era stato Nicolardi a consigliarmi di fare questa relazione". "Ho fatto due originali delle mie annotazioni - ha aggiunto - sono andato in questo archivio al piano di sotto della caserma. Ho protocollato un foglio scrivendoci 'Cucchi annotazione', poi ho preso i due fogli e li ho messi nel registro per la firma del Comandante, di colore rosso, che poi era destinata all'autorità giudiziaria. L'altra copia era destinata alla 'piccionaia', come la chiamavamo in gergo, dove conservavamo tutti gli atti dell'anno corrente". Poi Tedesco ha spiegato: "Non dissi nulla di questa cosa a nessuno, pensavo di essere convocato da solo. Invece nei giorni successivi andai nel registro e vidi che nella cartella mancava la mia annotazione. Mi sono reso conto che erano state cancellate due righe con un tratto di penna".
Cucchi, il verbale già pronto da firmare. "Quando arrivammo alla caserma Appia in ufficio il verbale era già pronto e il maresciallo Roberto Mandolini (imputato per calunnia) mi disse di firmarlo. Cucchi non volle firmare i verbali". E ha spiegato: "Mentre stavamo in auto per rientrare alla caserma Appia Cucchi era silenzioso, si era messo il cappuccio e non diceva una parola, chiedeva il Rivotril". Subito dopo avere assistito all'aggressione di Cucchi, Tedesco ha testimoniato di avere chiamato l'allora capo della stazione Appia, Roberto Mandolini (imputato per calunnia), e "gli dissi cosa era successo. Mandolini mi chiese 'Come sta?'. Io replicai: 'Dice che sta bene ma è successo questo, questo e questo. Cucchi - ha proseguito tedesco- sentì quella telefonata perchè lo avevo sotto braccio. Quindi salii dietro sul defender con lui, mentre Di Bernardo e D'Alessandro stavano davanti. Cucchi non disse una parola, teneva la testa abbassata, io ero turbato e lui era sotto shock più di me". Invece Di Bernardo e D'Alessandro (imputati per omicidio preterintenzionale) "erano tranquilli, non erano spaventati più di tanto. Non erano preoccupati della telefonata che avevo fatto a Mandolini e mi dicevano: 'Non ti preoccupare parliamo noi con Mandolini'. Arrivati alla stazione Appia, Mandolini chiamò D'Alessandro e Di Bernardo, io stavo con Stefano Cucchi, che era ancora stordito anche se cominciava a parlare un pochino con me". Mandolini poi chiamò me e Cucchi, disse: 'Fateli venire che bisogna fermare il verbale d'arrestò. Presi il verbale e mi disse: 'Firmalo che tra un paio d'ore devi andare in tribunale. Io lo firmai senza nemmeno leggere. Con me mandolini faceva sentire il grado, se dovevo entrare in ufficio io dovevo chiedere permesso, se lo facevano D'Alessandro e Di Bernardo no. Cucchi non voleva firmare il verbale di perquisizione nè il verbale d'arresto". "Dire che ebbi paura è poco - ha raccontato Tedesco - Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C'era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l'ho vissuta come una violenza".
Cucchi, le minacce di Mandolini al carabiniere Tedesco. "Prima di andare dal pm per essere sentito dissi a Mandolini "ma ora cosa devo fare?" e lui mi rispose "non ti preoccupare, ci penso io, devi dire che (Cucchi, ndr) stava bene. Devi seguire la linea dell'arma se vuoi continuare a fare il carabiniere". E ha sottolineato il vicebrigadiere Tedesco: "Ho percepito quella minaccia come tanto seria- ha aggiunto- e poi vedevo i colleghi tranquilli".
La lettera del generale Nistri alla famiglia Cucchi. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi. "Mi creda - scrive il generale - e se lo ritiene lo dica ai suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà". E poi affronta l'onta che l'Arma porta nell'omicidio di Stefano: Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere".
Il processo ai cinque carabinieri del caso Cucchi. Sono cinque i carabinieri alla sbarra nel procedimento bis in corso davanti alla prima Corte d'Assise: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco e rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Altri otto carabinieri sono indagati nel fascicolo sui presunti depistaggi sul caso, e rispondono di reati che vanno dal falso, all'omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi.
Cucchi, stretta di mano tra Ilaria Cucchi e il superteste Tedesco: "Ha detto mi dispiace, lo ringrazio", scrive il 16 aprile 2019 Repubblica Tv. Al termine del suo esame nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi, l'imputato e superteste Francesco Tedesco, che nella scorsa udienza ha accusato i colleghi di aver pestato il geometra romano, si è alzato e si è diretto verso Ilaria Cucchi. "Mi dispiace", ha detto il vice-brigadiere alla sorella di Stefano. "E' stato un momento forte, quello che posso dire è che sono stata grata almeno per questo gesto", ha detto la donna. Nel corso dell'udienza inoltre, Maria Lampitella, la legale che difende Raffaele D'Alessandro, uno degli altri carabinieri imputati, ha chiesto a Tedesco se ricordava la frase pronunciata da Cucchi dopo il pestaggio 'Io muoio, ma a te tolgono la divisa'. Tedesco ha smentito la circostanza, ma per Ilaria Cucchi questo resta un passaggio significativo: "Ringrazio Lampitella, ha ribadito che Stefano era stato picchiato e stava molto male, tanto che è morto dopo sei giorni".
Caso Cucchi, il carabiniere stringe la mano a Ilaria. Nuova deposizione di Francesco Tedesco, imputato di omicidio preterintenzionale. A distanza di nove anni ha rivelato che il geometra romano venne “pestato” dai suoi ex colleghi, scrive Valentina Stella il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. “Mi dispiace”: con queste parole ieri, al termine dell’interrogatorio in Corte d’Assise a Roma, Francesco Tedesco si è rivolto a Ilaria Cucchi. Il carabiniere è imputato di omicidio preterintenzionale ed ha accusato gli altri due militari coimputati nel processo, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, per la morte di Stefano Cucchi. Al termine dell’interrogatorio l’uomo si è alzato ed è andato a stringere la mano alla sorella del geometra 31enne, morto nell’ottobre del 2009 sotto la custodia dello Stato una settimana dopo essere stato arrestato per droga. È dunque lontano quel gennaio del 2016 quando Ilaria Cucchi pubblicò sulla sua pagina Facebook una foto di Tedesco al mare, che esibiva un fisico palestrato e unto di crema solare in uno striminzito costume, aggiungendo il commento: “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo, le facce di coloro che lo hanno ucciso…”. Ieri forse l’inizio di un nuovo percorso, segnato dal pentimento e della ricerca della verità. Tedesco, infatti, nella scorsa udienza, a distanza di 9 anni da quella tragica morte, aveva rivelato che Cucchi venne “pestato” da Di Bernardo e D’Alessandro. Ieri ai giudici ha aggiunto altri particolari, sfogandosi contro i suoi ex colleghi: “Si sono nascosti dietro le mie spalle per tutti questi anni, per dieci anni loro hanno riso e io ho dovuto subire, mi sono stancato. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero l’unico minacciato”. Rispondendo poi alle domande delle difese, Tedesco ha detto perché ha aspettato così tant. “Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm ma ho voluto aspettare che uscissero le annotazioni mie falsificate e cancellate per corroborare le mie parole”. Subito dopo la morte di Stefano Cucchi “sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l’andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l’unico ad avere tutto da perdere” ha concluso Tedesco. Intanto tre agenti della penitenziaria – Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici che sono stati assolti in via definitiva nel 2015, e al momento persone offese, hanno depositato un atto di nomina dei difensori al fine di costituirsi parte civile contro i rappresentanti dell’Arma indagati. Stessa cosa ha fatto la la famiglia Cucchi.
Il carabiniere superteste: "Per 10 anni colleghi nascosti dietro di me". E stringe la mano a Ilaria: "Mi dispiace". La stretta di mano tra il superteste Francesco Tedesco e Ilaria Cucchi oggi in aula. Francesco Tedesco ha ricostruito le fasi dell'arresto e il pestaggio del giovane geometra. "Non ha avuto tempo di lamentarsi e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra". Smentita in aula la frase riportata da Ilaria Cucchi: "Io muoio ma a te ti levano la divisa", scrive il 16 aprile 2019 La Repubblica. "Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono nascosti per dieci anni dietro le mie spalle. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L'unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l'unica persona che aveva da perdere ero io, ero l'unico minacciato". Lo ha detto in aula davanti alla Corte d'Assise, Francesco Tedesco, il carabiniere superteste e imputato di omicidio preterintenzionale che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati coinvolti nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il giovane geometra morto nel 2009. E al termine della sua deposizione, Tedesco si è avvicinato alla sorella del geometra, Ilaria dicendole "mi dispiace" e stringendole per la prima volta la mano. Rispondendo alle domande delle difese, Tedesco ha spiegato perché ha aspettato tanti anni per fare le sue rivelazioni. "Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm", ha anche spiegato Tedesco, il quale in aula ha anche ricostruito tutte le fasi dell'arresto di Stefano dicendo di aver visto personalmente lo scambio droga-denaro di Cucchi con il suo cliente e indicando tutti i componenti del gruppo che realizzarono le varie perquisizioni (personale, dell'auto e domiciliare) del giovane quella notte. "Subito dopo la morte di Cucchi sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l'andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l'unico ad avere tutto da perdere" ha aggiunto Tedesco, accusato anche di falso e calunnia insieme con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. ""Dopo il primo schiaffo di Di Bernardo - ha detto il vicebrigadiere, ribadendo quanto già affermato nella precedente udienza - Stefano non ha avuto il tempo di lamentarsi, non ha gridato. E' caduto in terra, come fosse stordito, e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra da D'Alessandro. Poi, quando l'ho aiutato a rialzarsi, gli ho chiesto come stava e lui mi ha detto di stare tranquillo perché era un pugile. Ma si vedeva che non stava bene". "Vorrei ringraziare l'avvocato Lampitella, difensore di D'Alessandro, che ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento. Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto 'io muoio ma a te ti levano la divisa'. Stefano era stato appena picchiato e stava proprio male" lo ha scritto su Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, in merito ad una domanda formulata in aula dal legale della difesa. E oggi in aula, davanti alla Corte d'Assise, il legale ha chiesto al carabiniere Francesco Tedesco se Stefano avesse pronunciato la frase in questione. La risposta di Tedesco è stata negativa.
Stefano Cucchi, il carabiniere Tedesco in aula: «Chiedo perdono, mi ritrovai solo». Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Corriere.it. «Tu devi dire che non è successo niente, che Cucchi stava bene. Se vuoi continuare a fare il carabiniere devi seguire la linea dell’Arma». Il vice brigadiere Francesco Tedesco — 37 anni, imputato per l’omicidio preterintenzionale del detenuto romano arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana più tardi — attribuisce a questa frase del maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante supplente della stazione Roma-Appia, i nove anni di omertà con cui lui stesso ha taciuto e coperto il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi Confessato al pubblico ministero Giovanni Musarò solo l’estate scorsa, con una versione che accusa delle botte i suoi colleghi coimputati, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. «Vissi quell’esortazione come una minaccia, insieme a tanti altri comportamenti», racconta Tedesco davanti alla Corte d’Assise in una deposizione-fiume cominciata con la richiesta di perdono rivolta alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria processati e assolti in passato: «Chiedo scusa per i nove anni di silenzio, ma avevo davanti un muro insormontabile». Il muro costruito con intimidazioni mascherate da consigli che gli avrebbero impedito di svelare prima ciò che adesso racconta sollecitato dalle domande del pm e dei suoi avvocati difensori, Eugenio Pini e Stefano Petrelli. È la storia di un arresto notturno per droga uguale a tanti altri, trasformatosi prima in dramma e poi in uno scandalo. «Dopo la perquisizione domiciliare — ricorda Tedesco, offrendo il proprio volto a telecamere e fotografi — siamo andati alla caserma Casilina per il fotosegnalamento di Cucchi, ma al momento di prendere le impronte digitali Stefano ha avuto un battibecco con Di Bernardo, perché non voleva sporcarsi le mani con l’inchiostro. Hanno cominciato a insultarsi, Cucchi ha fatto il gesto di dare uno schiaffo a Di Bernardo. Era più una violenza verbale che altro. A quel punto D’Alessandro ha chiamato Mandolini, il quale ci ha ordinato di rientrare perché, essendo un italiano fornito di documenti, non c’era bisogno del fotosegnalamento. Mentre uscivamo Cucchi e Di Bernardo hanno continuato a offendersi, finché Di Bernardo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento. Poi D’Alessandro, che stava chiudendo il computer, gli ha dato un calcio all’altezza del sedere, facendolo cadere. Io ho detto “ma che cazzo fate?”. Poi ho spinto Di Bernardo, e D’Alessandro gli ha dato un secondo calcio, mi pare in faccia. Io l’ho spinto via dicendo “non vi avvicinate, non vi permettete”, ho preso sottobraccio Cucchi che mi ha detto “non ti preoccupare, sto bene, sono un pugile”». Da quel momento, rientrati tutti nella caserma Appia, è cominciato il calvario di Cucchi che l’indomani mattina è stato accompagnato in tribunale dallo stesso Tedesco: «Camminava lentamente, trascinando una gamba, e aveva gli occhi arrossati. Si capiva che era stato picchiato». Una settimana più tardi Cucchi morì nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini. E cominciò ad alzarsi il «muro impenetrabile» costruito anche con le bugie e i silenzi del vicebrigadiere che decise di attenersi alla «linea dell’Arma» emersa intorno a lui giorno dopo giorno: «In più occasioni mi fu fatto capire che non dovevo fare azioni isolate, né discostarmi dal comportamento degli altri. Per esempio quando davanti a me Mandolini chiamò un superiore della stazione di Tor Sapienza per dirgli che la relazione di servizio del piantone sulle condizioni di Cucchi non andava bene, dopo dieci minuti è arrivata quella modificata, e lui ha strappato la prima; io ho vissuto quell’episodio come una violenza». Non l’unica. «Quando seppi che Cucchi era morto — continua Tedesco —, scrissi un’annotazione di servizio in cui ricostruii ciò che avevo visto. Ne stampai due copie, ma dopo qualche giorno mi accorsi che nel fascicolo dove le avevo inserite non c’erano più». A questa versione c’è il riscontro di un registro che appare manomesso, come fu manomesso quello del fotosegnalamento dal quale fu cancellato il nome di Cucchi: «Erano tutti tranquilli». Poi Tedesco partì per la Puglia per un periodo di ferie prontamente concesso dal Mandolini, e ricevette una telefonata sospetta: «Mi chiamarono Di Bernardo e D’Alessandro per chiedermi come stavo, e D’Alessandro disse, a proposito della vicenda Cucchi, “mi raccomando, fatti i cazzi tuoi, occhio”». Tedesco si adeguò, anche dopo aver saputo di essere indagato nell’inchiesta-bis, nel 2015. Con un programma per ripulire il computer fece sparire le tracce della relazioni di servizio che oggi vorrebbe tanto ritrovare, e dalle intercettazioni risulta che fosse d’accordo con D’Alessio e Di Bernardo nel concordare le versioni e continuare a coprire la verità. «Mi fingevo loro amico per non destare sospetti, avevo paura di loro e delle conseguenze che potevo subire», spiega. Il controesame condotto dall’avvocato Bruno Naso, difensore di Mandolini, cerca di mettere in luce contraddizioni e smagliature nel racconto del carabiniere «pentito», che però si mostra granitico nella sua ricostruzione. E aggiunge: «Non dissi nulla ai superiori perché ebbi la sensazione che si volesse coprire tutto». La «linea dell’Arma» ha retto fino al luglio scorso quando Tedesco — evidentemente per alleggerire la propria posizione processuale e distinguerla da quella di chi oggi accusa essere i picchiatori di Cucchi, fornendo una versione che trova conferme nel racconto di un detenuto che parlò con Cucchi dopo l’arresto, a Regina Coeli — ha denunciato la scomparsa della relazione e accusato i colleghi del pestaggio. Proprio mentre il comando generale gli comunicava l’avvio della procedura disciplinare che potrebbe portarlo alla destituzione. Interrotta solo in seguito, in attesa della fine del processo.
· I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.
Caso Cucchi, il pm: i carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia, scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Prima ancora che la procura conferisse l’incarico per l’esame medico legale sulla morte di Stefano Cucchi, i carabinieri erano già in possesso di una relazione ufficiosa e segreta, datata 30 ottobre 2009. L’ennesimo colpo di scena svelato nell’aula del processo bis dal pm Giovanni Musarò ha come conseguenza la richiesta della pubblica accusa alla corte D’Assise di revocare dalle prove di questo dibattimento le testimonianze rese dai vecchi periti. La prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi «è stata farlocca, le testimonianze di consulenti e periti dell'altro processo introdurrebbero un vizio nel processo attuale», sottolinea Musarò. «Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo», aggiunge il pm, ma la credibilità di quei testi «è irreparabilmente inficiata». Nella precedente udienza era emerso che sempre sulla base di false attestazioni mediche fornite dai carabinieri al ministro dell’Interno Angelino Alfano, il titolare del Viminale era stato indotto a dire il falso quando venne chiamato a riferire del caso in parlamento. Ora, il passo avanti ulteriore con cui la procura sostiene la sua accusa di depistaggio a carico di altri sette carabinieri, oltre ai cinque imputati per il pestaggio e i falsi. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, dice ancora il pm in aula, «erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm di allora non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell'autopsia». La relazione di cui parla l'Arma in documenti riservati del 2009, «era talmente segreta da essere negata anche alle parti», aggiunge Musarò.
Cucchi, il dossier sull’autopsia finito nelle mani dei carabinieri. Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Di udienza in udienza, al processo per la morte di Stefano Cucchi i misteri si infittiscono anziché chiarirsi. O meglio, affiora con sempre maggiore chiarezza un intrigo — legato ai depistaggi del 2009 e del 2015 denunciati dall’accusa — che i protagonisti non riescono a spiegare. O si rifiutano di spiegare avvalendosi del diritto al silenzio essendo a loro volta indagati per falso o favoreggiamento. A cominciare dal generale dei carabinieri Alessandro Casarsa e dal capitano Tiziano Testarmata, che dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò nel corso dell’inchiesta-bis sulla manipolazione delle prove, nell’aula dove vengono giudicati cinque loro colleghi imputati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso, scelgono di tacere. «Sono emerse altre circostanze inquietanti relative agli accertamenti medico-legali sul decesso di Cucchi», annuncia il pm Musarò aprendo l’udienza di ieri, per mettere in guardia: «Nell’altro processo (quello contro gli agenti penitenziari finiti assolti, ndr) è stata giocata una partita con le carte truccate; oggi ne giochiamo un’altra con un mazzo nuovo, ma vorrei evitare altri trucchi». Stavolta la novità è una relazione preliminare del medico che il 23 ottobre 2009, il giorno dopo la morte di Stefano, effettuò l’autopsia sul cadavere. Otto pagine consegnate dal consulente Dino Tancredi al magistrato che all’epoca svolgeva le indagini, Vincenzo Barba, alle 17.40 del 30 ottobre e negate agli avvocati della famiglia Cucchi. Segrete per tutti ma non per l’Arma, che già negli appunti redatti dall’allora colonnello Casarsa lo stesso 30 ottobre e dall’ex comandante provinciale Vittorio Tomasone il 1° novembre, ne davano conto. Enfatizzando conclusioni parziali e interlocutorie, redatte «con riserva di ulteriori approfondimenti». Prima ancora che a Tancredi venissero affiancati altri consulenti, i carabinieri spiegavano nel loro appunto trasmesso al comando generale (poi utilizzato per informare il governo chiamato a rispondere alle interrogazioni parlamentari) che il collegio peritale sarebbe stato ampliato per «valutare i risultati parziali dell’autopsia che sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi». In realtà Tancredi aveva ripetutamente scritto che «allo stato attuale» non emergevano elementi che collegassero le lesioni alla morte di Cucchi; e che «la definizione dei mezzi produttori della medesima necessita di ancor più approfondito esame» di tutti gli elementi a disposizione e ancora da raccogliere. Tuttavia la mancanza del famoso «nesso causale» tra le percosse e la morte di Cucchi verrà poi introdotta nelle successive consulenze e perizie che hanno condizionato il primo processo, e che oggi il pm non esita a definire «farlocche». Anche in virtù di un’altra relazione senza data, che lo stesso Tancredi non sa spiegare, in cui sparì una lesione vertebrale invece presente in quella preliminare; e delle anticipazioni elaborate dai carabinieri, sebbene non si capisca a quale titolo furono informati in tempo reale degli accertamenti medico-legali in corso. Perché avevano quella relazione segreta? E come poterono anticipare le mosse successive? Nell’udienza precedente il generale Tomasone disse di non ricordare perché nel suo appunto escluse il collegamento tra botte e decesso, essendosi limitato a trascrivere ciò che gli aveva indicato il colonnello Casarsa. Il quale nel frattempo è diventato anche lui generale e al pm — nell’istruttoria sui presunti depistaggi — aveva detto di non ricordare chi gli aveva trasmesso quelle informazioni; negando di aver dettato l’annotazione al suo sottoposto, come riferito dal colonnello Cavallo. Versioni contraddittorie, un carabiniere contro l’altro. E ieri, convocato davanti ai giudici, Casarsa ha cambiato atteggiamento: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Come il capitano Testarmata — che sulle acquisizioni di carte del 2015 aveva risposto al pm, sostenendo tesi smentite da altri — ma in aula resta zitto, se non per declinare le proprie generalità. L’unico ufficiale che deve parlare per forza in quanto testimone, il tenente colonnello Paolo Unali, ex comandante della compagnia Casilina, non sa spiegare perché negli atti redatti all’epoca non si fa mai cenno ai motivi del mancato fotosegnalamento di Cucchi la sera dell’arresto (quando avvenne il pestaggio, secondo l’accusa). «Mi avevano riferito che era stato poco collaborativo», dice. Ma allora come mai negli appunti il detenuto viene descritto come «remissivo», oltre che falsamente «anoressico e sieropositivo»? «Non lo so», risponde Unali. Quelle carte dei carabinieri sono rimaste nascoste per nove anni, e solo di recente sono state consegnate dall’Arma, inserite negli atti della nuova indagine e prodotte in aula. Ma, un po’ misteriosamente, la corte d’assise per adesso ha stabilito che non debbano entrare nel processo.
Caso Cucchi, il pm al processo: "I carabinieri avevano una relazione segreta precedente all'autopsia". E' la novità emersa nell'udienza del procedimento bis sui presunti depistaggi. Musarò: "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i militari già lo sapessero?" Scrive l'8 marzo 2019 Maria Elena Vincenzi La Repubblica. Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell'autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. E' la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d'Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell'ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musarò, veniva evidenziato che la lesività delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell'Arma veniva esclusa la possibilità di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell'autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all'avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un'insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?" ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all'autopsia di Stefano Cucchi. "I legali di Cucchi nel 2009 - ha aggiunto - avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c'erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece - ha concluso - si sosteneva che non c'era un nesso di causalità delle ferite con il decesso". "Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall'inizio delle operazioni" spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. "Per pervenire a delle conclusioni - ha aggiunto - io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perchè c'erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti. Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009". Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento "contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo perché è' poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni".
Stefano Cucchi, il pm: “I carabinieri avevano una relazione segreta sui primi risultati dell’autopsia, scrive Il Fatto Quotidiano l'8 Marzo 2019. Il 30 ottobre 2009 era stata fatta una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia di Cucchi tenuta segreta ma di cui il Comando Provinciale e il Gruppo Roma sapevano”. È quanto dichiarato dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel documento preliminare (effettuato il giorno stesso del decesso del geometra 31enne) si sottolineava che “la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte”. Parole che marcano una differenza netta rispetto a quanto sostenuto sempre nell’autopsia e nella maxi-consulenza, in cui veniva escluso un nesso fra le ferite di Stefano Cucchi e la sua morte. Si tratta infatti di risultati completamente diversi, che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari – che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi – si parlava di due fratture (e non precedenti), oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, “erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell’autopsia” ha evidenziato il pubblico ministero. La relazione di cui parla l’Arma in documenti riservati del 2009, “era talmente segreta da essere negata anche alle parti” ha aggiunto. Il documento in questione era stato firmato dal medico legale Dino Tancredi, l’unico già nominato il 30 ottobre 2009, e vi si sottolineava come servissero ulteriori approfondimenti per definire le cause del decesso. Eppure già in quei giorni l’Arma sottolineò come i medici legali avessero escluso il nesso di causalità tra la morte del giovane e le percosse subite. Musarò ha fornito anche altri dettagli: nella relazione si spiega “che c’erano due fratture non precedenti alla morte e non si faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e che Cucchi era morto per cause da accertare”. Il pm ha sottolineato che però “nei verbali dei Carabinieri già si sosteneva che non c’era nesso di causalità tra le ferite e la morte”. Infine ha ripetuto: “Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?”. Una presa di posizione, quella del pm Musarò, che segue quanto avvenuto il 27 febbraio scorso durante l’audizione in aula come testimone del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri. Tomasone ha detto di non essersi mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra 31enne, circostanza però smentita dal pm Musarò, che in aula gli ha mostrato un atto sua firma nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia, in particolare in merito a due fratture, che neanche la Procura di Roma ancora conosceva.”Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto il pm, con Tomasone che per rispondere ha chiamato in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha chiesto se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. E qui Tomasone ha replicato dicendo “questo non lo so”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia del geometra, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
Caso Cucchi, nuove prove di depistaggio al processo: "Conclusioni mediche prima di perizia" . Tomasone: "Fu un arresto normale". Durissimo il pm: "Le carte acquisite a novembre 2018 dimostrano che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia". Depone come teste l'allora comandante: "Chiesi relazione sui fatti, sono convinto che non ci siano responsabilità da parte dei carabinieri", scrive Maria Elena Vincenzi il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Si è aperta alla Corte di assise di Roma, con un nuovo e ultimo deposito, l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchiche vede imputati cinque carabinieri nell'ambito del nuovo filone di inchiesta sui falsi e sui depistaggi legati alle condizioni di salute del 32enne geometra arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. Ma soprattutto è la giornata in cui è stato sentito Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. In apertura di udienza il pm Giovanni Musarò prende la parola. "È l'ultimo deposito di attività integrativa di straordinaria importanza. C'è stato depistaggio sia nel 2015 sia per il 2009 che è oggetto del procedimento. Pensiamo di essere riusciti a capire e dimostrare cosa accadde nel 2009, grazie ad acquisizione documentale resa possibile anche grazie alla leale collaborazione che ci è stata offerta dal comando provinciale dei carabinieri. "Due le circostanze - spiega il pm - la prima attiene alla ricostruzione dei fatti. Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio".
Al ministro Alfano documenti falsificati. "Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Ma a cosa servivano: non servivano per il pubblico ministero, servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti".
Conclusioni mediche prima della perizia. "Secondo aspetto - prosegue Musarò - che attiene agli esami medico legali. Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - aggiunge il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
Anemia e epilessia diventarono anoressia. "Mi sono andato a risentire l'audio di quel processo per direttissima. Stefano Cucchi disse di avere l'anemia e l'epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni sulle condizioni di salute del ragazzo, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte". Lo ha sottolineato il pm Giovanni Musarò nel processo ai cinque carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Il magistrato ha quindi spiegato che il comando provinciale dell'Arma nel gennaio del 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. "Non è vero, perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ha negato che accadde ciò - ha concluso il pm -. L'epilessia di Cucchi era da tempo in fase di rimessione, come hanno detto i medici. Eppure l'epilessia, nella relazione peritale del gip dell'ottobre del 2016, diventò la causa più probabile del decesso. Si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia, ma ormai qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema".
Tomasone: "Fu un arresto normale". Per l'allora comandante dei carabinieri, quello di Cucchi "fu un arresto normale". Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Lo ha riferito davanti alla corte d'assise il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti (2009) comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, sentito come testimone nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Una versione, quella dell'alto ufficiale dell'Arma, caratterizzata da tante ammissione di "non ricordo" e "non ho memoria dei fatti" che hanno suscitato la stizza del pm Giovanni Musarò. Tomasone ha spiegato così il significato della riunione del 30 ottobre del 2009, che il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, ha definito in udienza 'come quella degli alcolisti anonimi': "A tutti coloro che erano stati presenti nella vicenda dell'arresto di Cucchi - ha detto il generale - avevo chiesto di venire da me al Comando provinciale e, oltre a portare una relazione scritta, di dire quello che avevano fatto. All'esito di questi ulteriori accertamenti, ne deducevo il convincimento che non vi potevano essere responsabilità. Il motivo di fare venire i militari non era solo quello di cogliere il 'focus' del loro racconto ma anche, attraverso l'espressione del loro viso, capire se qualcuno stesse correggendo altri nella ricostruzione dei fatti. Sentire i militari singolarmente si sarebbe prestato a una interpretazione diversa. Mi sembrava cosa più logica guardarli negli occhi tutti assieme"...
· Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.
Caso Cucchi, i pm: ''Angelino Alfano indotto inconsapevolmente a dichiarare il falso su atti falsi'', scrive Giovanni Bianconi su Corriere della Sera, 1 marzo 2019. Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: "Qui di prassi non c'è nulla". Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel "caso Cucchi", il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d'interrogatorio degli ufficiali dell'Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d'allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell'inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell'informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all'epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: "Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l'ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo". Il procuratore commenta: "Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti". "Non è una risposta" - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell'autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: "Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...", e Pignatone lo avverte: "Questa non è una risposta. Mi scusi...". Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché "non è la prassi", e il procuratore sbotta: "Ma qua non c'è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c'è assolutamente nulla nella prassi, quindi...". Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l'ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: "Non ho capito la domanda". Il procuratore interviene: "E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l'ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c'era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità". "Cerchiamo la verità" - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: "Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false". Pignatone: "Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto "carte alla mano" queste benedette relazioni?". Sabatino: "Questo, procuratore, non lo so". Il magistrato prova a insistere: "Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?". Sabatino: "Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un'accusa che riguardava altro...". Pignatone: "Vabbè, andiamo avanti". Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver "messo mano" a quei documenti "su indicazione del colonnello Casarsa", il procuratore ricorda: "Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev'essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo". Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni "minimizzanti" sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. "Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...", prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: "Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette".
In aula ascoltato l’ex Comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone, scrive AntiMafiaDuemila il 28 Febbraio 2019. Nuovi inquietanti particolari sono venuti a galla dal processo bis sulla morte del trentenne Stefano Cucchi. Il pm Giovanni Musarò, ieri, durante l’apertura d’udienza, ha pronunciato parole al vetriolo: “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Il magistrato ha puntato il dito contro i continui depistaggi, posti in essere sulla morte di Stefano Cucchi dai vertici dell'Arma dei carabinieri, che via via sarebbero arrivati fino alle scrivanie del governo dell’epoca. In particolare a cadere nella trappola della manipolazione delle carte dell’Arma, sulla morte dell’ingegnere romano, sarebbe stato il ministro degli Interni di allora, Angelino Alfano. Questi “era stato inconsapevolmente indotto da atti falsi a riferire il falso” quando venne chiamato a rispondere davanti al Senato il 3 novembre 2009 su delle informative rinvenutegli dall’Arma. L'attività di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi ebbe inizio il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell'agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto, come invece vide il padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. - ha detto Musarò in aula- Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio”. Ed è da questa agenzia che si sarebbe mosso il meccanismo di depistaggio dei Carabinieri dal quale, grazie alle attività di indagine, sarebbero emerse due circostanze. La prima: “Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Che servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti”. Mentre il secondo scenario riguarda le conclusioni mediche eseguite prima della perizia: “Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - ha affermato il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
L’udienza di ieri ha visto come teste il Generale dei Carabinieri Vittorio Tomasone, al quale dipendevano tutti i militari che ebbero a che fare con il giallo di Stefano Cucchi (inclusi i 5 imputati al processo bis), poichè all’epoca dei fatti era Comandante provinciale di Roma. La testimonianza dell’ex comandante è stata ricca di amnesie dipinte da vari “non ricordo” e "non ho memoria dei fatti" che hanno scaturito la stizza del pm Giovanni Musarò. Secondo Tomasone “quello di Cucchi era stato un arresto normale, come tanti” e alla questione se si fosse mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra il generale ha risposto negativamente. Negazione smentita però dal pm Giovanni Musarò che in aula gli ha mostrato un atto a firma proprio del generale nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia del giovane, in particolare in merito a due fratture, di cui neanche la procura capitolina era a conoscenza. “Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto quindi il pm. Alla domanda del pm, Tomasone ha risposto chiamando in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha domandato se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. Domanda alla quale il generale ha risposto brevemente: “questo non lo so”. Il pm ha riportato allora un’annotazione dalla quale emergeva che il 23 novembre 2009 fu disposta l’autopsia di Stefano, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicò la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando Generale, scriveva dei risultati parziali dell’autopsia che ancora non era stata fatta”, perché “non erano nemmeno stati nominati i periti”. A questo il generale si è difeso asserendo di “non avere memoria sul modo con il quale è stata assunta l’informazione”. Casarsa, ascoltato dai pubblici ministeri lo scorso 28 gennaio, aveva detto a riguardo: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. In quel documento Casarsa ha affermato, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia “sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”. Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa ha detto di non essere in grado di affermare da chi ebbe “le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza”. Nella lista degli indagati è stato iscritto anche il colonnello Lorenzo Sabatino insieme a Casarsa, gli ufficiali si sono difesi sostenendo di “non essere a conoscenza” del contenuto delle note, che sarebbero emerse come modificate. “Da persona innocente mi sono trovato in una rete senza uscita ordita nei nostri confronti. Eravamo tre pecore mandate al patibolo”, ha detto l’agente della polizia penitenziaria Nicola Minichini, processato con altri due colleghi e assolti in via definitiva. La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo.
Cucchi, il ministro Alfano mentì perché ingannato dai carabinieri. Lo ha detto il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri, scrive Valentina Stella il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Lo ha detto ieri il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri. Seconda l’accusa l’attività di depistaggio sulla morte del giovane geometra sarebbe iniziata il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell’agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono che Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti invece poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “A partire dal 26 ottobre del 2009 – ha precisato il pm – iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera il 3 novembre”. Di conseguenza “il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Inoltre, il ministro Alfano disse, sulla base di quelle informative pervenutegli dalla Difesa seguendo la scala gerarchica dell’Arma, “che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato dai carabinieri. Da qui – ha sottolineato il pm – cominciò una difesa a spada tratta dell’Arma che si tradusse in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo”. A tal proposito è Nicola Minichini, uno dei tre agenti della penitenziaria accusati inizialmente del pestaggio di Cucchi, assolti nei tre gradi di giudizio e poi ora parti offese nel processo- bis in corte d’assise a sfogarsi: “Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Io non riesco ancora a capire come sia stato possibile”. E di questa rete di depistaggio farebbero parte anche le falsificazioni degli esami medico legali: secondo il pm, nelle note dell’Arma, l’anemia e l’epilessia dichiarate dal povero geometra diventarono anoressia. Inoltre “due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all’Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Tutto ciò – aggiunge il magistrato era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati”. Tutto in regola invece per il generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri per cui, come riferito ieri in qualità di testimone, quello di Cucchi “fu un arresto normale”. La sua versione dei fatti è stata caratterizzata da tante ammissione di “non ricordo” e “non ho memoria dei fatti” che hanno suscitato l’irritazione del pm Giovanni Musarò.
Caso Cucchi, il pm: “Alfano disse il falso in Aula ingannato dagli atti fasulli prodotti dai carabinieri”. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm oggi nel processo per la morte del geometra romano. Durante l'udienza ha testimoniato in generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane, scrive Il Fatto Quotidiano il 27 Febbraio 2019. L’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “dichiarò il falso” di fronte al Parlamento sul caso Cucchi, sulla base di una “serie di annotazioni falsificate” da parte dei carabinieri. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Durante l’udienza odierna, ha testimoniato il generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane geometra romano, morto all’ospedale Pertini di Roma dove si trovava ricoverato dopo il fermo dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Secondo l’accusa, che indaga anche sul successivo presunto depistaggio portato avanti dai militari dell’Arma, nelle carte ci sono le prove dei “falsi e delle omissioni” dell’allora Comando provinciale dei carabinieri di Roma che hanno tratto in inganno anche l’ex ministro della Giustizia. Il 3 novembre 2009, al Senato, Alfano (sopra la foto di quel giorno, ndr) durante la sua informativa accusò implicitamente gli uomini della polizia penitenziaria, ha detto il pm spiegando come il “depistaggio” sarebbe partito subito dopo un dispaccio d’agenzia del 26 ottobre 2009 in cui il parlamentare Luigi Manconi “denunciava che i genitori del ragazzo lo avevano visto dopo l’arresto senza segni in viso mentre il giorno dopo era tumefatto”. Da quel momento, ha detto Musarò, “da parte dei carabinieri partono una serie di annotazioni falsificate” e Alfano “sulla base di atti falsi”, dichiarò “il falso in Aula, lanciando accuse alla polizia penitenziaria, quando ancora in procura non c’era nulla contro la penitenziaria”. Fino a quel giorno – ha ricordato il pm Musarò – il fascicolo dei pm Barba e Loy sulla morte di Cucchi “era a carico di ignoti e solo dopo le parole di Alfano partirà l’indagine sui poliziotti”. Per quello che il pm ha definito “un gioco del destino”, il 3 novembre 2009, “quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi”. Quella dichiarazione – ha detto il pm – “è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva”. Nel caso Cucchi, ha concluso Musarò, “si è giocata una partita truccata, con carte segnate”. Una partita “giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Durante il suo interrogatorio, il generale Tomasone ha spiegato, relativamente alla riunione convocata con molti dei carabinieri ora indagati per il depistaggio: “Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
· Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.
Caso Cucchi a Roma, a processo Casarsa e altri sette carabinieri per depistaggio. Ilaria: "Momento storico". Prima udienza il 12 novembre, si apre così un quarto processo per il decesso del geometra romano. L'allora comandante dei carabinieri della capitale aveva dichiarato di aver avuto informazioni solo dal suo superiore dell'epoca, Vittorio Tomasone. La sorella: "Tutto iniziato grazie a Casamassima". La Repubblica 16 luglio 2019. Sono stati rinviati a processo otto militari dell'Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell'ambito dell'inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che - secondo le accuse - avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre. Tra militari coinvolti, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'inchiesta coinvolge anche Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Cianni.
I capi di imputazione. Scrive il pm: "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano secondo cui Cucchi lamentava dolori al costato e che non poteva camminare, ndr) fosse modificato nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo Musarò, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che 'Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidita' della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Gli indagati rispondono di falso anche in merito alla annotazione di servizio, sempre del 26 ottobre del 2009 redatta dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio (non indagato), "indotto a sottoscrivere il giorno dopo una nota in cui falsamente attribuiva allo stesso Cucchi 'uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza', omettendo ogni riferimento ai dolori al capo e ai tremori manifestati dall'arrestato". Il tutto "con l'aggravante di volere procurare l'impunità dei carabinieri della stazione appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso". Sabatino e Testarmata, che erano stati delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell'ambito dell'indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsita' di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la cosa all'autorita' giudiziaria, favorendo così gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, una volta scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell'epoca con il nome di Cucchi "sbianchettato", non solo non acquisi' il documento originale, come gli era stato ripetutamente detto da due colleghi, ma neppure riporto' la circostanza nella relazione di servizio. Tra gli otto militari dell'Arma rinviati a giudizio figura De Cianni che in una nota di pg accuso' Casamassima, pur sapendolo innocente, di aver fatto dichiarazioni gradite alla famiglia Cucchi dietro la promessa di soldi da parte di Ilaria, sorella di Stefano. Casamassima, che per aver collaborato con la magistratura e aver dato un impulso significativo alle nuove indagini ha subito pressioni e ritorsioni, compreso un trasferimento ad altro incarico e relativo demansionamento, gli avrebbe riferito che Cucchi la sera dell'arresto tento' gesti di autolesionismo e che fu solo schiaffeggiato, non certo pestato. Dichiarazioni false che De Cianni ha confermato anche in un interrogatorio fatto alla squadra mobile.
Ilaria Cucchi: "Momento storico grazie a Casamassima". "Possiamo dire che la decisione del gup rappresenta un momento storico e significativo per noi. Tutto è cominciato per merito di Riccardo Casamassima (il carabiniere supertestimone che ha fatto riaprire l'inchiesta, ndr)". E' il primo commento, a caldo, di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma per la vicenda legata ai depistaggi. "Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati - ha aggiunto Ilaria - non immaginavamo neanche quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Oggi poi abbiamo assistito a uno scaricabarile con il generale Casarsa che ha raccontato che le cause della morte di Stefano gli furono dettate dal generale Tomasone".
Casarsa si difende: "Uniche informazioni mediche dal mio superiore". "Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali. Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti". Si era difeso così, nel corso di una dichiarazione spontanea resa di fronte al Gup, Alessandro Casarsa. Il generale aveva chiamato in causa il suo diretto superiore, il generale Vittorio Tomasone (ex comandante provinciale di Roma e da gennaio 2018 comandante interregionale Ogaden), pur senza mai nominarlo direttamente. Casarsa era il comandante del Gruppo Roma, quando Stefano Cucchi venne arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti, picchiato in caserma e poi deceduto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo.
Tomasone: "Quello di Cucchi fu arresto normale". Fino a oggi Tomasone era entrato nella vicenda Cucchi solo in relazione alla sua deposizione avvenuta il 27 febbraio scorso, nella veste di testimone, nel processo in corso davanti alla corte d'assise dove figurano imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati dal pm Giovanni Musarò di omicidio preterintenzionale. "Per me quello di Cucchi era stato un arresto normale - aveva detto quel giorno in udienza Tomasone -. Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del Gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto fino alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Per l'attuale comandante interregionale Ogaden, "tutto portava ad escludere qualsiasi coinvolgimento dei carabinieri in questa storia". Rispondendo al pm, poi, Tomasone aveva escluso con forza di essersi mai interessato delle questioni medico-legali legate alle cause della morte di Cucchi. E a proposito di un atto interno all'Arma del primo novembre 2009, esibito in udienza dal magistrato, proprio a firma del generale, in cui venivano presi per buoni gli esiti (parziali) dell'autopsia, che la procura all'epoca non poteva conoscere anche perchè doveva essere integrato il pool dei suoi consulenti tecnici, il generale Tomasone aveva fornito questa spiegazione: "Confermo di non essermi mai interessato degli accertamenti medico legali così come escludo di aver mai parlato con i consulenti. Posso immaginare di aver raccolto queste informazioni sulla base di quanto giratomi dal comandante del gruppo Roma, ma non so se lui abbia interloquito con i medici".
Cucchi, l'inchiesta si allarga: indagato anche un colonnello. Avviso per favoreggiamento a Sabatino, all’epoca capo del nucleo operativo di Roma, scrive Carlo Bonini il 15 febbraio 2019 su La Repubblica. Prigionieri del vincolo di omertà con cui l’Arma dei carabinieri ha sequestrato per nove anni la verità sull’omicidio di Stefano Cucchi, cadono uno dopo l’altro. E tutti insieme. Ufficiali, sottufficiali, truppa. In una sequenza in cui i “morti” (marescialli e appuntati), abbandonati al loro destino giudiziario, si afferrano ai vivi (capitani, maggiori, colonnelli, generali), trascinandoli a fondo. E tocca ora, dunque, al colonnello Lorenzo Sabatino, ambiziosissimo ufficiale cresciuto all’ombra dell’ex Comandante generale Leonardo Gallitelli e oggi comandante provinciale dei carabinieri a Messina. Il pm Giovanni Musarò lo ha interrogato come indagato mercoledì pomeriggio, contestandogli il reato di favoreggiamento per l’attività di occultamento e manipolazione delle prove condotta nel novembre 2015 dal Reparto Operativo dell’Arma di Roma, di cui era allora comandante, che avrebbe dovuto far deragliare anche l’inchiesta bis dalla Procura sull’omicidio (quella per cui si sta celebrando il processo ai tre carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano). Al colonnello Sabatino, che in quel novembre del 2015 aveva ricevuto l’incarico di raccogliere e trasmettere alla Procura tutti gli atti interni all’Arma su Cucchi, il pm Musarò contesta infatti di non aver segnalato come in questo scartafaccio di carte che trasmise al suo ufficio fossero state “manomesse” due delle evidenze chiave in grado di ricostruire cosa fosse accaduto la notte del 16 ottobre 2009, quella dell’arresto e del pestaggio di Stefano. Si trattava delle relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, due piantoni di guardia nella caserma di Tor Sapienza, quella dove Stefano trascorse la notte dell’arresto. A entrambi – come l’indagine della Procura ha recentemente documentato – venne imposto dalla catena gerarchica dell’Arma di correggere quanto avevano inizialmente annotato per iscritto nelle loro relazioni in modo tale che scomparisse ogni riferimento alle tracce, già in quella notte dell’ottobre 2009 evidenti, del pestaggio appena subito da Stefano dai carabinieri che lo avevano arrestato. E vennero dunque confezionati due falsi. Due nuove “annotazioni di servizio” che di quelle originali avevano la medesima veste grafica e lunghezza, riportavano la stessa data, ma erano appunto purgate nei contenuti. Ebbene, Sabatino, sulla carta un fine investigatore, almeno se si sta al suo curriculum (Comando del Nucleo Investigativo e del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma, Comando di una delle sezioni del Ros, reparto di eccellenza dell’Arma, e quindi il comando a Messina), non notò quella discrepanza. Piuttosto, affastellò originali e falsi di quelle annotazioni in un unico malloppo di carte dove solo l’ostinazione del pm Musarò riuscì a scovarli, a notarne la “diversità”, e dunque a farli “parlare”. Né le omissioni dell’indagine di Sabatino si fermarono qui. A quella che, al momento, è per altro la sola contestazione formale che gli è mossa da Musarò. Per ordine dello stesso colonnello Sabatino, infatti, il capitano Testarmata (all’epoca in forza al Nucleo Investigativo e anche lui indagato per favoreggiamento), tra le carte da consegnare alla Procura, non acquisì in originale il registro “sbianchettato” del fotosegnalamento di Stefano la notte dell’arresto nella caserma Casilina (fu prodotta soltanto una fotocopia da cui il bianchetto non appariva). Né tantomeno raccolse lo scambio di mail con cui erano documentate le pressioni e le indicazioni dell’allora comandante del Gruppo Carabinieri (il colonnello Alessandro Casarsa) perché appunto le relazioni dei due piantoni della caserma di Torsapienza fossero manipolate. Il colonnello Sabatino, per quanto è stato possibile ricostruire, si è difeso durante l’interrogatorio scegliendo di indossare i panni dello sprovveduto. Ha provato infatti a scaricare la responsabilità della mancata segnalazione alla Procura delle “doppie annotazioni” prima sul povero capitano Testarmata, quindi sull’allora comandante del Nucleo Investigativo. A quanto pare senza riscuotere grande successo.
Cucchi, il registro "sbianchettato" che nessuno pensò di guardare in controluce. Processo bis. La testimonianza del maggiore Grimaldi: «L’originale non venne sequestrato, solo fotocopiato», scrive Eleonora Martini su Il Manifesto il 15.02.2019. La conferma che il nome di Stefano Cucchi venne «sbianchettato», e sostituito con un altro, dal registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, arriva dal processo bis che si celebra davanti alla I Corte d’Assise, a Roma, diventato ormai uno spaccato sul modus operandi dell’Arma dei carabinieri grazie all’attività investigativa sui tentativi di insabbiamento e depistaggio coordinata dal pm Giovanni Musarò. La riprova è arrivata dal maggiore Pantaleone Grimaldi, che di quella caserma fu comandante dal 2014 al 2016, nell’udienza di ieri, nella quale hanno testimoniato anche alcuni frequentatori della palestra dove Cucchi si allenava «regolarmente, con costanza, passione e grande intensità» malgrado fosse «magro e di bassa statura», e un agente di polizia penitenziaria che vide Stefano in una cella del tribunale, in attesa di comparire davanti al Gip, «con il volto tumefatto ed evidenti segni marrone scuro attorno agli occhi». Grimaldi ha ricordato di essere stato contattato nel novembre 2015 dall’allora Comandante del Nucleo operativo, colonnello Lorenzo Sabatino, che lo avvisava dell’imminente visita del capitano Tiziano Testarmata (ora indagato per favoreggiamento) volta ad acquisire i documenti contenuti nel fascicolo Cucchi, chiuso a chiave in un armadio della caserma. Fu Testarmata ad accorgersi dello sbianchettamento di tutti i campi relativi ad un fotosegnalamento avvenuto nello stesso giorno in cui venne arrestato Cucchi. «Questo modo di correggere un eventuale errore è vietato e comporta un procedimento disciplinare – riferisce Grimaldi – per questo suggerii a Testarmata di sequestrare il registro e acquisirne l’originale, invece delle fotocopie. Ma lui si allontanò per consultarsi con qualcuno e poi non accolse il mio invito». Davanti agli inquirenti che lo interrogarono, Grimaldi aveva riferito di essersi arrabbiato con Testarmata, ma ieri ha rettificato: «Mi fidavo completamente di lui, credevo lo avrebbe fatto in un secondo momento». Ma il pm Musarò, che è riuscito ad acquisire il documento originale senza aver mai ottenuto il nome di chi fece materialmente il fotosegnalamento di Cucchi e neppure dell’uomo arrestato il cui nome (straniero) è sovrapposto a quello di Stefano, lo incalza: «Quando in procura abbiamo visto quel foglio, abbiamo fatto la prima cosa che tutti farebbero: guardare in controluce attraverso lo sbianchettamento. Cosa che non si poteva fare con la fotocopia. Ed è apparso subito, evidente, il nome di Stefano Cucchi. Lei, o il capitano Testarmata, non avete pensato a fare subito questa verifica?». «No», è la risposta del maggiore Grimaldi. Elementare, Watson!
