Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2019

 

LA GIUSTIZIA

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

PARTE PRIMA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.

Cucchi, processo sui depistaggi:  a giudizio  8 carabinieri.

Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.

Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma:  12 anni ai due carabinieri.

Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.

Processo Cucchi, medici verso la prescrizione. 

Pietre sulla Petrelluzzi.

Ilaria Cucchi: una donna normale.

Il Concerto per Cucchi.

Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.

Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.

I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.

Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.

Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.

Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.

Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.

Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

Indimenticabile Avetrana

La sensitiva Rosemary Laboragine.

Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed  avvocati di ufficio.

Il Fioraio condannato.

Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.

Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi. 

Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.

Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata.

SOLITA ABUSOPOLI.

Dentro ad un divorzio.

Padri separati (dai figli).

La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato.

Figli nullafacenti: niente mantenimento.

L’amore acido.

William Pezzullo. Due acidi, due misure?

Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.

Sempre più anziani malati costretti alla contenzione.

Matti da Slegare.

Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi.

"Pensa solo ai minori stranieri".

Quando l’assassino è in casa.

Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila.

La strage dei bambini innocenti.

Quando i figli  e i nipoti picchiano genitori e nonni.

Quando i bimbi si menano a scuola.

Bullismo. Bulli da menare.

Quando son le donne le pedofili.

Pedofilia e tecnologia. L’app TikTok.

Codice Rosso. Violenza sulle donne. Due donne e due misure.

Stupri che non lo erano…

La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.

Uomini. Quando le vittime sono loro.

Il commercio delle adozioni.

Boy Scout, esplode lo scandalo abusi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

Dura Lex, Sed Lex?

Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo.

Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto.

Illuminismo e Garantismo. Da Cesare Beccaria a Giuliano Vassalli: Dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.

La magistratura in Italia: Ordine o Potere?

Le Toghe Show.

La riforma infetta della Giustizia.

Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.

Parentopoli giudiziarie e incompatibilità. Le compatibilità elettive: Io son io e tu non sei un cazzo.

Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli.

Violenza domestica: troppe leggi e male applicate.

La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».

Diffamazione: questo, sì; questo, no!

Credere nella giustizia, e la chiamano Legge.

Dal Dna il volto dell'assassino.

Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito.

La condanna degli innocenti. Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia.

Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati.

Caste e soldi. Le parcelle esose e la naturale conformità dei Pareri di Conformità dei colleghi dei Consigli dell'Ordine.

Innocente, ma rovinato dalle spese legali.

Intestare fittiziamente beni ai parenti è reato.

Le ingiustizie dei giudici. Credere nella Giustizia?

Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere".

A proposito di Prescrizione.

Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione.

Test psicologici su giudici e Pm.

Avvocati ed obbiettori di coscienza. 

La vituperata Toga.

Il "populismo penale" dei gialloverdi.

Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga.

Mai dire pronto intervento e Denunce a perdere.

Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.

L'astensione non esiste. E se li ricusi, ti denunciano.

Intercettazioni. L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure.

Le Fughe di Notizie.

Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa.

Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze.

In galera? Non ci si finisce più.

Le mie Prigioni.

Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti.

«L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”».

"Palazzi di ingiustizia".

Sovraffollamento nelle carceri.

41bis. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono.

La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane.

Quella pena doppia per i detenuti disabili.

Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante.

Carcere: Tabagismo e Psicologia.

I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati.

Vitto e sopravvitto.

Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua.

Di cella si muore.

Il 70% dei detenuti torna a delinquere Perché non c’è la riabilitazione?

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero.

Dalla parte delle vittime, vere.

Prima infangati e poi assolti. Gogna e calvario degli innocenti. Storie dei soliti noti.

Salvatore Proietto per 72 grammi di marijuana. Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella.

Antimo d’Agostino. Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa.

Giustizia. Franco Tatò: “evitate i processi”.

Le confessioni di Stefano Ricucci.

Mario Moretti. La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia.

Stefano Monti. Si dichiara innocente e si suicida.

Angelo Massaro e un’intercettazione distorta.

Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna.

Archiviato. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza.

Novara, Massimo Giordano ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine.

«Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino».

Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.

Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli.

Leonardo Rossi a Firenze. Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto.

E ora chi chiede scusa a Mimmo Lucano, Giulia Ligresti e Boschi Senior?

Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto)  chiede i danni.

Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti.

"Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore".

Assolto Duilio Poggiolini.

Bassolino, assolto dopo 16 anni.

Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca.

Vincenzo Bommarito. Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo.

«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella».

Tortora, Brizzi, De Luca, Tavecchio: i volti della gogna.

"Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia.

«Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti.

Nicola Sodano. Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova.

Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”.

Katharina Miroslawa, stanca di dirsi innocente.

Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento.

I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni.

Armando Riccardo. La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni.

Cosimo Commisso. «Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi».

La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa.

Strage di Erba e la revisione della sentenza.

Giorgio Magliocca. Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..».

Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito».

Nino Marano. Una vita fra le sbarre.

Aldo Scardella, suicida da innocente.

 

PARTE SECONDA

 

SOLITA MANETTOPOLI.

Il processo in Tv e la giuria popolare.

Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.

Viva la Forca!

La Sinistra: un Toga Party.

L’Esercizio Garantista.

I Giallo-Rossi manettari.

I Giallo-Verdi manettari.

I Rossi manettari.

Il Marco Travaglio manettaro.

Il Davigo Manettaro.

Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.

L’ingiustizia è uguale per tutti.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.

“Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.

Intoccabili: Quelli che sono toccati…

Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.

Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».

Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.

Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».

La dolce vita dei Bancarottieri.

Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.

CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.

Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.

La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».

Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».

«Non cacciate il procuratore Rossi».

La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo.

Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno.

In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice.

Il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona.

Emilio Arnesano. Arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl.

Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera.

Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona.

Il magistrato Agostino Abate sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati».

Gaetano Maria Amato. Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere.

Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Michele Monteleone.

Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani Filippo Bortone.

Carlo Maria Capristo indagato per Falso complotto Eni.

L’assoluzione di Vendola. Il giudice Susanna De Felice: non si tocca.

Magistrati arrestati: Michele Nardi e Antonio Savasta.

Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate.

Giudice di Napoli: “Aveva legami con la camorra”.

Una volpe di Magistrato.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore.

Gente di Stato. I Suicidi Impossibili: Maria Teresa Trovato Mazza e Anna Esposito.

Il mostro di Modena.

Il mostro di Udine.

Antonino Sciacca. Uno sparo nella notte.

Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988.

Raed. Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo».

Dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro di Mirko Panattoni.

Alessandro Pieri. "Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore.

Il Caso Regeni.

Anatomia del complotto.

11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia).

Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità.

Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta). 

Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.

Il Mistero di  Piazza  della Loggia.

Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati.

Strage alla stazione di Bologna.

L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.

L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi.

Il giallo di Eleonora Scroppo, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa.

Le sfide folli: Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

Il Mostro di Firenze non c'è più.

Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco.

Wojtyla-Agca, l’altra pista.

Il Caso Orlandi.

Il mistero di De Pedis.

Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali.

Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa.

Omicidio Mino Pecorelli, 40 anni dopo.

Antonio Logli e l’omicidio di Roberta Ragusa. 

Omicidio Marco Vannini, speciale Le Iene.

Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione.

Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati.

«Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona.

Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere».

Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni.  

Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere:  il giallo di Padre Pierre.

Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra…e Massoneria.

La tragedia di Tommy.

Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti.

Il “killer delle carceri”.

Il giallo della morte di Marianna Greco.

Cinzia Cannella e Ivano Iannucci: amore «tossico.

Alfredo Rampi. L’eroe di Vermicino Angelo Licheri.

Le bestie di Satana.

Margarete Wilfling. La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti.

Massimo Galioto, Beau Solomon e la Giustizia sott’acqua.

Virginia Mihai. Uccisa da marito Valerio Sperotto e data in pasto ai maiali.

Vera Heinzl e Sandra Honicke, gialli fotocopia.

Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori.

Umberto Ranieri ucciso per un rimprovero.

Paolo Adinolfi,  la fine di un giudice scomodo.

Mirko Panattoni. Sequestro senza colpevoli.

Ferdinando Carretta: "Li ho uccisi tutti io".

Ambrosoli, la vita di un uomo normale.

Mario Ferraro. Sole, sigari e baci.

Chi ha ucciso Lidia Macchi?

Davide Cervia, rose e intrighi.

Roma di sangue. I delitti: Nicoloso, Anniballi, Cannella, Adinolfi e Rosati.

Alessia Rosati, un mistero lungo  25 anni.

Pier Paolo Minguzzi. Ucciso 31 anni fa.

L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.

Thomas Quick. L'uomo che si inventò Serial Killer.

Delitto Khashoggi.

Daphne Caruana Galizia. I tre improbabili sicari e la scia dei dollari.

Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto.

Samuel Little: il Van Gogh dei serial killer.

John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia.

Laura e Paolo Fumu sono morti. Chi è stato?

Il rapimento di Claudio Chiacchierini.

Cristoforo Verderame. Ucciso davanti ai bimbi a scuola.

Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità?

Salvatore Pappalardi. Il padre di Ciccio e Tore.

Omicidio di Angelo Vassallo ed il ruolo dei carabinieri.

Il Giallo della morte di Re Cecconi.

Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana».

Bertrand Cantat, l'idolo assassin. Storia del delitto maledetto di Marie Trintignant.

Il mistero sulla morte di Desirée Piovanelli.

La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa Pomarelli nel pollaio».

Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose».

I delitti del Dams.

Delitto di Novi Ligure.

Il Caso Emanuele Scieri.

La morte di Denis Bergamini.

Simonetta Cesaroni. Il Delitto di Via Poma.

Busto Arsizio e la strana morte per peritonite.

Omicidio a Vercelli, il caso della donna nella valigia.

Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: Innocente?

Un alibi per Alberto Stasi?

Come è morto David Rossi.

Jennifer Levin, uccisa e umiliata dai media.

Curtis Flowers: Il «perseguitato d’America».

Il Caso Estermann.

La storia di Giuseppe Zangara.

 

 

LA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il processo in Tv e la giuria popolare.

I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.

Banda dello spray, perché è sbagliato dire mostri. Angela Azzaro il 6 Agosto 2019 su Il Dubbio. Un titolo di Repubblica usa questa definizione che non lascia spazio alla presunzione di innocenza e fissa l’identità fuori dallo status di persona. Domenica, il quotidiano la Repubblica apriva il giornale con un titolo a quattro colonne, quindi con grande evidenza, che diceva: “I baby mostri dello spray”. Il riferimento era agli arresti di sette ragazzi accusati di essere coloro che, per commettere dei furti, avevano usato lo spray al peperoncino che causò la calca alla discoteca di Corinaldo. L’esito fu tragico: sei morti, 120 venti feriti. Una discoteca che invece di essere luogo di divertimento si trasformò in una gabbia, per alcuni una trappola mortale. I fatti risalgono all’ 8 dicembre dello scorso anno, quando nella discoteca Lanterna azzurra era previsto il concerto del trapper Sfera Ebbasta. In questi mesi la procura di Ancona ha indagato ed è giunta a puntare il dito contro una banda di giovanissimi, tutti in un’età compresa tra i 18 e i 22 anni. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere all’omicidio preterintenzionale. L’inchiesta, ricordiamolo, vede a vario titolo altri indagati tra i proprietari del locale, gli organizzatori del concerto e i rappresentanti comunali che avevano concesso le licenze. La definizione “baby mostri” non fa onore a un giornale come Repubblica. Per tante, troppe ragioni. In primo luogo, vale la pena ripeterlo fino alla nausea almeno come testimonianza, perché stiamo parlando di accuse che devono essere confermate da tre gradi di giudizio. Se i ragazzi coinvolti dovessero essere assolti, quel “mostro” resterà sulla loro pelle, e sul loro futuro, come una condanna indelebile contro cui poco potranno fare. Mostro è una definizione che non lascia spazio al garantismo e alla presunzione di innocenza. Repubblica, non altri giornali più “forcaioli”, ha deciso, ancora prima del processo, la loro colpevolezza. Ma, per quanto importante, non basta soffermarsi sulla presunzione di innocenza. No, non basta. L’idea di “mostro” racchiude significati che vanno al di là: una idea dell’umano che non lascia speranza, non prevede la possibilità per chi sbaglia di cambiare. Non si cerca di definire l’errore come un comportamento da condannare, come una scelta scellerata, ma come una identità che si fissa nella mostruosità, cioè in una deviazione dell’umano. È come se decenni di conquiste sociali andassero in fumo in un solo colpo e forse per vendere qualche copia in più. Mostro vuol dire che quei ragazzi non sono più persone, ma scarti, che per loro – una volta appurate le eventuali responsabilità – non vale quanto dice l’articolo 27 della Costituzione, per loro la rieducazione non è contemplata. La loro “natura” è definita una volta per sempre, confinata in una accezione negativa e assoluta. Sempre più spesso quando si usa la parola mostro si tende a mettere in atto un meccanismo di difesa. La società, attraverso i mezzi di comunicazione di massa che ne costruiscono la rappresentazione, prende le distanze dal potenziale colpevole o dal colpevole accertato. È come se dicessimo che le mele marce non fanno parte del consesso civile e si crea una contrapposizione netta tra il bene, che siamo noi, e il male che sta sempre e solo fuori di noi. Gli italiani e i migranti, i buoni e i cattivi, gli umani e i mostri. Sono alcune delle dicotomie che attraversano il dibattito pubblico e l’immaginario collettivo. È però questa una società chiusa in se stessa, che non ha la forza di fare autocritica. Le responsabilità penali sono individuali, ma non possiamo non interrogarci anche sulle nostre responsabilità, su che cosa siamo diventati, su quali valori trasmettiamo alle giovani generazioni, su quale idea di futuro stiamo offrendo loro. Soprattutto una cosa non possiamo permetterci: smettere di pensare che chi sbaglia possa e debba avere una seconda chance. Se dovesse prevalere l’idea del mostro, i primi ad essere sconfitti saremmo noi.

La protesta degli avvocati: «Che barbarie l’arresto di Logli in tv». Valentina Stella il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. L’uomo condannato per la morte di sua moglie è stato bloccato nel corso della trasmissione in onda su rete4 “Quarto grado”. Dopo l’UCPI, ora è l’Ordine degli Avvocati di Roma a stigmatizzare quanto accaduto durante la trasmissione tv “Quarto grado” la sera dell’arresto di Antonio Logli, condannato dalla Cassazione per l’omicidio della moglie.

L’iniziativa dell’Ordine. Secondo quanto scritto dal Presidente Antonino Galletti «l’arresto di un uomo in diretta tv, i commenti dallo studio, il silenzio dei presenti – perfino alcuni avvocati – dinanzi a una tale barbarie» hanno rappresentato «un episodio increscioso, davanti al quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma ed io personalmente in qualità di suo Presidente, abbiamo ritenuto di dover intervenire per porre un freno a questa deriva inammissibile segnalando immediatamente la vicenda al Garante per il Diritti delle Persone Detenute». Una scelta dettata dalla gravità delle circostanze è stata riconosciuta dallo stesso Garante, che ha segnalato a sua volta l’accaduto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, «nell’ottica della collaborazione istituzionale volta a contrastare il linguaggio dell’odio e a fondare una cultura condivisa informata al rispetto della dignità di ogni persona».

Violata la persona. Il presidente Mauro Palma ha sottolineato infatti che «la ripresa nel suo complesso ha rappresentato una indecorosa rappresentazione dell’atto di traduzione in carcere della persona appena condannata, rendendo ai telespettatori elementi di vita familiare, di intimità, di sofferenza del tutto estranei all’informazione sulla vicenda processuale». Nella stessa comunicazione all’AGCOM, il Garante ha anche segnalato l’inopportuna diffusione dell’immagine dei rilievi fotosegnaletici di Carola Rackete mentre era in stato di arresto.

La crocifissione di Mannino iniziò da Funari: l’orrore dei processi in tv. Francesco Damato il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. La trattativa stato mafia e i 25 anni di stato incivile. Assolto lui dopo 25 anni ora toccherà probabilmente a tutti gli altri visto che il teorema è caduto. Il pur notevole e assorbente aspetto giudiziario mi sembra addirittura inferiore, per un paradosso imposto dai nostri tristissimi tempi, all’aspetto politico e morale dell’assoluzione che si è guadagnata anche in appello, col cosiddetto rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per la cosiddetta “trattativa” fra lo Stato e la mafia. Che è costata invece pesanti condanne in primo grado, col cosiddetto rito ordinario, ad un lungo e assai eterogeneo elenco di imputati, fra i quali si confondono servitori e sabotatori dello Stato, di ogni ordine e grado. E che – mi sembra- sarà francamente difficile confermare in appello, almeno per tutti, proprio alla luce della seconda assoluzione di Mannino. Dalle cui preoccupazioni per le minacce di morte lanciategli, non certo per gratitudine, dalla mafia sarebbero cominciate e si sarebbero poi sviluppate, secondo gli inquirenti palermitani, le trattative per bloccare o quanto meno rallentare la stagione delle stragi. Che era stata avviata dai mafio-terroristi – perché altro non saprei definirli- con l’assassinio per strada dell’allora luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, la strage di Capaci, costata la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, la strage di via D’Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e all’intera scorta, e proseguita con altre imprese di sangue e paura un po’ in tutta Italia. Fu una stagione, quella, che peraltro s’incrociò con l’altra, giudiziaria e politica, per la demolizione della cosiddetta prima Repubblica e finì per influenzare nella primavera del 1992, a Camere appena elette con le elezioni del 5 aprile, la successione a Francesco Cossiga al Quirinale e, di conseguenza, i successivi sviluppi della situazione politica: compreso il rifiuto del nuovo capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, di conferire l’incarico di presidente del Consiglio al candidato concordato fra democristiani e socialisti, Bettino Craxi, previa consultazione alquanto anomala, diciamo così, dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, morto nei giorni scorsi fra il rimpianto e la beatificazione quasi generale dei cultori, nostalgici e simili dell’” epopea” di Mani pulite. In quella stagione politica, per certi versi non meno feroce di quella stragista della mafia, protagonisti e attori della cosiddetta prima Repubblica potevano essere scambiati, come di notte in una strada senza lampioni, per corruttori o mafiosi, secondo le circostanze e le loro origini. Accadde anche a Mannino, a favore o in onore del quale potrei a questo punto limitarmi anche a condividere e ripetere ciò che ha appena scritto sulla Stampa, nel suo imperdibile Buongiorno, il bravissimo Mattia Feltri. Che, a conti fatti, tra avvisi di garanzia, assoluzioni, ricorsi e quant’altro, ha contato 25 anni e 5 mesi di “sequestro” vissuti da Mannino ad opera di uno “Stato incivile”. Mi corre l’obbligo, tuttavia, di ricordare che la storia pseudo- criminale del povero Mannino cominciò nei primi mesi del 1992 nel salotto televisivo, chiamiamolo così, di Gianfranco Funari, chiamato “Mezzogiorno Italia”, su una delle reti televisive di Silvio Berlusconi. Casualmente ospite di quella trasmissione come direttore del Giorno, reagii con forza al tentativo di Funari di processare in diretta Mannino, naturalmente assente, sulla base di un articolo dell’Unità che gli contestava di essere stato tanti anni prima testimone di nozze della sposa, figlia di un segretario di sezione siciliana della Dc, con un tale che dopo qualche tempo sarebbe risultato mafioso. Inorridii letteralmente all’idea di quel processo e, definito “picciotto” da un altro giornalista invitato e smanioso invece di parteciparvi come aspirante pubblico ministero, abbandonai per protesta la trasmissione in diretta. Finii sui blog di Rai 3 per un bel po’ di tempo come un esagitato. Il giornale ufficiale della Dc Il Popolo, diretto allora dal mio amico indimenticabile Sandro Fontana, ne fece un caso. Di fronte al quale, mentre Funari, dopo avere tentato inutilmente di farmi tornare nel suo studio, si vantava ogni giorno di ricevere telefonate di apprezzamento e incoraggiamento del suo editore in persona, ricevetti da Gianni Letta una cortese offerta di intervista a Berlusconi sui programmi dell’allora Fininvest in cui potergli consentire, su espressa domanda, di prendere le distanze da quel conduttore. Naturalmente, almeno per chi mi conosce, rifiutati la proposta e risposi chiedendo a Letta di fare intervenire sul problema di Funari direttamente Berlusconi con un comunicato. Che non seguì. Seguì invece la letterale persecuzione politica, morale e infine giudiziaria di Mannino. Al quale pertanto potete immaginare con quale piacere telefonerò il 20 agosto per il compimento dei suoi 80 anni: un traguardo peraltro che io ho tagliato prima di lui.

BASTA TELECAMERE NELLE AULE DI TRIBUNALE. Basta con i processi in diretta? Laura Delli Colli il 17 maggio 1990 su La Repubblica. La Rai discuterà molto presto dell' opportunità di mettere un freno alle trasmissioni che hanno aperto alle telecamere le aule dei nostri tribunali. A sorpresa, e con un dibattito che ha già aperto nuove polemiche in seno al Consiglio di amministrazione, l' azienda radiotelevisiva pubblica ha deciso infatti di mettere sotto processo, per una volta, proprio la popolarissima tv delle aule giudiziarie. E' in particolare la trasmissione di RaiTre Un giorno in pretura ad aver acceso, ieri, nell' aula del Consiglio di amministrazione un dibattito che rischia di avere presto nuovi sviluppi, non solo in seno alla Rai. Alla vigilia della nuova diretta per la seconda udienza Tacchella (va in onda proprio stamane su RaiTre) è stato l' intervento di uno dei consiglieri-giuristi di Viale Mazzini a sollevare formalmente il caso: è opportuno o no che la Rai continui a portare le sue telecamere in Pretura? E' legittimo, insomma - si è chiesto ieri nell' aula del consiglio il dc Roberto Zaccaria - che la televisione pubblica dia in pasto al grande pubblico televisivo giudici e imputati? Il tema, Zaccaria, l' aveva già sollevato nei giorni scorsi in una lettera inviata al presidente Manca: Mi aveva spinto a porre la questione alla sua attenzione spiega e alla discussione del Consiglio, una recente delibera del Csm. Sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura riconosce in pieno la legittimità delle norme di pubblicità dei processi penali contenute nel nuovo Codice di procedura penale. Mi sembra però che sollevi, in questa delibera che ho letto anche nell' aula del Consiglio Rai, una questione di opportunità, invitando formalmente i mezzi di comunicazione di massa a darsi un' autodisciplina in materia. Non si tratta, insomma, di promuovere alcuna azione di censura, ma di compiere l' ennesima riflessione sulla tv verità che ha monopolizzato, in quest' ultima stagione, l' attenzione di osservatori e operatori del mondo televisivo. E su questi argomenti Zaccaria non è solo: le sue posizioni sono state condivise ieri dal dc Bindi, e sull' opportunità di riflettere sul problema hanno convenuto, con diverse argomentazioni, anche i socialisti Pellegrino e Pedullà. Come editori televisivi, spiega Bindi non possiamo non occuparcene. Non si tratta di abolire Un giorno in Pretura, né di censurare la politica editoriale di una rete alla quale va invece riconosciuta notevole capacità di ideazione e creatività. Esiste, però, anche secondo Bindi, un problema di misura, ed il rischio è che il processo, con la mediazione delle telecamere si trasformi in mero spettacolo, penalizzando i soggetti più deboli. Immediata la reazione dei consiglieri comunisti: con argomentazioni di carattere tecnico-giuridico, Enzo Roppo ha respinto le tesi di Zaccaria e di Bindi. Il capogruppo dello schieramento designato dal Pci, Bernardi, e con lui Enrico Menduni, hanno quindi difeso le scelte editoriali di RaiTre invitando il Consiglio ad occuparsi piuttosto che dei programmi e della tv verità dei veri buchi neri dei programmi, delle questioni finanziarie e della ristrutturazione aziendale. In questa Rai dicono sostanzialmente i comunisti prendono corpo tendenze che puntano ad ingessare l' informazione, discutendo in termini esclusivamente critici proprio quei programmi e quei contributi editoriali che hanno segnato in termini di novità la stessa offerta del servizio pubblico radiotelevisivo. Secca la replica del socialista Pellegrino: Qui non si tratta di ingessare l' informazione né il diritto di cronaca che è, peraltro, inalienabile. Non si può, però, non vedere nella tv verità, soprattutto nel caso di riprese di processi, una sostanziale modificazione del fatto giudiziario che, a tutela dell' imputato, pone innanzitutto diversi gradi di giudizio. E' lo stesso argomento sostenuto, in Consiglio, anche dall' altro rappresentante del Psi, Pedullà, il quale si è sostanzialmente preoccupato di valutare se questa televisione non rischi di ledere la sfera dei diritti individuali: un' udienza televisiva, in sostanza, secondo questa tesi non esaurisce l' intero processo, ma esclude, anzi, proprio la fase della sentenza in giudicato, limitandosi a dare dei soggetti in campo una sola immagine, e l' immagine tout court più spettacolare. La discussione è aperta: assente Manca, si è assunto ieri il compito di trovare una mediazione tra le parti in causa il vicepresidente (socialdemocratico) Leo Birzoli: Da una parte, spiega esiste il diritto costituzionalmente garantito all' immagine e alla sfera privata dell' individuo, dall' altra l' altrettanto (sacrosanto) diritto alla cronaca e all' informazione. Si tratta, a mio avviso, di trovare tra questi due poli una misura, senza fare processi a una rete o a un direttore. A proposito di direttori, il responsabile di RaiTre, la rete che ha aperto questa nuova via alla televisione della realtà, ovviamente non ha incassato la questione in silenzio: Aspetto di conoscere i termini della discussione che ha impegnato il Consiglio di amministrazione dice, sorpreso, Angelo Guglielmi e, se è vero come mi dicono, che è stata presa la decisione di costituire un gruppo di lavoro per discutere le linee guida cui occorre attenersi nella realizzazione di Un giorno in pretura mi domando: gruppo di lavoro per fare che cosa? Di fatto so che il Consiglio di amministrazione ha sempre evitato, e non credo per caso, di intervenire in modo prescrittivo nella realizzazione delle singole trasmissioni che danno corpo alla linea editoriale della Rai.

Il senso della tv dentro i tribunali. Ondasuonda su La Repubblica.it il 16 giugno 2019. Sono trascorsi 30 anni dall'accanita discussione circa il ruolo della tv nei tribunali. E ancora oggi, basta che in un convegno (si presentava un libro su Umberto Eco e la televisione) venga per caso nominato Un giorno in pretura , perché subito i sopravvissuti di quel tempo lontano riprendano a dibattere circa il bene e il male della tv nel tribunale. Eco riteneva che quella presenza, lungi dal riportare la oggettività del fatto, la deformasse in favore di regia, con lo spettacolo a mangiarsi la giustizia, per non dire delle tentazioni pubblicitarie implicite per la vanità e le convenienze di giudici e avvocati. Diverso il parere di Rai 3 che aveva inventato il programma, prendendo il titolo al film di Steno del 1953, con Peppino De Filippo, pretore combattuto fra forma e sostanza, fra rigore e cuore. Guglielmi, il direttore della rete, pensava che in linea di principio le cose non ci guadagnino ad esser fatte di nascosto, sbrigate solo fra gli addetti o comunque sottratte ai mezzi che in ogni epoca le possono mostrare. Specie laddove, in nome del popolo italiano, si accertano i delitti comparandone il peso con le pene. Vecchie battaglie, di cui si è perso il segno, posto che ormai, ben prima che mostrate ai tribunali, le carte uscite a fiotti dai faldoni finiscono diritte sui giornali. Un giorno in pretura nel frattempo è proseguito, ma in sordina, e assai raramente in prima serata, dove è riapparso invece nell'ultima stagione. Meglio così che niente, visto che ancora ricordiamo quell'ultimo processo sul parto maldestro in casa, col feto nato morto, la puerpera e il fidanzatino che l'occultano. E noi a casa a calarci nei panni di giudici e avvocati. Ma persi più che altro a contemplare quegli imputati e quei testimoni provenienti da un continente sociale a noi per molti aspetti simile, ma sconosciuto per gesti, lingua e acconciatura. Era realtà in tv, altro che storie. E del resto in tribunale di certo non si recita anche se spesso, va da sé, si mente.

I "tribunali televisivi" ridotti a lavare la biancheria intima. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno. Vittorio Feltri, Domenica 17/01/2016 su Il Giornale. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, riuscendo ad ottenere buoni se non ottimi ascolti. La prima antenna che trasformò i tribunali in miniere d'oro fu, se non ricordo male, Raitre con una iniziativa di incredibile successo dal titolo esplicito: Un giorno in pretura. Il pubblico poteva seguire, grazie a questo programma, le vicende più appassionanti affrontate dalla Giustizia. D'altronde, da quando le tragedie greche sono passate di moda, le scene offerte dalle austere aule in cui si svolgono interrogatori, scontri tra difesa e accusa, sono le sole in grado di suscitare forti emozioni in chi le guarda sul video, il mezzo di comunicazione più popolare e diffuso, altro che teatro. Ecco perché dopo breve tempo anche una emittente privata di Mediaset trovò il modo di inventarsi dei processi in proprio basandosi sulle liti familiari, le più comuni e frequenti, nelle quali chiunque può specchiarsi. L'artificio funzionò a meraviglia. Si prendeva, ad esempio, una coppia di sposi in bega su una questione, la si invitava in uno studio arredato secondo lo stile tribunalizio e si avviavano i duelli davanti a un giudice togato le cui sentenze, se accettate dai contendenti, avevano un certo valore. La trasmissione era egregiamente condotta da Rita Dalla Chiesa, garbata e capace di dipanare matasse complicatissime, intrise di rancori come sono molti matrimoni inaciditi. I protagonisti delle battaglie pseudo legali si avvalevano di avvocati di fiducia. Insomma il copione era identico a quello dei processi veri, cosicchè il divertimento per i telespettatori era garantito. Anche in questa versione, la materia giudiziaria fece lievitare l'audience al punto che oggi, a distanza di lustri, persino Raiuno considera conveniente trattarla con le telecamere in una rubrica quotidiana (Torto o ragione?) i cui fili sono tenuti da Monica Leofreddi con lodevole disinvoltura. C'è solo un problema da segnalare agli autori. I quali pur di tener vivo l'interesse sul programma, un po' troppo antico per non essersi logorato, nella scelta dei litiganti hanno raschiato il fondo del barile e selezionato personaggi improbabili, gente che gode a lavare la biancheria intima, direi intimissima, in piazza. Il risultato talvolta è desolante. Giorni orsono è andato in onda un intrico di corna, un triangolo di cui era un'impresa sovrumana capire chi fosse il principale cornuto e chi il principale fedifrago. Lo scambio di battute velenose tra i protagonisti tuttavia ha confermato che se il vino va in aceto, l'amore va quasi sempre a puttane e dintorni. E che quando marito e moglie non si reggono più la colpa è di tutti e tre o, meglio, di tutti e quattro. Torto o ragione? se procede così nella ricerca della porcata sensazionale, rischia di ridursi al solo torto. Provare a inventare qualcosa di fresco? Non c'è pericolo. I dirigenti sono troppo impegnati nella lotta per accaparrarsi i posti di comando e non badano al prodotto, che si vende comunque perché il pecoreccio tira. Quanto ai politici che avrebbero facoltà di cambiare la Rai, poverini, cosa si può pretendere da loro che sono morti e non se ne sono ancora accorti?

"I processi in tv? Così influenzano quelli in tribunale". L'inchiesta di Lorenzo Lamperti su Affari italiani Mercoledì, 13 aprile 2016. L’Alternativa, con la collaborazione della Camera Forense Messapia, ha organizzato la tavola rotonda - in corso di accreditamento – sul tema: “il processo in tv”, che si svolgerà il giorno 15 aprile, dalle ore 16 alle ore 20, presso la sala dell’Università del Palazzo Granafei Nervegna di Brindisi, e a cui interverranno: il Dott. Marco Di Napoli (Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi), il  Dott. Maurizio Saso (Magistrato presso il Tribunale di Brindisi con funzioni di GIP e GUP; Presidente Associazione Nazionale Magistrati Sez. di Brindisi), il Dott. Angelo Perrino (Direttore e fondatore del quotidiano on line “Affaritaliani”) Filomena Greco (Giornalista del sole 24Ore), l’Avv. Massimo Manfreda, (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Brindisi), l’Avv. Gianluca Pierotti (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Taranto), l’Avv. Luigi Covella (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Lecce e Coordinatore del corso di diritto penale presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università derl Salento. E come moderatore l’Avv. Carlo Verusio (Avvocato cassazionista del Foro di Brindisi; già Magistrato Onorario con funzioni di Vice Pretore della Sez. Distaccata di Ceglie Messapica nel triennio 1995/1998). Affaritaliani.it ha intervistato, anticipando i temi del quale si dibatterà alla tavola rotonda, l'avvocato Carlo Verusio.

Avvocato Verusio, quali sono i temi alla base della tavola rotonda?

«E' un convegno che sorge da un problema di attualità, vale a dire la sovrapposizione dei processi delle aule giudiziarie con i processi che avvengono nelle trasmissioni televisive. E' un fenomeno molto diffuso e molto attuale. La tavola rotonda vuole accendere un riflettore, o uno "spotlight" citando il film premio Oscar, su questo fenomeno e quindi verificare quali elementi di deontologia dovrebbero essere applicati dalla varie categorie professionali, dagli avvocati ai magistrati fino ai giornalisti».

Quali sono le conseguenze di questa sovraesposizione mediatica dei processi in televisione?

«Più che sovraesposizione direi sovrapposizione. Si tratta di un fenomeno che in teoria può anche alterare quello che accade nelle aule giudiziarie. Se i due processi sono sovrapposti può accadere che il processo in aula venga condizionato da quanto si dice in una trasmissione tv, nella quale magari si indica un colpevole diverso da quello imputato».

In che modo può essere condizionato un processo?

«Già il fatto che in una trasmissione tv un giornalista o uno psicologo intervengano in una trasmissione magari nella veste di tecnico e ipotizzino che il delitto in oggetto sia stato compiuto che non corrisponde all'imputato può costituire un elemento di condizionamento perché si può minare la legittimità di quel processo agli occhi dell'opinione pubblica, portata a dimenticarsi che un conto è la verità assoluta e un conto è la giustizia. In un'aula di tribunale vanno presi in considerazione solo ed esclusivamente i fatti e le prove disponibili, non le supposizioni o le ipotesi».

Ma anche i magistrati possono farsi condizionare?

«Beh, anche i magistrati guardano la televisione... Prendiamo per esempio il caso di Roberta Ragusa, con la Cassazione che ha bocciato la sentenza di non luogo a procedere contro il marito dopo che varie trasmissioni hanno insistito nell'individuare in lui il colpevole nonostante di prove non ce ne siano. Non possiamo dirlo con certezza, ma magari questa sovrapposizione mediatica può aver giocato un ruolo».

Che cosa si dovrebbe fare allora a riguardo?

«Il punto è trovare il giusto equilibrio tra il diritto dei giornalisti a dare notizie e a cercare la verità e il rispetto di quanto accade nelle aule giudiziarie. Non bisogna mai perdere questo equilibrio altrimenti si rischiano conseguenze molto dannose. Ci si ricordi sempre che il processo vero è quello nelle aule giudiziarie, che si basa su elementi diversi da quelli che si vedono nelle trasmissioni».

Quali sono le responsabilità degli avvocati?

«Ormai alcuni avvocati sono diventati i registi delle trasmissioni tv. Per esempio, il giorno dopo un recente noto caso di omicidio a Roma il padre di uno degli accusati è andato in televisione. La deontologia alla base del comportamento degli avvocati dovrebbe imporsi su questi fenomeni. Bisognerebbe seguire e rispettare i principi di riservatezza che sono alla base dell'esercizio delle professione. Andare in televisione a parlare dell'allibi dell'assistito è piuttosto discutibile».

Non è che invece al contrario avvocati o magistrati puntino a questi casi di cronaca nera proprio per avere maggiore visibilità?

«Sicuramente c'è anche questo elemento, ci sono avvocati che patrocinano casi eclatanti in forma gratuita ma in cambio ricevono un grande pubblicità andando in tv».

A livello giornalistico come si dovrebbe affrontare la questione?

«E' una problematica sorta con forza dai tempi del caso di Cogne. Nel 2009 questo fenomeno ha portato i giornalisti delle principali reti televisive a stipulare una convenzione con l'Agcom sulle condotte da mantenere durante le trasmissioni tv che si occupano di processi in corso. Una convenzione nata sotto l'auspicio dell'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e che dovrebbe evitare abusi».

Ma è stato davvero così?

«Forse qualche eccesso si è evitato ma di fondo non molto. Ci sono varie trasmissioni anche nate negli ultimi anni che si occupano di processi in corso. Da Chi l'ha visto a Quarto Grado, dai programmi pomeridiani di Barbara D'Urso e della Rai. La realtà è che il pubblico italiano è molto, forse troppo, interessato a questi casi clamorosi e quindi segue questi programmi con avidità. Il plastico di Vespa è l'emblema di tutto ciò».

Ci sono però trasmissioni che hanno un approccio diverso, come Un giorno in pretura...

«Sì, certo. Un giorno in pretura infatti non fa altro che trasmettere in tv i processi già conclusi e comunque semplicemente lascia la parola a quanto accaduto in aula senza fare supposizioni o altro. Il problema della sovrapposizione è legato invece a quei programmi che corrono paralleli ai processi e possono anche cambiarne l'esito».

In questi giorni si parla molto delle intercettazioni, in particolare sul caso dell'inchiesta di Potenza. Sui giornali sono apparsi anche dialoghi privati e secondo molti non inerenti all'indagine. Secondo lei serve una riforma sul tema?

«Ritengo che la migliore legge sulle intercettazioni ce l'abbiano gli Usa. Lì si impone a chi sta ascoltando la telefonata di fermarsi dopo alcuni minuti se si capisce che non tocca elementi che costituiscono reato. L'Italia credo sia un Paese peculiare e non c'è legge che tenga, nel senso che il 70-80% dei processi si fa con le intercettazioni. Senza intercettazioni in Italia non si farebbero processi».

Il caso Ragusa e la tv che vuole sostituirsi ai tribunali. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Corriere.it. In tema di Giustizia, ancora una volta abbiamo assistito al lungo e duro scontro fra Televisione e Tribunale. «Ha ucciso la moglie e ha distrutto il suo cadavere». Anche per i giudici di Cassazione, Antonio Logli è colpevole. È stato lui ad ammazzare Roberta Ragusa, la madre dei suoi due figli e a occultarne il cadavere mai più ritrovato. L’omicidio sarebbe accaduto dopo un violento litigio perché la donna, che aveva compiuto da poco 45 anni, aveva scoperto una relazione del marito con Sara Calzolaio, un’amica già baby sitter dei figli. La sentenza è stata letta quasi in diretta dallo stuolo di inviati che Gianluigi Nuzzi aveva dispiegato nei «luoghi» che avrebbero dovuto ricostruire la scenografia ideale per l’ultimo round. Quello del Tribunale, non certo quello di Quarto grado (Rete4, mercoledì). L’impressione è che Nuzzi in questi ultimi tempi abbia «lavorato» per la scarcerazione dell’imputato, non credendo, lui e i suoi espertoni, alla colpevolezza di Logli. Tra altri, abbiamo ascoltato i figli della povera signora Ragusa, i quali parlavano della mamma chiamandola Roberta, difendendo da ogni accusa il padre. Abbiamo ascoltato Sara, la baby sitter innamorata che da subito ha preso il posto della signora Ragusa, avendo però la premurosa attenzione di occupare il lato opposto dello stesso letto dove dormiva la donna scomparsa. Il Tribunale ha fatto il suo corso: tre gradi di giudizio. La Televisione andrà avanti all’infinito perché tenere aperti i processi e sì dovere giornalistico ma è anche buona esca per tenere acceso il fuoco dell’audience. E ormai nessuno s’interroga più sulla suggestione di soluzioni alternative a quelle che derivano dall’esame delle prove o sulle distorsioni che questo genere di programmi può generare. Non solo nella sfera emotiva del pubblico ma anche in quella di chi è chiamato a giudicare.