Caso Cucchi, un generale indagato per aver manipolato alcune relazioni. Si tratterebbe di note redatte da alcuni carabinieri sulle condizioni di salute del giovane morto dieci anni fa, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Anche un generale finisce nel mirino degli inquirenti nel caso Cucchi. Alessandro Casarsa, capo dei corazzieri al Quirinale fino a un mese fa, risulta indagato per falso in atto pubblico. Si tratterebbe di manipolazioni di relazioni di servizio sulle condizioni di salute del giovane romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Secondo il racconto del "Corriere della Sera" Casarsa, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, ha sostenuto di essere estraneo a qualsiasi manovra per ostacolare le indagini sulla verità, sia durante gli eventi sia dopo. Il generale è stato chiamato a rispondere sulle annotazioni riguardanti le condizioni di salute di Cucchi preparata dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. Tali relazioni erano state modificate, secondo il racconto del comandante Massimiliano Colombo Labriola, dopo l'intervento del maggiore Luciano Soligo che le aveva giudicate "troppo particolareggiate" e con particolari "medico-legali che non competevano ai carabinieri". La telefonata e le modifiche via mail - A Colicchio e Di Sano, dopo la morte di Cucchi, fu chiesto di raccontare quello che era accaduto la notte dell'arresto. Secondo quanto riferisce Colombo Labriola, già inquisito per questo episodio, il maggiore, al telefono con un superiore che chiamava "signor colonnello", inviò via posta elettronica le annotazioni al tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo dell'ufficio comando del Gruppo Roma, che le rimandò indietro dopo averle modificate con la postilla "meglio così". Non c'erano più i riferimenti a "forti dolori al capo e giramenti di testa", ai tremori e dolori al costato di cui Cucchi si lamentava. Di Sano firmò la relazioni dopo le modifiche, Colicchio no. Davanti ai pm, Cavallo avrebbe dichiarato di non ricordare quelle modifiche, aggiungendo che in ogni caso tutto era stato concordato con il comando del Gruppo Roma, legato a doppio filo con i comandanti di compagnia, senza quindi dover passare da lui. E avrebbe anche detto che del caso, visto il suo clamore, si era occupato anche il suo diretto superiore, Casarsa appunto. Ma il generale nega tutto - In seguito a tali elementi nel registro degli indagati è comparso anche il nome del generale. Da parte sua però l'alto ufficiale, oltre a negare ogni addebito, avrebbe detto di aver invitato tutti i carabinieri che avevano gestito il caso Cucchi a presentare ricostruzioni precise e dettagliate.
Un nuovo indagato per il caso Cucchi: è il generale Casarsa. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale, scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. C’è un generale tra gli indagati del caso Cucchi. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a qualche settimana fa comandante dei Corazzieri. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musaró, che coordinano l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano per cui sono già a processo 5 carabinieri, accusano l’alto ufficiale di falso. E l’indagine fa un salto di passo, scalando piano piano, la gerarchia dell’Arma romana dell’epoca. La vicenda è quella delle annotazioni di servizio modificate dalle quali vennero fatti sparire una serie di dettagli rispetto alle condizioni di salute di Stefano la notte del suo arresto. Una storia per la quale nei mesi scorsi erano già finiti iscritti i diretti sottoposti di Casarsa, il comandante della compagnia Montesacro e il suo vice. Casarsa nei giorni scorsi è stato interrogato e ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle modifiche delle annotazioni, ma i pm hanno il sospetto che a coordinare l’operazione sia stato lui.
Caso Cucchi, carabiniere in aula: "Nota di servizio cambiata su dettatura di Mandolini". Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo che scrisse i verbali con l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto, scrive l'8 febbraio 2019 La Repubblica. Ancora il tema delle annotazioni di servizio 'sostituite' è stato al centro dell'udienza di oggi del processo che vede cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo dei carabinieri Davide Antonio Speranza, firmatario di due annotazioni di servizioche contengono l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto. Già un problema si ha nell'indicazione del giorno della redazione: la prima annotazione datata 16 ottobre 2009, in realtà fu "redatta dopo la morte di Cucchi, mentre la datai qualche giorno prima perché pensai si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio"; la seconda datata 27 ottobre 2009 "dettata dal maresciallo Mandolini", uno degli imputati di calunnia e falso. Una circostanza, quella dell'annotazione sotto dettatura, già raccontata da Speranza ai pm che lo sentirono come persona informata sui fatti il 18 dicembre scorso. "Quando Mandolini lesse la nota disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla - ha detto Speranza - perché avremmo dovuto redigere una seconda annotazione in sostituzione. Io quella nota non la feci sparire, anche perché già protocollata. Il contenuto fu dettato da Mandolini, alla presenza di Nicolardi (altro imputato di calunnia. Ndr)". Importante il contenuto delle due annotazioni, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di Cucchi quella notte. Nella prima annotazione, infatti, si legge che "alle 5.25 la nostra Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla caserma della Stazione di Tor Sapienza in quando il sig. Cucchi era in stato di escandescenza"; nella seconda si legge che "è doveroso rappresentare che durante l'accompagnamento, il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito". Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al Pm Barba (rappresentante dell'accusa nel primo processo) né in Corte d'assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu "perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su". Prima del maresciallo Speranza c'è stata la conclusione dell'esame del dirigente della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, il quale ha continuato a parlare del contenuto di una serie di intercettazioni effettuate per la nuova inchiesta sui depistaggi che ci sarebbero stati - secondo l'impostazione accusatoria - nella compilazione degli atti. Nel corso dell'udienza Carlo Masciocchi, professore ordinario di radiologia dell'Università dell'Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica ha ribadito che sul corpo di Stefano Cucchi "sicuramente c'erano due fratture vertebrali" a livello lombo-sacrale, entrambe "recenti" e "contemporanee". Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell'avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell'odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant'è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò.
Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite». Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni», scrive Eleonora Martini l'8 febbraio 2019 su Il Manifesto. Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».
Morte Cucchi, il generale Nistri: "Verificheremo frasi su spirito di corpo". E il legale della famiglia: "Manomesse le radiografie". Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L'avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia, scrive Giuseppe Scarpa il 22 gennaio 2019 su "la Repubblica". "Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall'autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come 'spirito di corpo'. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare". Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d'armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: "Non ho mai parlato di mele marce ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato". Intanto l'appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: "Non ho nulla da dire". Le novità dell'indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell'Arma in merito alla vicenda Cucchi. "Bisogna avere spirito di corpo, se c'è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare" avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l'arresto. L'autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il fotosegnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell'intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l'autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c'è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state "manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi". In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L'analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni.
Cucchi, il carabiniere: “Il maresciallo Mandolini mi dettò la nota di servizio dicendo che la mia non andava bene”. C'è anche la storia dei documenti che sarebbero modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento sbianchettato: i militari se ne accorsero già nel 2015. La notte in cui il geometra passò alla caserma Casilina - dove per l'accusa fu pestato - in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 21 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Due annotazioni di servizio: in una c’era scritto che “Stefano Cucchi era in stato di escandescenza”. Nell’altra, che “durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. La prima per il maresciallo Roberto Mandolini “non andava bene”: chiese di scrivere la seconda. Anzi: ne dettò il contenuto al maresciallo Davide Antonio Speranza. C’è anche la storia dei documenti modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento cancellato col bianchetto: già nel 2015 i militari si accorsero che qualcosa in quel documento non andava. La notte in cui Cucchi passò alla caserma Casilina – dove per l’accusa è stato pestato – in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic. Un’anomalia evidente ma nessuno fece nulla. Adesso, però, quei documenti e i verbali dei testimoni sono stati depositati dal pm Giovanni Musarò agli atti del procedimento a cinque carabinieri: sono Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale, e poi Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, che rispondono di calunnia e falso.
La prima annotazione: “Cucchi in escandescenza” – Parallelamente al processo, la procura continua a indagare sui depistaggi che vennero messi in atto per coprire le prove sul pestaggio di Cucchi. La storia della doppia nota di servizio s’inquadra in questo scenario. A raccontarla è il maresciallo Antonio Speranza, che nel 2009 lavorava alla stazione del carabinieri del Quadraro. “Fui contattato telefonicamente dal maresciallo Mandolini, il quale fece riferimento alla morte di Stefano Cucchi (disse: “Hai sentito il telegiornale?”) e mi comunicò che avrei dovuto redigere un’annotazione. Allora io redassi l’annotazione che mi esibite, nella quale scrissi che Cucchi era in stato di escandescenza perché interpretai in tal modo quanto mi aveva riferito Vincenzo Nicolardi, il quale la notte del 16.10.2009 (cioè quando venne arrestato Cucchi ndr) era in contatto con la Centrale Operativa”, ha detto il militare, sentito dal pm il 18 dicembre scorso come persona informata.
La seconda annotazione: “Dettata Mandolini” – Solo che quella ricostruzione dei fatti venne bocciata: “Mandolini – continua Speranza – quando lesse la nota di servizio disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. Il contenuto di tale annotazione fu dettato da Mandolini e lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi, quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Dieci anni dopo la morte di Cucchi il militare ammette l’errore: “Ripensandoci a posteriori all’epoca peccai di ingenuità, perché mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e avevano più esperienza di me”. La scritta “Bravi”. “Non so perché. Cucchi era morto” – Tra gli atti depositati dalla procura c’è il verbale dell’intervento alla stazione Appia dei militari per trasferire Cucchi a Tor Sapienza: in fondo, nello spazio riservato alle note dei superiori, compare la scritta a mano Bravi! Il maresciallo Sapienza nella sua deposizione ha commentato: “Non so dirvi per quale ragione, nella parte dell’ordine di servizio dedicata alle annotazioni dei superiori è scritto ‘Bravi‘, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine e che nel momento in cui l’ordine di servizio fu redatto Cucchi era già morto”.
Il registro: “Era una prova. Presero solo una copia” – Ma non solo. Perché i pm hanno ricostruito anche come già nel 2015 gli stessi carabinieri si fossero accorti di un’anomalia nel registro del fotosegnalamento della Casilina. Per il carabiniere Tedesco, infatti, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati D’Alessandro e Di Bernardo pestarono Cucchi. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, già tre anni fa la procura aveva inviato il capitano Tiziano Testarmata a prendere quel registro: si tratta di un ufficiale del nucleo investigativo, dunque esperto d’indagini. E infatti si accorge di quelle grossolane discrepanze in quel documento ufficiale. Ad attenderlo c’era il comandante Pantaleone Grimaldi, che all’epoca guidava la caserma. “Mi fece presente che c’era qualcosa che non quadrava nel registro. Mi fece vedere che un nominativo era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Visionandolo, mi resi conto immediatamente dell’anomalia, era evidente che era stato cancellato il passaggio di qualcuno dal foto-segnalamento, fu per questo che invitai il capitano Testarmata a portare con sé il registro in originale e, a quel punto, anche tutta la documentazione, perché era palese quel registro dovesse essere analizzato con maggiore attenzione”, ha raccontato ai pm il militare il 21 novembre scorso, spiegando di avere insistito col collega. “Lo invitai ripetutamente a portare con sé l’originale. Fra l’altro, nell’occasione evidenziai al Testarmata, per convincerlo, che non poteva essere casuale il fatto che quella anomalia riguardava proprio il giorno che interessava a loro, cioè il giorno in cui Stefano Cucchi poteva essere stato foto-segnalato”. Si accorse dell’anomalia anche il capitano Carmelo Beringhelli che aiutò i colleghi del nucleo operativo nell’esame dei documenti: “Il capitano Testarmata, oltre ad essere un mio superiore, era certamente più esperto di me. Nonostante ciò, mi permisi di dirgli che quel registro doveva essere sequestrato perché mi sembrava chiaro che poteva essere la prova di quello che stavano cercando, cioè il passaggio di Cucchi dai locali della compagnia Casilina per il fotosegnalamento”.
Il fotosegnalamento rimase nascosto – Testarmata, però, era titubante. “Ascoltando le mie obiezioni, il capitano si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale, cosa che a me non fece piacere perché compresi che non stava facendo un accertamento corretto”. Ovviamente dalle copie non si può notare l’anomalia che compare sotto al nome di Zoran Misic: in controluce è evidente il bianchetto usato per coprire un altro nome. Ma perché Grimaldi non fece cenno di quel particolare nella lettera di trasmissione degli atti? “Davo per scontato che Testarmata ne avrebbe comunque dato atto in un’annotazione in cui avrebbe dato conto dell’attività compiuta. Pensandoci ora, a posteriori, mi rendo conto di aver ragionato in modo notarile, ma visto che c’era un capitano del Nucleo Investigativo che era stato delegato a compiere accertamenti anche su quel registro io diedi per scontato che tutte le criticità che erano state rilevate le avrebbe attestate lui in un atto a sua firma”. Così non è stato. Perché nel caso Cucchi c’è sempre qualcuno che agisce con ingenuità, in modo notarile, senza riflettere. E pensandoci bene solo anni e anni dopo. Andò così anche per il fotosegnalamento di Cucchi: è rimasto nascosto per anni. Insieme al suo passaggio nella stanza in cui, con tutta probabilità, venne pestato. Morì sei giorni dopo che un bianchetto eliminò ogni traccia del suo nome.
Stefano Cucchi, il carabiniere al collega testimone: “Ha detto il comandante che dobbiamo aiutare i colleghi in difficoltà”, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Gennaio 2019. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”. Questo avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica tra i due carabinieri è stata intercettata il 6 novembre scorso e la trascrizione è contenuta in una nota della squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo Cucchi. Nell’intercettazione presente nella nota della Squadra mobile di Roma si fa riferimento a due telefonate intercorse il 6 novembre tra il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, entrambi in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli. Grimaldi, nel 2009 in servizio presso la stazione Casilina, verrà sentito come testimone dal pm il 21 novembre. Nell’intercettazione Iorio riferisce al collega quanto dettogli dal colonnello Pascale: “Mi raccomando dite al Maresciallo che ha fatto servizio alla Stazione – afferma nella intercettazione Iorio riportando al maresciallo Grimaldi le parole del colonnello- lì dove è successo il fatto di Cucchi…di stare calmo e tranquillo…mi stanno rompendo, loro e Cucchi“. E ancora Iorio riferisce al collega le parole del comandante: “Mi raccomando deve avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”.
«Sul caso Cucchi ha fatto il suo dovere e ora la sta pagando». Parla la legale del carabiniere Riccardo Casamassima, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Sono un avvocato penalista. E sono orgoglioso di esserlo. Ho sempre svolto la professione forense senza mai chinare il capo, consapevole che davanti alla legge siamo tutti uguali». L’avvocato romano Serena Gasperini assiste l’appuntato Riccardo Casamassima nella sua personale “battaglia” contro il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. Casamassima è il teste chiave del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma. La sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta che, inizialmente, aveva visto sul banco degli imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che visitarono Cucchi dopo il suo arresto e gli agenti della polizia penitenziaria che lo tennero in custodia nelle celle del Tribunale di Roma il giorno del processo. Lo scorso maggio, a nove anni dai fatti, Casamassima ha raccontato davanti al pm Giovanni Musarò che Cucchi fu oggetto di un violento pestaggio all’interno della stazione carabinieri di Roma Casilina. E ha raccontato anche il successivo tentativo da parte dei colleghi di scaricare la responsabilità di quanto accaduto sugli agenti della polizia penitenziaria. Dopo le dichiarazioni di Casamassima la posizione dei cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e falso si è aggravata, coinvolgendo nell’inchiesta alcuni dei massimi vertici dell’Arma in servizio all’epoca a Roma. Per quest’ultimi l’accusa è di aver coperto i militari che avevano arrestato Cucchi, intralciando le indagini della magistratura. Depistaggi tutt’ora in corso, come emergerebbe da una telefonata intercettata il 6 novembre fra due carabinieri in servizio a Napoli, uno dei quali chiamato il mese successivo a deporre come teste. «Ci vuole spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare», gli avrebbe fatto sapere un suo superiore.
Avvocato, come mai la decisione di Casamassima di denunciare il comandante Nistri? Ricorda Davide contro Golia.
«Lo scorso 17 ottobre 2018, il ministro della difesa Elisabetta Trenta aveva incontrato il generale Nistri, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che l’assiste nel processo, al fine di confrontarsi su quanto era emerso fino a quel momento nel dibattimento. Al termine dell’incontro, Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo parlando con i giornalisti hanno riferito di uno “sproloquio” di Nistri nei confronti di Casamassima. Invece di concentrarsi su quanto era accaduto a Stefano Cucchi, il generale avrebbe detto che Casamassima era un delinquente, un bugiardo, uno spacciatore. Inoltre il generale aveva informato i presenti all’incontro che il mio assistito era anche indagato per reato di spaccio di stupefacenti, pur essendo all’epoca la notizia coperta dal segreto».
Crede che il generale Nistri volesse screditare Casamassima agli occhi del ministro Trenta?
«Mi pare evidente che le dichiarazioni di Nistri siano state alquanto scomposte».
Cosa avrebbe dovuto fare il generale?
«Se proprio non voleva chiedere scusa, forse doveva dirsi dispiaciuto per quanto accaduto. Invece è finito nel mirino Casamassima».
Dove presta servizio adesso?
«E’ stato trasferito, dopo venti anni di incarichi operativi, al cancello della Scuola allievi carabinieri di Roma. Apre e chiude la sbarra d’ingresso».
Non sembra un incarico di grande prestigio…
«Oltre ad essere stato demansionato, ogni giorno riceve una comunicazione di avvio di procedimento disciplinare».
Il motivo? Non apre bene il cancello?
«No, è accusato di raccontare su Facebook, senza autorizzazione, il trattamento di cui è oggetto da parte del Comando generale dell’Arma».
Pensa che l’Arma voglia congedarlo?
«Mi auguro di no. Casamassima ha fatto solo il suo dovere, raccontando la verità».
Il processo intanto prosegue. Ad ogni udienza emergono le coperture poste in essere dai vertici dell’epoca.
«La fortuna, se così possiamo dire, è di avere come pm il dottor Musarò. Un giovane magistrato coraggioso che non ha alcuna sudditanza psicologica nei confronti delle divise e che sta svolgendo il proprio ruolo con grande equilibrio».
Cosa crede che succederà?
«Mi auguro che la denuncia venga assegnata ad un magistrato come il dottor Musarò. Ho chiesto che tutti i presenti all’incontro di ottobre al Ministero, quindi anche Elisabetta Trenta, riferiscano su cosa disse Nistri».
· Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.
Omicidio Mollicone, la figlia del brigadiere querela per quell'accusa su suo padre. Le Iene il 13 dicembre 2019. Maria Tuzi ha querelato Carmelo Lavorino, il consulente della famiglia Mottola che ha gettato ombre sulla morte di Serena Mollicone. Dopo il terzo servizio di Veronica Ruggeri sull’omicidio ancora irrisolto della ragazza, la figlia chiede rispetto per il padre, morto in circostanze ancora da chiarire. Nuova guerra legale nell’inchiesta sull’omicidio di Serena Mollicone. La figlia del brigadiere Santino Tuzi ha querelato Carmelo Lavorino, il consulente criminologo della famiglia Mottola, accusata di avere responsabilità nella morte della ragazza avvenuta nel 2001. A distanza di 18 anni ancora non c’è il nome dell’assassino che ha ucciso Serena appena maggiorenne. Maria Tuzi ha querelato Lavorino dopo le sue dichiarazioni andate in onda domenica a Le Iene. A Veronica Ruggeri Lavorino ha detto: “È altamente inattendibile quello che Santino Tuzi ha detto". Il criminologo fa riferimento a quanto testimoniato dal brigadiere Tuzi, e cioè che Serena la mattina della sua scomparsa sarebbe passata dalla caserma di Arce, il paese in provincia di Frosinone in cui viveva. È il primo giugno del 2001, il brigadiere vede Serena entrare nella stazione dei carabinieri attorno alle 11.30, lui è in servizio come piantone fino alle 13.30. Agli inquirenti dirà di non averla mai più vista uscire almeno fino alla fine del suo turno. "Si è inventato quella balla per motivi psichici molto gravi”, sostiene Lavorino nel nostro servizio. Il brigadiere Tuzi è l’unico a testimoniare che l’omicidio di Serena sarebbe avvenuto in caserma gettando ombre sul comandante Franco Mottola e su suo figlio Marco, da molti indicato come lo spacciatore del paese. Anche Serena Mollicone sapeva di queste voci e aveva deciso di denunciarlo. Tuzi poche ore dopo la sua testimonianza è stato trovato morto in prossimità della diga di Arce. Il caso è stato chiuso come suicidio, ma sono in tanti a sollevare dubbi. Lavorino, che difende la famiglia del comandante Mottola, spiega l’omicidio di Serena come “tentativo di un’aggressione sessuale non riuscita”. E getta ombre su Tuzi, che in tutta questa vicenda è l’unica persona che non può più parlare: “Non gli è stato fatto l’esame del dna. Gli hanno chiesto se era disposto a fornire le impronte digitali. Lui acconsente ma poco dopo si spara”, sostiene Lavorino. “Ho chiesto la riesumazione di Tuzi per una nuova autopsia”. Per lui il colpevole sarebbe il brigadiere, tanto da ipotizzare così le ultime azioni di Serena: “Lei doveva andare dal dentista, lui le ha dato un passaggio”. Poi l’avrebbe uccisa, sempre secondo l'ipotesi del criminologo, per problemi psichiatrici. Dopo queste parole, la figlia di Tuzi ha deciso di querelare Lavorino: “Non temiamo alcun confronto dattiloscopico, perché non temiamo la verità. Santino ha volontariamente dato campioni di dna e le impronte digitali. Non solo, dopo la morte le sue impronte digitali sono state confrontate con quelle trovate sulla pistola d’ordinanza, quindi l’autorità giudiziaria ne dispone già dal 2008”, spiega Maria Tuzi. Che aggiunge: “Abbiamo chiesto e chiediamo un silenzio rispettoso perché con Guglielmo Mollicone in gravi condizioni, non riusciamo a capire la necessità di discutibili spettacoli mediatici”. Da due settimane il papà di Serena è ricoverato in ospedale dopo un grave malore (clicca qui per l’articolo). “Non accusiamo nessuno. Vogliamo rispetto per Santino [Tuzi, ndr.], per una famiglia che passerà un altro Natale senza la sua presenza”.
Omicidio Mollicone: quella porta nascosta e tutti i misteri della caserma. Le Iene il 9 dicembre 2019. Tra gli indagati per l’omicidio di Serena Mollicone figura Marco Mottola, figlio dell’allora comandante dei carabinieri e amico della ragazza uccisa nel 2001, appena maggiorenne, ad Arce (Frosinone). Veronica Ruggeri lo ha raggiunto per chiedergli dei misteri irrisolti da 18 anni. Mentre la famiglia Mottola indica come possibile assassino il brigadiere Tuzi, trovato morto a poche ore da una sua clamorosa testimonianza in procura: “La ragazza è stata uccisa in caserma”. È indagato per l’omicidio di Serena Mollicone, un mistero irrisolto da 18 anni. Marco Mottola, 37 anni, è sospettato di essere l’assassino della ragazza uccisa nel 2001. Veronica Ruggeri l’ha raggiunto per raccogliere la sua testimonianza. La ragazza è stata uccisa, appena maggiorenne, nel 2001. Dopo 18 anni non c’è ancora il nome dell’assassino. Marco Mottola non ha mai detto una parola su Serena e neanche suo padre, Franco, che ai tempi era il comandante della stazione dei carabinieri ed è indagato anche lui per l’omicidio che sarebbe avvenuto nella caserma di Arce, in provincia di Frosinone. La mattina della scomparsa Serena sarebbe andata alla stazione dei carabinieri per denunciare proprio Marco, indicato da molti come lo spacciatore del paese. “Picchiano Serena, cade e si fa male. Anziché aiutarla continuano a darle botte”, sostiene il papà di Serena (clicca qui per il primo servizio dell’inchiesta di Veronica Ruggeri). Come Guglielmo Mollicone, anche il brigadiere Santino Tuzi ha accusato i Mottola per l’omicidio della figlia. Il brigadiere ai tempi lavorava in quella caserma. Tuzi è stato il primo a dichiarare in procura di aver visto Serena all’interno della stazione dei carabinieri il giorno della sua scomparsa e di non averla vista più uscire. Pochi giorni dopo la sua testimonianza è stato trovato morto vicino alla diga di Arce (clicca qui per il secondo servizio della nostra inchiesta). “Mio padre è stato minacciato per non fargli confermare le dichiarazioni fatte in procura“, sostiene la figlia Maria Tuzi. Oltre a questa testimonianza, ci sarebbe anche una porta che confermerebbe la presenza di Serena in caserma. Sul pannello che la riveste c’è un buco che potrebbe essere stato aperto dalla testa della povera ragazza, come sostengono i consulenti della procura. Solo nel 2016 i Ris entrano nel locale dove sarebbe avvenuto l’omicidio di Serena. Si trova al primo piano della caserma, al terzo abitano i Mottola e proprio loro lo utilizzavano come ripostiglio. I Ris riesumano anche la salma di Serena per una nuova autopsia. “A far perdere conoscenza a Serena è stato un urto su una superficie piana e ampia come una parete, un pavimento oppure una porta”, è il responso di quelle analisi dopo 16 anni. Serena era alta 1.55 metri. Il buco sulla porta è stato misurato a 1.54 metri. “Nei capelli di Serena c’erano frammenti di quella porta”, sostiene il padre. Questo elemento si aggiunge alla testimonianza di Tuzi, il brigadiere che aveva testimoniato di aver visto Serena in caserma. Era stato informato, ha detto ai pm, del suo arrivo da un componente della famiglia Mottola. Il comandante della stazione inizialmente aveva detto di aver dato un pugno alla porta dopo una lite con il figlio Marco. Gli inquirenti hanno stabilito che quella porta è stata nascosta per anni nella casa dell’appuntato Francesco Suprano, anche lui indagato. “Ha spiegato agli inquirenti di averlo fatto per evitare che la spesa della rottura della porta fosse addebitata a lui”, dice Carmelo Lavorino, criminologo che difende la famiglia Mottola. Gli inquirenti oggi sospettano che l’avrebbe nascosta perché distruggerla avrebbe alimentato sospetti sulla caserma. Dopo i nostri primi servizi in redazione è arrivata un’email firmata dal direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl di Frosinone. Ci racconta che dopo l’omicidio, tra i tossicodipendenti del Sert si parlava molto di Serena. “Dicevano che la figlia del maresciallo l’aveva uccisa in caserma perché lei voleva sputtanarlo. Erano a conoscenza del delitto avvenuto per motivi di droga”, ci dice. Sostiene di averlo detto alle forze dell’ordine, ma l’elemento sarebbe stato ignorato. “Ci troviamo davanti a un tentativo di aggressione sessuale non riuscita”, sostiene Lavorino, difensore dei Mottola. E sulla testimonianza del brigadiere Tuzi ha il suo punto di vista: “Ha mentito ed è altamente inattendibile quello che lui ha detto. Si è inventato quella balla per motivi psichici molto gravi”, dice. Sostiene di conoscere anche il nome di quello che lui sospetta essere l’assassino, non ne rivela il nome ma aggiunge: “Non gli è stato fatto l’esame del dna”. I consulenti di Mottola vogliono chiedere una seconda autopsia di Tuzi perché sono convinti sia lui il colpevole. Secondo la loro ricostruzione, Tuzi avrebbe incontrato Serena Mollicone per strada. Le avrebbe dato un passaggio per portarla dal dentista, poi l’avrebbe uccisa. Nella famiglia Mottola c’è una persona totalmente estranea ai fatti: la figlia Anna. A lei si rivolge l’appello di Guglielmo: “Perché non parla? Che dicesse che cosa ha sentito in quei giorni nella sua famiglia”. Anche noi abbiamo incontrato Anna: “Siamo una famiglia stanca, abbiamo bisogno di pace e presto verrà fuori la verità. Chi ha ucciso Serena è ancora libero da qualche parte, ma non è nella mia famiglia”. Il prossimo 15 gennaio 2020 ci sarà l’udienza preliminare per il processo Mottola.
Omicidio Mollicone: Serena è morta in caserma? Il giallo del carabiniere. Le Iene il 2 dicembre 2019. Il brigadiere Santino Tuzi ha testimoniato di aver visto per l’ultima volta in vita Serena Mollicone all’interno della caserma di Arce. Dopo qualche giorno è stato trovato morto. Veronica Ruggeri incontra la figlia e insieme ricostruiscono quelle ore drammatiche. “Mio padre è stato l’unico a dire in procura che ha visto Serena Mollicone entrare in caserma”. Dopo il primo servizio di Veronica Ruggeri sul mistero di Arce (clicca qui per vederlo), a Le Iene parla la figlia di Santino Tuzzi, un brigadiere della caserma in provincia di Frosinone. L’uomo è un testimone chiave nell’inchiesta sull’omicidio della ragazza trovata morta nel 2001 appena maggiorenne e per cui dopo 18 anni ancora non c’è il nome del colpevole.
Tuzzi si era liberato di un segreto che teneva dentro da anni. Serena, secondo il suo racconto, prima di morire era entrata nella caserma di Arce. Era l’8 aprile 2008, con le sue parole aveva gettato un’ombra su tutti i suoi colleghi carabinieri. Aveva confermato i dubbi di Guglielmo, il papà di Serena che proprio in questi giorni è ricoverato in gravi condizioni per un malore improvviso. “Io credo che la morte di Serena sia avvenuta nella caserma di Arce”, ci aveva detto il padre. Santino Tuzzi non è riuscito a chiarire tutti gli aspetti della vicenda perché è stato trovato morto poco dopo la sua testimonianza in procura. Si sarebbe sparato allo stomaco con un colpo alla pancia, in auto vicino alla diga di Arce. Da subito si è parlato di suicidio. “Mi hanno sempre indicato come la figlia del carabiniere che è stato ammazzato”, dice Maria Tuzi. La morte di suo padre e quella di Serena Mollicone anche per la procura sarebbero collegate. Nel registro degli indagati sono stati iscritti: l’ex comandante della stazione Franco Mottola, il maresciallo che potrebbe essere coinvolto nell’omicidio, Francesco Suprano, appuntato scelto molto amico di Tuzi, che secondo gli inquirenti era in caserma quando Serena è morta. E infine Vincenzo Quatrale per lui potrebbe essere chiesto il rinvio a giudizio per aver istigato Tuzi a suicidarsi. “Dopo 7 anni dalla morte di Serena, mio padre fa delle dichiarazioni importanti”, ricorda la figlia. Secondo quanto testimoniato dal brigadiere, Serena sarebbe entrata in caserma attorno alle 11.30. Tuzi rimane in servizio per le 3 ore successive senza mai vederla uscire. Secondo Guglielmo Mollicone, Serena è arrivata in caserma in auto con Marco Mottola, il figlio del comandante. Lei voleva denunciarlo perché era coinvolto nello spaccio di droga nella zona. “Mio padre aveva paura per noi che eravamo piccoli. Si è trovato da solo a dover dire la verità”, spiega la figlia. Tutti i colleghi hanno negato che Serena fosse stata in caserma il giorno della sua morte, tutti tranne lui. La procura fissa un incontro per il 14 aprile 2008, avrebbe dovuto fare un confronto con il maresciallo Mottola. Ma tre giorni prima viene trovato morto. “Nella sua ultima giornata in vita mio padre aveva comprato una nuova scheda telefonica, forse perché temeva di essere intercettato su quella vecchia”, spiega la figlia. Dopo qualche ora viene trovato morto alla diga del paese. Era in auto con le portiere aperte e con sé aveva la pistola d’ordinanza. “Il comandante venne a casa nostra a dirci che si era ucciso perché l’amante non voleva più saperne di lui”, sostiene Maria. Una versione che fa sorgere dubbi per molti. “Nella pistola mancavano due colpi e lui ne aveva usato solo uno. E c’era solo l’impronta del pollice sinistro, quando invece lui usava la mano destra”, racconta la figlia. “Mio padre è stato mandato in quel posto con l’inganno per minacciarlo”. Veronica Ruggeri è andata dalla donna indicata come l’amante. Il brigadiere era stato con questa donna, Rita, per 12 anni. “Non si sarebbe mai suicidato per me”, dice. Rita riceve una serie di regali il giorno della morte del brigadiere. “Qualcuno mi ha lasciato sullo zerbino un mazzo di fiori e delle sigarette, ma non so chi li abbia portati”, racconta. Si confida con la vicina di casa che a noi però dà un’altra versione di quello che sarebbe successo: “Non ho mai visto nulla di tutto ciò. Si è messa d’accordo con qualcuno per farlo uscire fuori. Penso che l’hanno minacciata e l’hanno pagata”. Il racconto di Rita si arricchisce di un dettaglio: “Dopo qualche ora Santino è tornato da me, mi ha chiesto se volevo tornare con lui”. Anche questo particolare viene smentito dalla vicina di casa: “Che bugiarda, Santino non avrebbe mai lasciato la moglie”. Rita sostiene anche di aver ricevuto una chiamata da Santino proprio negli istanti prima della sua morte: “Mi ha chiesto se tornavo con lui. Mi ha detto addio e ho sentito il colpo. Lui si è suicidato”. La vicina dà un altro dettaglio: “Si è comprata la macchina nuova con i soldi che le hanno pagato per stare zitta”. Non ci sono prove che Rita dica il vero o il falso, ma le sue testimonianze hanno fatto perdere molto tempo agli inquirenti. Oggi le indagini sono state riaperte perché la procura pensa che Tuzzi abbia ricevuto pressioni tali da spararsi. Anche il suo amico Marco la pensa così tanto che il giorno della tragedia lo ha urlato ai telegiornali: “I Mottola l’hanno mandato a fare in culo. L’hanno spedito a casa del diavolo, i due assassini. Che poi la sera del funerale, il telefonino a casa di Mollicone lo aveva portato Mottola, il maresciallo”. Sul luogo del ritrovamento del cadavere di Serena mancava infatti all’appello proprio il suo cellulare. Dopo quelle dichiarazioni, l’amico di Tuzi non ha più parlato né ha testimoniato in procura. Siamo andati da lui per cercare di farlo parlare dopo anni. “Il compare non ha mai portato la pistola fuori dalla caserma. Guarda caso il giorno della sua morte non stava in servizio, è passato in caserma a prenderla”, sostiene Marco. “Dentro mancano due colpi. L’altro dove sta? Se esce il nome di Mottola, cadono minimo un paio di colonnelli e un generale. Quando ci sono i pezzi grossi sotto non si risolve mai, ecco perché non lo mettono dentro”. Secondo lui ad Arce c’è un’altra persona che sa tutto ma non parla: Francesco Suprano, appuntato scelto della caserma: “Secondo me Santino si è confidato troppo con lui”.
Omicidio Serena Mollicone, il papà ricoverato in ospedale: è grave. Le Iene il 27 novembre 2019. Guglielmo Mollicone è in gravi condizioni all’ospedale di Frosinone. Lotta tra la vita e la morte il papà di Serena, la ragazza uccisa 18 anni fa ad Arce. Un mistero rimasto ancora irrisolto come ci ha raccontato Veronica Ruggeri. È ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Spaziani di Frosinone. Il papà di Serena Mollicone lotta tra la vita e la morte. Abbiamo conosciuto Guglielmo nel servizio di Veronica Ruggeri, che vi riproponiamo qui sopra. Questa mattina è stato colto da infarto mentre era nella sua abitazione ad Arce in provincia di Frosinone. Noi de Le Iene siamo vicini a Guglielmo in questa sua battaglia e in quella sulla ricerca della verità per la morte della figlia. Ancora dopo 18 anni, il “delitto di Arce” non ha un responsabile. Nel servizio qui sopra, Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. A raccontarci chi era Serena e che cosa è successo il giorno della sua scomparsa è proprio Guglielmo che ci ha aperto le porte della sua casa, dove stamattina si è sentito male. Il mistero di Arce inizia il primo giugno del 2001, quando Serena scompare. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. In quel periodo frequentava il figlio dell’allora comandante della caserma dei carabinieri, Marco Mottola. In paese tutti sostenevano che fosse legato allo spaccio di droga. Una situazione a cui Serena voleva mettere fine. “Gli ha detto che l’avrebbe denunciato”, sostiene papà Guglielmo. Dopo giorni di ricerche la ragazza appena 18enne viene trovata morta a 600 metri dal bar dove sembra sia stata vista. La scena è orribile, la ragazza è abbandonata senza vita in mezzo ai rifiuti. Ha mani e piedi legati e un sacchetto sulla testa. Dall’autopsia emerge che ha subìto un forte colpo alla testa. Nei primi momenti le indagini per risalire all’assassino si concentrano su Guglielmo. Dopo un calvario di mesi in cui lui era l’unico sospettato della morte della figlia, viene scagionato. Inizia a credere che quella mattina, dopo la lastra in ospedale Serena abbia incontrato il figlio del maresciallo come sostenuto in un primo momento da alcuni testimoni. Ma questa tesi non trova conferma nelle indagini che per un anno e mezzo brancolano nel buio. Nel 2003 arriva la svolta improvvisa: il primo presunto colpevole è Carmine Belli, il carrozziere del paese. In quegli anni era un personaggio chiacchierato. C’era chi diceva che pagasse le ragazze per fare sesso. “Non ho mai creduto che fosse l’assassino. Belli non ha né la forza né la capacità di depistare le indagini”, dice Guglielmo. Inizia il processo a carico del carrozziere, il comandante viene sentito, le sue risposte però sono ritenute “frammentarie e lacunose”, come emerge dalle carte. Dopo un anno e mezzo, Belli viene scarcerato perché non ritenuto responsabile dell’omicidio. Il giorno in cui viene scarcerato davanti a casa sua lo aspetta Santino Tuzi, un brigadiere della caserma di Arce che si è scusato con il carrozziere. Il significato di quel gesto si capirà 4 anni dopo. Il 9 aprile 2008 il brigadiere Tuzi dichiara che il giorno della scomparsa Serena era andata in caserma e da lì non è più uscita. Tre giorni dopo viene trovato morto nella sua macchina. Tutti hanno detto che si trattava di suicidio. Dopo anni di battaglie per la ricerca della verità, Guglielmo ha ottenuto di riaprire il processo. Il prossimo 15 gennaio è fissata l’udienza preliminare: l’ex comandante Franco Mottola assieme al figlio Marco e alla moglie Annamaria sono accusati di omicidio aggravato e occultamento di cadavere, l’appuntato scelto Francesco Suprano di favoreggiamento personale in omicidio volontario, e il luogotenente Vincenzo Quatrale di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di un collega brigadiere. Un momento che Guglielmo ha atteso da 18 anni, ora però la sua lotta non è più solo per la verità ma anche per la vita. Tutti noi de Le Iene gli mandiamo un grande abbraccio.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2019. Dopo 18 anni di dolore, inganni, aspettative deluse e amarezza, nelle ultime settimane aveva finalmente affiancato alla determinazione, che non gli è mai mancata nella ricerca della verità sull' omicidio di sua figlia Serena, un filo di ottimismo e speranza. La stessa a cui ora si aggrappano le persone a lui care e i tanti che ne hanno seguito la battaglia giudiziaria. Apprezzandone il coraggio, la dignità e l' amore che hanno mosso i suoi passi quando tutto sembrava perduto. Dalla scorsa notte Guglielmo Mollicone, 71 anni compiuti quattro giorni fa, è ricoverato in terapia intensiva all' ospedale Spaziani di Frosinone. Un infarto lo ha colpito nella sua abitazione di Arce, proprio ora che l' inizio del processo ai presunti assassini (l' udienza preliminare di metà novembre è slittata a gennaio) sembra avvicinare il momento tanto atteso: «Questa volta ci siamo davvero», diceva con lo sguardo fiero e commosso non più di tre settimane fa. Il quadro clinico è di estrema gravità. Operato d' urgenza per una angioplastica, Mollicone è intubato e privo di coscienza. Con un gesto di grande valore simbolico e umano, già in mattinata, appena avuta la notizia, sono andati a fargli visita il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Fabio Cagnazzo, e il procuratore capo di Cassino Luciano d' Emmanuele che si sono detti «profondamente addolorati». Sono loro che assieme al comandante della stazione di Arce, Gaetano Evangelista, hanno riaperto l' inchiesta sul delitto fino a portare all' imputazione del predecessore di Evangelista, Franco Mottola, di sua moglie Anna, del figlio Marco e di altri due carabinieri lì in servizio nel 2001. Proprio in caserma la 18enne sarebbe stata aggredita e tramortita e poi lasciata morire soffocata in un campo che ora porta il suo nome: Fonte Serena. Vedovo prima ancora di perdere Serena, l' altra figlia Consuelo da anni trasferita a Trieste, Guglielmo, oggi con la nuova compagna Miriam, ha trascorso ogni giorno da quello del delitto a inseguire la verità. Finendo addirittura tra i sospettati quando fu portato in caserma mentre si svolgeva il funerale; respingendo allusioni e menzogne sulla vita della figlia; maturando con crescente chiarezza la percezione di quanto avvenuto, prima ancora che perizie e indagini sostenessero la sua tesi: «Serena mi aveva detto di voler denunciare il figlio di Mottola per una storia di droga. Nella sua ingenuità e coraggio andò in caserma e finì in pasto ai leoni». Nella sua cartolibreria in piazza nel paesino della Ciociaria sua figlia è ovunque. La foto sulla porta d' ingresso come un manifesto politico, il nome ricamato all' uncinetto in una cornice, il volto che spunta nei libri a lei dedicati. Quando due anni fa il corpo fu riesumato per nuovi accertamenti, Guglielmo avvertiva una privazione quasi fisica: «Mi manca non poterle portare i fiori al cimitero». Ma un successo alla fine l' ha già ottenuto: l' Arma sarà parte civile nel processo come gli aveva anticipato il comandante generale Giovanni Nistri in un incontro privato avvenuto prima dell' estate per chiedergli scusa. «Sarò in aula con il piglio combattivo di sempre per avere giustizia e far sapere a tutti chi era Serena. Ora so di non essere più solo», ripeteva soddisfatto Guglielmo.
Serena Mollicone uccisa a 18 anni: chi c'è dietro il delitto di Arce? Le Iene il 23 novembre 2019. Una ragazza trovata morta appena 18enne con un sacchetto sopra la testa e le mani. Un padre che da 18 anni sostiene che l’assassino sia nella caserma dei carabinieri di Arce, in provincia di Frosinone. Chi ha ucciso Serena Mollicone? Da qui inizia l’inchiesta di Veronica Ruggeri. Domenica dalle 21.15 su Italia1. È soprannominato come il “delitto di Arce”. Il paese in provincia di Frosinone dove 18 anni fa è stata uccisa Serena Mollicone, appena 18enne. Dopo tutto questo tempo ancora l’assassino non ha un nome. Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. Qui sopra vi proponiamo un’anticipazione del servizio che andrà in onda domenica a Le Iene, dalle 21.15 su Italia1. L’omicidio è avvenuto ad Arce, un paese di pochi abitanti in cui c’è solo la chiesa, il bar in piazza e la caserma dei carabinieri. Un paese in cui non succede mai niente. È il primo giugno del 2001 quando Serena scompare. Era la figlia del maestro delle elementari che aveva anche una cartoleria in centro. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata di casa. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. Nessuno poteva immaginare che a ucciderla potrebbero essere stati quelli che dovevano proteggerla, cioè i carabinieri della caserma di Arce. “Noi andiamo lì per essere difesi non per essere ammazzati”, dice Guglielmo, il padre di Serena. Da 18 anni sostiene che la figlia sia stata uccisa nella stanza di quella caserma, ma nessuno l’ha mai ascoltato.
Omicidio Serena Mollicone:
innocenti in galera e ombra di depistaggi.
Le Iene il 25 novembre 2019. Chi ha ucciso Serena Mollicone? Da questa domanda
inizia l’inchiesta di Veronica Ruggeri e dal racconto del papà che dopo 18 anni
teme ci siano stati depistaggi dietro le indagini ed è convinto che la figlia
sia stata uccisa nella caserma dei carabinieri. È soprannominato come
il “delitto di Arce”, dal paese in provincia di Frosinone dove 18 anni fa è
stata uccisa Serena Mollicone, appena 18enne. Dopo tutto questo tempo
l’assassino non ha ancora un nome. Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia
partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. L’omicidio è avvenuto
ad Arce, un paese di pochi abitanti in cui c’è solo la chiesa, il bar in piazza
e la caserma dei carabinieri. È il primo giugno del 2001 quando Serena scompare.
Era la figlia del maestro delle elementari che aveva anche una cartoleria in
centro. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la
sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata
di casa. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la
peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e
i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. Nessuno poteva immaginare che a
ucciderla potrebbero essere stati quelli che dovevano proteggerla, cioè i
carabinieri della caserma di Arce. “Noi andiamo lì per essere difesi non per
essere ammazzati” dice Guglielmo, il padre di Serena. Da 18 anni sostiene che la
figlia sia stata uccisa nella stanza di quella caserma, ma nessuno l’ha mai
ascoltato. Finché i carabinieri in servizio quella notte finiscono indagati. Tra
loro c’è Franco Mottola che ai tempi era maresciallo, che sarebbe stato coperto
da Francesco Suprano, così come il collega Vincenzo Quatrale. Serena a 6 anni ha
perso la mamma per una malattia. Accanto a lei c’erano il papà e tanti amici,
“che purtroppo facevano uso di droga, ne ho visti morire 6 o 7 di overdose”,
dice Guglielmo. Gli spacciatori si rifornivano nel paese vicino, Mondragone:
“L’eroina faceva vittime ma nessuno controllava. La colpa era della caserma che
non funzionava”. In quegli anni era diretta dal maresciallo Franco Mottola: “In
quel periodo non ha mai controllato ad Arce per coprire il figlio Marco che
spacciava droga”. Lo sapeva anche Serena molto amica del ragazzo tanto che gli
diceva di smetterla altrimenti lo avrebbe denunciato. “In sua difesa è
intervenuto il maresciallo dicendole di lasciar perdere il figlio”, sostiene
Guglielmo. L’ultimo giorno di Serena era iniziato con una visita in ospedale per
la lastra ai denti, poi doveva stampare la tesina per l’esame di maturità e
infine andare dal dentista. Alle 8 di sera però non si presenta a casa. E il
papà inizia ad aver paura. “Alle 10 sono andato subito in caserma e stranamente
c’era all’ingresso il maresciallo in borghese”. Guglielmo presenta denuncia per
la scomparsa e una volta uscito inizia a cercarla ovunque. Ma c’è un’altra
stranezza: “Rientrando a casa mi trovo il maresciallo che mi chiede degli
oggetti di Serena diceva che gli servivano per le ricerche. Mi sono fidato e gli
ho dato il diario e altre cose”. In quelle ore si aggiunge la testimonianza di
una barista. Sostiene di aver visto Serena quella mattina in compagnia del
figlio del maresciallo, Marco Mottola avevano comprato un pacchetto di sigarette
e viaggiavano sulla sua Ypsilon 10 bianca. Poche ore dopo però “ritratta tutto e
dice di averla vista da sola e nel pomeriggio”, sostiene Guglielmo. Alla
testimonianza della barista si aggiunge quella di Carmine Belli, il carrozziere
della zona. “Ha detto di averla vista la mattina”, ma anche lui ritratta. Serena
viene trovata a 600 metri dal bar dove sembra sia stata vista. La scena è
orribile, la ragazza è abbandonata senza vita in mezzo ai rifiuti. Ha mani e
piedi legati e un sacchetto sulla testa. Nonostante la pioggia incessante delle
ore precedenti, il suo corpo è asciutto. Dall’autopsia emerge che ha subìto un
forte colpo alla testa. Nelle ore della veglia funebre succede un’altra
anomalia. “Il maresciallo mi ha chiesto di verificare se a casa ci fosse il
cellulare di Serena”, racconta Guglielmo. “Io ero in chiesa, così ho mandato mio
cognato”. L’uomo sostiene di aver guardato dappertutto, senza trovare nulla.
“Qualche ora dopo, quando sono rientrato l’ho trovato subito in uno dei suoi
cassetti che era stato controllato poco prima. Qualcuno lo deve aver messo
durante la mia assenza”. Un altro fatto strano succede durante il funerale di
Serena: “Mottola si presenta e mi porta in caserma per firmare il ritrovamento
del cellulare. Chiedo di poter tornare in chiesa, ma mi dicono di aspettare.
Stavano architettando un depistaggio perché tutta Arce ha assistito al mio
allontanamento”. Dopo un calvario di mesi in cui lui era l’unico sospettato
della morte della figlia, Guglielmo viene scagionato. Inizia a credere che
quella mattina, dopo la lastra in ospedale Serena abbia incontrato il figlio del
maresciallo come sostenuto in un primo momento dalla barista. “Di questa vicenda
non voglio più parlare”, dice. E anche in paese si preferisce non commentare.
Guglielmo continua a sostenere che nell’uccisione della figlia c’entri Marco
Mottola che è stato coperto dal papà maresciallo. Ma questa tesi non trova
conferma nelle indagini che per un anno e mezzo brancolano nel buio. Nel 2003
arriva la svolta improvvisa: il primo presunto colpevole è Carmine Belli, il
carrozziere del paese. “Gli trovano un bigliettino del nostro dentista e una
busta simile a quella ritrovata sulla testa di Serena, ma tutti possono averla”,
dice Guglielmo. In quegli anni Belli era un personaggio chiacchierato. C’era chi
diceva che pagasse le ragazze per fare sesso. “Non ho mai creduto che fosse
l’assassino. Belli non ha né la forza né la capacità di depistare le indagini”,
dice papà Guglielmo. Inizia il processo a carico del carrozziere, il comandante
viene sentito, le sue risposte però sono ritenute “frammentarie e lacunose”,
come emerge dalle carte. Dopo un anno e mezzo, Belli viene scarcerato perché non
ritenuto responsabile dell’omicidio. Ora è tornato a fare il carrozziere in
paese. Noi siamo andati da lui e ci racconta di quella giornata del 1 giugno
2001. “Io da stronzo o da buon cittadino sono andato in caserma e al maresciallo
Mottola ho dichiarato di aver visto la ragazza la mattina davanti al bar. Avevo
detto che mi sembrava portasse una maglietta rossa e dei pantaloni neri”,
racconta Belli a Le Iene. Un dettaglio che ha sempre fatto pensare fosse il
colpevole. Altrimenti come faceva a essere così preciso. A telecamere spente
glielo chiediamo. “Andate a domandarlo al maresciallo Mottola”, ci risponde. “Mi
hanno interrogato dalle 2 del pomeriggio alle 6 di mattina e ho pure preso
qualche schiaffone”, sostiene il carrozziere. “Gli serviva il più stronzo per
l’opinione pubblica. E così hanno preso me che non so parlare, non ho soldi per
difendermi”.
Il giorno in cui viene scarcerato davanti a casa sua lo aspetta Santino Tuzi, un
brigadiere della caserma di Arce. “Si avvicina mi chiede scusa e mi dà una pacca
sulla spalla, poi risale in auto”, racconta Belli. Il significato di quel gesto
si capirà 4 anni dopo. Il 9 aprile 2008 il brigadiere Tuzi dichiara che il
giorno della scomparsa Serena era andata in caserma e da lì non è più uscita.
Tre giorni dopo viene trovato morto nella sua macchina. Tutti hanno detto che si
trattava di suicidio.
Serena Mollicone, il papà: «Tanti depistaggi, ora verso la verità». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Guglielmo Mollicone parla dopo che l’Arma dei carabinieri ha deciso di costituirsi parte civile nel processo per la morte della figlia nel 2001. Nella cartolibreria di Guglielmo Mollicone, in piazza ad Arce, sua figlia Serena è una presenza viva più che un ricordo. La sua foto appare sulla porta d’ingresso quasi come un manifesto politico di questi anni di battaglia, il suo nome è ricamato all’uncinetto in una cornice di legno, il suo volto spunta tra astucci e diari nei libri a lei dedicati, nelle immagini che la ritraggono giovane e fiduciosa nei suoi 18 anni che non ha fatto in tempo a finire di vivere. Sotto una pioggia torrenziale il signor Guglielmo rientra da un incontro con il suo avvocato, a Cassino, per uno degli appuntamenti che hanno scandito gli altri diciott’anni passati dall’omicidio di sua figlia. Per il cui delitto l’Arma dei carabinieri si schiera ora al suo fianco, costituendosi parte civile nel processo che comincia la prossima settimana e vede imputati l’allora comandante della stazione del paesino del frusinate, Franco Mottola, sua moglie, suo figlio e altri due militari che erano alle sue dipendenze. Una rivoluzione copernicana, se pensiamo al punto di partenza: «Un mese fa circa ho incontrato di persona, su sua richiesta, il comandante generale Giovanni Nistri, che mi aveva anticipato questa scelta. Stava cambiando il governo e non la rendemmo pubblica. E apprezzo anche che non l’abbia voluta pubblicizzare. Mi ha chiesto scusa a nome dell’Arma e mi ha dato un’impressione di grande serietà. Mi sono sentito rincuorato, ho sempre pensato che poche mele marce non possono sporcare la divisa di tutti i carabinieri» .
Che cosa significa avere i vertici dei carabinieri schierati dalla sua parte?
«Che questa volta ci siamo davvero, che la verità è vicina».
Nell’omicidio di sua figlia lei è stato prima vittima per la perdita subita, poi indagato su prove rivelatesi false, infine inascoltato testimone quando denunciò la scomparsa di Serena nella caserma a poca distanza da casa vostra. Che cosa è cambiato da allora?
«È cambiata la volontà di indagare davvero e sono cambiati gli uomini incaricati di farlo. Il procuratore di Cassino e il maresciallo Gaetano Evangelista che ha preso il posto di Mottola e ha avviato indagini in prima persona, rischiato personalmente e la carriera perché toccare il caso di Serena Mollicone era come accendere una polveriera. E poi il comandante provinciale Cagnazzo, il maggiore Imbratta a Pontecorvo: ho avuto la fortuna di trovare tutte queste persone insieme che hanno sgomberato il campo da falsità e depistaggi portando a galla la verità».
Perché non fu ascoltato quando sollevò i sospetti messi oggi nero su bianco nella richiesta di processo?
«Perché ad Arce c’era un unico centro di potere fra carabinieri, amministrazione locale, chiesa. Pensi che il parroco di allora sosteneva l’idea dei riti satanici a cui avrebbe preso parte mia figlia. Mi rivolsi al capitano Luciano Soligo della caserma di Pontecorvo, gli raccontai come era andata secondo me: era una premonizione, perché non avevo tutte le prove raccolte negli anni, ma anche una traccia perché Serena mi aveva anticipato che sarebbe andata a denunciare per spaccio il figlio di Mottola (il movente del delitto, secondo l’accusa, ndr) ma non venni ascoltato».
Soligo, qui non coinvolto in nessun modo, è un altro punto di contatto con la vicenda Cucchi, dove è indagato per depistaggio. Il paragone tra sua figlia e Stefano è fondato?
«Ci sono punti in comune, ma Cucchi era stato fermato e forse sarebbe stato processato, mia figlia si presentò in caserma da persona libera, mossa dalla freschezza dei suoi 18 anni, dal coraggio e dagli ideali convinta di poter denunciare un fatto grave come lo spaccio che stava uccidendo i giovani del paese. Per aiutare gli altri si dimenticava di sé stessa ed è finita in pasto ai leoni».
Come affronterà il processo che sta per cominciare?
«Con il piglio combattivo di sempre per avere giustizia e far sapere a tutti chi era davvero Serena. Mi aspetto che altre atrocità verranno rilevate sul pestaggio che ha subito e su come è stata lasciata morire. Ma sono preparato e ora so che non sono solo».
Serena Mollicone, minacce di morte agli investigatori. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it. Una scritta a caratteri cubitali su uno dei cavalcavia che sovrasta l’autostrada Roma-Napoli tra i caselli di Cassino e Pontecorvo. Una frase inquietante, «Morte presto per...», seguita dal cognome di uno degli investigatori di punta che hanno risolto l’omicidio della diciottenne di Arce, Serena Mollicone, assassinata nella caserma dei carabinieri del paese nel giugno del 2001. A segnalarlo sono stati i tanti automobilisti che si sono trovati a transitare lungo le corsie dell’A1 nel ponte di Ognisanti. La scritta è stato immediatamente rimossa mentre sull’episodio sta indagando la Procura di Cassino. La frase, che arriva a meno di dieci giorni dall’udienza preliminare a carico dei 5 presunti assassini di Serena, suona come una minaccia: mercoledì 13 novembre in tribunale a Cassino, il gip Salvatore Scalera dovrà decidere se rinviare a giudizio per omicidio volontario ed occultamento di cadavere l’ex comandante della stazione dei Carabinieri, Franco Mottola, la moglie Anna Maria ed il figlio Marco. Rischiano il processo per favoreggiamento anche due carabinieri in servizio all’epoca presso la stazione di Arce. E resta aperto anche il caso del sospetto suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che aveva testimoniato di avere visto entrare Serena in caserma il giorno della morte, ma senza vederla più uscire.
Processo per l’omicidio di Serena Mollicone, la mossa dell’Arma: «Noi parte civile». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Come per il caso Cucchi. Carabinieri sotto accusa dopo 18 anni, il 13 novembre l’udienza preliminare. L’Arma dei carabinieri si costituirà parte civile nel processo per l’omicidio di Serena Mollicone. La richiesta in vista dell’udienza preliminare del 13 novembre è stata già depositata e toccherà al gip valutarla insieme all’eventuale rinvio a giudizio dell’allora comandante della caserma di Arce, Franco Mottola, accusato di omicidio in concorso con la moglie Anna e il figlio Marco. Imputati anche altri due militari in servizio all’epoca nel paesino del Frusinate. Un gesto, quello dell’Arma, dal grande valore simbolico che ricalca il solco tracciato nella vicenda di Stefano Cucchi. La notizia accresce l’attesa per l’udienza già caricata di ulteriore tensione dalla scritta comparsa nei giorni scorsi su un cavalcavia della A1, in cui si augurava la morte di uno dei carabinieri del comando provinciale che sotto la guida del colonnello Fabio Cagnazzo e il coordinamento del procuratore capo di Cassino, Luciano D’Emmanuele, hanno riaperto il caso. Un lavoro a ritroso enorme, fondato su perizie scientifiche condotte con sistemi all’avanguardia ma anche su una capillare indagine «vecchio stile»: recuperando registri di scuola (per dimostrare che Marco Mottola non era in classe il giorno del delitto), note di servizio falsificate per dare un alibi a Mottola padre, foto di compleanni passati per esaminare la scena del delitto. Come riassume il pm Beatrice Siravo nella richiesta di processo: «Durante i nuovi accertamenti si è proceduto all’ascolto di 118 testi, molti dei quali ponderatamente scelti tra i 1.137 più volte già sentiti nel corso dei 18 anni di indagine; sono state effettuate rogatorie in Francia, Polonia e Stato del Vaticano. Pertanto si ritiene che le prove scientifiche, insieme con le prove dichiarative, consentano di sostenere con fiducia l’accusa in giudizio». Insieme alla famiglia Mottola, risponde di concorso in omicidio il maresciallo Vincenzo Quatrale, mentre il brigadiere Francesco Suprano è accusato di favoreggiamento. A Quatrale è stata contestata anche l’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, che per primo collegò il delitto alla caserma. Serena Mollicone scompare l’1 giugno 2001 e viene ritrovata cadavere 36 ore dopo in un bosco. Ha i polsi legati e la testa in una busta di plastica chiusa con il nastro isolante. Le prime piste sono tanto fumose quanto inconcludenti. Un carrozziere che si espone con dichiarazioni improvvide e prive di riscontri viene arrestato e poi prosciolto; la tesina della 18enne su «La Follia» che rimanderebbe all’azione di uno squilibrato; addirittura viene coinvolto suo padre Guglielmo, portato in caserma mentre si svolgono i funerali della figlia con prove che si riveleranno false, vero motore in tutti questi anni della ricerca della verità come Ilaria Cucchi per suo fratello Stefano. Nel 2011, quando le indagini sembrano ormai a un punto morto, cominciano in segreto i nuovi accertamenti. Vengono prelevati in caserma i frammenti di una porta degli alloggi degli ufficiali, compiuti accertamenti sui resti di vernice nel cortile della caserma, isolate 100 tracce vegetali «sub millimetriche» trovate sul cadavere, alle quali i microscopi del Ris restituiscono una «coerenza dei materiali» che è alla base dell’accusa. Il resto del lavoro è affidato al Labanof di Milano che rivela la compatibilità della ferita al capo della 18enne con i segni sulla porta sequestrata. Secondo l’accusa, Serena fu convocata in caserma per dissuaderla dal denunciare il presunto giro di stupefacenti che coinvolgeva Mottola jr e qui aggredita. Tramortita e in fin di vita per una frattura alla tempia, fu trasportata nel campo e lasciata morire. «Le perizie non sono univoche e negli stessi atti del pm ci sono prove a discolpa degli imputati», dice l’avvocato Francesco Candido, che difende Quatrale. Mottola, assistito da Francesco Maria Germani, starebbe invece valutando una conferenza stampa. La battaglia attorno ai 46 faldoni del pm si gioca anche sul nome di chi materialmente avrebbe spinto Serena contro la porta. Ma questo, forse, sarà il processo a stabilirlo.
Delitto Mollicone, svolta dopo 18 anni: ci sono cinque richieste di rinvio a giudizio. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Corriere.it. Cinque richieste di rinvio a giudizio per la morte della 18enne Serena Mollicone. La Procura di Cassino hachiuso le indaginie chiesto il processo per l’ex comandante della stazione di Arce, il figlio Marco, la moglie Anna, il luogotenente dei Carabinieri Vincenzo Quatrale e l’appuntato Francesco Suprano. I componenti della famiglia Mottola devono rispondere di omicidio volontario ed occultamento di cadavere. Il sottufficiale Quatrale di convincimento morale esterno in omicidio e dell’istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi. L’appuntato Suprano di favoreggiamento. Per l’omicidio della giovane, Diciotto anni di false piste, sospetti depistaggi e prove sparite. I carabinieri del Comando provinciale di Frosinone e i colleghi del Ris hanno riassunto questo lungo caso giudiziario nell’informativa consegnata al pm Beatrice Siravo e al procuratore Luciano d’Emmanuele. Le conclusioni sono ormai note: la ragazza fu uccisa nella caserma dei carabinieri di Arce in concorso tra l’allora comandante Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco. Sono tutti accusati di omicidio volontario.
L’omicidio in caserma. Secondo la ricostruzione, Serena fu convocata in caserma per la sua intenzione di denunciare un giro di stupefacenti che coinvolgeva Mottola jr e qui aggredita verbalmente, picchiata e spinta con violenza col capo contro una porta dell’appartamento dove alloggiava la famiglia del comandante. Tramortita e in fin di vita per una frattura alla tempia, fu prima tenuta nascosta e poi trasportata in un campo, legata, imbavagliata e lasciata morire. Da qui l’altra pesante accusa di occultamento di cadavere, anche se non è stato possibile risalire ad eventuali complicità nel trasporto del corpo. Era l’1 giugno 2001 e Serena, ritrovata 36 ore dopo, aveva 18 anni.
Delitto Arce: "Serena Mollicone fu uccisa nella caserma dei carabinieri". Chiesto il processo per i 5 indagati. Secondo la Procura di Cassino la ragazza, morta nel 2001, avrebbe avuto una discussione con il figlio dell'ex maresciallo e sarebbe morta sbattendo la testa alla porta. Clemente Pistilli il 30 luglio 2019 su La Repubblica. A distanza di diciotto anni dai fatti la verità sull'omicidio di Serena Mollicone, uno dei principali cold case italiani, questa volta potrebbe essere finalmente vicina. La Procura della Repubblica di Cassino, al termine della nuova inchiesta sul l'uccisione della diciottenne di Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, ha chiesto cinque rinvii a giudizio. A rischiare un processo l'allora comandante della stazione dell'Arma, la moglie, il figlio e altri due carabinieri. Gli inquirenti non hanno dubbi: la studentessa sarebbe stata uccisa proprio in caserma, nel luogo dove i cittadini dovrebbero essere protetti e nel quale sono state svolte le prime indagini che non sarebbero state altro che un enorme depistaggio. L'ex comandante della stazione dell'Arma di Arce, Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Annamaria sono accusati di omicidio aggravato e occultamento di cadavere, l'appuntato scelto Francesco Suprano di favoreggiamento personale in omicidio volontario, e il luogotenente Vincenzo Quatrale di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di un collega brigadiere. Serena Mollicone scomparve da Arce il primo giugno 2001 e il suo corpo senza vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, venne trovato due giorni dopo in un boschetto ad Anitrella, una frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Nel 2003, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, un carrozziere di Rocca d'Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L'omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero, ma la Procura di Cassino non ha mollato e le indagini hanno ripreso vigore nel 2008 quando, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori ipotizzarono a quel punto che il militare si fosse ucciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto nella caserma dell'Arma di Arce. Alla luce dei nuovi accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, andati avanti per undici anni, il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo si è convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, che abbia avuto una discussione con Marco Mottola e che lì, in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell'allora comandante, la giovane sia stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, venne portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Ora le cinque richieste di giudizio e la speranza che finalmente tutta la verità venga fuori.
SERENA MOLLICONE, UN MISTERO SENZA FINE. Fulvio Fiano per il “Corriere della sera” il 30 aprile 2019. «Se quei reperti sono scomparsi, un motivo ci sarà». Sospeso tra la sua infinita attesa di giustizia e il dolore per una vicenda che continua a regalare colpi di scena ancora oggi a 18 anni di distanza, Guglielmo Mollicone vive con la maturata propensione ad aspettarsi il peggio la notizia della impossibilità di compiere una autopsia completa su sua figlia Serena quando tre anni fa ne fu riesumato il corpo. Un dettaglio emerso dai 46 faldoni di atti depositati dalla procura di Cassino a chiusura delle indagini e portatore di nuovo mistero intorno a un delitto già ricco di depistaggi ed errori giudiziari. Ad essere spariti sono le parti più intime della 18enne, che il medico legale aveva asportato per accertare una eventuale violenza sessuale subita dalla studentessa prima di essere uccisa (ipotesi che fu esclusa) e di cui l' anatomopatologa Cristina Cattaneo, incaricata della super perizia alla riapertura delle indagini, non ha potuto disporre. «Purtroppo - scrive la specialista nella sua relazione - gran parte dei genitali e dell' ano è stata prelevata all' autopsia ma mai rinvenuta». A mancare sono anche i referti su alcune lesioni al cranio di Serena che, si legge nella relazione, «non sono stati più ritrovati in seguito ai vari passaggi avvenuti negli anni successivi». Dettagli di non poco conto per ricostruire le circostanze della morte e l' ora esatta del decesso. «Ci manca solo che ci accusino di aver profanato il cadavere», commenta l' avvocato Francesco Maria Germani, difensore dell' ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, accusato del delitto assieme a sua moglie Anna Maria e al figlio Marco. Per l' enorme quantità di atti da esaminare, i tre potrebbero rinunciare all' interrogatorio prima della probabile richiesta di processo. Il doppio indice delle fonti di prova prodotte dal pm Beatrice Siravo è ricco di riferimenti a questi anni di false piste. Una di queste nacque attorno alla tesina di diploma liceale di Serena, intitolata «La Follia» e rinvenuta nei pc della scuola. Serena lavorava alla rappresentazione della pazzia nella letteratura e questo interesse fu usato per sostenere che l' omicidio fu il gesto di uno squilibrato. Ma gli indizi ingannevoli sono disseminati ovunque. Ad esempio il talloncino strappato con l' intestazione del dentista dal quale Serena doveva recarsi il giorno in cui fu uccisa e rinvenuto nell' officina del carrozziere Carmine Belli, indagato e poi scagionato. O ancora il telefono della 18enne ricomparso misteriosamente a casa del padre la notte della veglia funebre per accusare proprio il genitore. E la bustina con dell' hashish che il carabiniere Vincenzo Quatrale (oggi accusato di concorso in omicidio) ritrovò in un cassetto di Serena. La ragazza voleva denunciare Mottola jr di spaccio e per questo sarebbe stata uccisa in caserma. «Dissi a Quatrale di non toccarla per tutelare eventuali impronte e si fece una risata», ricorda ora il papà Guglielmo. Chiamato in causa, il figlio del comandante di stazione provò all' epoca a crearsi un alibi, sostenendo di essere al bar con la sua fidanzata. Tesi smentita dalle nuove accurate indagini dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone, che hanno rinvenuto il registro della classe frequentata dalla ragazza al Ginnasio «Simoncelli» di Sora. L' 1 giugno 2001, mentre Serena veniva uccisa, la sua coetanea risulta presente. Falsificato, invece, è risultato l' ordine di servizio numero 1 del giorno del delitto, in cui Quatrale e Mottola dichiaravano di essere usciti dalla caserma per una missione inesistente. Decisivo per l' accusa è poi il ritrovamento della porta contro cui sarebbe stata sbattuta la testa di Serena fino a tramortirla (poi legata e imbavagliata e lasciata morire per soffocamento in un campo). La porta era parte dell' alloggio dei Mottola e fu sostituita, secondo il pm, con quella del bagno dell' appuntato Francesco Suprano (accusato di favoreggiamento). Verificata la compatibilità con le micro tracce di legno sul capo di Serena, preso atto della inverosimile spiegazione fornita dal carabiniere per quella sostituzione («Temevo un risarcimento danni»), gli inquirenti sono andati oltre. Così, nella perquisizione del maggio 2016 a casa dei Mottola sono state sequestrate le foto di una festa di compleanno della signora Anna Maria, tenuta negli alloggi ad Arce e con la porta ancora al suo posto. Quelle foto hanno permesso il confronto con altri segni che sarebbero compatibili con la scansione del pugno di Marco e Franco Mottola.
Mollicone, giallo sul corpo riesumato «Spariti alcuni organi». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Dal fascicolo giudiziario riguardante l’omicidio di Serena Mollicone, la ragazza trovata morta il 3 giugno 2001 in un bosco ad Arce, in provincia di Frosinone (dopo che era sparita il 1° giugno) potrebbero essere scomparsi alcuni reperti autoptici. Lo rivela il quotidiano il Messaggero che fa riferimento a una superperizia di Cristina Cattaneo, l’anatomopatologa (è la donna che lavora anche a tanti cold case e alla restituzione delle identità dei migranti annegati nel Mediterraneo) chiamata a condurre i rilievi sulla salma di Serena, riesumata nel 2016 a seguito delle nuove indagine. Proprio l’esame della specialista di «cold case» consentì di stabilire una potenziale compatibilità tra il trauma cranico della ragazza con l’ammaccatura della porta di uno degli alloggi della caserma dell’Arma in cui la ragazza si era recata per denunciare un traffico di droga. Dai successivi accertamenti la procura di Cassino ha notificato - tramite l’avviso di fine indagini - all’ex maresciallo dei carabinieri, Franco Mottola, allora comandante della stazione di Arce, e alla moglie Anna Maria e al figlio Marco il reato di omicidio volontario. Ma nella relazione conclusiva — scrive il Messaggero nell’articolo a firma Piefederico Pernarella — la professoressa Cattaneo sottolinea «il mancato svolgimento di esami fondamentali nei primi accertamenti medico-legali e la “sparizione” nel corso delle indagini di alcuni importanti elementi autoptici». Elementi che avrebbero potuto meglio chiarire la dinamica della presunta uccisione. Cattaneo «ha dovuto esaminare anche la possibilità di un contatto o di un rapporto sessuale», nota il Messaggero. Gli esami effettuati alla prima autopsia stabilirono l’assenza di liquido seminale. Questo però non esclude altri scenari da verificare con accertamenti autoptici che però sono stati effettuati solo parzialmente perché «purtroppo gran parte dei genitali e dell’ano — si legge nella relazione — è stata prelevata dall’autopsia ma mai rinvenuta per ulteriori indagini». Mancano dal fascicolo anche «lesioni prelevate sul cranio» di Serena, elementi che avrebbero potuto dare indicazioni sulla natura dell’oggetto con il quale è stata colpita. Perché i reperti siano spariti non si sa. Forse la distruzione può essere stata disposta dagli stessi investigatori che all’epoca ritennero che non potessero essere più utili alle indagini.
“DEVONO ARRESTARLI TUTTI”. Da “Radio Cusano Campus” il 24 aprile 2019. E' giunto al momento della verità il giallo di Arce. Diciotto anni dopo la morte di Serena Mollicone, uccisa nel paese in provincia di Frosinone il primo giugno del 2001, arriva l’avviso di chiusura delle indagini per un delitto ancora senza colpevoli. La Procura della Repubblica di Cassino nei giorni scorsi ha infatti notificato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari ai cinque indagati: tre sono carabinieri. Si tratta del maresciallo Franco Mottola, all'epoca comandante della stazione dell'Arma di Arce e indagato con la moglie Anna e il figlio Marco, del maresciallo Vincenzo Quartale e del brigadiere Francesco Suprano. Alla luce dei nuovi sviluppi, il caso è stato nuovamente approfondito a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. Al microfono di Fabio Camillacci Guglielmo Mollicone, il papà di Serena, ha detto: “Sono quasi 18 anni che stiamo combattendo e finalmente si vede la luce in fondo al tunnel. E' comunque pazzesco e terribile se penso che mia figlia fu uccisa nella stessa caserma dei carabinieri in cui io la sera andai per denunciarne. E probabilmente il suo povero corpo era ancora lì nella caserma di Arce perchè immagino che solo di notte i responsabili avranno provveduto a spostare il cadavere nel bosco dell'Anitrella per inscenare un delitto opera di un maniaco. Divento pazzo se penso a questa cosa: se penso che magari avrei potuto ancora salvarla quando andai dai carabinieri a fare la denuncia. E divento ancora più pazzo se penso a tutto quello che hanno fatto dopo aver ucciso Serena: cioè provare a incastrare prima me e poi il carrozziere Carmine Belli che fortunatamente al processo venne assolto. Adesso - ha concluso Guglielmo Mollicone - mi auguro che il gip li rinvii a giudizio e li faccia arrestare tutti, visto che Carmine Belli fu arrestato per molto molto meno. Quindi se la legge è veramente uguale per tutti ora devono arrestare i veri responsabili della morte di mia figlia: devono arrestarli, processarli e condannarli. Devono iniziare a pagare perché sono stati fuori di galera anche troppo tempo, quasi 18 anni. Ora devono finalmente pagare per aver ucciso Serena”.
Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, tre sono carabinieri. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. Diciotto anni dopo la morte di Serena Mollicone, uccisa ad Arce il primo giugno del 2001, arriva l’avviso di chiusura delle indagini per quel delitto ancora senza colpevoli. La Procura della Repubblica di Cassino, secondo quando riporta «Il Messaggero» ha notificato mercoledì l’avviso di chiusura delle indagini preliminari ai cinque indagati, tre sono carabinieri.
Si tratta dell’allora maresciallo dei carabinieri della stazione di Arce Franco Mottola, della moglie Annamaria e del figlio Marco, che dovranno rispondere di omicidio volontario. Indagato per concorso in omicidio volontario il luogotenente dell’Arma Vincenzo Quatrale, per favoreggiamento in omicidio volontario il carabiniere Francesco Suprano. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Serena sarebbe stata colpita all’interno della caserma dei Carabinieri di Arce, dopo con alcuni componenti della famiglia Mottola. Secondo l’informativa dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone e quelli del Ris, a colpire Serena sarebbe stato Marco Mottola, figlio dell’ex comandante della caserma di Arce.
Delitto Mollicone, 18 anni di bugie e coperture nella caserma di Arce. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. «Tutti mi dicono che qui è tutto falso... per me quel giorno mi risulta che abbiamo fatto quello, perché quello abbiamo fatto... Santino, tu puoi dire questo qua però rifletti pure che comunque chi stava con te metti in mezzo ai pasticci». Siamo nell’aprile del 2008, Serena Mollicone è morta da sette anni e una settimana prima il brigadiere Santino Tuzi è andato dai magistrati a raccontare di aver visto la 18enne entrare nell’alloggio in uso alla famiglia di Franco Mottola, il suo comandante della stazione di Arce, e di non averla più vista uscire. Una dichiarazione potenzialmente devastante per smascherare le bugie e i depistaggi sopravvissuti fino ad allora. Così, il collega di Tuzi, maresciallo Vincenzo Quatrale, si rende disponibile a far installare sulla sua auto un microfono per offrire ai pm dell’epoca una verifica sulla veridicità di quanto dice il collega in contraddizione alla versione ufficiale fino ad allora circolata. Scopo di quella conversazione, in realtà, è indurre Tuzi a ritrattare per non mettere nei guai lo stesso Quatrale e il comandante Mottola. È una delle rivelazioni contenute nell’avviso di chiusura indagini con cui ieri, a un mese e mezzo dal 18esimo anniversario del presunto delitto, la Procura di Cassino (su indagine dei carabinieri di Frosinone) si appresta a chiedere il processo per i cinque indagati. Mottola è accusato dell’omicidio di Serena assieme alla moglie Anna e al figlio Marco e a Quatrale. In particolare, i due carabinieri sono accusati di non aver impedito «l’evento morte» pur essendo in potere di farlo. Per le stesse ragioni, Quatrale risponde anche dell’omicidio e dell’istigazione al suicidio di Tuzi perché con quel confronto in auto «esercitava — scrive il pm Beatrice Siravo — una pressione diretta a fargli sorgere il proposito di suicidio», che avverrà tre giorni dopo. In un’altra intercettazione Quatrale dirà di aver visto il collega «stonato», ma nondimeno gli ventilò l’ipotesi di finire indagato per l’omicidio, dato che nessuno gli avrebbe creduto. Un altro carabiniere, il brigadiere Francesco Suprano, di piantone quel giorno, è indagato per favoreggiamento. Avrebbe aiutato gli assassini sia affermando il falso quando disse a verbale che nelle ore del delitto era di pattuglia assieme a Mottola, sia accreditando l’ipotesi che Tuzi mentiva sulla presenza di Serena in caserma, sia soprattutto, nascondendo per due anni la porta contro cui la testa della ragazza venne sbattuta fino a farle perdere i sensi e prima di essere legata, imbavagliata e lasciata morire in un campo. «Temevo una causa per risarcimento danni», è la giustificazione offerta quando si scoprì che aveva scambiato la porta degli alloggi della famiglia Mottola con una del suo bagno.
Chi ha ucciso Serena Mollicone? Scrive Clemente Pistilli per La Repubblica il 19 febbraio 2019. Serena Mollicone è stata uccisa dal figlio dell’allora comandante dei carabinieri di Arce. È questa la convinzione dei carabinieri che indagano sulla morte della diciottenne e che hanno esposto in una monumentale informativa consegnata al sostituto procuratore della Repubblica di Cassino, Maria Beatrice Siravo. Dopo aver ricominciato a indagare da zero e aver raccolto tutti gli elementi scientifici utili, gli investigatori sembrano ora avere le idee chiare anche su chi materialmente assassinò diciotto anni fa la studentessa e sul ruolo preciso avuto da tutti i diversi indagati in quello che è da tempo tra i principali cold case italiani. Ora la procura potrebbe essere pronta a tirare le somme della nuova inchiesta e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Serena Mollicone scomparve da Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, il 1 giugno 2001 e venne poi trovata priva di vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, in un boschetto ad Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Due anni dopo, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L’omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero. Ma i dubbi, soprattutto quelli sui depistaggi da parte degli stessi carabinieri di Arce, erano troppi. La Procura di Cassino continuò così a indagare e nel 2008, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori si convinsero che il militare si fosse ucciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto il giorno della scomparsa della studentessa. E da allora, ricorrendo anche a sofisticate indagini scientifiche, le nuove indagini non si sono mai fermate. Alla luce degli accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, il sostituto procuratore Siravo si è così convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, per denunciare dei loschi traffici che si svolgevano in paese. A quel punto, portata in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell’allora comandante, la giovane sarebbe però stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Un’inchiesta che vede indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l’ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Ora i carabinieri, nell’informativa conclusiva appena consegnata al sostituto Siravo, hanno sostenuto che a uccidere Serena Mollicone sarebbe stato il figlio del comandante della stazione di Arce, Marco Mottola, specificando anche il ruolo avuto dagli altri indagati. Un tassello fondamentale, sembra l’ultimo, per chiudere il cerchio sull’inchiesta. Utile anche a chiarire uno dei passaggi sinora rimasti più oscuri, quello del trasporto del corpo esanime della diciottenne dalla caserma al boschetto di Anitrella. E non si esclude che le indagini possano concludersi ufficialmente anche con un numero maggiore di indagati.
Silvia Natella per leggo 1 febbraio 2019. Ossa trovate in Vaticano, ecco a chi appartengono: l'incredibile scoperta. In un primo momento si era pensato che le ossa rinvenute nella Nunziatura Apostolica, in Vaticano, settimane fa potessero appartenere a Emanuela Orlandi o a Mirella Gregori. Un'ipotesi esclusa dalle prime analisi dei genetisti sui resti. Ora arriva la verità: erano di due antichi romani. Il giallo, come sottolineano anche a Chi l'ha Visto?, è stato risolto e gli scienziati di un istituto specializzato di Caserta sono riusciti a ottenere anche due Dna di incredibile valore. Le ossa sono di un periodo compreso tra il 90 e il 230 dopo Cristo. Si tratterebbe di costole, denti, frammenti di cranio, femore e mascella di due antichi romani dell’età imperiale. I resti sono stati rinvenuti durante i lavori di ristrutturazione a villa Giorgina, sede della nunziatura del Vaticano di via Po a Roma. Molto probabilmente quei resti fanno parte di un’antica necropoli nei pressi della via Salaria, importante strada di collegamento tra Roma e lo sbocco al mare Adriatico, tramite il porto di Ascoli. La Procura di Roma, che aveva aperto un’indagine per omicidio contro ignoti, dovrà così archiviare il caso.
Omicidio Serena Mollicone, gli investigatori: "Uccisa dal figlio del comandante dei carabinieri". Consegnata in procura l'informativa dei militari che indagano sulla morte della diciottenne scomparsa nel 2001 in provincia di Frosinone, scrive Clemente Pistilli il 19 febbraio 2019 su La Repubblica. Serena Mollicone è stata uccisa da Marco Mottola, figlio dell’allora comandante dei carabinieri di Arce. È questa la convinzione dei carabinieri che indagano sulla morte della diciottenne e che hanno esposto in una monumentale informativa consegnata al sostituto procuratore della Repubblica di Cassino, Maria Beatrice Siravo. Dopo aver ricominciato a indagare da zero e aver raccolto tutti gli elementi scientifici utili, gli investigatori sembrano ora avere le idee chiare anche su chi materialmente assassinò diciotto anni fa la studentessa e sul ruolo preciso avuto da tutti i diversi indagati in quello che è da tempo tra i principali cold case italiani. Ora la procura potrebbe essere pronta a tirare le somme della nuova inchiesta e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Serena Mollicone scomparve da Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, il 1 giugno 2001 e venne poi trovata priva di vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, in un boschetto ad Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Due anni dopo, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L’omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero. Ma i dubbi, soprattutto quelli sui depistaggi da parte degli stessi carabinieri di Arce, erano troppi. La Procura di Cassino continuò così a indagare e nel 2008, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori si convinsero che il militare si fosse uciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto il giorno della scomparsa della studentessa. E da allora, ricorrendo anche a sofisticate indagini scientifiche, le nuove indagini non si sono mai fermate. Alla luce degli accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, il sostituto procuratore Siravo si è così convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, per denunciare dei loschi traffici che si svolgevano in paese. A quel punto, portata in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell’allora comandante, la giovane sarebbe però stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Un’inchiesta che vede indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l’ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Ora i carabinieri, nell’informativa conclusiva appena consegnata al sostituto Siravo, hanno sostenuto che a uccidere Serena Mollicone sarebbe stato il figlio del comandante della stazione di Arce, specificando anche il ruolo avuto dagli altri indagati. "Io, mio padre e mia madre non c'entriamo assolutamente nulla" si difende il giovane al Tg1. "La conoscevo ma non benissimo", aggiunge. "Abbiamo fatto analizzare le macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma", ha detto Marco per poi ripetere "non c'entriamo nulla. Ma questo sembra il tassello fondamentale, l’ultimo, per chiudere il cerchio sull’inchiesta. Utile anche a chiarire uno dei passaggi sinora rimasti più oscuri, quello del trasporto del corpo esanime della diciottenne dalla caserma al boschetto di Anitrella. E non si esclude che le indagini possano concludersi ufficialmente anche con un numero maggiore di indagati.
Vive a Venafro l’uomo accusato di avere ucciso Serena Mollicone: “Io e la mia famiglia non c’entriamo nulla”, scrive Mercoledì 20 febbraio 2019 Primo Numero. “Io, mio padre e mia madre non c’entriamo assolutamente nulla con la morte di Serena Mollicone” ha detto Marco Mottola, figlio dell’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, che da anni vive in Molise gestendo un’attività commerciale a Venafro. E’ indagato insieme ai genitori per l’omicidio della 18enne trovata senza vita nel bosco dell’Anitrella, in provincia di Frosinone. Il ragazzo ha parlato di Serena al Tg1: “La conoscevo ma non benissimo” ha detto. E sulle accuse a suo carico ha spiegato: “Abbiamo fatto analizzare le macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma”. Ma gli investigatori sono certi del contrario. A 18 anni dal delitto hanno depositato, in Procura a Cassino, l’informativa che ridisegna la scena del crimine, individuando 5 persone da mandare sotto processo. E, soprattutto, conferma che Serena Mollicone fu uccisa durante una discussione con Marco Mottola, figlio dell’ex maresciallo che lei aveva intenzione di denunciare proprio quel giorno per un presunto giro di spaccio di droga, all’interno della caserma dei carabinieri di Arce. Dunque, quel drammatico 1° giugno del 2001 Serena, 18 anni, fu colpita e poi sbattuta, con la testa, contro la porta di un alloggio, interno alla caserma, nella disponibilità dell’ex maresciallo Franco Mottola. Ora si attende la decisione del sostituto procuratore che potrebbe essere pronto a fare le proprie considerazioni e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Per l’omicidio di Serena Mollicone sono indagati, con le accuse di omicidio volontario, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Secondo quanto sostengono i carabinieri la giovane, al tempo dei tragici fatti, è stata portata in un alloggio in disuso a disposizione della famiglia dell’ex comandante Mottola, lì sarebbe poi stata aggredita. Serena avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata condotta con la forza nel boschetto in località Fonte Cupa. Qui, ancora viva, è stata soffocata con una busta di plastica e uccisa. Serena Mollicone scomparsa e trovata morta a 18 anni. Quello ricostruito dai carabinieri è un quadro assolutamente indiziario che poggia su tre elementi: la dichiarazione resa in Procura dal brigadiere Santino Tuzj nel 2008 poco prima di uccidersi; la consulenza della professoressa Cristina Cattaneo (dell’Istituto di Medicina Legale di Milano) che ha concluso per la compatibilità della frattura cranica su Serena e il segno di effrazione sulla porta di legno sequestrata in caserma; e, infine, il terzo elemento è la consulenza dei Ris con la quale è stata riscontrata la presenza di frammenti di porta e tracce della vernice della caldaia della caserma, tra i capelli di Serena. Con la conseguente compatibilità di questi materiali con l’ambiente della caserma. Un quadro indiziario corredato di una ricostruzione video, eseguita dal Ris. Intanto Marco Mottola e la sua famiglia si sono trasferiti in Molise. A Venafro, nello specifico, dove il principale indiziato di uno dei delitti più misteriosi degli ultimi decenni, che ha lasciato una Paese intero col fiato sospeso, gestisce un bar.
Serena Mollicone, il padre: «Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità», scrive il 20 febbraio 2019 Chiara Pizzimenti su vanityfair.it. Guglielmo Mollicone ricorda però anche il riscatto dei Carabinieri che hanno fatto le indagini che ora portano alla conclusione che la 18enne sarebbe stata tramortita nella caserma e lasciata a morire in un campo. «Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire. Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo». Guglielmo, il padre di Serena Mollicone, racconta al Corriere della Sera tutta la sua rabbia, ma anche la soddisfazione per indagini che sono arrivate a una conclusione dopo 18 anni. Sarebbe stato Marco Mottola a uccidere Serena. È questa la conclusione a cui è giunta l’ultima perizia consegnata alla Procura di Cassino sull’omicidio avvenuto ad Arce nel 2001. Dunque il colpevole sarebbe il figlio dell’ex comandante della Stazione dei carabinieri del paese. Accusati di omicidio volontario anche l’allora comandante Franco Mottola e la moglie Anna. «Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere» ha aggiunto Guglielmo Mollicone che è stato sostenuto dall’avvocato Dario De Santis e dalla consulenza dell’ex comandante del Ris, Luciano Garofano. È stata l’ultima perizia a portare le prove definitive dopo 18 anni di false piste e depistaggi, tutti raccontati nell’informativa dei carabinieri del Comando provinciale di Frosinone. Serena, secondo quanto ricostruito, sarebbe stata in caserma il 1 giugno 2001. Voleva denunciare un giro di stupefacenti che probabilmente coinvolgeva anche Marco Mottola. Dopo una colluttazione con il ragazzo sarebbe stata sbattuta con violenza contro una porta dell’appartamento. Lo dicono i frammenti di porta e i resti di vernice del cortile trovati sul cadavere. Sarebbe stata poi tenuta per alcune ore in caserma ferita quindi portata nel campo in cui è stata trovata 36 ore dopo. Era legata e imbavagliata. Anche altri due carabinieri sono indagati, i sottufficiali Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale. Per il primo l’accusa è di favoreggiamento perché avrebbe inscenato una finta chiamata per un incidente stradale in modo da poter dire di non essere in caserma durante l’aggressione. Il secondo è accusato di concorso in omicidio e istigazione al suicidio di un altro carabiniere, il brigadiere Santino Tuzi, che si uccise nel 2008 prima di testimoniare sul caso. Aveva già detto di aver visto entrare Serena in caserma, ma mai di averla vista uscire. L’avvocato della famiglia Mottola dice che i suoi assistiti sono innocenti e Marco Mottola lo ha ribadito al TG1: «Io, mio padre e mia madre non c’entriamo assolutamente nulla. Conoscevo Serena ma non benissimo. Abbiamo fatto analizzare le nostre macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio, e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma?».
Serena Mollicone, uccisa dal figlio del Maresciallo. Il padre della ragazza: “Mia figlia lasciata morire come Stefano Cucchi”, scrive il 20 febbraio 2019 Gaia Catalani su Velvet. Svolta clamorosa sul caso di Serena Mollicone. Le indagini degli inquirenti si sono strette sempre di più intorno alla famiglia del Maresciallo indagato per l’omicidio della ragazza. La relazione finale è stata depositata dall’Arma; il collegamento sempre più stretto con la relazione dell’anatomopatologa e dei Ris non lascia spazio a dubbi. Le conclusioni: la ragazza fu uccisa nella caserma dei carabinieri di Arce in concorso tra l’allora comandante Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco. Tutti accusati di omicidio volontario. Le dichiarazioni del padre di Serena Mollicone, a poche ore dalla notizia sulla svolta nel caso: “Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere”.
Il suicidio di Santino Tuzi: cosa sapeva l’uomo? A rendere più inquietanti la vicenda è anche il suicidio di Santino Tuzi, il brigadiere è stato trovato senza vita nella sua auto nel dicembre 2008. L’uomo si sarebbe sparato un colpo con la sua pistola di ordinanza, in pieno petto. Cosa sapeva? Al settimanale Giallo, Guglielmo Mollicone rivela: “Il maledetto giorno in cui mia figlia è scomparsa, e poi è stata uccisa, era andata in Caserma. E’ lì che è stata assassinata. Sono diciotto anni che lo sostengo. […] Non potrò mai dimenticare la figura del brigadiere Tuzi, lui ha pagato con la vita il suo coraggio: Tuzi avrebbe voluto parlare, raccontare per la prima volta come sono andati i fatti. Si è tolto la vita perché, probabilmente, le sue dichiarazioni inguaiavano i responsabili del delitto di Serena. […] Serena, come hanno ricostruito gli investigatori, è stata violentemente picchiata. L’hanno ridotta in fin di vita e temendo le conseguenze del loro vile gesto, hanno pensato di liberarsi per sempre di mia figlia. […] Non è escluso, anzi io ne sono certo, che i responsabili della sua uccisione non siano nemmeno stati individuati tutti. Ma io non mi fermerò fino a quando non avrò scoperto la verità. L’ho giurato a Serena. Figlia mia, manterrò la promessa”.
SERENA MOLLICONE. Difesa Mottola “Su Tuzi bisognava indagare”, figlia “pressioni”. Serena Mollicone, il caso stasera a Chi l’ha visto: la difesa dei Mottola tira in ballo il brigadiere Tuzi, morto suicida, scrive il 20.02.2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. Dopo le ultime novità emerse, il maresciallo Franco Mottola accusato con il figlio Marco e con la moglie Anna dell’omicidio della giovane diciottenne di Arce hanno provato la loro disperata difesa presentando al pm la loro versione dei fatti in cui viene chiamato in causa il brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008, prima di poter testimoniare. Come riporta Corriere.it, il ragionamento dell’ex comandante giunto attraverso il suo legale, l’avvocato Francesco Maria Germani, fu il seguente: “Se si accetta la tesi che la 18enne è stata uccisa in caserma è su Tuzi che bisognava indagare. Sulla nostra presenza in caserma non ci sono prove, mentre lui era sicuramente di piantone”. Per la morte di Tuzi è indagato un altro carabiniere in servizio nel paese in provincia di Frosinone, Vincenzo Quatrale, accusato di istigazione al suicidio. Sette anni dopo il delitto Tuzi riferì ai colleghi di aver visto entrare Serena in caserma, di aver ricevuto una chiamata sull’interfono per farla accedere agli appartamenti della caserma e non averla più vista uscire. Il suo nome fu annotato sul registro dove poi fu successivamente cancellato. Era pronto a riferirlo ai magistrati ma si tolse la vita in circostanze mai chiarite mentre era in auto al telefono con la sua amante. La figlia Maria ha sempre sottolineato le continue pressioni a cui il padre era stato sottoposto in merito al caso. Gli inquirenti al momento non hanno preso in considerazione la pista alternativa dei Mottola. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
“QUEL GIORNO È ENTRATA NELLA TANA DEL LUPO”. Dopo la svolta nelle indagini che, al termine di 18 lunghissimi anni, potrebbe presto portare a conoscere la verità sulla morte di Serena Mollicone, nella giornata di oggi il padre della ragazza, uno dei pochi che si sono battuti fin da subito per mantenere viva l’attenzione sul caso e che in cuor suo ha sempre saputo come erano andate le cose, è stato ospite a La Vita in Diretta. E parlando degli ultimi sviluppi e della perizia che incastrerebbe l’assassinio di Serena, il signor Guglielmo ha raccontato a Tiberio Timperi(nella puntata che si può rivedere a questo link) che oramai si è vicini alla verità: “Questa notizia per me era una conferma e io non ho mai fatto l’inquirente o il poliziotto ma ho solo agito per logica e per logica già un mese dopo la morte di Serena ho detto perché era stata uccisa” spiega l’uomo, ribadendo anche come la ragazza, che all’epoca frequentava l’ultimo anno delle superiori, non avesse nemici. Adesso tuttavia il rischio è che i tre indagati della famiglia Mottola, dichiaratisi sempre innocenti, possano beneficiare della prescrizione, specialmente se fossero formulati dei rinvii a giudizio coloro che non hanno materialmente ucciso la ragazza ma solo favoreggiato il crimine oppure occultato il cadavere dato che questi reati vengono prescritti dopo sei anni. “MI ha spinto ad andare avanti la voglia di giustizia e loro devono pagare per quello che hanno commesso” ha proseguito Guglielmo Mollicone che poi ricorda un triste episodio risalente al giorno dei funerali, quando fu portato per tre ore in Caserma per una firma e costretto a lasciare Serena da sola in chiesa. “Hanno dato adito a chi indagava di gettare un’ombra su di me” ha detto amaramente l’uomo, aggiungendo che il giorno in cui Serena si presentò per denunciare un giro di droga “entrò nella tana del lupo e non ne è uscita più viva”. (agg. di R. G. Flore)
“ARRESTO IMMEDIATO PER I RESPONSABILI”. La perizia degli inquirenti ha confermato ciò che Guglielmo, padre di Serena Mollicone, ripeteva da oltre 17 anni. Una convinzione nata anche dalle parole che la giovane aveva riferito pochi giorni prima della morte all’uomo, parlandogli di questa complessa situazione ad Arce in riferimento al problema legato alla droga. “Si è messa in testa di andare lì, in quella caserma, nella tana del lupo per denunciare questo smercio di droga”, aveva spiegato il padre alla trasmissione I Fatti Vostri alcuni mesi fa. Papà Guglielmo è intervenuto oggi alla trasmissione di Raidue, telefonicamente, commentando così le ultime novità su quanto emerso nelle ultime ore. L’inchiesta dei carabinieri dà ragione dopo 17 anni proprio al padre della vittima. Il perchè di tanta efferatezza, però, non è ancora ad oggi emerso: “Serena non è stata solo legata e imbavagliata ma è stata anche picchiata”, ha spiegato il padre, parlando di pugni e calci emerse nell’ultima perizia, a differenza di quanto avvenuto anni fa con l’analisi del medico legale che non aveva riscontrato nulla di tutto ciò. “E’ una cosa molto grave anche questa perchè vuol dire che chi ha analizzato il corpo di Serena non ha fatto bene il suo lavoro”, ha aggiunto. “Io non penso al depistaggio, assolutamente. Serena è stata picchiata brutalmente da quella gente ed aveva dei lividi evidenti, come fa un medico legale a non notare quei lividi che aveva addosso nei giorni seguenti?!, ha spiegato ancora Guglielmo, ribadendo le somiglianze con il caso Cucchi “siamo lì, sì”. L’uomo ha aggiunto: “Io sono per l’arresto immediato di quella gente perchè non dimentichiamo che il carrozziere fu arrestato per delle sciocchezze, questi hanno un carico di accuse non indifferente, cosa aspettano ad arrestarli? Che scappino lontano come Battisti?”, ha aggiunto Mollicone. “Ho avuto la pazienza di aspettare la giustizia, vedere attuare quello che è la vera giustizia”, ha chiosato Guglielmo dopo le ultime novità sul caso. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
PAPÀ GUGLIELMO OGGI A CHI L’HA VISTO. La morte di Serena Mollicone torna al centro della nuova puntata di Chi l’ha visto, in onda nella prima serata di oggi con le ultime novità emerse in queste ore. A distanza di quasi 18 anni, gli inquirenti sono giunti ad una clamorosa conclusione: Serena Mollicone sarebbe stata uccisa nella caserma dei Carabinieri di Arce da Marco Mottola, figlio dell’ex maresciallo Franco Mottola. Tra i due ci sarebbe stata una lite furibonda poi culminata nella morte della giovane dopo aver battuto – forse dopo essere stata colpita – la testa contro la porta della caserma. Quindi, credendola morta, il maresciallo, il figlio e la moglie l’avrebbero portata in un boschetto, legata, salvo accorgersi che era ancora viva. Quindi sarebbe stata strangolata. Sarebbero queste le tappe inquietanti della fine della diciottenne Serena, il cui delitto fu commesso il primo giugno 2001 per poi essere rinvenuta senza vita a distanza di due giorni. La padrona di casa del programma di Raitre, Federica Sciarelli, insieme al padre della vittima, Guglielmo Mollicone, ripercorreranno tutte le tappe della triste vicenda di cui Chi l’ha visto si è occupata sin dalle fasi iniziali della scomparsa. “La verità sta uscendo fuori, nonostante i depistaggi”: così l’uomo ha commentato le ultime novità ai microfoni dell’Adnkronos. Ed in merito agli indagati (Marco Mottola, il padre, la madre e due carabinieri) ha aggiunto: “Ho sempre avuto il timore che potessero anche scappare, ora devono pagare, voglio che li arrestino. Temo che possano scappare anche con dei passaporti falsi”. Oggi l’uomo è convinto che Serena “troverà finalmente pace, dopo più di 17 anni”. L’uomo ha lottato e continua a farlo senza sosta, con la sola speranza di poter finalmente vedere consegnati alla giustizia i responsabili della morte della figlia, in merito alla quale commenta oggi al Corriere della Sera: “Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire. Poi azzarda ad un paragone importante: “Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere”.