Quei vergognosi tribunali televisivi. Nino Spirlì Lunedì 23 marzo 2015 su Il Giornale. Senza freni, ormai. A tutte le ore. Da tutte le bocche. Anche quelle più peccaminose. Anche le più lucide e ritoccate. O quelle più baffute, pelose, rasate di fresco. I fatti da tribunale sono diventati argomento quotidiano di programmi televisivi di ogni genere. Dall’appoltronato talk show al programmino similmusicale, dall’approfondimento giornalistico al salottino enogastronomico. Ovunque, di striscio o di piatto si parla di fatti di cronaca che diventano “caso nazionale” solo per dare notorietà e lustro a questa o quella conduttrice, questo o quel “nuovo volto televisivo”. E le vite di vittime e carnefici diventano carne squartata e stesa al sole della curiosità altrui. Di un malato voyeurismo italico nato, in tempi di crisi di valori e soldi, nella peggior televisione che si potesse immaginare. C’è chi si rivolge “alle signore”, chi tira la giacchetta ai giovani o ai pensionati annoiati, chi si sente già più magistrato dei magistrati e parla, ogni giorno di più, di “interessanti nuove rivelazioni”, “nuove verità”, “testimonianze esclusive”… Un luna park di stupidità e, spesso, di falsità che, se non danneggiano, quantomeno inquinano il corso delle vere indagini. Quelle che spettano alle Forze dell’Ordine. Alla Magistratura. Come mettere fine a questo scempio? Non lo farà la gente, che, costretta a scegliere fra Pinco e Pallino, uno dei due sceglie. Sono gli editori che devono bloccare interi team di autori senza fantasia, senza alcuna capacità creativa. Sono gli editori che devono pretendere, da chi porta a casa fior di euro senza provare il sudore della miniera, un vero impegno professionale e non un copia e incolla di pagine di cronaca nera dai quotidiani, a cui si somma l’opinione personale, non sempre intelligente, di quella pletora di opinionisti globe-trotter, prezzemolini di ogni tv. Sono gli editori che dovrebbero tornare a quella televisione “alla vecchia maniera” rispettosa delle bugie, del “verosimile”, che tanto bene hanno fatto per decenni alla televisione stessa, ai suoi autori, agli italiani. Fra me e me, per oltre un decennio autore di Forum su Retequattro e Canale 5.

Da Corinaldo a Bibbiano: l'Italia scoperta con la «nera». Leggo Martedì 23 Luglio 2019. Cogne, per l’assassinio del piccolo Samuele. Avetrana, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Garlasco, per l’assassinio di Chiara Poggi. Erba per l’uccisione di Raffaella Castagna e del figlio Youssef, della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini con il cane. Senza dimenticare Novi Ligure per il duplice omicidio compiuto da Erika e Omar. È anche la cronaca, più spesso la nera, a “fare” la geografia dell’Italia o quantomeno a farla conoscere, portando sotto i riflettori e all’attenzione pubblica luoghi abitualmente lontani dai grandi circuiti che, improvvisamente, vengono – e spesso rimangono – segnati da una tragedia e per quella diventano noti. Procedendo a ritroso si risale a Vermicino, per la straziante morte di Alfredino, a Capocotta per l’assassinio di Wilma Montesi e oltre. È questione di cronaca, appunto, in alcuni casi di storia. Prendendo spunto dal libro “Luoghi comuni. Dal Vajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l’Italia” di Pino Corrias, guardiamo all’Italia che, nell’ultimo anno, è stata “rivelata” dalle notizie. 

BIBBIANO. Nel cuore dell'Emilia, il paese dei falsi orchi. Bibbiano è un comune di poco più di 10mila abitanti – 10205 secondo gli ultimi dati - nella provincia di Reggio Emilia, in Emilia-Romagna. Nelle ultime settimane, il comune è divenuto tristemente noto per lo scandalo di affidamenti illeciti di bambini, strappati alle loro famiglie, oggetto dell’inchiesta della magistratura chiamata “Angeli e Demoni”. La notizia è emersa il 27 giugno, le indagini però sono iniziate circa un anno prima. Le ipotesi sono gravissime: manipolazioni di minori e allontanamento in via d’urgenza dalle famiglie anche con accuse, senza prove, di abusi sessuali, false relazioni, rapporto tendenziosi. Indagati assistenti sociali e psicologi.

CORINALDO. Cinque morti in discoteca schiacciati dalla folla. Sono stati cinque ragazzi tra 14 e 16 anni e una mamma che accompagnava la figlia di 11 anni a perdere la vita in una discoteca a Corigliano, lo scorso 8 dicembre, mentre il pubblico attendeva il dj set del trapper Sfera Ebbasta tenutosi nel locale durante la festa di cinque scuole superiori. Circa 120 i feriti, alcuni gravi. Dopo che qualcuno ha spruzzato dello spray urticante in pista, nel locale si è scatenato il panico e le sei vittime sono rimaste schiacciate nella calca mentre tentavano di scappare. Le indagini hanno interessato anche il numero dei biglietti venduti, che sarebbe stato eccessivo rispetto alla capienza delle sale. Corinaldo sfiora i cinquemila abitanti - 4927 – e si trova in provincia di Ancona.

FAVARA. Il giallo di Gessica Lattuca: scomparsa e mai più ritrovata

Favara, abitato più di 32mila persone, si trova nella provincia di Agrigento, con cui forma una conurbazione, in Sicilia. 

A farne parlare in tutto il Paese è la scomparsa di Gessica Lattuca, madre di quattro figli, sparita il 12 agosto 2018. Nel tempo si sono rincorse molte ipotesi, le indagini hanno portato perfino al cimitero, con l’apertura di alcuni loculi, secondo quanto indicato da una testimone, ma tutto si è rivelato vano. Pochi giorni fa, il 12 luglio, la giovane avrebbe compiuto 28 anni. La madre della donna, che si sta occupando dei suoi figli, in quell’occasione ha rinnovato l’appello affinché che chi sa parli: «I suoi figli vogliono sapere la verità, io non mi arrenderò mai». 

MANDURIA. Baby gang tortura e uccide l'anziano senza difese. In provincia di Taranto, in Puglia, Manduria, ex Casalnuovo, ha una popolazione di oltre 31mila abitanti. La sua notorietà è dovuta all’uccisione di Antonio Stano, pensionato sessantaseienne morto il 23 aprile scorso, dopo aver subito ripetute aggressioni e violenze da parte di più gruppi di giovani. In particolare, sono stati otto i ragazzi fermati, sei dei quali minorenni, con le accuse di tortura con l’aggravante della crudeltà, sequestro di persona, violazione di domicilio e danneggiamento. L’uomo che soffriva di disagio psichico, era incapace di reagire. Da quanto emerso nel corso delle indagini, le aggressioni duravano da anni. I giovani attaccavano la vittima, anche introducendosi con la forza in casa sua.

VITTORIA. Simone e Alessio, i cuginetti morti investiti dal suv. Dopo il capoluogo, Vittoria è il comune più popolato del ragusano, in Sicilia, con quasi 65mila - 64072 – abitanti. La località è diventata largamente nota per la morte dei cuginetti Alessio, 11 anni, e Simone, 12, investiti l’11 luglio sotto casa da un Suv guidato da un trentasettenne pregiudicato che, al momento dell’incidente, era ubriaco e aveva fatto uso di cocaina. Il piccolo Alessio è arrivato in ospedale già morto. Simone è stato ricoverato in condizioni apparse da subito gravissime. Gli sono state amputate le gambe, ma nulla è valso a salvargli la vita. I due ragazzini stavano giocando con il cellulare, seduti sui gradini di casa, sicuri di non correre pericoli.

·         Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.

Dall’omicidio stradale al femminicidio: vince il populismo penale. Angela Azzaro il 16 luglio 2019 su Il Dubbio. Nuovi reati e pene sempre più dure. Ma la ricetta è sbagliata. Che si tratti di delitti contro le donne o di incidenti stradali, la soluzione offerta è sempre la stessa: galera, galera e galera. Dall’omicidio stradale al femminicidio. Sono decenni che in Italia i temi più scottanti vengono affrontati sempre allo stesso modo, creando nuove fattispecie di reato oppure chiedendo, e ottenendo, l’aumento delle pene. Ma è davvero la strada giusta da percorrere? E perché si è scelta proprio questa direzione? Prendiamo due esempi lontani tra loro, se si pensa alle motivazioni che ci sono dietro, ma che hanno in comune la richiesta di più galera per chi viene coinvolto. Sono due fatti legati alla cronaca di questi giorni: da una parte i femminicidi, dall’altra gli omicidi stradali. La soluzione per questioni così complesse, e diverse, è sempre la stessa: galera, galera e ancora galera. A pochi ormai viene in mente di affrontare i problemi ponendoli sul piano della cultura, della prevenzione, del cambiamento sociale. Eppure i dati dimostrano che aumentare le pene non sia un deterrente e che il problema va affrontato alla radice se davvero lo si vuole risolvere. Deborah è l’ultimo caso, l’ultimo femminicidio. E’ stata uccisa dall’ex, già condannato per stalking, mentre cantava in una serata dedicata al karaoke. Si sentiva braccata, ma in quel momento forse era felice, faceva una cosa che le piaceva. Il suo ex la ha uccisa davanti a tutti, una vendetta consumata fredda e che almeno per una volta leva a diversi giornali la possibilità di scrivere che è stato un raptus, una follia, e non una premeditazione. Chi lavora nei centri anti violenza sa bene che dietro un femminicidio ci sono, quasi sempre, anni e anni di violenze fisiche e psicologiche. Non si tratta di episodi isolati. Dietro a Deborah, come a tutte le altre di cui apprendiamo i nomi e le storie una volta che non ci sono più, ci sono sofferenze, solitudini, impossibilità di rifarsi una vita. Per questo i centri antiviolenza, che sono il cuore della lotta alla violenza contro le donne, non chiedono aumento delle pene, ma aumento dei fondi da investire per prevenire. Se una donna, decide di sporgere denuncia o di lasciare la casa che condivide con il marito o compagno violento deve essere messa nelle condizioni di rendersi autonoma da tutti i punti di vista, a partire da quello economico. Servono strumenti, mezzi, risorse. Invece sui soldi si continua a non investire il necessario per fare una seria campagna di informazione, formazione, aiuto alle donne in difficoltà. I stessi centri antiviolenza D. i. Re hanno espresso il loro dissenso rispetto alle misure del “Codice rosso” là dove si parla di aumento delle pene perché in generale non è interesse delle donne che certo non cercano pene esemplari, ambiscono piuttosto a vivere libere dalla violenza. Nonostante l’introduzione della nuova legge sull’omicidio stradale, tanto criticata dai penalisti e da una parte dell’opinione pubblica, ogni qualvolta che si assiste alle stragi del sabato sera la reazione è la stessa. Non basta aver aumentato le pene, si vuole di più. Sempre di più. A tal punto che il vicepremier Luigi di Maio in un post su Facebook sembra voler invocare la pena di morte, perché – ha detto la prigione non basta. Anche in questo caso la carta della prevenzione e del cambiamento viene tenuta fuori gioco, come se fosse una chimera, un sogno impossibile. Dieci ragazzi morti nel week end, più i due cugini nel ragusano, davvero sarebbero ancora vivi se si potesse applicare una pena ancora più severa? Nel 2017 i morti su strada sono aumentati rispetto all’anno precedente, senza contare che la nuova legge ha – purtroppo – visto aumentare anche i casi di omissione di soccorso con conseguenze spesso letali. Se davvero dovesse interessare che i morti diminuiscano, si dovrebbero prendere ben altre iniziative: per esempio fare informazione soprattutto per le giovani generazioni, aumentare i controlli su strada, migliorare la viabilità che in alcune parti del Paese è ferma all’anno zero. Invece davanti a fatti che indubbiamente lasciano sgomenti e addolorati, si sceglie la strada più breve, quella che parla non alla razionalità ma alla pancia delle persone.

IL POPULISMO PENALE. Secondo il professor Giovanni Fiandaca il populismo penale è la «strumentalizzazione politica del diritto penale e delle sue valenze simboliche in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure, allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico- mediatiche propense a drammatizzare il rischio- criminalità». Nel caso dei femminicidi ciò a cui non si vuol mettere mano è il rapporto uomo donna, la sua matrice comune a tutte le relazioni. Si ha cioè paura di affrontare il nodo principale mettendo in discussione ruoli, stereotipi, abiti culturali che tutti e tutte abbiamo assunti. Si ha cioè paura di mettere in discussione se stessi e la società intera. Meglio invocare l’aumento delle pene che è appunto rassicurante, perché sposta sul singolo e la sua punizione, quella sfida che dovremmo fare nostra in prima persona. Meno complesso il discorso della risposta populista all’omicidio stradale dal punto di vista delle dinamiche psicologiche e storiche. La legge e le reazioni di questi giorni sono però pur sempre emblematiche di una società che invece di ragionare e cambiare, preferisce mettere in atto riti ancestrali fondati sulla vendetta. Non si tratta di essere buonisti o innocentisti ma di capire quale sia la miglior risposta per problemi che assumono valenze spesso così tragiche. Rispondere: più galera, non è una soluzione. E’ una sconfitta.

·         Viva la Forca!

Amor di Forca. L’idiozia delle pene deterrenti. Iuri Maria Prado 29 Novembre 2019 su Il Riformista. Un’altra balordaggine in materia di giustizia è questa: che per ottenere il rispetto della legge bisogna rendere conveniente rispettarla. E come si fa? Si fanno leggi sempre più dure, affinché tutti sappiano che violarle non conviene. Questo illuminato programma è illustrato a destra e a manca perlopiù quando si discute di evasione fiscale, ma è riproposto frequentemente a proposito di qualsiasi illecito e precipita sempre in una ricetta esclusiva: alzare le pene. Con l’accortezza – come spiega certa magistratura militante – di alzare le pene minime, in modo tale da garantire che in galera ci vadano proprio tutti (lo ha spiegato qualche giorno fa il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, durante la trasmissione Otto e mezzo, con la giornalista Lilli Gruber impegnata a mettere in difficoltà il magistrato facendosi aiutare da Marco Travaglio). Qualche millennio di esperienza dovrebbe insegnare che la società non migliora mai con l’indurimento delle leggi: e che una legge è veramente efficace quando è diffusamente ritenuta giusta, non quando si ha solo il timore di sottrarvisi. Ma si faccia pure l’ipotesi che, al contrario, la cosa funzioni. Si faccia l’ipotesi, cioè, che davvero aggravare il sistema e l’entità delle pene costituisca un modo efficace per ottenere – come dicono questi qui – maggiore “legalità”. D’accordo: ma il limite qual è? Immaginiamo qualche esempio. La prospettiva di rimanere a pane e acqua per la durata della detenzione non deve essere un granché, e disporre che i detenuti godano di una simile dieta rappresenterebbe un ottimo esperimento dell’intenzione di rendere poco conveniente violare la legge. Che cosa facciamo? La introduciamo, questa salutare riforma? Oppure – che so? – i lavori forzati. Nemmeno quelli saranno visti come una delizia, e c’è caso che uno ci pensi un paio di volte in più, quando sta per commettere un delitto, se sa che finisce a spaccare pietre sotto il sole. Ma è un motivo sufficiente per accogliere nel nostro ordinamento questa bella soluzione? Forse sarebbe il caso di capire che un sistema civile rifiuta le pene terribili perché non desidera una legalità fondata sul terrore. E rifiuta il terrore anche se sa che il terrore può servire. E’, molto semplicemente, ciò che lo rende diverso da un sistema autoritario. Come quello governato dai militari. O dai magistrati.

Vittorio Feltri contro Bonafede: "Una cosa drammatica e disgustosa. Ministro, ecco di cosa ti devi occupare". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. La notizia è di ieri ma vale anche oggi perché ha una valenza drammatica e abbastanza disgustosa. Sei agenti di custodia del carcere di Torino sono stati arrestati. Motivo, torturavano i detenuti convinti forse di essere dei giustizieri anziché dei servitori dello Stato. Già la galera è un luogo orrendo dove la convivenza civile è solo una utopia. Gli uomini e le donne condannati sono ammucchiati in celle piccole nelle quali è pressoché impossibile avere un minimo di privacy e di rispetto per le persone. Infatti il governo se ne frega altamente della Costituzione che prevede, quale finalità della detenzione, la rieducazione di chi finisce dietro le sbarre. Chi è stato «dentro» fornisce racconti raccapriccianti di quanto vi accade senza che nessuno si impegni a migliorare le cose. Se poi ci si mettono pure i secondini a picchiare e umiliare chi sta scontando una pena, la situazione non è più sostenibile. Chi commette reati è ovvio che debba pagare per la propria colpa, il che deve avvenire mediante la privazione della libertà e non della dignità. Se invece a questa punizione si aggiungono esercizi di sadismo da parte degli agenti nei confronti dei reclusi è obbligatorio intervenire drasticamente onde ripristinare criteri di umanità nella gestione delle prigioni. Occorre grande severità nel reprimere certi abusi che offendono non soltanto chi li subisce ma anche i cittadini informati. Tocca al ministro della Giustizia agire in tale senso, e lo deve fare con urgenza al posto di occuparsi pedestremente di prescrizione da eliminare e scemenze del genere. Il nostro sistema giudiziario si regge quasi esclusivamente sulla restrizione entro quattro mura, tuttavia l' edilizia carceraria è inadeguata e i condannati sono ammassati in pochi metri quadrati e costretti a soffrire fisicamente. Ciò è detestabile. Le torture inflitte loro dal personale di custodia sono quindi un supplemento di pena che ripugna alla coscienza. La politica non può fare spallucce e infischiarsene. So che le nostre proteste cadranno nella indifferenza dei manettari, cioè i giustizialisti che auspicano l'inasprimento delle pene per qualsiasi violazione del codice, ma Libero starà sempre dalla parte di chi viene maltrattato. Vittorio Feltri

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 22 ottobre 2019. Fra le analogie che accomunano i due Mattei, ce n' è una che li accomuna a B.: ne hanno fatte troppe perché la gente se le ricordi tutte. E, visto che è impossibile ricordarle tutte, non ne ricorda nemmeno una, aiutata dai giornaloni che han ripreso a pompare il Cazzaro Verde e il Cazzaro Rosa come salvatori della patria. Due casi esemplari. Partiamo dal Matteo minor. A parte le mirabolanti imprese degli specchiati genitori e le visite alla Leopolda di gentiluomini tipo Lele Mora, dovrebbe dire qualcosina sull'Air Force Renzi. Che marcisce in un hangar dopo che Etihad l'aveva comprato dalla società-fantasma Uthl per 6 milioni e l' Alitalia l'aveva preso in leasing per ben 168 (spendendo, per affittarlo, 26 volte il prezzo d' acquisto). Ecco: Renzi può spiegare i dettagli di quell' affarone, capolavoro ineguagliabile di buona amministrazione? E qualcuno dei suoi fortunati intervistatori glielo può gentilmente domandare?

E ora il Matteo maior. L'altro giorno finisce a Regina Coeli il celebre Casimiro Lieto, autore della Isoardi, il cui allora fidanzato Salvini lo voleva addirittura direttore di Rai1: è accusato di corruzione giudiziaria per aver promesso un posto di lavoro al figlio del giudice che doveva aggiustargli la sentenza su un accertamento fiscale di 230 mila euro. La storia fa il paio con quella di Siri, Arata e Savoini. Il primo è indagato per corruzione da parte del secondo. Il secondo lo è pure in quanto socio occulto di Nicastri (appena condannato a 9 anni per mafia per i suoi legami con Messina Denaro). Il terzo lo è per corruzione internazionale per la mazzettona da 65 milioni di dollari chiesta all'hotel Metropol di Mosca. Grazie a Salvini, Siri era sottosegretario ai Trasporti; Arata doveva diventare presidente dell' authority dell'energia e il figlio stava a Palazzo Chigi accanto a Giorgetti; Savoini era membro ufficiale della delegazione di Salvini nel bilaterale di un anno fa con l'omologo ministro dell' Interno russo. Ora, il Cazzaro Verde è perseguitato dalla sfiga o non riesce proprio a nominare una persona perbene? E, visto che ogni giorno rilascia due o tre interviste, cosa impedisce ai valorosi colleghi di domandargli di questo suo fiuto da rabdomante nel selezionare sempre il peggio? I due Mattei intimano quotidianamente alla Raggi, pericolosa incensurata, di dimettersi da sindaca di Roma (ieri il trust di cervelli Gasparri-Schifani strillava contro Rai1 che osa financo intervistarla senza chiedere il permesso). E lasciano intendere di avere pronto il salvatore della Capitale. Che, visti i precedenti dei due Mattei, potrebbe presto rimpiangere i Lanzichenecchi. 

Otto e Mezzo, Marco Travaglio tifa per il carcere agli evasori, ma Purgatori lo zittisce in pochissimo. Libero Quotidiano il 22 Ottobre 2019. Marco Travaglio continua a esultare per il carcere agli evasori. Nella puntata di Otto e Mezzo il direttore del Fatto Quotidiano risponde a Lilli Gruber su Luigi Di Maio: "Il leader dei Cinque Stelle fino a ieri ha strizzato l'occhio agli evasori, ma ora cambia tutto". Travaglio si riferisce ai quei commercianti multati se non hanno il Pos. A intervenire è il giornalista Andrea Purgatori, che con una sola frase mette in difficoltà il direttore: "Il problema principale è un altro: in Italia se qualcuno versa di più al Fisco, deve correre a destra e a manca per riottenere quello che gli spetta. In America ti arriva direttamente a casa". E Travaglio alle corde: "Lì l'evasione è fisiologica non patologica". La replica immediata: "Sì, certo".

VIVA LE MANETTE! Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 14 ottobre 2019. La nostra copertina dell' altroieri, sulla bozza del ministro della Giustizia per le manette agli evasori, non è piaciuta a Gad Lerner che è personcina sensibile e l' ha riprodotta su Twitter con un commento affranto: "Manette sbattute così in prima pagina, non c' è buona causa che giustifichi questa perversione. Con tutto quel che succede nel mondo e ora datemi pure dell' amico degli evasori". Sotto, come era prevedibile, una raffica di leggiadre contumelie al sottoscritto e al Fatto Quotidiano (i famosi "hater" e "odiatori" che, quando odiano dalla parte giusta, diventano boccioli di rosa). Insulto per insulto, potremmo rispondere che è quantomeno inelegante, per un giornalista di un gruppo edito da due famiglie fiscalmente a dir poco discutibili, dare del pervertito a chi chiede che gli evasori vadano in galera, come in tutto il mondo civile. Ma non ci abbassiamo a tanto, anche perché non pensiamo che sia la sua frequentazione con editori-evasori a suscitare in Lerner cotanta repulsione per le manette a chi le merita. Non è un fatto personale, ma culturale. Che nasce nei due filoni del pensiero purtroppo dominante, molto diversi fra loro, ma accomunati dall' allergia al senso dello Stato e allo Stato di diritto, cioè per il principio di responsabilità: chi sbaglia paga e chi delinque viene punito. Il primo è quello da cui proviene Gad: quello dei gruppettari di ultrasinistra anni 60 e 70, così abituati a fuggire dalle forze dell' ordine e dai magistrati da non riuscire a liberarsene nemmeno dopo 40-50 anni. L' altro è l' impunitarismo dei ricchi e dei potenti, abituati a una giustizia di classe forte coi deboli e debole coi forti, ai quali Gad è estraneo, ma che nel suo mondo hanno pescato a piene mani per sostenere sui rispettivi giornali le loro battaglie contro la legge uguale per tutti. Queste due culture, che partono dagli antipodi ma si uniscono nella comune avversione alla legalità, si sono saldate negli anni del berlusconismo, quando molti ex-extraparlamentari di sinistra (che già flirtavano con Craxi per la sua guerra ai giudici) si ritrovarono al servizio di B.. Oppure, anche se stavano sulla sponda opposta (come Gad), invocavano continue amnistie e indulti, intimando alla sinistra di guardarsi dalla "via giudiziaria": pareva brutto che un amico dei mafiosi, un frodatore e un corruttore di giudici, finanzieri, senatori, testimoni e minorenni finisse a processo e poi in galera. Ora, confidando nella smemoratezza sulle stragi politico-mafiose e sulle retrostanti trattative, insigni esponenti di quelle due culture applaudono insieme le sentenze di Cedu e Grande Chambre contro l' ergastolo "ostativo". Quelle che regalano agli stragisti insperate aspettative di resurrezione. Naturalmente ciascuno è liberissimo di pensarla come gli pare. Ma è davvero paradossale che chi difende la legalità e lo Stato di diritto sia chiamato continuamente a giustificarsi dai sedicenti "garantisti" per il sol fatto di chiedere l' applicazione della legge. I "pervertiti", caro Gad, non siamo noi: siete voi. Le manette sono uno strumento previsto dalle norme per assicurare alla giustizia i criminali: quelli di strada e quelli in guanti gialli e colletto bianco. Ti dirò di più: negli Stati Uniti, e non solo là, gli evasori e i frodatori fiscali, come i corrotti, i corruttori, i bancarottieri e i falsificatori di bilanci, vengono condannati a pene detentive molto pesanti, che regolarmente scontano nei penitenziari di Stato accanto ad assassini, stupratori, terroristi e trafficanti di droga, non solo con le manette ai polsi, ma anche con le catene ai piedi. Per evitare che scappino o che commettano altri reati (le manette salvano anche vite umane, come ha appena dimostrato la strage alla Questura di Trieste: i due agenti assassinati, se avessero ammanettato il ladro appena fermato, sarebbero ancora vivi). Ma anche perché servano di lezione a chi sta fuori, affinché gli passi la tentazione di delinquere. Perciò, non di rado, arrestati e detenuti - poveracci e white collar - vengono esibiti in manette e in catene: perché le pene, quando sono certe e vere, non finte come da noi, hanno una funzione deterrente prim' ancora che rieducativa. E quella rieducativa dipende anch' essa dalla certezza della pena: se uno sa di poter delinquere facendola franca, non si rieduca mai. Anzi si diseduca vieppiù. Quindi no, non penso affatto che Lerner abbia orrore per le manette perché sia un evasore o un amico degli evasori. Penso che Gad e quelli come lui non abbiano senso dello Stato e non abbiano ancora introiettato il principio di responsabilità che regge lo Stato di diritto, cioè l' unica forma di convivenza civile che trattiene i cittadini dal farsi giustizia da soli come nel Far West. Non vorrei beccarmi altri tweet e insulti. Ma confesso che mi prudono le mani quando ogni anno pago fino all' ultimo euro di tasse e poi penso che, grazie al centrosinistra e al centrodestra, milioni di evasori vivono alle mie spalle senza mai rischiare la galera. E neppure un' indagine, se hanno cura di non superare le soglie di impunità gentilmente offerte nel 2015 da Renzi & C.: 250 mila euro di omesso versamento Iva; 1,5 milioni non dichiarati di frode fiscale; 150 mila euro di dichiarazione infedele; 10% di false valutazioni; 50 mila euro di omessa dichiarazione. Ecco, io questi ladri vorrei vederli in manette (e magari pure in catene), come accadrebbe se queste somme, anziché all' erario, le rubassero in un portafogli, in una borsetta, in un' abitazione, in una banca, in un negozio. Solo le manette possono spaventare gli evasori fino a indurli a rinunciare ai loro enormi guadagni per versare il dovuto allo Stato. Quindi continuerò a pubblicare manette in prima pagina finché non troverò un governo che tratta tutti i ladri allo stesso modo. O lascia rubare tutti, o non lascia rubare nessuno.

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano”  il 17 ottobre 2019. L'altra sera avevo appena finito di discutere a Otto e mezzo con due colleghi sulle manette agli evasori ("barbarie!", anzi "bavbàvie!"), quando ho visto Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, a Cartabianca. Anche lui ripeteva la litania che aumentare le pene agli evasori per mandarli in carcere non serve a niente e non spaventa nessuno: molto più dissuasivo confiscar loro il maltolto. Ora, a parte il fatto che soltanto un mese fa il Pd ha sottoscritto un programma di governo che prevede l'aumento delle pene agli evasori, una simile sciocchezza la può sostenere solo chi non sa nulla delle norme sull'evasione, che già prevedono il sequestro e la confisca delle somme evase. E non dissuadono nessuno dal continuare a evadere. Per un motivo semplice. L'evasione, ancor più della corruzione, è un reato seriale. Nessuno evade un anno e poi basta: chi evade lo fa sempre. Ogni anno mette da parte un bel bottino a spese di quei fessi che pagano le tasse. E sa benissimo che gli accertamenti a campione toccano meno del 10% delle dichiarazioni dei redditi, quindi ogni anno ha il 90% di probabilità di farla franca. Può pure scrivere in dichiarazione "Viva la gnocca" e 9 volte su 10 nessuno se ne accorge. Se poi, una volta nella vita, ha la sfiga di essere scoperto, già sa che potrà tenersi il resto del maltolto (le vecchie evasioni cadono in prescrizione alla velocità della luce); e, quanto all' evasione accertata, lo Stato riesce a riscuotere solo il 12%. Quindi chi evade ha 12% del 10% delle probabilità di dover restituire la refurtiva: cioè l'1,2%. A questo punto, se può evadere e non lo fa è un santo da calendario. O un emerito coglione. E chi pensa di dissuaderlo con la minaccia di levargli un anno di malloppo è come chi crede di dissuadere un pesce minacciando di gettarlo nell' acqua, o una talpa di seppellirla sottoterra. Martedì dalla Gruber il collega di Radio24 citava Mani Pulite come prova del fatto che le manette di Tangentopoli non hanno dissuaso corrotti e corruttori. Piccolo particolare: nessuno dei condannati per Tangentopoli, a parte tre o quattro sfigati, ha scontato la pena in carcere. Intanto perché le pene per la corruzione sono basse e fra sconti, attenuanti e amnistie portano a condanne perlopiù inferiori ai 3 anni (che in Italia non si scontano in galera, ma ai domiciliari o ai servizi sociali). Eppoi perché, appena partirono i processi, i governi di destra e di sinistra si attivarono per mandarli in fumo con varie leggi salva-ladri spacciate per "garantismo". Una invalidava le prove e le confessioni raccolte dai pm. Una depenalizzava l'abuso d'ufficio non patrimoniale. Altre allungavano i tempi dei processi. L'ex Cirielli dimezzava i tempi della prescrizione. L'indulto triennale votato nel 2006 da destra, centro e sinistra salvò i pochi condannati superstiti. Perciò le manette di Mani Pulite non dissuasero nessuno dal ricominciare a smazzettare: perché erano finte. Virtuali. Scritte nei Codici, ma mai scattate se non per brevissime custodie cautelari (e non per gli eletti, protetti dall' immunità-impunità-omertà parlamentare). Quanto alle "manette esibite in pubblico" ai tempi della "bavbavie!" di Mani Pulite, è una leggenda metropolitana: l' unico imputato di Mani Pulite ripreso in vinculis fu il dc Enzo Carra quando fu giudicato per direttissima per falsa testimonianza (e regolarmente condannato). Era - ed è - prassi delle forze dell' ordine accompagnare gli imputati detenuti dai cellulari al Tribunale con le manette ai polsi collegate da una catena per evitare fughe, atti di violenza o di autolesionismo. A quegli schiavettoni erano lucchettati ben 50 imputati, sotto gli occhi di tutti nel corridoio del Palazzo di giustizia. Poi quelli dei casi più semplici (quasi tutti spacciatori extracomunitari) furono via via sganciati per i vari processi e restò solo Carra, giudicato per ultimo. Naturalmente fece notizia e scandalo solo un caso su 50: quello del politico ("bavbavie!"). L' indomani, mentre la casta strillava alla Gestapo e alla tortura, un gruppo di detenuti di Asti scrisse una letterina alla Stampa: "Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Ci domandiamo quali differenze esistano fra noi e il sig. Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà". Oggi come allora i garantisti all' italiana non si occupano di loro: si danno pena per i politici (sempreché siano del partito giusto: l' anno scorso Marcello De Vito del M5S fu ripreso e fotografato durante l' arresto, fra l' altro poi annullato dalla Cassazione, senza che nessuno facesse una piega o gridasse alla "bavbavie") e i ricchi (molto popolari nel mondo dell' editoria perché pagano gli stipendi). È bastato che Conte&C. evocassero le manette agli evasori perché il consueto cordone di protezione si dispiegasse su giornali e talk show. Fiumi di parole sulla nostra copertina con le manette ("perversione", "bavbavie", "ovvove"!), ovviamente senza i volti dei destinatari (anche se qualcuno in mente ce l' avremmo). Gargarismi da finti tonti sulla "presunzione di innocenza", che non c' entra una mazza, visto che non abbiamo mai titolato "Manette ai non evasori". Balbettii benaltristi sulle "vere armi di lotta all' evasione", che sono sempre "altre" ma nessuno dice mai quali, anche perché in tutti i Paesi civili chi evade finisce in galera senza che nessuno strilli alla "bavbavie", e guardacaso quei Paesi hanno meno evasione di noi. Mark Twain diceva: "Se votare servisse a qualcosa, non ce lo farebbero fare". Ecco: se il carcere agli evasori non servisse a niente, sarebbe previsto da sempre.

Da la7.it il 17 ottobre 2019. Piercamillo Davigo: "Carcere per gli evasori? C'è un equivoco di fondo: in Italia si calcola che ci siano 12 milioni di evasori fiscali, significa fare 12 milioni di processi: non è realistico. Ci sono strumenti più efficaci: se si verificasse la compatibilità tra i beni posseduti e i redditi dichiarati, il bene acquistato che non è compatibile col reddito viene confiscato".

SU LE MANETTE! Da liberoquotidiano.it il 16 ottobre 2019. Vero e proprio raptus manettaro di Marco Travaglio in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo. Il direttore del Fatto quotidiano quando si parla di lotta all'evasione fiscale si scalda e perde letteralmente il controllo, regalando perle come "mi auguro pene draconiane", "chi evade una volta ha evaso tutte le altre volte" oppure "esibire gli arrestati affinché gli altri imparino e si spaventino". Dal legale al morale, una Santa Inquisizione Fiscale che fa inorridire i due ospiti in studio, i giornalisti Marianna Aprile del settimanale Oggi e Sebastiano Barisoni di Radio24, costretti a una vera e propria lezione di "garantismo" a Travaglio.

Gianni Carotenuto per ilgiornale.it il 16 ottobre 2019. Durissimo scontro nell'ultima puntata di "Otto e Mezzo", su La7, tra la giornalista Marianna Aprile e Marco Travaglio. Gli animi si sono accesi quando la discussione si è spostata sul tema dell'inasprimento delle pene per gli evasori deciso dal governo, che il Fatto Quotidiano, di cui Travaglio è direttore, ha festeggiato di recente con l'esibizione delle manette in prima pagina e il titolone "Manette a chi evade più di 50mila euro". Una scelta, quella del giornale manettaro, che è stata duramente condannata da Aprile. La giornalista di Oggi ha definito l'ostentazione delle manette "una cosa indecente. C'è sempre una presunzione di innocenza. Prima di vedermi sbattuta in prima pagina con le manette, dovrei essere prima processato e condannato, altrimenti è la barbarie". Poi un riferimento ad alcune vicende del passato: "Non vedo - ha affermato Aprile - erché si debba tornare indietro o addirittura aspirare al modello americano con l'esibizione delle manette. Ricordiamo la foto di Enzo Tortora, Mani Pulite...". A quel punto Travaglio è letteralmente esploso: "Mani Pulite era una barbarie?", ha chiesto il direttore del Fatto. Ma l'interlocutrice non si è fatta intimidire: "Ripeto, non sta ai giornali sancire la colpevolezza di un indagato, ma ai tribunali. È una regola base del vivere civile". Chiaramente non condivisa da Travaglio, che ha gridato alla collega: "Succede continuamente, solo che tu te ne accorgi solo quando c'è un politico". Al che Aprile ha replicato: "Perché noi (giornalisti, ndr) abbiamo l'obbligo di pixellare le foto della gente in manette che pubblichiamo? C'è una regola che stabilisce - ha precisato la giornalista - che l'indagato non va esibito quando è in uno stato di debolezza legato a una presunta colpa, altrimenti è una barbarie giudiziaria e si viene meno a uno dei principi fondamentali della Costituzione". La stessa Costituzione che, a dire di Travaglio, è la "guida spirituale" del Fatto. Ma non, evidentemente, sulla presunzione di innocenza sancita dall'art. 27 comma 2 della Carta. "La vera barbarie - ha urlato Travaglio - è che ci siano milioni di persone che derubano milioni di concittadini". "Ma non sta a lei deciderlo, bensì ai tribunali", ha provato a farlo ragionare Aprile. Ma niente da fare. L'ex firma di Espresso e L'Unità ha ripreso la parola affermando che "L'altra barbarie è che Renzi abbia stabilito delle soglie mostruose sotto cui non si viene neppure indagati, altro che esibizione degli indagati. Perché - la domanda retorica di Travaglio - non fanno una legge che dice che posso entrare in casa tua e rubarti solo lo stereo e la tv? Perché fanno le soglie di impunità solo per gli evasori fiscali? Questa è la barbarie".

Caselli e la boutade sull’abolizione dell’appello. Giorgio Varano, responsabile Comunicazione Unione Camere Penali Italiane, l'11 Agosto 2019 su Il Dubbio. Colpisce lo spregio dell’ex procuratore per un istituto richiamato dalla Costituzione. E colpisce soprattutto l’approccio fintamente efficentista: dietro l’ansia per i tempi lunghi della giustizia penale c’è una forma di integralismo religioso giustizialista. Alcuni pubblici ministeri vivono la propria funzione con uno spirito religioso integralista e giustizialista. Poi, una volta andati in pensione, o vengono folgorati sulla via di Damasco, o si pongono come teologi dell’ortodossia integralista.  Il Dottor Caselli, con la sua ridondante proposta di abolire l’appello nel penale, fornisce però spiegazioni più da seminarista in erba che da teologo.  L’ex procuratore pone due domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito? È vero che anche in Italia nel 1989 è stato introdotto un sistema di tipo accusatorio? Teme, nel porre queste domande capziose, la reazione “cattiva degli avvocati”. Ma gli avvocati non sono usi a reagire in modo cattivo, anche perché dotati di tanta pazienza, così come di solito non pongono domande scivolose, senza avere la certezza delle risposte. Nel nostro Paese non c’è un sistema processuale accusatorio “puro”, ma un sistema a tendenza (omeopatica) accusatoria. Infatti, non ci sono le carriere dei giudici e dei pm separate, c’è un unico Csm per entrambi, ci sono tantissimi processi che si svolgono a dibattimento, tanti decisi da giudici “onorari”, ci sono tanti limiti ai riti alternativi, non ci sono le giurie solo popolari (le corti d’assise non lo sono), non ci sono le decadenze o le nullità dell’azione penale o l’inutilizzabilità assoluta delle prove raccolte in violazione della legge. Potremmo continuare scrivendo pagine e pagine sul punto. Ma è meglio partire della costituzionalizzazione dell’appello nella nostra Carta, nella speranza che possa terminare questa boutade dell’abolizione dell’appello.  Nell’assemblea costituente si discusse a lungo sull’inserimento formale dell’appello penale quale diritto costituzionalmente garantito. Ci furono numerose discussioni, e si convenne di non formalizzare questo diritto solo per il penale, perché, per dirla con le parole di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, non conveniva ammettere espressamente l’appello per certe categorie di sentenze e provvedimenti, tacendo delle altre, ché sarebbero potute sembrare escluse dall’appello (seduta del 27 novembre 1947). Ma la migliore spiegazione la diede il costituente Francesco Dominedò: «La via ad una più alta tutela delle libertà del cittadino, attraverso la possibilità di configurare sempre il doppio grado di giurisdizione (la Cassazione non era e non è considerata un secondo grado) in quanto sempre operi l’istituto della motivazione, garanzia di giustizia e segno di civiltà». Ed è proprio questo il punto in cui è insito il diritto costituzionale all’appello: l’obbligo della motivazione, previsto da sempre dall’articolo 111 (“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”). Senza considerare poi le convenzioni e le carte internazionali, che riconoscono come inviolabile il diritto ad un nuovo esame di una sentenza di condanna o colpevolezza, da parte di un tribunale superiore.

Chiedere l’abolizione dell’appello, per risolvere le lungaggini processuali, evidenzia una concezione di fondo della giustizia molto preoccupante: i giudici non possono sbagliare.  Il vero problema non è solo che i giudici sbagliano (quasi la metà delle sentenze di primo grado vengono riformate in appello). Il problema è che non leggono perché hanno sbagliato. Infatti, non hanno l’obbligo di studiare le sentenze di appello avverso le loro pronunce. Ma è altrettanto preoccupante questo approccio fintamente efficientista, perché in realtà affronta in modo populista il problema delle lungaggini processuali, che i dati statistici dei vari Tribunali confermano essere causato da disorganizzazione e da mancanza di mezzi e personale. Proporre di abolire l’appello per ridurre i tempi processuali è un po’ come dire che per eliminare le attese negli ospedali dobbiamo abolire la possibilità di chiedere un secondo accesso agli stessi, anche se la prima volta ci hanno sbagliato la cura. È vero che viviamo tempi in cui si può abolire la povertà con un post sui social network, ma non è detto che dobbiamo considerare credibile chi ritiene di risolvere i problemi in questo modo.