LA FIGLIA DI SANTINO TUZI A CHI L’HA VISTO. Ospite nella puntata di Chi l’ha visto di stasera, incentrata sul caso di Serena Mollicone, anche la figlia del brigadiere Santino Tuzi, testimone “scomodo” morto suicida in circostanze mai chiarite. Anche lui, sotto certi aspetti, fu vittima di questa incredibile quanto drammatica vicenda. L’uomo si tolse la vita nel 2008, il giorno prima di essere ascoltato sull’omicidio di Serena. Il brigadiere aveva già riferito ai colleghi di aver visto entrare la ragazza in caserma senza però vederla più uscire. Il nome appuntato sul registro di ingresso fu poi cancellato. “Si è tolto la vita perché, probabilmente, le sue dichiarazioni inguaiavano i responsabili del delitto di Serena”, ha commentato Gugliemo Mollicone. La figlia dell’uomo suicida, Maria, due anni fa in una intervista al quotidiano Il Mattino aveva commentato così la morte del padre: “Dietro la morte di mio padre c’è sicuramente la verità sul caso di Serena Mollicone. Sono certa che mio padre sapesse qualcosa e che era stato minacciato di ritorsioni nei confronti della famiglia. Per questo non disse nulla per sette anni. Il suo suicidio è stato l’ennesimo e l’estremo gesto di protezione nei nostri confronti”. La donna aveva aggiunto: “Forse lui sapeva, ma qualcuno lo ha costretto a tacere per tutto quel tempo”.
Da Radio Cusano Campus del 28 febbraio 2019. Un'informativa di centinaia di pagine nella quale si ricostruisce l'omicidio di Serena Mollicone. Per i carabinieri del comando provinciale di Frosinone ed i colleghi del Ris, a colpire la ragazza, il primo giugno del 2001, sarebbe stato Marco Mottola, figlio dell'ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce. Il litigio sfociato poi in omicidio, sarebbe avvenuto in uno degli alloggi in disuso presso la struttura militare. Oltre a Marco Mottola, nel mirino degli investigatori ci sono anche: il padre, Franco Mottola, la madre Anna, e due carabinieri che all'epoca erano in servizio presso la stessa caserma di Arce. Il giallo, alla luce di questi nuovi clamorosi sviluppi, è stato approfondito a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. Al microfono di Fabio Camillacci, il padre di Serena, Guglielmo Mollicone ha dichiarato: “Finalmente i nodi stanno venendo al pettine: cose che ripeto da quasi 18 anni ormai. Ho sempre fatto nomi e cognomi di chi uccise Serena, ho sempre detto dove era avvenuto l’omicidio, cioè nella caserma dei carabinieri di Arce, e ho sempre indicato chi poteva aver aiutato la famiglia del maresciallo Mottola a trasportare il corpo nel bosco dell’Anitrella. Resto allibito quando sento Marco Mottola affermare che non conosceva bene mia figlia, che non erano amici. Come fa a dire questo dopo che in passato venne per due mesi di fila a casa mia per delle ripetizioni di francese e dopo aver fatto la terza media nella stessa classe di Serena? Non solo: Marco Mottola invitò più volte mia figlia nell'appartamento del padre in caserma per delle spaghettate tra amici. Pertanto, Serena era amica di tutta la famiglia Mottola, la smettessero di raccontare bugie, anche perché sono certe affermazioni che rafforzano le conclusioni a cui sono arrivati gli inquirenti. Come se non bastasse, il maresciallo Mottola e suo figlio, stanno anche dicendo di sapere chi è stato a uccidere Serena, lasciando intendere che sia stato Santino Tuzi; ma dicono questo solo perché il povero brigadiere non si può più difendere in quanto morto nel 2008. Se sanno chi è stato lo dicano chiaramente, portino prove a loro discolpa ma abbiano almeno rispetto per i defunti. Guardi, solo perché siamo in Radio evito di dire una brutta parola per commentare questa cosa orribile. Si sciacquino la bocca: però, conoscendo i personaggi non mi meraviglio. Inizialmente provarono a incastrare me, poi Carmine Belli che fortunatamente, dopo essersi fatto tanti mesi di carcere, fu assolto. Ora stanno cercando di mettere in mezzo chi ormai è morto. E voglio ricordare che Marco Malnati, grande amico di Santino Tuzi disse chiaramente, urlandolo anche davanti alle telecamere, che Santino non si era suicidato ma che era stato ammazzato e aggiungendo che Tuzi gli rivelò che la notte in cui ci fu la veglia di Serena in chiesa, cioè subito dopo il ritrovamento del corpo, il cellulare di Serena, fu portato di nascosto in casa mia dal maresciallo Mottola per incastrarmi. Poi Marco Malnati, sicuramente minacciato, non ha più parlato. Un giorno mi disse: “Gugliè, ti prego capiscimi, io c’ho 3 figli”. Io invece ho ricevuto un'intimidazione macabra quando arrestarono Carmine Belli: la mia gatta, che poi era di Serena, sparì misteriosamente, la ritrovai morta vicino casa mia con una ferita mortale sulla tempia sinistra, proprio come Serena. Voglio ringraziare -ha concluso Guglielmo Mollicone- il maresciallo Gaetano Evangelista, il successore di Mottola alla stazione dei carabinieri di Arce, ovvero colui che avviò le nuove indagini mettendo a rischio la carriera, la famiglia e anche la vita, posso dirlo con certezza. Il rapporto che lui consegnò alla Procura, di fatto conteneva le stesse cose venute alla luce in questi giorni. Questo per ribadire che io ho sempre creduto e credo molto nell'Arma, purtroppo però le mele marce stanno ovunque”.
· Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.
Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia. La procura apre un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. L'intervento della volante in un money transfer per un giovane di 32 anni che voleva pagare con una banconota falsa e dava in escandescenze, scrivono Gerardo Adinolfi e Luca Serranò il 18 gennaio 2019 su "La Repubblica". Ha accusato un malore mentre era a terra contenuto dagli agenti, Arafet Arfaoui, cittadino di origine tunisina di 32 anni deceduto ieri sera durante un controllo di polizia in un money transfer di Empoli (Firenze). L'uomo conosciuto alle forze dell'ordine per numerosi precedenti tra cui oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, aveva le manette ai polsi e i piedi bloccati con una piccola corda che gli era stata messa per impedirgli di scalciare. Adesso la procura di Firenze ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo e la pm Christine von Borries, che ieri sera è subito andata sul posto, sta ascoltando i poliziotti intervenuti e il personale sanitario del 118 chiamato dagli stessi agenti non appena l'uomo si è sentito male. La squadra mobile di Firenze ha sentito una decina di testimoni e i quattro agenti intervenuti sul posto. Lunedì ci sarà l'autopsia. La richiesta di intervento al 118 è delle 18,30 di ieri pomeriggio, 17 gennaio. Secondo quanto è stato ricostruito, il cittadino tunisino si era presentato in uno stato di alterazione forse dovuto all'assunzione di alcol, nel negozio Taj Mahal di via Ferrucci in centro a Empoli. Il Taj Mahal vende alimentari, spezie e svolge anche servizio di money transfer. Arafet Arfaoui voleva cambiare del denaro, 40 euro. Siccome il titolare del negozio, un cittadino indiano, temeva che una delle due banconote fosse falsa, ha rifiutato il servizio. Da lì è nata una discussione e il commerciante ha chiesto l'intervento di una volante della polizia. Durante il controllo il nordafricano è apparso molto agitato, poi, dopo aver mostrato i documenti, è schizzato fuori dal locale e si è rifugiato in una macelleria distante pochi metri. Gli agenti l'hanno raggiunto e hanno cercato di calmarlo, ma lui è corso di nuovo fuori ed è ritornato dentro al money transfer. Qui, dopo un breve parapiglia, i due poliziotti l'hanno ammanettato a terra e poi, visti i tentativi di liberarsi, hanno chiesto al titolare una corda per legargli le caviglie e impedirgli di scalciare. L'uomo è rimasto per diversi minuti a terra, ammanettato: secondo le prime testimonianze, gli agenti non avrebbero esercitato pressione sul suo corpo e si sarebbero limitati a contenere i suoi tentativi di divincolarsi. L'uomo sarebbe stato messo sul fianco e la cordicella, dicono gli investigatori, era "larga". Sul posto è arrivata una dottoressa del 118 per sedarlo, ma dopo pochi minuti più tardi l'uomo ha accusato un malore e ha perso conoscenza. I tentativi di rianimarlo sono andati avanti per circa un'ora, senza risultati. Gli accertamenti sono condotti dalla squadra mobile di Firenze e proseguono per incrociare le testimonianze con le immagini delle telecamere del negozio, che avrebbero ripreso tutte le fasi del fermo. "Totale e pieno sostegno ai poliziotti che a Empoli sono stati aggrediti, malmenati, morsi" è stato espresso dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che è intervenuto sulla vicenda. "Purtroppo un tunisino con precedenti penali, fermato dopo aver usato banconote false, è stato colto da arresto cardiaco nonostante gli immediati soccorsi medici. Tragica fatalità. Però se un soggetto violento viene ammanettato penso che la Polizia faccia solo il suo dovere", ha concluso Salvini.
Morto durante un fermo a Empoli, Ilaria Cucchi: "So già come va a finire". La sorella di Stefano Cucchi è intervenuta sul caso della morte dell'uomo di 32 anni avvenuta durante un controllo di polizia. Il direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Manconi: "Ci siano indagini accurate", scrive il 19 gennaio 2019 La Repubblica. "Dava in escandescenza? Questi fatti sono tutti uguali e sappiamo già come andrà a finire. La quarta sezione della Cassazione dirà che non c'è nessun colpevole". Lo ha detto all'Adnkronos Ilaria Cucchi, sorella di Stefano (il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell'ospedale Sandro Pertini di Roma) commentando la morte dell'uomo di 32 anni avvenuta a Empoli nel tardo pomeriggio di giovedì, durante un fermo di polizia. In merito alle prime ricostruzioni di quanto accaduto, da cui emerge che l'uomo sarebbe morto per arresto cardiocircolatorio, Ilaria Cucchi aggiunge: "Come Magherini". Lo scorso 15 novembre la quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, quarantenne ex calciatore della giovanili della Fiorentina, avvenuta il 3 marzo 2014, dopo l'arresto in una strada del quartiere di San Frediano, a Firenze. Intanto, sul caso di Empoli, è intervenuto Luigi Manconi, direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. Manconi ha fatto appello alla Procura di Firenze per chiedere che siano svolte indagini tempestive e accurate. "La vittima aveva, oltre che le manette ai polsi, le caviglie legate e si trovava, di conseguenza, in una condizione di totale incapacità di recare danno ad altri e a sé. Come è potuto accadere, dunque, che in quello stato abbia perso la vita e che non sia trovato modo di prestargli soccorso?", ha chiesto Manconi. "Sappiamo che le forze di polizia dispongono di strumenti per limitare i movimenti della persona fermata, ma mi chiedo se la corda usata per bloccargli le gambe sia regolamentare oppure occasionale, se fosse in quel momento strettamente indispensabile o se non vi fossero altri strumenti per contenere l'uomo. In altre parole, non si può consentire che vi siano dubbi sulla legittimità di un fermo o sulle modalità della sua applicazione. Tanto più qualora riguardi chi si trovasse, secondo testimoni, in uno stato di agitazione dovuto all'abuso di alcol, e tanto più che, negli ultimi dieci anni, sono state numerose le circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Peraltro, vi è qualche testimone che parla di una condizione di relativa calma del giovane tunisino e anche quest'ultimo fatto impone una indagine, la più rapida e incisiva", conclude il direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.
· Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.
Papa Francesco contro sovranisti e legittima difesa: "Mi ricordano Hitler", bomba su Salvini e Meloni? Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Sente puzza di "cultura dell'odio", Papa Francesco. Intervenendo al XX Congresso mondiale dell'Associazione internazionale di diritto penale il pontefice è ancora più esplicito: "Quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell'ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Adolf Hitler nel 1934 e nel 1936". Secondo le anticipazioni del sito Vatican News, quella di Bergoglio è una condanna senza mezzi termini di episodi e azioni "tipiche del nazismo", e del "sentimento di antipolitica" di cui "beneficiano coloro che aspirano a esercitare un potere autoritario". Dal generale al particolare insomma, un intervento che sa tanto di dichiarazione politica molto "attuale" e mirata ai danni del sovranismo, che in estate in una intervista alla Stampa lo stesso Francesco indicò come causa di guerre nonché origine dello sfacelo dell'Unione europea. Altra lettura strettamente correlata, spot all'accoglienza, ai "porti aperti" e all'integrazione degli immigrati. Non a caso, Bergoglio ha chiesto espressamente ad avvocati e magistrati a "vigilare contro le nuove "persecuzioni degli ebrei, degli zingari e delle persone di orientamento omosessuale". La stessa legittima difesa (cavallo di battaglia, in Italia, di Lega e FdI) sarebbe per il Papa unn alibi per comportamenti estremi: "Si è preteso di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere". La comunità giuridica deve invece difendere "i criteri tradizionali per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza o in sproporzionato uso della forza".
L’incubo di Ismail, picchiato prima a Velletri poi a San Vittore. Valentina Stella il 14 Novembre 2019 su Il Dubbio. Rinviate a giudizio 11 persone per le violenze subite dal tunisino nell’istituto milanese. Sarebbe stato punito per aver denunciato agenti per furti nelle cucine dell’istituto laziale che lo hanno malmenato e sono stati condannati in primo grado. Undici persone, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria del carcere milanese di San Vittore, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Milano Alessandra Cecchelli per presunte intimidazioni e pestaggi, tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, detenuto per tentato omicidio. Il processo avrà inizio per tutti il prossimo 12 febbraio davanti alla quinta sezione penale. Le accuse verso gli agenti ( non più in servizio nel carcere del capoluogo lombardo, ma in altri istituti) sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, come si legge nel capo di imputazione, il 50enne, privato "della libertà" sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato. Oltre a Ltaief, parte offesa nel procedimento è anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, il quale chiamato a rendere testimonianza ai magistrati milanesi sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato. Le aggressioni contro il recluso sarebbero state inflitte con l’obiettivo di "punire" l’uomo che nel 2011, quando era in cella a Velletri ( Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Ismail Ltaief all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere laziale. Quando si accorse che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da quel momento per lui iniziò un incubo, fino al brutale pestaggio. E violenza chiama violenza perché i pestaggi che avrebbe subito a San Vittore sarebbero avvenuti anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula in quell’altro processo. Invece Ismail, seguito a Roma dall’avvocato Alessandro Gerardi, in aula a testimoniare ci era andato e due agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione per averlo pestato a sangue. Ora si è in attesa dell’appello. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Adesso come ci spiega il legale che segue Ismail a Milano, l’avvocato Matilde Sansalone «si apre un processo complicato ma abbiamo già superato delle fasi difficili: primo passo è stato quello di superare la soglia del farsi credere e di far fare le indagini, il secondo di andare a giudizio. Non è facile essere creduti perché c’è sempre il sospetto che si adottino certi comportamenti per avere dei benefici. Ma nel nostro caso addirittura il pubblico ministero ha mandato un medico esterno al carcere. Ha refertato che Ismail presentava delle lesioni compatibili con il suo racconto soprattutto quando Ismail gli aveva detto di essere stato picchiato con un tirapugni. E da lì le indagini sono state più pressanti. E poi ci sono state anche le dichiarazioni di due testimoni oculari e di una volontaria di San Vittore. Il pm si è convinto della veridicità della sua denuncia. L’aspetto interessante è che Ismail ha scritto le lettere di denuncia dei pestaggi al giudice che aveva in mano il fascicolo in cui era imputato per tentato omicidio. E lo stesso pm che lo stava accusando ha preso in mano le redini del procedimento in cui ora è parte civile. Questa è la cosa giusta perché giudice e pm sono andati oltre, ad esempio ai numerosi precedenti di Ismail, e hanno ritenuto credibili le affermazioni del mio assistito. Hanno deciso di indagare». Quello che l’avvocato tiene a precisare è che «non bisogna criminalizzare tutta la categoria degli agenti di polizia penitenziaria. Tra l’altro Ismail è il primo che dice “non sono tutti così”».
Ismail al giudice: “Mi picchiano e mi dicono di non testimoniare”. Valentina Stella il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. In esclusiva le lettere del tunisino detenuto nel carcere milanese di San Vittore. L’avvocato Michele d’Agostino che assiste quattro degli agenti rinviati a giudizio : «ci sono parecchie incongruenze nel racconto». Undici agenti di polizia penitenziaria rinviati a giudizio per aver picchiato un detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Ismail Ltaief sarebbe stato punito per aver denunciato altri agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere laziale di Velletri e per essere stato da loro malmenato. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Per l’avvocato Alessandro Gerardi che segue il procedimento a Velletri la vicenda di Ismail Ltaief, con la sua appendice milanese, «presenta caratteristiche peggiori rispetto a quella di Stefano Cucchi, l’unica differenza è che Ismail per fortuna è ancora vivo e può raccontarla. La domanda che dovremmo porci di fronte a episodi del genere è semplice: come si possono rieducare i "delinquenti" se si usano metodi molto simili a quelli usati da chi in carcere sta dall’altra parte delle sbarre?». Quando Ismail seppe che i due agenti erano stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione scrisse una lettera all’avvocato Gerardi: “Finalmente un senso di giustizia che sembrava non arrivarmi. Sono così felice soprattutto perché ho la netta sensazione che almeno quei due non picchieranno più detenuti». Ecco, in esclusiva, alcuni stralci delle lettere che Ismail ha scritto al gip Laura Marchiondelli del Tribunale di Milano, che emise il mandato di arresto per il tentato omicidio passato in giudicato, per denunciare i presunti pestaggi a San Vittore: “alle 21: 10 un ispettore e guardie carcerarie entrano in cella, mi saltano addosso, picchiano con arti marziali dicendo che se vado a testimoniare a Velletri ucciderebbero ( vi riportiamo fedelmente quanto scritto, ndr) mia moglie visto che, secondo loro, non mi importa della mia vita. Mentre mi pestavano hanno nominato il nome e cognome di mia moglie e la via dove abitiamo. Ho male in tutto il corpo e ho paura di avere delle rotture. La prego giudice aiuto!”. In una seconda lettera Ismail scriveva: “questa notte mi hanno fatto uscire nuovamente di cella. Hanno picchiato di nuovo, uno di loro ha tirato di tasca un aggeggio che si infila nella mano, anelli di ferro. Ho vomitato sangue, se riesco ad arrivare dal medico le dirò sono "caduto" nelle scale altrimenti saranno ancora più gravi le botte seguenti”. Se tutto ciò sia vero sarà il processo a stabilirlo. Infatti secondo l’avvocato Michele D’Agostino che assiste quattro agenti «ci sono parecchie incongruenze nel racconto del detenuto, ci sono tante cose non dimostrate, noi riteniamo di avere le prove della falsità delle sue dichiarazioni, alcune persone non erano neppure presenti al momento dei fatti denunciati, e l’uomo si è reso protagonista anche di atti di autolesionismo». Intanto adesso, come ci racconta l’avvocato Matilde Sansalone, Ismail è diventato “un vero talento” nel laboratorio musicale destinato ai detenuti del carcere di Opera, finanziato dall’associazione Xmito e condotto dai maestri Stefania Mormone e Alberto Serrapiglio del Conservatorio “G. Verdi” di Milano. «La vicenda di Ismail – conclude Sansalone ci richiama all’ideale che sorregge l’attività di tutti coloro che si occupano di giustizia: il rispetto della dignità e dei diritti dell’essere umano, che sia innocente o colpevole, libero o detenuto, dinanzi agli accusatori e ai giudici. Così come lo è Ismail che anche in carcere quando suona si sente un uomo libero».
Morte in carcere. «Siamo sicuri che il nostro Amir non si è suicidato». Detenuto tunisino trovato morto nella sua cella il 26 ottobre scorso. Il racconto dei parenti: «non aveva problemi, né psicologici né fisici. Sapeva, da musulmano, che la religione vieta di togliersi la vita». Damiano Aliprandi l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. Soprattutto se stranieri, i detenuti che muoiono in carcere rimangono senza nome. Dei perfetti sconosciuti, con i familiari che vengono a sapere della morte del loro caro dopo giorni e senza la possibilità di capire il motivo della morte, con la difficoltà oggettiva – soprattutto economica – di poter affidarsi ad un avvocato. Il 26 ottobre scorso, un detenuto tunisino è stato trovato morto nella sua cella poco prima delle 13 nel padiglione B del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Secondo la notizia data dal sindacato della polizia penitenziaria si sarebbe impiccato. L’ennesimo suicidio che avviene nelle patrie galere. L’ennesimo senza nome e senza capire effettivamente cosa sia accaduto davvero. In questo caso, però, Il Dubbio ha avuto la possibilità di conoscere il suo nome grazie a una segnalazione ricevuta da Rita Bernardini del Partito Radicale. A segnalare la tragica vicenda è stata la scrittrice pugliese Maria Miraglia che, grazie alla sua associazione World Foundation for Peace la quale conta, con i due rami nazionali in Kenia e Nigeria oltre 10.000 membri, ha ricevuto una telefonata dai parenti del ragazzo ritrovato impiccato nel carcere. Il ragazzo si chiamava Amir, aveva 33 anni, ed era stato tratto in arresto il 27 agosto scorso: condannato a un anno di reclusione per un reato che avrebbe commesso anni prima. A raccontare a Maria Miraglia la storia del ragazzo è lo zio da parte materna. «Amir ha avuto una lite con alcuni ragazzi nel luogo in cui viveva a causa di attacchi razzisti contro di lui», ha riferito. «Non ha partecipato al processo perché a quel tempo era in Tunisia, dove trascorse quattro anni – ha continuato a spiegare lo zio – successivamente è tornato in Francia per lavoro, ma sfortunatamente non lo trovò e decise di tornare in Tunisia. Fu allora che uno dei suoi parenti in Italia gli disse di tornare in Italia promettendogli di trovare un lavoro per lui». Arriviamo quindi al 27 agosto, quando «è stato arrestato mentre era su un autobus per recarsi in Italia», ha detto sempre lo zio. Maria Miraglia racconta a Il Dubbio che lo zio le ha riferito di aver appreso della morte di Amir solo dopo cinque giorni, il 31 ottobre, tramite la polizia tunisina. Subentra anche il discorso religioso. Alla madre di Samir è stato detto che è morto a causa di un infarto. «Non possiamo dire alla madre che si è impiccato – ha spiegato sempre lo zio di Amir -, visto che per la nostra religione è proibito essendo considerato un crimine» . Ma credono al suicidio? Miraglia spiega a Il Dubbio che per i parenti non è possibile che sia andata così. «Siamo abbastanza sicuri che non avrebbe commesso un simile crimine», ha detto ancora lo zio. Secondo i parenti, ci potrebbero essere stati altri motivi come la tortura o le molestie sessuali. «Amir era una persona amante della vita, era gentile, non ha mai fatto del male a nessuno, sorrideva sempre e tutte le persone qui lo adoravano», ha sempre spiegato il parente. «Non soffriva di alcun problema, né psicologico né fisico. Era anche musulmano e sapeva benissimo che il suicidio è proibito dalla religione», ha aggiunto. Amir risulta essere il maggiore di tre fratelli ( Mohammed è un ingegnere e Iheb ha un Master in inglese). Sua madre è insegnante in una scuola elementare e suo padre è un pensionato dal ministero degli Interni dove ha lavorato come governatore della polizia. «Amir era il più grande dei suoi fratelli e il più caro per sua madre – ha spiegato a Miraglia sempre lo zio -. Ha vissuto in ottime condizioni e non ha mai accettato umiliazioni o che qualcuno mortificasse la sua dignità. Era anche una persona molto rispettosa, educata e gentile». I familiari non vogliono credere alla versione ufficiale data dalle autorità. «Vogliamo che si apra un’indagine seria e chiedere agli italiani di supportarci in questo dramma. Non abbiamo i mezzi per permetterci un avvocato, ma crediamo che il popolo italiano rifiuti tali crimini terribili. Confidiamo nella giustizia e crediamo che la verità verrà rivelata», chiede a gran voce lo zio di Amir. I familiari, dalla Tunisia, facendo ricerche su internet avevano anche appreso la notizia dell’arresto con l’accusa di tortura di 6 agenti penitenziari del carcere di Torino. Ovviamente gli arresti si riferiscono a eventi che sarebbero accaduti dall’agosto al novembre del 2018, ma inevitabilmente per i familiari di Amir stesso è comunque un segnale che fa capire che qualcosa sicuramente non va. Cosa è accaduto al ragazzo tunisino? Non avendo un avvocato, il rischio che la vicenda finisca nel dimenticatoio e archiviata come suicidio, è più che concreto.
Stefano Furlan e Stefano Cucchi, troviamo le differenze, scrive l'8 Febbraio 2019 l'Indiscreto. Oggi sono 35 anni dall’episodio che costò la vita a Stefano Furlan. 8 febbraio 1984. La vicenda di questo ragazzo triestino è sempre nella nostra memoria, anche se non certo per merito dei media, che nelle loro rievocazioni dei cosiddetti “morti di calcio” (l’ultimo Daniele Belardinelli) si dimenticano sempre rigorosamente di Furlan, al quale è attualmente intitolata la curva Sud della Triestina, allo stadio Rocco. Partiamo dalla fine: Stefano Furlan è morto l’1 marzo del 1984 in seguito alle ferite dovute al pestaggio da parte di un agente di polizia, l’8 febbraio precedente. Contrariamente a quanto spesso avviene in questi casi, il ventenne Furlan non se l’era cercata: dopo la fine di Triestina-Udinese di Coppa Italia, giocata al vecchio Grezar, stava andando verso la sua auto, quando alcuni poliziotti, in particolare uno (quello che poi sarebbe stato condannato), vedendo la sua sciarpa pensarono di trovarsi di fronte a un ultras della Triestina (e lui ultras lo era davvero, le partite le vedeva in curva) coinvolto in tafferugli con quelli dell’Udinese. Tafferugli di pochissimo conto, fra l’altro, dopo una partita tranquilla finita 0-0, niente in rapporto a un’epoca in cui gli stadi erano davvero pericolosi (altro caso di anni Ottanta non da rimpiangere), ma al di là di questo il ragazzo non vi aveva preso parte nemmeno come spettatore. Furlan si trovava soltanto nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo. Il risultato fu una manganellata alla testa (come evidenziato dalle fratture craniche), seguita dall’interrogatorio in Questura, dove (così raccontò lui alla madre) avrebbe preso altre botte. Il giorno dopo si sentì male e dopo tre settimane in coma morì. Nel frattempo si era giocato il ritorno di quell’ottavo di finale e Zico con una doppietta aveva dato la qualificazione all’Udinese…Ne nacque un caso che stranamente ebbe un’eco quasi solo locale: il poliziotto che lo aveva colpito fu condannato a un anno e dopo rientrò in servizio, addirittura sempre a Trieste. Abbiamo scritto ‘stranamente’, ma di strano c’era poco: un clamoroso errore da parte della polizia, con il ‘se l’era un po’ cercata’ impossibile da applicare anche per i media più velinari. Da ricordare sempre che le notizie arrivano nel 99% da magistrati e forze dell’ordine, senza contare che molti italiani (noi fra questi) hanno fiducia a prescindere nella Polizia e quindi tendono a minimizzare eventuali suoi abusi. Non è che volessimo rivangare una vecchia storia, sia pure con il pretesto di una data, ma sottolineare la incredibile differenza di trattamento giudiziario e mediatico con il caso di Stefano Cucchi: come dire che un tifoso di calcio, per non dire un ultras, è meno degno di tutela rispetto a uno arrestato per spaccio di droga. Differente anche il comportamento dello Stato: nel caso di Furlan, in cui la polizia era indifendibile sotto ogni profilo e tutto era chiaro fin dall’inizio grazie a testimoni, si cercò (con successo) di indirizzare le responsabilità di una persona, che poi comunque ne uscì senza troppi danni, mentre nel caso Cucchi, pieno di zone d’ombra, la Polizia ha cercato di difendersi, in maniera legale e meno legale. In ogni caso con Cucchi il giornalista collettivo ha indirizzato l’opinione pubblica in una direzione colpevolista fin da subito, generando anche la solita letteratura da linciaggio. Quindi? Ci sono morti mediaticamente di serie B e Stefano Furlan è purtroppo uno di questi.
La Cedu: va tutelato chi è sottoposto a controlli di polizia. La Cedu ha ribadito che il ricorso alla forza fisica, che non sia imposto da comportamenti particolari, svilisce la dignità umana, scrive Damiano Aliprandi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Le persone sottoposte a fermo di polizia o che sono semplicemente condotte o invitate a presentarsi a un posto di polizia al fine dell’identificazione o dell’interrogatorio, e, più in generale, tutte le persone sottoposte al controllo della polizia o di un’analoga autorità, si trovano in una situazione di vulnerabilità e le autorità hanno conseguentemente il dovere di proteggerle. È un principio più volte ribadito dalla Corte europea di Strasburgo dei diritti umano (Cedu) in diverse sentenze (non solo per quanto riguarda l’Italia) relative ai maltrattamenti delle forze di polizia e autorità pubbliche in generale. Il caso di Arafet Arfaoui, il 31enne di origini tunisine, accusato di aver utilizzato una banconota falsa e deceduto giovedì scorso in un money transfer di Empoli durante un fermo di polizia, ha evocato altre circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Diversi casi di maltrattamento finiscono con l’archiviazione e in alcune circostanze, la stessa Corte Europea ha stigmatizzato tale azioni, perché «le autorità devono sempre compiere un serio tentativo di scoprire che cosa sia accaduto e non devono fare affidamento su conclusioni frettolose o infondate per chiudere le indagini o utilizzarle come base delle loro decisioni». Un mese fa, la Cedu ha presentato al Parlamento la sua relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce nei confronti dell’Italia, con riferimento al 2017. C’è un capitolo a parte dove viene ricordata la sentenza Pennino Tiziana contro l’Italia. La ricorrente fu fermata, mentre era alla guida della sua auto, dalla polizia municipale di Benevento, che aveva ritenuto, dalle condizioni di guida (frenate improvvise e bruschi cambi di corsia), che fosse in condizioni di alterazione per assunzione di alcool. Ne seguì un alterco con gli agenti che, convinti dello stato di ebbrezza della signora, chiesero l’intervento di una pattuglia della polizia stradale per sottoporla ad un test con l’etilometro. A causa dello stato di agitazione in cui versava non fu possibile effettuare il test e pertanto la signora Pennino fu condotta presso il Comando di Polizia municipale per la redazione del verbale di contestazione per guida sotto l’influenza dell’alcool. La condanna da parte della Cedu si basa sui fatti che si svolsero da questo momento in poi, sulle cui concrete modalità di svolgimento sono state registrate due versioni opposte: l’una, prospettata dalla signora Pennino sia in sede di denuncia nazionale che di ricorso alla Corte europea, l’altra, narrata in termini concordanti dagli agenti e funzionari di Polizia municipale e stradale. La ricorrente ha sostenuto di aver subito, presso il Comando di Polizia, maltrattamenti e ferite dagli agenti presenti (la frattura del pollice, a causa delle manette, ed ecchimosi alla coscia sinistra, ai polsi e al dorso delle mani sono state confermate dai referti medici prodotti dalla ricorrente che, dopo il rilascio, si era recata in ospedale). La versione dei fatti contenuta nel verbale redatto congiuntamente dall’ufficiale in servizio presso il Comando e dai due agenti riporta che la Pennino si trovava in un grave stato di agitazione che richiedeva un’azione di contenimento con l’uso di braccialetti contenitivi. La ricorrente sporse denuncia nei confronti degli agenti che l’avevano fermata durante la guida e di quelli presenti presso il Comando di Polizia, affermando di essere stata aggredita e picchiata, di aver subito lesioni personali, abuso d’ufficio e minacce. Fu avviata un’indagine per la quale, tuttavia, il Pm chiese l’archiviazione, confermata dal GIP. Di contro, la ricorrente fu accusata di diversi reati, fra i quali, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e guida sotto l’influenza dell’alcool, nonché lesioni personali a un agente di polizia. Sottoposta a processo per tali fatti, la Pennino scelse il patteggiamento e fu condannata ad una pena lieve. Nel ricorso alla Cedu la signora Pennino ha lamentato di essere stata maltrattata dalla polizia e che l’indagine relativa alle sue accuse non era stata esauriente né efficace. La Corte ha preliminarmente ribadito che, secondo la propria giurisprudenza, qualora una persona sia privata della libertà, o, più in generale, debba affrontare gli agenti delle forze dell’ordine, il ricorso alla forza fisica, che non sia rigorosamente imposto dal comportamento della stessa, svilisce la dignità umana e costituisce una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Convenzione. Ha ribadito, inoltre, che tutte le accuse di maltrattamenti contrari all’articolo 3 devono essere corroborate da prove ‘ al di là di ogni ragionevole dubbio’, ricordando, in relazione alle prove, che, qualora i fatti siano interamente, o in gran parte, di esclusiva conoscenza delle autorità, come nel caso di persone che si trovino in custodia sotto il loro controllo, sorgono forti presunzioni fattuali in ordine alle lesioni verificatesi nel corso di tale detenzione. L’onere della prova, in questi casi, spetta quindi al Governo, che deve fornire una spiegazione soddisfacente e convincente, conducendo indagini approfondite e producendo solide prove di accertamento dei fatti. Ciò è giustificato dal fatto che le persone sottoposte a custodia si trovano in una posizione vulnerabile e le autorità hanno il dovere di proteggerle. La Corte ha ricordato anche che l’articolo 3 della Convenzione pone a carico dello Stato l’obbligo positivo di formare le proprie forze dell’ordine in modo da garantire un elevato livello di competenza nel loro comportamento. Archiviazione frettolosa e standardizzata. Un altro aspetto che la Corte ha ritenuto problematico in ordine all’esaustività delle indagini condotte a livello interno, è la motivazione estremamente succinta della richiesta di archiviazione del procedimento formulata dal pubblico ministero, che appariva redatta in modo standardizzato, e della decisione del giudice per le indagini preliminari in tal senso. Ha rilevato, infine, che il GIP non aveva motivato il diniego opposto alla richiesta della ricorrente di ulteriori atti d’indagine. La Corte ha, quindi, concluso che vi è stata violazione dell’articolo 3, sotto il duplice profilo: procedurale, dal momento che le autorità inquirenti avevano omesso di condurre con la diligenza necessaria le indagini in relazione alle accuse formulate dalla ricorrente, sulle circostanze relative all’uso della forza da parte della polizia, durante il tempo in cui era trattenuta presso il comando di polizia e, conseguentemente, sulla necessità dell’uso di tale forza; sostanziale, poiché il Governo non aveva adempiuto al proprio onere di fornire una prova adeguata e soddisfacente, nè chiarendo le circostanze in cui si erano prodotte le lesioni subite dalla ricorrente né dimostrando che l’uso della forza era rigorosamente necessario nel caso di specie. Casi simili sono ricorrenti. La Corte ha ricordato che sono sotto monitoraggio altre situazioni, come la sentenza Alberti c. Italia del 24 giugno ( ove l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per i maltrattamenti subiti dall’interessato durante l’arresto, eseguito dai Carabinieri), e per il quale il Segretariato ha sollecitato ulteriori informazioni, concernenti, in particolare, le eventuali procedure disciplinari avviate nei confronti dei responsabili dei trattamenti vietati dall’articolo 3 della Convenzione. In sede di predisposizione del piano d’azione per l’esecuzione della pronuncia in esame, la Corte dedica particolare attenzione alle informazioni concernenti i procedimenti disciplinari previsti, la loro applicazione, l’eventuale adozione di misure cautelari (quali la sospensione dal servizio), l’eventuale riapertura delle indagini. Tali informazioni sono state richieste ai competenti Uffici ministeriali e giudiziari e se ne darà conto nella prossima Relazione al Parlamento.
Botte in carcere a San Gimignano: 15 agenti indagati per abusi e torture. Le Iene il 22 settembre 2019. Avrebbero picchiato e umiliato un detenuto marocchino. Sono i primi dipendenti pubblici che devono rispondere del reato di tortura. Con Matteo Viviani ci siamo occupati delle violenze in carcere che avrebbe registrato un altro detenuto, Rachid. Sono accusati anche di tortura, i 15 agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano in provincia di Siena. Avrebbero picchiato e umiliato un detenuto tunisino costretto anche ad abbassarsi i pantaloni mentre veniva insultato con frasi razziste. Così per la prima volta dei dipendenti pubblici devono rispondere del reato di tortura introdotto due anni fa. I fatti risalirebbero a un anno fa. È l’11 ottobre 2018, quando i 15 agenti avrebbero accerchiato un 31enne di nazionalità tunisina, in isolamento per scontare un anno di reclusione per reati legati allo spaccio di droga. Le guardie penitenziarie, secondo le accuse dei pm, vanno a prenderlo per trasferirlo da una cella a un’altra, lo trascinano e iniziano a picchiarlo. "Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte", racconta un detenuto di San Gimignano. "Lo picchiavano con pugni e calci, una guardia gli ha messo un ginocchio alla gola mentre era a terra". La procura di Siena ha chiuso ora indagini definite “complesse e delicate”: in 15 sono accusati tortura, minacce, lesioni aggravate, falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale. Quattro agenti dei 15 autori della tortura sono già interdetti dall’attività giudiziaria. Con Matteo Viviani ci siamo occupati di un altro caso di torture nelle prigioni italiane, come potete vedere nel servizio qui sopra. Rachid Assarag, detenuto marocchino, ha raccontato le botte e i soprusi che avrebbe subìto, registrate dal suo telefonino. Un episodio gravissimo che sarebbe avvenuto in particolare nel carcere di Parma il 14 febbraio 2011. Rachid ancora una volta registra i lamenti disperati di un detenuto in cella, che si sta sentendo male. “Si ingoiava la lingua”, sostiene il detenuto. “Ho chiamato la guardia e ho detto di chiamare un dottore ma mi ha risposto di no, che stava bene”. Una risposta che gli sarebbe stata data anche dall’agente che dà il cambio al collega. Passano ore, anche il secondo agente, racconta ancora Rachid, smonta di turno mentre il medico continua a non essere avvisato. Arriva la terza guardia e Rachid insiste, ma anche quest’ultima non avrebbe fatto nulla. Al mattino il detenuto muore. Quando Rachid chiede spiegazioni all’ultimo agente di custodia, dicendogli che un suo intervento avrebbe potuto salvarlo, lui avrebbe risposto: “Pesa cinquanta chili la cornetta. Ci vuole troppo tempo, io non avevo voglia di lavorare, mettila così”. Il tutto è stato registrato. Le Procure di Prato e Firenze hanno indagato in totale 7 agenti di polizia penitenziaria per questo episodio.
Torture in cella, sospesi quattro agenti del carcere di San Gimignano. Il Dubbio il 22 Settembre 2019. Sospensione immediata per i quattro poliziotti penitenziari destinatari di provvedimento di interdizione da parte dell’autorità giudiziaria. Sospensione immediata per i quattro poliziotti penitenziari destinatari di provvedimento di interdizione da parte dell’autorità giudiziaria e doverose valutazioni disciplinari per i quindici che hanno ricevuto un avviso di garanzia. Non si fa attendere la reazione del Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria informato dalla Procura della Repubblica di Siena della conclusione di una attività di indagine svolta in collaborazione con la stessa Polizia Penitenziaria e riguardante presunti maltrattamenti ai danni di un cittadino tunisino operati agenti in servizio presso la Casa di Reclusione di San Gimignano, ai quali è stato contestato, fra gli altri, il reato di tortura. L’indagine, complessa e delicata, ha interessato 15 poliziotti penitenziari in servizio presso l’istituto toscano e trae origine dalla denuncia fatta da alcuni detenuti su presunti pestaggi avvenuti all’interno del carcere. Le accuse formulate dalla Procura di Siena vanno dalle minacce alle lesioni aggravate, al falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale, alla tortura. Nell’avviare l’iter dei provvedimenti amministrativi di propria competenza, il Dap confida in un accurato e pronto accertamento da parte della magistratura, ma al tempo stesso esprime la massima fiducia nei confronti dell’operato e della professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.
San Gimignano, sospesi 4 poliziotti penitenziari accusati di torture. Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 da Corriere.it. Minacce, lesioni aggravate, falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale e tortura. Sono queste le accuse formulate dalla Procura di Siena contro 15 poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di San Gimignano. L’episodio trae origine dalla denuncia fatta da alcuni detenuti su presunti pestaggi avvenuti all’interno dell’istituto toscano ai danni di un uomo tunisino nell’ottobre del 2018. La vittima infatti si era rifiutata di denunciare gli agenti. Per quattro agenti è stata richiesta la «sospensione immediata» da parte del Dap — Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che dipende dal Ministero della Giustizia — e tutti e quindici hanno ricevuto un avviso di garanzia. Nell’avviare l’iter dei provvedimenti amministrativi di propria competenza, il Dap confida «in un accurato e pronto accertamento da parte della magistratura», ma al tempo stesso esprime «la massima fiducia nei confronti dell’operato e della professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che svolgono in maniera eticamente impeccabile il loro lavoro».
Da Nextquotidiano.it il 22 settembre 2019. Quattro sono i poliziotti sospesi dal servizio per quattro mesi secondo quanto disposto dal gip Valentino Grimaldi e 15 in totale gli indagati per il pestaggio di un detenuto di nazionalità tunisina nel carcere di San Gimignano. Il reato ipotizzato è quello di tortura. «Gli hanno abbassato i pantaloni», lui «è caduto» e hanno continuato a picchiarlo. «Sentivo le urla» racconta un detenuto, «poi lo hanno lasciato svenuto» in un’altra cella. Nell’ordinanza si parla di «trattamento inumano e degradante», di «violenza» e «crudeltà», hanno raccontato altri, tra cui alcuni condannati per camorra. Racconta oggi Repubblica che il detenuto tunisino non ha mai denunciato il pestaggio, ha rifiutato di farsi visitare dai medici. E quando gli hanno chiesto del taglio sul sopracciglio ha detto di essere caduto in cella. Chi indaga pensa che lo abbia fatto per paura. A raccontare prima a un’operatrice penitenziaria, poi a scrivere direttamente delle lettere al tribunale di sorveglianza sono stati altri detenuti che si trovavano l’11 ottobre 2018 in quello stesso braccio dell’isolamento. Da lì partono le indagini. Cinque, tutti provenienti dalla sezione alta sicurezza, quindi in carcere per reati gravi. Camorristi e trafficanti di droga. Uno di questi (in isolamento perché trovato con un cellulare in cella, cosa vietata dal regolamento carcerario) ha riferito di aver assistito al pestaggio dallo spioncino e di essere stato colpito da una guardia con un pugno alla fronte: due giorni di prognosi. Altri hanno raccontato di minacce da parte delle guardie: «Adesso vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano». O di frasi, contro il detenuto tunisino: «Perché non te ne torni al tuo paese?» «Non ti muovere o ti strangolo», «ti ammazzo». Ad aiutare gli inquirenti nella ricostruzione di quanto accaduto, ci sono le immagini delle telecamere, benché siano schermate dai corpi degli agenti e le intercettazioni. Fra i reati contestati agli agenti, ci sono le minacce, le lesioni e anche la falsità ideologica per aver tentato di “addomesticare” i rapporti e seppellire le prove del pestaggio con pressioni e intimidazioni. Quello che sembra emergere dai fogli dell’inchiesta è che non si sarebbe trattato di un episodio isolato.
Da “la Repubblica” il 23 settembre 2019. Non un caso solo, seppure grave, seppure degno di far ipotizzare alla procura di Siena il reato di tortura. Sarebbero anche altri gli episodi di violenze sui detenuti ad opera della polizia penitenziaria nel carcere di San Gimignano, che allungano un' ombra inquietante sulla struttura. «Il problema è che lì i fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Hai visto come funziona? Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei», dice uno degli indagati a un collega nel gennaio scorso, prima di un' audizione al Dap. E proprio dal Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria si elencano più pestaggi. Francesco Basentini, capo del Dap: «I fatti di cui parliamo sarebbero concentrati in un ambito di tempo abbastanza ristretto e coinvolgerebbero due o tre detenuti del carcere di San Gimignano. Fatti abbastanza seri e gravi, per questo si è giunti ad adottare quel provvedimento di sospensione». Non lavorano più, per ora, quattro dei 15 poliziotti finiti nell' indagine di Siena partita dalle denunce di chi ha assistito al violento pestaggio di un tunisino di 31 anni o ne ha viste le conseguenze. È una delle prime volte che in Italia viene contestato il reato di tortura, in questo caso affiancato alle accuse di minacce, lesioni e falso. «Ovviamente siamo nella fase delle indagini, questa è la contestazione cautelare», prosegue Basentini, che promette trasparenza. Mentre i sindacati aggiungono che la penitenziaria non ha «nulla da nascondere». L'indagine non sembra però cogliere di sorpresa il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone: «Era ora che scoppiasse il bubbone. Da anni denunciavamo la situazione intollerabile del carcere, che ha origini nella pessima decisione di costruirlo in un luogo isolato, malamente raggiungibile, con gravi problemi addirittura nella fornitura dell' acqua. I fatti che la procura sta approfondendo risalgono a circa un anno fa e mi risulta che le prime indagini furono fatte dall' amministrazione penitenziaria in collaborazione con la procura, quindi non c' è stato tentativo di nascondere l' episodio, gravissimo». Il sindaco di San Gimignano, Andrea Marrucci, rincara la dose: «Da troppo tempo la casa di reclusione è abbandonata al suo destino, senza direzione stabile e da mesi senza comandante e vice comandante del corpo di polizia penitenziaria. Con la parlamentare Susanna Cenni abbiamo denunciato le difficoltà di agenti e detenuti, le carenze infrastrutturali e chiesto interventi urgenti agli enti preposti. Richiesta sfociata in una esplicita lettera di misure urgenti al ministro».