FORCA ASSASSINA. Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2019. Egregi forcaioli, poco gentili paladini del giustizialismo, feticisti delle manette facili, ma voi conoscete il numero di vittime delle vostre ossessioni come Calogero Mannino, riconosciuto innocente dopo ventisette anni di gogna e ingiustizia? Immagino di no, ma si tratta di decine, forse di centinaia di persone innocenti che avete massacrato proditoriamente. Governatori di Regioni e Province, sindaci, assessori, parlamentari, politici della Prima, Seconda e Terza Repubblica con tutto il codazzo di clan, cricche, loggette, creato appositamente per tracciare grandi disegni criminosi sui media senza mai arrivare a uno straccio di prova, tutti gettati nelle fauci della pubblica riprovazione quando montava l' ondata accusatoria, poi abbandonati a se stessi quando è stata riconosciuta loro l' estraneità ai fatti. Sapete quanti assolti, quanti prosciolti, quanti intercettati poi nemmeno rinviati a giudizio hanno costellato la vita giudiziaria di uno Stato che ha smesso da tempo di essere uno Stato di diritto? Avete anche devastato il linguaggio: avete lasciato intendere che indagato voglia dire imputato, e che imputato significhi condannato, e che la prescrizione sia un privilegio, e non un esito quasi sempre dovuto alla lentezza pachidermica della magistratura. Avete fatto a pezzi il sacrosanto principio costituzionale della presunzione di innocenza, caposaldo di uno Stato di diritto. Poi certo, esistono i tanti casi di innocenti non famosi perseguitati dall' ingiustizia: ma almeno su quelli non avete esercitato il vostro sadismo mediatico. Perché questo siete: un po' sadici. Che degli anni di galera da innocente di Mannino non vi importa nulla, ancora ad inseguire i fantasmi dei vostri teoremi politici celebrati nei tribunali, che sarebbero ridicoli se non fossero tragici. E bisognerebbe fare un elenco aggiornato degli innocenti che avete distrutto. Ma ci vorrebbe Amnesty International.

Il piano delle toghe: fermare un esecutivo di centrodestra. Le procure in soccorso del M5s mandano un messaggio alla Lega: fate attenzione a tornare con Berlusconi. Augusto Minzolini, Mercoledì 08/05/2019, su Il Giornale. A Montecitorio, il giorno dell'ennesima incursione della giustizia nella politica, il sottosegretario leghista Claudio Durigon, lo ammette senza remore. «Io confida ho paura su tutto. Se vado in bagno ho paura pure di fare la pipì fuori dal vaso, perché mi becco un avviso di garanzia. Mi hanno messo in mezzo alla storia dei rom a Latina, quando all'epoca dei fatti non ero neppure leghista. Mi hanno dato del fascista, ma vengo da una famiglia democristiana, con tanto di zio prete e tre zie suore. Con questa storia del traffico di influenze mi occupo solo delle cose che mi riguardano, quando invece mi piacerebbe tanto sbloccare i cantieri per l'ampliamento della Pontina che è fermo da dieci anni anche se tutti lo vogliono. Ma come faccio? Ogni campagna elettorale si gioca sulle inchieste giudiziarie: l'atmosfera è terribile». Poco più in là, altro uomo del Carroccio, Paolo Tiramani, si lascia andare alla stessa confessione. «Dopo gli arresti di oggi, con quei capi d'imputazione racconta come fai a non aver paura!?». E seduto, accanto a lui, un altro leghista, Alessandro Giglio Vigna, rispolvera un vecchio adagio: «È la solita inchiesta ad orologeria, ma alla fine vinceremo lo stesso». Appunto. Un altro giorno di campagna elettorale, un'altra inchiesta giudiziaria, altri arresti, altri avvisi di garanzia. In questi trent'anni il copione si è ripetuto tante volte che non si contano, con obiettivi diversi, ma con logiche politiche sempre stringenti, nascoste dietro lo spauracchio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Ieri è stato il turno di quello che una volta era chiamato il centrodestra: bersaglio principale Forza Italia e i suoi esponenti (un candidato alle Europee, un sottosegretario alla Regione, e una serie di coordinatori del partito), ma dentro c'è finito anche il partito della Meloni e qualche uomo d'area della Lega. E la lettura dentro il Palazzo è fin troppo semplice, quasi elementare: un modo per parlare alla suocera (Forza Italia) perché nuora (la Lega) intenda. «Il colpo a noi spiega Gregorio Fontana, responsabile dell'organizzazione degli azzurri è stato pesante, ma il fine di una certa magistratura è un avvertimento ai leghisti: State attenti a riallearvi con Berlusconi...». Una lettura magari troppo «politicista», che però non è priva di elementi. La richiesta degli arresti è di due mesi fa, ma hanno avuto il via libera alla vigilia del Consiglio dei ministri sul caso Siri e a 20 giorni dal voto europeo. Il governatore leghista, Attilio Fontana, appare come parte offesa, ma il capo della procura milanese, Greco, nicchia: «Valuteremo la sua posizione». E, poi, c'è il can can grillino sull'inchiesta con tanto di conferenza stampa di Di Maio e Bonafede (a dir poco irrituale) e le paure «speculari» dei leghisti. Un copione che alla fine ottiene il risultato di mettere all'angolo Salvini sul caso Siri: «Voteremo ha detto ieri sera - contro le dimissioni di Siri, se ci sarà un voto, ma il governo andrà avanti altri quattro anni». Una resa. Poi, naturalmente, il vicepremier leghista è pronto a fare il buon viso e il cattivo gioco. Oggi il ministro del Carroccio, Erika Stefani, parlerà con il premier Conte per strappare una «pre-intesa» sulla legge sull'autonomia già nel Consiglio dei ministri della prossima settimana per avere una rivincita in questa campagna elettorale. Ma l'intenzione grillina è quella di tergiversare. La verità è che grazie alla questione «giustizia» il vertice pentastellato è convinto di poter nuovamente esercitare una sorta di egemonia sul governo. «Non ci sarà nessuna crisi sul caso Siri, sarà dimissionato e basta» scommetteva già ieri mattina il ministro della Giustizia, Bonafede: «Se poi Salvini diventerà più rigido sull'autonomia, sono convinto che alla fine troveremo la quadra. In fondo le firme per i referendum in Lombardia e Veneto le abbiamo raccolte anche noi». Miele per lenire le ferite dell'avversario. Come le parole del capogruppo dei deputati grillini D'Uva: «Il caso Siri ha una sua specificità, ma non adotteremo una politica giustizialista: sui casi giudiziari di leghisti come Rixi e Molinari abbiamo avuto un atteggiamento diverso». Ma si tratta di dichiarazioni di circostanza: il bastone e la carota. Niente di più. Se parli con Di Maio, infatti, ti accorgi che l'iter dell'autonomia sarà lungo e ci metterà del tempo prima di arrivare in Parlamento. Come pure è palese l'intenzione del vicepremier grillino di agitare le inchieste, la lotta alla corruzione, come argomento principale per riconquistare consensi in questa ultima fase di campagna elettorale e per mettere Salvini «sotto schiaffo»: «La corruzione è la prima emergenza del Paese, il primo strumento per rilanciare la crescita». Argomenti, concetti, che saldano il movimento con quella parte della magistratura «interventista» che si rifà alle tesi di un magistrato come Piercamillo Davigo e alla sua filosofia: «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». E qui c'è il limite della strategia leghista, il rischio dell'alleanza con un movimento che, se messo in difficoltà, può sempre contare su alleati tra le toghe, mentre il Carroccio su quel versante è «nudo». «La conferenza stampa di Di Maio e Bonafede accusa il forzista Davide Bendinelli dimostra chi sono i mandanti occulti di certe inchieste ad orologeria». «Salvini rincara l'altra forzista, Debora Bergamini dovrebbe compattare il centrodestra per opporsi al giustizialismo dilagante, invece si sta consegnando a loro. Non ha capito che colpiscono noi per eliminare la possibile maggioranza di centrodestra del futuro e mettere la Lega in balia dei 5stelle. I grillini hanno legami con le procure e lui farà la fine di Sigfrido nell'accampamento di Attila». Insomma, il «Capitano» rischia di scoprire, a sue spese, quanto sia complesso il «gioco» della politica in Italia. Quella sorta di «trono di Spade» nostrano per citare una serie televisiva che va per la maggiore che il Cav ha sperimentato sulla sua pelle negli ultimi 25 anni. «Forza Italia osserva Giuseppe Gargani, già responsabile giustizia della Dc e poi degli azzurri, nonché testimone d'eccezione dello scontro tra giustizia e politica degli ultimi trent'anni - prima prendeva schiaffi da certa magistratura perché era al governo. Ora perché potrebbe far parte di un'alternativa all'attuale governo grillino. La verità è che il network 5stelle si basa sull'alleanza con quella parte della magistratura che si è organizzata un sindacato con a capo magistrati come Davigo. Un network più sofisticato, e pericoloso, della vecchia magistratura democratica».

Garantismo “occasionale”. Editoriale del direttore Carlo Fusi il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il processo mediatico «si distacca completamente dalla realtà», ha spiegato il neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Pasquale Grasso, nella bella intervista di Mattia Feltri sulla Stampa. «Il processo mediatico è una deriva non più accettabile», aveva ammonito Andrea Mascherin, presidente del Cnf, nella relazione al Congresso forense di Roma di una settimana fa. Stessi concetti, medesimo linguaggio tra magistrati e avvocati. Dunque tutto a posto? Se la questione riguardasse solo gli aspetti, per così dire, “tecnici” del processo, presumibilmente sì. C’è tuttavia una dimensione che merita di essere approfondita e attiene al ruolo dell’opinione pubblica, alla pressione che viene svolta nei modi più vari e che rischia di condizionare l’esercizio della giustizia con l’obiettivo di piegarla agli umori del momento. Per capirci. Alla fine degli anni ’ 90, nel pieno della bufera di Mani Pulite, le toghe vennero caricate – più o meno strumentalmente, e forse più che meno – del compito di essere lavacro delle ruberie e debellatori della corruzione di una classe politica screditata e inaffidabile. «Condottieri e risanatori. Alla lunga non è stata una buona cosa e c’è stato un riflusso», dice sempre Grasso. Va aggiunto che chi allora svolgeva il compito costituzionale di difesa degli indagati spesso veniva vissuto, da opinione pubblica e media, come correo o ostacolo al giusto e necessario meccanismo di risanamento politico e morale del Paese. Trent’anni dopo, il sentimento popolare volge all’opposto: i giudici che si rifanno alle regole e alla legge per valutare responsabilità e addebiti vengono criticati dai cittadini e attaccati dai leader politici a volte nel corso stesso delle indagini. Mentre nell’immaginario collettivo gli avvocati sono rimasti lì: non un ostacolo alla giustizia, ma comunque cultori di tortuosità e sviamenti. Insomma il garantismo in quell’epoca rivolto agli accusati dovrebbe diventare ora barriera a difesa dell’operato dei magistrati. Perché la “pancia” degli italiani ha cambiato verso. Però l’esercizio della giustizia è altro. Lo Stato di diritto non è una clessidra che si può rovesciare per segnare i tempi delle necessità e delle convenienze. Idem il garantismo, qualunque sia l’accezione che se ne voglia dare. Le regole vanno rispettate sempre e comunque. E chi è chiamato ad interpretarle esprime il senso più pieno della democrazia. Il garantismo occasionale, come il suo rovescio, è una tentazione comoda. Ma deleteria.

VIVA LA FORCA! Ugo Magri per “la Stampa” il 16 aprile 2019. La magistratura è tornata nel mirino della politica. Oggi la sua indipendenza viene minacciata come e, forse, più che ai tempi di Mani Pulite e delle mille inchieste contro Silvio Berlusconi. Le toghe sono maggiormente a rischio perché il tentativo di soggiogarle non viene da leader inquisiti, preoccupati soltanto di sfuggire a una giusta pena, ma è condotto da personalità di governo che si proclamano interpreti dello spirito di vendetta e, metaforicamente, reclamano la forca. Tanto Luigi Di Maio quanto Matteo Salvini si sono scagliati a turno contro verdetti da loro giudicati troppo miti o non abbastanza esemplari. Hanno definito «vergognose» certe decisioni, surfando l' onda dello sdegno contro i colpevoli e innescando una gogna mediatica nei confronti dei magistrati «buonisti». I quali una volta dovevano guardarsi dagli imputati, che manovravano le leve del potere nel tentativo di delegittimarli; adesso vengono egualmente strattonati dai potenti, però a nome delle vittime e per calcoli di natura elettorale. Un tempo pm e giudici passavano per inquisitori a tutto disposti pur di mandare i potenti al gabbio; ora devono proteggersi dal fuoco amico, cioè dall' accusa di anteporre le garanzie della Costituzione alle punizioni esemplari che il popolo reclama. In entrambi i casi, non viene tollerato che il giudice decida in base alla legge, con scrupolo e magari con qualche tormento interiore causato dalle sfaccettature in cui si cela la verità. L' interesse dell' intervista di Mattia Feltri a Pasquale Grasso, sta proprio in questa realistica presa d' atto. Il numero uno dell' Associazione nazionale magistrati riconosce che il fronte si è spostato, inedite sfide attendono gli operatori della giustizia. Si colgono, nelle parole di Grasso, le stesse preoccupazioni di Sergio Mattarella rilanciate su queste colonne da Vladimiro Zagrebelsky. Il capo dello Stato esorta la magistratura a rimanere concentrata sul proprio compito senza lasciarsi intimidire dal populismo giudiziario che vorrebbe sempre la pena massima. La cronaca trabocca di esempi. L' ultimo drammatico caso riguarda l' omicidio del maresciallo Vincenzo Di Gennaro. Quando il ministro dell' Interno diffonde personalmente le foto dell' assassino, e le accompagna con il commento standard («Non merita di uscire dalla galera fino alla fine dei suoi giorni»), diventa difficile vestire i panni del giudice. L' unica via di scampo è uniformarsi. Qualora l'«infame» non ricevesse un bell' ergastolo, che probabilmente merita ma non spetta a Salvini stabilirlo, l' autore della sentenza verrebbe travolto dai media e sui social. Si coglie la tendenza a riversare sui magistrati le colpe dell' insicurezza collettiva («Noi li arrestiamo, quelli li rimettono in circolo»). I troppi casi di femminicidio hanno reso ancora più esigui i margini di valutazione, criminalizzando quelle donne che non hanno ritenuto di applicare la giustizia di genere. In questo clima di attenuata civiltà giuridica, è difficile dissentire dal presidente Anm: una separazione delle carriere tra pm e giudici metterebbe la magistratura ancor più sotto schiaffo. Col paradosso che ai garantisti, quelli veri, oggi converrebbe ripensare quella loro antica battaglia, e schierarsi in difesa delle odiate toghe. Chi l' avrebbe mai detto.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 16 aprile 2019. Pasquale Grasso, cinquant' anni, presidente dell' Associazione magistrati nell' accordo di turnazione annuale per cui ognuna delle quattro correnti rappresentate nel parlamentino presiede la giunta per un anno, è esponente di Magistratura indipendente, forse la più moderata. Concede alla Stampa la prima intervista da presidente, e la chiacchierata parte inevitabilmente dai rapporti fra politica e magistratura.

Presidente, di fronte a vari casi di cronaca, i leader politici, soprattutto di governo, hanno preso l' abitudine di anticipare le sentenze, esprimendo sul sentito dire quale sarebbe per loro la condanna adeguata.

«Per noi non è un problema nuovo. Forse la necessità di una presa di posizione politica è inevitabile, e non possiamo impedire che le sentenze vengano anticipate secondo una sensibilità politica. Ci piacerebbe se anche i professionisti dell' informazione avessero cura del linguaggio, perché la forma è sostanza. Di recente alcune sentenze sono commentate con termini come assurdità o vergogna».

Sono termini usati dai vicepremier. L' informazione non può che riportarli testuali.

«Me ne rendo conto, ma non posso permettermi di dire a un vicepremier quale linguaggio usare. Posso però dire che la distinzione fra il processo reale e il processo mediatico dovrebbe essere più chiara e rimarcata. Da tutti. Perché il processo mediatico, cui partecipa la politica, si distacca completamente dalla realtà dei fatti. Ma aggiungo che un magistrato deve restare indifferente: con le sentenze noi abbiamo l' obbligo di spiegare sempre perché decidiamo in un certo modo. E soprattutto non bisogna avere timore di una perdita di consenso».

È quello che dice anche il presidente Mattarella, a proposito dei magistrati che via internet cercano consenso sociale.

«Dobbiamo trovare il modo di comunicare il nostro lavoro. Per esempio il tribunale di Genova ha nominato un responsabile della comunicazione. Oggi è indispensabile se, per esempio, una sentenza viene pesantemente e superficialmente criticata sulla base di una sola frase».

È anche vero che da quasi trent' anni i magistrati danno l' impressione di proporsi come guida morale del Paese.

«È una percezione non del tutto infondata che risale a Mani pulite, quando i magistrati avevano consenso altissimo, erano visti come condottieri e risanatori. Alla lunga non è stata una buona cosa e c' è stato un riflusso. La stragrande parte di noi sono giudici di tutti i giorni, che fanno un lavoro essenziale ed eccezionale. Mi auguro che sapremo dare un' immagine più equilibrata di noi, e che ci venga riconosciuta».

Il risultato, oggi soprattutto a causa della politica, è un dibattito emotivo, il cui sbocco è sempre e solo l' aumento delle pene.

«Sono d' accordissimo. La reazione emotiva può andare bene per le vittime e i parenti delle vittime, non per la politica, non con una, ma con tre p maiuscole, di cui ho sacrale rispetto. Lo dico da cittadino, non da presidente dell' Anm. Rispondere con l' aumento delle pene è comodo, facilone, e poco produttivo».

A gennaio scatterà lo stop alla prescrizione, e dovrebbe arrivare una riforma del processo penale scritta in pochi mesi. L' ultima, negli anni 80, fu pensata dai massimi giuristi in anni di lavoro.

«Quella riforma fu una rivoluzione copernicana, mentre in questo caso il governo ha preso atto di alcuni limiti del processo penale e intende porre rimedio. Noi abbiamo dato il nostro contributo ma è vero che non c' è stato - a differenza che nella riforma che oggi compie trent' anni - un intenso rapporto fra governo, dottrina, giuristi, università e, anche qui, si corre il rischio di cedere all' onda dell' emotività. Quanto allo stop della prescrizione, si tratta del caso tipico di intervento su un solo organo di un organismo complesso, e può condurre a risultati contraddittori».

Lei, come quasi tutti i suoi colleghi, è contrario alla separazione delle carriere. Ma con l' abolizione dell' immunità parlamentare l' equilibrio dei poteri studiato in Costituzione si è incrinato.

«L' abolizione dell' immunità parlamentare è stata una scelta politica e comunque non colgo la correlazione, non vedo squilibrio dei poteri. Dico solo che il pm chiede il proscioglimento degli imputati che scopre innocenti, mentre l' avvocato, legittimamente, cerca il meglio per l' assistito, anche se è colpevole: ecco la differenza fondamentale. E chiedo: ma davvero vorreste un indirizzo politico al lavoro dei magistrati dato da questo governo? O da qualsiasi altro governo?».

Ho visto procure abbattere governi sulla base di inchieste poi naufragate.

«Effettivamente è un problema che la politica ha reiteratamente posto. Ma l' alternativa, se è il pm sottoposto all' esecutivo, è peggiore del supposto male».

Lei in una lettera ai suoi figli ha descritto lo strazio di infliggere trent' anni a un ragazzo di venti, nonostante fosse uno che ne avesse combinate di tutti i colori.

«Si tratta di una devastazione emotiva che i magistrati conoscono bene. Non ci si abitua mai a decidere della vita degli uomini, sebbene siano colpevoli delle peggiori malefatte. Mi è capitato di uscire stravolto dalla lettura di dispositivi di sentenza».

Lei ha molto a cuore la giustizia civile, che da giudice sta amministrando.

«La giustizia è un tema declinato esclusivamente sul penale, ma è il civile che regola le nostre vite: i divorzi, l' affidamento dei bambini, le eredità, le liti condominiali, le contese fra aziende. Il giudice è essenzialmente un giudice civile, e mi infurio quando si dice che le lungaggini dipendono da giudici fannulloni. Negli uffici giudiziari manca il 30 per cento del personale amministrativo. Noi siamo i cancellieri di noi stessi, stendiamo da soli il verbale al computer. Ma ci rendiamo conto che in media un giudice civile tratta seicento cause contemporaneamente? È come leggere seicento libri tutti insieme. E aggiungo una informazione che tutti trascurano: se il magistrato si ammala, una voce del suo stipendio viene meno, e automaticamente gli si riduce lo stipendio. Cioè, se mi ammalo, è colpa mia».

Inoltre se si blocca la giustizia civile, si blocca l' economia.

«È così. Il diritto civile è economia. La politica dovrebbe rendersene conto perché i costi dei tempi lunghi li scontano, per esempio, i creditori, spesso imprenditori che attendono una decisione sulle loro richieste economiche».

Dalla sua corrente, quattro anni fa, si è scisso Piercamillo Davigo. Come sono i vostri rapporti?

«Penso che le prospettive possano essere di tornare insieme. Forse la scissione ha più avuto a che fare con le contingenze che con le idee, che sono simili, e più che altro espresse con toni diversi».

Sarà, ma questa chiacchierata, con Davigo, non sarebbe andata così.

«Davigo è un collega che rispetto, ma siamo due persone diverse con due storie diverse».

Italia, Paese del giustizialismo che non se ne va. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da L'Opinione della Libertà. Intendiamoci: parlare come fa qualcuno di giustizialismo che ritorna, non è esatto. Il giustizialismo non è ritornato perché non se n’è mai andato. È sempre in azione, all’opera, indefesso e proprio nel Paese che si crede(va) la culla del diritto. Già il nostro giornale che del garantismo ha fatto la sua più vera e unica bandiera, ha narrato nei giorni scorsi casi in sé non eclatanti ma sempre e comunque esemplari, nelle soluzioni giudiziarie, dello stato delle cose in Italia. Siccome il semplicismo, anche e soprattutto mediatico, è subentrato alla dialettica che è la ragion d’essere della democrazia, andrebbero evitate le critiche cosiddette en passant ad una sistema giudiziario che nel suo day-by-day non appare sempre e comunque ispirato alla grande madre di quel garantismo che è oggettivamente indispensabile. Ma che proprio dalla stessa politica – premiata dal voto elettorale e salita a Palazzo Chigi – è spesso e volentieri cestinato perché ispirata alla sua negazione, stabilendo una sorta di santa alleanza con i non pochi Palazzacci e suoi occupanti, più o meno. Del resto, è noto che il giustizialismo d’antan leghista non è mai stato messo in cantina, a cominciare da quel leggendario grido “Mani pulite” inventato soprattutto dai mass media, forse gli stessi che vent’anni dopo hanno dato vita ad un’altra imprecazione, non meno mitica: “La Casta”. Le due grida, invero poco manzoniane, hanno dato una grossa mano, la prima ai successi della Lega (e di Forza Italia prima maniera) con l’annientamento dei partiti della Prima Repubblica, la seconda ai trionfi di un grillismo, prima di lotta ed ora di governo, in nome e per conto del nuovo che avanza. In sostanza, e grazie alle assenze riformatrici degne di questo nome anche da parte di un Cavaliere premiato dai consensi, qualsiasi “riforma della giustizia” e delle sue garanzie per i cittadini non è mai decollata. Questa premessa, sia pure sommaria, serve anche a mettere a fuoco degli esempi che scorrono davanti ai nostri occhi e che si portano con sé il pesante bagaglio di un giustizialismo che non tramonta mai, anche nel silenzio o quasi di un coro massmediatico che sembra poco interessato e propenso ad un’analisi degli episodi e delle persone coinvolte, siano conosciute, sconosciute. Finite nel tritatutto del carcere e delle manette. Il caso della preside di Imperia, Anna Rita Zappulla, è a suo modo emblematico se è vero come è vero che le manette e l’arresto conseguente sono stati inflitti per aver utilizzato l’auto di scuola per un viaggio, anche in Francia, cioè per i fatti suoi. La Zappulla, poi scarcerata, è una signora ultrasessantenne, incensurata, stimata e ha dichiarato di aver fatto quel viaggio in ragione del recupero di fondi europei, purtroppo andati perduti. Dura lex sed lex, si dice in questi casi, ma il proverbio ha spesso il sapore di una sorta giustificazione, ma a posteriori, di provvedimenti che in ben altri casi e ben più gravi non vengono presi. Gli esempi sono tanti e quotidiani e li risparmiamo. Soffermiamoci invece sul caso di Emilio Fede che è scampato ad arresti comunque “minacciati”, ma poi trasformati in “domiciliari”. Francamente è difficile se non impossibile immaginare un famoso giornalista come Fede, ultraottantenne, a rischio di arresto giudiziario per le cosiddette vicende di Arcore sulla cui gravità qualsiasi dibattito, anche il più antiberlusconiano, non potrebbe non concludersi con una risata collettiva, non fosse altro che per scongiurare se non irridere a fronte di una galera alle viste. Ma di dibattiti, nemmeno l’ombra. Dura lex sed lex, appunto. Infine, un cenno di nuovo alla vicenda di un Roberto Formigoni, da qualche tempo associato alle carceri di Bollate, vicino Milano. Anche nel suo caso l’inflessibilità del giudizio è della stessa dura e ferrea materia delle manette. E nessuno può oggettivamente mettere in ombra colpe e responsabilità dell’ex presidente lombardo. Il punto è un altro. Anzi, il fatto. Ed è che Formigoni ha superato i settant’anni e la stessa Costituzione italiana è abbastanza chiara in proposito a condanne in carcere ad una certa età. Dignitosamente, Roberto Formigoni ha voluto e saputo affrontare questa prova con dignità e pacatezza. Ma il fatto, cioè la galera, rimane. Il cappio sventola sul nuovo che avanza.

Regole e garantismo che servono al Paese, scrive Carlo Fusi il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. Proviamo a rigirarla. Proviamo a pensare che Catiuscia Marini sia ancora governatrice umbra. Che il sottosegretario Armando Siri svolga senza patemi il suo incarico. Che la sindaca Raggi si affacci dal balcone sui Fori e veda solo storiche bellezze. Tutto ciò consentirebbe una discussione, accesa ma rispettosa, sulle incrostazioni che il mancato ricambio politico produce rendendo le amministrazioni riserve ereditarie di consenso? Che le grandi opere e le energie rinnovabili sono decisive occasioni di sviluppo a patto che siano del tutto trasparenti? Che non è serio aspettarsi miracoli nel risanamento delle nostre più belle città dopo decenni di trascuratezza e opache se non criminali connivenze, ma è ancora meno serio prometterli? Quasi sicuramente – e desolatamente la risposta non potrebbe che essere negativa. Perché nel nostro Paese la politica da troppo tempo ha smesso di interrogarsi su se stessa, di avere respiro e lungimiranza, di svolgere il compito specifico e democratico di ricerca di soluzioni per il bene comune. Una condizione di progressivo degrado e rinuncia che ha prodotto crollo di autorevolezza e scadimento di fiducia. Il perché mezza Italia rifiuti di andare alle urne sta qui. Su queste basi agisce l’uso strumentale e barbarico delle inchieste, che da decenni ha tracimato il livello di guardia. Le indagini sono diventate armi tanto improprie quanto devastanti di lotta politica dove qualunque colpo, compresi i più bassi, è ammesso o addirittura ricercato. Di conseguenza ogni avviso di garanzia diventa colpevolezza certa; ogni intercettazione, senza guardare se correttamente o scorrettamente pubblicata, inappellabile verdetto di condanna; ogni inchiesta, poco importa se è alle fasi preliminari, processo celebrato con sentenza già scritta. Se poi ci aggiungiamo la disinvoltura con la quale in tanti casi i media civettano con le Procure e l’enfasi spettacolarizzante che gioca senza scrupoli con vicende private e talvolta perfino privatissime delle persone, il quadro è sbozzato. Su questo sfondo, i principi cardine della civiltà giuridica diventano trascurabili orpelli. La presunzione di innocenza viene considerata un ingombro, retaggio di un passato da cancellare. O al contrario sfrontato scudo per nascondere responsabilità. Il controllo di legalità è indispensabile. Ma l’uso politico delle inchieste è fatale. Il rispetto delle regole, sempre e comunque, è il garantismo che ci appartiene e preferiamo.

·         La Sinistra: un Toga Party.

L’ex pm Paolo Mancuso è nuovo presidente del Pd napoletano: ormai è un toga party. Marco Demarco il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. Si dice giustizialismo e si pensa ai Cinquestelle, a Di Maio, Travaglio e Bonafede. Ma il Pd? C’è un giustizialismo che non si esaurisce nell’esibizione delle manette, ma che vede nella competenza giudiziaria l’unica, l’assoluta, la sola in grado di tenere insieme il mondo. È il giustizialismo in cui il Pd sguazza. Ecco di cosa si tratta. L’ex magistrato Paolo Mancuso, già pm anticamorra e procuratore capo a Nola, è stato appena nominato presidente del Pd napoletano. La notizia è questa, buona per chi, nel partito dei notabili, aspettava da tempo un nome capace di mettere ordine in un groviglio di interessi e meschinità, che Renzi, quando era segretario, avrebbe voluto incenerire con un lanciafiamme. Ma se questo è il fatto, il contesto è molto meno rassicurante. La scelta di Mancuso è la conferma di un forte squilibrio di sistema: la prova, a dirla tutta, di quanto si sia consolidato negli anni il sodalizio tra i magistrati “di sinistra” e il maggior partito di area. Un sodalizio che risale ai tempi della questione morale di Berlinguer, alla presunta diversità etico-politica dei “buoni” per autodefinizione, ai nomi di Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson, e che senza risalire troppo nella memoria del Pci e sorvolando sul legame tra giustizia e politica che divenne strategico nella stagione di Tangentopoli, arriva fino a oggi, quando il fenomeno, oltre che la Storia, torna a occupare la cronaca. Specialmente nel Mezzogiorno. L’ex magistrato Gennaro Marasca, già autorevole assessore nelle prime giunte postcomuniste di Napoli, è neocomponente della direzione provinciale dello stesso Pd di Mancuso. L’ex magistrato anticamorra Franco Roberti, già assessore regionale di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania, è eurodeputato del Pd, eletto da capolista nella circoscrizione meridionale. La magistrata Caterina Chinnici, figlia di Rocco, ucciso dalla mafia, è al pari di Roberti eurodeputata Pd eletta come capolista nella circoscrizione delle isole. E poi ci sono i Michele Emiliano in Puglia, i Pietro Grasso in Sicilia e, caso a parte, Raffaele Cantone che a differenza di tutti gli altri non è mai sceso (o salito o passato) in politica, ma continua a essere in cima ai pensieri del Pd per ogni sorta di alta carica istituzionale. La lista è talmente lunga che basta e avanza. Il partito dei giudici esiste, eccome. Ma non in senso metaforico, a indicare un orientamento di fondo, una egemonia culturale, una presenza forte ma fisicamente impalpabile. Il partito dei giudici è il Pd. Neanche il tempo di andare in pensione o di dimettersi dai ruoli – e qualche volta addirittura con la toga ancora sulle spalle – ed ecco, pronto, il posto in politica. Ormai il passaggio da una funzione all’altra è quasi un avanzamento automatico di carriera. Come lasciare la Nunziatella e passare nell’esercito. Tanto che a pensar male può farsi strada il dubbio che molto di quello che si fa prima, nelle aule di giustizia, possa essere funzionale a quel che si farà dopo, nelle sedi del partito. Ma detto questo, e subito negato per i singoli casi citati, non è che a pensar correttamente il quadro invece migliori. A conti ultimati e lista alla mano, infatti, il Pd si presenta con una rappresentanza a dir poco sbilanciata, come se nella cosiddetta società civile non ci fossero anche imprenditori, disoccupati, operai, scienziati, creativi e professionisti a cui dare voce con pari ossequio e uguale amplificazione. Possibile mai che solo Giuliano da Empoli, in Gli ingegneri del caos, abbia notato che i consulenti più richiesti dai grandi leader mondiali siano oggi i fisici, abituati a destreggiarsi tra i grandi numeri e l’infinito pulviscolo di particelle accelerate? Peggio ancora, il Pd si presenta con una idea di Mezzogiorno inevitabilmente a una dimensione. Senza sfumature e distinguo. Una visione panpenalista, direbbe chi mangia pane e reati. Giustizialista, apocalittica, sospettistica e, in ultima analisi, punitiva e purgatoriale, diremmo noi. Come se il Sud fosse tutto e solo criminalità, intrigo gomorrista, trama oscura, capitalismo amorale e corruzione “seriale e diffusiva”, per definirla alla Davigo, e non avesse, invece, drammatici problemi di modernizzazione da risolvere, al di là delle competenze giudiziarie. Nessuno, poi, che alla luce di tutto questo si chieda come mai i nodi qui in Italia, e specialmente al Sud, comunque restano. E nessuno, ancora, che si interroghi sul perché la scelta di uomini come Mancuso ed Emiliano e le candidature simboliche di Roberti e Chinnici non aiutino la sinistra a uscire dal clamoroso paradosso in cui si è cacciata. La sinistra, in quanto storica paladina dell’uguaglianza, dovrebbe riflettere su come mai, in questi anni, con l’aumentare dei divari economici e delle diseguaglianze civili non ci sia stata una sua parallela crescita elettorale. Ma si ostina a non farlo, per ritrovarsi invece in affanno e sotto assedio, con i populisti e i sovranisti alle porte. Una previsione? Entri la Corte! Di questo passo, è così che si dirà un giorno, quando per fare il punto sulla crisi in atto si convocherà d’urgenza la segreteria politica del partito.

·         L’Esercizio Garantista.

ESERCIZIO GARANTISTA. Massimiliano Annetta il 6 settembre 2019 su L’Opinione. Ripetete con me e in rigoroso ordine: 1) Il figlio di Beppe Grillo è, come chiunque, un presunto innocente fino a prova contraria in forza dell’articolo 27, comma 2, di quella Costituzione di cui, quasi sempre a sproposito, andate riempiendovi la bocca; 2) Il fatto che suo padre possieda una villa in Costa Smeralda non ha alcunché di scandaloso, perché ciascuno ha il diritto di spendere i denari lecitamente guadagnati come meglio crede; 3) Il mix di invidia sociale e giustizialismo da quattro soldi che i Cinque Stelle vi hanno propinato fino ad oggi fa ribrezzo.

Ripetere l’esercizio fino a quando non avrete capito. Su, da bravi.

CHI E' SENZA PECCATO SCAGLI LA PRIMA PIETRA. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. C'è sempre bisogno di attribuire a qualcuno anche le cose già note: sicché la notizia, ieri, non era che Giuseppe Conte ha un «suocero» evasore proprio mentre il capo del governo straparla di manette agli evasori; la notizia è che l' ha detto Vittorio Sgarbi. Eppure non è una bislacca opinione, un punto di vista stravagante: è una sentenza di patteggiamento ai danni di Cesare Paladino, gestore del «Grand Hotel Plaza» di Roma e occasionalmente padre della fidanzata del presidente del Consiglio. Paladino ha accettato una pena a un anno e due mesi per l' accusa di peculato, in quanto, secondo l' accusa, dal 2014 al 2018 ha intascato la tassa di soggiorno che ogni turista deve versare alle casse del Comune. Al gestore, il 28 giugno scorso, erano stati sequestrati 2 milioni di euro. È quanto basta per consigliare, al Conte manettaro, che per cominciare potrebbe occuparsi di suo suocero. Che è una mezza battuta basata su un fatto vero, e che Sgarbi rende paradossale: «Tra gli evasori da arrestare va riservata una cella di prima classe al padre di Olivia Paladino, sua attuale compagna. Cesare Paladino è il proprietario del Plaza hotel e faceva pagare la tassa di soggiorno ai clienti prima di intascarsela: l' importo accertato dell' evasione, che è un vero e proprio furto all' erario dello Stato di oltre 2 milioni di euro. Si aggiunga che la figlia, essendo amministratore del Plaza, non poteva non sapere. Una buona occasione per il Presidente del Consiglio di dare l' esempio, accompagnandoli in carcere». Sgarbi parla da uomo libero e non da oppositore o da alleato: e parla lui, forse, perché ci sono oppositori ed alleati in posizioni imbarazzanti. Non è chiaro se Matteo Renzi sia un oppositore, ma è chiaro che i suoi genitori - Tiziano Renzi e Laura Bovoli - all'inizio del mese sono stati condannati a un anno e nove mesi per fatture false. Non è neppure chiaro se Luigi Di Maio sia propriamente un alleato di Conte, poi: ma è chiaro e noto che suo padre Antonio Di Maio, meno di un anno fa, ha dovuto ammettere che nella sua ditta c'erano persone che lavoravano senza un contratto, più altre cosette non troppo rinfrancanti.

TENGO FAMIGLIA. Lo sfondo familiare e molto italiano, insomma, resta l'evasione fiscale e il tengo famiglia, per quanto la responsabilità personale resti personalissima. Quello che non è chiaro per niente è se le fumosissime «manette agli evasori» strombazzate da Conte rappresentino un guardarsi in casa oppure, al contrario, un tenere ben lontane le manette dall' uscio familiare. E in attesa dei dettagli - i dettagli sono tutto - sappiamo infatti che l' introduzione di pene severe per chi evade riguarderebbe solo i fatidici «grandi evasori», col dettaglio che l' Italia è terra di piccoli evasori (ma tantissimi) e che insomma resta tutto da capire. Difficile tuttavia credere che da annunci generici ed evasivi (si perdoni il termine) possa nascere quella «rivoluzione culturale» di cui Conte ha già parlato nel suo sparare generici fuochi d' artificio.

PREMI AGLI ONESTI? Si sa solo che le misure saranno «più morbide» rispetto a quelle annunciate, e che, secondo Conte, «per la prima volta lo Stato premia gli onesti». Per la prima volta. Lo Stato, infatti, prima premiava i disonesti. Sempre. Sa tanto di «povertà abolita»: basta dirlo. Poi Conte ha aggiunto che tutto verrà fatto «senza penalizzare chi usa il contante», il che dovrebbe tradursi in una soglia di utilizzo fissata a 2.000 euro (subito) ridotti a 1.000 dal 2022. Resta oscuro, per questa soglia osteggiata da Italia Viva dagli stessi grillini, a che cosa serva esattamente: sappiamo che se ne parla all' articolo 19 del decreto, sappiamo che la soglia del contante è stata modificata molte volte negli ultimi anni, sappiamo che un tetto di mille euro affiancherebbe il nostro Paese a Francia e Portogallo e che il governo Monti fece qualcosa del genere: ma dei benefici non si ha vera notizia, delle seccature che comporta invece sì. Tutto si riduce, il più delle volte, in una rateizzazione dei pagamenti o in un maggior numero di prelievi. Il luogo comune vuole che il contante favorisca l'evasione fiscale e il lavoro nero, oltre a rappresentare un regalo alla criminalità organizzata e addirittura al terrorismo. Ma non ci sono veri dati a riguardo, mentre si sa che i bonus e gli sconti per coloro che acquistino con carte elettroniche non ci saranno, e neppure un azzeramento delle commissioni. Regali alle banche obbligati per legge, insomma. Sullo sfondo le manette ai «grandi evasori» ovviamente al termine di tre gradi di giudizio, ossia alle calende greche. Obiettivo dichiarato: recuperare 7 miliardi di euro confidando nella capacità degli agenti del fisco di scovare gli evasori. Insomma, nessuna rivoluzione. E tantomeno culturale. Solo una musica suonata più o meno da tutti i governi.

L'autogol del premier: con le manette facili ora lui e il suocero rischierebbero la galera. Il padre della compagna di Giuseppi ha patteggiato una condanna per 2 milioni non versati. E il premier ha sanato un contenzioso da 50mila euro. Stefano Zurlo, Martedì 22/10/2019 su Il Giornale. Il premier traccia la strada, Vittorio Sgarbi gliela rende familiare come uno specchio: «Accompagni in carcere il suocero e la figlia Olivia che non poteva non sapere». Le norme sull'evasione fiscale sono un grande cantiere, il presidente del Consiglio dichiara guerra a chi sottrae risorse allo Stato, il celebre critico d'arte punta il dito: il burrone il capo del Governo ce l'ha quasi sotto i piedi. Due in realtà le vicende che in qualche modo incrociano i destini di «Giuseppi» con le mille facce dell'erario. Capitoli non proprio esaltanti che mostrano, fra l'altro, con quanta attenzione si dovrebbero maneggiare temi cosi complessi e scivolosi in cui l'errore spesso confina con l'illecito, nodi che ora l'esecutivo vorrebbe sciogliere, criminalizzando comportamenti che finora erano lontani dai radar del codice. La prima storia, per nulla edificante, riguarda dunque Cesare Paladino (nel tondo), padre dell'attuale compagna del premier, Olivia. L'imprenditore, titolare del Grand Hotel Plaza di Roma si sarebbe intascato per anni la tassa di soggiorno versata dai turisti ospitati nella sua sontuosa struttura. Risultato: un ammanco di 2 milioni per il Comune e una contestazione, pesantissima, per peculato, dunque non un nero in senso stretto ma molto peggio, chiusa con il patteggiamento di 1 anno e 2 mesi. Per la cronaca va detto che Olivia non è mai stata indagata, in ogni caso il padre ha concordato la condanna. Certo, Conte non è in alcun modo responsabile di quel che ha fatto Paladino, oltretutto i rapporti affettivi non sono mai stati formalizzati. Ma il caso, che pure esula dal perimetro del penale fiscale, aiuta a capire la diffusione, purtroppo, di atteggiamenti che devono trovare naturalmente una sanzione, ma non sempre e non solo con l'inasprimento delle pene, con anni e anni di carcere, con il tintinnare delle manette. Non basta, perché nel passato di Conte, non nelle sue frequentazioni, c'è un altro episodio, raccontato a suo tempo dall'Espresso e da Libero, non proprio in linea con la predicazione del premier: due cartelle, una del 2009 e l'altra del 2011, per imposte e multe non versate. Il totale? Oltre 50mila euro. Il premier, che all'epoca era un professore sconosciuto all'opinione pubblica, si era dimenticato di saldare una serie di versamenti ed Equitalia aveva messo un'ipoteca sulla sua casa romana. L'anno scorso, quando ormai Conte era a un passo da Palazzo Chigi, il commercialista aveva cercato di ridimensionare il fatto alla voce contrattempo: «Il professore nel 2009 ha avuto una richiesta di documentazione inerente la sua dichiarazione dei redditi. L'agenzia ha mandato le comunicazioni via posta, ma il portiere non c'è. La cartolina è stata smarrita. Quando il contribuente non si presenta e non porta i giustificativi della dichiarazione, si iscrive al ruolo tutta l'Irpef sulla dichiarazione non presentata». Insomma, la solita maledetta combinazione di sfortuna e burocrazia. Il solito cocktail che avvelena i pozzi del benessere e spinge verso il declino buona parte del ceto medio, un tempo ancorato a un solido benessere. Capita. I giornali hanno dato poi altre letture, più maliziose, di quei debiti trascurati. Alla fine, Conte ha pagato e ha chiuso il contenzioso. E però, nel momento in cui il premier spinge per rivedere le leggi in chiave giustizialista, abbassando l'asticella che fa scattare l'illecito penale e premendo il pedale del carcere, è bene riflettere: certe politiche possono avere effetti disastrosi. Moltiplicano i processi, intasano i tribunali e non tolgono le piaghe. Il catalogo delle possibili sanzioni è molto ampio e basta saper scegliere quella giusta. Senza il faticoso corredo di proclami e grida manzoniane che rimbombano nel vuoto. E che dovrebbero lasciare il posto ad un abbassamento del carico fiscale e a incentivi e premi per sfavorire l'evasione. Discorsi vecchi per manovre sempre più aggressive e muscolari. Sempre, salvo intese. E allora Sgarbi sferra il suo paradosso: Conte metta in carcere il quasi suocero. E cominci a controllare se stesso.

Renzi difende il figlio di Grillo: "No a processi sui social". In un post su Twitter, Matteo Renzi ha commentato così l'indagine per violenza sessuale di gruppo in cui è stato coinvolto Ciro Grillo, figlio di Beppe: "Se è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Noi siamo garantisti". Roberto Bordi, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Garantisti sempre". Sono le parole con cui Matteo Renzi, su Twitter, difende Ciro Grillo, il figlio più piccolo del comico genovese indagato insieme ad altri tre ragazzi per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne. L'ex premier, che negli ultimi tempi ha ammorbidito i suoi toni polemici nei confronti di Grillo e di tutto il Movimento 5 Stelle, al punto da propiziare l'inizio della trattativa con il Pd che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso, è intervenuto per svelenire il dibattito nato sui social, in particolare su Twitter, dopo l'indagine della procura di Tempio Pausania sullo stupro di gruppo che sarebbe stato commesso nella villa di Porto Cervo di proprietà di Grillo. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Saremo un Paese civile quando nessuno userà le famiglie per aggredire gli avversari politici. In attesa che imparino a farlo gli altri - si legge nell'ultimo post di Matteo Renzi - diamo noi una dimostrazione di civiltà: garantisti sempre". Una presa di posizione, quella dell'ex premier, sulla falsariga di quanto fatto in occasione della polemica sul giro in moto d'acqua, a Milano Marittima, del figlio di Matteo Salvini. Anche in quel caso, l'ex segretario del Pd aveva chiesto di non strumentalizzare la vicenda, invitando gli elettori dem e l'opinione pubblica a "lasciare stare il giovane". Un appello dettato probabilmente da quanto provato sulla propria pelle da Renzi, tirato in ballo per i problemi giudiziari dei genitori.

Quante cautele sull’indagato per stupro Grillo junior. E se fosse stato di CasaPound? Vittoria Belmonte venerdì 6 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Il ragazzo, Ciro Grillo, diciannovenne con una gran voglia di divertirsi, merita ovviamente tutte le garanzie che spettano agli altri cittadini italiani. Non è bello speculare su quest’accusa infamante di stupro arrivata da una modella scandinava con cui avrebbe trascorso una notte brava a base di alcol e forse anche altro nella bollente estate che sta per volgere al termine. Siamo in Costa Smeralda, Ciruzzolohiil (questo il nome usato dal figlio di Beppe Grillo su Instagram), con altri tre amici (tutti di alta estrazione sociale) si porta in villa (la casa paterna?) una scandinava che poi denuncia uno stupro di gruppo. Denuncia tardiva, perché arriva circa dieci giorni dopo il fattaccio. C’è pure un filmato: gli avvocati dei giovani dicono che da lì si vede che il rapporto era consenziente. Gli avvocati della presunta vittima sostengono che dal video ben si evince che si trattò di stupro. Roberto Giachetti, ultrà del garantismo, già avverte: guai a chi specula su questa vicenda. Per carità, e chi vuole speculare. Tanto più che alle garanzie del Codice per Grillo junior si aggiunge il fatto che il ministro della Giustizia è un grillino, Alfonso Bonafede, molto giustizialista quando si tratta di castigare i politici corrotti. E per gli altri reati? Non speculiamo ma per vicinanza cronologica viene in mente un’analoga vicenda: quello dello stupro di Viterbo ad opera di due esponenti di CasaPound. L’evento, pochi mesi fa, meritò l’apertura dei principali quotidiani italiani, ma questo è un dettaglio. Il Pd all’epoca non aveva come adesso perso la voce. Accusava eccome. Eppure anche in quel caso i due stupratori asserirono di avere avuto un rapporto consenziente (e furono anche arrestati). Il senatore di Liberi e Uguali, Francesco Laforgia propose lo scioglimento di CasaPound e di altri movimenti di destra sostenendo che la violenza, e dunque anche lo stupro, provengono da lì, da quella cultura. Ritroverà oggi lo stesso spirito gagliardo e combattivo contro i Cinquestelle? Vedremo. Il senatore del Pd Bruno Astorre, sempre a proposito dello stupro di Viterbo, ebbe a dire: “Di fronte a crimini di questo tipo, e nel rispetto comunque dei diritti dei due giovani arrestati che appartengono a CasaPound, la priorità è la vittima, la famiglia e la comunità di Viterbo che è ferita e sgomenta davanti a questo crimine. Tuttavia, i vertici del governo, Salvini, Di Maio e la maggioranza mettano al bando un’organizzazione parafascista come Casapound – conclude Astorre – che produce una cultura basata sulla violenza, la xenofobia e la sopraffazione”. Intervenne anche la ministra della Salute Giulia Grillo, M5S: “Lo stupro di Viterbo è l’ennesima intollerabile offesa alle donne, aggravata dal fatto che i colpevoli sono militanti di una forza politica. Nessuna connivenza e massima severità con chi umilia le donne e promuove una cultura di sopraffazione che va combattuta in ogni modo”. ne nacque pure una baruffa (una delle tante) tra Salvini che evocò la castrazione chimica e Di Maio che rintuzzò la proposta: “Non è nel contratto”. Basta poco insomma perché uno stupro da reato penale tutto da verificare (bisogna infatti anche tenere presente l’attendibilità della denunciante, che sarà stata opportunamente vagliata dagli inquirenti prima di stabilire se Ciro Grillo meritasse o meno gli arresti domiciliari, che non sono stati ordinati) diventi un caso politico. Eppure stavolta quel particolare “quid” non è scattato. Chissà perché. Sarà per distrazione. O per l’euforia da festeggiamenti seguito alla nascita del Conte bis. Vedremo. Intanto qualche giornalista è riuscito a dare un’occhiata al profilo Instagram del figlio di Grillo, che è anche campione di kick boxing.  Nel commento a una sua foto il ragazzo scrive: “Ti stupro, bella bambina, attenta”. E in un altro romantico post scrive: “la tua bitch mi chiama jonny sinn”. Un riferimento, a quanto pare, all’attore porno Jhonny Sins. E ancora, come riporta il Corriere, “in una immagine del 31 agosto 2017 ripresa durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, una scuola situata a Bucklands Beach, Auckland, si vede Ciro in primo piano con degli amici e il commento del figlio di Grillo che recita: «C..i durissimi in Nuova Zelanda»”.

Grillo garantista? Il vero scandalo sono 25 anni di orgia manettara. L'Inkiesta il 3 gennaio 2017. Ora che i guai coinvolgono i suoi, per Grillo l'avviso di garanzia non equivale a una condanna. Un comportamento uguale a quello dei suoi avversari. Che legittima l'uso politico della giustizia. E la rabbia dei cittadini contro i politici “tutti uguali, tutti ladri”. Scusate, dov’è la novità? Una forza politica fonda il suo successo politico urlando che gli altri sono tutti ladri (1), va al potere (2), i suoi leader o i suoi amministratori finiscono indagati (3) e pure quella forza politica si scopre garantista (4). Oggi tocca a Grillo, col suo codice di comportamento per gli eletti e la regola secondo cui l’avviso di garanzia “non comporta alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti”, dopo anni a sostenere l’esatto contrario. Prima di loro era toccato ai Democratici (un tempo di sinistra) passare dalle monetine a Craxi allo sdegno per le intercettazioni sulla scalata Unipol-Bnl diffuse a mezzo stampa. Ai leghisti, passati dal cappio a Montecitorio agli applausi per Alessandro “il pirla” Patelli, quello della tangente Enimont da 200 milioni di lire. Agli ex missini, orgogliosamente manettari fino all’alleanza con Berlusconi. A Berlusconi stesso, megafono mediatico del pool di Mani Pulite fino all’avviso di garanzia a pochi mesi dall’insediamento a Palazzo Chigi. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna definitiva a suo carico. Nessuno che sottolinea quanto alcune indagini, in prossimità delle elezioni, successive all’insediamento di un amministrazione, o alla caduta di un governo abbiano un timing quantomeno curioso. Nessuno che si scandalizza quando una parlamentare, scienziata di fama mondiale, viene definita “trafficante di virus” da un settimanale, a indagini ancora in corso, e poco importa se si siano concluse con un nulla di fatto. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna pendente. Quando accade, quando i guai riguardano gli altri, i toni sono quelli di venticinque anni fa. Si parla di fatti inquietanti, si presume la colpevolezza, si citano le parole dell’ordinanza d’arresto scambiandole per sentenze, si ironizza sui fatti privati - irrilevanti ai fini d’indagine - che si leggono sui giornali. Si uniscono puntini a caso, facendo intendere chissà quali trame, nascoste dietro il paravento del condizionale. Si fa strame della dignità umana dell’indagato nel nome di una “questione morale” che vale sempre e solo per gli altri. Poi - ops! - ci si stupisce se la gente pensa che i politici siano tutti uguali e tutti ladri, che il Parlamento sia un covo di inquisiti o di gente che ha qualcosa da nascondere. Che l’azione debordante della magistratura non sia un abuso di potere, bensì un male necessario per arginare il malaffare. Che manette, cappi, scope e apriscatole funzionino meglio, nel marketing politico, di idee, riforme, visioni del futuro. Oggi, se la politica italiana fosse seria, dovrebbe plaudere alla (timida) svolta di Grillo e fare quadrato attorno a Virginia Raggi, più in balia della propria incompetenza e della propria inattitudine a combattere contro poteri più grandi di lei, che della propria disonestà, o di quella dei suoi collaboratori. Non succederà. E al prossimo giro di giostra le parti si invertiranno. E la rabbia continuerà a montare.

·         I Giallo-Rossi manettari.

Manette, il nuovo logo del governo giallorosso. Paolo Delgado il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Se la punizione esemplare diventa propaganda. Ogni governo ha un cavallo di battaglia: per Berlusconi fu la lotta alle tasse e per Salvini quella ai migranti. I grillini puntano tutto sulle “pene esemplari”. ‘Sorvegliare e punire’. Sarebbe ingeneroso affermare che la peraltro scarna attività di governo in queste prime settimane si è limitata a questo. Il testo rivisto dalla nuova maggioranza del dl Salva imprese, approvato ieri al Senato, contiene norme incisive a favore dei diritti dei Riders e nella stessa manovra di figura il taglio, pur se modesto, del cuneo fiscale a favore dei lavoratori. Però, con tutta la buona volontà, non sono quei 40 euro in più nelle buste paga più basse a connotare questo governo agli occhi dell’opinione pubblica e degli elettori. L’aspetto vistoso della manovra riguarda solo i controlli sull’evasione fiscale, gli obblighi decisi per contrastarla, le "punizioni esemplari" per i trasgressori, i "grandi evasori". E che si tratti anche, se non soprattutto, di "punizioni esemplari" lo ha detto chiaramente Marco Travaglio, che è per i 5S una sorta di ideologo principe, affermando in tv che "far vedere" gli evasori in manette serve a spaventare e quindi a dissuadere. Che le forze politiche, soprattutto nella seconda Repubblica, schierino puntualmente in campo il cavallo di battaglia che ritengono gli frutti più consensi non è una novità. I tempi in cui i partiti modulavano la loro propaganda per rivolgersi a fasce di interesse diverse e le modificavano nel tempo a seconda dei cambiamenti che intervenivano nella realtà sono lontani. Quelli delle ideologie forti, che non necessitavano quindi di propaganda, sono tanto sideralmente distanti da somigliare a favole. Quando la politica diventa solo mercato pubblicitario, non si possono sprecare energie parcellizzando e segmentando il messaggio. Il brand principale deve essere unico, forte, ripetuto all’infinito. Lo insegnava, pur con termini diversi, il dottor Goebbels nei suoi 11 punti che ancora oggi riassumono perfettamente le strategie comunicative in politica. Per Silvio Berlusconi quel cavallo di battaglia erano le tasse. Il cavaliere martellava campagna elettorale dopo campagna elettorale e i risultati lo hanno sempre premiato. La forza dell’M5S, le radici di un’ascesa all’inizio inimmaginabile, affonda le radici nella capacità di individuare un nemico preciso e di indicarlo a un’opinione pubblica che covava già il medesimo risentimento: i politici, indicati come fonte perversa di ogni male. L’odiata "Casta". Quando, nel 2013, Matteo Salvini si ritrovò alla guida di un partito esanime e che sembrava condannato senza possibilità di appello, scoprì la formula magica della salvezza in una campagna permanente contro l’immigrazione. I "clandestini", gli ‘ africani’ andavano sostituendo i politici nella lista nera dell’opinione pubblica. Come i politici erano sempre in odore di corruzione, di ‘ inciucismo’, di attaccamento alla poltrona, di perseguimento dell’interesse personale, così dietro ogni immigrato si nascondeva il ladro, lo stupratore, o più semplicemente il ladro di posti di lavoro. Il mix tra l’anti- immigrazionismo di Salvini e la crociata anticasta dei 5S hanno decretato per oltre un anno il trionfo del governo gialloverde in termini di consenso. Questa maggioranza e questo governo non sembrano avere altra bandiera, per raggranellare consenso, che quella della sanzione e della punizione severa. E’ almeno per ora la sola bandiera che è stata realmente sventolata ed è lecito il sospetto che proprio una visione fortemente giustizialista si riveli il principale tratto comune fra le forze disomogenee che compongono la maggioranza. E’ una scommessa rischiosa, anche sul piano della pura e quindi cinica propaganda. Le campagne dei 5S e della Lega ( ma anche di Renzi con la sua disgraziata crociata contro il Senato e contro "i rottami") prendevano di mira "nemici" che il grosso del corpo elettorale poteva vedere come altro da sé. In questo caso invece, sia con la crociata antievasione che con la riforma della prescrizione sulla quale puntano i piedi i ministri 5S, nel mirino potrebbero finire proprio molti di quegli elettori. Quanto apprezzeranno lo si scoprirà solo nelle urne.

·         I Giallo-Verdi manettari.

Da Libero Quotidiano il 19 settembre 2019.  "Si vergogni Luigi Di Maio e si vergognino i cinque stelle che hanno votato con voto segreto per l'arresto dell'onorevole Sozzani, dopo che, con voto palese, hanno fatto il governo contro gli italiani". Vittorio Sgarbi commenta indignato il voto alla Camera contro il deputato di Forza Italia, Diego Sozzani. L'Aula ha negato l'autorizzazione all'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il politico, indagato per illecito finanziamento dei partiti e corruzione. Una decisione che non ha evitato la critica di Sgarbi contro i pentastellati, rei di desiderare Sozzani in carcere "per obbedire agli ordini di un Grillo nella cui casa il figlio indagato ha stuprato una ragazza, garantendogli, con Bonafede, un ministro della giustizia amico. Vergogna. Usare lo Stato per proteggere il loro capo".

Il giustizialismo ipocrita dei 5 Stelle di Palazzo, scrive Augusto Minzolini, Venerdì 19/04/2019, su Il Giornale. Chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. L'iperbole è tutt'altro che bizzarra. Sarà l'epoca del governo del cambiamento, ma di fatto non è mutato niente. Sicuramente non sono diverse le campagne elettorali segnate da inchieste, avvisi di garanzia, arresti e intercettazioni. Un andazzo che va avanti ormai da un quarto di secolo. Con un rigurgito di giustizialismo, proprio della cultura gialloverde, che alla fine si dimostra un'arma a doppio taglio. Per tutti: due giorni fa Matteo Salvini ha preteso e ottenuto le dimissioni della governatrice piddina dell'Umbria, Catiuscia Marini, finita nei guai per l'inchiesta sui «concorsi truccati»; ieri mattina è stato Giggino Di Maio a chiedere le dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri, raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione; e infine, nel pomeriggio, la ministra del Carroccio Erika Stefani, insieme a tutti i leghisti che siedono in Campidoglio, ha evocato la ghigliottina politica per Virginia Raggi per le intercettazioni in cui avrebbe suggerito all'ex ad dell'Ama, Lorenzo Bagnacani, di truccare il bilancio per portarlo in rosso. E per la prima volta il complesso equilibrio del governo gialloverde che in questi mesi ha superato le differenze profonde che dividono grillini e leghisti nella politica economica, estera o delle infrastrutture, ha cominciato a vacillare davvero. Come per tutti i governi della Seconda Repubblica, da Prodi a Berlusconi, il capitolo giudiziario rischia di essere letale. Un paradosso per chi è arrivato nella stanza dei bottoni strillando «onestà, onestà». Così ieri il vicepremier Salvini ha fatto recapitare dallo stesso premier, Giuseppe Conte, un messaggio a Di Maio, colpevole di aver chiesto la testa di Siri d'emblée. «Fai sapere a Luigi - è stata la minaccia - che dopo le elezioni europee faremo i conti». E nelle stesse ore il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha telefonato a Silvio Berlusconi per avvertirlo che il livello di guardia è stato superato: «Siamo a un passo che crolli tutto». Forse, anche questa volta, il grattacielo del governo oscillerà paurosamente, ma non verrà giù. Sicuramente, però, per andare avanti, le due anime della maggioranza dovranno trovare, da qui alle elezioni europee, un'intesa sul terreno più impervio per i grillini: la giustizia e il suo uso politico. Il motivo è semplice: in queste ore Salvini ha toccato con mano quella che è davvero la sua debolezza, il suo fianco scoperto. Spiega senza peli sulla lingua, Giuseppe Basini, un garantista convinto, eletto a Roma nelle file del Carroccio: «Il Pd ha i suoi magistrati interventisti, i grillini si sono trovati i loro, e noi, invece, siamo nudi, inermi, alla loro mercè. E ora che i sondaggi ci danno in crescita, siamo diventati un obiettivo per entrambi». Un ragionamento che non fa una piega e che spiega perché lo stato maggiore leghista abbia preso male le sortite grilline contro Siri. Non solo la richiesta di dimissioni di Di Maio, ma anche l'immediata decisione di Toninelli di togliere le deleghe al sottosegretario leghista e la sortita di primo mattino del presidente della commissione Antimafia, il grillino Nicola Morra, che per primo ha messo in relazione il presunto corruttore di Siri con il boss mafioso Messina Denaro. Un colpo sotto la cintura che ha mandato su tutte le furie Salvini. «Stupisce - è la bordata che la ministra leghista, Giulia Bongiorno, ha rivolto ai pentastellati - il loro giustizialismo a intermittenza, a seconda della vicenda giudiziaria». E la decisione del vertice leghista di tenere Siri al suo posto, rispondendo per ora picche a Di Maio, è un avvertimento per l'oggi, ma, soprattutto, una precauzione per il domani: se le incursioni delle procure continueranno nelle prossime settimane, il Carroccio non può accettare che la sua campagna elettorale verso le europee, da marcia trionfale si trasformi in una via crucis. Ieri nel cortile di Montecitorio, il viceministro alle Infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, congetturava sulle possibili mosse per reagire all'aggressione grillina. «Intanto - spiegava - Toninelli si prenderà l'intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c'è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro». Ma, soprattutto, Rixi ha fatto venire a galla le due paure dello stato maggiore leghista: è possibile che i grillini per sferrare un attacco simile, sappiano qualcosa di più sull'inchiesta? Ed ancora, chi può escludere che siano stati loro ad alzare la palla ai magistrati? Interrogativi che mettono in controluce, appunto, il timore che i 5stelle possano contare su una quinta colonna nelle procure. Anche perché se questa intuizione fosse fondata, i leghisti si troverebbero in una morsa, visto che l'ostilità della magistratura di sinistra la danno per scontata. Ieri nelle file del Pd non erano pochi quelli che soffiavano sul fuoco. «Ora Salvini si goda i grillini», diceva un Dario Franceschini tranchant. Mentre l'ex guardasigilli Andrea Orlando si dilettava con l'ironia. «È singolare - spiegava - la tesi di Salvini: l'emendamento dall'industriale non c'è nel Def. E con ciò? Questo significa solo che Siri potrebbe aver fregato pure l'industriale, non altro». E il rischio di essere attenzionati da tutta la magistratura militante, non può non far paura. «Qui - si lamenta il leader dei giovani leghisti, Andrea Crippa - se qualcuno ti convince della bontà di un emendamento, non puoi far niente, perché puoi finire incriminato per traffico di influenze. Nei fatti non puoi più far politica. Io ho paura, per cui sto in Parlamento solo per schiacciare il bottone nelle votazioni». Non parliamo poi delle elezioni. «Debbo fare il pitbull - confessa il commissario della Lega in Campania, Gianluca Cantalamessa - perché con la folla di gente che si vuole candidare con noi e con l'aria che tira, per fare le liste in posti come Castel Volturno o Casal del Principe debbo avere quattro occhi, non due». Questi timori non spiegano, però, perché Salvini abbia accettato di andare al governo con un movimento che ha il giustizialismo nel Dna. È lì, il peccato originale. Ora può sperare solo in una metamorfosi dei 5stelle, almeno dell'ala più filo governativa. Qualche segnale sotto sotto c'è: se i leghisti hanno paura delle procure, i grillini hanno il terrore delle urne. «Alla fine - confida il senatore Elio Lannutti - non si romperà. Ma il clima è avvelenato. Morra che tira in ballo i mafiosi e Toninelli che non ci pensa un istante a ritirare le deleghe a Siri, ma come si fa? Lo dice un ex giustizialista». Mentre il presidente grillino della commissione Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri, si lascia andare ad una mezza sentenza: «Nasciamo tutti comunisti o fascisti, ma alla fine moriamo tutti democristiani». Appunto, il giustizialismo non va a braccetto con il governo e, tantomeno, con la poltrona.

Armando Siri, anche Alessandra Moretti massacra i grillini: "La vergogna di Luigi Di Maio", scrive il 18 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La vergogna grillina nei confronti della Lega smascherata anche da chi, come Alessandra Moretti, è ciò che di più lontano dal Carroccio esista sulla faccia della terra. A L'aria che tira, il programma condotto da Myrta Merlino su La7, si parlava del caso di Armando Siri, il sottosegretario ai Trasporti leghista indagato per corruzione e contro il quale si sono scatenati i pentastellati: richiesta di dimissioni, rivendicazioni di una presunta superiorità morale, Danilo Toninelli che gli ritira le deleghe. Atteggiamento inaccettabile addirittura per Ladylike, la quale sottolinea: "Noto che il M5s ha sempre due pesi e due misure. Con gli avversari politici strumentalizzano spesso le vicende giudiziarie, che in questo caso coinvolgono la Lega così come possono coinvolgere il Pd. Mentre per esempio la Danzì, indagata, per loro era irrilevante". La Merlino, dunque, chiede alla Moretti se a suo parere Siri si debba rimettere. Chiarissima la risposta: "Le dimissioni sono una scelta personale. Se decide lui può farlo, come ha fatto Catiuscia Marini per difendersi meglio nel processo. Ritengo però assolutamente irrispettoso da parte di Luigi Di Maio o qualsiasi altro esponente politico dire che se una questione riguarda un proprio candidato è una questione irrilevante, mentre invece se riguarda un avversario si deve dimettere a prescindere", ha concluso la Moretti. Lezioni ai grillini da una vera e propria insospettabile. 

Siri e Raggi nei guai, le inchieste fanno vacillare il governo. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da La Stampa. Il sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, braccio destro di Matteo Salvini, è indagato per corruzione. Gli uomini del Movimento 5 stelle raccolgono la notizia e d’impulso si scagliano sull’alleato: Di Maio ne chiede le dimissioni. Poche ore dopo, l’Espresso pubblica un’inchiesta in cui emergerebbero pressioni esercitate da Virginia Raggi per modificare il bilancio dell’azienda dei rifiuti del Comune e in cui la sindaca ammette di non avere il controllo della città. I leghisti, che si stavano ancora leccando le ferite, si vendicano con altrettanta ferocia: Salvini chiede le sue dimissioni. E così, il gioco messo in scena fino a questo momento dai due alleati di governo, improvvisamente, scivola via dai binari. Le scaramucce a uso e consumo delle rispettive campagne elettorali prendono d’un colpo i toni della guerra vera: agli attacchi seguono le ritorsioni, scorrono i veleni per lavare via altri veleni, e il governo, per la prima volta, vacilla. È la più lunga e sofferta giornata dell’era gialloverde. Spaccata in due, con le accuse della mattinata dei Cinque stelle e l’assalto degli alleati leghisti nel pomeriggio. La notizia dell’indagine che coinvolge Siri è il colpo più duro, che arriva a freddo. Secondo la procura di Roma, Siri avrebbe ricevuto denaro per modificare una norma sulle energie rinnovabili contenuta nel Def, aiutando così ambienti vicini alle cosche mafiose. Siri respinge «categoricamente le accuse - scrive in una nota -. Non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette». Ma è una difesa che arriva tardi rispetto all’attacco di Di Maio, che chiede immediatamente le «opportune dimissioni» del sottosegretario: «Non è vero che non si è mai occupato di eolico, come dice, perché negli uffici legislativi c’è una sua proposta di legge su questo tema», attacca ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio. Poi, senza concordare nulla con Salvini, dà il via libera al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli affinché ritiri le deleghe a Siri. Gli uomini di via Bellerio sono furibondi. «Giustizialisti a giorni alterni», attacca la ministra Giulia Bongiorno, mentre Salvini conferma il suo appoggio al compagno di partito: «Una persona specchiata, onesta. Per me può restare a fare il suo lavoro». Ma Di Maio ribatte: «Il problema è più ampio. Se l’emendamento di Siri e della Lega non fosse stato fermato quando è stato presentato al mio ministero (il Mise), probabilmente anche dei membri del mio staff sarebbero stati indagati. Un cittadino che legge di questa inchiesta non vorrebbe mai dare in mano a questa persona gli appalti dei cantieri italiani». La vendetta del Carroccio arriva poche ore dopo, quando nel primo pomeriggio l’Espresso pubblica gli stralci di un esposto contro Raggi, recapitato ai pm dall’ex presidente dell’azienda dei rifiuti di Roma Lorenzo Bagnacani, che accusa la sindaca di aver fatto pressioni indebite per modificare il bilancio dell’azienda. Insieme all’esposto ci sono però anche delle registrazioni dalle quali emerge una Raggi inedita, capace di offrire una nuova versione di sè: «Roma è fuori controllo», ammette, «i sindacati fanno quel cazzo che vogliono». E ancora: «I romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenete bene...in altre zone non c’è modo». Di Maio chiama Raggi nel pomeriggio per chiedere spiegazioni. Non è una telefonata di cortesia. I toni sono duri, ancora una volta. Alla fine, però, il capo politico M5S vuole soprattutto capire se dall’esposto, più che dalle frasi scomposte, possano nascere nuovi filoni giudiziari, altre inchieste. L’interrogativo resta aperto. Salvini, intanto, capisce che è l’occasione giusta per contrattaccare: «Se non sei in grado di fare il sindaco, se hai la città fuori controllo, lascia che qualcun altro faccia il sindaco», dice a Porta a porta. Ma il segretario del Carroccio sa dove può fare ancora più male. E così, mette un veto sui fondi del governo per la Capitale. Salta sulla sedia il vice capogruppo alla Camera M5S Francesco Silvestri, uomo di raccordo dei grillini tra il Parlamento e il Campidoglio: «Non si capisce davvero a che gioco stia giocando la Lega. Sembra che intimando di togliere il “SalvaRoma” la Lega voglia solo ricattare i romani». In serata, gli alleati tendono ramoscelli d’ulivo da mostrare in tv. È la nuova versione del gioco. Prima le finte scaramucce. Ora la finta pace. 

«Siri si dimetta», «Raggi pure»: scontro totale tra Lega e M5S. Il sottosegretario ai Trasporti fa arrossire l’M5s ma la Lega non rinuncia al braccio destro del leader. Il ministro Toninelli dispone il ritiro delle deleghe al sottosegretario, scrive Rocco Vazzana il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Se i fatti fossero questi Siri si deve dimettere». Luigi Di Maio non ha dubbi, fin dalle prime ore del mattino, quando sul governo del cambiamento deflagra un ordigno pericolosissimo: il sottosegretario leghista ai Trasporti, Armando Siri, è indagato dalla Procura di Roma. Secondo gli inquirenti avrebbe presentato alcuni emendamenti sulle energie rinnovabili in cambio della promessa di una tangente da 30 mila euro. Nell’inchiesta, nata dalla procura di Palermo e dalla Dia di Trapani, si intrecciano anche i destini di persone considerate vicine a Cosa nostra, vicine, nientepopodimeno che al super latitante Matteo Messina Denaro. Il diretto interessato respinge «categoricamente le accuse», ma per un movimento cresciuto con le massime casaleggiane («al primo dubbio, nessun dubbio», amava ripetere il fondatore), il boccone rimane troppo amaro da digerire. Da inizio legislatura, i pentastellati hanno già smorzato parecchio la propria intransigenza giudiziaria, in nome di una più alta ragion di Stato, adesso l’imbarazzo si può toccare con le dita. E senza pensarci due volte, Danilo Toninelli, titolare del dicastero dei Trasporti, in qualche modo diretto superiore di Siri, dispone il ritiro delle deleghe al sottosegretario, «in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza». La pazienza dei grillini è messa dura prova e Di Maio prova a tenere uniti i suoi: «Va bene aspettare il terzo grado di giudizio ma c’è una questione morale e se c’è un sottosegretario coinvolto in un’indagine così grave, non è più una questione tecnico- giuridica ma morale e politica», dice il capo politico, convinto di poter giocare di sponda con l’alleato su un tema così delicato. «Non so se Salvini concorda con questa mia linea intransigente ma il mio dovere è tutelare il governo. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l’immagine e la reputazione della Lega», aggiunge Di Maio. Ma il capo del Carroccio non si muove affatto sulla stessa lunghezza d’onda del socio di maggioranza, e da San Ferdinando ribatte: «Per quello che mi riguarda Siri può tranquillamente rimanere lì a fare il suo lavoro e dico agli amici dei 5 Stelle che non si è dimessa la Raggi che è stata indagata per due anni e quindi in Italia si è colpevoli se si viene condannati», dice piccato Salvini, puntando l’indice contro il garantismo a intermittenza dei 5 Stelle. Del resto, per il ministro dell’Interno, chiedere un passo indietro al sottosegretario ai Trasporti equivarrebbe a rinnegare se stesso. Più che un leghista, infatti, Armando Siri è considerato un salviniano doc, diretta emanazione del capo. I due iniziano a frequentarsi nel 2012, prima della conquista di Via Bellerio da parte del giovane Matteo, entrambi interessati allo studio della flat tax. Due anni dopo, nel 2014, con Salvini alla guida della Lega, la collaborazione diventa ufficiale. Siri diventa uno degli uomini più fidati del leader, il responsabile di tutto il progetto flat tax, che qualche anno più tardi contribuirà al trionfo elettorale del Carroccio. Nel maggio 2015 il sottosegretario viene nominato responsabile economico di “Noi con Salvini”, il cavallo di Troia costruito per sbarcare al Sud. Ed è nell’ufficio di Siri che il titolare del Viminale incontra in gran segreto Steve Bannon, l’ 8 marzo 2018. La figura non è di certo di secondo piano nell’organigramma leghista e del governo. Tanto che anche il premier Giuseppe Conte è costretto a intervenire: «Non esprimo una valutazione ma come premier avverto il dovere di parlare col diretto interessato, chiederò a lui chiarimenti e all’esito di questo confronto valuteremo», dice il presidente del Consiglio, ricordando che il «contratto prevede che non possono svolgere incarichi ministri e sottosegretari sotto processo per reati gravi come la corruzione». Lo stato maggiore grillino è in allarme. Dal sottosegretario si dissociano tutti i big: da Paola Taverna a Nicola Morra, passando per Roberta Lombardi. E per l’occasione rompe il silenzio persino Alessandro Di Battista, con un post su Facebook inequivocabile. «Ho sempre sostenuto questo governo, lo sosterrò ancor di più se il sottosegretario Siri si dimetterà il prima possibile», scrive il leader scapigliato del M5S. «Il sottosegretario Siri lavora nel ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il ministero più delicato che c’è per via dei lavori e degli appalti che segue. È evidente che debba dimettersi all’istante perché, come diceva Borsellino, “i politici non devono soltanto essere onesti, devono apparire onesti”».

Armando Siri indagato, terrificante sospetto della Lega: il M5s ha imbeccato i magistrati? Scrive il 19 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Appena uscita la notizia dell'indagine per corruzione che coinvolge Armando Siri, si è scatenato un serratissimo fuoco contro il sottosegretario ai Trasporti leghista. Fuoco grillino. Accuse, parole pesantissime, Luigi Di Maio che ne chiede le dimissioni e Danilo Toninelli che addirittura gli ritira le deleghe (è l'improbabile Danilo, infatti, a capo del ministero di Infrastrutture e Trasporti). I grillini, come è noto, hanno cambiato strategia: sono passati all'attacco della Lega e di Matteo Salvini nel tentativo di riguadagnare parte dell'enorme consenso che hanno perduto in seguito alle elezioni. Dunque, quale occasione è più ghiotta che l'indagine su Siri? Eppure, qualcosa non torna. Per quanto atteso, l'attacco è stato troppo immediato. Troppo duro e veemente. Tanto che tra i leghisti cova un brutto sospetto, reso esplicito dalle parole di Edoardo Rixi riportate da Augusto Minzolini in un retroscena su Il Giornale: "Intanto Toninelli - spiegava il leghista nel cortile di Montecitorio - si prenderà l'intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c'è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro". Parole che, come nota Minzolini, in controluce fanno emergere il timore dello stato maggiore leghista: forse i grillini sanno qualcosa in più sull'inchiesta, per aver deciso di sferrare un attacco coordinato così violento senza temere che in mezzo ci finisca pure Toninelli? E ancora, si può escludere che siano stati proprio loro ad "alzare la palla" ai magistrati? Quest'ultimo il pesantissimo sospetto del Carroccio: i grillini, insomma, potrebbero aver giocato di sponda con la procura. E l'ostilità che la magistratura nutre nei confronti della Lega e di Salvini è sotto agli occhi di tutti...

Presunzione d’innocenza? Non è aria, anche il destino di Siri pare già scritto. Nelle carte dei pm gli indizi a carico del sottosegretario sono tutti del tipo “si dice”, “forse…”. Ma il suo ministro, Toninelli, gli ha già tolto le deleghe. Un copione scontato che può togliere il sonno a Salvini, scrive Tiziana Maiolo il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. Temiamo finirà comunque male la vicenda che, dopo l’attacco giudiziario che ha travolto la Regione Umbria e le conseguenti dimissioni della presidente Catiuscia Marini, colpisce al cuore la Lega di Salvini con l’apertura di una indagine per corruzione nei confronti del sottosegretario Armando Siri. Finirà male prima di tutto per motivi elettoralistici: nessuno, neanche il trionfatore dei sondaggi Matteo Salvini, può permettersi il lusso di arrivare al 26 maggio con un tale fardello addosso. Siri non è Berlusconi e la Lega non è Forza Italia, non basta quindi che il leader esprima massima fiducia nel suo sottosegretario indagato. Ma ci sono anche motivi politici impellenti: tutto il Movimento 5 stelle sta schiumando la sua rabbia contro un “socio contrattuale” mai amato, e resuscita così un’era in cui bastava la parola “indagato” per alzare le forche sull’albero più alto, quando ancora i sindaci Raggi e Nogarin erano vergini sul piano giudiziario. Ma il colpo più forte a Siri non l’ha sferrato il magistrato, casomai il suo ministro, quel Danilo Toninelli che dalla sua cattedra può dare lezioni a chicchessia e che lesto lesto ha tolto le deleghe al suo sottosegretario ai Trasporti. Via le deleghe, è facile levare anche la scrivania. Ci si domanda quindi se Armando Siri sia stato beccato con il sorcio in bocca, come dicono a Roma. Se è stato corrotto, guardiamogli le tasche, per vedere se contengono la mazzetta, oppure consultiamo il suo album fotografico per vedere se, come Formigoni, abbia goduto di qualche “utilità” come vacanze o giri in barca. Ci tocca andare a vedere le sbobinature delle intercettazioni, per capirci qualcosa. E qui bisogna aprire una parentesi, perché da qualche anno i magistrati italiani ( sia pubblici ministeri che gip) hanno l’abitudine di abbinare a decreti di perquisizione piuttosto che a ordinanze di custodia cautelare un bel fascicolo di intercettazioni. Che sono poi, ovvio, a disposizione delle parti. I giornalisti non sono soggetti processuali, però hanno nelle mani da subito l’intero incartamento e fingono che sia stato l’avvocato difensore della persona inquisita, cioè quello meno interessato a diffondere le accuse contro il proprio assistito, a depositare gli atti in edicola, invece che in cancelleria. Così comincia l’assalto mediatico alla persona. E molti cominciano a dire “io sono garantista però…”. Si delega alla magistratura quella piccola cosa che la Costituzione definisce “presunzione di non colpevolezza” e che comporta l’attesa di una sentenza definitiva dopo qualche anno, e si prende la decisione politica da subito. Ecco perché Catiuscia Marini è stata costretta dal suo partito alle dimissioni, ben sapendo che l’Umbria non eleggerà più, almeno nei prossimi anni, un uomo o una donna del Pd. Perché dalle intercettazioni si palesa un sistema ( non solo umbro, se vogliamo dire la verità) di clientele e raccomandazioni che al cittadino danno disgusto, soprattutto se rappresentato più sul piano morale che politico o giudiziario. Ma rimane una domanda. Quando la magistratura ritiene di avere elementi sufficienti per portare una persona a processo, ha tutti gli strumenti, ben più repressivi che una semplice apertura di indagine, di un’informazione di garanzia, per farlo. Non è il caso dell’ex presidente Marini ( che non è stata arrestata) né di Armando Siri. Il quale sarebbe responsabile di aver cercato di presentare emendamenti a favore del sistema “mini- eolico” in cambio della “promessa e/ o dazione di 30.000 euro”. Pare che il fatto emerga, in termini molto ambigui, da conversazioni intercettate tra padre e figlio, Paolo e Francesco Arata, i quali sarebbero in contatto ( ma questo Siri non lo sa, scrivono i magistrati) con l’imprenditore siciliano Vito Nicastri, il re dell’eolico di cui si sospettano legami addirittura con il latitante mafioso Matteo Messina Denaro. È tutto un pare, un forse. Ma se c’è di mezzo addirittura la mafia… Ce ne è abbastanza per dar fuoco alle polveri. Di Maio e Di Battista paiono entusiasti, come se non aspettassero altro. Non sappiamo se ci sarà resistenza da parte della Lega. Ma a noi pare che la testa di Armando Siri sia già sul ceppo.