Michele Bocci per “la Repubblica” il 23 settembre 2019. L'assistente capo è contrariato. Alle 10 di mattina di un lunedì del gennaio scorso deve recarsi a Firenze, al Dap, «per quei fatti che sono successi ad ottobre - rivela a un collega indagato come lui - Cioè, andare a perdere una giornata lavorativa per andare eventualmente a giustificare l' operato delle persone, per uno che bisognerebbe pigliare la tanica di benzina, buttargliela addosso e dargli fuoco». Si riferisce al detenuto tunisino che è stato pestato da 15 persone San Gimignano. Gli agenti hanno fatto di tutto per non farsi vedere mentre tiravano calci e pugni: «Buona parte del personale operante si è posto in modo da creare una barriera all' inquadratura della telecamera», scrivono gli inquirenti. «Alla fine credevo che fosse svenuto - ha testimoniato un altro detenuto che ha in parte assistito alla scena - Un' agente, nel momento in cui si trovava a terra, diceva agli altri: "Fermi, così lo ammazzate"». Sembra una fine drammaticamente possibile a leggere la ricostruzione degli investigatori, secondo i quali quando viene riaccompagnato in cella, il detenuto cade e un assistente capo di 120 chili gli sale addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringe per un braccio e un terzo lo afferra per il collo. Ma dentro il carcere di San Gimignano, dove sono reclusi anche camorristi, 'ndranghetisti e trafficanti, le cose sarebbero difficili anche per altri detenuti. Soprattutto la notte. «Entravano in tanti nelle celle e avevamo paura - ha raccontato un testimone - In isolamento dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa». E un altro: «Spesso vengono gli agenti nelle celle e cercano di provocare per vedere se i detenuti reagiscono». Del resto uno degli indagati avvertiva: «Fate bene a non dormire la notte, torniamo in ogni momento, pedofili, mafiosi di merda, infami». Sono queste parole, e anche alcune frasi piuttosto chiare degli stessi intercettati («I fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei») a far ritenere che gli episodi violenti potrebbero essere stati tanti. Ad colpire è l' inquietudine con cui alcuni degli stessi coinvolti si riferiscono ai due o tre considerati i leader del gruppo. Dice un agente: «Lui, e anche l' altro, sono mine vaganti. Perché anche lui quando va dentro perde il capo. Io te lo dico. Perde completamente la testa». Qualcuno in servizio beve pure. «Perdono la testa anche perché spesso vanno carichi, non ragionano già di loro, figurati quando sono carichi ». E in effetti uno dei violenti si sfoga così con un compagno a gennaio, mesi dopo l' episodio al centro dell' indagine. «Sto troppo nervoso - dice - io mi arrabbio, hai capito o no? Questo continua a fare il malandrino, l' altra sera lo stavo ammazzando, io l' ho preso per i capelli dietro al collo, ho detto: io te la svito la testa, uomo di merda che sei. Hai capito che io ti ammazzo qui a terra? A casa nostra fai il malandrino?». Alcuni membri del gruppo avevano rapporti pessimi con il resto del personale impiegato in carcere, soprattutto con chi non rispettava le loro regole un po' omertose. Una dottoressa è stata presa di mira perché refertando le condizioni del tunisino pestato ha riportato le sue dichiarazioni. Non avrebbe dovuto, secondo uno degli agenti, che più volte ha polemizzato con lei. Durante una discussione, tra l' altro, le ha toccato, pare accidentalmente, il seno con una mano, lei ha protestato e lui l' ha presa ancor più di mira, offendendola pesantemente in varie occasioni. La paura dei prigionieri: "Guardie violente, dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa".
Quei pestaggi a San Gimignano che questo giornale denunciò un anno fa. Damiano Aliprandi il 24 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione di quattro agenti, sono 15 gli indagati. Il garante nazionale Mauro Palma: «il dap poteva intervenire prima senza attendere l’esito delle indagini». Il caso di san Gemignano è scoppiato. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione immediata di quattro agenti penitenziari perchè accusati di tortura effettuata nei confronti di un detenuto straniero nel carcere di San Gemignano. Sono indagati in tutto 15 agenti penitenziari non solo pèer il reato di tortura (613 bis) e lesioni personali, ma anche falso ideologico, visto che i filmati della videosorveglianza hanno svelato che il loro racconto non combacerebbe con la realtà dei fatti. Il provvedimento del Gip dopo le indagini della Procura è di quasi 500 pagine ricostruisce la vicenda con tanto di elementi intercettazioni comprese che comproverebbero il reato commesso. Ricordiamo che la notizia del presunto pestaggio è stata riportata dalle pagine de Il Dubbio circa un anno fa. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, si è subito attivato segnalando il caso al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura. Questo sarebbe stato, molto probabilmente, un segnale forte, di intransigenza verso eventuali abusi. Questione ribadita dal garante nazionale Mauro Palma durante la conferenza stampa di ieri, che ha aggiunto una ulteriore nota negativa: ovvero che la direzione del carcere per un determinato periodo non ha segnalato il caso al Dap. C’è voluta la professionalità e il coraggio di una educatrice che ha intrapreso di sua spontanea volontà, l’iniziativa di mandare una nota al dipartimento. «Non sono episodi che rappresentano la consuetudine» ha precisato sempre Palma, ma «nello stesso modo bisogna essere reattivi quando arriva una denuncia di presunti abusi, ma soprattutto preventivi». Sono diversi i casi di presunte violenze. Non solo nel carcere di San Gimignano, ma anche ad esempio quello di Monza dove è intervenuta l’associazione Antigone, mandando un esposto alla procura, così come altri istituti dove è in corso un procedimento giudiziario. Tra i vari casi segnalati dal Garante nazionale, uno è quello di Tolmezzo, dove la video sorveglianza dimostrerebbe che alcuni agenti penitenziari avrebbero allagato la cella con idrante, lasciando il detenuto bagnato per tutta la notte. Ma, stando ad oggi, la Procura competente ancora non ha notificato eventuali avvisi di garanzia e quindi le indagini sono ancora in corso per verificare l’accaduto. Il caso è stato raccontato sempre sulle pagine de Il Dubbio.
LA DOTTORESSA INTIMIDITA PER I REFERTI. Ma torniamo a San Gimignano e su quello che sarebbe accaduto nel carcere toscano l’ 11 ottobre scorso. Come riportato in esclusiva da Il Dubbio il 23 novembre del 2018, c’è stata la lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore del presunto pestaggio nei confronti dell’uomo extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha riferito di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. Gli stessi inquirenti, confermando l’accaduto, scrivono che quando venne riaccompagnato in cella, il detenuto cadde e un assistente capo di 120 chili gli salì addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringeva per un braccio e un terzo lo afferrava per il collo. L’altra conferma, come riportato sempre dal nostro giornale il 7 dicembre scorso, è arrivata dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, ha trasmesso la notizia di reato alla competente Procura per le indagini. La dottoressa, per aver fatto il suo dovere, avrebbe ricevuto delle intimidazioni come ha chiarito Emilio Santoro dell’associazione l’Altro diritto e riportato nero su bianco anche dagli inquirenti. Un ruolo, il suo, non così scontato. Non sempre i medici denunciano. «Ma non per omertà – spiega in conferenza stampa Palma-, ma perché sono figure che cambiano spesso e quindi sono portate a ridimensionare alcuni referti». I documenti redatti dalla dottoressa si riferiscono a tre detenuti visitati il giorno dopo i presunti pestaggi. Un detenuto riferisce di avere un forte mal di testa e presenta una ecchimosi al livello frontale destro, la sua versione è che sarebbe stato aggredito da un agente il quale, secondo quanto riferito, puzzava di alcol. Il detenuto in questione sostiene che avrebbe aperto il blindo per chiedere agli agenti di non picchiare l’extracomunitario e per questo motivo avrebbe ricevuto un pugno in fronte. Un altro detenuto racconta addirittura che diversi agenti sarebbero entrati in cella insultandolo e minacciandolo. Uno di loro gli avrebbe messo le mani per stringergli il collo e lui, per liberarsi, sarebbe caduto sul letto. Il detenuto però non presenta nessun segno al collo. Un altro recluso, invece, presenta una ferita abbastanza grande al livello dell’occhio, ma ha riferito che se la sarebbe procurata cadendo in un posto non precisato e ha rifiutato di medicarsi. In realtà il Garante locale del carcere di San Gimignano – rappresentato dall’associazione L’Altro Diritto -, una volta avuta la segnalazione, aveva contattato la direzione del penitenziario. Ma quest’ultima gli ha fatto sapere che non c’era stato alcun pestaggio e tutta la documentazione era al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ma venerdì 13 settembre, sono arrivati gli avvisi di garanzia. La procura di Siena ha indagato accuratamente, anche le immagini delle telecamere in parte schermate appositamente dai corpi degli stessi agenti – che confermano parzialmente l’avvenuto pestaggio.
«UNA RISERVA A SÉ STANTE». «Era ora che scoppiasse il bubbone», ha fatto sapere il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone. Ma cosa intendeva? Raggiunto da Il Dubbio, spiega che il grave episodio che sarebbe avvenuto al carcere toscano è il frutto di una situazione devastante che riguarda l’intero sistema penitenziario. «Parto proprio dall’esempio del carcere di San Gimignano – spiega Corleone -, essendo stato costruito in aperta campagna, lontano da tutti e tutto, dove gli stessi familiari dei detenuti che provengono da regioni diverse sono costretti ad organizzarsi con un pullman». Un carcere che ha cambiato spesso il direttore, perché nessuno auspica di andarci. «Non avendo una direzione forte e stabile, alla fine il potere diventa, di fatto, autogestito all’interno del carcere». Ma parliamo di un istituto che non ha nemmeno l’acqua potabile, tanto che il Garante è riuscito ad ottenere come magra soluzione la vendita di bottigliette di acqua minerale a basso prezzo. È un carcere che si trova tra i boschi, dove è facile che salti la corrente e problemi di collegamenti telefonici a causa degli eventi atmosferici. Il Garante Corleone, per rendere bene l’idea, definisce l’istituto toscano una «riserva a sé stante». Anche il garante nazionale Palma, in conferenza, ha parlato di tutte queste criticità che riguardano il carcere toscano. Oltre al fatto che vige il problema del sovraffollamento e, dato significativo, c’è un aumento esponenziale dei detenuti che compiono gesti di autolesionismo. Il garante regionale Franco Corleone, sempre a Il Dubbio, estende il discorso sull’intero sistema penitenziario, perché «a causa del governo precedente c’è stato un arretramento culturale per quanto riguarda il senso della pena». E aggiunge: «Mi auguro che ci siano segnali di discontinuità con l’attuale governo, perché finora ancora non li ho visti».
Torino, arrestati sei agenti della penitenziaria: sono accusati di torture ai detenuti. Sarebbero stati protagonisti di una serie di episodi di violenze tra aprile 2017 e novembre 2018 al carcere Lorusso e Cutugno. Federica Cravero il 17 ottobre 2019 su La Repubblica. Sono accusati di ripetuti atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti i sei agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere Lorusso e Cutugno di Torino che sono stati arrestati stamattina e ora sono ai domiciliari. L’ordinanza di custodia cautelare è stata eseguita dagli stessi colleghi del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria. Le indagini sono state condotte dal pm Francesco Saverio Pelosi, che ha ricostruito una serie di episodi di violenza tra aprile 2017 e novembre 2018. A far scattare l’inchiesta è stata una segnalazione di Monica Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, che era venuta a conoscenza di uno di quegli episodi in occasione di un colloquio in carcere. Il reato contestato alle sei guardie è il 613 bis che “punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale”. L’attività d’indagine, che riguarda non solo le persone oggi sottoposte a misura cautelare, ma anche altri indagati a piede libero, è ancora in corso per accertare eventuali responsabilità penali di altri soggetti e scoprire eventuali altri episodi analoghi, oltre a quelli finora denunciati. E per questo, essendoci il rischio di inquinamento delle prove, sono state applicate le misure cautelari.
Simona Lorenzetti per il “Corriere della sera” il 18 ottobre 2019. Detenuti costretti a rimanere in piedi per ore e a declamare a voce alta le colpe di cui si erano macchiati. Detenuti picchiati, insultati, umiliati. Succedeva nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Nel blocco «C», quello degli «incolumi», dove scontano la condanna gli uomini responsabili di crimini sessuali. In quei corridoi, spesso di notte, alcuni agenti di polizia penitenziaria infliggevano ai reclusi le punizioni che ritenevano più adeguate. Forti di un senso di impunità, agivano al di sopra della legge e della giustizia dei tribunali autoproclamandosi «giustizieri morali», come li definisce il gip nell' ordinanza. Ora sei di loro, tutti trentenni, sono finiti agli arresti domiciliari con l' accusa di tortura, perché «con violenza e minacce gravi, nonché agendo con crudeltà, cagionavano acute sofferenze fisiche nonché trauma psichico» a sei detenuti. Un' altra decina di persone è indagata per non aver impedito gli abusi o per aver preso parte in maniera marginale alle spedizioni punitive. L' inchiesta ha mosso i primi passi nel dicembre dello scorso anno, dopo la denuncia della garante delle persone private della libertà del Comune di Torino, Monica Gallo, che aveva raccolto lo sfogo di un detenuto: l' uomo le aveva confidato di essere stato maltrattato da tre agenti. Le guardie lo avevano brutalmente schiaffeggiato. E in un' altra occasione lo avevano costretto a rimanere faccia al muro per 40 minuti e a ripetere a voce alta «sono un pezzo di m...». Partendo da quella denuncia, i pm Enrica Gabetta e Francesco Pelosi hanno ricostruito numerosi episodi avvenuti tra l' aprile del 2017 e il novembre del 2018. Lo spaccato che emerge è una narrazione di crudeltà e sadismo. «Vivevo con l' ansia di incontrarli», ha ammesso una vittima. I reclusi venivano «battezzati» al loro arrivo. Il messaggio era chiaro fin da subito: «Ti renderemo la vita molto dura, ti faremo passare la voglia di stare qua dentro». E poi le botte, le perquisizioni arbitrarie delle celle fino a distruggere gli effetti personali o a imbrattare lenzuola e vestiti con il detersivo per i piatti. I detenuti hanno raccontato di come gli agenti li portassero in aree discrete, senza telecamere: dopo essere stati costretti a denudarsi, venivano colpiti nelle parti intime o sul costato. Scrive il gip: gli indagati si sono comportati con «spudorato menefreghismo e senso di superiorità verso le regole del loro pubblico ufficio», dimostrando di «non credere nell' istituzione di cui fanno parte». «Nei casi come questo non resta che augurarsi che si faccia al più presto chiarezza - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione per i diritti dei detenuti -. Avevamo più volte segnalato come il clima nelle carceri stesse peggiorando». «Uno Stato civile punisce gli errori, ma che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto mi fa girare le palle terribilmente. La mia massima solidarietà a quei sei padri di famiglia», è invece il commento del leader della Lega Matteo Salvini.
Claudio Laugeri per “la Stampa” il 18 ottobre 2019. «Per quello che hai fatto, devi morire qui». L' umiliazione, gli insulti e le minacce. Dopo le botte. Era il trattamento riservato a una mezza dozzina di detenuti delle quattro «sezioni incolumi», nel padiglione C del carcere «Lorusso e Cutugno» di Torino. Da ieri mattina, sei agenti di polizia penitenziaria sono agli arresti domiciliari per tortura, reato introdotto due anni fa nel codice penale. La pena è dai cinque ai dodici anni di carcere. A indagare sugli agenti sono stati i colleghi del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Gli episodi sono avvenuti tra aprile 2017 e novembre 2018. Riguardano una mezza dozzina di detenuti, ma il sospetto degli inquirenti è che il fenomeno fosse più esteso. L' indagine è scaturita dalla segnalazione della Garante comunale per i diritti dei detenuti, Monica Cristina Gallo. È stata lei a raccogliere le confidenze di alcuni carcerati, tutti sotto i 40 anni e arrestati per reati sessuali. Pedofili e stupratori, la categoria più odiata in carcere. E sovente, anche fuori. Per questo, gli agenti avevano deciso di fare i «vigilantes», i «giustizieri» che applicavano pene anche prima della sentenza. Sapevano che quei personaggi non sono amati. Ma soprattutto, immaginavano che per loro sarebbe stato difficile trovare sostegno, dentro e fuori dal carcere. L' umiliazione era continua. A uno avrebbero spruzzato detersivo per i piatti sul materasso e strappato le mensole dal muro, un altro sarebbe stato costretto a dormire sull' asse di metallo del letto, senza il materasso, un altro ancora ignorato quando ha chiesto una visita medica. Poi insulti e minacce. Tutto reso ancora più cupo dai toni, dalla veemenza. Violenza verbale. «Figlio di puttana, ti devi impiccare», dicevano a uno. Per un altro, il trattamento era costringerlo a ripetere «sono un pezzo di merda». Un altro ancora veniva preso a calci nel sedere mentre scendeva le scale, con la litania di sottofondo: «Ti ammazzerei e invece devo tutelarti». C' è questo e altro nella quarantina di pagine dell' ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Sara Perlo, che ha esaminato il materiale raccolto dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, coordinato dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta e dal pm Francesco Pelosi. Un' indagine senza intercettazioni, senza «pentiti». Gli inquirenti hanno raccolto testimonianze. Qualche compagno di cella dei detenuti picchiati. E poi, le parole di quelli che hanno preso le botte. Hanno raccontato le modalità di quei pestaggi. Gli agenti infilavano i guanti, per lasciare meno segni. Ma anche per intimidire. Sferravano pugni nello stomaco, sempre per non lasciare segni. Qualche volta, però, si lasciavano andare: un detenuto ha preso un pugno in faccia e gli è caduto un dente, un altro ha zoppicato tre mesi per un calcio su una gamba tesa. Poi, ci sarebbero sputi, schiaffi, calci nel sedere e nei testicoli, pestoni sui talloni. Dolore fisico e psicologico. Alimentato da frasi del tipo: «Per quello che hai fatto, devi morire qui». «È prematuro entrare nel merito, ma posso dire che va inquadrata in un problema più ampio», sostiene l' avvocato Antonio Genovese, difensore di un agente arrestato. E spiega: «La situazione diventa esplosiva quando in un carcere come quello di Torino ci sono mille e 523 detenuti anziché mille e 61. Bisogna risolvere questi problemi, per rendere più umana la vita in carcere. Per i detenuti, ma anche per chi lavora in quelle strutture». La vicenda ha scatenato anche la reazione di Matteo Salvini: «Uno Stato civile punisce gli errori, se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare le palle terribilmente».
Torino, altre denunce di maltrattamenti. Damiano Aliprandi il 3 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’inchiesta nata dalla segnalazione del garante comunale Monica Gallo. Al pm Francesco Pelosi sono stati raccontati I fatti che sarebbero avvenuti nel reparto dove sono reclusi I “sex offender”. Mentre due dei sei agenti penitenziari arrestati lo scorso ottobre con l’accusa di aver torturato alcuni detenuti del carcere di Torino sono tornati in libertà, si aggiungono altre denunce da parte dei reclusi. Tutti questi avrebbero riferito al pm Francesco Pelosi altri fatti gravi avvenuti all’interno del penitenziario, specificatamente al reparto dove sono reclusi i “sex offender”, ovvero i detenuti con l’accusa di reati a sfondo sessuale. L’inchiesta, nata dalla segnalazione di Monica Cristina Gallo, garante comunale dei diritti dei detenuti che aveva raccolto le confidenze di alcuni carcerati ristretti nella sezione del padiglione C della casa circondariale, si arricchisce dunque di nuovi capitoli e registra – nella sostanza – una conferma dell’impianto accusatorio anche dai giudici del tribunale del Riesame che si sono espressi sui ricorsi – contro la misura cautelare degli arresti domiciliari – presentata da quattro dei sei agenti indagati. Il dispositivo conferma gli arresti per quattro agenti e revoca l’ordinanza per altri due. Il Riesame riconosce che nel carcere di Torino si sono verificati diversi pestaggi e che le vittime sono attendibili; ritiene però che, per configurarsi la contestazione del reato di tortura, è necessaria una pluralità di condotte; quindi più condotte violente oppure una condotta violenta e altre vessatorie. Specificatamente per un poliziotto, a differenza degli altri, doveva rispondere di un solo episodio. Uno dei detenuti fu costretto a stare quaranta minuti in piedi a faccia al muro e a sentirsi dire “sei un pezzo di m…”; poi venne chiuso in uno stanzino e preso a schiaffi, calci e pugni. Il tribunale del Riesame, presieduto da Elisabetta Barbero, ha compiuto una lunga escursione nella giurisprudenza ( formata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo) e, basandosi soprattutto su un paio di sentenze del 1978 e del 2001 per vicende avvenute in Gran Bretagna, ha operato un netto distinguo fra “disumano” ( indubbiamente più grave) e “degradante”. E la legge sull’introduzione del reato di tortura messa a punto dal Parlamento italiano, secondo la lettura dei giudici torinesi, richiede che “a fronte di un’unica condotta”, come nel caso del poliziotto, “il trattamento sia inumano e degradante” nello stesso momento. Perché le due parole sono “unite dalla congiunzione coordinante”, la lettera "e". Resta il fatto che l’inchiesta della procura di Torino non ha comunque avuto alcuna flessione. I giudici infatti hanno affermato che i maltrattamenti, così come raccontati dai reclusi, ci sono stati. Almeno in alcuni casi. Il prigioniero nello stanzino ha detto che “viveva nell’ansia di incontrare i poliziotti perché ogni volta mi picchiavano o sbeffeggiavano”. Ma l’agente tornato in libertà ha preso parte a una sola spedizione punitiva: non può essere soltanto lui ad aver provocato quello stato d’animo.
Agrigento, aperta un’inchiesta sulle presunte violenze in carcere. I presunti abusi erano stati raccontati da Il Dubbio grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, del Partito Radicale. Damiano Aliprandi il 19 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il procuratore capo Luigi Patronaggio ha aperto un’inchiesta – al momento a carico di ignoti – sulle presunte violenze commesse al carcere di Agrigento riportate su Il Dubbio grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, del Partito Radicale. La Procura ha aperto quindi un fascicolo, coordinato dal capo dell’ufficio che, martedì scorso, secondo quanto si apprende da fonti giudiziarie, ha fatto un’ispezione nella struttura con i carabinieri, eseguendo riprese video e fotografiche. Il materiale raccolto verrà esaminato per l’ulteriore sviluppo delle indagini. Su Il Dubbio è stato riportato l’esito della visita effettuata il 17 agosto scorso da una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini e dall’Osservatorio carceri delle Camere penali. In particolare, si faceva riferimento alla situazione riscontrata nella sezione isolamento e puntualmente relazionata al Dap e al garante nazionale delle persone private della libertà. Oltre alle gravi criticità strutturali riscontrate, sono state raccolte diverse testimonianze di violenze, come ad esempio quella di un detenuto che sarebbe stato lasciato ammanettato nel passeggio per una giornata e una nottata intera senza mangiare né bere e che sarebbe stato preso a schiaffi e pedate. Altri ancora hanno riferito di essere stati testimoni di detenuti ammanettati e “strisciati” per terra. La vicenda, dopo la pubblicazione su Il Dubbio, è approdata in Parlamento con una interrogazione scritta depositata dal deputato di “Italia Viva” Roberto Giachetti.
Vittorio Feltri contro Bonafede: "Una cosa drammatica e disgustosa. Ministro, ecco di cosa ti devi occupare". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. La notizia è di ieri ma vale anche oggi perché ha una valenza drammatica e abbastanza disgustosa. Sei agenti di custodia del carcere di Torino sono stati arrestati. Motivo, torturavano i detenuti convinti forse di essere dei giustizieri anziché dei servitori dello Stato. Già la galera è un luogo orrendo dove la convivenza civile è solo una utopia. Gli uomini e le donne condannati sono ammucchiati in celle piccole nelle quali è pressoché impossibile avere un minimo di privacy e di rispetto per le persone. Infatti il governo se ne frega altamente della Costituzione che prevede, quale finalità della detenzione, la rieducazione di chi finisce dietro le sbarre. Chi è stato «dentro» fornisce racconti raccapriccianti di quanto vi accade senza che nessuno si impegni a migliorare le cose. Se poi ci si mettono pure i secondini a picchiare e umiliare chi sta scontando una pena, la situazione non è più sostenibile. Chi commette reati è ovvio che debba pagare per la propria colpa, il che deve avvenire mediante la privazione della libertà e non della dignità. Se invece a questa punizione si aggiungono esercizi di sadismo da parte degli agenti nei confronti dei reclusi è obbligatorio intervenire drasticamente onde ripristinare criteri di umanità nella gestione delle prigioni. Occorre grande severità nel reprimere certi abusi che offendono non soltanto chi li subisce ma anche i cittadini informati. Tocca al ministro della Giustizia agire in tale senso, e lo deve fare con urgenza al posto di occuparsi pedestremente di prescrizione da eliminare e scemenze del genere. Il nostro sistema giudiziario si regge quasi esclusivamente sulla restrizione entro quattro mura, tuttavia l' edilizia carceraria è inadeguata e i condannati sono ammassati in pochi metri quadrati e costretti a soffrire fisicamente. Ciò è detestabile. Le torture inflitte loro dal personale di custodia sono quindi un supplemento di pena che ripugna alla coscienza. La politica non può fare spallucce e infischiarsene. So che le nostre proteste cadranno nella indifferenza dei manettari, cioè i giustizialisti che auspicano l'inasprimento delle pene per qualsiasi violazione del codice, ma Libero starà sempre dalla parte di chi viene maltrattato. Vittorio Feltri
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Indimenticabile Avetrana
Caso Scazzi, alla sbarra dodici persone tra cui zio Michele e Ivano. Lo zio di Sarah rischia 4 anni di reclusione per autocalunnia e Ivano Russo, il ragazzo conteso tra le due cugine, rischia 5 anni di carcere per false informazioni al pm e falsa testimonianza dinanzi alla corte d'assise. Emanuela Carucci, Mercoledì 11/12/2019 su Il Giornale. Si riaccendono i riflettori su Avetrana e sul caso Scazzi. È in corso il processo bis, nel tribunale di Taranto, legato all'omicidio della 15enne avvenuto il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero, secondo quanto scrive Vittorio Ricapito sul quotidiano regionale "La Gazzetta del Mezzogiorno", ha chiesto la condanna per dodici imputati per aver mentito o nascosto particolari durante indagini per il processo sull’omicidio. In particolare Michele Misseri, zio della vittima, rischia la terza condanna con l'accusa, questa volta, di autocalunnia. In passato è stato già condannato in via definitiva ad otto anni di reclusione per aver gettato in fondo ad un pozzo nelle campagne di Avetrana il corpo di Sarah. Meno di un mese fa ha avuto la seconda condanna, emessa dalla corte d'appello di Taranto, ad un anno e mezzo di reclusione per diffamazione ai danni del suo ex avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone durante una puntata dell'Arena di Massimo Giletti. Adesso rischia di essere condannato per la terza volta, come detto, a quattro anni di reclusione per essersi preso le colpe dell'omicidio per scagionare la moglie e la figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah, condannate all'ergastolo. Alla sbarra è finito anche Ivano Russo, il ragazzo di Avetrana conteso tra le due cugine Sarah e Sabrina, per aver dato "false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise" come si legge ancora sulla Gazzetta. Secondo il pm di turno, il ragazzo mentì per coprire Sabrina. Non è finita, sono dodici in tutto le persone che potrebbero essere condannate. Sono stati chiesti tre anni di reclusione per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. Due anni e quattro mesi di reclusione per la mamma di Ivano, Elena Baldari, due anni per il fratello di Ivano, Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino accusati tutti di aver mentito dinanzi ai giudici sostenendo che il 26 agosto del 2010 Ivano fosse a casa e che fosse rimasto a letto tutto il pomeriggio. A finire sotto processo, con le accuse di menzogne e calunnie, c'è anche Dora Serrano, sorella di Cosima e Concetta, la mamma di Sarah, che avrebbe raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale da parte di Michele Misseri. Per lei il pm ha chiesto una condanna di tre anni e otto mesi di reclusione. Infine rischiano tre anni di carcere per falsa testimonianza anche Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo, cognata del fioraio del paese Giovanni Buccolieri e Giuseppe Augusto Olivieri. Insomma il giallo di Avetrana ha, in realtà, coinvolto più persone in paese e non solo i componenti della famiglia Misseri e Scazzi. Ora si aspetta il 7 gennaio per la prossima udienza del processo.
Caso Scazzi, troppe bugie: chiesti 5 anni per Ivano Russo, 4 per Misseri: a gennaio il verdetto. La ragazzina fu uccisa nell'agosto 2010. Vittorio Ricapito l'11 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pesanti richieste di condanna al processo-bis legato all’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa quindicenne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero ha chiesto la condanna per 12 imputati accusati di aver mentito o nascosto particolari durante indagini e processo di primo grado per l’omicidio della studentessa. Rischia una nuova condanna, la terza, Michele Misseri (difeso dall’avvocato Ennio Blasi Di Statte), già condannato in via definitiva a otto anni di reclusione per aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina di quindici anni nell’agosto del 2010, subito dopo l’omicidio. Delitto per il quale sono state condannate all’ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah. Stavolta Misseri, che quindici giorni fa è stato condannato in appello a un anno e mezzo per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone (assolto però dall’accusa di calunnia) rischia quattro anni di reclusione per autocalunnia, cioè per essersi incolpato ingiustamente dell’omicidio nel tentativo di scagionare moglie e figlia. La sua versione, tuttavia, non è mai stata creduta dai magistrati. A è finito anche Ivano Russo, l’amico conteso intorno al quale sarebbe nata una rivalità tra Sarah e sua cugina Sabrina, rivalità ritenuta uno dei moventi più forti alla base del delitto. Il pm ha chiesto la condanna a cinque anni di reclusione per Russo, accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise. Secondo il pm, in aula fu reticente, mentì per coprire Sabrina, cercando di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Tre anni di reclusione è la condanna proposta per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. A processo sono finiti anche la mamma di Ivano, Elena Baldari, per la quale il pm ha chiesto la condanna a due anni e quattro mesi, il fratello Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino, che rischiano condanna a due anni. Sono accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula ha raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Per lei e per Giuseppe Serrano, il pm Buccoliero ha chiesto condanna a tre anni e otto mesi di reclusione. Rischiano infine tre anni di reclusione per falsa testimonianza, Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo (difesa dall’avvocato Pasquale Lisco), cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno) e Giuseppe Augusto Olivieri. Le discussioni dei difensori sono fissate il 7 gennaio del nuovo anno.
Omicidio di Sarah Scazzi, pena ridotta per zio Michele. Le motivazioni della condanna che è stata inflitta per il reato di diffamazione. Annalisa Latartara su tarantobuonasera.it lunedì 16 Dicembre 2019. L’inaffidabilità di Michele Misseri, sancita dai giudici nei tre gradi di giudizio, questa volta lo salva dalla pesante imputazione di calunnia. Malgrado la gravità delle accuse nei confronti dell’ex difensore Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone le dichiarazioni del contadino di Avetrana non possono essere ritenute calunniose ma solo diffamatorie. È quanto si legge nelle 32 pagine delle motivazioni della sentenza di appello che ha ridimensionato la condanna a 3 anni di reclusione rimediata in primo grado. Nel corso delle indagini e del processo sull’omicidio della nipote Sarah Scazzi Michele ha fornito versioni diverse, prima autoaccusandosi con moventi diversi (dal trattore che non partiva alla violenza sul cadavere), poi accusandoli in concorso con Sabrina, poi ancora addossando tutta la responsabilità a sua figlia e infine autoaccusandosi di nuovo di tutte le fasi del delitto. Ad un certo punto ha accusato il suo legale Galoppa e la sua consulente Bruzzone di averlo indotto ad accusare Sabrina. Una versione dei fatti stridente, come viene evidenziato anche nella sentenza di secondo grado, con la cronologia delle sue versioni. Infatti, Sabrina l’aveva già tirata in ballo in concorso il 15 ottobre 2010, mentre l’incontro con Bruzzone e Galoppa insieme si tenne un carcere il 5 novembre dello stesso anno. Inoltre il 19 novembre successivo ribadì le sue accuse contro la figlia spiegando l’omicidio come un incidente avvenuto durante un “gioco del cavalluccio” fra le due ragazze. Ma a far crollare l’accusa di calunnia, secondo i giudici di appello è l’assenza del dolo: “Manca la volontà dell’imputato di accusare le parti civili – ossia Galoppa e Bruzzone costituitisi parte civile nel processo per calunnia e diffamazione – posto che nei tre gradi di giudizio sull’omicidio di Sarah Scazzi i giudici si erano espressi sempre nel senso dell’inaffidabilità di Misseri e delle plurime versioni da lui narrate”. Quindi, “la mancanza di credibilità dell’imputato si riverberava anche sulle accuse rivolte all’ex difensore e all’ex consulente”. Come sottolinea nelle motivazioni depositate giovedì il giudice estensore Luciano Cavallone (presidente del collegio Antonio Del Coco, l’altro giudice a latere Andrea Lisi), l’assenza della “benché minima coscienza di ciò che stava facendo”, ossia l’esclusione del dolo sostenuta dalla difesa, per Misseri vale solo per la calunnia e non per le imputazioni di diffamazione. La Corte d’appello ritiene “indubbia la portata diffamatoria delle accuse ai due professionisti” anche in considerazione dell’interesse mediatico verso il caso Scazzi. Per questo Misseri è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione e a versare una provvisionale di 10.000 euro, più le spese legali, a Galoppa e Bruzzone. Misseri attualmente difeso dall’avvocato Ennio Blasi di Statte, rischia un’altra condanna, questa volta per autocalunnia, a quattro anni di reclusione. Per lui come per gli altri undici imputati, fra cui Ivano Russo e altri amici di Sabrina che rispondono di falsa testimonianza, la sentenza è prevista a gennaio prossimo.
"Sabrina Misseri attrice" in un’opera teatrale: dopo l’omicidio Sarah Scazzi l’inquietante adattamento della storia. Marilyn Aghemo su Lettoquotidiano.it il 10/08/2019. Sabrina Misseri e Sarah Scazzi in un’opera teatrale che prende vita per ripercorrere tutti gli step, del famoso e crudele omicidio. Ma di cosa stiamo parlando? Il delitto di Avetrana dove i protagonisti da sempre sono Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, oggi diventa una rappresentazione per ripercorrere tutto quello che la povera vittima ha subito in quelle ore. Cosa fa Sabrina Misseri in carcere? La cugina di Sarah Scazzi si trova in carcere insieme alla madre, per scontare la pena di ergastolo per l’omicidio della giovane avvenuto il 26 agosto 2010 ad Avetrana. Da quello che emerge fa alcuni lavoretti per tenersi impegnata, studia e passa le sue giornate leggendo e sperando in un permesso premio. Sono molti, ancora oggi, i misteri controversi di questa tragica vicenda in quanto nessuno abbia mai fornito una versione chiara e lineare di cosa sia accaduto quel pomeriggio di fine estate. Sarah era una ragazzina vivace e curiosa, sempre a casa degli zii e della cugina con la quale passava la maggior parte del tempo. Tante pedine per un unico spazio che fa sfociare tante domande senza una risposta certa. Ma quello che sta facendo pensare gli utenti è una rappresentazione teatrale, che metterà in scena questo macabro delitto.
La rappresentazione teatrale dell’omicidio di Sarah Scazzi. Il 6-7-8 settembre 2019 andrà in scena “Re di Donne” al Caio Melisso di Spoleto, con la produzione firmata dal Teatro Lirico Sperimentale. Sono tante le storie che verranno messe in scena e tra queste anche quella della piccola Sarah, un femminicidio – insieme agli altri rappresentati – crudo e violento il cui registra vuole mettere in primo piano gli aspetti principali di tale vicenda che ha scosso gli italiani. Gli utenti si sono divisi in due in merito a questa questione, con polemiche da una parte e curiosità dall’altro lato. Una Sarah rappresentata da una ragazzina dalla somiglianza incredibile e alcun commento dei familiari o dei Misseri, almeno sino ad oggi.
OMICIDIO SARAH SCAZZI. ROBERTA BRUZZONE: “NESSUNO GLI HA MAI RACCONTATO COME È ANDATA”. Marco Spartà su tuttomotoriweb.com il 27/08/2019. Roberta Bruzzone, nota criminologa italiana, ha espresso il proprio parere circa il coinvolgimento di Michele Misseri nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. Per lei, l’uomo avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere. La criminologa Roberta Bruzzone, in un suo commento pubblicato sul settimanale Giallo, ha voluto rimarcare la propria convinzione circa l’esclusiva colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. La nota criminologa ha, invece, relegato ai margini della vicenda Michele Misseri, zio della vittima, nonché rispettivamente padre e marito delle due donne condannate in via definitiva per l’efferato crimine. “A mio avviso non esiste alcun dubbio, tantomeno ragionevole, sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano in relazione al delitto di Sarah Scazzi” così esordisce su Giallo la nota criminologa Roberta Bruzzone. “E ci sono – prosegue – a oggi, considerando l’intera inchiesta, almeno una trentina di magistrati che l’hanno pensata esattamente come me, compresi i giudici della Corte di Cassazione che hanno confermato entrambe le condanne all’ergastolo nel febbraio del 2017. Non ci sarà mai modo di arrivare a una conclusione diversa e nulla e nessuno potrà modificare quanto è stato sancito dai tre gradi di giudizio“. Per la criminologa non ci sono dubbi, Michele Misseri avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere della giovane Sarah nel pozzo di Nardò: “Lui non ha avuto alcun ruolo nel delitto ed è questa la principale ragione per cui Misseri non è mai riuscito a fornire una versione coerente di quanto accaduto durante l’omicidio“. La Bruzzone ha poi concluso il suo commento dicendo: “ Lui non c’era e nessuno gli ha mai raccontato fino in fondo com’è andata“. Una spiegazione logica e coerente che eliminerebbe ogni dubbio in ordine al motivo degli innumerevoli cambi di versione forniti di Michele Misseri, poi per tale ragione finito anche sotto processo per calunnia ed autocalunnia. Il contadino di Avetrana aveva, infatti, accusato il suo ex avvocato Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone di averlo indotto a chiamare in causa la figlia Sabrina che lui, in un primo momento, accusò di avere ucciso Sarah. Successivamente Misseri si autoaccusò, per poi puntare nuovamente il dito contro sua figlia, finendo per perdere ogni sorta di credibilità.
Roberta Bruzzone età, altezza, peso, vita privata e carriera: tutto sulla criminologa italiana, scritto da Marilena De Angelis IL 27 Agosto 2019 SU Urban Post. Nella puntata di oggi, 27 agosto 2019, di Io e te, programma pomeridiano di Rai 1 condotto da Pierluigi Diaco, sarà ospite la criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone. La Bruzzone è conosciuta grazie alla partecipazione a diversi programmi che si occupano di cronaca nera. Roberta è abile nel suo mestiere e ogni volta riesce a dare un quadro chiaro della situazione e della vicenda anche ai non addetti ai lavori. Ma chi è davvero Roberta Bruzzone? Quanti anni ha? È sposata? Ha dei figli? Ecco tutte le curiosità sulla sua vita privata e sulla sua carriera da criminologa.
La vita privata di Roberta Bruzzone. Roberta Bruzzone è nata a Finale Ligure il 1º luglio 1973 ed è un personaggio televisivo, opinionista e psicologa forense italiana. Ha 46 anni, è alta 168 cm e pesa circa 62 Kg. È del segno zodiacale del Cancro. Ha due fratelli gemelli. Le sue caratteristiche sono: capelli lunghi biondi e sguardo glaciale e super attento. Psicologa forense, è divenuta nota principalmente per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana. La Bruzzone, inoltre, è stata consulente anche per altri casi di cronaca nera, fra cui la strage di Erba. Ha avuto incarichi a contratto presso la Libera Università Mediterranea “Jean Monnet” di Casamassima e l’Università degli studi “Niccolò Cusano” telematica di Roma. Roberta ama la velocità e soprattutto le moto, la prima le fu regalata da sua nonna a 12 anni. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, Roberta è stata sposata dal 2011 al 2015 con Massimiliano Cristiano. Dal 2017 è sposata con Massimo Marino. La Bruzzone non ha avuto figli.
La sua carriera. Roberta Bruzzone si è fatta conoscere per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana, quando le fu affidato il ruolo di consulente della difesa di Michele Misseri. In seguito fu chiamata a testimoniare proprio contro Misseri, dichiarando che l’uomo durante un colloquio in carcere aveva accusato dell’omicidio la propria figlia Sabrina. La Bruzzone, poi, dal 2008 è ospite fissa nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera del programma di Rai 1 Porta a porta. Roberta, inoltre, è stata autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56, nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni su Real Time. Nel 2012 ha pubblicato il libro Chi è l’assassino. Diario di una criminologa, edito da Mondadori. Dal 2017 è opinionista del programma di varietà Ballando con le stelle.
Delitto Scazzi, su Google maps la ricostruzione della scena. Immortalata la Set rossa e Saetta, il cane di Sarah Scazzi. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 27 agosto 2019. Come ieri, nove anni fa, nella villetta giallo ocra con le tegole rosse di via Grazia Deledda ad Avetrana, si compiva l’omicidio che per diverse ragioni è stato annoverato tra i delitti del secolo. Tre sentenze hanno stabilito che quel giorno, era un giovedì, tra quelle mura domestiche fu strangolata Sarah Scazzi, quindici anni allora, per mano di sua zia Cosima Serrano e di sua cugina, Sabrina Misseri. Le due donne, zia e cugina della vittima, affidarono il corpo senza vita a zio Michele, marito e padre delle due assassine che si preoccupò di caricarlo sulla sua Seat rossa e lo portò in contrada Mosca dove lo gettò in un pozzo d’acqua sorgiva lasciandolo lì per 42 giorni. Ieri, 26 agosto, è stato il giorno dei ricordi. Il più realistico, da far rabbrividire, lo offre inaspettatamente Google maps che permette di tornare indietro nel tempo, esattamente a dieci mesi prima quel tragico giovedì, mostrando ciò che erano quei luoghi prima che tutto si compisse. L’obiettivo della macchina «Street View» di Google ha immortalato la Seat rossa ferma davanti al garage dove Michele Misseri, secondo la ricostruzione fatta dalla procura e poi dai giudici, trascinò l'esile corpo della nipote caricandolo nel portabagagli dell’auto che posizionò con la parte posteriore a favore del grande portone di ferro. La stessa telecamera ha catturato un altro personaggio della triste storia: Saetta, il cane meticcio che seguiva Sarah ovunque andasse. Nella foto l’animale è accucciato davanti al portoncino dell’ingresso principale dove, probabilmente, era entrata la sua padroncina. Ci sono le rose selvatiche piantate nel viale interno dove si vede il tubo dell’acqua per annaffiare, la vegetazione fitta che nasconde il pianerottolo della veranda. Tutto si trova al suo posto. Come una ricostruzione cinematografica che libera l’immaginazione, non è possibile non pensare che quell’anonimo giorno di ottobre del 2009, la piccola Sarah si era recata come faceva spessissimo a casa degli zii lasciando sulla porta il suo Saetta. E che in casa, quel giorno, c’erano tutti i protagonisti della truce vicenda: la cugina Sabrina, zia Cosima e zio Michele e, fuori, la Seat Rossa che dieci mesi dopo si sarebbe trasformata nel carro funebre della povera Sarah. A nove anni di distanza, invece, niente è più come in quelle immagini conservate nell'immenso archivio di Google. La Seat rossa sarà stata rottamata dopo il dissequestro, di Saetta non si hanno più notizie da tempo. Quella famiglia non esiste più come non esiste Sarah. Le due donne assassine stanno scontando l’ergastolo e sono rinchiuse nel carcere di Taranto dove occupano la stessa cella mentre i loro avvocati, Franco Coppi e Nicola Marseglia, hanno presentato ricorso alla Corte Europea. Zio Michele deve pagare con otto anni di carcere per aver fatto sparire il cadavere che lui stesso, 42 giorni dopo, fece trovare dopo un drammatico interrogatorio finito nella notte. La villetta dalle pareti giallo ocra e le tegole rosse c’è ancora, ma è desolatamente vuota, coperta da una assurda e fitta rete di colore verde che il contadino di Avetrana allestì quando era ancora libero per difendersi dalle visite indesiderate e dai giornalisti. Nazareno Dinoi
"Così ho nascosto il corpo di Sarah", il video-racconto di quel 26 agosto di 9 anni fa. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria, è lo stesso Michele Misseri, due anni dopo l’omicidio, a raccontare dettagliatamente...La Voce di Manduria lunedì 26 agosto 2019. Il 26 agosto di nove anni fa, la piccola Sarah Scazzi, quindici anni, di Avetrana, fu uccisa nella villetta di Via Grazia Deledda dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano (condannate entrambe all’ergastolo, i loro avvocati hanno presentato ricorso alla Corte Europea). Secondo la sentenza, il corpo senza vita di Sarah fu affidato dalle due donne allo zio Michele Misseri, marito e padre delle assassine, che lo gettò in un pozzo in contrada “Mosca”, nelle campagne tra Avetrana e Erchie. Dopo 42 giorni zio Michele fece ritrovare il corpo. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria due anni dopo gli eventi, è lo stesso Michele Misseri (attualmente in carcere dove sconta una pena di 8 anni) a raccontare dettagliatamente quel terribile pomeriggio quando con la sua Seat Marbella rossa portò il corpo della nipote in contrada Mosca per sopprimerlo. Nell'esclusivo documento, il contadino di Avetrana spiega con fredda lucidità, minuto per minuto, tutti i movimenti di quel terrificante atto.
Diffamazione, condannato Michele Misseri. Quotidianodipuglia.it Giovedì 28 Novembre 2019. La Corte d’appello di Taranto ha riformato la sentenza a carico di Michele Misseri, padre e marito rispettivamente di Sabrina e di Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In primo grado, tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che avevano configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone, erano stati inflitti a carico all’agricoltore di Avetrana. In appello, la Corte ha ritenuto di assolvere Misseri dal reato di calunnia nei confronti del suo ex legale e della ex consulente. Tuttavia lo ha condannato per il reato di diffamazione a carico di entrambi, infliggendogli la pena di un anno e sei mesi di reclusione. Insieme con Misseri era sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo, in primo grado condannato a una multa di ottocento euro. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbe espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. La Corte d’appello ha dichiarato il non doversi procedere a carico di Gallo, in ordine alla diffamazione della Bruzzone per assenza della querela; mentre lo ha condannato a una multa di 700 euro per aver diffamato Galoppa. Quanto all’avvocato Galoppa, la Corte d’appello ha accolto il suo ricorso ed ha condannato sia Misseri che Gallo a pagare una provvisionale di 10mila euro ciascuno a titolo di “danno morale” patito. Daniele Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina. Proprio in virtù di questo fatto, le due parti offese avevano attivato una denuncia per calunnia. Reato, questo, che il tribunale, in primo grado, aveva ritenuto integrato dalle dichiarazioni di Michele Misseri. Con questa sentenza della Corte d’appello, si chiude il secondo grado di giudizio sulla vicenda, che costituì una ulteriore appendice del maxi-procedimento aperto sull’omicidio di Sarah Scazzi. Altri procedimenti, infatti, si innestarono all’interno della maxi-indagine aperta dal pm dottor Mariano Buccoliero sulla uccisione della povera Sarah, e poi del processo in Corte d’assise in cui alcuni testi, secondo l’accusa, si macchiarono di falsa testimonianza.
Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele". Quotidianodipuglia.it Mercoledì 7 Novembre 2018. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolto dall’accusa Ilaria Cavo.
Omicidio Sarah Scazzi: «Sabrina Misseri è innocente». L'avvocato Franco Coppi confessa il suo tormento: «In carcere da innocente da oltre dieci anni». Quotidianodipuglia.it Giovedì 1 Agosto 2019. «Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre». Lo dice in un'intervista al 'Fogliò l'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri e della madre Cosima, entrambe in carcere con una condanna all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. «Ho la certezza assoluta della loro innocenza - dice Coppi - sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d'accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento». La Corte di Strasburgo, da voi adita, ha giudicato il caso ammissibile. «Attendiamo di conoscere l'esito, i tempi non sono brevi. Poi non ci resterà che sperare nella revisione del processo».
Silenzio. Parla il prof. Coppi: "Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita". Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2019. “La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre”. Entrambe scontano una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi”. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”. In un’intervista al quotidiano IL FOGLIO il prof. Franco Coppi, ritenuto il “principe” degli avvocati e cassazionisti italiani, è tornato a parlare del “caso Scazzi” di Avetrana. “Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d’accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”.
Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Parla Franca Leosini. Michela Becciu il 25 Agosto 2019 su Urban Post. Caso Sarah Scazzi: Franca Leosini, regina della cronaca nera, intervistata a Fq Millennium da Peter Gomez, tra i veri temi trattati è tornata sul delitto di Avetrana, cui dedicò diverse puntate del suo celebre programma “Storie maledette”. A proposito della sua abilità nel gestire le interviste, ha detto di non avere mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare …”.
Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Sul caso Sarah Scazzi, a proposito delle interviste a Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, la giornalista ha pronunciato parole inequivocabili: “Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. “Intanto le sentenze si rispettano e io non dò mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo”.
Salvatore Parolisi: i dubbi di Franca Leosini. La Leosini ha detto la sua anche sul caso Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea: “Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”.