I pm: quella tangente a Siri? Dobbiamo ancora verificare…Sulla presunta tangente offerta all’esponente leghista, data per certa dai giornali, piazzale Clodio fa sapere che mancano riscontri. E si aggiunge il caso del figlio di Arata assunto a Palazzo Chigi da Giorgetti, scrive Errico Novi il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il colpo è micidiale. L’indagine avviata dalle Procure di Palermo e Roma e l’accusa di corruzione nei confronti di Armando Siri si abbattono con una violenza devastante sull’alleanza di governo. La misura della deflagrazione è nelle parole di un altro sottosegretario leghista: Jacopo Morrone, che sta alla Giustizia. Notoriamente restio a valutazioni su inchieste in corso, com’è giusto per chi ricopra incarichi a via Arenula. Stavolta però Morrone non può trattenersi: «C’è un procedimento mediatico che corre assai più di quello giudiziario». Vero. Sui media Siri è già condannato. Eppure, qualcosa incrina la macchina del fango all’ora del tè. Quando cioè arrivano sui terminali di tutte le redazioni alcuni lanci d’agenzia, firmati dai cronisti che seguono la giudiziaria nella Capitale. Come capita quando l’inchiesta assume una risonanza abnorme, sono gli stessi magistrati ad affidare alla professionalità dei cronisti poche informazioni, non virgolettate, sullo sviluppo delle indagini. Ebbene queste note, non ufficiali ma molto attendibili, recitano: “All’esame di chi indaga ci sono anche i flussi bancari ( dei conti della famiglia di Paolo Arata, l’ex parlamentare, esperto di politiche ambientali, che avrebbe pagato la tangente a Siri, ndr) la cui analisi servirà ad accertare, stando alla conversazione ( intercettata) del settembre 2018 tra padre e figlio ( Paolo e Franco Arata, ndr), se è vero o no che 30mila euro siano usciti dai conti correnti di famiglia per essere consegnati ad Armando Siri”. Cioè: ancora non si sa se quella mazzetta esiste. Non si sa, e lo lasciano intendere, con un linguaggio prudente ma chiarissimo, i giornalisti in diretto contatto con la Procura di Roma, quindi, in ultima analisi, gli stessi pm. Eppure per la stampa cartacea e audiovisiva, il sottosegretario alle Infrastrutture è già colpevole, impresentabile; il ministro Danilo Toninelli gli ha già ritirato le deleghe; e Luigi Di Maio gli ha già chiesto di «sedersi in panchina». Sembra quasi che i magistrati al lavoro sull’inchiesta nata a Palermo, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi, vorrebbero riportare l’informazione sull’inchiesta nei binari della realtà. Si sa solo che Paolo Arata, accusato a sua volta di corruzione e destinatario approfondite perquisizioni, ha detto al figlio Franco che l’operazione relativa all’emendamento sul micro – eolico sollecitata, senza successo, per il tramite di Siri, «è costata 30mila euro». Nelle carte dei pm non c’è un’altra frase intercettata del tipo “quei 30 mila euro sono andati” o “sono stati offerti a Siri”. E anche le presunte tangenti che Arata avrebbe disseminato negli uffici della Regione Sicilia sono introvabili ( nel caso dell’ex dirigente dell’Energia Alberto Tinnirello) o ipotizzate sotto forma di un incarico professionale ( per il funzionario Giacomo Causarano). Dagli uffici di Piazzale Clodio filtra anche che le verifiche degli inquirenti sono mirate alle numerose società controllate dagli Arata: Etnea, Alquantara, Solcara, e Solgesta. Al setaccio i cellulari e tutto il materiale sequestrato. Il resto è nelle brevi frasi strappate a Siri, che si dice «allibito» e che non intende lasciare l’incarico ( «io lavoro» ). Tra le poche altre certezze c’è che un altro figlio di Arata, Federico, ha da poco ottenuto un contratto a Palazzo Chigi, con il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Si sa del ricorso al Riesame annunciato dall’avvocato di Arata, Gaetano Scalise, e dell’intenzione di quest’ultimo di farsi interrogare subito dopo Pasqua. Anche Siri e il suo legale, Fabio Pinelli, assicurano di «essere a disposizione» dei magistrati. Ma per ribadire l’estraneità del sottosegretario alle accuse di tangenti offerte al fine di favorire l’imprenditore Vito Nicastri, già ai domiciliari per concorso esterno, ora in carcere. Un quadro suggestivo. Ma senza prove.

Armando Siri indagato per una legge mai approvata: cosa non torna, perché c'è puzza di trappola, scrive Tommaso Montesano il 19 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. «Promessa e/o dazione» di denaro (30mila euro). Ruota intorno a quelle due parole l' iscrizione nel registro degli indagati per corruzione, a Roma, del sottosegretario alle Infrastrutture, il leghista Armando Siri. Consigliere economico di Matteo Salvini - è considerato l' ideologo della flat tax - Siri è accusato dai magistrati della Capitale di aver «asservito» le sue funzioni di senatore e sottosegretario «a interessi privati». Nello specifico, gli interessi dell' imprenditore genovese Paolo Arata, manager e dominus di alcune società attive nello sfruttamento dell' energia eolica. Ma soprattutto - per un' altra procura, quella di Palermo - ritenuto in attività con Vito Nicastri, il "re del vento" «pregiudicato e spregiudicato» sospettato di essere un prestanome, se non un finanziatore, del super latitante Matteo Messina Denaro. Per le toghe, Siri avrebbe proposto e concordato «con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (Infrastrutture, Sviluppo economico e Ambiente) l' inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa (...) di incentivi per il cosiddetto mini-eolico».

L'INTERCETTAZIONE. In cambio, e qui si torna alle due parole chiave iniziali, di «promessa e/o dazione di trentamila euro da parte di Paolo Franco Arata» (anche lui indagato). La procura di Roma, nel decreto di perquisizione a carico dell' imprenditore che porta la firma del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Mario Palazzi, cita in particolare una conversazione - in auto - tra lo stesso Arata e il figlio Francesco. Nell' intercettazione, scrivono le toghe, «si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Armando Siri per la sua attività di sollecitazione dell' approvazione di norme» favorevoli ad Arata.

SOLO «FUMUS». Ma sono gli stessi magistrati ad ammettere - cosa tutt' altro che secondaria - di non sapere se la somma sia stata effettivamente consegnata a Siri. L' intercettazione, infatti, è disturbata. Non solo: le «norme» che avrebbero dovuto agevolare il settore eolico, e quindi Arata, non sono state comunque approvate. «Stiamo parlando di qualcosa che non è finito nemmeno nel Def», ha ricordato Salvini. L' emendamento in questione, messo a punto nel corso dell' iter al Senato del disegno di legge di Bilancio, è stato poi stralciato. Non a caso Ielo e Palazzi in un passaggio del decreto di perquisizione si limitano a definire «fumus» - letteralmente: fumo; ovvero sospetto - l' insieme degli elementi al momento raccolti a carico di Siri. Il quale reagisce a tappe. Prima replica: «Non ne so nulla, sono tranquillo». Poi respinge «categoricamente le accuse che mi vengono rivolte. Non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette». Da qui la richiesta di «essere ascoltato immediatamente dai magistrati. Se qualcuno mi ha accusato di queste condotte ignobili non esiterò a denunciarlo». La richiesta di dimissioni è respinta: «Sono allibito. Io resto dove mi trovo». Ma intanto il suo superiore, Danilo Toninelli, gli ritira le deleghe da sottosegretario. Cosa che Siri apprende dalle agenzie di stampa. L'inchiesta romana su Siri è un filone di quella principale, il cui centro è Palermo. In Sicilia gli indagati sono nove. Nel mirino delle toghe, i permessi gestiti dalla Regione nel campo delle energie alternative: un giro d' affari da 10 miliardi di euro. La Direzione investigativa antimafia ha eseguito perquisizioni a Roma, Palermo, Genova, Partanna e Castellammare del Golfo (Trapani). 

Bonafede benedice il convegno dei pm manettari. Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 su Il Giornale.it. Rieccoli. Un tempo furoreggiavano dalle prime pagine dei giornali. Per le loro tambureggianti inchieste e - non tutti in verità - per gli scritti, le polemiche, le scintille. Oggi la giustizia non funziona come sempre ma è schiacciata fra il Pil ansimante e i flussi dei migranti. Insomma, il partito dei pm è finito nelle retrovie dell'opinione pubblica, ma questo non significa che non abbia più voce. E infatti alla chiamata di MicroMega, il barometro del giustizialismo tricolore, hanno risposto molti grandi nomi della magistratura italiana. Ecco Gian Carlo Caselli, oggi in pensione ma a suo tempo anima del pool di Palermo che portò alla sbarra Giulio Andreotti e un pezzo di storia italiana; poi Luca Tescaroli, specialista di misteri nazionali, dalla morte di Calvi al massacro di Capaci, e autore prolifico di saggi su temi delicatissimi. E ancora Henry John Woodcock, regista da molti anni di inchieste controverse, osannate e scomunicate dalle opposte tifoserie; infine Nino Di Matteo e Paolo Ielo. Di Matteo è un'icona del popolo grillino per via dello scavo sulla trattativa Stato-mafia e più volte è stato candidato come possibile Guardasigilli. Ielo ha un profilo più anomalo rispetto agli altri ma la sua competenza, e pure qualcosa di più che ha a che fare con l'autorevolezza, è fuori discussione. Da Mani pulite a Mafia capitale. Saranno tutti a Fabriano, nelle Marche, su invito di Paolo Flores d'Arcais, il custode della liturgia manettara, per un convegno che verrà aperto il 3 maggio dal ministro Alfonso Bonafede. Bonafede, va detto, ha avuto la fortuna di vivere in un'epoca in cui le tempeste giudiziarie e le levate di scudi sono solo un ricordo e il clima è meno acceso di prima, ma la relativa fortuna non l'ha spronato a moltiplicare gli sforzi per recuperare il tempo perduto e mettere una pezza a meccanismi logori e vetusti. Il ministro ci ha consegnato una sventurata rivisitazione della prescrizione che scatterà l'anno prossimo ed è legata, sulla carta, ad un'epocale riforma di tutto il settore di cui non c'è traccia su alcun radar. Quello che tutti percepiscono è il disagio per un apparato che arranca sempre con esiti drammatici: non si riesce a mandare in cella i condannati con pena definitiva, come nel caso dell'assassino dei Murazzi a Torino. Altro che prescrizione. Chissà, forse Flores d'Arcais e il Guardasigilli discuteranno anche di tutto, troppo, quel che non va - dai tempi biblici dei procedimenti all'incertezza della pena - e il ministro ci fornirà un cronoprogramma dei prossimi interventi. Chissà. Il titolo del dialogo, "Giustizia è libertà", promette altro. Speriamo che il tutto non si risolva in una lucidata del monumento alle toghe, un po' trascurato negli ultimi tempi. L'Italia avrebbe bisogno di altro.

C'ERA UNA VOLTA "ONESTA’, ONESTA’". Valentina Errante per “il Messaggero” del 3 aprile 2019. Pressioni, ingerenze. Nel groviglio che si era creato in Campidoglio è difficile distinguere tra gli interessi privati delle figure istituzionali e quelli pubblici. Le consulenze e gli incarichi da parte degli imprenditori avrebbero creato corridoi speciali per i progetti facendoli passare per scelte politiche. Così Marcello De Vito lavorava ai fianchi i suoi compagni di partito, per convincerli della bontà dei progetti. E a sorpresa, dalle carte di due inchieste che inevitabilmente si intrecciano, emerge anche un vecchio rapporto professionale, tra un' azienda della famiglia Parnasi e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico acerrimo del progetto Tor di Valle. Circostanze che confondono gli affari personali e l' interesse pubblico, almeno secondo Parnasi che sostiene che una parcella pagata a metà abbia scatenato l' avversione del futuro assessore. Non emerge con chiarezza, invece, come sia stato possibile che il progetto degli Ex Mercati generali, business dei fratelli Toti, non sia passato all' esame del Consiglio comunale, ma abbia ottenuto direttamente l' approvazione della giunta. Non lo chiarisce neppure l' assessore all' Urbanistica, Luca Montuori, sentito subito dopo gli arresti, così come gli altri testi, interrogati dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli dopo l' ennesimo terremoto nel pianeta Cinquestelle. Così come un doppio ruolo lo avrebbe svolto Luca Lanzalone, imputato per corruzione, al quale la sindaca suggeriva di mandare «tutto il materiale sui Mercati generali», almeno secondo il verbale della presidente della commissione Urbanistica. È Alessandra Agnello, presidente della Commissione capitolina Lavori pubblici, sentita come testimone il 22 marzo, a raccontare alle pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli delle pressioni di De Vito: «Con riferimento alla realizzazione del Nuovo stadio della Roma io ho avvertito un certo pressing da parte di De Vito. Notai che era particolarmente eccitato e sollecitava tutti ad andare avanti a votare favorevolmente». La consigliera del M5S ha aggiunto che, in occasione di una riunione di maggioranza preliminare alla delibera per la dichiarazione di pubblica utilità dell' opera, votò contro, «ma in sede consiliare mi sono adeguata alla maggioranza come da codice etico del Movimento. Nella riunione di maggioranza, effettivamente, De Vito era il più attivo per trascinare tutti a votare a favore. Rimasi colpita da questo atteggiamento, non mi vengono in mente altre riunioni nelle quali si fosse mostrato così determinato». Nel groviglio di rapporti intrecciati è stato lo stesso Luca Parnasi a riferire ai pm di una vecchia ruggine tra lui e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico numero uno del progetto stadio. Spiegando così - fatture alla mano - la netta opposizione dell' assessore, poi sostituito da Montuori, al progetto Tor di Valle. L' incarico di progettazione per una convenzione edilizia in via Laurentina tra Parsitalia e la Regione risaliva al 2005. Berdini, allora vicino a Rifondazione comunista, nel 2008 avrebbe percepito solo il 50 per cento dell' incarico, che ammontava a oltre 78mila euro, per il mancato conseguimento degli obiettivi. L' assessore Luca Montuori, invece ha ricordato come nel Consiglio comunale De Vito spingesse perché il progetto Mercati generali andasse avanti. «La prima volta in cui lui mi chiese di incontrare gli investitori nel progetto dei Mercati Generali - ha detto a verbale - io restai perplesso». L' assessore cerca poi di spiegare come la delibera venne votata in giunta: «Mi sono confrontato con il mio staff in merito alla competenza della Giunta o del Consiglio per l' approvazione del progetto. Mi sono confrontato soprattutto con il direttore del Dipartimento, Roberto Botta, i funzionari che si occupano delle concessioni, altri funzionari interni all' amministrazione esperti di convenzioni, con l' Avvocatura capitolina e poi, in particolare, con il Segretario Generale, Pietro Paolo Mileti e il Vice Segretario Maria Rosa Turchi». Mileti, interpellato sul punto dai pm, dice di non ricordare.

Mettetevelo in testa: onestà e competenza non bastano per governare. Lo spiegava già Tocqueville a metà Ottocento e oggi tanti leader politici farebbero bene a rileggerlo. Essere onesti è un prerequisito. E non ha alcun senso opporgli la presunta competenza, scrive Antonio Funiciello il 2 aprile 2019 su Panorama. L’oblio della politica è l’oblio delle idee della politica. Ramsay MacDonald, uno dei fondatori del Labour Party britannico e primo premier laburista della storia, diceva che i partiti mangiano idee, si nutrono di idee. Se privi un partito di idee, gli sottrai la possibilità stessa di nutrirsi e, quindi, di perseverare nei propri scopi e prosperare a beneficio di se stesso e della nazione. Più in generale, si potrebbe dire lo stesso riguardo alla politica, della quale nelle democrazie liberali i partiti sono i macchinari aziendali e gli attrezzi di bottega.

Chi di manette ferisce, di manette perisce, scrive il 21marzo 2019 Mirko Giordani su Il Giornale. Marcello De Vito, Movimento 5 Stelle, è innocente fino a prova contraria, e chiunque sia contrario a questo principio non vive nel 21esimo secolo ma nell’alto Medioevo. A dire la verità questo principio non è neanche vagamente accettato dai Cinque Stelle, che si sono dimostrati pronti ad impiccare chiunque in pubblica piazza anche per un semplice avviso di garanzia. Tradizione ereditata dalla sinistra manettara. Adesso che uno di loro è finito sul patibolo e non per una stupidaggine, ma per corruzione, c’è da sperare che De Vito ne esca pulito, c’è da essere garantisti fino all’ultimo, e di evitare di agire come dei lupi che mangiano delle carcasse morte. In poche parole, non dobbiamo comportarci come i pentastellati, sempre pronti con il cappio in mano e con la ghigliottina insanguinata. Che sia da monito per gli sbruffoni, che sia da monito a quel signore della politica che si chiama Giarrusso, che faceva il segno delle manette agli avversari politici. Mai come oggi la poesia di John Donne è attuale: per chi suona la campana? Ieri per i partiti tradizionali, oggi per i duri e puri dei 5 Stelle.

Dai "mariuoli" alle mele marce, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. C'è un'operazione in corso all'interno dei Cinque Stelle. Una grande, orchestrata e pianificata campagna mediatica per far passare un concetto: Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina finito in manette per tangenti sul nuovo stadio, è solo una mela marcia. Una solenne menzogna. Perché De Vito, ora scaricato come un pacco dai vertici del Movimento, era espressione del Movimento stesso. Assolutamente organico ai papaveri pentastellati, ortodosso, allineato con i duri e puri della prima ora. Ossessionato da tutte le parole d'ordine dei grillini: legalità, trasparenza, lotta alla corruzione e alla casta. Bellissime parole, a quanto pare tutte disattese. Almeno a giudicare dalla reazione di Di Maio che lo ha immediatamente espulso, al di fuori di ogni regola del partito. Ma basta dare un'occhiata agli ultimi spot elettorali di De Vito, per capire di avere davanti un grillino doc. Il tutto condito da una esibita ostilità nei confronti di tutte le grandi opere. Per poi - scherzo del destino - scivolare su quelle medie, come lo stadio della Capitale. A dimostrazione che il problema non è la dimensione di quello che si vuole costruire, ma la statura di chi presiede quei lavori. Bastano un piccolo uomo e un politico meschino per fare una grande truffa con un'opera modesta. E neppure i Cinque Stelle sfuggono a questa regola.

Con gli arresti di Roma hanno definitivamente perso la loro verginità, è crollato il mito di una presunta superiorità morale e financo antropologica. «Questa congiunzione astrale... è tipo l'allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così... e allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa, secondo me, cioè guarda... ci rimangono due anni», si dicono al telefono l'avvocato Camillo Mezzacapo e Marcello De Vito, con un linguaggio astrale involontariamente ironico. E di fatto inserendo anche la corruzione nel firmamento fondato da Grillo e Casaleggio. E, ad essere malevoli, i sondaggi dimostrano che il Movimento non è lontano dalla sua notte di San Lorenzo. Non solo, avvisiamo il partenopeo Di Maio che bollare come mela marcia, come metastasi isolata senza pericolo di contagio, il compagno di partito che sbaglia, porta iella. E non esistono gesti apotropaici per scongiurarla. Lo insegna la storia recente. Dietro a un corrotto molto spesso se ne nasconde un altro, e così via. Il 17 febbraio 1992, il socialista Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, venne colto con le mani nella marmellata: una mazzetta di sette milioni di lire. Bettino Craxi lo definì: «un mariuolo isolato». Da quella stecca nacque l'inchiesta Mani pulite. Il sassolino che preludeva una valanga. E sappiamo tutti che fine hanno fatto Craxi e il Partito socialista.

Marcello De Vito e la morte del mito dell'onestà del Movimento 5 Stelle. L'arresto per corruzione del presidente dell'assemblea capitolina è un duro colpo all'immagine costruita negli anni dai pentastellati a colpi di selfie e foto discutibili. E la sua espulsione non basterà a riconquistare l'innocenza perduta, scrive Mauro Munafò il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Marcello De Vito è innocente fino a quando un tribunale non avrà stabilito il contrario. Questa ovvietà è bene precisarla, proprio perché si tratta di un'ovvietà troppo spesso dimenticata di recente. Ma se il presidente dell'assemblea capitolina del Movimento 5 Stelle avrà i suoi modi e tempi per difendersi, quello che oggi muore senza dubbio è il mito dell'onestà dei 5 Stelle. Perché i miti si alimentano di suggestioni, simboli, immagini e non di fatti. Si alimentano di fotografie di tuoi parlamentari che fanno il gesto delle manette o di tuoi consiglieri comunali che si fanno i selfie con le arance per augurare la galera a un avversario politico. E queste immagini e suggestioni così superficiali possono essere spazzate vie con facilità da altre immagini e suggestioni ben più rilevanti. Come appunto la notizia di un tuo esponente di primo piano nel territorio più importante che amministri, la Capitale d'Italia, che viene arrestato per tangenti e corruzione. L'accusa è pesante: De Vito avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni dal costruttore Luca Parnasi. Per agevolare il progetto collegato allo stadio della Roma. Pochi minuti dopo la notizia, Luigi Di Maio si è affrettato a cacciare “con motu proprio” De Vito dal Movimento 5 Stelle, spiegando che “De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi”. Operazione inutile: a ben pochi di quegli elettori che per anni hai alimentato a pane e qualunquismo interessa un'operazione puramente di facciata come espellere qualcuno dal Movimento. Il mito dell'onestà, una volta che lo perdi, non lo recuperi con un'espulsione e un post di poche righe su Facebook. Chissà se oggi quelle foto con le mani che imitano le manette o i selfie con le arance faranno arrossire qualcuno degli ex onesti.

Rimborsopoli, il vero problema sono Le Iene, non i cinquestelle. Il M5s è solo il fratello scemo del grillismo, scrive Emanuele Boffi il 14 febbraio 2018 su Tempi. La radice del problema è la malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Voglio scrivere una cosa contromano e impopolare: il problema non sono quegli sciamannati dei grillini, il problema sono Le Iene. Riassunto per chi si fosse perso la notizia. Le Iene hanno scoperto e sputtanato due parlamentari grillini che hanno presentato per anni bonifici fittizi: fingevano di restituire una parte del loro stipendio, ma, in realtà, dopo aver fatto il versamento, essersi fatti il selfie e aver postato sul sito tirendiconto.it la ricevuta, lo annullavano. Per il Movimento che ha fatto della retorica sull’onestà la propria stella polare è una mazzata. Scoprire di essere come tutti gli altri, per il partito che ha fatto fortuna mandando affanculo tutti gli altri, è la cosa peggiore che potesse capitare. Va bene, ben gli sta e io godo. Ma terminato l’orgasmo politico per quei marrani dei cinquestelle, che rimane? Rimane il problema di fondo. Ieri su Repubblica Sebastiano Messina se l’è presa coi “furbetti dello scontrino” pestando nel mortaio delle contraddizioni pentastellate. “Non è vero che restituivano i soldi”, avete visto? “Anche loro sono marci”, vi rendete conto? è il senso del ragionamento di Messina mentre fa l’elenco delle marachelle degli onesti. Così, però, si vagabonda sempre nello stesso labirinto logico: Messina non è nemmeno sfiorato dal dubbio che l’idea del “rimborso” sia una solenne pagliacciata propagandistica in sé, che poi questa venga assolta o meno. È l’idea stessa di poter far politica a costo zero a essere lunare. Ci sono due truffe, una nascosta e una palese: quella palese, scoperta dalla Iene, è che anche i grillini fanno i furbi con gli scontrini. Quella nascosta è l’idea che se restituisci parte del tuo stipendio da parlamentare, l’Italia andrà a posto. Non è vero. Non è vero perché la politica costa, e se tu non metti in condizione chi la esercita di poterla pagare allora le alternative sono solo due: o la fanno solo i ricchi o il politico dovrà trovare un modo (magari illecito) per sostenere il suo impegno. Si può anche pensare che se togliamo gli stipendi a deputati a senatori, poi il paese riparta, ma è una balla, rendiamocene conto. Ieri sul Foglio, Claudio Cerasa ha scritto parole di buon senso e condivisibili. Rimborsopoli è l’esempio del «grillismo demolito dai mostri alimentati dal grillismo». Scrive Cerasa: «La storia dei rimborsi tarocchi dei due parlamentari Andrea Cecconi e Carlo Martelli – e forse non solo loro – può essere raccontata utilizzando due chiavi di lettura. La prima è quella utilizzata da gran parte degli osservatori che in queste ore ci hanno raccontato che ah, quanto era bello il grillismo delle origini. È una chiave di lettura a sua volta grillina. (…) La seconda chiave di lettura, invece, è più sofisticata. Ovverosia: non esiste una forma di moralizzazione buona e una forma di moralizzazione cattiva e non esiste un grillismo buono e uno cattivo. Esiste, molto semplicemente, una dannosa truffa politica chiamata moralismo, che un pezzo importante del nostro paese ha scelto da anni di considerare non un virus letale ma al contrario un utile antibiotico da somministrare all’Italia per provare a guarirla dai suoi mali». Ci stiamo avvicinando alla questione. Cerasa fa bene a ricordare il celebre motto di Nenni (arriva sempre uno più puro di te che ti epura) e la saggia osservazione di Benedetto Croce (l’onestà in politica non è altro che la capacità politica), ma qui si vorrebbe provare a spingersi oltre e dire che, quand’anche il partito delle cinque stelle andasse a gambe all’aria; quand’anche a Di Maio capitasse quel che è successo ad Antonio di Pietro, che dopo anni di lotta ai “ladri” fu inchiodato da Report sui suoi affarucci immobiliari; quand’anche Di Battista fosse beccato con le mani nel sacco a non pagare il caffè alla buvette del Transatlantico; ecco, quand’anche accadesse tutto ciò, noi non avremmo risolto il busillis. Perché il problema – la radice del problema – è costituita dalla malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Il problema sono Le Iene, è Striscia la notizia, è Report. Sono loro che ogni volta soffiano sul fuoco con spirito distruttivo, aizzando gli animi contro “i politici”. Il fenomeno Grillo l’ha inventato il Corriere della Sera, ricordiamocelo sempre. I Cinquestelle sono i figli della propaganda sulla Casta, il libro di Rizzo e Stella. Accendete la tv, ascoltate la radio, leggete i giornali: di cosa vive oggi l’informazione? Di denunce, di sputtanamento, di fiele riversato contro tutto e tutti. Non sto dicendo che non bisogna dire, scrivere, sottolineare cosa non va. Sto dicendo che esiste ormai un genere letterario giornalistico che fa politica nel modo peggiore possibile. Ed è un genere letterario che ha il solo scopo di disfare, martellare, solleticare istinti di vendetta, ricevere l’applauso della platea e incassare i soldi del biglietto. Il grillismo è più grande e diffuso del M5s, che ne è solo la parte più pittoresca e scalcagnata, la meno furba. Il M5s è il fratello scemo del grillismo. È ora di iniziare a mettere sul banco degli imputati i corifei di questa mentalità, questo grillismo diffuso che sta fuori dal blog di Grillo e che ammorba l’Italia dai tempi di Mani Pulite (è una vecchia storia, insomma) e che si può permettere di tutto senza mai sentirsi in dovere di ritrattare, chiedere scusa, tornare sui propri passi (la vicenda Stamina, da questo punto di vista, è esemplare). Spremuto il fiele da Di Pietro, sono arrivati i grillini. Spremuti i grillini, ne arriveranno altri. Le Iene continueranno a ridere nel loro cantuccio, aspettando la prossima preda.

MA NON ERANO QUELLI DELL’ONESTA’? Fiorenza Sarzanini e Carlotta De Leo per corriere.it il 20 marzo 2019. Tempesta giudiziaria sull’amministrazione romana guidata dalla sindaca Virginia Raggi: all’alba è stato arrestato il presidente dell’assemblea capitolina, il Cinque Stelle Marcello Di Vito. I carabinieri hanno passato al setaccio la sua abitazione all’alba con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli. De Vito è accusato di corruzione per aver preso elargizioni dell’imprenditore Luca Parnasi promettendo in cambio di favorire il progetto per la costruzione dell’impianto sportivo nell’area di Tor di Valle.

Altri progetti. Non c’è soltanto il costruttore Luca Parnasi nell’elenco delle persone che avrebbero «pagato» De Vito. Il giudice lo accusa di aver preso soldi e alte utilità anche dal gruppo Toti e dal gruppo Statuto sempre per favorire alunni progetti a Roma. In questo caso la procura - l’indagine è coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo - aveva contestato il traffico di influenze illecite, ma il giudice ha ritenuto che si trattasse di corruzione. Per questo per i due imprenditori è scattata la misura interdittiva.

L’albergo. I progetti riguardano la costruzione di un albergo presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere e alla riqualificazione dell’area degli ex Mercati Generali di Roma Ostiense. L’indagine ha fatto luce su una serie di operazioni corruttive realizzate da imprenditori attraverso l’intermediazione di un avvocato ed un uomo d’affari, che fungono da raccordo con il Presidente dell’Assemblea comunale capitolina al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari.

L’inchiesta. Il nome di De Vito (l’uomo che ha raccolto più preferenze nella Capitale) era già stato fatto nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Parnasi e altre 18 persone per la costruzione dell’impianto di Tor Di Valle. Tra gli altri, era finito in manette Luca Lanzalone, ex presidente di Acea.

Tangenti sul nuovo stadio della Roma: arrestato Marcello De Vito, presidente 5 Stelle dell'assemblea capitolina. Altri tre in manette. Avrebbe favorito il progetto del costruttore Luca Parnasi, scrive Giuseppe Scarpa il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Terremoto giudiziario nel Movimento 5 Stelle romano. Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina è stato arrestato all'alba con l'accusa di corruzione. I carabinieri di Via In Selci hanno perquisito il suo appartamento. L'esponente grillino avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni, questa l'ipotesi dei pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, dal costruttore Luca Parnasi. De Vito, in cambio, avrebbe promesso - all'interno dell'amministrazione pentastellata guidata dalla sindaca Virginia Raggi - di favorire il progetto collegato allo stadio della Roma. La misura cautelare emessa dal dip del tribunale di Roma riguarda in tutto 4 persone (per 2 indagati è stata disposta la custodia cautelare in carcere, per gli altri i domiciliari). Una misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare attività imprenditoriale riguarda invece due imprenditori. L’indagine "Congiunzione astrale" si concentra sulle condotte corruttive e il traffico di influenze illecite nell'iter per la realizzazione del nuovo stadio della Roma, la costruzione di un albergo presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere e la riqualificazione dell’area degli ex Mercati generali di Roma Ostiense. L’inchiesta ha fatto luce su una serie di operazioni corruttive realizzate dagli imprenditori attraverso l’intermediazione di un avvocato e un uomo d’affari, che secondo l'accusa avrebbero interagito con De Vito al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari. Il nome di De Vito compariva spesso nell'ordinanza che aveva portato all'arresto di Parnasi e di Luca Lanzalone ex presidente di Acea lo scorso giugno. Da quella inchiesta sono finite a processo 18 persone, accusate di aver messo in piedi un sistema corruttivo per la costruzione dell'impianto del club giallorosso, progetto che dovrebbe sorgere a Tor di Valle. I pm avevano messo nel mirino nomi di spicco dell'imprenditoria e politica romana come il costruttore Parnasi e gli esponenti di Pd e Fi, Pier Michele Civita, Adriano Palozzi e Davide Bordoni. Il 10 dicembre, in un altro filone della stessa inchiesta, erano finiti alla sbarra altri personaggi di rilievo - sempre coinvolti nell'affaire del tempio giallorosso - tra cui l'avvocato genovese Luca Lanzalone, voluto al vertice di Acea dalla nomenclatura pentastellata. Associazione a delinquere, finanziamento illecito e corruzione i reati contestati a seconda delle posizioni. Gli avvisi di garanzia erano stati notificati all'imprenditore Parnasi ritenuto dagli inquirenti "il capo e organizzatore" dell'associazione a delinquere che ha cercato di pilotare le procedure amministrative legate al masterplan, approvato, nell'ambito della conferenza dei servizi, nel febbraio del 2018.

Elezioni 2018, Di Maio fa la lista di condannati, imputati e indagati dal Pd a Forza Italia: “Via gli impresentabili”. Sul Blog delle Stelle il candidato premier del M5s ha elencato 23 nomi di candidati le cui vicende sono state raccontate in queste settimane dal Fatto.it, insieme a quelle di molti altri esponenti della classe politica che il 4 marzo si presenteranno al giudizio degli elettori senza i requisiti di "candore" richiesti dalla loro condizione di "candidati": da Luigi Cesaro a Luciano D'Alfonso, da De Luca junior a Umberto Bossi, scrive Il Fatto Quotidiano il 4 Febbraio 2018. Da “Luca Lotti indagato nel caso Consip” fino a Franco Alfieri, consegnato all’immortalità da Vincenzo De Luca con l’epiteto quasi omerico de il “signore delle fritture”, passando per gli ex consiglieri del Pd rinviati a giudizio per le spese allegre alla Regione Lazio. Sul Blog delle Stelle Luigi Di Maio ha fatto la lista degli “impresentabili” candidati dagli altri partiti, Partito Democratico (“il centrosinistra ha rinnegato la lezione di Berlinguer sulla questione morale”, attacca il candidato premier dei 5 Stelle) e centrodestra in testa, le cui vicende sono state raccontate in queste settimane dal Fatto.it, insieme a quelle di molti altri esponenti della classe politica che il 4 marzo si presenteranno al giudizio degli elettori senza i requisiti di “candore” richiesti dalla loro condizione di “candidati”. “Tutti i giornali italiani per giorni hanno sbattuto in prima pagina tutta la vita di Emanuele Dessì, cittadino incensurato candidato al Senato con il MoVimento 5 Stelle” e che ha accettato di rinunciare al seggio, esordisce Di Maio, mentre sul capolista Giggino ‘a purpetta, esponente del centrodestra, hanno “osservato un omertoso silenzio, un insulto ai lettori”. Il leader del M5S punta il dito quindi contro il segretario del Pd che “ieri ha diffamato pubblicamente il MoVimento 5 Stelle dicendo che noi abbiamo impresentabili. Gli impresentabili e riciclati li ha messi lui nelle liste con un atto d’imperio fregandosene degli iscritti e della democrazia interna del suo partito”. Insomma, dice ancora Di Maio: “Basta impresentabili in Parlamento. Di seguito trovate i nomi degli impresentabili dei partiti. Devono sparire dalle liste. Ora!”. In cima all’elenco degli impresentabili del centrosinistra c’è Luciano D’Alfonso, “governatore della Regione Abruzzo, indagato a Pescara e a L’Aquila, per una inchiesta su appalti regionali e sul recupero del complesso che ha ospitato il mercato ortofrutticolo pescarese”. Dietro di lui spunta “Vito Vattuone che ha dal 29 gennaio scorso – si legge sempre sul blog – una richiesta di rinvio a giudizio, capolista del Pd nel collegio plurinominale per il Senato in Liguria, uno dei tanti politici candidati e coinvolti nelle vicende sui rimborsi regionali”. Per il Lazio Di Maio consegna alla ribalta i nomi di “Claudio Mancini (proporzionale Camera Latina), Carlo Lucherini (uninominale Senato Guidonia), Bruno Astorre (proporzionale Senato), Claudio Moscardelli tutti coinvolti nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo alla Pisana fra il 2010 e il 2012, rinviati a giudizio lo scorso settembre”. Ferdinando Aiello, Brunello Censore e Antonio Scalzo si presentano in Calabria nonostante siano stati “rinviati a giudizio nel luglio scorso”, seguiti da Angelo D’Agostino, “imputato in un processo a Roma per una storia di certificati falsi per appalti pubblici”. Vittorino Facciolla, assessore regionale all’Agricoltura in Molise, è “indagato nell’ambito di un’indagine sui Peu (Progetti Edilizi Unitari), fondi per la ricostruzione post sisma in Molise”. “Menzione speciale” per la Campania, la regione del candidato premier del Movimento, dove svetta “De Luca junior, candidato ovviamente a Salerno, nel “feudo” del padre. È imputato di bancarotta fraudolenta per il crac della società immobiliare “Ifil”. E dove Di Maio segnala il “sottosegretario Umberto Del Basso De Caro, accusato di tentata concussione, è stato sentito dai pm nel dicembre scorso”. Nelle fila del centrodestra, invece, oltre a Luigi Cesaro, c’è “Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati – scrive il leader M5S – sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani Libero e il Riformista; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio”. Ci sono Ugo Cappellacci (capolista in Sardegna, ex governatore, per lui chiesta condanna per abuso d’ufficio nel processo scaturito nell’inchiesta sulla cosiddetta P3; condannato in secondo grado a restituire alla Regione Sardegna circa 220 mila euro. Condannato a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia), Michele Iorio, (candidato al Senato in Molise, condannato “dalla corte d’appello di Campobasso a 6 mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un anno di interdizione dai pubblici uffici”) e Urania Papatheu, “candidata nel Catanese, con una condanna in primo grado per gli sperperi dell’ex Ente fiera di Messina”. Il capitolo Lega comprende Umberto Bossi “condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi “provenienti dalle casse dello Stato” a fini privati” e Edoardo Rixi, “assessore regionale in Liguria e imputato per le spese pazze in regione Liguria: si sarebbe fatto rimborsare spese private con soldi pubblici”. Non poteva mancare Roberto Formigoni, capolista al Senato con Noi con l’Italia in Lombardia, nonostante sia “condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi”.

M5s, Travaglio vs Richetti (Pd): “Candidate 29 indagati, più di Forza Italia. E date lezioni?”. “Parli come Rocco Casalino”, scrive Gisella Ruccia il 14 Febbraio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Bagarre a Dimartedì (La7) tra il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, e Matteo Richetti, portavoce della segreteria del Pd e candidato al Senato in Emilia-Romagna. La miccia del dibattito è il caso sulle mancate restituzioni, che ha travolto il M5s, vicenda sulla quale Richetti è tranchant: “Il problema qui è aver assistito per 5 anni a persone che davano lezioni sull’onestà, loro requisito fondamentale, e scoprire che il comportamento è tutt’altro che di onestà. C’era qualcuno che faceva il bonifico, ne mostrava lo screenshot e poi lo rimuoveva. Questo è un atteggiamento di massima disonestà e lo trovo molto grave”. “Forse dovreste cominciare a restituire anche voi un pezzo dello stipendio, prima di dare lezioni agli altri” – ribatte Travaglio – “La differenza tra voi e i 5 Stelle è che loro, quando trovano una mela marcia, la cacciano, mentre voi la candidate e la promuovete. Nelle vostre liste ci sono 29 inquisiti e per la prima volta avete sorpassato Forza Italia, che invece ha candidato 24 indagati. E’ un fatto storico. Ma vi rendete conto di che razza di macigno di questione morale avete in casa vostra? E date lezioni agli altri? E’ sconfortante”. Richetti replica: “Io trovo gravissimo che un direttore di giornale che io stimo, come Marco Travaglio, si comporti come un Rocco Casalino qualunque”. “Ma come si permette?” – insorge Travaglio – “Ma risponda alla mia domanda. Restituite anche voi un pezzo dello stipendio prima di dare lezioni agli altri. Tra l’altro, i 5 Stelle hanno votato la sua legge sul taglio dei vitalizi”. Il portavoce dem difende la sua posizione e ammonisce: “Ma lei come fa a difendere questa roba qua? Lei sta facendo il giornalista di partito”. “Lei fa finta di non capire” – controbatte il direttore del Fatto – “Voi avete candidato persone indagate per le Rimborsopoli regionali, cioè sotto processo in quanto facevano spese private con soldi pubblici, destinati ad attività istituzionali. E non è che li avete scoperti dopo e li avete cacciati, ma li avete candidati, sapendo che quelle persone sono imputate per avere rubato sui rimborsi regionali”.

Il bue chiama cornuto l’asino.