FRANCA LEOSINI: “Cosima e Sabrina Misseri? Non c’erano presupposti per ergastolo”. Dario D'Angelo su Il Sussidiario il 10.08.2019. Franca Leosini: “Quella volta che un assassino mi mise le mani al collo per strozzarmi. Il mostro del Circeo? Sono ancora arrabbiata, mi ha ingannata”. Franca Leosini si racconta a tutto tondo nell’intervista rilasciata a Fq Millennium di Peter Gomez. In procinto di iniziare la 18esima stagione di “Storie maledette”, il programma che ha fatto di lei una vera e propria icona del giornalismo di cronaca nera, la Leosini parla di com’è cambiato il modo di raccontare il crimine:”La cronaca nera non è cambiata in meglio. (…) Te la ritrovi ovunque, a tutte le ore del giorno. Se accendi la tv, su tutte le emittenti, compresa la Rai, dalla mattina alla sera, trattano, ad esempio, la vicenda di Marco Vannini. Prendiamo questa come sinnedoche. Se ne parla ad ogni ora e lo si fa in modo inesatto. D’altronde io che ho il vantaggio di leggere gli atti processuali, diecimila pagine solo il caso di Avetrana (…) riesco ad essere precisa. Chi invece tutti i giorni deve portare la merce sulla bancarella magari dice anche tante inesattezze”. Diplomatica ma pungente… L’intervistatore chiede a Franca Leosini come mai non abbia deciso di occuparsi di delitti di Stato nei suoi tanti anni di carriera. La giornalista spiega: “Da autore ho scelto fin da subito un target preciso. I miei interlocutori sono dei non professionisti del crimine che come me e come te ad un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia. Ad esempio non percorrerei mai un caso nel quale il motivo scatenante dell’atto omicida è esclusivamente economico. Mi è capitato che mi venisse chiesto di seguire quello di un industriale che fa uccidere un altro industriale per rivalità. Ma a interessarmi sono l’anima e le passioni umane. Per questo mi tengo lontana da omicidi e stragi di stato”. Su questo punto la Leosini torna anche in un altro passaggio dell’intervista: “Da tutte queste storia ho capito solo una cosa: in ognuno di noi può scattare quel clic. Siamo solo stati più fortunati, protetti dal destino. C’è come un momento particolare in cui la realtà può deformarsi. Può succedere anche a te. E’ quell’attimo in cui dici a te stesso: ‘Ora potrei veramente uccidere, commettere un gesto terribile'”. Sono tanti i casi seguiti da Franca Leosini nel corso della sua carriera. Parlando con “Millennium” ammette che uno di questi le brucia ancora per il fatto di essere stata ingannata: stiamo parlando di Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che giusto una settimana fa le ha inviato una nuova lettera. La Leosini spiega: “La cosa che più mi fa arrabbiare, e non è facile ingannarmi, è che mi ero convinta che lui fosse davvero cambiato in carcere (Izzo nel 2004 ottenne la semilibertà ma poi uccise due donne nel 2005, ndr). (…) In altre lettere mi scriveva che aveva decine di progetti positivi per quando sarebbe uscito. Insomma, non ci sono cascata solo io, ma anche i magistrati. Quando nelle rare volte gli rispondo, gli dico: ‘ricordati che rispondo a quella parte di te in cui ho creduto’. Lui allora una volta replicò. Voglio dirle che non l’ho ingannata, perché esiste quella parte di me a cui ha creduto, ma purtroppo esiste anche quell’altra parte che quando prende sopravvento mi porta dove mi ha portato”.
Franca Leosini dice di non aver mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare”. Uno degli ultimi casi trattati è quello di Avetrana in cui la Leosini ha intervistato Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri. La giornalista fa un’ampia premessa e si schiera contro il libero convincimento dei giudici: “Perché è vero che i crimini non sono mai sovrapponibili, non sono decalcomanie, ma ci sono dei fondamentali. Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. E qui si entra nel vivo:”Intanto le sentenze si rispettano e io non do mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo. Altro esempio il paragone con il caso Parolisi, paragone detto davanti ai magistrati. Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”.
Indimenticabile Avetrana. Fai.informazione.it dal 18/07/2019. Avetrana, un paese lanciato verso l’estremità del “tacco” dell’Italia, come chiamavano la Puglia una volta, al nord; ché poi, di logica, si sarebbe dovuto pensare alla Calabria come punta, ma si traslava la metafora, e tutto il sud era “quelli del tacco”. Una provincia baciata dal dolce Ionio, circondata da piane a perdita d’occhio, assolate, coltivate, punteggiate da pozzi non censiti, che forse solo i proprietari conoscono. Taranto è lontana con i suoi problemi. Si parlano dialetti curiosi, qualcuno dice messapici, contaminati dal salentino, appena parente del tarantino: quando gli abitanti si esprimono in italiano, molti li scambiano per siciliani, chissà perché. La Puglia è la regione meno sudista del mezzogiorno, si dice. Non che siano mancate le storiche emigrazioni, né una organizzazione malavitosa di tutto rispetto come la Sacra Corona Unita; tuttavia non si sono formate cosche o archetipi come, per esempio, per i siculi o i napoletani, parodiati tanto spesso nei film. La regione sconta il problema della scarsità d’acqua, ma è risultata sempre produttiva nel campo agricolo, della pesca, e del turismo di varia natura, come quello religioso nell’area di Monterotondo, patria adottiva di Padre Pio, polo mistico e medico per i devoti. Lontani culturalmente dal “settentrione” foggiano e barese, i pugliesi meridionali vantano altri blasoni, come la barocca Lecce e la sua fama di città dove si parlerebbe l’italiano con l’accento ideale.
Sarah Scazzi non nacque, però, in questa terra, ma in Lombardia, durante una trasferta della madre in visita al papà Giacomo, colà emigrato; la bambina tornò al sud verso i sette anni. Un colibrì, minuta, diafana, la quindicenne sparì il 26 agosto 2010, con il popolo ancora distratto dall’ultima coda delle vacanze. Forse, come tante coetanee, il paese le stava stretto: dicono sognasse di fare la barista in qualche città o all’estero, e intanto studiava all’istituto alberghiero. Che succede, dal 26 agosto al momento in cui il corpo della ragazzina verrà ritrovato? Lo abbiamo ascoltato mille volte e in varie salse. Analizzeremo i protagonisti della storia e gli aspetti del crimine e della storia processuale che più ci hanno colpito. Le fonti sono mediatiche.
Concetta Serrano Spagnolo. La mamma di Sarah ha due cognomi perché adottata dagli zii. Poco aveva frequentato i veri genitori, era una ragazza di famiglia, che un giorno incontra Giacomo Scazzi e lo sposa. Ma Giacomo partirà per lavoro dopo la nascita del primogenito Claudio e Concetta, divenuta Testimone di Geova, resterà in compagnia della sua nuova religione e degli altri fedeli: ciò che, secondo molti, la renderà forte e poco incline a piegarsi al dolore dopo il dramma, convinta della prossima riunificazione con le anime dei defunti. L'abbiamo conosciuta sempre bella, dalla fiammeggiante chioma, sobria, ma incisiva nell'eloquio. Inviterà da subito a indagare sul nucleo familiare, se stessa compresa; apprenderà la sorte della figlia in modo fumoso e scoordinato, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”.
Sarah, la vittima. Quando ancora si pensa a una fuga e non alla tragedia, in attesa di sviluppi, Concetta ci mostra la stanza della fanciulla, emula di Avril Lavigne, di cui tiene i poster in camera; spuntano dei video della sua ultima gita a Roma con la cugina/sorella Sabrina, di una festicciola dove l’adolescente sorride e punta il dito verso la telecamera, o di lei che guarda come si fa una messa in piega, magari pensando, in alternativa, a una carriera da hair stylist. La madre spiega il tipo di educazione che impartisce: niente computer, per esempio. Tuttavia ci viene svelato che Sarah va a chattare in casa di amiche e, per qualche giorno, si puntano i fari su un fornaio di diversi anni più grande, che si giustifica affannosamente: appena saputa la vera età dell’interlocutrice, aveva cessato i rapporti, peraltro rimasti rigorosamente virtuali. Concetta è contraria anche alle feste, a suo dire ormai solo espedienti per attività inappropriate, ma nulla può per frenare Sarah, sola come si ritrova nel fronteggiarne i primi ansiti di ribellione; la definisce tremenda, permalosa, un po’ eccentrica, ritratto che emerge anche dai resoconti sulla condotta scolastica. Forse a quindici anni è normale essere irrequieti ma, se davvero la donna intendeva imporre a Sarah una condotta a briglie più tirate, perché la faceva praticamente vivere in casa degli zii e in compagnia delle cugine? Laggiù, l’atmosfera pareva essere più adattata ai “tempi moderni” e Concetta non poteva ignorare che la compagnia di ultraventenni comportava delle conseguenze, rischiando di farle perdere il controllo sulla ragazzina. Tuttavia Concetta ha sempre riferito di sentirsi tranquilla, perché aveva fiducia in Sabrina Misseri, unica “mentore” di Sarah, dopo il matrimonio della sorella Valentina.
Giacomo Scazzi. Il papà di Sarah fa una curiosa impressione, con le sue palesi difficoltà espressive, mentre la moglie ha evidentemente compiuto un percorso evolutivo; intervistato con difficoltà, in qualche modo afferma che, anche se abita in Lombardia, ciò non significa che sia separato da Concetta. Lo si vedrà poco, a parte in qualche udienza. I media hanno fatto trapelare che Giacomo avesse la fama di correre dietro alle gonne, in modo anche un po’ invasivo. La sorella Cosima, nelle sue dichiarazioni spontanee alla Corte, affermerà che la loro famiglia non si è mai permessa di parlare male di Giacomo alla figlioletta, lasciando intendere che il resto del paese, invece, sussurrava cattiverie al riguardo. Sul punto, mamma Concetta avrebbe sostanzialmente risposto a Sarah in lacrime, toccata da questi pettegolezzi, che le doveva interessare solo il comportamento di Giacomo come padre e di non ascoltare il chiacchiericcio.
Claudio Scazzi. Il giovane, precocemente calvo e dall’aspetto “urban”, residente a San Vittore Olona, dove ha seguito il padre, è solito scendere al paese per una ventina di giorni ad agosto ed è già ripartito quando Sarah scompare. Simile alla madre nella parlata sciolta e di acute osservazioni, dopo la disgrazia allestirà una piccola mostra incentrata sull’amore della sorellina per gli animali, affermando, alla fine, che di lei non parlerà più.
Michele Misseri. Emigra con la moglie in Germania circa nel 1979, dopo le nozze: una vita di sacrifici, una attitudine al lavoro mai messa in dubbio, forse un po’ succube della consorte, fama di puritano, anche un po’ timido. Dopo le note vicende viene dipinto come una sorta di Pacciani del sud, un primordiale contadino frustrato e incline ai raptus: pregiudizio di classe che si infila sempre nelle cronache criminali provinciali e rurali. L’unica immagine serena di lui che abbiamo visionato lo ritrae, elegante come tutti, al matrimonio della primogenita Valentina, mentre, fiero, la accompagna all’altare. Nello stesso video compare fugacemente Sarah, di rosso vestita. Serpeggia, da alcuni anni, un’ atroce diceria secondo cui il padre di Michele fosse violento, anche sessualmente, in famiglia.
Cosima Serrano in Misseri. Da ragazza molto somigliante a Sarah, precocemente invecchiata per la fatica e – detto a Franca Leosini – perché “ non voglio essere schiava della tinta” ( una frecciata a Concetta?), ci spiega che la loro famiglia è sempre stata normalissima; che tra lei e Michele erano corse incomprensioni negli ultimi tempi, come succede in molti nuclei familiari; di essere stata una madre di larghe vedute, e per nulla legata a costumi ancestrali visto che, d’altronde, la realtà odierna obbliga ad adeguarsi e – sempre da Leosini - fa l’esempio del gran numero di ragazze madri ad Avetrana: piccola rivalsa di una donna fatta oggetto di insulti, sputi, e invocazioni al linciaggio da parte di una folla di compaesani, al momento dell’arresto. I leoni da tastiera avevano lasciato per un momento la postazione, per dar vita ad una scena rivoltante, che fa il paio con il turismo dell’orrore scatenatosi in particolare attorno a questo delitto. Cosima ribadisce lo smisurato affetto per la nipotina scomparsa, da sempre considerata una terza figlia e praticamente da lei cresciuta.
Sabrina Misseri. Ventiduenne al tempo, estetista con cabina in casa, viene descritta come “cocca di papà”. Pensiamo se non lo fosse stata, cosa di peggio le sarebbe accaduto…Propensa a confidarsi con tutti, pagherà cara la sua sete di comunicazione. La giovane appare molto legata alla “comitiva” di amici, protettiva verso Sarah, probabilmente talora anche un po’ aggravata dalla responsabilità di averla sempre appresso; unica in famiglia, non aveva la patente, particolare che più avanti assumerà un suo rilievo. Provocata dalla Leosini, risponde che non intende aderire alla religione dia zia Concetta, la quale l’ha invitata a convertirsi per espiazione, e si rammarica che la mamma di Sarah possa ancora considerare colpevoli lei stessa e Cosima; anche se, come si vedrà, forse nel tempo le circostanze hanno portato Concetta ad altre considerazioni.
Ivano Russo. Il bello del paese, si è detto spesso: un brunetto dallo sguardo intenso e, osservando le famose foto con le cugine, dalla gradita villosità. Ventisette anni all’epoca dei fatti e, si immagina, alquanto conteso da nutrita compagnia femminile, in effetti viene attratto nell’orbita di Sabrina Misseri, una ragazza che ha sempre ammesso di sentirsi complessata per un eccesso di peso e di peluria. Fatto “il colpaccio” di agganciare Ivano, iniziano i problemi.
In questa storia la fanno da padrone gli sms, predecessori dei whatsapp, ovvero i messaggini, che i giovani di oggi ( e non solo loro) si scambiano a raffica: ricostruirli, nel fatto di specie e considerando alcune cancellazioni a opera degli interessati, intorbidirà la ricostruzione, già di per sé problematica, degli eventi. Tuttavia l’episodio che più interessa è il famoso “rapporto mancato” del 21 giugno 2010 tra Ivano e Sabrina, su cui Franca Leosini infierirà con apprezzamenti sarcastici. In effetti non è ancora chiaro se il coniugio carnale, appena iniziato, fosse stato interrotto perché, all’ultimo secondo, Sabrina aveva ammesso di non assumere o portare anticoncezionali e lui non aveva dietro un preservativo, o per il timore del ragazzo che la partner potesse illudersi di avviare, con l’atto sessuale completo, una storia seria. Sabrina ha sempre disperatamente ribadito di non aver mai pronunciato la parola “amore”, e sfidato chiunque a trovarla in una delle migliaia di messaggi da lei scritti a Ivano stesso o ad altri, Né, in effetti, i testimoni anche più maliziosi hanno mai potuto affermarlo. La Misseri ha sempre parlato di attrazione fisica. C’è però un altro aspetto che investe prepotentemente Ivano, anche solo di riflesso: Sarah era innamorata di lui? E lui, che sponda le offriva? Che la adolescente avesse preso la sua prima vera cotta per Ivano è normale: in qualità di chaperon della cugina, stava spesso in sua compagnia, ne ascoltava gli sfoghi; Ivano era belloccio e di esperienza, vista l’età; ma che lui abbia potuto anche solo farle balenare un feed back, tendiamo a escluderlo, qualunque cosa la giovinetta avesse scritto nel suo famoso diario che, ricordiamolo, da giovani rappresenta l’amico immaginario, il libro dei sogni, il “muro del pianto” (e delle malignità inespresse) delle menti acerbe e degli ormoni in rivolta. Piuttosto, ci chiediamo se Ivano frequentasse con la stessa intensità altre ragazze, con foto di pomeriggi lieti e grande cameratismo. Se l’ha fatto, non sono uscite prove materiali; se invece prediligeva la compagnia delle cuginette diverse, ha scherzato davvero col fuoco, in un paesone di gole profonde.
Dopo i protagonisti, si passa ai comprimari che, talora, finiscono per assumere un rilievo smisurato a seconda della “sceneggiatura”. Maria Ecaterina Pantir. Badante rumena dello zio/padre di Concetta (l’uomo, che viveva con la figlia/nipote, morirà nel settembre successivo alla scomparsa di Sarah). La governante, proprio in agosto, aveva ricevuto la visita del fratello e pare che costui avesse anche dato una mano in lavoretti di riparazione e manutenzione. Subito nel mirino, il Pantir viene scagionato perché già ripartito prima della sparizione di Sarah, ma le Misseri vi avevano alluso, dunque Maria Ecaterina andrà ad aggiungersi alle parti civili contro di loro. E fosse solo questo. Dirà qualcosa di determinante per l’accusa, come vedremo: vendetta?
Mariangela Spagnoletti. Amica intima di Sabrina, molto coinvolta nel suo giro di “vasche” serali, e giri per pub e birrerie, è sulla scena dei fatti, unica estranea al nucleo familiare, nell’arco di tempo fatale.
Anna Pisanò. Altrimenti detta “supertestimone”. Nelle cronache criminali, se ne trova spesso uno, che riferisce molte impressioni non avvalorate e pochi fatti: sembra questo il caso. Testimone di Geova come Concetta, non si rivela altrettanto riservata, come da dettami del culto.
Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe sognato la scena del ratto di Sarah da parte di Cosima, per strada; sua dipendente era la figlia della Pisanò, Vanessa Cerra.
Alessio Pisello, amico di Sabrina, molto attivo nelle ricerche subito dopo la scomparsa di Sarah.
Valentina Misseri. Sorella maggiore di Sabrina, fresca sposa al momento della disgrazia, in quei giorni si trovava a Roma, dove abita. Ha sempre sostenuto che, per sfortuna si fosse trovata ad Avetrana, sarebbe finita in carcere anche lei. Ha spiegato accuratamente che la logistica di casa Misseri escludeva una dinamica come quella descritta in sentenza.
I fatti
Sarebbe quantomeno consolante poter riferire di un crimine in termini di certezze, almeno in percentuale accettabile. Sarà che le vite sono complicate e il loro racconto le riflette, quando non le deforma; che la pistola fumante è rara; che i testimoni a volte si esaltano per il momento di celebrità: vuoi per questo, che per altro, la sentenza non ha offerto evidenze schiaccianti.
Interpelliamo per primo Claudio Scazzi, il quale ci fa sagacemente notare l’assurdità del ritrovamento del telefonino di Sarah ( in parte bruciato e privo di Sim) nei pressi del pozzo dove l’hanno gettata: perché non disfarsi di un oggetto incriminante? Dove era stato fino a quel momento? Dal 26 agosto fatidico alla “confessione” di zio Michele, che fece rinvenire il cadavere il 6 ottobre, nessuno si è preoccupato di perlustrare le proprietà dei Misseri, a iniziare dal villino di abitazione con annesso il fatidico garage o le campagne dove erano soliti lavorare, né di setacciare un territorio che, pur vasto, presenta il vantaggio di snodarsi in pianura, senza fratte o pendii, né tantomeno di valutare la presenza dei pozzi? Ce n’erano molti, si è detto. Vero: ma qui si parla dei terreni di una sola famiglia e non dovevano essere sterminati: alberi da frutto, pomodori, fagiolini, queste le principali colture cui si dedicavano Michele e Cosima, e lì si doveva andare insieme a loro, battendoli metro a metro. Concetta stessa aveva già direzionato le indagini verso l’ambito familiare, dunque…Claudio però è attenzionato dai media abbastanza da far sorgere delle domande, alcune forse un po’ oziose, altre ancora senza risposta. Qualcuno osserva che, saputo della scomparsa della sorella, il giovane non si è subito precipitato ad Avetrana per aiutare nelle ricerche: ma è ipotizzabile che, appena rientrato al lavoro, contasse su ( e sperasse in) una soluzione meno tragica, magari un rientro dopo una scappatella, pronto a dare una mano in ogni caso. Più interessanti, invece, appaiono le riflessioni sul suo ruolo nella cerchia in cui erano coinvolti i giovani parenti, sorellina compresa. Sceso per le ferie di rito, anziché godersi il riposo e il divertimento, egli si infila subito nel chiacchericcio più hard (Sabrina dirà di lui “ Claudio non si fa mai i fatti suoi”). Se il teorema accusatorio si basa da una parte sulla feroce gelosia di Sabrina verso Sarah a causa di Ivano, è pur vero che esso è stato puntellato dall’idea che la piccola Scazzi avesse parlato in giro sul “due di picche” che Sabrina si era presa da Ivano in procinto di far l’amore, ma non sarebbe andata proprio così. In realtà la giovinetta ne avrebbe accennato in casa, Claudio aveva saputo ed era andato, in un certo senso, a “sfottere” Russo sull’incidente erotico. Quindi non era Sarah la “colpevole” di aver diffuso il “pastiche”: giovanissima, non “si teneva” niente e si era confidata con il fratellone che per poco ancora avrebbe avuto vicino. La stessa Sabrina, poi, avrebbe avuto di che riflettere sulla sua propensione a raccontarsi senza freni. In ogni caso, notiamo che l’accusa ha un piano A e un piano B, due moventi intercambiabili o integrabili.
Sentiamo Concetta: molto presto si dichiara convinta della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Addirittura, seguendo, a suo dire, le confidenze di un’altra sorella, avrebbe affermato - “Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l'arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere". Bari.repubblica.it. - Insomma, questa Emma Serrano prima appare solidale con Concetta, poi parrebbe prendere le distanze e schierarsi con Cosima. Ma che significa una corda in bocca a un cane che “ le indica” qualcosa? Qui si inizia a scivolare nell’immaginazione, magari dopo aver appreso che l’accusa non parla più di omicidio a mezzo corda (come da autopsia), ma mediante una cintura. Torniamo a Concetta che, in uno speciale dedicato al caso su TV 9, siamo ormai nel 2018, all’ascolto dell’interrogatorio di Mariangela Spagnoletti, trova che il PM sia pressante e la ragazza “pilotata”.
Ivano Russo che ne dice? Sfiorato dai sospetti, ha l’alibi della madre, anche se i due fanno un po’ di confusione sugli orari; qualche sms, vivisezionato dagli inquirenti, potrebbe adombrare delle discrepanze, ma, a parte l’imbarazzante deposizione in aula sulla famigerata “ notte del rifiuto”, il ragazzo non viene più disturbato fino ai giorni nostri. Purtroppo il suo nuovo sodalizio sentimentale, da cui è nato un figlio, si rompe con strascichi astiosi e la sua ex, Virginia Coppola, avrebbe dichiarato che di quel 26 agosto Ivano non ha raccontato tutto, che era uscito nelle ore incriminate. La donna viene catalogata come ex vendicativa e il capitolo Ivano potrebbe chiudersi un’altra volta. Forse, vedremo.
Cosa dunque sarebbe accaduto, quel giorno? Scremate le divagazioni di zio Michele, quando ormai la Procura è concentrata su moglie e figlia, apprendiamo che la versione definitiva disegna una certa scena, ovvero: Sarah esce di casa alle quattordici, arriva dai Misseri, dove Michele se ne sta da qualche parte, ma non è chiaro dove ( la teoria del trattore che lo ha fatto infuriare è svanita e con essa anche la sua esatta posizione in quel frangente); si scatena una lite furiosa tra le due padrone di casa e la povera Sarah ( motivo, la gelosia o la spiata su Sabrina e Ivano?); la ragazzina, quaranta chili di leggerezza e gioventù, scappa lesta, ma le due Misseri prendono l’auto; Cosima (peso oltre i cento chili, in piedi dalle tre e mezzo di notte dopo una giornata passata nei campi) guida a tutto gas, la raggiunge, esce dall’auto, la rincorre, la afferra senza che alcuno senta nulla, la riporta a casa, dove, in qualche maniera, con una cintura, la povera quindicenne viene strangolata a quattro mani. A quel punto, non si sa bene come (su eventuali risultanze di tabulati in merito ci hanno lasciato a bocca asciutta), vengono chiamati i rinforzi, ovvero zio Michele, suo fratello Carmine e suo nipote Cosimo Cosma: i tre, senza fare una piega, né essere visti da qualcuno, arrivano come fulmini, si infila il corpo nel bagagliaio della Panda di Michele e via, tutti, a disfarsi del cadavere nel famoso pozzo di contrada Mosca. Poi, si suppone, ognuno sarebbe tornato tranquillo a casa propria, perché……perché la Spagnoletti, arrivata per la gita al mare, circa tra le quattordici e trenta e le quattordici e quarantacinque, non ha visto nessuno, non cita terzi, non si accorge di alcuna agitazione.
Come si è arrivati a questo finale. Sulle prime, le dichiarazioni di Michele venivano prese sul serio, perfino l’assurda idea di uno stupro post mortem sul corpo di Sarah: non che non siano esistiti tristi figuri capaci di atti simili, ma si doveva quantomeno attendere l’autopsia, che infatti proverà l’inequivocabile verginità della giovane defunta (Cosima, ancora libera mentre va a trovare il marito in carcere, glielo obietta, durante una intercettazione ambientale); dopo aver verificato l’inattendibilità dello zio più famoso d’Italia, gli si offre, tuttavia, ancora abbastanza credito da seguire la sua lenta svolta verso le congiunte: ora diventa un incidente casalingo. Ossia, Sabrina e Sarah, mostrando un intelligenza vicina al minimo sindacale, avrebbero giocato a cavalluccio: con la Scazzi sopra, si sarebbe pensato. No, Sarah faceva il cavallo e Sabrina, di tripla consistenza, il cavaliere, che con una improvvisata briglia (la cintura, che ora fa capolino?) per sbaglio l’avrebbe strozzata (casomai, fosse mai stato vero, Sarah avrebbe rischiato sì, grosso, ma per il peso della cugina sul suo esile corpicino…). Altra giravolta di Michele: non giocavano, ma hanno litigato. Come lo sa? Si è visto arrivare in garage Cosima e Sabrina, cadavere in braccio, transitate per un passaggio interno, sempre chiuso ermeticamente fino a quella data, e in pochi secondi avrebbe dato il via alla congiura per l’occultamento. DNA di Sarah? Nemmeno un po’.
Perplessità. La rincorsa di Cosima è attestata dal famoso sogno/visione/percezione del fioraio Giovanni Buccolieri, sul modello di quanto avviene nella cultura degli indios, che considerano i sogni realtà. L’uomo non avrebbe avuto di meglio da fare che dirlo alla sua dipendente Vanessa Cerra, che ovviamente sarebbe andata subito a “sbrodolare” la succosa confidenza alla madre Anna Pisanò. Buccolieri però, a breve, ritratta tutto; in questo caso non viene creduto, e si becca una condanna a due anni e otto mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma non tornerà indietro: non era vero niente, era solo una sua ipotesi, nel mare di supposizioni paesane che si incrociavano in quei giorni. Anna Pisanò, a sua volta, non è stata certo lineare. Prima ha parlato di certi operai che stavano ristrutturando un edificio scolastico e fischiavano alle donne (anche a lei, precisa), quasi alludendo alla possibilità che tra loro si dovesse indagare; poi sterza di brutto, parlando della tristezza di Sarah la sera del 25 agosto, e di un suo malumore anche il 26, giorno in cui, vedi caso, la Pisanò si sottopose a trattamenti estetici da Sabrina (e Sarah era sempre lì), notando il suo pallore, le lacrime trattenute, perché bistrattata da Sabrina. In realtà l’umore altalenante dei giovanissimi è la regola e se la Pisanò la sera non era al pub, quindi parlerebbe de relato, il 26 nessuno oltre lei notò Sarah corrucciata. Le amiche di Sabrina picchiano duro sulla infatuazione di Sabrina per Ivano, ma quanto a Sarah, ne riferiscono in modo non significativo: ogni giorno tra giovani, specie giovani donne e ragazzine, si litiga e si fa pace. L’indomani Sarah in mattinata era già dalla cugina, andò a comprare un prodotto in profumeria per lei, ed era vestita di nero; dopo mangiato, entusiasta alla prospettiva di andare al mare, provocando anche un po’ di disappunto in Concetta, mise il costume da bagno e si cambiò, indossando la famosa maglietta rosa come testimoniato anche da Concetta……ma no. Un manutentore, che l’avrebbe notata per strada, parla di lei vestita di nero nel primo pomeriggio, e le parole di Concetta passano in secondo piano. Né conteranno di più riguardo all’orario: Concetta ha sempre sostenuto che sua figlia era uscita alle quattordici e trenta, ma sul punto verrà ritenuta più affidabile la badante Maria Pantìr, che è fissata con l’uscita alle quattordici. Né varrà più che tanto la testimonianza dei due fidanzati di passaggio, che hanno notato Sarah camminare sul marciapiede e propendono anch’essi per le quattordici e trenta. E perché mai, nel correre dietro a Sarah, si sarebbe impegnata la stanca e pesante Cosima, unica a saper guidare, lasciando in auto l’imperturbabile Sabrina, mentre sarebbe stato del tutto logico che la più giovane si mettesse alla rincorsa e la patentata Cosima aspettasse in auto col motore acceso, pronta a ripartire? Nel giro di circa venti minuti dunque Sabrina avrebbe: ucciso Sarah insieme alla madre, chiamato rinforzi per farla scomparire, mandato messaggi al telefonino della cugina e con lo stesso dispositivo, ora in suo possesso, risposto con uno squillo per far credere che la poveretta fosse ancora viva; inoltre, scambiato altri messaggi con una cliente che nel frattempo l’aveva contattata, per poi scendere in strada dove l’attendeva la Spagnoletti, fingere preoccupazione e dirottare tutti verso casa Scazzi, mentre Michele, incorporeo, si dileguava con la salma in auto. Sembrerebbe una macchinazione davvero fortunata, per un delitto d’impeto, che si suppone lasci l’assassino un minimo sconvolto e poco lucido nell’immediatezza: ci vogliono sempre alcuni minuti per decidere sul da farsi, tempo a disposizione e un luogo non frequentato o isolato.
In questa sede non è il caso di aggiungere altro, che già non si sappia, a parte considerare gli ultimi sussurri al riguardo – “ …intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto” Panorama.it 27 novembre 2018 – Esisteva, in effetti, questa villetta, di proprietà del nonno di Sarah, e pare che su certe feste che vi si svolgevano nessuno abbia raccontato la verità: Sarah c’era o no? Circolava droga? La ragazzina aveva visto qualcosa? Per ora, è tutto: ergastolo per Cosima e Sabrina, otto anni per Michele, che ha ripreso a dichiararsi colpevole ed è stato anche condannato per la diffamazione nei confronti del suo primo avvocato Daniele Galoppa e la consulente Roberta Bruzzone, che a suo dire lo avrebbero convinto ad accusare la figlia, in quanto rassicurato sul fatto che le avrebbero dato solo un paio d’anni di carcere….Se solo Sabrina non fosse stata sentita da tutti, nei convulsi momenti in cui Sarah non arrivava, mentre proclamava sicura “ l’hanno presa, l’hanno presa”, forse non avrebbe attirato su di sé quell’attenzione che i suoi detrattori, vedendola così spesso in televisione, hanno bollato impietosamente, additandola quale ovvia pertinenza caratteriale di un’assassina narcisista; se solo Cosima non avesse spintonato il marito dietro la porta del garage, per indurlo a non dire pericolose scemenze dinanzi ai giornalisti, gesto interpretato come volontà di insabbiare la verità…se, se solo Sarah fosse ancora qui. Maria Lucia Monticelli, la giornalista che seguiva la vicenda per “Chi l’ha visto” ci regala a sua volta una visione: prima del ritrovamento del corpo aveva sognato la ragazzina che la avvolgeva in un abbraccio “dolente”: così aveva intuito che lei non c’era più. Se fosse stato tutto un brutto sogno.
Carmine Misseri vuole lasciare il carcere. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 07 agosto 2019. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per soppressione di cadavere in concorso con il fratello Michele, vuole lasciare il carcere e trasformare la pena detentiva con l’affidamento ai servizi sociali. Ma per i giudici è ancora presto. Non solo per quelli del Tribunale d sorveglianza di Lecce che hanno respinto la prima richiesta, ma anche per gli ermellini della Corte di Cassazione che hanno rigettato il ricorso. Il fratello del principale protagonista della triste vicenda di Avetrana, che secondo i tre gradi di giudizio il 26 agosto del 2010 lo ha aiutato a nascondere il corpo della nipote in un pozzo in contrada «Mosca», sta scontando nel carcere di Lecce, dal 21 febbraio 2017, una condanna di quattro anni e undici mesi di detenzione. In primo grado i giudici gli avevano assegnato sei anni. Rendendo inammissibile il ricorso, i giudici della suprema corte hanno avvalorato le argomentazioni dei giudici leccesi che ritengono prematura la misura alternativa. Intanto per la natura e gravità dei reati per i quali è stato condannato, ma anche per non aver mai ammesso la propria colpevolezza. La difesa di Carmine Misseri sosteneva invece che per usufruire della messa in prova anticipata non fosse necessaria la confessione «avendo il condannato il diritto di non ammettere le proprie responsabilità». Misseri, tra l’altro, si è sempre dichiarato estraneo all’imputazione di soppressione di cadavere «pur accettando e rispettando la decisione emessa nei suoi confronti». A dar forza alla tesi dei giudici ha concorso anche il parere contenuto in una nota del commissariato di polizia che ad un parere richiesto aveva sollevato dubbi per la presunta pericolosità sociale dell’individuo. Anche la direzione del penitenziario di Lecce dove è detenuto si era espressa non favorevolmente all’anticipato affidamento ai servizi sociali ritenendo utile, prima, sperimentare un ciclo di permessi premio di cui Carmine non ha ancora mai goduto. «Anche in ragione della non vicina scadenza della pena – si legge nella relazione del servizio penitenziario -, sia indispensabile un approfondimento dell’osservazione scientifica della personalità del condannato, all’esito della quale, in un’ottica di gradualità nella concessione dei benefici penitenziari, sperimentare, per un congruo periodo, banco di prova per l’ammissione ad una misura alternativa così ampia quale quella invocata in questa sede dall’interessato».
A poco è servita per il momento la buona condotta del detenuto che ha sempre sostenuto la sua innocenza accusando il fratello Michele di averlo coinvolto nella brutta storia con la telefonata fatta nel momento in cui trasportava il corpo di Sarah Scazzi per sopprimerlo. Secondo la sentenza, con quella chiamata i due fratelli si diedero appuntamento in contrada Mosca dove avrebbero trovato il pozzo in cui gettarono il cadavere. Carmine Misseri ha invece sempre sostenuto che in quella breve conversazione il fratello gli raccomandava di dire una bugia alla moglie nel caso lo avesse chiamato per chiedere dove si trovasse il marito. (Famosa la storia: «se chiama Cosima dì che sono scappati i cavalli»). Nazareno Dinoi
· La sensitiva Rosemary Laboragine.
“Generali è nel lago” Rose lo aveva detto. Dilei.it il 20 maggio 2019. Intervista alla sensitiva Rosemary Laboragine, impegnata nella ricerca di persone scomparse. Il pomeriggio dell’8 novembre 2010 hanno ritrovato in fondo al lago dell’Enel di Pavana il corpo di Carlo Generali, l’imprenditore titolare del marchio Carla G di cui si erano perse le tracce dalla notte tra giovedì e venerdì. In mattinata la sensitiva Rosemary Laboragine, in una lunga chiacchierata, ci aveva detto che l’uomo era morto e si trovava in profondità, dentro l’acqua. Divenuta famosa alle cronache per avere aiutato a risolvere il caso di Melania La Mantia, la paracadutista annegata a febbraio, Rosemary Laboragine ha iniziato ad avere i suoi flash a due anni e mezzo quando predisse la morte della nonna e negli ultimi tempi aveva anticipato l’esito del caso Sarah Scazzi. Ma il suo unico obiettivo divita, ci ribadisce più volte, è aiutare a ritrovare le tante persone scomparse di cui si occupa. Come Denise Pipitone e Angela Celentano, che sono vive e torneranno.
Anche per Carlo Generali un’altra visione azzeccata.
«Sì, io l’avevo detto che aveva avuto un incidente, dovuto a un malore. Per me quell’uomo non ha nemmeno toccato i freni, nei miei flash lo vedevo incastrato in profondità, in mezzo a fango, acqua. Ho detto da subito che non si trattava di rapimento».
Come avvengono i suoi flash?
«Se ho la persona davanti, non la guardo negli occhi ma le prendo la mano se è al telefono sento la voce e guardo altrove: un muro bianco può darmi un viso o un nome. Nel caso di Petriti, per esempio, la donna scomparsa a Torino trovata murata nella casa dell’ex amante del marito, vedevo il nome Andrea, che è quello di uno degli arrestati. Quando mi chiedono di analizzare un caso posso avere un flash immediato oppure dopo 3, 4 giorni. Sull’imprenditore Generali guardavo la televisione e ho detto: “Entro domani (8novembre, ndr) lo trovano”. Vedevo una grossa automobile, vedevo che andava veloce e che aveva avuto un offuscamento alla vista. Ho visto anche una cosa che non so se la sua famiglia sapeva: quest’uomo un paio di giorni prima aveva avuto qualche sintomo, soffriva di pressione alta e non so se l’ha rivelato ai famigliari. Un piccolo malore che ha preso sottogamba. Aveva problemi fisici e con i suoi impegni di lavoro li ha sottovalutati».
Quando ha capito di avere questo “dono”?
«Il primo flash l’ho avuto a 3 anni. Mia nonna ne aveva 45, mio nonno 49. Vivevamo insieme, eravamo in cucina, mi sono alzata ho abbassato la persiana salendo sulla sedia, perché ero davvero piccolina, e ho detto: “Muore la nonna”. Si sono messi a ridere, mezz’ora dopo si è accasciata per un infarto. Dopo qualche giorno ho detto a mia mamma: “Voglio andare via col treno, muore il nonno”. E così è stato. Poi fino a 16 anni non ne ho più avute. Mia mamma non mi ha mai detto nulla, ma in paese lo sapevano tutti. A 16 anni ero seduta sui gradini di casa e vedo passare un vicino che sta partendo in Vespa. Corro e cerco di fermarlo. Lui non mi ascolta, dopo un quarto d’ora ha avuto un malore e si è piantato un freno in gola. A quel punto mia mamma mi ha raccontato quello che era successo quando ero piccola, riportato anche sul Gazzettino locale. Da allora i miei flash sono continuati».
Anche per Sarah Scazzi aveva avuto dei flash veritieri: vedeva acqua, prima ancora che la ritrovassero, su confessione dello zio, nel pozzo.
«Sì, pensi che Misseri lo presero di mercoledì e io avevo registrato una puntata di Pomeriggio sul 2 che non mandarono in onda per rispetto della madre in cui dicevo che la vedevo morta, in posizione fetale, con acqua intorno. Vedevo anche qualcuno che lei conosceva, un uomo, ma non riuscivo a identificarlo. Poi l’ho visto, era Michele».
Come?
«Il venerdì prima che lo prendessero e confessasse vado al ristorante, guardo un quadro e vedo la sua faccia e dico al mio compagno: “È stato lui, è lo zio”. Torno a casa e comincio a mandare mail a giornalisti, è tutto registrato. Il mercoledì guardo Chi l’ha visto e scopro in diretta del suo arresto. Se solo mi avessero ascoltata! Una sola cosa mi ha frenata dal chiamare la mamma di Sarah per dirglielo, una sua frase…»
Quale?
«“Di tutti sospetto fuorché di mio cognato”. E lì ho pensato: se chiamo io, da perfetta sconosciuta, mi manda a stendere».
Aveva anche predetto il coinvolgimento di Sabrina.
«Sì, avevo detto anche che Misseri non aveva fatto tutto da solo, che vicino a lui c’era una donna complice, della famiglia. Feci una intervista fatta per Matrix che non è andata in onda proprio la sera prelevarono Sabrina. Se penso che Sarah avrebbero potuto trovarla dieci giorni prima se mi avessero ascoltata! Io l’avevo detto: la vedo con gli occhi chiusi, in posizione fetale, c’è acqua intorno e non è lontana da casa. Non l’hanno mandata in onda per timore che la madre potesse restarne provata».
Il movente del delitto?
«Per me è stato un raptus. Poi ha chiamato il padre per farsi aiutare a sbarazzarsi del corpo. È Ivano, il fidanzato, la causa della gelosia di Sabrina, che vedeva Sarah crescere farsi carina, la vedeva come un pericolo. E ha perso la testa. L’ha uccisa con quella cinta bianca. Io continuo ad avere dei flash su Sarah, la bambina non è in pace, è morta di morte violenta. La sento vicina e le dico sempre: “Non preoccuparti che finché non vado a fondo non mollo”».
Su un altro caso di cronaca di questi giorni, quello di Marina Patriti, aveva detto la sua
«Sì, non appena sentii la figlia della donna in tv, vidi subito due uomini e lei sepolta. Ho tutto archiviato, lo posso dimostrare. Vidi anche il nome del complice Alessandro, figlio dell’assassina. Anche su un altro caso ho delle certezze».
Quale?
«Alessandro Ciavarella, scomparso l’11 gennaio 2009. A mio sentire è morto, era un ragazzo timido ed è stato adescato da amici. È stato ucciso per un atto di bullismo e io vedo che tra quelli che l’hanno preso c’è un “Pio”. È sepolto a 10-15 km da casa. E ci sono 3, 4 ragazzi coinvolti».
Omicidio di Garlasco: ha detto pubblicamente che secondo lei Stasi è colpevole.
«Sì, ogni volta che lo vedo in video mi viene la nausea, mi preme lo stomaco. Non dice la verità. Solo che secondo me è protetto da personaggi potenti. E la famiglia di Chiara mi fa una pena incredibile. L’ha uccisa perché lei aveva scoperto le sue foto pedopornografiche e minacciava di rivelare la cosa».
Sostiene invece che la Franzoni sia innocente.
«Ci ho messo un anno prima di avere i flash definitivi su Cogne. Mi creda, non la conosco e non mi ha certo pagata ma l’ho già detto: è stato un uomo, che vive lì, dimagrito di 10-15 kg dall’epoca del delitto e l’arma è custodita in una casa, nel secondo cassetto di un mobile. Annamaria non ha rimosso come dicono, è in carcere ingiustamente. Io vorrei chiamare il suo avvocato per farle avere il mio libro appena uscito: Oltre ogni ragionevole dubbio. Un domani, lo dissi a Mentana, farete una trasmissione per chiederle scusa. Si ricordi, è stato un uomo».
Il movente?
«È uno psicopatico, si era invaghito di Annamaria, aveva capito che non poteva averla e si è accanito sul bambino. I pazzi non sempre hanno un vero movente, guarda quel carabinieri che qualche giorno fa ha ucciso la figlia, ferito gravemente l’altra e poi si è suicidato. Io la sera prima avevo avuto un flash, avevo detto: “Prevedo un delitto grave in una famiglia bene”».
Lei è diventata famosa alle cronache per aver aiutato a ritrovare il corpo di Melania La Mantia, la giovane paracadutista morta a inizio anno, annegata nel lago Cà Bianca.
«Quando la vidi in un flash in fondo al lago fui attaccata da tutti. Ma io sono mamma, ho due gemelle delle sua età, potrei mai dire una cosa del genere se non fossi più che sicura delle mie visioni? Quando la cercavano nel lago e non la trovavano e mi dicevano: “Guarda che non c’è, non troviamo nemmeno il paracadute”, io rispondevo “Certo, perché è con lei!” E loro “impossibile”. Ma io insistevo. “È in acqua, ci passate sopra”. Infatti il fondale, che era come sabbia mobile, l’aveva risucchiata. Melania l’hanno ritrovata lì sotto, col suo paracadute».
Sostiene anche che Angela Celentano e Denise Pipitone siano vive.
«Sì, lo sono, sono state vendute. Di Denise si saprà e la mamma Piera Maggio avrà la sua soddisfazione, perché cuore di mamma non sbaglia. Angela sarà lei a mettersi in contatto con la famiglia. Perché la bambina ricorda, un giorno vedrà su internet qualcosa e tornerà da loro, da adulta. Ma la mamma di Denise fa bene a sperare, perché quando uno è morto lo dico, come ho fatto per Sarah, metto da parte l’emotività, non mi faccio frenare dal fatto che sono anch’io mamma. Poi magari dopo piango, ma lì per lì cerco di essere obiettiva. E comunque il settimo senso della Maggio sarà confermato».
In che senso?
«Piera maggio ha sviluppato il settimo senso, che è diverso dal mio dono. Sono quelli che hanno sogni premonitori o che sentono cose che poi si avverano. Che è diverso dall’essere sensitivi come me. Io ho i flash. So che Denise è stata venduta dalla sorellastra. Inizialmente, secondo me era in Italia, ora la sento in Francia o in Spagna. Solo che è cresciuta, è molto alta per la sua età, ha i capelli corti, è difficile riconoscerla per uno che ha in mente le sue foto da bambina. Ma è viva. C’entrano gli zingari, quelli ricchi, che hanno pagato profumatamente per comprarla».
Il suo potere, lo considera più un dono o una sventura?
«50 e 50. Pensi che mia mamma, che è scomparsa pochi anni fa, mi diceva: “Se potrò, da lassù ti aiuterò”. E credo lo abbia fatto, prima non riuscivo a vedere solo tramite le foto. Dovevo sentire la voce o toccare le persone. Dopo che è morta ce l’ho fatta. Ma la mia è una missione».
Ci spieghi meglio.
«Ci sono due Rosemary: una che lavora per vivere, infatti faccio le mie trasmissioni televisive, ho delle cartomanti selezionate. E poi c’è la Rosemary che si occupa, non per soldi, delle persone sparite nel nulla. Perché il mio obiettivo è aiutare gli scomparsi. Collaboro con le forze dell’ordine. Mi occupo degli scomparsi: ho tutti i loro volti appesi alle pareti, li guardo, ci parlo. Questa è la mia missione».
(Ieri sera Rosemary aveva scritto sulla sua bacheca: “Sta arrivando un terremoto lieve in Italia e uno forte all’estero”. Stamattina le agenzie hanno segnalato un sisma in Basilicata di magnitudo 3.4 e uno 5,4 a Giava)
Aggiornamento del 12 novembre 2010 ore 15 – In un flash del 17 ottobre alle ore 01.45 Rose scriveva: “UNO MORIRA’ PRESTO..DI LORO… DEI MISSERI… ” (Michele oggi ha avuto una crisi cardiaca)
· Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
La Strage di Erba, il delitto di Avetrana e gli altri casi di cronaca. Cosa accomuna i casi giudiziari forieri di dubbi sulla colpevolezza dei condannati?
La strategia difensiva. La presenza dei consulenti mediatici. La nomina di avvocati di ufficio. La loro sudditanza ai Pubblici Ministeri.
Picozzi, Meluzzi, Bruzzone. Le Iene. Due Pesi e due Misure. Perché le Iene per Olindo Romano e Rosa Bazzi credono nella manipolazione delle loro testimonianze e la stessa cosa non vale per Michele Misseri?
Da Le Iene del 23 febbraio 2019. Le Iene entrano in possesso di un documento inedito, dal contenuto clamoroso e che tutti hanno cercato e avrebbero voluto pubblicare in questi anni. È un video girato due mesi dopo la stage, in cui Olindo Romano racconta i particolari della strage al criminologo Massimo Picozzi, allora consulente del difensore d'ufficio. Il filmato, mai pubblicato prima d'ora e mai entrato a processo, aggiunge nuovi fondati dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “Strage di Erba”. Il video viene girato circa un mese dopo che i due coniugi si autoaccusano del delitto, a un mese esatto dal massacro, avvenuto l'11 dicembre del 2006. Il contenuto delle confessioni è carico di incredibili inesattezze ed errori grossolani nella ricostruzione della dinamica. Rosa e Olindo sbagliano o non ricordano. Tra le altre cose: l’orario della strage; il fatto che non ci fosse illuminazione; l’ordine e la dinamica di aggressione delle vittime, in pratica chi avrebbe ucciso chi; le armi del delitto utilizzate; il loro abbigliamento; la loro via di fuga. Oggi Le Iene sono in grado di aggiungere un nuovo tassello nella ricostruzione degli eventi, questa volta con un nuovo e prezioso documento, fino ad oggi rimasto assolutamente inedito per la televisione. Olindo Romano ha accettato di rendere pubblico, esclusivamente attraverso il nostro programma, (vedi lettera di Olindo Romano in fondo all'articolo) i filmati realizzati due mesi dopo la strage dal criminologo Massimo Picozzi, che incaricato dal difensore d’ufficio Pietro Troiano, dovevano servire a dimostrare l’infermità mentale dei due coniugi e, pertanto, ottenere la loro non punibilità.