Bugie, reati e indagati: manicomio M5s. Il pesce puzza dalla testa e difatti tutto principia da Beppe Grillo: condannato nel 1985 per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 19/02/2018, su Il Giornale. Ci sono un paio di condannati per omicidio colposo, una manciata di sindaci a giudizio per falso ideologico, un altro che legittimamente si può definire evasore, due maneschi e una dozzina di trafficanti di scontrini e ricevute. Cosa fanno tutti insieme? Il Movimento 5 Stelle. Sembra una barzelletta, ma non lo è. Anche se spesso - di fronte a questo carnevale elettorale - scappa proprio da ridere. I duri e puri, gli sventolatori di manette, stanno ormai collezionando qualsiasi genere di imputazione: penale, civile e diremmo pure morale, se indossassimo per una volta i loro occhiali giustizialisti. Il pesce puzza dalla testa e difatti tutto principia da Beppe Grillo: condannato nel 1985 per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale. Via, spuntato l'omicida dal codice penale. Ma il capocomico, come abbiamo scritto ieri, può anche essere definito - per sentenza - evasore. E abbiamo smarcato il secondo reato. Ma Beppe è in buona compagnia. Condannato per omicidio colposo è anche il candidato pentastellato in Piemonte Pino Masciari. A discendere è tutta un'umanità varia di furbetti, maneggioni o incompetenti. Nella migliore delle ipotesi. La sindaca Chiara Appendino è indagata per omicidio colposo, lesioni colpose, disastro colposo e pure per falso ideologico. Le fanno compagnia Virginia Raggi (indagata per abuso d'ufficio e rinviata a giudizio per falso ideologico) e il primo cittadino di Livorno Filippo Nogarin (abuso d'ufficio e concorso in omicidio colposo). Di fronte a loro il povero Di Maio, indagato solo per diffamazione, pare un mesto chierichetto. Si salva in corner solo perché non esiste il reato di stupro del congiuntivo. E poi c'è tutta la caleidoscopica galassia di deputati e candidati. Ultimo in ordine di tempo il capitano De Falco, che dal mitologico «Vada a bordo, cazzo!» sembra essere passato ai cazzotti in famiglia. Non manca neppure il candidato scroccone Emanuele Dessì: che ha ammesso candidamente di pagare 7 euro e 70 centesimi di affitto mensile per la sua casa popolare. Novantatrè euro l'anno. Come una notte in un hotel tre stelle, due in meno del partito per il quale è in lista. Dopo lo scroccone c'è la spendacciona sotto scacco dell'ex. Giulia Sarti, infatti, ha incolpato il suo compagno per la mancata restituzione di 23mila euro di rimborsi, il quale - come in una puntata di Beautiful - si è precipitato in procura per dire che lui non c'entra nulla e ha le prove perché registra tutto, telefonate comprese. Tutto segretato dai giudici, per amor di patria e buon gusto. E ci sono anche i mezzi furbetti, quelli che facevano il bonifico e poi lo cancellavano, quelli che facevano incetta di scontrini per giustificare le spese. Smarcata anche la casella degli arruffoni, come Marta Grande, che dopo non aver rendicontato nulla per un anno intero ha deciso di farlo in una volta sola: 7mila euro di alberghi ad agosto. Ad agosto. Quando il Parlamento è chiuso. Geniale. Di livello superiore Ivan Della Valle che, dopo essere scappato in Marocco come in un film di Salvatores, ha confessato di aver taroccato i bonifici con Photoshop. Dimostrando, se non altro, di avere una certa perizia nella contraffazione informatica. Ci manca solo quello che dice che non ha le ricevute dei bonifici perché gliele ha mangiate il cane. Ma da qui alle elezioni ci sono ancora due settimane. Se questa è la trasparenza a Cinque Stelle, beh, allora è meglio chiudere il sipario su questo spettacolo indecoroso.

Saverio De Bonis: il senatore condannato e la doppia morale M5S, scrive Giovanni Drogo l'11 Settembre 2018 su Next. Vi ricordate di quando Luigi Di Maio in campagna elettorale prometteva che nelle liste del MoVimento 5 Stelle non c’erano impresentabili? Vi ricordate di quando si è scoperto che in lista all’uninominale Di Maio aveva fatto mettere massoni ed indagati? Il Capo Politico del MoVimento 5 Stelle rassicurava gli elettori che «Tutti coloro che erano in posizioni eleggibili nei candidati delle liste plurinominali mi hanno già firmato un modulo per rinunciare alla proclamazione altrimenti gli facevo danno d’immagine».

Perché Saverio De Bonis non è stato espulso dal M5S? Gli altri, spiegava il leader pentastellato, erano in collegi uninominali perdenti, quindi non sarebbero stati eletti. Ovviamente non è andata così. Alcuni degli impresentabili presentati dal MoVimento 5 Stelle sono stati espulsi (ma sono rimasti in Parlamento), come ad esempio Salvatore Caiata il presidente del Potenza calcio eletto alla Camera in Basilicata e subito espulso dal M5S perché indagato. Altri – per non si sa quale motivo – invece hanno potuto tenere lo scranno e il posto nel partito del Capo. È il caso del Senatore Saverio De Bonis, eletto all’uninominale in Basilicata con la bellezza di 123.118 preferenze. De Bonis attualmente è membro della Commissione Agricoltura di Palazzo Madama. E il 19 gennaio 2017 (con sentenza depositata il 24/05/2018) è stato condannato in Appello dalla Corte dei Conti al pagamento, in favore della Regione Basilicata, di 2.775,00 euro. La sentenza d’appello è stata pubblicata nel maggio scorso (dopo le elezioni) De Bonis non solo è stato candidato dal MoVimento 5 Stelle e, in aperta violazione del Codice Etico, non si è autospeso né è stato oggetto di provvedimento di sospensione o espulsione dal M5S. Ma il problema è un altro, perché dal momento che la sentenza di primo grado della Corte dei Conti a carico di De Bonis è stata emessa nel 2015, il senatore non avrebbe potuto candidarsi non solo perché era già stato condannato dalla Corte dei Conti – che è una condanna contabile e non una condanna penale – ma soprattutto per via di due reati prescritti in due precedenti procedimenti giudiziari nel quale il Senatore è stato prosciolto. Anche se De Bonis è incensurato le regole del M5S non fanno distinzione tra condanna e prescrizione del reato. Nel Codice Etico del M5S (Art. 6) è scritto che «costituisce condotta grave ed incompatibile con la candidatura ed il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo» e precisa che «sono equiparate alla sentenza di condanna la sentenza di patteggiamento, il decreto penale di condanna divenuto irrevocabile e l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio». Ad esempio nel caso di Antonio Tasso, il reato prescritto risale a dieci anni fa, ma il M5S decise per la sua sospensione, scaduta nei giorni scorsi (anche se attualmente risulta ancora iscritto al gruppo misto).

Il doppio standard del Codice Etico del MoVimento 5 Stelle. Eppure le cose sono andate diversamente perché – e non è chiaro se i vertici ne fossero a conoscenza o meno – De Bonis è arrivato in Parlamento nonostante la condanna della Corte dei Conti (non definitiva) e la prescrizione per il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e truffa (reato per il quale il GUP aveva chiesto il rinvio a giudizio). Il sistema dei due pesi e delle due misure (o della doppia morale) pentastellata funziona così: se la stampa scopre che un “portavoce” è sotto indagine allora viene espulso (come nel caso di Caiata) ancora prima di essere eletto, anche se poi dovesse venire archiviato. Se la notizia di una condanna in appello da parte della Corte dei Conti e della prescrizione non arriva sui giornali allora il MoVimento degli onesti e trasparenti fa finta di niente. Eppure la condanna di De Bonis da parte della Corte dei Conti, imprenditore agricolo molto attivo sul fronte politico della tutela della qualità di riso e grano italiani, dovrebbe far riflettere il M5S. Perché l’accusa nei confronti di De Bonis era quella di aver truffato la Regione Basilicata al fine di ottenere l’ammissione della sua azienda ai benefici previsti dal P.O.R. Basilicata 2000-2006, Misura IV.8 “Investimenti nelle aziende agricole nell’ambito delle filiere produttive. I fatti risalgono al 2004 e nella motivazione della decisione della Corte dei Conti si legge che «<agli atti di causa risulta che il De Bonis ha dichiarato nella domanda di essere imprenditore agricolo dal 7/11/2000 ed “insediato da non oltre 5 anni”, mentre dalla “visura storica dell’impresa” depositata in atti dal P.M., risulta iscritto presso la Camera di Commercio Industria ed Artigianato di Matera quale “Impresa Agricola (sezione speciale)” sin dall’8.1.1997, e risulta altresì “data d’inizio dell’attività d’impresa 03/04/1996” relativamente all’attività di coltivazione di cereali>. Per cui il suddetto non era in possesso dei requisiti per godere delle agevolazioni previste nei confronti dei c.d. “giovani imprenditori agricoli”». Secondo l’accusa del processo penale poi conclusosi con il proscioglimento per intervenuta prescrizione De Bonis avrebbe tentato di acquisire il maggior punteggio in graduatoria (e il finanziamento maggiore) concesso a quei “giovani imprenditori” nel caso di richiesta di ammissione al contributo venisse presentata «da giovani agricoltori che si siano insediati in azienda da meno di cinque anni». La prima sezione d’appello della Corte dei Conti ha condannato De Bonis al pagamento, in favore della Regione Basilicata, di euro 2.775,0. Ma non è tanto l’entità della condanna il problema, quanto il fatto che De Bonis abbia taciuto sul suo processo e sulla prescrizione ai vertici del partito. E se De Bonis non ha taciuto e il Capo Politico e lo Staff ne erano a conoscenza allora la situazione dimostra il doppio standard pentastellato. Perché? Forse perché al Senato la maggioranza è meno ampia che alla Camera. Ogni voto conta, e il MoVimento non può permettersi di perdere un senatore.

EDIT del 26/10/2018: Per conto dell’Onorevole De Bonis riceviamo da parte dell’Avvocato Giampiero Milone una richiesta di rettifica. In particolare l’Avv. Milone chiede di precisare che l’onorevole pentastellato non ricopre lo status di “impresentabile” in base al regolamento del MoVimento 5 Stelle. È utile far notare che lo status di “impresentabile” non è una definizione giornalistica ma che è un termine coniato proprio dal MoVimento 5 Stelle e utilizzato in più occasioni dal Capo Politico del partito come ricordato all’inizio dell’articolo. Lo statuto del MoVimento 5 Stelle parla chiaro: «costituisce condotta grave ed incompatibile con la candidatura ed il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5 Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo» e precisa che «sono equiparate alla sentenza di condanna la sentenza di patteggiamento, il decreto penale di condanna divenuto irrevocabile e l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio». Quindi il fatto che l’Onorevole De Bonis sia stato prescritto dopo il rinvio a giudizio viene equiparato (ovvero è uguale) ad una condotta grave ed incompatibile con la candidatura. Questo non lo hanno inventato i giornalisti ma chi ha scritto lo statuto. Vero è che De Bonis non è mai stato definito impresentabile dai vertici del MoVimento (come invece il collega Tasso) ma è proprio questo il punto dell’articolo: la doppia morale del M5S in questi (perché De Bonis non è l’unico) casi. Ad essere rimessa alla discrezionalità degli Organi Associativi (ovvero i Probiviri) sono invece tutti quei casi in cui la condanna, il proscioglimento, il rinvio a giudizio o la prescrizione riguardano «fatti astrattamente riconducibili ai cosiddetti reati di opinione». Il che ovviamente non riguarda il tipo di reato per il quale De Bonis venne rinviato a giudizio e successivamente prescritto.

I massoni e gli impresentabili eletti con il MoVimento 5 Stelle, scrive Giovanni Drogo l'11 Settembre 2018 su Next. Poco meno di una settimana fa il Capo Politico del M5S Luigi Di Maio rassicurava gli elettori del MoVimento spiegando che gli impresentabili che erano finiti nelle liste uninominali erano in collegi perdenti e che quindi non saranno eletti. Allo stesso tempo Di Maio confermava che «Tutti coloro che erano in posizioni eleggibili nei candidati delle liste plurinominali mi hanno già firmato un modulo per rinunciare alla proclamazione altrimenti gli facevo danno d’immagine».

I candidati che non dovevano essere eletti sono stati eletti. Oggi, il giorno dopo il voto scopriamo che le cose sono andate diversamente. L’ondata di consensi che ha portato il partito di Grillo e Casaleggio al 32% ha infatti consentito l’elezione anche di molti incandidabili dei quali Di Maio si diceva sicuro non sarebbero potuti entrare in Parlamento. L’ex massone Catello Vitiello candidato alla Camera nel Collegio uninominale Campania 1-12 a Castellamare di Stabia si è aggiudicato un posto in Parlamento con il 46,58% dei consensi (60.324 voti). Vitiello aveva fatto sapere di non aver alcuna intenzione di rinunciare all’elezione e così entrerà alla Camera ma da “espulso” dal MoVimento. Stessa sorte anche per il presidente del Potenza Calcio Salvatore Caiata, candidato alla Camera all’uninominale a Potenza. Quando mancano appena cinque sezioni alla fine dello spoglio Caiata è saldamente in testa al 42% e quindi sarà tra gli eletti. Anche Caiata era però stato espulso dal M5S perché si era scoperto dopo la sua candidatura che è attualmente indagato a Siena con l’accusa di riciclaggio. Come per Vitiello Caiata aveva fatto sapere di non volersi ritirare. Festeggia anche un altro candidato all’uninominale “perdente”. Si tratta di Antonio Tasso candidato per il MoVimento in Puglia alla Camera Cerignola. Tasso ha ottenuto oltre cinquantamila voti (pari al 43,8%) ed è quindi ufficialmente eletto alla Camera dei deputati. Anche lui però era stato espulso perché non aveva rivelato di essere stato condannato (e prescritto) per violazione della legge sul diritto d’autore, perché “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso abusivamente duplicava o riproduceva a fine di lucro, 308 cd per videogiochi e 57 cd musicali”. Anche Emanuele Dessì, secondo in lista nel listino bloccato del collegio plurinominale Lazio 3 (dove la capolista è la senatrice Elena Fattori) dovrebbe essere eletto dal momento che il MoVimento ha conquistato il 36,28% delle preferenze. Dessì ha firmato il famoso, e inutile, contratto e nei giorni scorsi, dopo aver detto che un giro al Senato se lo sarebbe fatto volentieri ha detto che «non esiste nessuna legge che prevede la rinuncia all’elezione, il voto dell’elettorato è costituzionalmente “indisponibile”».

Riconfermati anche i i parlamentari coinvolti nella rimborsopoli a 5 Stelle. Tutto come previsto invece per i parlamentari coinvolti nel caso “rimborsopoli” e per questo espulsi dal MoVimento 5 Stelle. Andrea Cecconi ha addirittura sconfitto all’uninominale a Pesaro il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il senatore Carlo Martelli, capolista al proporzionale nel collegio Piemonte 2 dovrebbe essere eletto così come la riminese Giulia Sarti che pur avendo perso di misura (per poco meno di cinquemila preferenze) il confronto all’uninominale con Elena Raffaelli (candidata per il centrodestra) potrà beneficiare del paracadute del proporzionale essendo la prima del listino bloccato Emilia Romagna 1 dove il M5S ha preso il 29,7%. Anche il senatore Maurizio Buccarella, tra i volti più noti tra quelli coinvolti, sarà eletto. Buccarella era stato candidato al secondo posto del listino bloccato nella circoscrizione Puglia 2 (la prima è la senatrice uscente Barbara Lezzi). I 5 Stelle hanno vinto tutte le sfide all’uninominale in Puglia e quindi il senatore coinvolto nel caso delle rendicontazioni allegre potrà tornare in Senato e smettere di preoccuparsi per la sua situazione finanziaria. Dovrebbe farcela anche Silvia Benedetti, capolista in Veneto al proporzionale alla Camera che sarà quindi riconfermata.

Luigi Di Maio, la ridicola sparata del manettaro a diMartedì: "Non si fa politica sugli arresti", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Oltre il ridicolo, come spesso accade quando a parlare è un grillino. In questo caso si tratta di Luigi di Maio, ospite a diMartedì di Giovanni Floris su La7. Si faceva il punto sul voto in Giunta che ha espresso un parere negativo al processo di Matteo Salvini per il caso Diciotti. Dopo il voto, fuori dall'aula, il Pd ha inveito contro il grillino Michele Giarrusso, il quale ha risposto con il deplorevole gesto delle manette, con un chiaro riferimento - poi confermato dalle sue stesse parole - all'arresto dei genitori di Matteo Renzi. Interpellato sull'opportunità di un simile gesto da Floris, Di Maio ha risposto: "Il gesto delle manette? Gli è sfuggita di mano la situazione, perché c'erano i senatori del Pd che inveivano contro di lui. Il tema dell'arresto dei genitori di Renzi non deve essere usato contro l'ex premier". Il che, detto dal leader del partito più manettaro e forcaiolo d'Italia (un partito il cui ideologo maximo è Marco Travaglio, per intendersi) è assolutamente ridicolo.

Il forcaiolo a 5 Stelle ​e l'orrore delle manette. Che orrore quel gesto che oltraggia la giustizia, scrive Felice Manti, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Ci sono immagini che fanno orrore. Enzo Tortora che lascia in manette la stazione dei carabinieri, vittima simbolo della malagiustizia che ci costa 800 milioni di euro l'anno di risarcimenti. Dieci anni dopo c'è il dc Enzo Carra che entra in tribunale con gli schiavettoni. Condannato a 1 anno e 4 mesi per «false o reticenti informazioni al pm» su una tangente da 5 miliardi, reato poi abolito. «Anche la Gestapo otteneva risultati in questo modo», dirà Arnaldo Forlani. Allora la gogna di Mani pulite voleva i suoi scalpi, alle tricoteuses fuori dai palazzi di giustizia delle sentenze importava poco. Oggi che la piazza M5s ribolle dopo la capriola garantista che fermando le ghigliottine ha salvato le poltrone ci voleva un comando per far abbaiare la canea forcaiola e uscire dall'imbarazzo. Il gesto delle manette indirizzato ai genitori dell'ex premier Matteo Renzi. Ci ha pensato Mario Giarrusso, ex discepolo di Leoluca Orlando Cascio nella Rete ma con un ruolo onorevole, quello di custode della Fondazione Antonino Caponnetto, mentore degli eroi antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A loro quel gesto avrebbe fatto ribrezzo. Non si può onorare la loro memoria se si obbedisce alla religione della cultura del sospetto. È «l'anticamera del khomeinismo - diceva Falcone - non si può dire io intanto contesto il reato, poi si vede perché da queste contestazioni derivano conseguenze incalcolabili». Ma l'oltraggio peggiore Giarrusso l'ha fatto alla toga di avvocato, calpestando per un pugno di voti la presunzione d'innocenza, testata d'angolo su cui si costruisce la giurisprudenza italiana, maltrattata nelle aule di tribunale da teoremi spregiudicati che spesso finiscono in cenere. Una deriva, questa sì, inarrestabile.

Michele Giarrusso, chi è il grillino imbarazzante che vuole impiccare Renzi, scrive Francesco Specchia il 22 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Da quel vischioso groviglio di contraddizioni che spesso anima il governo gialloverde, in questi giorni riemerge prepotente una figura antica: il "parlatore a titolo personale". Della suddetta categoria Cinque Stelle e Lega, oggi, vantano ben due pregiati rappresentati: il senatore Mario Michele Giarrusso e il deputato Claudio Borghi Aquilini. Che nulla hanno in comune, se non la capacità innaturale di bombardare la semantica parlamentare, produrre a getto continuo dichiarazioni eversive che aizzano i taccuini dei cronisti, ed essere -per questo- sistematicamente smentiti dal partito, dalle istituzioni, talora da se stessi. L' epilogo della straordinaria strategia di comunicazione che li fa finire sui giornali è sempre la stessa frase, tranchant, pronunciata dal resto del mondo: «Parla a titolo personale», appunto. Campioni della specialità un tempo erano Renato Brunetta, Mario Borghezio, Nichi Vendola quand' era comunista. Ma Giarrusso e Borghi sono l'evoluzione della specie, tecnica di base e tempistica inarrivabili. Non so come facciano. Prendete l'avvocato Giarrusso. Se avesse deciso di attenersi solo al ruolo di capogruppo M5S nella Giunta per le immunità a Palazzo Madama, sarebbe ricordato solo per una foto terribile, ghignante a torso nudo e un'altra in gessato da gangster anni 30; invece Michele ha deciso che spiazzare è il suo mandato.

«MANETTARO». Da qui il famoso gesto delle manette per la famiglia Renzi ai domiciliari, dopo aver giustificato in aula la mancata autorizzazione a procedere per Salvini, e la frase gridata a La Zanzara su Radio 24: «Io sono manettaro!»; mentre, pochi minuti dopo, lo stesso Salvini lo correggeva: «Conosco Giarrusso, non è un manettaro». Mesi prima, in Senato, l'uomo aveva posizionando geograficamente la diga di Mosul in Siria con tanto di smentita ironica del Premier: «Mosul, però, è in Iraq». E poi, indimenticabile fu quella volta che, intervistato da Maurizio Mannoni al Tg3 sull' accordo col Pd sui giudici della Consulta, affermò che la Costituzione era del 1946. Smentito dalla storia. E quando fu accusato di diffamazione contro la Pd Greco, lo stesso Giarrusso invocò per sè, in un primo momento l'insidacabilità parlamentare, e venne smentito da Di Maio. Poi attaccò un giornalista Rai intimandogli di «buttarsi a mare con una pietra al collo», smentito da M5S. Idem per l'accusa a Beppe Grillo di aver posto le votazioni online sul Ddl anticorruzione in modo scorretto. Ma se Giarrusso è un ariete della contropolitica, Borghi, presidente della Commissione Bilancio delle Camera, economista e teorico antieuro, nello stop-and-go delle provocazioni è un centravanti di sfondamento.

Le sparate L' ultima sparata è stata l'annessione del M5S alla Lega in un unico gruppo parlamentare. Pronta la replica di Salvini: «No al gruppo unico». E del Movimento: «Ci spiace dover contraddire il presidente Borghi ma lui parla a titolo personale. E, sistematicamente, viene smentito». Notare l'avverbio aguzzo, «sistematicamente». E già. Perché, in precedenza Borghi aveva dichiarato che: a) «il commissario Ue Moscovici mi segue su Twitter» (smentito da Moscovici); b) «se l' Europa non cambia, noi ne usciamo» (smentito da Salvini e da Conte); c) «serve una legge che dica esplicitamente che le riserve auree appartengono allo Stato e non a Bankitalia» (smentito da tutti: la legge già c' è. Replica, tiratissima: «ma non c' è l' interpretazione autentica»); d) «se uno dovesse ipotizzare una manovra aggiuntiva adesso, dovrebbe ipotizzarla in maggiore deficit» (smentito da Tria). Il problema di Borghi è che, avendo più credenziali di Giarrusso, quando parla rischia di causare l'effetto farfalla: il 2 ottobre, dichiarando di voler uscire dall' euro, diede una spallata alla moneta unica sul dollaro. A forza di parlare, anzi tuonare, a titolo personale i due sono diventati la mappa vivente dei paradossi di un governo ad eversione variabile. Francesco Specchia

·         I Rossi manettari.

Pd, non c’è soltanto lo scandalo Umbria: ormai cinque regioni traballano sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Eccole. Salgono a cinque le regioni travolte da inchieste a carico di dirigenti locali e governatori daem. Mentre i sondaggi rianimano il partito e il tempo restituisce all'ex sindaco Marino la sua innocenza, nel Pd tornano la questione morale e il no giustizia. Il nuovo segretario marca la linea della "fiducia nella magistratura", ma sotto le ceneri cova l'anatema berlusconiano, scrive Thomas Mackinson il 13 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. In Umbria lo scandalo sanità fa saltare la testa del partito, con l’arresto dell’assessore Luca Barberini e del segretario regionale Gianpiero Bocci, ai domiciliari. Indagata la governatrice Catiuscia Marini. Nicola Zingaretti commissaria, Salvini chiama elezioni subito. Nel fianco del Pd ci sono però anche Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria. Macigni sulla campagna elettorale di un partito uscito un anno fa con le ossa rotte e che ora sta cercando di ricomporsi. Zingaretti tutto poteva aspettarsi, tranne che il banco di prova della sua reggenza delle europee iniziasse a traballare sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Proprio ora che i sondaggi sono in ripresa e il tempo ha restituito a Ignazio Marino, l’ex sindaco di Roma, la patente di estraneità al malaffare degli scontrini  cavalcato dalla corrente capitolina e renziana in ascesa. L’ultima tegola travolge l’Umbria, affare di assunzioni pilotate in sanità che riempie ancora i giornali di episodi e ricostruzioni che – oltre al possibile criminale in senso tecnico – illuminano consuetudini clientelari e dinamiche di potere difficilmente compatibili con il passo che il neosegretario vorrebbe imprimere al partito. Il rapporto con la giustizia, al di là del caso locale, è una variabile importante del suo mandato. Nel Pd che ha eredito cova da tempo una spaccatura profonda sul tema, emersa con più evidenza in occasione dell’indagine a carico dei genitori dell’ex segretario Matteo Renzi, quando qualcuno – ricorda oggi Repubblica – ha rispolverato la formula berlusconiana della “giustizia a orologeria”. Il segretario-governatore sembra indisponibile a seguire questa linea, avendo limitato il suo commento ai fatti di Perugia alla “piena fiducia nella magistratura”.

Basilicata, la débâcle dopo un quarto di secolo. Appena due settimane fa, il Pd aveva subito un storica sconfitta in Basilicata, regione che governava da 25 anni. Determinante l’inchiesta giudiziaria che a luglio aveva portato all’arresto del governatore Marcello Pittella. Sempre storiaccia di concorsi truccati, raccomandazioni e sanità usata come ascensore per ricchezza e potere dei notabili locali del partito e loro amici e parenti. A fine marzo si è votato per il rinnovo del consiglio regionale, Pittella disarcionato dall’inchiesta sulla sanità lucana è tornato in consiglio  forte di oltre 8mila preferenze e la sua lista “batte” quella del Pd. E i suoi ex assessori, indagati, siedono insieme al lui in consiglio.

Puglia, Emiliano e le primarie. In Puglia è finito sotto inchiesta Michele Emiliano per una vicenda legata al finanziamento delle primarie del Pd, quando il governatore sfidava Renzi e Orlando. Per la procura di Bari due imprenditori con interessi diretti sugli appalti della Regione pagarono la campagna elettorale dell’ex magistrato. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio e traffico illecito di influenze alle quali Emiliano si dichiara estraneo.

Calabria, Oliverio tentato dal ritorno. Guai per il Pd anche in Calabria dove è indagine anche il presidente della Regione, Mario Oliverio. Per lui era stato disposto l’obbligo di dimora, misura però annullata a marzo dalla Cassazione. L’indagine riguarda presunte irregolarità in due appalti gestiti dalla Regione e per i quali la guardia di finanza, oltre ai presunti reati contestati a Oliverio, per gli altri indagati aveva riscontrato quelli di falso, corruzione e frode in pubbliche forniture. Dopo più di tre mesi, il presidente Oliverio torna libero con un provvedimento della Cassazione che, a questo punto, potrà sfruttare anche in chiave politica: siamo agli sgoccioli della legislatura, presto si tornerà a votare per le regionali e ha intenzione di ricandidarsi nonostante le perplessità di parte del Pd calabrese.

Il terremoto delle inchieste in Abruzzo. In Abruzzo proprio due giorni fa il tribunale dell’Aquila ha disposto l’archiviazione della posizione dell’ex presidente regionale Luciano D’Alfonso, oggi senatore dem. L’inchiesta era uno dei filoni seguiti dalla procura della Repubblica dell’Aquila sugli appalti della Regione: tra i principali, la gara per l’affidamento dei lavori di ricostruzione di palazzo Centi, sede della giunta regionale all’Aquila. Il primo di ottobre però si terrà l’udienza preliminare per un’altra vicenda in cui rischia il processo, quella della Procura di Pescara su una delibera di giunta del 2016, avente come oggetto la riqualificazione e la realizzazione del parco pubblico Villa delle Rose di Lanciano (Chieti) con le accuse di falso ideologico, per aver falsamente attestato, stando all’accusa, la presenza del governatore in giunta.

Virus manettaro: Zingaretti, tu quoque. Il caso Marino non ha insegnato nulla al Pd, scrive Angela Azzaro il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. Katiuscia Marini, pur smentendo di aver ricevuto pressioni per dimettersi, non ha potuto non porre la questione del giustizialismo interno al Pd. Il nuovo corso di Zingaretti faceva bene sperare, ma la delusione è stata quasi immediata. Ancora una volta i dem per inseguire i Cinque stelle sulla cosiddetta questione morale, diventano ancora meno garantisti di loro. Luigi Di Maio, con l’eccezione di Marcello De Vito, ha difeso i suoi colpiti da un avviso di garanzia o rinviati a giudizio. Il Pd no. Eppure c’è stata la recente lezione di Ignazio Marino, costretto a dimettersi dopo le vicende giudiziarie. Ora che è stato assolto, tutti a dire che Renzi e Orfini avevano sbagliato, che avevano regalato Roma ai Cinque stelle, che la questione garantista deve essere centrale. Qualche giorno dopo, quello che valeva per Renzi e per Orfini, sembra non valere per Zingaretti che può facilmente lasciare sola una sua capace amministratrice, senza far pesare il sacrosanto principio della presunzione di innocenza. Non si tratta di difendere questo o quella, ma di far valere un valore fondamentale e di chi capire che un nuovo centrosinistra ( se questa è la sfida di Zingaretti) non può che ripartire tagliando i ponti con la cultura giustizialista che da anni intossica la vita politica italiana. Invece ancora una volta prevale la logica di sacrificare lo stato di diritto sull’altare del capro espiatorio e della gogna. Ma così non si vince.

Cacciari: «Il giustizialismo dei dem è iniziato con Tangentopoli». Intervista al filosofo: «Zingaretti sfidi i grillini sul loro terreno con proposte vere non demagogiche, inizi dal lavoro», scrive Riccardo Tripepi il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. Lo scandalo che ha azzerato la giunta regionale dell’Umbra pone nuovamente al centro dell’attenzione la difficoltà per le amministrazioni pubbliche, di ogni livello, di rimare immuni da infiltrazioni e corruzione. Un tema cavalcato dalle forze populiste e giustizialiste, che hanno trascinato anche i partiti tradizionali all’interno dello stesso solco. Il presidente della Regione Catiuscia Marini si è dimessa anche perché abbandonata dal suo partito. Il Pd, tramite il silenzio del segretario nazionale Nicola Zingaretti e gli affondi di altri suoi componenti, come Carlo Calenda, ha consegnato un messaggio chiaro alla Marini che ha parlato di una sorta di deriva giustizialista alla quale i democrat si sarebbero abbandonati. Il filosofo Massimo Cacciari offre la sua visione dell’attuale fase politica provando ad allargare lo sguardo oltre la mera cronaca.

«Quanto avvenuto in Umbria non cambia niente nella sostanza. Scandali di questo genere sono all’ordine del giorno in Italia, ma ci si ostina a non capire che non è una questione di corrotti, ma una questione di sistema. Fino a quando non lo capiremo, saremo sempre lì ogni giorno a commentare questo o quell’altro malaffare. E’ truccato il sistema dei concorsi, così come quello sanitario. I corrotti ci sono sempre stati e qualche corrotto non ha mai rovinato nessun sistema. Quando è il sistema corrotto, invece, i corrotti proliferano e diventano il tutto. E nessuno fa nulla per cambiare le cose».

Perché ciò avviene? Perché nessuno si oppone a questo stato di cose?

«È evidente che il Paese non intende assolutamente cambiare. Esiste un ceto politico, una elite politica, anche questo governo, che si rifiuta di mettere mano alle vere riforme di sistema che contano. Pertanto non si mette mano alla riforma della pubblica amministrazione, del sistema sanitario, di quello universitario, del sistema degli appalti, così come non si fa nulla per la qualificazione dei pubblici amministratori. Si tratta di quelle riforme che nessuno affronta e che nessuno ha mai affrontato oppure che quando sono state affrontate, ciò è avvenuto dall’alto e non dal basso. Partendo dai Senati e dalle Camere e non dall’osservazione di quello che non funziona. Questo è un sistema corrotto nel senso di rotto, è un sistema che non funziona più».

Crede che il Pd abbia affrontato male la vicenda umbra?

«Non si tratta del Pd. Una volta è un partito e un’altra volta un altro. E un rincorrersi continuo di strumentalizzazioni davanti ad episodi che dipendono dal sistema».

Non ravvede quindi una deriva giustizialista del partito?

«Ma quando mai. Ne mandano via uno, ne espellono un altro. E’ uguale in ogni partito e poi il Pd va avanti su questa linea da tempo. Per 20 anni ha fatto così contro Berlusconi facendo poco altro. Non mi pare che ci siano grandi novità: si continua inutilmente ad inseguire la cronaca in modo ossessivo e il centrosinistra lo fa dai tempi di Tangentopoli».

Si tratta di un modo di fare che andrebbe rivisto?

«Come fa a essere rivisto? Le forze politiche sono costrette a inseguirsi sullo stesso terreno criminalizzandosi a vicenda. Non può essere rivisto da nessuno. Chi dovesse farlo verrebbe accusato di chissà cosa da tutti gli altri. E proseguendo così non si capirà mai che non si tratta di qualche criminale, ma del sistema».

Così però diventa difficile per il Pd costruire un’alternativa al populismo…

«Non per questo motivo di sicuro. Le possibilità di attaccare politicamente questo governo sono nelle capacità dall’altra parte di elaborare una strategia politica ed esprimere un gruppo dirigente decente. Per il momento non ce ne sono tracce».

Cosa dovrebbe fare dunque Zingaretti?

«Dovrebbe su alcuni temi propri della tradizione della politica di centrosinistra, come il lavoro, elaborare proposte vere non demagogiche in contrapposizione ai Cinque Stelle, ma sul loro terreno. Proposte che siano più credibili ed efficaci, più di governo. Poi dovrebbe avviare un grosso discorso europeista con gli altri partiti europei di questa ispirazione, con un programma davvero credibile di riforma radicale dell’Unione europea con nuove politiche economiche. Dovrebbe poi presentare un gruppo dirigente vero al più presto, così come c’è stato in tutti i partiti che hanno funzionato. Se invece si continua a mettere insieme i Calenda da una parte e i Bersani dall’altra dove vuole che si vada?»

Si aspetta quindi una bocciatura alle europee?

«Non credo che andranno male. Secondo me il Pd prenderà di più che alle ultime politiche. Magari si avvicinerà al 20% o riuscirà a battere di un soffio i Cinque Stelle che sono in rotta totale e potrà anche dire di aver avuto successo. Ma si tratterà di una vittoria di Pirro perché Zingaretti non sta creando un gruppo dirigente alternativo a quello renziano».

Immagina invece che il voto di maggio possa avere effetti sulla tenuta del governo nazionale?

«Soltanto se Salvini dovesse avere un exploit formidabile. Con la Lega al 35% potrebbe puntare a nuove elezioni per formare un governo monocolore con le altre forze del centrodestra. Farebbe partire un’opa nei confronti di Forza Italia cui nessuno potrebbe resistere».

Riuscirà la Lega ad arrivare a una percentuale così alta?

«Al momento ne dubito. Non tanto per l’azione del governo, ma perché credo che un certo settore dell’elettorato della Lega non digerisca certe alleanze di Salvini o certe sue uscite, come quelle pro Putin. Non è che queste cose piacciano molto all’elettorato del Nord- Est o ai governatori che sono in grande sofferenza. Credo che molti voteranno in modo prudente».

Renzi: «Infamie su di me». E querela tutti: Pelù, Trenta, Vissani, D’Eusanio. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Corriere.it. Matteo Renzi chiede i danni. Lo annuncia lui stesso nella sua enews: «Avevo promesso di iniziare a chiedere i danni per le infamie che ho ricevuto in questi anni. E vi avevo garantito che vi avrei tenuti informati», scrive, facendo proprio l’elenco. «I primi dieci atti formalmente predisposti oggi», riporta l’ex premier, «sono contro: 1) Piero Pelù per avermi definito in diretta tv al concertone “boy-scout di Licio Gelli”; 2) Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio tv; 3) Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi “ad cognatum”; 4) la giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa “di un porto aperto da Renzi”; 5) lo chef Vissani per avermi definito “peggio di Hitler”; 6) la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in tv; 7) il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; 8) Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di stato; 9) Panorama, sulla vicenda Paita - alluvione di Genova; 10) chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche». «Ovviamente è solo l’inizio», annuncia infine l’ex presidente del Consiglio, che invita i suoi sostenitori a inviare ulteriori segnalazioni che, promette, saranno trasmesse «agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti», conclude. Le schermaglie giudiziarie avviate dall’ex premier o dalla sua famiglia hanno già portato a dei risultati. In precedenza, era stato il padre Tiziano, a metà dello scorso ottobre, a vincere una causa civile per diffamazione intentata nei confronti del Fatto Quotidiano. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli», aveva spiegato l’ex segretario del Pd, «oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95 mila euro: è solo l’inizio. Il tempo è galantuomo. Niente potrà ripagare l’enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Tiziano Renzi aveva chiesto un totale di 300 mila euro di risarcimento, in relazione agli articoli pubblicati sulla vicenda Chil Post e Mail Service srl. Un mese dopo, ancora Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, è stato nuovamente condannato, al pagamento di 50 mila euro, stavolta per un intervento televisivo a proposito della vicenda Consip. «Condannato due volte nel giro di un mese (...) La verità prima o poi arriva. Il tempo è galantuomo», era stato il commento di Matteo.

Da Imola Oggi il 17 aprile 2019.  Matteo Renzi dà seguito all’annuncio di una serie di querele e risarcimenti danni “per le infamie che ho ricevuto in questi anni”, e nella newsletter inviata ai suoi sostenitori elenca “i primi dieci atti formalmente predisposti oggi”. I destinatari sono “Piero Pelù per avermi definito in diretta TV al concertone ‘boy-scout di Licio Gelli’; Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio TV; Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi ‘ad cognatum’; la giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa ‘di un porto aperto da Renzi’; lo chef Vissani per avermi definito ‘peggio di Hitler”; la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in TV; il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di Stato; Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova; chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche”. E promette: “Ovviamente è solo l’inizio”, invitando i suoi sostenitori a mandare “ulteriori segnalazioni” che “saranno passate agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti”.

Matteo Renzi, la vignetta di Vauro che ridicolizza l'ex premier: la farsa sulle querele, scrive il 18 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Renzi querela tutti". "Querela pure sto c***", dice l'omino della vignetta. Risponde lo stesso "membro" maschile, che mette le mani avanti: "Zitto, che quello è capace di farlo per davvero". Così Vauro sul Fatto Quotidiano mette alla berlina l'ex premier che ha fatto nomi e cognomi di chi querela per le "infamie" subite. "Avevo promesso di iniziare a chiedere i danni per le infamie che ho ricevuto in questi anni. E vi avevo garantito che vi avrei tenuti informati". Lo scrive Matteo Renzi nella enews spiegando di aver predisposto "i primi dieci atti" che sono contro: "Piero Pelù per avermi definito in diretta TV al concertone boy-scout di Licio Gelli; Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio TV; Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi 'ad cognatum'". Ed ancora: "La giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa 'di un porto aperto da Renzi'; lo chef Vissani per avermi definito 'peggio di Hitler'; la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in TV; il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di stato; Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova; chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche". "Ovviamente è solo l’inizio: qualsiasi vostra ulteriore segnalazione (matteo@matteorenzi.it) sarà passata agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti".

Eboli, capogruppo Pd arrestato per favoreggiamento immigrazione clandestina. Pasquale Infante, capogruppo Pd al Comune di Eboli, è stato arrestato associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestin nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato, scrive Francesco Curridori, Martedì, 19/03/2019, su Il Giornale. Pasquale Infante, capogruppo Pd al Comune di Eboli, è stato arrestato associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato. Infante, secondo la Procura Antimafia di Salerno che conduce le indagini, guidava insieme al marocchino Hassan Amezgha, un'organizzazione “specializzata” nel traffico umano di braccianti agricoli dall’Africa alla Piana del Sele. L'esponente del Pd campano, si legge su Salernotoday, in quanto commercialista avrebbe avuto il compito di mettere in ordine le carte riguardanti lo sfruttamento dei migranti, opera nella quale sarebbe stata anche la sorella Maria Infante che lavora con lui nel suo studio di consulenza. Il gip ha concesso gli arresti domiciliari al piddino campano perché riteneva non vi fossero i presupposti per trattenerlo in carcere. Ora, spetterà a Infante difendersi al meglio da queste accuse onde evitare di 'infangare' il nuovo corso del Pd iniziato con la vittoria di Nicola Zingaretti a segretario del partito.

Nicola Zingaretti subito ko? "Indagato per finanziamento illecito", bomba sul segretario, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A due giorni dalla proclamazione a segretario del Partito Democratico, fonti di Piazzale Clodio rivelano che Nicola Zingaretti è indagato per finanziamento illecito. Stando a quanto riferito dall’Espresso, il presidente della Regione Lazio nonché nuovo segretario del Pd avrebbe beneficiato di erogazioni per la sua attività politica dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, arrestato nel febbraio del 2018, in passato capo delle relazioni istituzionali dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone. Erogazioni, però, di cui i magistrati non hanno trovato traccia al punto che per Zingaretti potrebbe profilarsi presto una richiesta di archiviazione. Nonostante questo, in contemporanea con il comunicato del settimanale in cui si rilanciava l’articolo, dal Movimento 5 Stelle è arrivata una valanga di richieste - da parte di deputati, senatori e anche consiglieri regionali - in cui si ripeteva, in maniera quasi identica, la stessa formula, «è sempre il solito Pd», seguita dalla richiesta di lasciare l’incarico di leader del partito. La notizia dell’inchiesta arriva proprio nel momento in cui il Partito Demcoratico è dato in forte ripresa, al punto da aver superato - per i sondaggisti di Swg - il Movimento 5 Stelle: 21,1% per il Pd contro il 21 dei grillini. Il primo a dichiarare, nel fronte M5s, è il sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano: «Questo sarebbe il nuovo che avanza? Il neo segretario del Pd, Nicola Zingaretti - se venisse confermato quanto riportato da L’Espresso - sarebbe indagato per finanziamento illecito», spiega l’esponente del governo Conte: «Cambiano i segretari, ma gli affari oscuri sembrano rimanere di casa nel Pd.

Saviano: "Le mie parole a processo mentre il ministro scappa". Ho definito il ministro dell'Interno "ministro della Mala Vita". Ribadisco pienamente la mia definizione, ne difendo la legittimità. Salvini, invece, ha deciso di sottrarsi al giudizio, scrive Roberto Saviano il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Sì, confermo la notizia. Verrò processato. Verrò processato per aver definito il ministro dell'Interno "ministro della Mala Vita". Ribadisco pienamente la mia definizione, ne difendo la legittimità e vado con serenità e con certa fierezza a farmi processare. Io, cittadino come tanti, come tutti, sarò processato; il ministro, invece, ha deciso di sottrarsi al processo, seriamente e giustamente spaventato dal fatto che la sua condotta nel caso Diciotti possa farlo condannare. Ha usato lo schermo e il ricatto politico per ottenere l'appoggio del suo alleato di governo, quel M5S che doveva fare da argine ai movimenti xenofobi e che ha finito per essere la loro stampella al Governo. Questo processo che mi vedrà imputato, se non altro, costringerà Matteo Salvini a dire la verità o, quantomeno, a pronunciare sotto giuramento, dinanzi a uno spazio di verificabilità, le sue affermazioni, cosa che fino a oggi non è mai accaduta, trovandosi nel più agevole ambito della propaganda, dove ogni menzogna è manipolata, costruita, seminata sul terreno della bile, della frustrazione di un Paese disorientato da cui sta, per ora, e solo per ora, ricavando consenso. Sono pronto a essere processato per un reato di opinione, cosi potrò ribadire quanto grave sia la strategia che sta portando questa politica a far coincidere lo Stato con il Governo. Le divise continuamente indossate dal ministro, la querela che mi viene fatta su carta intestata - in modo che sia fatta dall'istituzione, dal ministero e non, quindi, da persona privata - mostrano che nella politica da Twitter, nella politica da 280 caratteri, spesso si smarriscono i confini. La strategia è la solita: permettere qualunque libertà d'espressione a chi non fa rumore, a chi si perde nel vociare ininfluente o generico e scegliere di punire e di perseguitare chi, invece, ha una voce che, per qualche ragione, si distingue e si diffonde con eco. E ancora, si preferisce punire per isolare, ed è un'evoluzione intelligente di quello che l'Italia ha già conosciuto nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, con cui fu introdotto il reato di offesa al Duce (e furono 5000 i condannati per questo reato in Italia). Molti, troppi. Ora, non risulti questo un accostamento forzato, perché non è un accostamento. È semplicemente un racconto di come furbescamente, da sempre, si tenda a far passare la critica, anche forte, al potere come diffamazione. Sia chiaro, il reato di diffamazione serve a tutelare chiunque si senta vittima di calunnie, Io stesso vi ho fatto ricorso quando mi sono sentito solo contro il potere dei Tg berlusconiani, contro politici come Maurizio Gasparri, che ha utilizzato la sua carica per evitare il processo. Salvini, lei è un ministro, ma sono fiero di poter testimoniare, con le mie idee, il disprezzo politico e umano che nutro verso di lei e verso il suo partito (storicamente compromesso da una lotta per anni razzistica nei confronti del Sud Italia), verso il suo basso populismo, termine che indica, va ribadito, l'ingannare il popolo mostrando che si sta invece agendo a suo vantaggio. Sono felice di poter esprimere tutto il mio disprezzo verso questa pantomima che avete ingaggiato di voi come popolo al governo che si oppone alle élite, di cui invece siete proprio voi l'espressione più scadente. Chiamate élite tutto ciò che vi critica, che vi sorprende negli errori, che scopre le vostre contraddizioni, e chiamate popolo tutto ciò che vi è supino, fedele alleato. Qual è l'automatismo che renderebbe voi gli unici interpreti del sentire del popolo? Che lo renderebbe esclusivamente rappresentato da questa parte politica? Ecco, è proprio qui che arriva la necessità della querela e l'obbligo che aveva di portarmi in tribunale: cercare di isolare le voci che dissentono, perché il popolo non deve avere un volto, deve dare solo applausi. Non deve dare neanche un consenso ragionato, ma deve dare like, qualcosa di istintuale. E qui c'è l'odio verso gli intellettuali e verso chi pensa, chi scrive, chi racconta, chiamati élite, o al servizio dell'élite, cosa per niente nuova e insolita. E anche in questo si sente una continuità. È da uno dei miei maestri, Gaetano Salvemini, che ho preso l'espressione ministro della Mala Vita, che lui usò per Giovanni Giolitti. Si figuri, ministro, che molti pensano che avrebbe dovuto sentirsi lusingato da questo accostamento, assolutamente improprio per mancanza di spessore, capacità, visione. Nulla di ciò che aveva Giolitti somiglia a ciò che di sé manifesta il nostro ministro dell'Interno. Questo processo dal quale, a differenza di lei, non mi sottrarrei nemmeno se potessi, lo affronterò non solo in difesa di me stesso ma anche di donne e uomini liberi che ragionano, che agiscono, che si battono e che prendono parte. L'odio verso gli intellettuali è da sempre giustificato allo stesso modo, ministro. Gli intellettuali fanno pensare, danno elementi, possono esistere al di là del consenso, mentre un politico senza consenso non ha voti e cade. Gli intellettuali non devono dare dimissioni e, anche se sottoposti a una campagna di delegittimazione e di repressione infinita, l'unico tribunale a cui devono rispondere è quello della loro coscienza e della qualità delle loro opere. Fine. Fanno paura per questo, da sempre e in molte parti di questo mondo, soprattutto quando si allontanano dai territori accademici, quando diventano incontrollabili, quando accade che la loro riflessione diventi dibattito diffuso. Ecco, lì l'intellettuale va fermato, delegittimato, accusato, processato. "Rendere la vita difficile al Gobetti", fu quello che Mussolini telegrafò al prefetto di Torino. Uno dei più grandi intellettuali che la Cina abbia mai avuto, Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace, è stato condannato al lavoro forzato in un laogai. Quindi sono fortunato, perché riesco ancora a scrivere, a guadagnare con il mio lavoro e a pagare i miei avvocati. Nell'incedere che si crede nuovo perché violento, perché nel gesto di ribaltare la tavola c'è una sua bellezza definitiva, quanto è facile poter sintetizzare in una frase la propria rabbia. È stata sempre la fortuna dei totalitarismi, della demagogia, poter in poche parole interpretare un mondo così complesso. E così, pensate di essere nuovi quando definite gli scrittori élite, quando stigmatizzate il sistema delle banche oppure quando date a Soros ogni sorta di responsabilità perché ebreo, perché finanziere. È tutto molto semplice, è tutto molto vecchio, è già successo, già si è visto negli anni '20. Non c'è nulla di nuovo. L'immigrato considerato il male, l'invasore, lo stupratore, colui che porta via il lavoro è una storia che gli italiani lo hanno già subito, come i polacchi, gli irlandesi, i cinesi. Gli ebrei che "strozzano" la vita degli Stati perché sono l'anima oscura nascosta nelle banche, lo spirito finanziario dei massoni. Frasi che si ripetono, concetti che rimbalzano da più di un secolo ormai. Vecchie storie che servono a rendere semplice, scontato il mondo e che permettono quindi anche a una figura mediocre, come quella del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, di poter sembrare un disvelatore di verità. Io vengo mostrato come bersaglio chiaro da colpire, rappresento tutti coloro che hanno con severità e con decisione criticato la politica di questo governo e l'attività di questo ministro. Sento già che sarà una battaglia molto solitaria, come molte fatte in questi anni. Siamo stati in grado (parlo per parte democratica) di essere disuniti, isolati, di credere che la fragilità di chi ci era più vicino potesse aumentare la nostra solidità. Nulla di più stupido. Abbiamo soltanto rafforzato chi da tempo sta sistematicamente compromettendo le conquiste democratiche per un vivere civile e tutto questo gli è permesso perché chi c'è stato prima non ha di un solo passo riformato il Paese. Ma mi fermo. Mi fermo, certo che questo processo sarà un punto di non ritorno per il ministro Salvini. In quell'aula dove ovviamente verrò processato nei tempi infiniti che la giustizia italiana come sempre ha, senza che alcun governante riesca a porci rimedio, sono certo che qualunque sarà l'esito, per quanto mi riguarda, avrò la certezza di aver preferito quotidianamente combattere contro le menzogne e le manipolazioni di questo ministro, che aver invece cercato, in maniera imbelle, il suo favore e la sua indifferenza, per continuare una vita tranquilla e una carriera senza inciampi. Matteo Salvini, mentre lei scappa codardamente dal processo sul caso Diciotti, ci vedremo al processo nel quale sarò io l'imputato, ma le assicuro che non mi intimidisce e le prometto che con la parola - l'unico mezzo a mia disposizione - non darò tregua alle sue continue bugie. 

"Buffone", "Ti querelo": scontro tra Saviano e Salvini. L'autore di Gomorra di fatto ha subito puntato il dito contro Salvini per il "no" allo sbarco dei migranti dalla Mare Jonio, scrive Angelo Scarano, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Ancora scontro tra Roberto Saviano e il ministro degli Interni, Matteo Salvini. L'autore di Gomorra di fatto ha subito puntato il dito contro il titolare del Viminale che ha chiuso i porti dopo l'arrivo della Nave Jonio a largo di Lampedusa: "Alla vigilia del voto in Senato sul caso #Diciotti, che salverà il Ministro della Mala Vita dal rischio concreto di finire in carcere, assistiamo al suo ennesimo atto da buffone sulla pelle dei migranti. Grazie Mediterranea Saving Humans per aver salvato 49 persone dal mare e dalle prigioni libiche". Parole durissime quelle dello scrittore che hanno immediatamente riaperto lo scontro con il ministro degli Interni. Salvini ha risposto per le rime: "Noi lavoriamo per gli italiani, lui insulta dandomi del Ministro della Mala Vita e del buffone. Che dite, oltre al bacione gli regaliamo anche una bella querela???", ha scritto su Twitter il ministro degli Interni. Insomma di fatto tra Saviano e il ministro a colpi di botta e risposta si riapre il fronte del dibattito sui migranti. Le scintille tra i due che sono destinate a durare ancora a lungo...

Salvini contro Saviano: “Querela per avermi dato del buffone”. Saviano parla di Salvini come del "Ministro della Malavita" sui social e il Ministro risponde minacciandolo di querela, scrive Giampiero Casoni su cisiamo.info il 20 Marzo 2019. Denuncia nell’aria per Roberto Saviano, a firmarla Matteo Salvini che non ha gradito le ultime considerazioni dello scrittore per cui il ministro dell’Interno, in un post sulla vicenda Ong “Mare Jonio”, aveva definito il titolare del Viminale un “buffone”. “Alla vigilia del voto in Senato sul caso Diciotti che salverà il Ministro della Mala Vita dal rischio concreto di finire in carcere– questo il testo integrale del post – assistiamo all’ennesimo atto da buffone sulla pelle dei migranti. Grazie per aver salvato 49 persone dal mare e dalle prigioni libiche”.

La replica di Salvini. Salvini è parimenti tipo che, sui social non le manda a dire (come l’universo mondo, ormai) e ha replicato a stretto giro di posta sempre on line: “Noi lavoriamo per gli Italiani, lui insulta dandomi del Ministro della Mala Vita e del buffone. Che dite, oltre al bacione gli regaliamo anche una bella querela?”.

Insomma, sul web i due ormai si picchiano come fabbri da tempo e Salvini non rinuncia mai alla strategia di comunicazione in cui l’interrogativo sembra suggellare il patto corale per cui le decisioni lui le prende assieme alle “sua” gente interpellandola. Lo scrittore napoletano dal canto suo non rinuncia mai alle sue formule simbologiche censorie e ormai la faccenda fra i due pare roba da Ok Corral ma in una strada fatta di pixel.

La precedente querela. Già un anno fa le avvisaglie della lotta a colpi di carte bollate e “invio” fra i due: Salvini non gradì il conio dell’espressione, reiterata sul posto di ieri di “Ministro della Malavita” e, impugnando anche la lettura per cui Saviano attribuiva al Ministro intenzioni vendicative nel togliergli la scorta, lo aveva querelato per diffamazione su carta intestata del Viminale, e con gran spolvero mediatico. Ora la nuova minaccia sempre con la questione migranti a fare da sugo concettuale, in un gioco che pare segnato dal filo guida di tappe cicliche e fisse: arriva una nave, Salvini interviene, Saviano lo asfalta, la gente si schiera e Salvini vince come solo i capipopolo bravi sanno vincere nei confronti dei letterati malpancisti. Tutto uguale, tutto fino alla prossima nave.

Quelle strane coincidenze che fanno ancora incrociare giustizia e politica…Con la vicenda del “processo” a Salvini torna a galla la patologia del nostro sistema. Un “male” che risale a prima di Tangentopoli e Mani pulite, scrive Francesco Damato il 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. Per carità, non parliamo di orologi e orologiai. E neppure di calendari, e di chi si annota tutte le scadenze utili a fare gli auguri, o a rovinare la festa di turno. Anche questa volta le coincidenze sono state casuali, o incidentali. Ma, appunto, anche questa volta i passaggi politici si sono sovrapposti, o sono stati sottoposti, come preferite, a passaggi giudiziari, o paragiudiziari. In quest’ultimo modo possono essere chiamati quelli in cui i politici agiscono e decidono come magistrati per competenze loro conferite dalla Costituzione, e non ancora soppresse da chi forse non vedrebbe l’ora di farlo se disponesse in Parlamento dei numeri necessari allo scopo. Il conflitto latente, a dir poco, sin dalla nascita del governo gialloverde sul progetto della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci da Lione a Torino è alla fine esploso, con la “minaccia di crisi” contestata dallo “sbigottito” vice presidente grillino del Consiglio al suo omologo leghista Matteo Salvini, nelle stesse ore della diffusione della notizia di indagini su Silvio Berlusconi per presunta corruzione in atti giudiziari. Che cosa c’entrasse Berlusconi nei venti di crisi soffiati per un po’ sul governo gialloverde, sino alla sopraggiunta soluzione dilatoria dei bandi a lungo corso per gli appalti, lo avevano spiegato gli stessi grillini, volenti o nolenti, quando avevano contestato la posizione di Salvini a favore della Tav sfidandolo a “tornare” dal Cavaliere. Che Di Maio in persona aveva rappresentato, secondo i giorni o le ore dei suoi incubi, come il ministro degli Esteri, o dell’Economia, o della Giustizia di un governo di centrodestra, forse già prima e senza elezioni anticipate, presieduto da un Salvini tornato appunto all’ovile. In verità, c’era già un’ampia letteratura retroscenista che dava Salvini contrario o quanto meno refrattario all’idea di rimettersi a livello nazionale con Berlusconi, relegato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso ad alleato locale, o periferico. Ma evidentemente essa non era bastata a rasserenare Di Maio e a risparmiargli nelle riunioni con i compagni di partito inquieti, o addirittura smaniosi di rompere con Salvini, la rivendicazione del ruolo di “argine” attribuitosi rispetto al fantasma di un Cavaliere addirittura guardasigilli, con tutti i problemi, vecchi e nuovi, che costui ha con la giustizia. Secondo Michele Serra, sulla Repubblica, Berlusconi sarebbe un uomo ormai chiaramente "al tramonto", tanto che sarebbe praticamente caduta nel nulla la notizia sulle sue presunte manovre per strappare al Consiglio di Stato tre anni fa una sentenza a favore di una consistente partecipazione a Mediolanum, contestatagli invece dalla Banca d’Italia perché condannato per frode fiscale. Troppo ingenuo, direi, il buon Serra. Era invece bastato e avanzato che la notizia delle indagini su Berlusconi per la sentenza del Consiglio di Stato comparisse sulle agenzie, sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei telegiornali perché le cronache politiche sulla Tav e sull’avvicinamento alla crisi di governo si tingessero ulteriormente di giallo. E si moltiplicassero dietro l’angolo o nel "buco" della montagna tanto contestato in Val di Susa sospetti, congetture e quant’altro sul minore o maggiore potere contrattuale derivante a Salvini nella partita con Di Maio, e viceversa, dalla nuova o rinnovata vicenda giudiziaria del Cavaliere. E si facessero spallucce alla convinzione espressa, magari a ragione, dai difensori di Berlusconi sull’esito delle indagini scontato a favore del loro assistito, tornato intanto alla piena agibilità politica tanto temuta dal vice presidente grillino del Consiglio guardando ben oltre la candidatura del presidente di Forza Italia al Parlamento Europeo nelle elezioni di fine maggio. D’altronde, è appena fresco di stampa l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Serain cui si immaginano elezioni anticipate, all’esaurimento della ennesima tregua, destinate a produrre “un quadro movimentato dalla ritrovata libertà d’azione dei 5 stelle nuovamente partito di lotta, da una sinistra che ha ritrovato la baldanza e da qualche inchiesta giudiziaria” capace di disturbare il centrodestra a trazione leghista destinato a uscire vincente dalle urne. Così “il nuovo quadro – ha scritto il nient’affatto sprovveduto Mieli a fatica potrebbe presentarsi come più stabile di quello attuale”. Nel culmine delle polemiche sulla “testa dura” rivendicata da Salvini contestando anche i ‘ forti dubbi e perplessità’ espressi pubblicamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla “convenienza” della Tav, o della sua versione maschile, Di Maio non aveva soltanto commesso la gaffe istituzionale di anteporsi al capo del governo – “Io e Conte” per definire minoritaria la posizione dello scomodo e cocciuto ministro dell’Interno. Egli aveva anche ricordato a quest’ultimo – casualmente, per carità, in attesa del voto del 20 marzo nell’aula del Senato sulla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processarlo per la vicenda della nave “Diciotti”, con l’accusa di sequestro aggravato di oltre 170 immigrati, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora- che “avremo problemi in futuro” insistendo a reclamare la Tav. “Problemi in futuro”, ripeto. Un no al processo a Salvini per l’affare "Diciotti" è stato già espresso dalla competente giunta del Senato, presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, col concorso dei componenti grillini dopo una consultazione digitale dei militanti del movimento delle cinque stelle. Ma non è per niente scontata, nelle nuove condizioni politiche createsi con gli sviluppi delle polemiche sulla Tav, neppure dopo la frenata sulla crisi compiuta ricorrendo all’espediente degli appalti con la clausola della dissolvenza incorporata, un’automatica ripetizione del voto e/ o degli schieramenti della giunta nell’assemblea di Palazzo Madama. Dove è richiesta la maggioranza assoluta, i numeri della coalizione gialloverde, già striminziti alla partenza del governo, si sono ulteriormente ridotti con alcune espulsioni di dissidenti dal gruppo pentastellato e permangono resistenze, sempre fra i grillini, alla linea contro il processo a Salvini espressa a pur larga maggioranza – 59 per cento contro 41- dalle tastiere dei computer collegati con la “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio. Certo, Salvini potrà contare, sul piano personale come senatore e sul piano politico come leader leghista, anche sui voti dei gruppi che rappresentano in Parlamento i partiti di Berlusconi e di Giorgia Meloni, forse più che sufficienti a colmare i dissensi grillini combinati con l’opposizione targata Pd. Che è pregiudizialmente schierata in tutte le sue anime o correnti con la richiesta della magistratura di turno. Pregiudizialmente, perché persino l’ex segretario del partito Matteo Salvini, il senatore di Scandicci che voleva una volta ripristinare il primato della politica sulla magistratura, ha avuto questo approccio dichiarato pubblicamente con la pratica Salvini: “Mi riservo di leggere bene le carte per votare sì al processo”. O, come imporranno le procedure, no alla proposta della giunta di rifiutare l’autorizzazione ai giudici di Catania. Naturalmente nel caso di un no del Senato al processo a Salvini condizionato dai voti forzisti o, più in generale, di un centrodestra pienamente riesumato, avremmo un rovesciamento della maggioranza di governo, con tutte le conseguenze prevedibili, o magari senza conseguenze, come potrebbe anche accadere in una situazione politica così anomala e imprevedibile quale è diventata da tempo quella italiana. Ma ciò avverrebbe – questo è il punto accennato all’inizio di queste riflessioni- all’incrocio fra iniziative politiche e giudiziarie, o paragiudiziarie, com’è l’intervento del Senato attivato costituzionalmente dall’azione della magistratura. Se questa non è una patologia ormai del sistema, risalente a molti anni fa, persino a prima dello spartiacque comunemente considerato di Tangentopoli, o "Mani pulite", ditemi voi come si debba o possa definire.

La sinistra non perde il vizietto antico degli attacchi ad personam: ieri Berlusconi, oggi Matteo Salvini. È l’immancabile delegittimazione morale dell’avversario. E questo resta il tarlo del peggior moralismo e dell’arroganza culturale. Oggi tocca subire al vicepremier, scrive Giorgio Merlo il 13 Marzo 2019 su Il Dubbio. C’è poco da fare. Il vecchio detto che “il lupo perde il pelo ma non il vizio” è sempre attuale e dietro l’angolo. Ce lo hanno ricordato alcuni commentatori politici a proposito della strategia del segretario del Pd, Zingaretti. Un partito che, dopo aver predicato, praticato e condotto un feroce antiberlusconismo per svariati lustri – condotto prevalentemente dalla sinistra con il relativo cambiamento delle sigle dei partiti nel corso degli anni – adesso ha individuato il suo nemico mortale nel segretario della Lega e vice Premier Matteo Salvini. Ogni giorno assistiamo, infatti, ad una serie infinita di stilettate polemiche e personali contro il “salvinismo” e il suo leader, accusati di incarnare tutto il male possibile della politica contemporanea. È il solito, e ben noto e collaudato, vizio della sinistra e di tutto il caravanserraglio che la accompagna. Ovvero, accanto al seppur e scontato attacco politico, l’immancabile delegittimazione morale dell’avversario. E questo resta il tarlo del peggior moralismo e dell’arroganza culturale che da sempre animano gli esponenti che storicamente provengono dalla filiera del Pci/Pds/Ds ma che, purtroppo, ha avuto una deriva pericolosa e scivolosa negli ultimi tempi. Un comportamento che conosciamo da tempo, per non dire da sempre appunto. È appena sufficiente ricordare gli attacchi violenti, smisurati e senza remore che venivano scagliati dai principali dirigenti del Pci contro alcuni statisti democristiani. Per esperienza diretta, ne ricordo uno su tutti: Carlo Donat- Cattin, di cui in questi giorni si svolgerà la commemorazione in Parlamento. E non per le vicende drammatiche che dovette subire nei primi anni ‘ 80 ma anche, e soprattutto, come ministro della Sanità per le sue concrete scelte politiche. Tuttavia, per tornare all’attualità, con l’attacco a testa bassa, smisurato e violento, contro Salvini e il salvinismo come interpreti del male assoluto della politica italiana, si rischia di produrre lo stesso effetto che ebbe la crociata contro Berlusconi condotta a partire dall’inizio degli anni ’ 90 per oltre 20 anni. Con altri argomenti, com’è ovvio, ma con lo stile immutato nella sostanza. E quindi, con un misto di attacco politico, delegittimazione morale e critica personale. Il tutto condito con le ormai note accuse sul “ritorno del fascismo”, la “regressione autoritaria”, la “minaccia eversiva” e stupidaggini varie. Infine, e per arrivare al vero punto politico – e condivido, al riguardo, l’esortazione dell’ex direttore della Stampa Marcello Sorgi – forse sarebbe opportuno che il nuovo segretario del Pd Zingaretti, anche se è un interprete coerente ed ufficiale della cultura e della prassi comunista, invertisse un po’ la rotta. E cioè, prima di lanciarsi nei soliti slogan e negli ormai consueti attacchi politici, morali e personali contro l’avversario da distruggere, si soffermasse un po’ di più sul progetto politico che intende declinare dopo il disastro e la voragine in cui è precipitata la sinistra in questi ultimi tempi. Perché non saranno più sufficienti gli altrettanto noti e conosciuti “appelli” dei testimonial progressisti. Tra l’altro, sempre tutti milionari, elitari, aristocratici e alto borghesi. No, deve ritornare protagonista la politica perché una credibile e seria alternativa politica e di governo al centro destra non passa più solo e soltanto attraverso l’attacco personale, la delegittimazione morale e la violenza verbale della polemica politica contro l’avversario prescelto. Adesso serve di più. Anche per un bravo professionista della politica come Zingaretti.

Nicola Zingaretti, rispunta l'audio durante il processo Mafia Capitale: "Ho preso contributi da Buzzi", scrive il 9 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il nome del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, torna a circolare sui social associato al processo Mafia Capitale dopo il trionfo alle primarie del Pd che lo hanno eletto nuovo segretario. Nel corso del processo in cui era imputato Salvatore Buzzi, Zingaretti aveva ammesso: "Da lui ebbi un finanziamento di 5mila euro durante la campagna elettorale per le Regionali del 2013. La raccolta era aperta a tanti e raggiunse quasi un milione di euro. È tutto regolarmente documentato agli atti". Sui social le parole di Zingaretti tornano a risuonare, aggiungendo nuovi dettagli sul passato del segretario dem, finora poco noto agli elettori fuori dalla sua regione. "Conoscevo Buzzi - aveva detto in aula Zingaretti - era il promotore di una forma imprenditoriale che si era presentata a Roma come esperienza di riscatto di ex detenuti attiva nel settore sociale. L'ho incontrato più volte in occasioni pubbliche, anche se, nella mia esperienza di presidente della Provincia prima e della Regione poi, non sono mai stato alla guida dell'amministrazione con cui lavorava di più, ovvero il Comune".

Quell'audio su Mafia Capitale che ora imbarazza Zingaretti. Sul neo segretario del Pd pende un'accusa di falsa testimonianza per le dichiarazioni in Aula su Buzzi, scrive Felice Manti, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Il fantasma di Mafia Capitale sta turbando il sonno del nuovo segretario del Pd. Nicola Zingaretti aspetta con ansia la decisione del gip del tribunale di Roma che deve decidere se archiviare o meno l'inchiesta che vede l'ex presidente della Provincia e governatore del Lazio accusato di aver reso falsa testimonianza al processo che ha condannato l'ex Nar Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, ras delle coop rosse che faceva affari sull'immigrazione e finanziatore ufficiale del Pd e dello stesso Zingaretti. Finora il successore di Matteo Renzi l'ha fatta franca: è stato accusato di corruzione per una mazzetta a un collaboratore che sarebbe servita a finanziare la sua campagna elettorale da presidente della Provincia di Roma e per la compravendita di una sede della stessa Provincia. Poi è stato sfiorato dall'indagine sulla turbativa d'asta con al centro una storiaccia legata alla gestione della gara per il servizio Cup bandita nel 2014 dalla Regione Lazio. I tre filoni d'indagine sono finiti nel nulla con la richiesta di archiviazione avanzata il 5 ottobre 2016 dalla procura e accolta dal gip Flavia Costantini il 7 febbraio 2017. Zingaretti era stato chiamato in causa da Buzzi negli interrogatori resi ai pm. Ma per la Procura quelle accuse de relato non erano sufficienti per costruire un'ipotesi accusatoria. Ad accusare Zingaretti di falsa testimonianza erano stati gli stessi giudici della decima sezione penale del tribunale che avevano condannato Buzzi e Carminati. Secondo le toghe i pm avrebbero dovuto verificare se Zingaretti e un'altra ventina di testimoni sfilati nell'aula bunker di Rebibbia avessero reso in udienza dichiarazioni false o reticenti su alcune circostanze. In effetti ad ascoltare alcuni stralci della sua deposizione, in cui Zingaretti viene interrogato dagli avvocati di Buzzi come teste in favore della difesa del ras delle coop rosse si capisce perché i giudici l'hanno giudicata reticente. Al tempo se ne era accorto anche Alessandro Di Battista che aveva rilanciato il file audio sul Blog delle stelle, ricomparso magicamente in questi giorni su alcune pagine Facebook vicine a M5s. Nel file audio che dura 6 minuti circa si sente Zingaretti ammettere di aver ricevuto finanziamenti da Buzzi, parla di un editore «amico» a cui la Provincia ha dato diverse migliaia di euro e della famigerata gara per il bando del Cup, vinta da un imprenditore che guarda caso aveva finanziato lo stesso Zingaretti. Le risposte incerte avevano convinto i giudici che qualcosa non tornasse in quella deposizione: a proposito di Zingaretti, il tribunale - stando alle motivazioni - scrive che «ha reso testimonianza (richiesta dalla difesa di Buzzi) escludendo radicalmente e con indignazione qualunque contatto con chiunque per la gara Cup, di cui si sarebbe occupato solo a livello di indirizzo politico nella fase della programmazione. E tuttavia tali dichiarazioni non risultano convincenti». Ora la palla passa al gip. Insieme al leader Pd sono finiti diversi esponenti di peso del Pd come la responsabile nazionale del Pd al Welfare e Terzo Settore Micaela Campana e l'ex viceministro all'Interno Filippo Bubbico. Su di loro si decide il 18 marzo.

L'archiviazione-lampo che salvò Zingaretti dai guai di Mafia capitale. Dopo l'audio, tornano a far discutere le accuse del ras delle coop Buzzi sui finanziamenti, scrive Felice Manti, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Accuse de relato, senza riscontri oggettivi. Così i pm della Procura di Roma avevano motivato l'archiviazione della posizione di Nicola Zingaretti nella storiaccia sulla gara per il Centro prenotazioni unico del Lazio del 2014. È ai pm Paolo Ielo e Michele Prestipino che Salvatore Buzzi, re della coop rossa al centro dell'inchiesta Mafia Capitale per cui è stato condannato insieme all'ex Nar Maurizio Carminati, vuota il sacco in carcere. Rivelando l'indicibile accordo tra la e la sinistra Pd e l'opposizione - rappresentata dall'ex consigliere comunale Luca Gramazio, figlio di Domenico - per la spartizione del numero unico della sanità romana. Circostanza a cui i pm credono, tanto è vero che nel tritacarne finisce Maurizio Venafro, braccio destro di Zingaretti e suo capo di gabinetto quando l'attuale segretario Pd era presidente della Provincia di Roma. Gramazio per lungo tempo è rimasto l'unico politico di Mafia Capitale in cella anche prima della condanna. Da tutta la vicenda Venafro è uscito libero, ma con le ossa rotte. Ma secondo Buzzi era solo un tramite. Così dice ai magistrati: «Gramazio va da Zingaretti e gli dice: L'opposizione sono io e Zingaretti lo rassicura: Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro, ci penso io con Venafro. Da quel momento in poi si parla solo con Venafro. Che gli dice: Mi ha trasmesso la cosa il presidente, quindi stai tranquillo uno (lotto, ndr) è il tuo. Quale vuoi?. E noi gli diciamo: Vogliamo il 4, invece poi ci danno il 3, insomma uno dei due più piccolini», come rivela Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera. Circostanze su cui, secondo il legale di Buzzi Alessandro Diddi, forse non si è ancora indagato abbastanza. Sta di fatto che Venafro e Gramazio passano sotto le forche caudine del processo, invece le accuse contro Zingaretti non sembrano sufficientemente documentate tanto da andare avanti. Eppure si parla anche di soldi. Soldi che sempre secondo il creatore della coop «29 giugno» sarebbero transitati da Peppe Cionci, che per Buzzi è «l'uomo di Zingaretti». Zingaretti ammetterà a processo di aver preso soldi da Buzzi «in chiaro» ma le accuse valgono una querela di Venafro e dello stesso Cionci. È lui che secondo Buzzi «tiene le cose economiche di Zingaretti, perché se uno deve fare una campagna elettorale e se deve dare i soldi al comitato di Zingaretti si rivolge a Cionci. È un uomo abbastanza conosciuto a Roma». «Per i finanziamenti per Zingaretti?», chiede il pm Ielo. «Esatto», risponde Buzzi, che con la memoria torna al 2008, quando «Zingaretti vince le elezioni provinciali e Luca Odevaine viene nominato capo della polizia provinciale». E chi è Luca Odevaine? Un altro componente del cerchio magico vicino a Zingaretti. Anche lui è una vecchia conoscenza della politica romana che grazie alla sinistra era riuscito a scalare i vertici del Viminale, fino a entrare nel Tavolo tecnico sull'immigrazione. Già vicinissimo a Walter Veltroni, secondo i giudici che l'hanno condannato per corruzione a 6 anni e 6 mesi (la Procura si sarebbe accontentata di 2 anni e mezzo) perché in cambio di mazzette avrebbe favorito Buzzi e il Mondo di mezzo attraverso la rivelazione di informazioni riservate e la decisione di dirottare i flussi dei migranti che sbarcavano a migliaia nelle coste italiane verso le coop vicine a Mafia Capitale ma anche al Cara di Mineo, centro di accoglienza recentemente sgomberato dal Viminale. Di Odevaine Buzzi parla in merito a una vicenda, anche in questo caso appresa de relato, in cui si ipotizza che la sede della Provincia di Roma fu comprata da Parnasi. L'imprenditore che oggi è finito nei guai per lo stadio di Roma e i rapporti con Campidoglio, Lega, M5s e guarda caso il Pd. Ma non ditelo a Zingaretti.

Giorgia Meloni, colpo mortale a Saviano: "Tu condannato...". Ego massacrato, scrive il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "A Propaganda live Saviano si vanta di essere stato invitato da me ad Atreju. Confermo". Giorgia Meloni commenta le parole dello scrittore su La7, che ha raccontato contatti passati con il leader di Fratelli d'Italia. "Anni fa lo invitai, come ho invitato molte persone delle quali non condivido le idee, da Boldrini a Fico. Lo feci quando pensavo che Gomorra fosse farina del suo sacco (e quando Saviano non ci faceva continuamente la morale su temi dei quali non capisce nulla)". Poi la Meloni sfodera il colpo mortale: "Poi ho scoperto che era stato condannato in via definitiva per plagio a risarcire i giornalisti dai quali aveva copiato degli articoli e quest'anno ho invitato loro". Colpito e affondato?

“Diffamò un imprenditore senza pubblicare la rettifica”, condannato Roberto Saviano, scrive lunedì 13 agosto 2018 Secolo d’Italia. Roberto Saviano è stato condannato (insieme con la casa editrice Mondadori) per non aver rettificato il passaggio del libro Gomorra in cui si legge che Vincenzo Boccolato, in realtà imprenditore incensurato che vive all’estero, fa parte di un clan camorristico con un ruolo apicale in un traffico di cocaina. Lo scrittore e la casa editrice ono stati condannati a versare in solido 15 mila euro allo stesso imprenditore diffamato e già risarcito con 30 mila euro quattro anni fa per via di una sentenza diventata definitiva. Saviano dovrà anche pagare le spese processuali, come si evince dall’ordinanza. Lo rendono noto gli avvocati Alessandro Santoro, Sandra Salvigni e Daniela Mirabile, legali di Boccolato, precisando che il provvedimento, depositato una settimana fa, è stato firmato dal giudice della prima sezione civile di Milano Angelo Claudio Ricciardi.

Saviano condannato per un passaggio del libro “Gomorra”. L’aspetto clamoroso della vicenda è che Saviano e la casa editrice di Segrate non hanno deliberatamente adempiuto alla prima sentenza. Nonostante la precedente condanna hanno infatti ritenuto di continuare a ristampare la stessa edizione, dal 28 novembre 2013, data della sentenza di primo grado, al gennaio 2016, senza depurarla delle espressioni diffamatorie. Per il giudice le riedizioni del best seller, con il passaggio “incriminato”, sono da ritenere un «nuovo illecito diffamatorio» con «caratteristiche del tutto analoghe a quelle già accertate in sede civile» non essendo stato «tempestivamente provveduto all’adozione delle necessarie precauzioni a tutela della reputazione del Boccolato». Precauzioni che andavano individuate tra due opzioni: o eliminare le affermazioni ritenute “dannose” sotto il profilo patrimoniale e non patrimoniale per l’imprenditore oppure aggiungere una postilla per informare i lettori della sentenza di condanna di qualche anno fa. Ma nessuna delle due opzioni è stata presa in considerazione da Saviano. Lo scrittore che, solitamente interviene tempestivamente su ogni tema di attualità, ancora non ha commentato la sentenza né sui giornali né tantomeno sui Social.

·         Il Marco Travaglio manettaro.

Dagospia il 27 novembre 2019. Marco Travaglio, la cena con Giuseppe Conte, il suo rapporto coi social, la timidezza e quel Cristiano Ronaldo come vicino di casa. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il direttore del Fatto Quotidiano si è raccontato in una lunga intervista, nella quale ha risposto a domande di ogni tipo, a partire dalla colazione mattutina per finire col suo 'astio' per i piumoni da letto. Con cosa ama fare colazione Marco Travaglio? “Con caffé e le Camille, dei biscotti”. Quanti caffé prende al giorno? “Tre al giorno, colazione, pranzo e cena. E a cena amo bere anche Coca Cola”. In questo periodo lei ama dormire col piumone o ancora con la copertina? “Il piumone non lo utilizzo mai, mi fa schifo. Uso sempre lenzuolo e coperta”. Da' l'impressione di esser molto duro e determinato. E'mai stato un po' timido? “Si, sono timido e lo sono sempre stato. Per esempio quando parlo con una persona lo guardo negli occhi per un attimo e poi, senza accorgermene, mi cala lo sguardo altrove”. In un duello tv con Renzi, il leader di Italia Viva, la 'accusò' proprio di questo. “No, in quel caso guardavo solo dall'altra parte. Ma non era un segno di timidezza: mi dava solo fastidio la sua faccia...” Che rapporto ha con i social network? La sua pagina Facebook ha oltre un milione di fan. “Sono 'asocial' perché non ho tempo. Ringrazio chi mi segue ma la mia pagina è gestita dai social media manager del nostro giornale, che pubblicano le iniziative del Fatto e gli articoli più importanti”. Quindi non si occupa direttamente dei suoi riferimenti social. “Non ho nemmeno la password: se devo mettere un post su Fb dico a chi se ne occupa che gli manderò il contenuto via mail o via messaggio. Ogni tanto guardo i commenti pubblici alla mia pagina e sono commenti che contengono per la maggior parte insulti. Oggi i social network danno spago a questi disadattati che non sanno cosa fare durante la giornata”. Travaglio è ancora un grande tifoso della Juventus? “Si, ma ho perso interesse per il calcio. Però vivo nella stessa strada di Cristiano Ronaldo. Ogni tanto vedo passare i van con i vetri oscurati e immagino che sia lui, dal momento che l’FBI non ha motivo di frequentare il mio quartiere”. Infine ci dica: com'è andata, davvero, la cena col premier Giuseppe Conte in provincia di Viterbo? “Non siamo stati a cena di recente nel senso che abbiamo organizzati una cena, è successa una cosa curiosa”. Quale? “Io avevo il mio spettacolo a Viterbo, due sabati fa. Ma pioveva talmente tanto, anche dentro al teatro, che abbiamo deciso di annullarlo. Ad un certo punto chiama Conte che dice: 'mi state tirando un pacco, io sto arrivando con la mia famiglia per vedere lo spettacolo'. I biglietti se li era comprati su internet, aveva l'ultima fila”. E cosa è successo poi? “Dato che Conte era già arrivato a Viterbo, con suo figlio, la sua compagna e sua sorella, è venuto a cena con me e con tutto lo staff del mio spettacolo. Ecco qual è stata la famosa cena nella quale qualcuno ha voluto vedere che siamo andati a nasconderci nel viterbese. Peccato che c'erano 200 persone, c'era una 'processione' di persone che andavano a farsi i selfie con lui, altro che cena segreta”, ha chiosato Travaglio a Un Giorno da Pecora. “Bruno Vespa? Non mi ha mai invitato, ho questo primato. Avrà fatto 80mila puntate di Porta a Porta ma non ci sono mai stato. Mi leva dall'imbarazzo di dirgli di no quindi sono felice...” A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. “E poi ho un altro record: non sono mai stato a Mediaset”. Non l'hanno mai invitata? “Forse c'è una lista di giornalisti che non possono esser invitati a Mediaset formata da un solo nome: il mio”, ha ironizzato Travaglio a Un Giorno da Pecora. Vauro ha detto in un'intervista che lei talvolta non pubblica le sue vignette, o le pubblica nelle ultime pagine dei giornali. Avete litigato? “No. Capita così anche agli articoli: alcuni vanno in prima pagina, altri dentro, alcuni non li pubblichiamo. I giornali mica sono delle buche delle lettere”.

Bruno Vespa replica a Marco Travaglio: "Dice che non lo invito? Lui abita a casa di Lilli Gruber..." Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Botta e risposta tra Marco Travaglio e Bruno Vespa a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ieri - mercoledì 28 novembre - il direttore del Fatto Quotidiano aveva spiegato di non esser mai stato invitato a partecipare a Porta a Porta. Oggi, intervenuto nel corso del programma condotto da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, non si è fatta attendere la risposta di Vespa: “Non ha mai messo piede nello studio ma ha partecipato a Porta a Porta in collegamento, il 4 dicembre 2016, forse non ha resistito alla tentazione di festeggiare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum. Per noi da allora il 4 dicembre è un giorno indimenticabile, ogni anno in quella data celebriamo il Travaglio Day, ci riuniamo in raccoglimento come fossimo degli apostoli quando il Signore li lasciò e ricomparve sotto mentite spoglie...”. Insomma, una presa in giro perfida. Tra poco sarà di nuovo il 4 dicembre: potrebbe invitare nuovamente il direttore del Fatto Quotidiano. “Ma lui abita a casa di Lilli Gruber, è difficile cambi casa...”, conclude Bruno. 

Marco Travaglio, la replica acida a Bruno Vespa: "Io non sono andato a Porta a Porta, ma..." Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Ultimo atto della querelle tra Marco Travaglio e Bruno Vespa. Il primo lamentava di non essere mai stato invitato a Porta a Porta, il secondo gli ha replicato prendendolo divinamente per i fondelli, come vi abbiamo raccontato qui. E il direttore del Fatto Quotidiano, il giorno successivo, è tornato sulla vicenda. Con tutta l'acredine che lo contraddistingue da decenni. Il punto è che Vespa aveva ricordato come il 4 dicembre 2016, Travaglio, "non ha resistito alla tentazione di festeggiare la sconfitta di Renzi al referendum". Il direttore era ospite in collegamento, come specificato da Vespa. Pacifico? Non per Marco Manetta: "Non sono andato io ospite da lui, è lui che è venuto da me, mandando nel mio ufficio una telecamera. Il Fatto - ha sottolineato - era l'unico giornale ad essere per il no al referendum, non poteva fare una trasmissione senza il no. Comunque sono felicissimo di non essere mai entrato nello studio, mi ha levato dall'impaccio di dover trovare scuse", ha commentato acido. E ancora: "Non mi invita perché sono della famiglia Gruber? Ma non diciamo fesserie, non mi inviterà mai. Lui è in onda da quando neanche esisteva la Gruber", conclude Travaglio.

Dagospia il 29 novembre 2019. Nuovo capitolo del botta e risposta tra Bruno Vespa e Marco Travaglio, sempre dai microfoni di Un Giorno da Pecora. Due giorni fa Il direttore del Fatto Quotidiano aveva detto di non esser mai stato invitato Porta a Porta, dichiarazione smentita ieri dl conduttore del talk Rai secondo il quale Travaglio era stato ospite del suo programma il 4 dicembre 2016. Nella puntata di Un Giorno da Pecora di oggi, Travaglio ha risposto alle 'accuse' di Vespa, con queste parole: “non sono andato a Porta a Porta. E' Vespa che è venuto nella mia redazione, mi ha mandato una telecamera in collegamento, per fare due battute, perché non essendoci altri giornali che si fossero battuti per il no al referendum di Renzi non poteva organizzare un dibattito senza una voce del no. Ma prima dell'esito del referendum parlava solo del si...” Travaglio ha poi aggiunto: “sia chiaro che a me non dispiace affatto non esser mai entrato in quello studio, ne sono ben felice. Almeno mi toglie dall'impaccio dal trovare delle scuse per non andarci”. E se Vespa la invitasse? “Non lo farà mai”. Il conduttore di Porta a Porta ci ha detto che, anche se volesse invitarla, lei fa parte della famiglia di Lilli Gruber, riferendosi alla sua presenza a Otto e Mezzo. “Non diciamo fesserie: lui è in onda con Porta a Porta quando la Gruber non era neanche nata”.

·         Il Davigo Manettaro.

Giulia Bongiorno e legittima difesa, la lezione a Piercamillo Davigo: "Non è licenza di uccidere, ma...", scrive il 24 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Il gesto di Matteo Salvini è pienamente coerente con una nostra battaglia: dimostrare che stiamo dalla parte di chi è aggredito, non di chi aggredisce". Esordisce così Giulia Bongiorno in un'intervista a La Stampa, in difesa del vicepremier che è andato a visitare in carcere Angelo Peveri, finito in galera per aver sparato a un rapinatore dopo l'ennesimo furto. Il ministro della Pubblica amministrazione, insomma, difende a spada tratta la riforma della legittima difesa. "Finalmente avremo una legge che si schiera decisamente a favore di chi è aggredito. La considero di importanza strategica: è un elemento di certezza del diritto e in Italia abbiamo estremo bisogno di certezza del diritto anche per l'economia". Dunque la Bongiorno risponde alle critiche di Piercamillo Davigo alla riforma sulla legittima difesa. "Tanto per cominciare, la norma dice che si tutela chi respinge un aggressore in casa propria. Non è affatto una licenza ad uccidere. È abbastanza chiara la differenza tra i verbi respingere e aggredire? Perciò dissento radicalmente dal dottor Davigo: in questa legge, a volerla leggere, non c'è affatto la legittimazione a sparare alle spalle a un ladro che fugge. Ripeto, anche a beneficio di chi sostiene l'incostituzionalità della norma, come gli esponenti di Magistratura democratica, che la condotta di reagire e respingere chi entra con violenza o minaccia in casa è assolutamente proporzionata alla situazione di pericolo che si crea. Peraltro, valorizzando lo stato d' animo dell'aggredito, di turbamento o di paura, allineiamo la nostra legislazione a quanto prevedono già molti altri Paesi europei", conclude la Bongiorno.

Annalisa Chirico massacra Piercamillo Davigo dopo il delirio manettaro: "Perché ti devi vergognare", scrive il 24 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Un assoluto delirio manettaro, quello di Piercamillo Davigo, secondo il quale chi viene arrestato e poi assolto è un "colpevole che l'ha fatta franca". Parole inaccettabili, soprattutto se pronunciate da un consigliere del Csm. Parole, quelle del Davigo molto vicino al M5s, che scatenano Annalisa Chirico, che rivolge alla toga parole pesantissime. "Oggi il consigliere Csm Davigo rispolvera il suo cavallo di battaglia: chi è arrestato e poi assolto è un ‘colpevole che l’ha fatta franca’. Ditelo alle 26mila persone che dal ‘92 ad oggi sono finite in galera da innocenti. Quasi mille all’anno", conclude. E se non fosse chiaro, la Chirico aggiunge l'hashtag "VergognaDavigo".

«Il popolo decida la galera» e alla Camera scatta la rissa. Il dibattito in Aula degenera sul tema del referendum propositivo, scrive Giulia Merlo il 15 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Mima un ciao con la mano e sorride polemico, «Arrivederci», dice il presidente Roberto Fico al gruppo del Partito Democratico che sta lasciando l’aula. Per tutta risposta, sullo scranno più alto di Montecitorio vola un fascicolo, che prende in pieno una segretaria generale. Un tiro degno da lanciatore del disco partito da mano ignota, invisibile dalle riprese d’aula. Fico si inalbera e sospende la seduta per 5 minuti, salvo poi fare mea culpa appena riprende la discussione: «C’è stata un po’ di tensione, il Pd stava uscendo e veniva sotto i banchi qui salutando. Chiedo scusa al Pd per aver risposto "arrivederci". Mi sono lasciato andare. È stata una mia colpa, un mio errore. Questa presidenza quando sbaglia si scusa». A incendiare d’aula, un figurato tintinnar di manette. Nella fattispecie, il parlamentare grillino Giuseppe D’Ambrosio che mostra i polsi incrociati a mimare i ceppi, in direzione del dem Gennaro Migliore. Il gruppo del Pd, a quel punto, chiede l’espulsione del pentastellato, ma il presidente Fico si limita a un richiamo formale e saluta i parlamentari di minoranza che abbandonano l’emiciclo. Come si sia arrivati al mimare manette in direzione del Pd, però, è il risultato di un dibattito d’aula zigzagante. Tema del giorno è la proposta di modifica costituzionale dell’articolo 71, con l’introduzione del referendum propositivo. La minoranza si scalda sul fatto che, nella proposta di legge costituzionale, tra le materie oggetto di referendum propositivo siano comprese anche le norme penali, pur con un vaglio di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Il tema, sollevato da Pierantonio Zanettin di Forza Italia, accende un dibattito che, però, non verte espressamente sull’emendamento in discussione. «Noi non possiamo affidare i diritti, i diritti individuali e i diritti civili, alla “pancia” del Paese. Capite bene che populismo e demagogia non si sposano con il garantismo, con l’equilibrio dei poteri nei confronti dei soggetti che vengono indagati nei processi penali e ai processi penali. Non possiamo affidare la qualificazione dei reati, le pene edittali, il minimo e il massimo a questo tipo di referendum propositivo e all’iniziativa popolare», dice Zanettin, seguito a ruota sulla stessa tesi dai colleghi dem Andrea Orlando, Stefano Ceccanti e Gennaro Migliore, che iniziano un fuoco di fila nei confronti della relatrice di maggioranza. «La materia penale deve essere sottratta a quella che è l’iniziativa violenta, talvolta, di alcune élite che si propongono come la voce del popolo, perché qui stiamo parlando di una manipolazione bella e buona, cioè quella che avviene costantemente quando la procedura penale si trasferisce nei processi di piazza, quando il diritto viene trasformato in processi sugli editoriali di alcuni giornali, quando l’idea che il giustizialismo possa prevaricare quello che è lo Stato di diritto e le garanzie dei singoli diventa la prassi comune della lotta politica», tuona Migliore. «Colpisce sempre sentire riferimenti così espliciti e forti al tema del popolo, come se ci fosse chi, per grazia ricevuta, stesse dalla parte popolare e altri no. Mi rimanda alla storia, alla storia dell’umanità, proprio chi ha più usato il popolo come argomento politico poi lo ha affamato. Penso ai grandi totalitarismi, penso al peggiore di tutti, al comunismo, che parlava di popolo, salvo poi affamarlo. E poi, cari 5 Stelle, proprio voi parlate di popolo? Ma da chi siete selezionati voi? Da quale popolo? Da un popolo di troll, da un popolo di nerd su un sistema operativo fasullo», rincara la dose il forzista Cattaneo. Di qui il discorso degenera, coi 5 Stelle che replicano duramente: «Io trovo surreale che i rappresentanti del popolo che siedono qui dentro continuino a trattare il popolo come una massa di decerebrati, che non hanno alcun discernimento nel capire e nel decidere di se stessi, senza riuscire ad avere alcun ragionamento etico e civile», ribatte il grillino Ricciardi. Dalla presenza o meno della materia penale tra le ipotesi di referendum propositivo, dunque, si passa al metodo di selezione della classe dirigente. E’ l’intervento del grillino D’Ambosio, tuttavia, che scatena la bagarre: «Mi sembra un dibattito divertente, quasi surreale, a tratti, perché in quest’Aula si parla di preferenze, il PD e Forza Italia parlano di preferenze, e sono proprio i partiti che hanno cancellato da questo Parlamento le preferenze per fare i listini bloccati, nei quali mettere i peggiori parlamentari della vergogna della Repubblica Italiana», e continua: «Voglio ricordare a quest’Aula il nome di Francantonio Genovese, condannato in primo grado a 11 anni, deputato del PD , cacciato dal PD, passato in Forza Italia, che logicamente lo ha accolto a braccia aperte, e che poi candida il figlio, campione di preferenze, indagato dopo due giorni». Poi si volta verso i banchi del Pd e incrocia i polsi, rivolto in direzione di Gennaro Migliore.

·         Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.

Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità. Francesco Storace venerdì 3 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia.  Prendete i popcorn, cari lettori, e leggete questa storia che sembra provenire dall’aldilà della politica. Quando i giustizialisti randellavano la politica e sbattevano i malcapitati in galera. Era quando i Torquemadatuonavano contro l’immunità parlamentare, “rifugio della criminalità politica”. Accadeva quando il popolo esaltava i magistrati in politica. Ebbene, cambia tutto. Agli atti della giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei Deputati c’è un’implorazione firmata Tonino Di Pietro. Ragazzi, ero deputato pure io e ora mi hanno condannato ad elargire un risarcimento di seimila euro a Cuffaro. Impeditelo, voi che ne avete il potere, dice l’ex piemme al Parlamento. Ora, tra i due, il condannato per fatti di mafia e il magistrato senza macchia e senza paura, è il secondo a pregare per l’immunità. Non vuole cacciare un euro.

Totò non aveva screditato Falcone. La gustosa storia che vede Cuffaro dalla parte della giustizia e Di Pietro in quella del condannato riguarda una diffamazione piuttosto pesante. Che si trascina sostanzialmente (anche se non formalmente) dalla bellezza di 28 anni, per la gioia del ministro Bonafede.  Nel 1991 Cuffaro partecipò alla trasmissione Samarcanda di Michele Santoro. Tanti anni dopo, nel 2009, Di Pietro scrisse un articolo sul proprio sito “Vi difendiamo tutti da Cuffaro”. Questi era accusato di aver screditato la memoria del giudice Giovanni Falcone, presente alla trasmissione che era stata straordinariamente gestita in comune da Rai e Mediaset. L’ex pm milanese ripubblicò da YouTube tre video caricati da ignoti nel 2007 per sostenere che Cuffaro l’aveva fatta grossa. Ci furono un mare di commenti e l’ex presidente della Sicilia citò in tribunale civile Di Pietro. Che venne condannato, nel 2013 (!), a risarcire la somma di seimila euro per quel “vi difendiamo tutti”. Ora che la causa è arrivata in Corte d’appello, Tonino torna alla carica e non ne vuole proprio sapere di dare soldi a Cuffaro. E ha quindi chiesto al giudice civile l’immunità parlamentare, in quanto deputato all’epoca dei fatti. E adesso sarà la Camera a dover decidere il da farsi, previa istruttoria della giunta per le autorizzazioni a procedere.

I precedenti sono contro Tonino. La vicenda è davvero significativa. Anche perché con l’immunità parlamentare c’entra come i cavoli a merenda. La giurisprudenza costituzionale ha escluso da tempo che sia sufficiente essere “onorevole” per non pagare mai se c’è una condanna. Perché l’eventuale immunità deve essere “appoggiata” ad un atto parlamentare che preceda il fatto in sé, e non era questo il caso. Se i precedenti valgono, Di Pietro potrebbe essere obbligato a versare sull’unghia i quattrini rivendicati da Cuffaro. E magari con l’aggiunta del costo dei lavori parlamentari che in fondo sono a carico della collettività. Una condanna, anche per un reato grave, non è ragione sufficiente per svillaneggiare una persona, esporla al pubblico ludibrio. E’ una lezione, se sarà confermata, per chi pensa di poter insultare il prossimo dalla mattina alla sera o aizzare il popolo contro l’avversario. Con quei quattrini, l’ex governatore siciliano non si arricchirà di certo e chissà se non gli venga l’idea di festeggiare un verdetto finalmente favorevole a lui a base di buoni cannoli palermitani. Crepi l’avarizia.

·         L’ingiustizia è uguale per tutti.

L’ingiustizia è uguale per tutti. Pubblicato il 20 Febbraio 2019 da INFOSANNIO. (Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Certo vedere i reprobi eccellenti in manette è una bella soddisfazione e anche accontentarsi di saperli agli arresti domiciliari. Purtroppo è un contentino rispetto alla gratificazione di non vederli più, scomparsi in un cono d’ombra, negletti da talkshow e oscurati dagli opinionisti come meriterebbero, e ancora più a paragone del compiacimento per la loro eclissi definitiva post-elettorale. Da anni ormai siamo abituati a pensare che se non siamo capaci di liberarci dell’abuso illegittimo della politica, del parlamento e della gestione della cosa pubblica da parte di un ceto che mostra un istinto ferino alla trasgressione, alla corruzione, all’impiego privato di ruolo, rendita e potere che ne consegue, possiamo contare sulla magistratura che prima o poi ci vendica. Si, auspicando che ci riscatti e li castighi, e non faccia “giustizia”, perché negli anni forma e contenuto di questo “valore” sono stati aggiornati, disperdendo o modernamente resettando la sua qualità morale e sociale, quella attinente al contrasto alle disuguaglianze, quelle suscitate della lotteria naturale e quelle determinate dallo scontro di classe. Non a caso proprio da parte di un soggetto politico che ieri grazie a una liberatoria non del tutto arbitraria è sfuggito alle sue maglie, viene continuamente richiamata la opportunità di valersi di un utilizzo privato della giustizia, sotto forma di pistola sul comodino. Niente di diverso da chi pensa che l’appartenenza a un ceto con tutto il corredo di principi e valori identitari: arrivismo, ambizione, indole alla sopraffazione e allo sfruttamento, familismo e clientelismo, autorizzi a una interpretazione personale delle regole, dileggiate in quanto ostacolo a libera iniziativa e imprenditorialità. Sicché l’ingresso a gamba tesa di un altro ceto, quello giudiziario, viene inteso come a una guerra intestina mossa per chissà quali opachi moventi o per segnare il territorio del quale vengono rivendicati l’occupazione e il possesso in comodato.

Eh sì, ieri ne abbiamo avuto due rappresentazioni allegoriche. La giunta per le immunità del Senato ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere del tribunale di Catania contro il ministro Matteo Salvini per il caso della nave Diciotti, con una decisione presa a maggioranza: 16 voti contro il processo e 6 a favore, un risultato  scontato dopo l’esito della consultazione online dei 5Stelle, una cerimonia officiata nel quadro dell’odierna imitazione della democrazia nella quale siamo costretti a vivere, da avventizi dell’oligarchia  incaricati di sperimentare l’occupazione della rete, in modo che cada anche uno degli ultimi baluardi di massa, sia pure con effetti francamente grotteschi. È uno dei paradossi della nostra contemporaneità, la possibilità per il ceto politico di difendere i propri comportamenti illegali o illegittimi – anche se il caso in questione è opinabile perché le leggi non sono teoremi aritmetici da applicare con un approccio contabile –   grazie alla determinazione  e al lascito i padri costituenti e in particolare Lelio Basso, i socialisti e i Comunisti che vollero stabilire attraverso gli articoli 68 e 96 la tutela degli eletti dalle pressioni e dai condizionamenti di poteri forti, in modo che venisse tutelata “la libera esplicazione delle funzioni del Parlamento, contro indebite ingerenze” da parte della magistratura, certo, in un tempo nel quale la sua autonomia era ancora incerta. E’ un’eredità quella che abbiamo difeso insieme a altri principi messi in pericolo da “riforme” volte a consegnare le istituzioni e noi all’ideologia neoliberista della deregulation, del dominio incontrastato e della supremazia del “privato”, del superpotere attribuito all’esecutivo. E si tratta infatti di quella cassetta degli attrezzi che utilizza per la sua propaganda difensiva l’altro co-protagonista sulla scena di ieri, quando riconferma la sua “fiducia” inossidabile nella magistratura, purché tratti coi guanti gialli il suo asse dinastico, che in virtù del suo ruolo pubblico ha diritti inversi ai nostri in materia di privatezza, impunità, immunità, insindacabilità delle azioni e dei comportamenti. C’è poco da dire, viviamo il paradosso della debolezza, ci è stata concessa la “prerogativa” di accettare i comandi, deprecandoli, di essere servi, lamentandoci, di ubbidire, ma brontolando. Perfino ci è stato sottratto il diritto libero di votare in virtù di leggi contraffatte, liste bloccate, differenti e disuguali condizioni di partenza dei candidati, impari mezzi profusi, permettendo la finzione di consultazioni virtuali su piattaforme di soggetti privati, che vale per le autorizzazioni a procedere o per i talent. Vale anche per la giustizia, quando diritti duramente conquistati e che credevamo a torto inalienabili, quelli “materialisti” (che ispiravano la critica sociale e la lotta di classe) ormai declassati a gruzzolo micragnoso a disposizione di tutti e garantito, in favore di “valori post-materiali” più moderni e fashion. Sicché dando retta indirettamente a chi ha stabilito delle graduatorie, prima gli italiani, prima i maschi, prima gli eterosessuali, si instaurano delle contro-gerarchie morali e etniche, che indicano i fronti di denuncia e militanza, prima gli immigrati, prima gli omosessuali, prima le donne, come se togliere qualcosa agli uni arricchisse gli altri. Così l’amministrazione della giustizia segue le tendenze della moda e dello spettacolo, altro settore fortemente e irriducibilmente condizionato dal mercato. Ci elargisce qualche spot gratificante di potenti minacciati dalle catene, quando le nostre galere sono affollate di ladruncoli e piccoli spacciatori, mentre bancarottieri e corruttori entrano e escono dalle loro porte girevoli pronti a occupare altri posti in prestigiosi consigli di amministrazione. Quando a essere perseguiti con rigore sono i reati di strada, le condotte dei poveri, mentre gli illeciti commessi da chi può e sta in lato sono trattati con indulgenza e la comprensione che si riserva a chi dà lavoro, a chi non deve essere ostacolato da lacci e laccioli, a chi è troppo impegnato per svolgere quelle moleste attività da straccioni: dichiarazione dei redditi, osservanza delle regole in materia di previdenza o edilizia. Lo credo che chi sta su o non si rassegna a scendere ha fiducia della giustizia, mica è uguale per tutti.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.

Da ilfattoquotidiano.it il 14 Novembre 2019. La Corte europea dei diritti umani ha avviato un procedimento contro Italia e Germania sul caso del rogo dello stabilimento della ThyssenKrupp a Torino scoppiato il 6 dicembre 2007: un incidente immane in cui morirono 7 operai. Sono stati i parenti delle vittime e uno dei sopravvissuti, Antonio Boccuzzi, a rivolgersi alla Corte di Strasburgo, accusando i due governi di aver violato i loro diritti, in particolare quello al rispetto della vita, perché nonostante la sentenza di condanna della Corte di Cassazione pronunciata nel 2016 nei confronti due manager tedeschi, questi restano in libertà. L’ad Harald Espenhahn e il consigliere Gerald Priegnitz hanno avuto pene definitive rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e a 6 anni e 10 mesi, ma non hanno mai scontato un giorno di carcere per il disastro del 2007 nell’acciaieria: mentre i quattro dirigenti italiani condannati si consegnarono alle autorità per scontare la pena, i due tedeschi fuggirono in Germania, rifiutando l’esito del processo e chiedendo di scontare gli anni in patria, cosa che però non è mai avvenuta finora. I firmatari del ricorso – che la Corte aveva ricevuto un anno e mezzo fa – sono in tutto 26 e sottolineano che la violazione del loro diritto alla vita deriverebbe “dalle omissioni e i ritardi delle autorità italiane e tedesche nel dare esecuzione alla sentenza di condanna dei due manager”. Aggiungono di non aver altro modo, se non attraverso la Corte di Strasburgo, per far valere i loro diritti nei confronti di Roma e Berlino. “I governi italiano e tedesco – scrive ora la Corte ai due governi – sono pregati di fornire tutte le informazioni pertinenti sullo stato della procedura di esecuzione della condanna”.

I tre anni di “Vietnam” burocratico e procedurale. In realtà Espenhahn e Priegnitz e i loro avvocati hanno fatto di tutto per non far eseguire la pena decisa dai tribunali italiani in modo definitivo – dopo tre gradi di giudizio – né la giustizia tedesca ha deciso quale strada prendere: se eseguire la sentenza della Suprema Corte italiana o celebrare di nuovo il processo in forza del fatto che la pena massima per il reato contestato ai due ex massimi dirigenti della ThyssenKrupp – l’omicidio colposo plurimo – nel codice penale tedesco ha un tetto di 5 anni di carcere. In un primo caso fu sollevata la questione della mancata traduzione di alcuni atti e della stessa sentenza della Cassazione. Pochi mesi dopo la Suprema Corte respinse anche un ricorso straordinario. L’ultima di numerose puntate procedurali e burocratiche grazie alle quali non c’è stata ancora alcuna decisione sui due responsabili della tragedia di Torino risale al febbraio scorso quando i due condannati avevano chiesto al tribunale di Essen di archiviare per “irregolarità nel processo”.

I messaggi (inascoltati) dei ministri italiani. Una vicenda che da giudiziaria arriva ad avere profili politici e diplomatici. Due ministri della Giustizia italiani in momenti diversi hanno scritto al governo di Berlino e ai tribunali tedeschi nel corso di questi tre anni. Il guardasigilli Andrea Orlando nel 2017 aveva chiesto al ministro tedesco Heiko Maas che la Germania desse esecuzione al verdetto. Il successore Alfonso Bonafede nel 2018 aveva fatto inviare dal ministero di via Arenula una lettera al tribunale di Essen per chiedere l’esito del procedimento con cui si era chiesto il riconoscimento ed esecuzione della sentenza”. Bonafede, nel febbraio scorso, aveva detto tra l’altro che il ministero avrebbe “continuato a monitorare giorno per giorno la vicenda”. Ma da allora nulla è cambiato. La difficoltà è la stessa che nel corso degli ultimi dieci anni è stata riscontrata per gli ex ufficiali delle SS e della Wehrmacht condannati all’ergastolo per diverse stragi di civili in Italia durante la ritirata tedesca dai territori occupati in Italia (tra queste Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto): le sentenze non sono mai state eseguite dalla Germania e in quel caso l’Italia non ne ha mai chiesto conto a Berlino.

“Se siamo arrivati qui, è per la debolezza dell’Italia con la Germania”. “Siamo arrivati a questo punto è per la debolezza del nostro Governo nei confronti della Germania” dice Antonio Boccuzzi, sopravvissuto nel 2007 al rogo negli impianti ThyssenKrupp. “I nostri appelli al Governo italiano – aggiunge – hanno sempre ottenuto promesse di attenzione che non si sono mai concretizzate. E’ opportuno, quindi, che si attivi un organo superiore”. “Il nostro non è desiderio di vendetta, ma di giustizia” sottolinea Graziella Rodinò, mamma di Rosario. “Siamo sempre stati decisi ad andare avanti nella nostra battaglia – aggiunge – Se i due manager tedeschi sono ancora liberi, qualcosa non ha funzionato. C’è una sentenza definitiva, che non è stata rispettata. Voglio che vadano in galera, che vedano la cella almeno per un giorno. Per noi il tempo si è fermato, non è vero che il tempo lenisce il dolore”.

La Cassazione disse: “Vertici Thyssen consapevoli di pericolo di morte per operai”. Nelle motivazioni della sentenza del 2016 la Cassazione aveva rilevato a sostegno della decisione che quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti fu una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“. I giudici avevano aggiunto che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”. Espenhahn, in particolare, era stato descritto come “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”.

·         “Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.

Giachetti: «Chi ha paura di Rita Bernardini e della battaglia sulla cannabis?» Valentina Stella il 13 Dicembre 2019. «L’ex parlamentare è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua», ma «non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino». «Perché non arrestate Rita Bernardini?». È questa la sintesi dell’interrogazione a risposta scritta presentata ieri in Aula dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti e indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Giachetti prende spunto da una notizia pubblicata sul sito leiene. it riguardante una delle tante iniziative di disobbedienza civile sulla cannabis portate avanti dall’esponente del Partito Radicale e già deputata nella XVI legislatura, Rita Bernardini.L’ex parlamentare – si legge nell’interrogazione – «è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua», ma «non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare la risonanza mediatica che quell’arresto avrebbe potuto comportare, essendo la Bernardini da anni impegnata in battaglie per la legalizzazione della cannabis». Il problema che solleva con le sue disobbedienze civili e la richiesta di legalizzazione è «maledettamente serio, e non solo per i malati che non riescono ad accedere ai farmaci cannabinoidi» ci dice la radicale. A sostenere la tesi richiamata nell’atto parlamentare – si legge ancora nell’articolo a cura del programma di Italia1 – è un carabiniere del Nucleo radiomobile della compagnia Roma Cassia, Enrico Sebastiani, che «quest’estate eseguì in un primo momento l’arresto della ex parlamentare. Secondo lui, i carabinieri in un primo momento avrebbero arrestato Rita Bernardini per aver violato il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. Una volta giunta in caserma, però, le cose cambiano: il superiore di Sebastiani, che era tra i militari coinvolti nell’arresto, gli avrebbe ordinato di rilasciare la donna. Sempre secondo la ricostruzione del carabiniere, l’indicazione di rilasciare Rita Bernardini a piede libero sarebbe arrivata direttamente dal procuratore della Repubblica in persona. La paura del procuratore sarebbe stata la seguente: un arresto di quel tipo avrebbe provocato una grande risonanza mediatica, e dunque era meglio evitare». Due pesi e due misure quindi? «Questa storia della Procura di Roma che mi riserva un trattamento di favore costituisce uno scandalo inaudito – commenta ancora al Dubbio Rita Bernardini – . Cominciò il l’ex procuratore capo Pignatone, quando l’ 8 febbraio del 2016 archiviò il procedimento riguardante la mia coltivazione di ben 56 piante, prosegue ora il procuratore Prestipino.Plaudo al comportamento del carabiniere costretto dalla legge ad arrestare ogni giorno i coltivatori fai- da- te della cannabis e a me, per volontà della procura, di rilasciarmi a piede libero». Giachetti chiede quindi ai due ministri se siano a conoscenza dei fatti e se sussistano i presupposti di fatto e di diritto per un’iniziativa ispettiva presso la Procura di Roma che non ha proceduto all’arresto dell’onorevole Bernardini.

Cannabis in terrazzo, “Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”. Le Iene il 07 dicembre 2019. A sostenerlo è un carabiniere, che ha anche presentato un esposto. Secondo il militare la decisione fu presa dalla procura di Roma per evitare clamore mediatico sul caso. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la storia del mancato arresto questa estate e avevamo anche visitato la sua coltivazione Coltivava piante di marijuana in casa e dopo esser stata scoperta non viene arrestata. Il motivo? La procura avrebbe voluto evitare risonanza mediatica sul caso. A raccontare questa storia è il quotidiano La Verità secondo cui l’ex parlamentare ed esponente radicale Rita Bernardini, trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua, non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare la risonanza mediatica che quell’arresto avrebbe potuto comportare, essendo la Bernardini da anni impegnata in battaglie per la legalizzazione della cannabis. A sostenere questa tesi è un carabiniere del Nucleo radiomobile della compagnia Roma Cassia, Enrico Sebastiani, che quest’estate eseguì in un primo momento l’arresto della ex parlamentare. Il militare avrebbe anche presentato un esposto alla procura di Perugia. In sintesi, questa sarebbe la sua versione dei fatti: i carabinieri in un primo momento avrebbero arrestato Rita Bernardini per aver violato il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. Una volta giunta in caserma, però, le cose cambiano: il superiore di Sebastiani, che era tra i militari coinvolti nell’arresto, gli avrebbe ordinato di rilasciare la donna. Questa indicazione, sempre secondo la sua ricostruzione, sarebbe arrivata direttamente dal procuratore della Repubblica in persona. La paura del procuratore sarebbe stata la seguente: un arresto di quel tipo avrebbe provocato una grande risonanza mediatica, e dunque era meglio evitare. C’è un problema però: l’arresto di Bernardini, quando arriva l’intervento di Prestipino, sarebbe stato già “eseguito e comunicato” all’ex deputata. Si sarebbe però deciso di procedere in violazione delle regole, costringendo i militari ad accompagnare la donna al suo domicilio. Il militare Sebastiani però avrebbe protestato per questa decisione, ricevendo il mese successivo un procedimento disciplinare. L'accusa sarebbe quella di essersi intromesso inappropriatamente nell’accordo preso dal procuratore con il suo superiore. Su questa versione è intervenuta anche la stessa esponente radicale, Rita Bernardini, che su Facebook ha scritto: “Sia chiaro, io sono dalla parte del carabiniere che ha protestato per il mio mancato arresto e sono contro la Procura di Roma che -violando la legge- da anni vanifica le mie disobbedienze civili per la legalizzazione della cannabis, in particolare, per il diritto effettivo di cura”. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la vicenda del mancato arresto di Rita Bernardini nell’articolo che potete leggere cliccando qui. "Sono stata denunciata a piede libero per la coltivazione di sostanze stupefacenti, 32 piante tra un metro e un metro e venti”, aveva dichiarato l’ex parlamentare, portata in caserma. “Esprimo tutto il mio disappunto per la decisione della Procura di Roma di non procedere al mio arresto, come accade a tutti i cittadini che vengono sorpresi a coltivare marijuana. Così si usano due pesi e due misure e la legge finisce per non essere uguale per tutti". L’ex parlamentare radicale sperava infatti in un arresto, come ci aveva spiegato il suo avvocato, Giuseppe Rossodivita, che abbiamo contattato telefonicamente, “in modo che la questione possa essere portata, attraverso il processo, al centro di un dibattito pubblico”. Rita Bernardini, infatti, da anni si batte per la legalizzazione della cannabis. “In particolare nell’ultimo periodo si è specializzata su quella a scopo terapeutico”, dice l’avvocato e dirigente radicale. Già l’anno scorso, infatti, l'ex parlamentare ci aveva spiegato che "in Italia c’è una legge approvata nel 2007 sulla marijuana terapeutica che ancora oggi non riesce a entrare in funzione. Per i malati continua a essere un’odissea accedere alla cannabis come medicina". Più di un anno fa eravamo stati proprio sul terrazzo dove Rita coltiva le sue piantine, come potete vedere nel video qui sopra. E già allora ci aveva detto: "La procura dovrebbe procedere nei miei confronti come si fa con chiunque altro faccia l’autocoltivazione: e cioè dovrebbe arrestarmi". Ma evidentemente, a differenza di quanto sarebbe probabilmente stato fatto con qualsiasi altro cittadino colto in flagranza, con l’ex parlamentare si è deciso di procedere diversamente: forse adesso abbiamo scoperto il perché.

·         Intoccabili: Quelli che sono toccati…

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” l'11 dicembre 2019. A maggio, la giudice che ha condannato Antonello Montante aveva mandato in procura i verbali delle testimonianze del direttore dell' Aisi Mario Parente e del suo vice Valerio Blengini. «Mentono sapendo di mentire», aveva scritto la gup Graziella Luparello nella sentenza sull' ex leader di Confindustria al centro di una catena di fughe di notizie sull' inchiesta. Dopo nuovi approfondimenti, la procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati il capo dei servizi segreti, per false informazioni, e ha trasmesso il fascicolo alla procura di Roma. Stessa contestazione è stata mossa al numero due di Parente, a cui i pm nisseni hanno notificato invece un avviso di chiusura dell'indagine. Al centro del caso, uno 007 imputato nel processo bis, è Andrea Cavacece, chiamato in causa perché avrebbe saputo dell' indagine su uno dei fedelissimi di Montante, Giuseppe D' Agata (pure lui ai Servizi), e avrebbe girato la notizia all' allora direttore dell' Aisi, Arturo Esposito. Parente - ex generale del Ros, mai un' ombra in 40 anni di lotta alle mafie - era stato sentito dall' avvocato di Cavacece, nell' ambito di un' indagine difensiva. All' epoca era il vice dei Servizi: spiegò che Blengini gli aveva raccontato di alcune domande su D' Agata («Fatte a un nostro collaboratore durante un incontro per gli auguri di natale con personale dello Sco della polizia»), precisò «di non averne parlato né con Cavacece, né con Esposito, in quanto la notizia era indeterminata». Per la giudice Luparello, invece, l' informazione giunta a Blengini e Parente era tutt' altro che «generica» perché Blengini chiese notizie all' allora questore di Caltanissetta, Bruno Megale, che segnalò subito il caso ai pm.

 (ANSA il 10 dicembre 2019) - La Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati, per concussione, il procuratore aggiunto di Avellino Vincenzo d'Onofrio nell'ambito della stessa indagine che vede indagato l'ex capo degli ispettori del Ministero della Giustizia Andrea Nocera a cui si contesta la corruzione in concorso. Lo rendono noto organi di stampa. Indagati, sempre per corruzione in concorso, anche l'ex senatore di Forza Italia, Salvatore Lauro, e l'armatore Salvatore Di Leva sul cui cellulare gli investigatori, nell'ambito dell'indagine "madre", hanno inoculato il trojan che ha consentito di intercettare la conversazione ritenuta chiave. Gli accertamenti su D'Onofrio, passati per competenza a Roma, sono finalizzati ad accertare una presunta pressione esercitata sull'armatore Di Leva, finalizzata a fargli riparare una barca usata per gite nel Golfo di proprietà di Pasquale D'Aniello, vicesindaco di Piano di Sorrento. Nelle indagini risulta coinvolto anche l'ufficiale della Guardia di Finanza Gabriele Cesarano.

Magistrato finisce sotto inchiesta: gite a Capri ed altri favori. Andrea Nocera su Il Corriere del Giorno il 5 Dicembre 2019. Un’inchiesta che ha messo in fibrillazione un intero mondo di relazioni, uno giro di amicizie influenti che ruotava attorno ai cantieri di Di Leva, a qualche “attenzione” di troppo: dalle gite in barca o alle tessere gratis per una vacanza a Capri in favore di questo o quel magistrato. Il magistrato partenopeo Andrea Nocera , fino a qualche giorno fa capo dell’ufficio ispettorato del Ministero della Giustizia è stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Napoli . Secondo gli inquirenti avrebbe ricevuto numerosi biglietti di viaggio, per sé e per i suoi congiunti, sulla rotta Napoli-Capri, in cambio della disponibilità a fornire informazioni riservate in un’indagine a carico di un armatore napoletano. Accusato di corruzione Nocera ha deciso di rassegnare le proprie dimissioni. Da ieri è tornato al Massimario della Cassazione, ufficio dal quale era stato selezionato un anno e mezzo fa, prima di accettare l’incarico in forza al Ministero guidato dal ministro Bonafede (M5S). Una scelta conseguente alla decisione della Procura di Napoli di trasmettere la notizia dell’inchiesta a carico dello stesso Nocera al Ministero di via Arenula ed all’ufficio della Procura generale della Cassazione . Una vicenda che fa registrare una svolta nel corso delle indagini a carico dell’armatore sorrentino Salvatore Di Leva, socio di Salvatore Lauro, in qualità di amministratore della società Alilauro Gruson. L’armatore Di Leva è stato interrogato giovedì scorso a Napoli  dai pm della Procura partenopea, ma anche dal procuratore aggiunto romano Paolo Ielo (accanto nella foto) e dalla pm  Lia Affinati della Procura di Roma titolari delle indagini su un magistrato tuttora in servizio nel distretto di Corte di appello di Napoli.. Un vero e proprio colpo di scena è scattato al termine di questo interrogatorio, quando la Procura di Napoli ha sequestrato il cellulare di Salvatore Di Leva che nei mesi scorsi colpito dal virus trojan delle forze dell’ordine, per compiere ulteriori verifiche sui contatti più recenti potenzialmente utili alle indagini. Il coinvolgimento nell’indagine del magistrato Andrea Nocera e di Salvatore Lauro è emerso proprio dal decreto di perquisizione notificato nel corso dell’interrogatorio Di Leva, in questo nuovo filone che ipotizza per tutti e tre il concorso in corruzione.  Al centro dell’inchiesta un incontro nel cantiere navale di Di Leva che sarebbe avvenuto alla fine dello scorso aprile , al quale avrebbero preso parte anche Salvatore Lauro, il commercialista del gruppo Alessandro Gelormini finito in cella un paio di mesi fa in un’altra vicenda di corruzione, nonostante la sua età di ottanta anni, e lo stesso Andrea Nocera ex capo degli ispettori del Ministero di via Arenula. Un incontro intercettato in tempo reale, grazie al trojan inoculato nel cellulare di Di Leva, dal quale sarebbero emersi elementi che hanno spinto la Procura di Napoli ad una accelerata. Ma in cosa consistono le accuse a carico dell’ex capo degli ispettori. L’ inchiesta è condotta dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo, dal capo del pool mani pulite Giuseppe Lucantonio, ma anche dal pm anticamorra Giuseppe Cimmarotta (che sta indagando su presunte opacità nell’assegnazione delle zone demaniali a Castellammare di Stabia), e dal pm Henry John Woodcock, a sua volta in forza al “pool mani pulite” della Procura di Napoli. Definito lo schema investigativo: il magistrato Nocera avrebbe ricevuto per sé e per i suoi parenti numerosi biglietti e tessere gratis per gli aliscafi del gruppo Alilauro, in particolare quelli per andata e ritorno tra Napoli e Capri. E non soltanto, in quanto avrebbe ottenuto in omaggio anche la manutenzione e il rimessaggio di un gommone, sempre a titolo di presunta contropartita per il suo ruolo di magistrato. E’ questo il punto principale su cui si basano le indagini. Inevitabili porsi alcune legittime domande: come è possibile che un magistrato “in carriera” come Andrea Nocera abbia deciso di far corrompere il proprio ruolo di magistrato per alcune