Il criminologo Picozzi “intervista” Rosa e Olindo nel corso di tre incontri ciascuno avvenuti tra febbraio e aprile 2007. Da questi incontri all'epoca viene fuori solo il più noto di questi filmati: quello dove Rosa Bazzi racconta, tra le lacrime, il movente e la dinamica dell’efferato pluriomicidio. Un filmato che non sarà considerato una prova valida dai Giudici, ma che comunque verrà proiettato in aula al processo e diffuso da ogni televisione, rafforzando in tutti la convinzione di avere di fronte una spietata assassina. Eppure anche in quel racconto, registrato diverse settimane dopo la confessione davanti ai pubblici ministeri, non mancano le enormi inesattezze e le assolute incongruenze. I contenuti del filmato inedito di Olindo Romano, sono ancora più clamorosi. Perché confrontati con il racconto di Rosa, ma soprattutto con la dinamica certificata dalle sentenze, rendono i dubbi sulla loro reale colpevolezza ancora più forti. Quello che all’epoca dei fatti era il difensore d’ufficio dei coniugi, l’avvocato Pietro Troiano, non sa che le prove in mano alla Procura sono meno solide di quello che sembra. La perizia del Ris di Parma che stabilisce con assoluta certezza che nessuna traccia di Rosa e Olindo è presente sulla scena del crimine e che nessuna traccia delle vittime è presente in casa dei due, verrà infatti depositata molto più avanti. Per questo motivo l’avvocato Troiano avrebbe deciso la strategia difensiva che puntava ad ottenere l’infermità mentale. Da qui il suggerimento, a Rosa e Olindo, di essere molto convincenti davanti all’obbiettivo della telecamera del criminologo Massimo Picozzi.
PICOZZI E RAMPONI. Da Le Iene il 30 aprile 2019. “Lui mi faceva le domande e mi spiegava quello che avevo da dire…mi spiegava “perché guarda Rosy, che vai contro o vai a fare, fai questo fai quello, devi dire così devi fare così, quando è il momento ti devi agitare, cioè muovi le braccia così, muovi le braccia così”. “Lui” è il criminologo Massimo Picozzi, all'epoca consulente della difesa, e la donna a cui avrebbe dato dei suggerimenti nel raccontare disperata i dettagli della strage di Erba, è proprio lei: Rosa Bazzi. Sarebbe la nuova tesi che la donna, condannata insieme al marito all’ergastolo per la strage dell’11 dicembre 2006 che costò la vita a 4 persone, 3 donne e un bambino, farebbe dal carcere di Bollate, dove è reclusa da 12 anni, nell’intervista esclusiva concessa a Le Iene, della quale vedrete un nuovo capitolo martedì a partire dalle 21.10 su Italia 1. Quel video ha un'importanza strategica sugli sviluppi della strage di Erba, perché finito nelle mani dei pm e poi di una trasmissione tv: nato come strumento voluto dalla difesa, una volta reso pubblico convinse tutta Italia che Rosa Bazzi fosse colpevole, molto tempo prima che fosse effettivamente condannata. Riguardo ai colloqui psichiatrici video registrati con Massimo Picozzi la detenuta racconta ad Antonino Monteleone particolari difficili da credere, perché se fossero veri, consentirebbero di vedere quel video sotto un’altra prospettiva. “Lui aveva spento la telecamera… mi aveva detto come muovere le mani come agitarmi, cioè… tutte queste cose. questo me l’aveva detto Picozzi”. E ci sarebbe un altro punto di questa vicenda che coinvolgerebbe ancora al consulente la difesa dei coniugi Romano, sempre riguardo a questi video- appunti per una perizia psichiatrica a Rosa e Olindo. Non solo il video in cui Rosa racconta la strage tra le lacrime finirà nelle mani della pubblica accusa, senza che venga depositata alcuna perizia psichiatrica, unica finalità per la quale erano stati realizzate quelle riprese. Ma buona parte dei contenuti del video di Rosa e anche di quello di Olindo, che non è mai stato depositato in Procura, sarebbero finiti non si sa come in un libro scritto dal giornalista Pino Corrias e pubblicato prima ancora che il processo a marito e moglie cominciasse. E questo denunciano i nuovi avvocati difensori di Rosa e Olindo, sarebbe una cosa molto grave. Chi fece vedere, abusivamente, i video al giornalista Corrias? Nel libro “Vicini da Morire”, oltre al contenuto trascritto di quei colloqui tra i detenuti e Massimo Picozzi, troviamo virgolettati attribuiti sia all’avvocato difensore Troiano, sia allo stesso consulente Picozzi, che compare anche tra i ringraziamenti dell’autore: loro, i componenti del collegio difensivo, erano gli unici che all'epoca sarebbero stati in possesso di quei video. E lo stesso Corrias, sentito in aula, ha raccontato: “ho visto un video, che è stato registrato in sede di perizia psichiatrica da Massimo Picozzi”. Quando però gli viene chiesto chi gli abbia mandato quei video e se fosse stato Picozzi, Corrias preferisce non rivelare la sua fonte. Antonino Monteleone decide allora di andare a sentire proprio il professor Picozzi per capire cosa ne pensa e qual è la sua versione dei fatti. “Professore una cosa molto importante, che quando Olindo e Rosa ritrattarono, lei consegnò tutto il materiale… ma in realtà il materiale presenta dei tagli, lei ha nella sua disponibilità il materiale?”, gli chiede la Iena. Ma Picozzi non ha intenzione di rispondere, neanche alla seconda domanda di Monteleone: “L’altra cosa che volevo chiederle è come mai Rosa chiede se era andata bene o era andata male in testa e in coda a dei tagli e delle dissolvenze che ci sono nel filmato…”. Niente, ancora nessuna risposta. E quando gli chiediamo come sia possibile che il giornalista e autore del libro Pino Corrias abbia visto il video di Olindo, tanto da contenerne alcuni estratti, Massimo Picozzi resta in silenzio, guardando fisso nel vuoto.
LETTERA DI EDOARDO MONTOLLI A DAGOSPIA il 30 aprile 2019. Caro Dago, in concomitanza con la nuova puntata de Le Iene di stasera sulla strage di Erba, Il Giorno riporta la clamorosa notizia che la Corte d’Assise di Como ha bocciato definitivamente le istanze di Olindo Romano e Rosa Bazzi di esaminare i reperti della strage mai analizzati, scrivendo testualmente, che la sentenza è «in applicazione dell’orientamento della Cassazione su ciò che attiene le attività di investigazione difensiva». Tutti i quotidiani e i tg, come quasi sempre capita in questa vicenda, si sono buttati a riprendere la news, talmente clamorosa e fresca che Oggi l’ha pubblicata tre settimane fa e Le Iene l’hanno contestualmente mandata in onda all’epoca. Anche se le cose non stanno esattamente come le raccontano in queste ore: la Corte d’Assise di Como, infatti, è tutt’altro che allineata con la Cassazione, che anzi aveva autorizzato gli esami. I giudici lariani scrivono però che il parere della Suprema Corte non è «vincolante per questo giudice dell’esecuzione, in quanto pronunciato in diverso procedimento definito dalla Corte d’Appello di Brescia». A Como, in sostanza, finchè non arriverà un parere delle Sezioni Unite, non vogliono saperne di autorizzare le analisi e quindi chiedono di distruggere anche ciò che in tribunale è stato dimenticato dall’incenerimento illecito della scorsa estate, quando la gran parte del materiale fu bruciato pure di fronte a due espressi divieti dei giudici e in attesa della decisione della Suprema Corte. A beneficio dei tuoi lettori, ti allego l’articolo di Oggi di tre settimane fa e il documento in oggetto della Corte d’Assise, in modo che ognuno possa farsi un’opinione. Già che ci siamo, ti allego anche l’opposizione fatta a Como dalla difesa di Olindo e Rosa, che, come riporto domani su Oggi, ha chiesto stavolta un’udienza pubblica, cosicchè il cittadino constati di persona quanto sta accadendo. La difesa rileva nel provvedimento in parte una “nullità assoluta” e in parte “abnormità”, fermo restando che non si capisce perché siano stati confiscati e per la gran parte distrutti oggetti come pc, telefonini, indumenti che erano estranei al reato e che andavano restituiti ai legittimi proprietari o eredi quale che fosse il loro valore. Non a caso, nei processi sulla strage, non fu predisposta alcuna confisca. Questo, giusto per correttezza d’informazione. Non vorrei infatti che la vecchia notizia data da Il Giorno proprio stamane e fatta risaltare in maniera esorbitante da tutti i quotidiani e i tg, distraesse il pubblico dal lavoro d’inchiesta sul caso svolto dalle Iene e che stasera, come hai dato conto, andrà avanti, approfondendo la questione Rosa Bazzi-Massimo Picozzi. Perché purtroppo è molto facile distrarsi in una vicenda del genere, vuoi con una notizia vecchia, vuoi con un gossip. A proposito di tale argomento, debbo rilevare che nel frattempo si sono perse le tracce delle notizie sul falso amante di Rosa Bazzi, che, giornali e tg a parte, non è mai esistito, se non nel breve frangente temporale di un’altra puntata de Le Iene sulla strage. Cordialmente, Edoardo Montolli.
MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI. Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso. Come estorcere una confessione.
HOW TO FORCE A CONFESSION: Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto.
MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita.
THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa.
OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo. Suggerire le parole per la confessione.
FORCING LANGUAGE
Video tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00. Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...
Yara Gambirasio e quelle confessioni mai rese. Rosa, Olindo, Sabrina Misseri e gli altri, scrive il 22/06/2014 L'Huffington Post. La storia di Yara ha diviso e scatenato le polemiche. Chi difende Massimo Giuseppe Bossetti e chi invece lo vede come il colpevole dell'omicidio della piccola. La sua confessione negata però non è la prima. La Stampa rivive tutti i casi di cronaca dove i colpevoli hanno negato sempre tutto. Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore. L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.
Rosa e Olindo Romano: all'inizio avevano confessato, poi ritrattato parlando di "lavaggio del cervello". Non è bastato. Sono stati condannati all'ergastolo nel 2011.
Anna Maria Franzoni: Ha sempre negato, in tribunale come in Tv, rifiutando l'ipotesi della rimozione mentale. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele.
Paolo Stroppiana: ha sempre negato, ma le sue menzogne lo hanno alla fine condannato: sta scontando 14 anni per la morte di Marina di Modica.
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: omicidio colposo 6 anni e favoreggiamento (2 anni) per l'omcidio di Marta Russo. Teorizzavano il delitto perfetto.
Sabrina Misseri: Tutti la ricordano sempre in TY per la scomparsa della cugina Sarah Scazzi. Poi la condanna senza confessione.
Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive il 17 novembre 2010 La Repubblica. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all' incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull' omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrinae sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l'inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.
Roberta Bruzzone, la criminologa da fiction che difende Misseri, scrive Benedetta Sangirardi Sabato 13 novembre 2010 su affaritaliani.it. Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Aiuta anche le donne e le vittime di violenza. E' consulente tecnico di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio. Ha maturato numerose esperienze formative in Italia e all’estero, tra cui un periodo di training in USA presso l’University of California nella sede di San Francisco. E' membro del comitato scientifico della Polizia Postale e delle Comunicazioni. Svolge attività di docenza in vari corsi di perfezionamento e master universitari di numerose Università italiane. Ma non è tutto. La bionda acclamata da diversi blog per la sua bellezza è anche docente universitario, Presidente dell'Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell'International Association of Crime Analysts, Direttore Scientifico de “La Caramella buona Onlus” (associazione di volontariato contro la pedocriminalità). E poi è conduttrice tv, la sua, forse, vera inclinazione. Autrice e conduttrice del Programma TV "La scena del crimine" su un'emittente locale romana e del programma "Donne mortali" su Sky. Insomma, la signora Bruzzone sa il fatto suo. Ed è entrata a gamba tesa nel delitto forse più seguito di tutti i tempi, togliendo spazio ai legali vari, da Vito Russo a Daniele Galoppa. D'altra parte lei non si concede troppo alle tv, come invece fanno gli avvocati e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda. Lei resta in disparte, parla quando lo ritiene necessario, mostra la sua bellezza anche un po' provocante. E difende Michele Misseri, assicurando che è una persona dolce "che ha molto a cuore sua figlia Sabrina". Anche se fino a un mese fa era uno sporco pedofilo.
La criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone inizialmente fu consulente della difesa di Michele Misseri, poi lasciò l’incarico per divergenze con la linea difensiva. L’uomo si autoaccusò dell'omicidio della piccola Sarah Scazzi e accusò la criminologa e il suo primo avvocato, Daniele Galoppa, di averlo indotto a incolpare la figlia Sabrina del delitto, motivo per cui la Bruzzone accusò di calunnia Misseri.
Strage di Erba, video inedito di Rosa Bazzi. Confessione è una messinscena? (Le Iene 26 febbraio 2019).
Antonino Monteleone: «Eppure quel video di Rosa, a cui non crede nemmeno suo marito, è girato per far ottenere ad entrambi l’infermità mentale, finì in mano ai Pubblici Ministeri e convinse tutta Italia della loro colpevolezza».
Avv. Fabio Schembri, il nuovo difensore di Rosa ed Olindo: «Che sia finito nel fascicolo del Pubblico Ministero prima di un processo, un colloquio psichiatrico, mi sembra che non è un fatto scorretto, è un fatto incredibile. Diciamola così. Cioè…»
Antonino Monteleone: «Lei dice che è un fatto grave…»
Avv. Fabio Schembri «Ho appreso che è stato detto che quel video sarebbe finito nel fascicolo del Pubblico Ministero perché c’era la denuncia da parte di Rosa di uno stupro. D’accordo? Bene. La denucnoia di stupro si può fare senza video. Uno denuncia uno stupro, poi si fa sentire, se si vuol far sentire, appunto dai pubblici ministeri. Io non so per quale motivo si sia fatta questa scelta».
Antonino Monteleone «Che bisogno c’era di depositare quel video di Rosa. Non sarebbe bastato presentare una denuncia per stupro? Perché il difensore d’ufficio, Pietro Troiano fece quella scelta che poi si sarebbe rivelata davvero disastrosa?»
Roberta Bruzzone: "Io, il crimine e la Tv". La psicologa forense: "Al male non ci si abitua mai. Ballando? Una boccata d'ossigeno". Luca La Mantia, In Terris 5 maggio 2019. "Considero questa professione, per certi versi, una vera e propria missione che lascia solo briciole alla vita 'fuori dal campo di battaglia'. Anche perché il mio lavoro di certo non facilita lo sviluppo di fiducia nei confronti del genere umano...". Roberta Bruzzone il male lo conosce bene. Nella sua attività di criminologa investigativa e psicologa forense si è occupata di casi complessi, spinosi. Due su tutti: la strage di Erba e il delitto di Avetrana. Storie nere, come il colore che la vediamo spesso indossare nelle ospitate televisive o che ha scelto per lo sfondo del suo sito personale. Ma quale vocazione porta a scegliere un mestiere che ti fa entrare nei meandri più oscuri della psiche umana? Come si affrontano tensioni e scene raccapriccianti? Lo ha raccontato a In Terris.
Come ha scoperto la passione per la psicologia? C'è sempre stata o si è trattato di un incontro casuale?
"La scelta è avvenuta in maniera molto naturale perché rappresentava la sintesi perfetta dei miei interessi sin da bambina. Ero infatti attratta da eventi e situazioni che meritavano un spiegazione e quindi ero molto curiosa e determinata soprattutto quando si trattava di fare luce su situazioni poco chiare o, addirittura, misteriose. Ho semplicemente assecondato una predisposizione naturale in me e, un passo dopo l'altro, ho compreso che la psicologia, la criminologia e le scienze forensi sarebbero diventati i pilastri della mia vita professionale. Lo studio e l'impegno hanno fatto il resto. Del resto l'unico modo di raggiungere un obiettivo nella vita è avercelo chiaro".
Serie tv come 'Lie to me' stanno portando alla ribalta il ruolo dello psicologo e del criminologo in ambito giudiziario. Le capita mai di confrontarsi con la pretesa di risposte immediate, frutto di una certa cultura massmediatica?
"Si, purtroppo molto spesso c'è un'aspettativa quasi 'magica' di avere risposte o soluzioni rapidissime ma questo genere di lavoro, soprattutto quello che riguarda l'analisi della scena del crimine e dei vari reperti impone tempi che certo non hanno nulla a che fare con quelli mostrati nelle serie televisive di grande successo. Occorrono tempo, occorre calma e precisione. Per far bene questo lavoro, vista la posta in gioco, serve pazienza, da parte dei committenti e dell'opinione pubblica".
Lei deve spesso confrontarsi con delitti efferati, frutto di menti deliranti. Riesce sempre a mantenere un certo distacco professionale o qualcosa, in termini di emozioni negative, finisce per portarselo a casa?
"Non ci si abitua mai a confrontarsi con il peggio del peggio che gli esseri umani sono in grado di fare ai loro simili, per questo occorre attrezzarsi emotivamente per evitare di essere fagocitati da tali atrocità. E' molto difficile staccare la spina fino in fondo rispetto ai vari casi di cui mi occupo. Dopo ormai 20 di attività ho però imparato a convivere con questo genere di complessità".
Da tempo frequenta i più importanti talk show televisivi. Come si raccontano le dinamiche complesse di cui si occupa al grande pubblico?
"Bisogna farlo con onestà intellettuale e rappresentare tutte le informazioni disponibili. Purtroppo non tutti i talk show dedicati ai fatti di cronaca nera sono all'altezza di un compito così delicato e complesso. E i risultati si vedono, anche in termini di ascolti. Il pubblico vuole interlocutori credibili e affidabili, altrimenti cambia canale".
Lei ha partecipato, in qualità di consulente tecnico di parte, al processo sul delitto di Avetrana. Si è trattato di un caso di cronaca nera che ha fatto emergere in modo prepotente il lato oscuro di una parte della provincia italiana, fatto di maldicenze, invidie, gelosie e lancinanti divisioni familiari. Che clima c'era in aula?
"Le indagini, prima, e il processo, poi, sono stati durissimi, senza esclusione di colpi come si suol dire in questi casi. Omertà e menzogne di ogni genere l'hanno fatta da padrone e ci hanno reso la vita davvero difficile ma non ci hanno impedito di ottenere verità e giustizia per la piccola Sarah (Scazzi ndr)".
Il racconto mediatico di quella vicenda è stato oggetto di critiche e di severi interventi da parte di Agcom e Ordine dei giornalisti. Ora che conosce bene il mondo della televisione si sarà fatta un'idea se siano stati commessi errori o meno...
"Non è a me che deve fare questa domanda. Io ho fatto il mio lavoro e piuttosto bene direi...viste le condanne".
Una criminologa come arriva a "Ballando con le stelle" e, soprattutto, cosa fa?
"Mi proposero di partecipare come concorrente ma rifiutai per tutta una serie di ragioni. Poi Milly Carlucci mi propose il ruolo di profiler per valutare la performance dei vari concorrenti, come si rapportavano alla gara e come gestivano lo stress che il programma genera a profusione. 'Ballando' è un programma costruito per 'svelare' gli aspetti più interessanti e controversi della personalità dei vari concorrenti, quindi la cosa mi ha subito catturato ragion per cui ho accettato l'offerta. Ed eccomi qui alla terza mia edizione che è stata premiata da ascolti stellari".
Si tratta di un'esperienza che, in un certo senso, alleggerisce il carico di tensioni proprie del suo lavoro?
"E' la mia boccata di ossigeno. Un po' di sano divertimento non guasta nemmeno per una criminologa dalla scorza dura come me".
La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.
· Il Fioraio condannato.
CONFERMATA LA CONDANNA DEL FIORAIO DI AVETRANA. La Corte d'Appello di Lecce ha emesso la Sentenza, scrive Carmela Linda Petraschi su iltarantino.it il 26 Gennaio 2019. E’ stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione Giovanni Buccolieri, accusato di aver mentito a investigatori e magistrati. L’uomo aveva raccontato di aver assistito al sequestro di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima, condannate all’ergastolo in via definitiva. Buccolieri aveva descritto con dovizia di particolari ciò che aveva visto il 26 agosto del 2010, ma poi aveva ritrattato, asserendo che si era trattato solo di un sogno. Aveva raccontato di aver visto Sarah triste camminare per strada e poi giungere una Opel Astra con a bordo Cosima Serrano che scesa, aveva sgridato in malo modo Sarah e l’aveva costretta a salire in macchina, strattonandola. Nel sedile posteriore vi era seduta una figura femminile seminascosta. Il Giudice monocratico, Elvia Di Roma ha condannato a due anni, in primo grado, oltre al testimone chiave anche un altro imputato, Michele Galasso amico di Buccolieri, con il quale avrebbe concordato al telefono la versione del sogno da raccontare agli investigatori. Galasso non ha impugnato la sentenza che è divenuta definitiva. Che non si è trattato di un sogno è scritto anche nelle sentenze di 1° e 2° grado. Buccolieri al processo ha preferito tacere. Il suo avvocato, Lello Lisco ha affermato che il suo cliente era rimasto suggestionato dall’attenzione mediatica del caso.
· Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.
Taranto, parroco “tassista” inquisito in vasto giro di prostituzione. Nelle intercettazioni risulterebbe evidente il ruolo svolto da padre Calabrese, il quale aveva un rapporto diretto sia con le giovani prostitute che con la “maitresse” che si occupava della loro gestione, scrive Federico Garau, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Gravissime accuse nei confronti di padre Saverio Calabrese, sacerdote della parrocchia di Monteparano (Taranto). L’uomo risulta coinvolto in un’inchiesta nella quale gli inquirenti tentano di far luce su un vasto e ben organizzato giro di prostituzione che vede come protagoniste alcune ragazze originarie dell’est Europa. Le indagini hanno portato all’incriminazione di diversi connazionali delle giovani, che si occupavano della gestione degli affari, ma anche di alcuni italiani che avrebbero dato il loro appoggio in cambio di denaro. Questi ultimi, tra cui lo stesso padre Calabrese, avevano il compito di condurre le giovani nei luoghi in cui si prostituivano e di occuparsi delle loro necessità primarie. Il parroco di Monteparano, già conosciuto per aver ricevuto la confessione in carcere di Michele Misseri in merito al delitto di Avetrana, si trova ora agli arresti domiciliari per il reato di favoreggiamento alla prostituzione. Come riportato dal quotidiano “Libero”, la posizione di padre Calabrese, soprannominato “il tassista”, è ben nota al tribunale di Taranto. Il parroco, come si legge nell’ordinanza emessa dal giudice, “frequentemente accompagnava (le ragazze) sul luogo del meretricio fornendo assistenza, anche portando ivi cibo”. Innegabile, per gli inquirenti, il filo diretto mantenuto fra lui e la “maitresse” delle giovani prostitute. A dar conferma in tal senso le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti di Nadia Radu, in arte “Smeranda”, 31enne romena considerata un fondamentale punto di riferimento per l’organizzazione criminale. “Non me la sento ancora di uscire cucciolotta, ma se avete bisogno domattina poi esco, non c' è problema”. Queste le parole riferite alla donna da padre Calabrese nell’ottobre del 2017, che inchioderebbero il religioso alle sue responsabilità di “tassista”. In attesa del processo, il parroco è stato sospeso dai suoi incarichi pastorali. Al momento risultano 12 indagati, tra stranieri ed italiani, che sono inquisiti per i reati di associazione a delinquere, sfruttamento, agevolazione e favoreggiamento della prostituzione ed infine estorsione.
· Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.
Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto. Calabria News 25 Maggio 2019. Il giudice della I Sezione Penale del Tribunale di Taranto, Chiara Panico, ha assolto “perché il fatto non sussiste” il giornalista calabrese Filippo Marra Cutrupi, 49 anni, dal reato di falsa testimonianza avendo opposto il segreto professionale alla richiesta di rivelare la fonte di una notizia pubblicata dall’agenzia di stampa per la quale lavorava. Filippo Marra Cutrupi, difeso dall’avvocato Gianluca Pierotti, aveva seguito per la sua testata tutta la vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana in Puglia, e, tra le altre notizie, aveva pubblicato quella relativa alla richiesta di una rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Taranto all’autorità giudiziaria tedesca per l’audizione di una persona che la Procura riteneva “informata dei fatti”. La notizia, peraltro, era stata pubblicata già da vari giornali locali e da altre testate. Interrogato su quella che la Procura di Taranto riteneva una “fuga di notizie” e richiesto di rivelare la fonte, il giornalista aveva opposto il diritto/dovere professionale di non rivelare la fonte stessa. Al fianco del giornalista si erano schierati il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria, e il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, ricordando che “il segreto professionale dei giornalisti è finalizzato a garantire i canali informativi del professionista al fine di portare vantaggio alla libertà e alla completezza della informazione”. Il segreto giornalistico non è, dunque, un privilegio della categoria, ma uno strumento di tutela delle libertà democratiche e dei diritti individuali del cittadino. Non a caso il segreto giornalistico è salvaguardato da varie disposizioni di legge. Nel processo penale, in particolare, è richiamato dagli articoli 200, 256 e 362 del codice di procedura penale. E la giurisprudenza ormai consolidata ribadisce che se il giornalista oppone il segreto professionale rispetto ad informazioni che possono condurre alla identificazione della fonte della notizia non commette il reato di false dichiarazioni. Considerazioni ribadite da una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta anche in relazione ad una vicenda che ha riguardato un giornalista pubblicista e non professionista. Il procedimento a carico di Filippo Marra Cutrupi si è, dunque, concluso con la piena assoluzione del giornalista e, soprattutto, con la conferma – qualora ve ne fosse bisogno – che il segreto professionale è una garanzia per la libertà di stampa. “Finalmente – afferma Filippo Marra Cutrupi – si chiude un incubo giudiziario e per questo voglio ringraziare il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, con il Sindacato Giornalisti della Calabria, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, l’avvocato Gianluca Pierotti del Foro di Taranto per avermi difeso e quanti mi sono stati vicini in questa vicenda”.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi.
Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi. «Nelle autopsie cerco l’invisibile, come per Yara». Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Sull’architrave un cartello, donato da un’antropologa giunta dal Guatemala: «Welcome to paradise». O benvenuti all’inferno? «Entrambi. Qui s’incrociano i destini di criminali e santi», risponde Cristina Cattaneo, professore ordinario di Medicina legale alla Statale di Milano. Le narici ti avvertono che sei nel regno dei morti. Oltre la porta, 101 celle freezer. Dentro, sconosciuti congelati anche da 18 mesi. Il carrello teleguidato apre lo sportello, preleva il cadavere e, scorrendo su una monorotaia, lo trasferisce nella sala degli esami autoptici. Istituto di medicina legale dell’Università, via Mangiagalli 37. Quando non tiene lezione nell’aula magna, dove la cattedra è una teca trasparente che custodisce il tavolo anatomico di ceramica su cui il 30 aprile 1945 fu deposta la salma irriconoscibile di Benito Mussolini, la direttrice del Labanof — il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, unico in Europa — è quaggiù a eseguire autopsie, finora circa 500, molte per i casi giudiziari più controversi: Bestie di Satana, Yara Gambirasio, Serena Mollicone, Elisa Claps, Stefano Cucchi, Davide Rossi. L’ultima su Imane Fadil. «Voi giornalisti mi fate imbestialire con questa mania dei delitti celebri», avvampa in viso. «Se a tutti i morti fossero riservate le stesse attenzioni, il mondo sarebbe un posto migliore. Il giorno in cui è arrivata la signora Fadil ero semplicemente di turno. Non esistono autopsie di serie A e autopsie di serie B». Nel caso esistessero, Cattaneo ha dato prova di preferire le seconde, come si capisce leggendo Naufraghi senza volto(Raffaello Cortina editore), il libro in cui racconta i tre mesi di lavoro nella base Nato di Melilli per identificare una parte dei circa 1.400 migranti affogati nel Mediterraneo il 3 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015. «Contando tutte le tragedie dei profughi, stiamo parlando di almeno 30.000 vittime. Il più grande disastro di massa dal dopoguerra a oggi».
Morgue sul mare per una crociata.
«L’ho definita così. Dare un nome ai morti prima di seppellirli è un dovere di civiltà che si assolve soprattutto per i vivi. E un fatto di salute mentale».
In che senso?
«I parenti hanno bisogno di piangere su una tomba per elaborare il lutto. Altrimenti impazziscono, com’è accaduto a molte madri degli oltre 8.000 musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica. Per i morti del secondo barcone colato a picco a sud di Lampedusa erano giunte richieste di notizie da 190 famiglie di dodici Paesi africani e da 90 residenti in Europa. Si poteva non dar loro una risposta?».
Quanti cadaveri c’erano nella stiva?
«Ne sono stati estratti 528, con 20.000 ossa sparse di altre 200 persone».
È riuscita a identificare il ragazzino con la pagella che ha commosso papa Francesco e il presidente Mattarella?
«Non ancora, purtroppo. Indossava una giacca leggera. Ho scucito la fodera ed è saltato fuori un foglio prestampato avvolto nel nylon. Era il “Bulletin scolaire” con i voti di matematica, fisica e scienze, vicini alla media del 10. Che aspettative avrà avuto questo quattordicenne del Mali o della Mauritania? E il ragazzo di 17 anni partito dal Gambia che teneva in tasca la tessera dei donatori di sangue? E quello che s’era annodato un angolo della maglietta con uno spago rosso? Credevo che dentro il rigonfiamento ci fosse hashish. Invece era un pugnetto della terra natia».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«A 7 anni mungevo le vacche del Bigin, vicino di casa di mia nonna, un bevitore. Ero la sua parrucchiera, gli tagliavo i capelli. Quando cessò di vivere, chiesi a mia madre: di che cosa è morto? “Ha smesso di respirare”. La risposta mi lasciò la voglia di capirne di più».
Di chi era la prima salma che vide?
(Ci pensa). «Non lo ricordo. Strano».
E la prima su cui mise le mani?
«Un’anziana all’obitorio di Lambrate, deceduta per la rottura del cuore. Il mio tutor continuava a ripetermi: “Non vedi che muore? Non vedi che muore?”».
Mi scusi, ma non era già morta?
«Certo. Ma in gergo si dice: “Questo cadavere non mi muore”. Significa che non scorgiamo le cause del decesso. Avrei dovuto vedere il colore violaceo del pericardio invaso dal sangue».
Il Labanof è stato fondato nel 1996. Prima che cosa accadeva?
«I morti senza nome erano di serie B».
Mettete sul Web le foto dei cadaveri ignoti. Non è uno sfregio alla pietà?
«È una necessità. Grazie a queste immagini, nel 2018 le figlie residenti in Croazia hanno riconosciuto il loro padre che era scomparso 20 anni prima. Quando manca il volto, il biologo Davide Porta, che è più bravo di uno scultore, dalla forma del cranio riesce a ricostruire i lineamenti del viso. Ha appena ultimato la testa in creta di sant’Ambrogio».
Stupefacente.
«L’anno scorso la curia ci aveva chiesto d’investigare sui resti del santo, perché si stavano degradando, e su quelli dei gemelli Gervasio e Protasio, posti nello stesso sarcofago per desiderio del patrono di Milano. Pareva una leggenda. Invece l’esame autoptico ha accertato che si tratta di due fratelli di 20 anni, alti 1 metro e 80, uno decapitato e l’altro morto per i colpi di flagello, proprio come descritto nel martirologio. Adesso vorrei ricostruire la storia della città attraverso i 4.000 scheletri custoditi in questo istituto e presso la soprintendenza».
Da piccola dissezionava animali?
«Mai fatto, né ieri né oggi. Altrimenti non riuscirei più a guardare in faccia Ricki, il cane randagio che mi sono portata a casa dalla base di Melilli. Mi sono sempre rifiutata di lavorare su cavie da laboratorio. Anzi, come direttore di Forensic science international sto decidendo con i miei colleghi di rigettare tutte le ricerche basate su esperimenti animali. In ambito medico-legale sono inutili».
L’odore della morte non le resta appiccicato addosso?
«All’inizio, appena tornavo a casa la sera, buttavo tutti i vestiti in lavatrice, non riuscivo a farmelo passare. Poi ho capito che ce l’avevo nella testa».
Qui ci sono più colleghi o colleghe?
«Nelle autopsie siamo metà e metà. Ma ho più allieve che allievi. È una professione umanitaria, richiede una forma di accudimento femminile. Lavori per le Procure e le istituzioni, ci vivi ma difficilmente diventi ricco. Il patologo forense è a rischio di estinzione. Eppure è fondamentale per giustizia e salute pubblica. Pensi ai segni di violenza sul vivente. O alla tossicologia negli incidenti stradali. Un tempo era routine, oggi non si fa quasi più, con il risultato che nessuno sa di che cosa muoiono i nostri giovani».
Quanto dura un’autopsia fatta da lei?
«Da un minimo di cinque ore fino a due giorni. Sono molto cauta. E lenta. Il caso di Yara Gambirasio mi ha insegnato che le cose più importanti sono invisibili».
Si spieghi meglio.
«A occhio nudo non mi sarei mai accorta della presenza di calce. Solo gli stub delle ferite, tamponi adesivi che noi chiamiamo scoccini, hanno permesso di trovarla al microscopio. Da allora li faccio a campione sulla pelle di ogni salma».
Il Dna è sempre una prova regina?
«Una prova forte. Che ci ha viziato un po’ tutti. È una scorciatoia che fa perdere di vista altri elementi importanti».
Il caso più difficile che le è capitato?
«Un omicidio in Lombardia. Stavano per archiviarlo come trauma cranico. La vittima era stata bruciata, i resti dispersi nell’ambiente. Da un osso carbonizzato abbiamo recuperato i frustoli del proiettile e ricostruito il foro d’ingresso».
Sbaglio o lei evita i salotti televisivi?
«Mi vengono i brividi quando in video gli esperti si accapigliano su presunte prove di casi che sono ancora aperti».
Che cosa pensa delle serie tv tipo «Csi: crime scene investigation»?
«Una volta mi davano fastidio. Ora ritengo che siano utili a far conoscere la nostra professione».
Le capita di guardarle?
«Dopo 10-12 ore trascorse a vederle dal vivo?».
È normale che esista un canale satellitare dedicato solo al crimine?
«Non ci ho mai riflettuto. È un aspetto interessante della natura umana».
La morte è «’a livella» di Totò?
«Non direi. Colpa della stampa».
Qual è il lato peggiore dell’autopsia?
«La chiusura. Non sei mai sicuro di aver espletato tutti i prelievi utili».
Si commuove mai nell’eseguirla?
«No. Però mi capita prima, quando vado sul luogo del delitto. O durante il riconoscimento del defunto da parte dei parenti, il momento più straziante».
Sottoporrebbe ad autopsia un suo congiunto?
(Tace per 14 secondi). «Eeeh... Mah! Non lo so. Sarei molto dibattuta».
Non le pesa il contatto con il male?
«È logorante, sì, te ne accorgi dopo 15 anni di obitorio. Ma è controbilanciato dal bene che sta intorno ai morti: quello che hanno compiuto in vita».
È riuscita a spiegarsi l’origine del «mysterium iniquitatis»?
«Al prossimo giro voglio fare la neuroscienziata. La risposta è lì, nel cervello».
Dopo la morte è tutto finito?
«E chi lo sa? Vedremo».
Lo scopriremo solo vivendo.
(Scoppia a ridere).
E se le dicessi che lei non morirà mai?
«Essere immortale perdendo chi ami? Che resti qui a fare, se intorno a te non hai più le persone care?».
Per cui il senso della vita qual è?
«Aver contribuito. A che cosa, non l’ho ancora ben capito. Aver dato».
· Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.
Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”. “Assolto ma screditato in processo Bossetti”. Ezio Denti, consulente difesa Bossetti, “un Pm può perseguitarti senza prove”: assolto sui falsi titoli, “sono stato screditato nel processo Gambirasio”, scrive il 18.03.2019 Niccolò Magnani su Il Sussidiario. Lo aveva ben spiegato in una lunga intervista a Radio Cusano Campus tre giorni fa, oggi lo ribadisce con un post molto polemico su Instagram: è Ezio Denti, ingegnere, consulente e criminologo investigativo, impegnato tra gli altri nei processi-casi Bossetti, Trifone e Teresa, Silvana Pica e Renata Rapposelli. Per mesi ha dovuto districarsi tra le consulenze e le accuse invece rivolte a suo carico per presunti falsi titoli di laurea, e dopo l’ultima assoluzione il consulente ha voluto dare un messaggio fortissimo al mondo giudiziario e anche ai colleghi giornalisti. «In Italia un P.M. può perseguitare ingiustamente una persona e i media mettono il carico da novanta puntando il dito e condannando senza alcuna prova», attacca durissimo Ezio Denti, accusato negli scorsi mesi di avere titoli di studio non validi per svolgere la professione di criminologo e consulente nella difesa, specie nell’ultima fase del processo a Massimo Bossetti per il delitto di Yara Gambirasio. «Assolto perché il fatto non sussiste. I media colpevolisti sono stati sempre pronti a condannare e ostracizzare l’Ing. Denti, enfatizzando la situazione, salvo poi non parlare mai delle sue assoluzioni né “riabilitare” la sua immagine, su cui loro stessi avevano contribuito a gettare ombra».
IL CASO BOSSETTI PUÒ RIAPRIRSI? 4 processi, 4 assoluzioni con la stessa formula, “il fatto non sussiste”: «Perché non hanno scritto niente sull’esito dei processi? È facile accusare e denigrare un consulente solamente perché ha compiuto il suo lavoro con massima professionalità andando a cercare la verità. Chi ripagherà l’Ing. Denti per i danni di immagine subiti?», scrive ancora Ezio Denti su Instagram nel post al veleno che richiama anche tanti altri casi magari meno conosciuti in cui errori giudiziari hanno poi portato sul lastrico gli accusati ingiustamente, «soprattutto, chi pagherà le spese processuali affrontate per un ennesimo processo inutile, che si poteva evitare, e di importanza secondaria rispetto a tutti processi ancora aperti in Italia?». A Radio Cusano Campus lo stesso consulente e criminologo aveva spiegato nel dettaglio il suo personalissimo caso: «La mia figura era in qualità di consulente tecnico ed investigatore nel procedimento penale a carico di Massimo Giuseppe Bossetti. Mi ero occupato del furgone di Bossetti. Dopo la mia relazione di oltre 4 ore nel contraddittorio da parte della PM non ci fu nulla nel merito dell’attività svolta ma si cercò esclusivamente di screditare la mia persona partendo dai titoli di studio che secondo la PM non risultavano presenti. Ovviamente aveva ragione semplicemente perché mi sono laureato all’estero, a Friburgo. Da qui è nata la guerra. Anche se un consulente è antipatico come sia possibile fargli sostenere quattro processi? Credo sia una cosa vergognosa». In merito allo specifico caso Bossetti, è Denti a lanciare un’ultima clamorosa “bomba” sempre dai microfoni di Radio Cusano: «Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle».
· Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?
Massimo Bossetti, agguato a tarda notte: esplode il muro dell'abitazione dell'attivista che lo sostiene. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019.
Un caso inquietante, che si lega a doppio filo a Massimo Bossetti - all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio - e che arriva da Capriate San Gervasio. Un'esplosione, infatti, ha distrutto la cassetta della posta e danneggiato gravemente il muro della casa di Pietro Pangoncelli, il fatto è avvenuto sabato sera attorno alle 23.30, ma ne dà notizia soltanto ora Il Giorno. Chi è, Pietro Pagnoncelli? Presto detto: amico della famiglia di Bossetti, da tempo sostiene l'innocenza del carpentiere di Mapello, ormai condannato in via definitiva. Pagnoncelli ha presentato denuncia ai carabinieri e ha spiegato: "Un mortaretto non avrebbe causato un danno del genere". Insomma, il sospetto è che si trattasse di un ordigno ben più strutturato. "Non ho nemici, non ho problemi con nessuno. Mi batto da sempre per Massimo e ultimamente lo sto facendo su Facebook". Il sosetto, dunque, è che sia stato colpito da qualcuno contrario alla campagna a favore dell'innocenza di Bossetti e che mira, in primis, alla riapertura del processo.
Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2019. Ill.mo Dott. Feltri buongiorno, Le chiedo gentilmente di non tralasciar nulla di quanto continuo a dover subire dalla giustizia italiana. Com' è possibile che venga trasmessa alla mia difesa l'autorizzazione da parte della Corte, successiva all' istanza depositata dall' avvocato Salvagni qualche giorno fa, di poter accedere ai reperti, ad indagare sui reperti di DNA ancora disponibili, e ad esaminarli con i miei consulenti; conservandoli per i futuri esami. E dopo 48 ore la procura di Bergamo mi nega di fare ulteriori accertamenti e le dovute indagini sui reperti consentiti, non solo nel fare una "ricognizione" senza poterci mettere mano. Scandaloso tutto questo!! Io mi chiedo, come posso difendermi nel provare la mia estraneità, se non mi permettono di difendermi a dovere indagando sui reperti nell' accertare l' assoluta granitica certezza, che quel DNA non mi appartiene. Per favore Dott. Feltri, mi aiuti nel gridare facendosi sentire quanto d' inumano continuo a dover subire, e per quanto tutti noi cittadini "Purtroppo" restiamo nelle loro mani. I miei figli soffrono e hanno bisogno del loro padre. Certo in una sua collaborazione, la ringrazio come sempre di cuore a tutto. Mi permetta di salutare caramente la sua giornalista Azzurra Barbuto che mi ha dedicato la risposta in una mia lettera pubblicata sul suo quotidiano con un bellissimo suo pensiero: «NON PERDERE LA SPERANZA, NOI SIAMO CON TE». È confortante questa vostra bella frase nonostante quello che si vive all'interno di quattro mura. A tutta la redazione un forte abbraccio, vi voglio bene. Grazie a lei Dott. Feltri e a tutta la sua direzione di Libero. I miei cordiali saluti.
Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Telelombardia”. Di seguito uno stralcio delle lettere di diffida mandate tramite raccomandata da Massimo Bossetti agli avvocati e al consulente nominato dalla moglie Marita Comi per effettuare indagini sul caso del marito. Il testo integrale delle raccomandate sarà mostrato questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” su Telelombardia a partire dalle 20.30. “Gentilissimi avvocati, Ho appreso da mia moglie Marita Comi che la stessa ha firmato una nomina a vostro favore contrariamente alla mia volontà. Gli unici avvocati che possono lavorare sul mio caso sono l’avvocato Salvagni e l’avvocato Camporini. Vi diffido pertanto dal compiere qualsivoglia attività processuale o extraprocessuale nonché eventuali indagini difensive in mio favore. Mi riservo di valutare il vostro comportamento e se del caso denunciarlo in ogni sede agli organi competenti. Egregio signor Infanti, Ho recentemente appreso che si sta occupando del mio caso. Non capisco a quale titolo non avendo ricevuto da me alcun incarico in tal senso. Non ho autorizzato nessun altra persona, nemmeno mia moglie, ad assumere decisioni in tal senso così importanti per la mia vita. Le intimo pertanto di cessare qualsivoglia attività con effetto immediato, diversamente la denuncerò alle autorità competenti.”
Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Radio Cusano Campus”. L’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sugli ultimi sviluppi del processo. “Finalmente, dopo 5 anni e oltre, la Corte d’Assise di Bergamo ha dato un ok ad un primo step, che è quello di una ricognizione dei reperti. Abbiamo evidenziato come ora la tecnologia consenta di avere risultati più affidabili per quanto riguarda il test del dna. La corte ci ha autorizzato su tutto, anche se ha messo un recinto un pochino più stretto concedendoci di fare una ricognizione, quindi capire innanzitutto quali sono i reperti ancora disponibili con la supervisione della polizia giudiziaria. E’ una prima fase indispensabile senza la quale non si può accedere a quella successiva delle analisi, che è il nostro obiettivo. Siamo convinti che quel dna di ignoto 1 non è di Massimo Bossetti. Secondo me questo porterà a un clamoroso colpo di scena e si potrebbe arrivare alla revisione del processo. E’ gravissimo che finora non ci abbiano mai concesso una nuova perizia affermando che non erano più disponibili i campioni di dna, cosa ampiamente smentita dai fatti. Sono contento che quantomeno si sia ristabilito che i campioni ci sono. La moglie di Bossetti ha nominato altri due avvocati per condurre indagini difensive nei confronti del marito, che però non vuole tutto questo ed ha intimato a questi avvocati di non fare alcuna attività che possa andare in contrasto con i suoi avvocati ufficiali”.
Bossetti, guerra tra pool difensivi: è crisi con Marita? L'ex muratore di Mapello, in carcere per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha smentito la presunta decisione della moglie Marita Comi di ingaggiare un nuovo pool difensivo. Marco Della Corte, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. È iniziata una guerra tra pool difensivi per Massimo Giuseppe Bossetti, l'ex muratore di Mapello condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio avvenuto nel 2010. Marita Comi, moglie di Massimo, avrebbe incaricato un nuovo team di consulenti per occuparsi del caso incentrato sulla figura del marito in qualità di assassino della ragazzina residente a Brembate (Bergamo). Del caso se ne è occupato Gianluigi Nuzzi nella puntata di Quarto Grado del 13 novembre 2019. Nel corso della trasmissione è stata mostrata una lettera inviata da Bossetti, in cui sarebbe stata smentita la decisione da parte della consorte riguardo la nomina di un nuovo pool per la difesa. Una situazione abbastanza ingarbugliata e controversa, che lascerebbe intendere dei contrasti ideologici tra marito e moglie. Il programma ha, inoltre, ipotizzato una possibile mancanza di fiducia nei confronti degli attuali due legali di Bossetti: Claudio Salvagni e Paolo Camporini. I due, che hanno assistito l'uomo nel suo lungo iter giudiziario, non sono riusciti a ribaltare la decisione dei giudici nel corso dei tre gradi di giudizio. Si è parlato inoltre della possibile intenzione di Marita di dare una svolta alla sua vita, senza approfondire ulteriormente la spinosa (ed annosa) questione riguardante Massimo. Giorgio Sturlese Tosi, inviato di Quarto Grado, ha chiesto alla Comi di spiegare la scelta del nuovo pool difensivo per il marito Massimo Giuseppe Bossetti. La donna si è rifiutata di parlare. Tuttavia, utili informazioni le ha fornite Agostino, fratello di Marita e cognato di Massimo, il quale ha chiarito: "Certe persone si sono presentate e hanno detto: "Possiamo dare una mano?". Mia sorella ha detto, ed ero presente anch’io, "l’importante è non andare ad intromettersi nel lavoro degli altri avvocati che han fatto fino adesso". Questi qua non han chiesto niente. Niente! E infatti si è visto non si voleva neanche far sentire chi erano, giusto?". L'uomo ha infatti precisato come il pool difensivo in questione starebbe lavorando senza percepire compensi: "Non è andata a cercare nessuno mia sorella. Io sinceramente non li conosco". Agostino ha inoltre affermato come Marita continui a fidarsi di Massimo e per questo motivo avrebbe riposto fiducia nei nuovi legali. E la diffida da parte di Bossetti? Potrebbe significare qualche crepa nel rapporto tra lui e Comi? A smentire qualsiasi diceria è stato lo stesso fratello della donna: "Ma no, non cambia niente!".
Dagospia il 27 novembre 2019. Anticipazione stampa da “Oggi”. «Il Dna di Ignoto 1 è sempre stato al San Raffaele. L’abbiamo conservato. E c’è ancora. Anche se proprio in questi giorni stiamo restituendo il materiale genetico alla Procura di Bergamo che lo ha richiesto», rivela Giorgio Casari, docente di genetica e consulente dell’Accusa per l’omicidio di Yara Gambirasio, al settimanale «Oggi» in edicola da domani. Una rivelazione clamorosa perché, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Massimo Bossetti, le richieste di una superperizia che confrontasse il Dna di Bossetti, condannato all’ergastolo per il delitto, con quello di Ignoto 1 sono sempre state respinte sostenendo che i reperti erano esauriti. Salvagni preannuncia una denuncia per frode processuale alla quale seguirà la domanda di revisione del processo: «Grazie al vostro settimanale scopriamo che non è vero. Il materiale genetico c’è sempre stato e c’è ancora. E la Procura lo ha sempre saputo. La superperizia si può e si deve fare. E se le notizie saranno confermate anche da una indagine difensiva per la quale ho già ricevuto mandato da Bossetti, verrà valutata ogni possibile azione per il ripristino della giustizia violata, non esclusa una denuncia penale per frode processuale».
Massimo Bossetti, l'avvocato Claudio Salvagni a Libero: "Si riapre tutto, proveremo la sua innocenza". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 3 Dicembre 2019. Il 26 novembre ricorre la data di un terribile omicidio, quello di Yara Gambirasio. Nove anni fa tutta l'Italia si era fermata davanti alla notizia della scomparsa di questa ragazzina di 13 anni. Oggi la giustizia italiana ha condannato in via definitiva all'ergastolo "fine pena mai" Massimo Bossetti, il muratore di Mapello. Nonostante la Corte di Cassazione abbia sancito la fine dell'iter processuale pare che qualche nuovo scenario si possa aprire. È di qualche giorno fa la notizia che la Corte D'Assise di Bergamo abbia autorizzato i legali di Bossetti a esaminare tutti i reperti d' indagine e tutte le tracce di Dna.
Avvocato Salvagni, hanno detto che ci sono nuovi legali a seguire Massimo Bossetti in questa istanza di revisione del processo.
«Assolutamente no», e mostra l'atto con cui Bossetti riconferma la nomina per questa ulteriore azione legale al team composto oltre che da lui anche dall'avvocato Camporini, più dieci consulenti coordinati dal dottor Bianco. «Oggi sono stato in carcere da Massimo e ci ha riconfermato la fiducia per portare avanti questa decisiva istanza».
Avvocato, quando lei ha conosciuto Massimo Bossetti?
«L'ho conosciuto una settimana dopo l'arresto avvenuto il 16 giugno del 2014 chiamato da Fabio, il fratello, che mi chiedeva di occuparmi della vicenda penale».
Lei quindi conosceva la famiglia Bossetti?
«Io conoscevo Fabio perché l'avevo seguito in qualche procedimento civile».
Si era fatto una idea sulla sua posizione prima di incontrarlo?
«Non sono abituato, forse per deformazione professionale, a costruirmi giudizi prima di leggere le carte. Così dissi alla famiglia di Bossetti che prima di accettare l'offerta di difenderlo avevo almeno bisogno di incontrarlo anche se, non nascondo, ero rimasto molto colpito dalle notizie riguardanti il caso di Yara Gambirasio; così accettai con riserva l'incarico».
E quando lo incontrò che idea si fece?
«Il nostro fu un lungo incontro, credo che durò molte ore e Massimo mi convinse anche senza guardare le carte».
Perché?
«Piangeva ed era un uomo disperato. Mi giurò che mai aveva visto o incontrato Yara e che nulla le aveva fatto. Era stato messo in isolamento e gli avevano detto che suo padre naturale non era Giovanni Bossetti, colui che lo crebbe, ma Guerinoni. Inoltre era disperato per i tradimenti che gli inquirenti, senza alcun motivo processuale, gli rivelarono riguardo alla moglie Marita. Era un uomo che mi chiedeva aiuto e che non riusciva a capire cosa potesse accadergli».
Lei si fidò?
«Mi fidai del mio istinto e sono convinto ancora adesso di aver fatto bene supportato dalle carte processuali».
Bossetti pensava di essere liberato velocemente?
«Certamente sì, colui che si proclama innocente pensa che nel giro di pochi giorni può riassaporare l'aria della libertà».
Anche lei era ottimista su una libertà immediata?
«Sinceramente ogni atto che io faccio è perché credo che sia foriero di notizie positive e quindi anche con Massimo valeva la stessa cosa, anche se c' erano alcune anomalie che non comprendevo».
Tipo?
«Intanto c'è da ricordare che il nostro team legale aveva fatto opposizione alle misure cautelari in carcere al tribunale del Riesame, e che quest'ultimo rigettò affermando che solo all'interno del contraddittorio durante un processo si poteva approfondire tutto il tema legato alla genetica».
Lei parla del Dna trovato sul corpo di Yara?
«Quel Dna è ancora oggi oggetto di valutazione e forse adesso, dopo più di quattro anni e tre gradi di giudizio, possiamo finalmente analizzarlo».
Ma riguardo al Dna quali anomalie ci sono state?
«In prima istanza non può esistere che la difesa non veda quello che viene dichiarata essere per tutti la "prova regina".
È secondo me una violazione del diritto di difesa. Inoltre a me risulta anomalo che un omicida riesca a lasciare una goccia di sangue (così dicono le sentenze) sulle mutandine e in corrispondenza dei leggins della povera Yara e nessun altro segno in tutto il corpo».
Cosa vuol dire?
«Non esiste alcun altro segno riconducibile geneticamente a Bossetti se non quello sulle mutandine. Un assassino tocca la vittima sul giubbotto, sul corpo, ovunque. Ebbene, nessuna traccia di Bossetti».
C'erano altre tracce di Dna?
«Ve ne erano altre undici. Soltanto una riconducibile a una persona nota, l'insegnante di ginnastica Silvia Brena (sangue o saliva), e poi altre denominate "uomo 1" e "donna 1", e alcuni ritrovamenti piliferi».
Altri elementi anomali?
«È un omicidio senza un movente e senza una dinamica chiara».
Cosa vuole dire?
«Che non conoscendo Yara l'omicida avrebbe dovuto caricarla in auto con la forza senza farsi vedere da nessuno e senza mai toccarla. Le sembra possibile e realistico? Inoltre nella famosa traccia 31g20 non c'è il mitocondriale di Bossetti, e oltre ad esistere nella stessa traccia anche una parte di Dna di Yara esiste un'altro incognito che non è né Yara né Bossetti».
L'assenza del mitocondriale nella traccia di Dna lo considera un elemento decisivo?
«Certamente sì! Pensi che fu grazie alla parte mitocondriale del Dna che si riuscì a comprendere a chi appartenevano alcuni corpi dopo l'attentato alle torri gemelle di New York l'11 settembre 2001. Perché la parte mitocondriale è quella più resistente a qualsiasi elemento, sia fuoco che acqua. In questo caso invece inspiegabilmente manca!».
Poi c'è il camioncino che incastrerebbe Bossetti, o no?
«Pensi che anche in questo sono riusciti in qualcosa di unico, quello di mettere insieme immagini di diversi furgoni per motivi di comunicazione in accordo con la Procura».
E adesso cosa succede?
«Succede che il professor Casari ha dichiarato di avere del materiale di Dna di "ignoto 1" e da qui si riapre tutto».
Perché si riapre?
«Perché finalmente la Corte d'assise di Bergamo ha concesso alla difesa di vedere e analizzare tutti i reperti, cosa che per cinque anni c'era stato negato, e questa è una grandissima prova di giustizia perché ci consente di richiedere (visto che ci sono nuovi elementi) la revisione del processo».
E Bossetti come sta?
«È felice, ci ha sempre detto che non può esserci una sua traccia di Dna su Yara perché lui non è stato e non l'ha nemmeno mai incontrata; noi abbiamo fatto presente l'importanza di questa sua dichiarazione, ma lui è sicuro di questo».
Anche lei è convinto che questa prova aiuterà Bossetti?
«Sono convinto che "ignoto 1" non sia Massimo».
E pensa che analizzando la traccia potrete capire realmente chi è stato?
«Penso che potremo avvicinarci nel capirlo, perché mi creda, anche noi avvocati che difendiamo Bossetti vogliamo sapere la verità su chi ha ucciso una ragazzina di 13 anni. Ma bisogna trovare il colpevole, non un colpevole». Giovanni Terzi
Denuncia per frode processuale. Caso Yara, Bossetti spera: si può ripetere il test del dna. Tiziana Maiolo il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Lo scatolone è di cartone bianco e un po’ malandato. Porta la scritta “plico 3” e la sigla TI_00205. Sull’esame, anzi il riesame, del suo contenuto poggiano oggi le speranze di Massimo Bossetti, il muratore bergamasco condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un pool di tecnici, avvocati, genetisti, informatici, docenti universitari, persone capaci di coltivare il “ragionevole dubbio” anche in presenza di una sentenza di condanna, si è messo spontaneamente a disposizione della famiglia per nuove perizie sui reperti che languivano sugli scaffali dove venivano conservati gli oggetti corpo di reato della procura della repubblica di Bergamo. Non si sa chi abbia fatto la richiesta, se Bossetti in persona o la moglie Marita Comi, visto che l’avvocato Salvagni, difensore storico dell’ergastolano, dice di non saperne niente. Lo scatolone è stato presentato giovedì scorso nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, la stessa, condotta da Marco Oliva, in cui un mese fa il professor Taormina aveva annunciato di aver presentato un’istanza alla procura generale di Brescia perché verificasse se all’ospedale san Raffaele di Milano esisteva ancora materiale genetico di Yara, come affermato in aula dal professor Giorgio Casari, consulente della procura di Bergamo. Il particolare non è secondario, perché la difesa di Bossetti nel corso dei processi aveva ripetutamente chiesto che fosse ripetuto l’esame del dna, l’unica prova su cui l’imputato è stato condannato, ma le era sempre stato risposto che non c’era più materiale disponibile. Un falso, evidentemente, che risulta anche scritto nella sentenza. Ma nei giorni scorsi il professor Casari, intervistato dal giornalista Giangavino Sulas per il settimanale Oggi, ha confermato che il materiale genetico esiste ancora. Ha anche aggiunto che (si presume in seguito all’istanza del professor Taormina) gli stessi magistrati ne hanno richiesto la consegna. «Stiamo restituendo le rimanenze alla procura di Bergamo» ha annunciato, aggiungendo che è meglio quel
materiale vada nelle mani giuste». Come a dire: si assumano i magistrati le loro responsabilità. Lui ha già dovuto rinunciare, negli anni scorsi, a un’intervista televisiva, proprio dopo la sua deposizione in aula, a causa di interventi “superiori”, proprio dal mondo investigativo. E la corte di cassazione ha dichiarato fuorvianti» le sue dichiarazioni. Comprensibile che un genetista stimato e consulente della procura chiami oggi la magistratura ad assumersi i suoi oneri, dopo tanti onori. C’è un accanimento incredibile contro chiunque osi mettere in dubbio quel processo e quella sentenza ripetuta ormai per tre volte. Ma stranamente, benché Massimo Bossetti non sia certo una persona potente capace di muovere intorno a sé il mondo intero, è incredibile anche quante siano ormai le persone che hanno dubbi sulla sua colpevolezza. Nel corso di questi anni si sono formati comitati e gruppi di suoi sostenitori che operano al di fuori della stretta difesa nel processo. Soprattutto perché emerge sempre più quanto quel processo costoso ( sono stati spesi 6 milioni di euro solo per gli esami del dna, cui sono state sottoposte tutte le persone di un’intera valle) non abbia portato a nessuna prova né sul movente né sulla dinamica dei fatti. C’è solo la prova del dna, quasi la giustizia abbia abdicato in favore della scienza. Ma oggi, con il riesame dei reperti ( in particolare computer e cellulare) che furono sequestrati a Bossetti e su cui si è a lungo favoleggiato su particolari che in seguito sono evaporati, e con la certezza che nella sentenza c’è scritto il falso sulla disponibilità di materiale genetico su cui rifare l’esame del dna, si apre più di uno spiraglio, forse un portone, per arrivare alla revisione del processo.
Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. Gentile Direttore Feltri, forse rimarrà sorpreso che io Le scriva, ad essere sincero lo avevo in mente da molto tempo, ma la pressione della vicenda che mi ha travolto e il massacro mediatico mi hanno messo alle corde come un pugile che le ha prese di santa ragione. Ritengo che lei, da bergamasco doc, sia un uomo di sani principi. Io Direttore, non sono né l' assassino della povera Jara, né il mostro che i media e i social hanno dipinto. Sono un uomo normale, semplice che pensava al lavoro e a non far mancare nulla alla propria famiglia. Arriva quel maledetto giorno che ha sconvolto la mia vita e quella della mia famiglia, e dei miei cari che oggi mi guardano dal cielo, e sono convinto che questa vicenda li ha provati moltissimo. Non voglio entrare in questa lettera nei dettagli, però non posso fare a meno di dire che il trattamento che la giustizia italiana mi ha riservato è stato scorretto e ha calpestato ogni diritto alla difesa, e mi riferisco anche a quell'ex ministro dell' Interno incapace, che gridava al mondo che era stato preso l' assassino di Jara, calpestando la Costituzione. Poi in carcere a Bergamo, la P.M. e vari responsabili dell'organo penitenziario, mi pressavano a confessare in continuazione un delitto proponendomi benefici. Come potevo confessare un delitto che non ho commesso? La P.M. più volte ha provato a propormi benefici, se erano così sicuri di aver preso l'assassino, non li proponevano con insistenza, né benefici e tanto meno facevano produrre filmati manipolati da distribuire ai media. Poi, il non far assistere i miei legali alle prove più importanti dei reperti e del Dna. Grido dall' inizio di ripetere la prova del Dna e sono sicuro che Le verrebbe ogni ragionevole dubbio. Perché è stato commesso "UN GRAVE ERRORE GIUDIZIARIO" (tutto maiusolo nela lettera, ndr), non sono io il colpevole, e il codice di procedura penale dice chiaramente all' articolo 533 C.P.P. 1° comma che «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l' imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Direttore, La prego di porgermi la Sua mano d'aiuto, non è giusto essere dipinto un mostro, non è giusto che mi abbiano affibbiato un ergastolo, non è giusto che venga commesso un errore giudiziario, per l'incapacità professionale. Confido che Lei possa capire cosa ho e sto provando. Gentile Direttore, La prego di prendere in considerazione la mia richiesta d' aiuto, restando a sua completa disposizione per ulteriori chiarimenti. Le porgo i miei più cordiali saluti, sperando di ricevere Sue notizie. In fede MASSIMO BOSSETTI.
Lettera di Massimo Bossetti pubblicata da “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Dott. Feltri, lei è un grande! Grazie davvero di cuore per quanto lei umanamente di buon cuore bergamasco, decisamente come me, si è evidenziato. Per favore, di fronte a lei c' è un uomo disperato, che non sa più a chi e cosa aggrapparsi, ovunque mi trovo c' è solo sempre più terreno arido. Le chiedo semplicemente di non smettere MAI nel gridare quanto di disumano mi è stato fatto, agli occhi di tutti voi, del mondo intero. Sto soffrendo tantissimo per quanto non ho commesso. I miei figli, sempre mi chiedono: «Papà, quando vieni a casa, ci manca il tuo amore, l' affetto quotidiano come una vera famiglia, ci manchi tantissimo papà». Io di fronte a tutta questa sofferenza cerco di virare il discorso, dicendo di non preoccuparsi, strozzando il pianto in gola, ma poi la sofferenza prende il sopravvento e mi fa tracimare come un fiume in piena che appena ha rotto gli argini. Sto soffrendo tantissimo, soffro in silenzio, perché ho paura che io non riesca più a intravvedere l' azzurro del cielo, senza le sbarre tra i miei occhi, paura di perdermi quanto ancora lì fuori ho di più caro, per colpa di questo vergognoso, disumano, marcio, corrotto sistema, che interamente mi ha avvolto, senza il diritto di replica. Spero che questa ingiustizia non uccida pure me, come ha fatto con papà e mamma, che da "lassù" mi guardano e mi incoraggiano sempre più nel lottare, e non di farmi chiudere gli occhi per sempre. Caro Dott. Feltri, non le nego che faccio fatica a trovare le parole giuste per ringraziarla. Vedere martedì mattina la mia faccia sul suo giornale, un quotidiano da me sempre e molto apprezzato per come lei si esprime nei diversi temi trattati, il giorno dopo che arriva il mio legale l' avvocato Salvagni che mi abbraccia anche a suo nome, e la sera vedere lei su "La vitain diretta" che prendeva le mie difese, organizzando anche un intervista... Beh dott. Feltri, spero che io possa ricambiare presto con un sincero abbraccio. GRAZIE, GRAZIE MILLE, mi ha tirato su di morale sentire che non sono solo a pensare e ribadire che è stato commesso un "GRANDE ERRORE GIUDIZIARIO"! Sarà un piacere per me in futuro poterla incontrare, anche assieme al mio legale, sperando che la direttrice dia il suo consenso ad un incontro qui a Bollate. Io e il mio pool difensivo, al completo, siamo fiduciosi che venga dimostrata la mia innocenza, perché io mai mi rassegnerò per quanto di disumano ingiustamente ho subito. Non ho commesso nulla di quello di cui mi si accusa, e mi auguro che chi di dovere faccia il proprio lavoro in modo professionale, e dica la verità. Mi riferisco al dott. Casari (consulente della procura, ndr), che una volta per tutte dica che c' è ancora del Dna per ripetere il test, affinché si possa levare "OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO" e che la procura dia il suo benestare alla revisione del processo. Resto a sua disposizione per eventuali chiarimenti, ringraziandola di cuore per avermi porto la sua mano, che stringerò con immenso piacere. Con affetto cordiali saluti Bollate, 24.10.2019
PS: Dott. Feltri, il gadget che le ho inviato e che lei ha messo in bella mostra (la maglietta con la scritta “al di là di ogni ragionevole dubbio, ndr) è stata pensata accuratamente per sensibilizzare quanto in me non è accaduto dalla giustizia, e per lanciarla in vendita nel dare un aiuto economico ai miei figli (visto che ancora non lavoro) per poter partecipare alle spese nella continuazione agli studi. Ancora un immenso GRAZIE!!
Azzurra Barbato per “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Caro Massimo, per lenire il suo sconforto ci piacerebbe rinfrancarla con la speranza che un dì, prima o dopo, la sua innocenza salterà agli occhi del mondo intero, pronto a porgerle sentite scuse, e lei sarà considerato non più quel mostro che uccise una ragazzina indifesa, la quale stava tornando a casa, bensì un martire. Ossia un uomo che ha subìto il delitto atroce di essere reputato nonché giudicato quale omicida pur non essendolo. Tuttavia, non sarebbe onesto ricorrere alle solite frasi fatte, che si utilizzano per rincuorare chi è disperato: «Vedrai che tutto si risolverà», «Devi credere nella giustizia» e così via. Sciocchezze! La verità è che finché non interverranno fatti nuovi - come lei sicuramente sa - non esiste alcuna possibilità, neanche minima, che abbia luogo una revisione del processo. Dunque, è probabile che in cella ci trascorra tutta l' esistenza. Però sappia che noi non l' abbandoneremo. Le staremo al fianco. Continueremo a darle voce, a pubblicare i suoi scritti, a risponderle. Ad un essere umano si può togliere la libertà e pure la vita, ma non la parola. Essa è indistruttibile ed eterna. Il suo urlo ci giunge silenzioso, mesto, eppure assordante. Ci fracassa il petto. E ci fa rabbrividire l' ipotesi che lei davvero non c' entri un bel niente con quella brutta faccenda, con la scomparsa tragica di Yara, alla quale tutti noi ci siamo affezionati pur non avendola mai conosciuta. Se così fosse, là fuori, da qualche parte, c' è qualcuno, o più di uno, che ha massacrato sia una bambina abbandonandola in un campo, al gelo, ferita e terribilmente spaventata, sia un padre di famiglia, un marito, un individuo semplice, su cui è ricaduta la colpa di un gigantesco crimine. Qualora ci fosse un autentico responsabile, diverso da lei, sulla coscienza di questi ogni giorno deve pesare pure la sorte di Massimo Bossetti, condannato all' ergastolo per una nefandezza mai compiuta. Codesto pensiero non deve dargli tregua. Si può sfuggire alla giustizia degli uomini, ma io credo in una giustizia più grande che tutto vede e tutto conosce, persino i più impercettibili moti del cuore. Non abbia paura, Massimo. E scriva. Le darà sollievo nelle notti insonni, nella insostenibilità delle giornate infinite, nei momenti più bui, che sono quelli, come spiega, in cui le mancano i suoi figli e la sua famiglia tutta. Anch' essi sono vittime, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno. E comprendo che la vera pena è stare loro lontano, non partecipare, non essere presente, non potere contribuire anche materialmente alla loro formazione. Desidero raccontarle una storia lieta, magari la risolleva un po', chissà. Io ci provo. Qualche anno fa mi è capitato di intervistare un signore, Giuseppe Gulotta, sessantunenne di Certaldo, il quale nel 1976, all' età di 18 anni, fu condannato all' ergastolo per duplice omicidio: era ritenuto colpevole dell' uccisone di due giovani carabinieri ad Alcamo. Giuseppe, muratore come lei, ha passato in gattabuia decenni, fino al 2012 quando è stato proclamato innocente per non avere commesso il fatto. La revisione del processo fu aperta nel 2011 grazie alle dichiarazioni rese da un ex brigadiere il quale testimoniò che la confessione di Gulotta era stata estorta per mezzo di atroci torture, dall' elettroshock all' annegamento simulato, dai pestaggi alle minacce di morte. La strage di Alcamo, tuttora irrisolta, rappresenta uno dei più gravi casi di errore giudiziario nonché di ingiusta detenzione nella storia italiana. Nel gennaio del 2017, quando finalmente Gulotta ottenne il risarcimento di 6,5 milioni di euro da parte dello Stato per il periodo trascorso dietro le sbarre, lo sentii al telefono e il suo pensiero andò proprio a Massimo Bossetti. Mi disse affranto: «Riguardo la vicenda di Bossetti nutro alcuni dubbi e me ne interesserò direttamente insieme ai miei avvocati. Nessuno può calcolare il costo di un solo giorno di vita strappato via. Soltanto chi patisce questo abuso può capire cosa si prova». Massimo, rammenti che non è solo. Le auguro che pure il suo "fine pena mai" muti in lieto fine. Un abbraccio.
Respinto il ricorso alla Corte Europea di Massimo Bossetti. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha ritenuto inammissibile il ricorso dei legali di Massimo Bossetti contro la sentenza di ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Lo ha comunicato la trasmissione Quarto Grado, che venerdì 27 settembre ha dato la notizia.Per il carpentiere di Mapello, condannato in via definitiva all’ergastolo, a questo punto resta solo la strada della revisione. «Ovviamente — il commento in trasmissione dell’avvocato Claudio Salvagni — una sentenza positiva della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sarebbe stata la più grande soddisfazione per noi avvocati che abbiamo sempre protestato per una violazione giuridica di questo processo. Però non cambia nulla perché la strada maestra rimane comunque la revisione: il legislatore ha ben compreso che i giudici sono uomini e possono sbagliare, ci sono tanti casi revisionati in Italia, di persone che hanno fatto anche 20 anni di carcere per poi essere dichiarate innocenti. A Bossetti ho detto che abbiamo raccolto degli altri sassolini che vanno a creare una piccola montagnetta, non abbiamo trovato una pietra gigantesca che possa ribaltare la sentenza in un attimo. Ci stiamo lavorando ma è un lavoro di tessitura molto difficile. Quello che posso dire è che abbiamo ulteriori elementi che vanno ad aggiungersi a quelli vecchi che ci confortano sulla nostra strada. Difficile dire che tempi ci saranno, tutto dipende dalla risposta che ci verrà data sull’analisi dei reperti. Vogliamo vedere questi reperti, vogliamo condurre degli esami su questi reperti e ci aspettiamo dei responsi. Una volta ottenuti questi responsi possiamo completare il quadro».
“BOSSETTI? E’ UN POVERO DISGRAZIATO, UN GIORNO LA VERITÀ SALTERÀ FUORI...” Anticipazione stampa da OGGI il 3 luglio 2019. «Bossetti? Un povero disgraziato. Mi fa pena. Vorrei guardarlo negli occhi e parlargli. Un giorno la verità salterà fuori. Temo che sia diversa da quella che ci hanno raccontato». E poi: «Siamo stati utilizzati perché qualcuno potesse coprirsi di gloria e di riconoscimenti. E qualcuno non ha fatto onore alla sua professione». E ancora: «Mio marito lo conoscevo troppo bene. Non ha lasciato figli in giro. Mi sarei accorta se mi avesse nascosto qualcosa». Queste alcune affermazioni di Laura Poli, 80 anni, vedova di Giuseppe Guerinoni, padre naturale di Massimo Bossetti, l’uomo il cui Dna, dopo un’inchiesta durata quattro anni, ha consentito alla giustizia di identificare e condannare l’assassino di Yara. L’ha intervistata per la prima volta il settimanale OGGI. Nel numero in edicola da domani, anche il racconto di come la signora aiutò gli inquirenti a prelevare il Dna del marito, defunto molti anni prima.
LA VERITÀ SU YARA. Da Notizie.yahoo il 23 settembre 2019. Omicidio Yara Gambirasio, emergono nuovi dettagli. Parla l’avvocato di Massimo Bossetti, l’uomo accusato della morte della giovane e in carcere per scontare l’ergastolo: “E’ un processo che mi ha cambiato la vita”. E continua: “Nulla sembra essere chiaro“.
Omicidio Yara Gambirasio. Della morte di Yara Gambirasio tanti sono i dettagli che sono rimasti nell’ombra, sconosciuti, nella complicata vicenda che ha visto la scomparsa della giovane il lontano 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, ritrovata poi abbandonata in un campo. Un processo lunghissimo e doloroso, per familiari e amici, conclusosi solamente il 12 ottobre 2018 con la condanna all’ergastolo di quello che è stato dichiarato l’unico colpevole del caso, Massimo Giuseppe Bossetti. Ma la vicenda sembra tornare nuovamente sotto i riflettori, con l’avvocato del colpevole che si fa avanti e torna a parlare, rivelando dettagli destinati a far discutere e che potrebbero aprire nuove strade sul terribile caso. Claudio Salvagni, l’avvocato, avrebbe rilasciato alcune importanti dichiarazioni nel corso di una trasmissione radiofonica di “Radio Cusano Campus”, riportando parte dei colloqui avuti in carcere con Bossetti: “Da una parte lui vuole esternare tutta la sua rabbia per la mancata possibilità di difendersi, dall’altra parte ci sono io. Questo è un processo che mi ha cambiato la vita”.
Le parole dell’avvocato di Bossetti. Salvagni ha anche parlato dell’idea, da parte di entrambi, di produrre un libro/memoriale sugli eventi del drammatico omicidio. L’avvocato avrebbe quindi fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti di difesa: “Strasburgo potrebbe dire che Bossetti non ha mai avuto la possibilità di difendersi”, cosa che – se dovesse realmente verificarsi – darebbe la possibilità di chiedere e ottenere una nuova revisione del processo e di tutte le carte. E non sarebbe tutto. Per Salvagni sarebbero ancora tantissimi i dettagli su cui lavorare e su cui non sarebbe stata fatta la giusta chiarezza, in particolare sulla perizia per il Dna chiesta dal pool difensivo e negata diverse volte. “Non sappiamo se quegli slip esistono davvero o se hanno i buchi, perché sono stati fatti i prelievi del Dna“. Esami che secondo l’avvocato potrebbero essere stati falsificati, con il test condotto dal Ris che – sempre secondo il legale – potrebbe essere sbagliato: “Siamo convinti che rifacendo quell’esame verrebbe fuori un risultato completamente diverso. Nulla sembra essere chiaro”. Infine, il difensore di Bossetti si è detto convinto che la ragazza – la sera della scomparsa – non sarebbe mai uscita dalla palestra dove si sarebbe recata proprio nella tragica data del 26 novembre 2010.
“IO COME OLINDO E ROSA”. Anticipazione di Oggi il 4 settembre 2019. «Voglio fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo… Non per niente – scrive il carpentiere di Mapello – come me sono stati allegramente condannati all’ergastolo due sprovveduti, i coniugi di Erba». Così scrive Massimo Bossetti in una lettera-appello scritta al conduttore di «Iceberg» su Telelombardia Marco Oliva e che OGGI è in grado di anticipare nel numero in edicola da domani. Bossetti ribadisce la sua innocenza: «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo. Confermo la fiducia al mio legale, l’avvocato Claudio Salvagni e a tutto il suo pool che stanno percorrendo tutte le piste alternative senza tralasciare nulla di intentato». Si firma «Massimo Bossetti, prigioniero di Stato». Racconta cosa fa nel carcere di Bollate dove è stato trasferito: «Sto intraprendendo un percorso rieducativo, occupo il mio tempo in modo utile attraverso lo studio e le attività lavorative che il contesto qui offre». E annuncia di stare scrivendo un libro: «Dopo quanto abbiamo subito io e la mia famiglia, è inevitabile la stesura di un memoriale, non crede?».
"Io come Olindo". E Bossetti scrive un libro. Condannato all’ergastolo per il delitto: sono innocente, ecco il mio memoriale. Gabriele Moroni il 5 settembre 2019 su Il Giorno. Ha iniziato a scrivere nell’ottobre dello scorso anno, nel carcere di Bergamo, all’indomani del pronunciamento della Cassazione che aveva reso definitiva la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ha proseguito dopo il trasferimento a Bollate, lo scorso maggio. Massimo Bossetti scrive ogni giorno, per più ore giorno, riempiendo con la sua scrittura, spesso a stampatello, decine e decine di fogli protocollo. E’ un memoriale, che parte dal giorno dell’arresto, il 14 giugno del 2014, mentre era al lavoro in un cantiere a Seriate, con frequenti flash-back agli anni felici che il muratore aveva vissuto nella casa di Mapello, accanto alla moglie Marita e ai tre figli. L'intenzione è quella di farne un libro, anzi un libro scritto con il suo storico difensore, l’avvocato Claudio Salvagni. «L’idea - dice Salvagni - è quella di un libro a quattro mani, alternandoci un capitolo io e uno Massimo. In quello che ha scritto finora Massimo ha messo non solo i fatti, ma anche i suoi sentimenti, le sue emozioni, le speranze deluse, la rabbia che prova, da innocente. Da parte mia sarà il racconto di una battaglia che, nelle fasi iniziali, non era neppure lontanamente prevedibile. Si è rivelata come qualcosa di immenso, una battaglia contro il sistema che si è chiuso a riccio e non ha consentito di esercitare appieno la difesa. Ma non sarà una riproposizione di atti giudiziarie di ricorsi. Nel libro ci sarà anche la mia storia personale, ci saranno le mie emozioni private, intime, per quello che è stato un lavoro incredibile e nello stesso tempo una grande esperienza umana». Il penalista si rivolge al mondo dell’editoria: «Per la casa editrice che decidesse di pubblicare il libro sarebbe una scelta di civiltà e non solo una scelta editoriale». Massimo Bossetti ha indirizzato una lunga (sette facciate) lettera a Marco Oliva, conduttore di ‘Iceberg’ sull’emittente Telelombardia, firmata ‘Massimo Bossetti, prigioniero di Stato’. «Voglio - è una delle frasi - fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo (i coniugi Romano, condannati al carcere a vita per la strage di Erba)». «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo». Il detenuto, l’ergastolano, il bandito che scrivono. Altri come Bossetti. In scena nella Milano violenta negli anni Settanta, Vincenzo Andraous ha scoperto nei “braccetti” del carcere di Voghera una vocazione di delicato poeta. Poi l’impegno di saggista, la fede, il volontariato. Si sono raccontati nei libri Luciano De Maria (rapina di via Osoppo a Milano), Angelo Epaminonda il Tebano, Saverio Morabito, pentito di ‘ndrangheta. Esordì nella letteratura nel 1963 con “La traduzione”. Silvano Ceccherini, livornese, basava quel crudo romanzo sulla sua vita di vagabondo, anarchico, rapinatore. Famoso il caso di Caryl Chessman. Condannato alla camera a gas nello Stato della California per rapina, sequestro di persona e violenza sessuale, riuscì a rinviare l’esecuzione per otto volte in dodici anni. Scrisse quattro libri di successo prima di essere giustiziato, il 2 maggio 1960.
"Sono un prigioniero dello Stato": Bossetti, libro bomba in cui urla la sua innocenza. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Massimo Bossetti sta scrivendo un memoriale (un libro in cerca di editore, in pratica) sin dal giorno in cui la Cassazione l' ha condannato all' ergastolo per l' omicidio di Yara Gambirasio nel bergamasco, a Brembate di Sopra. Ci lavora da Bollate, dov' è rinchiuso. Ed è normale, i condannati lo fanno spesso per dimostrare di essere innocenti a dispetto dell' esito processuale: ma nel suo caso - forse anche perché è scritto a quattro mani col suo avvocato, Claudio Salvagni - forse nel libro potremo leggere anche un esercizio di difesa che in parecchi, a parte i giudici e qualche colpevolista televisivo, hanno avuto l'impressione che non sia stato esercitato appieno. Oltre a materiale da ricorso, ci saranno le sue emozioni private e un appello affinché il materiale probatorio del suo processo sia ben custodito, questo in vista di una possibile revisione giudiziaria e come, per esempio, non è accaduto - scrive Bossetti - nel caso di Rosa e Olindo, ergastolani per la strage di Erba. Insomma: che a margine di uno degli omicidi più mediaticamente coperti che si ricordino - il caso Yara - debba ricorrersi a un libro per apprendere chiaramente la posizione di Bossetti, in definitiva, non corrisponde per niente a una battuta e pare semmai emblematico. Di che cosa? Anzitutto del fatto che in Italia l' espressione giuridica «in dubio pro reo» (nel dubbio, giudica in favore dell' imputato») si applica solo a processi lontani dai riflettori. È sempre più forte l' impressione che ci sia una relazione quasi matematica tra la celebrità di un caso giudiziario e lo sforzo profuso per risolverlo: nel caso di Yara Gambirasio, però, forse si è toccato l' acme. Giornali e televisioni ne fecero un caso talmente percussivo da spingere le Forze dell' ordine a un dispendio di mezzi che senza la pressione dell' opinione pubblica, forse, avremmo continuato a vedere solo nei telefilm: battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, intercettazioni, rilevazioni satellitari, georadar, sensitivi, testimoni fatti tornare dal Centro America, 18mila campioni di Dna prelevati, e una spesa - pare - attorno ai tre milioni di euro. Prima ancora che valutazioni giuridiche, cioè, il caso Bossetti - o Yara - evidenzia una clamorosa disparità di trattamento rispetto ad altri casi, ma, soprattutto, ufficializza che le indagini e i processi di grande impatto mediatico hanno una celebrazione più rapida. D' un tratto sparisce la cronica lentezza della giustizia italiana: i casi Yara (o Cogne, o Boettcher) filano via come lippe e si concludono sempre con pene molto alte, come si dice: esemplari.
L'ergastolo - Nel caso di Bossetti, l' ergastolo è stato confermato a margine di un processo che più indiziario non si può, ergo: senza delle prove propriamente dette. Ci fu l' arresto e il frettoloso proscioglimento di un primo sospettato, poi le strane circostanze del ritrovamento del corpo (l' ha trovato un tizio a caso, dopo mesi di affannose ricerche dei carabinieri) e ci fu una pressione popolare fuori dalle righe. Nel giorno del funerale di Yara, fu letto un messaggio del presidente della Repubblica mentre tuttologi come Roberto Saviano ritennero di dover suggerire piste camorristiche, ovviamente infondate. Poi, a tre anni dall' omicidio, eccoti spuntare Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello (incensurato) a cui gli inquirenti arrivarono per esclusione di tanti altri e per sovrapponibilità del suo Dna con quello rinvenuto sugli indumenti intimi di Yara: e qui si entra nel mondo complicatissimo delle perizie genetiche. Poi ci fu che alcune telecamere di sorveglianza avevano filmato il furgone di Bossetti nella strada in cui Yara frequentava una palestra, o così pare. Sulle prove genetiche non proviamo neppure a pronunciarci: basti che furono contestatissime e che la procura rifiutò di ripeterle, sicché il processo dovette attenersi solo agli accertamenti parziali dell' accusa. Anche la faccenda del furgone con cui Bossetti avrebbe adescato Yara: a molti parve un caricamento improbabile e immotivato dopo il quale, oltretutto, lui avrebbe guidato per una decina di chilometri senza che lei, intanto, riuscisse a ribellarsi o provasse a fuggire. Comunque Bossetti è stato condannato con l' aggravante della crudeltà e la revoca della potestà sui tre figli. La Cassazione ha parlato di «evidenza scientifica» e di «prova piena». Resta la libertà di pensare che qualsiasi tribunale anglosassone l' avrebbe assolto per mancanza di prove o, forse, più probabilmente, non sarebbe neppure arrivato a un processo. Perché poi i processi bisogna concluderli: presto e male, in questo caso. Intanto Bossetti scrive. Ne ha tutto il tempo. Filippo Facci
Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso? Dna e nuovi elementi (Quarto Grado). Il caso sul delitto di Yara Gambirasio potrebbe essere riaperto. La difesa di Massimo Bossetti afferma di avere elementi sufficienti, le novità stasera a Quarto Grado, scrive il 22.03.2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. Il caso sull’omicidio di Yara Gambirasio, nonostante tre gradi di giudizio abbiano indicato in Massimo Bossetti il suo assassino, potrebbe non essersi ancora del tutto concluso. La trasmissione Quarto Grado torna anche questa sera a porre l’attenzione su uno dei delitti tra i più mediatici della storia, quello della 13enne di Brembate, promessa stella della ginnastica artistica, uccisa il 26 novembre 2010. Per quell’omicidio, il carpentiere di Mapello, Massimo Bossetti, è stato condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo ma sin dal giorno del suo arresto non ha mai smesso di ribadire la sua totale estraneità rispetto alle accuse che gli sono state mosse. Bossetti tuttavia è sempre stato il solo indagato per l’uccisione della giovane Yara e soprattutto ad incastrarlo è stata quella prova regina tanto contestata dalla sua difesa, ovvero il Dna. Dopo cinque mesi dalla sentenza emessa dai giudici della Cassazione, però, potrebbe ora giungere un clamoroso colpo di scena che farebbe riaprire nuovamente l’intero caso. La difesa di Bossetti ritiene infatti di avere tra le mani elementi sufficienti per capovolgere le carte in tavola e, forse, riuscire dopo anni di tentativi a scagionare il proprio assistito dalle pesanti accuse di fronte alle quali i giudici di ben tre gradi di giudizio non hanno mai avuto alcun dubbio circa la colpevolezza del solo imputato.
MASSIMO BOSSETTI, REVISIONE PROCESSO? A sperare in una svolta che potrebbe essere rappresentata dalla riapertura del processo ora è anche Massimo Bossetti. La sua difesa non ha mai smesso di credere nella sua innocenza e lo dimostra il duro lavoro mai cessato anche dopo l’ennesima condanna all’ergastolo che lo ha bollato a tutti gli effetti ed “al di là di ogni ragionevole dubbio” come l’assassino di Yara Gambirasio. “Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle”, sono state le parole pronunciate di recente da Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici che fa parte del team difensivo di Bossetti, intervenendo a Radio Cusano Campus. Denti ha confermato di non essersi mai fermato anche di fronte alle dure sentenze nei confronti del carpentiere di Mapello ma di essere ora pronto a ridare battaglia.
OMICIDIO YARA GAMBIRASIO: LA QUESTIONE DEL DNA. Su cosa si baserà la difesa di Massimo Bossetti nel richiedere la revisione del processo resta ancora un mistero. Ciò che trapela però, stando alle parole di Denti, è che “l’errore di questo processo è all’inizio. C’è un errore che si son portati fino alla fine”. Il riferimento è forse al Dna che ha portato ad incastrare il carpentiere? Il consulente ha aggiunto che nel revisionare le carte sono trapelate “delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad uno e credo che questa possibilità possa esserci”. Al centro dell’attenzione della difesa, non solo le questioni scientifiche più volte ribadite, ma anche “attività di soggetti interessanti”. La difesa in passato aveva lanciato un appello ai cittadini di Brembate chiedendo loro di farsi avanti se avessero saputo qualcosa di importante. “Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti”, ha confermato ora il consulente. Tornando invece all’annosa questione del Dna e al mancato accoglimento della richiesta di poter eseguire una nuova perizia, sarebbe emersa una tesi discordante in merito alle quantità di Dna rinvenuto sugli abiti di Yara Gambirasio. Se nell’interrogatorio in carcere gli inquirenti ammisero che il Dna era tanto, al punto da poter riempire un flacone, differente fu quanto sostenuto in seguito dal Procuratore del Tribunale di Bergamo, Eugenio Meroni, che invece ritenne l’esigua quantità del Dna, tale da non poter permettere di poter ripetere il test.
Massimo Bossetti, "possibile la revisione del processo". Yara Gambirasio, svolta clamorosa? Scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il processo contro Massimo Bossetti, condannato per l'omicidio della 13enneYara Gambirasio, potrebbe riaprirsi clamorosamente. "Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle". Lo ha rivelato Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici della difesa del carpentiere di Mapello, comune della Bergamasca, condannato in via definitiva all'ergastolo. Intervenuto ai microfoni della trasmissione L'Italia s'è Desta in onda su Radio Cusano Campus, ha spiegato: "Non mi sono mai fermato. Abbiamo ricominciato da capo. Il tempo ci darà ragione". "L'errore di questo processo è all'inizio. C'è un errore che si son portati fino alla fine". Ecco perché "nel revisionare le carte ci sono delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad uno e credo che questa possibilità possa esserci. Al di là delle questioni scientifiche, comunque centrali, ci stiamo concentrando sulle attività di soggetti interessanti. Noi avevamo fatto un appello ai cittadini di Brembate per chiedere loro di farsi avanti se sapevano qualcosa. Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti".
L’ultra petitum della sentenza Bossetti: la Cassazione e il “contenitore mediatico”, scrive il 22 Febbraio 2019 Giulio Vasaturo su articolo21.org. Con la sentenza n. 52872 del 23 novembre 2018 (udienza 12 ottobre 2018), la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito la verità (giudiziaria) sul brutale omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, avvenuto a Chignolo d’Isola, in provincia di Bergamo, il 26 novembre del 2010. Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, è stato riconosciuto come il responsabile dell’atroce delitto, commesso con efferate sevizie e crudeltà, e per questo destinato all’ergastolo. Le argomentazioni con cui la Suprema Corte ha confutato, uno ad uno, i rilievi difensivi, volti ad insinuare un “ragionevole dubbio” circa la colpevolezza dell’imputato, appaiono insuperabili, sia sotto il profilo logico che squisitamente giuridico. Colpisce, però, nel tessuto motivazionale della decisione, l’approccio a dir poco inusuale con cui il giudice di legittimità si è soffermato, a tratti in maniera sferzante, nel vagliare le deduzioni del ricorrente. Il sommo Collegio lascia trasparire la volontà di respingere non solo le «pseudo-valutazioni tecniche che sono estranee alle argomentazioni sviluppate dagli esperti (anche della difesa)», in quanto «frutto» – secondo il lapidario giudizio della Corte – «della scienza privata del difensore» (punto 13.1), ma anche ed a tratti – viene da dire – soprattutto, quelle congetture che negli anni si sono rincorse nei salotti televisivi ove si è celebrato, contestualmente, il “processo mediatico”. A fronte della preliminare declaratoria di inammissibilità del ricorso, la meticolosa ponderazione con cui la Corte ha demolito l’intero costrutto difensivo viene fatta discendere, per espressa ammissione degli stessi giudici, dall’esigenza non secondaria di replicare alle semplificazioni diffuse dai talk show serali. Vi sono alcuni passaggi della pronuncia in esame in cui viene ad infrangersi apertamente, per la prima volta, la regola aurea della giurisdizione penale che vuole che lo ius dicere appaia, almeno nella forma, impermeabile rispetto a quel che viene detto al di là ed al di fuori delle aule di giustizia (quod non est in actis non est in mundo). Nel contestare le asserzioni con cui la difesa, con «sorda ostinazione» (punto 2 della sentenza), ha tentato di ribaltare la duplice e conforme condanna di merito, con particolare riguardo al nodo centrale della validità scientifica e processuale della prova del DNA, la Corte di Cassazione, da un lato, ribadisce l’irricevibilità di simili eccezioni nel giudizio di legittimità ma, dall’altro, si dichiara ben «consapevole delle reiterate mistificazioni di cui è stato alimentato il dibattito tecnico e pubblico sulla vicenda» (punto 7) per cui ritiene di dover comunque valicare i limiti del sindacato giurisdizionale, strettamente imposti dal devoluto. Attraverso il consapevole ricorso all’ultra petitum, il giudice di nomofilachia vuol tacitare così, insieme alla perorazione difensiva «spesso caotica e sempre ripetitiva e priva di una effettiva autocritica» (punto 1.1), ogni ulteriore illazione ripresa dai social, dai giornali, dalle tv. La Cassazione procede con intransigente severità critica, «tenuto conto dei reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto che caratterizzano numerose censure contenute nel ricorso, amplificate – ed è questa la sottolineatura più emblematica – da improprie pubbliche sintetizzazioni» (punto 12). Eloquente è ad esempio l’inciso con cui la Corte rileva, «visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extraprocessuale», che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del DNA dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica» (punto 16.5.4 della sentenza). L’intento esplicito del Collegio è quello di mostrare la «strumentalità» delle tesi difensive, «non infrequentemente esposte anche al di fuori del contenitore processuale» (punto 16.5); vale a dire in quel tanto vituperato “contenitore mediatico” a cui i giudici di Cassazione lasciano clamorosamente intendere di aver guardato, per l’intero corso del dibattimento, con estrema attenzione e con cui, al termine della vicenda giudiziaria, si confrontano apertamente per esplicare le ragioni (indubbiamente persuasive) che impongono la condanna del reo. Dal punto di vista comunicativo, la sentenza Bossetti costituisce un unicum giurisprudenziale e non tarderà a richiamare l’attenzione, oltre che dei giuristi, di quanti studiano l’impatto dei media nel processo penale e, più in generale, nella società del nostro tempo.
Bossetti dal carcere: “Mi hanno offerto benefici in cambio di una confessione”, scrive Bergamo News il 31 gennaio 2019. Le parole di Massimo Bossetti in una lunga lettera inviata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione di Telelombardia "Iceberg Lombardia" che giovedì sera ne trasmetterà la versione integrale. Massimo Bossetti torna a parlare. Lo fa dal carcere di Bergamo, con una lunga lettera indirizzata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione “Iceberg Lombardia”, in onda su Telelombardia: nella puntata di giovedì sera, a partire dalle 20.30, verrà diffusa la versione integrale di cui vi proponiamo qui di seguito uno stralcio. “Avrei potuto usufruire di benefici se mi fossi proclamato colpevole, molte volte mi sono state fatte delle proposte dalle persone che hanno indagato, ma il sottoscritto ha sempre declinato. Ho sempre declinato la proposta di confessare perché come padre devo poter guardare negli occhi i miei figli. Qualcuno si è mai chiesto cosa hanno subito e cosa continuano a subire i miei famigliari? Non credo. Sono quattro anni e sette mesi che sono detenuto e che chiedo un test del dna che sgombri ogni dubbio. Nei tribunali ho sentito solo ipotesi senza che siano state portate prove serie, granitiche e concrete. Questo non danneggia solo me e la mia famiglia, ma non rende giustizia neanche alla povera Yara. Continuo a ripetere e griderò no a quando avrò forze che non sono io la persona che ha ucciso Yara e se qualcuno pensa che io nasconda altre persone si sbaglia. Sono stati spesi milioni di euro e bisognava trovare un capro espiatorio, ma si è tralasciato di cercare altre piste che avrebbero portato la reale verità e non una verità costruita mediaticamente. Io sono padre di tre gli, di cui due bambine. Se fosse stata coinvolta in una vicenda simile una delle mie figlie io non mi sarei dato pace. Aspetto con pazienza perché sono certo che prima o poi la verità salterà fuori. Massimo Bossetti, Prigioniero di Stato”.
L'avvocato di Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso". Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, non si arrende e di fatto apre nuovi scenari sul delitto, scrive Luca Romano, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". Il legale, secondo quanto riporta Como News 24 avrebbe affermato di aver ricevuto un dossier da una persona vicina a lui che potrebbe di fatto riscrivere la storia del processo. Una pista alternativa a quella che ha portato in carcere con condanna all'ergastolo il muratore di Mapello, Massimo Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso la cui posizione va valutata attentamente", ha affermato in una intervista a Telelombardia. Una nuova ipotesi investigativa dunque su cui si sta concentrando il legale di Bossetti. Di fatto l'avvocato non ha accettato la sentenza della Cassazione che ha condannato il muratore di Mapello al carcere a vita. Subito dopo il verdetto dei giudici aveva detto: "Riteniamo questa sentenza in violazione della convenzione dei diritti dell’uomo perché non è stato rispettato il diritto di difesa. Ricorreremo a Strasburgo. Le sentenze della Suprema Corte di Cassazione non sono distillati di verità, anche loro sbagliano. Sono umani, ma la scienza è scienza: una cellula senza Dna mitocondriale non esiste. Bossetti non si è potuto difendere perché non ha mai partecipato a nessuna perizia. Io gli atti di fede li faccio in chiesa. Io non mi fido e voglio partecipare alle perizie, non mi interessa dei risultati". Adesso per il legale si apre una nuova strada investigativa da seguire.
La genetica non ha dato scampo a Bossetti, scrive LF, Martedì 22/01/2019, su "Il Giornale". Una possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi: a questa cifra quasi impronunciabile ammontano secondo la Cassazione le possibilità che il Dna trovato sui leggins e sugli slip di Yara Gambirasio non sia quello di Massimo Bossetti, il muratore che per l'omicidio della ragazzina (26 novembre 2010) è stato condannato all'ergastolo. Tanti indizi, contro di lui, ma una sola prova: il Dna. Tanto da fare del «caso Yara» un caso di scuola, studiato in tutto il mondo per l'applicazione delle analisi genetiche al diritto penale: approdando a quello che la Cassazione definisce «un processo dominato dal sapere scientifico». Nelle 155 pagine della sentenza che il 12 ottobre scorso ha reso definitiva la condanna di Bossetti, il peso del Dna grava come un macigno su due passaggi chiave delle accuse contro il muratore di Mapello. Il primo riguarda il percorso dell'inchiesta, ed è importante perché garantisce che ad accusare Bossetti si è arrivati seguendo una traccia precisa: l'identificazione certa di «Ignoto 1», il titolare del Dna trovato sui resti della ragazzina, come figlio illegittimo di Ester Azzuffi e Giuseppe Guerinoni: la prima analisi dà una compatibilità al 99,87 per cento, quando poi dal bollo di una vecchia patente si estrae il vero Dna di Guerinoni (morto da tempo) la compatibilità sale al 99,9999929%; quando si esuma Guerinoni, si arriva al 99,99999987%. Da quel momento il cerchio di stringe progressivamente, dall'indizio più vago fornito dal Dna - l'assassino ha gli occhi azzurri - fino ad incastrare Bossetti. Se - come ricorda la sentenza - in astratto la possibilità di due individui con lo stesso Dna è di 1 su 20 miliardi, nel caso concreto, incrociando i dati sui genotipi dei 36.500 campioni genetici in mano al Ris di Parma, la percentuale di errori scende a ridosso dello zero assoluto: 10 alla meno trentunesima. Quella possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di cui parla la sentenza. Certo, esiste in astratto l'ipotesi che qualcuno abbia ricostruito in laboratorio il Dna di Bossetti e lo abbia sparso sui resti di Yara: «Idea priva di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà».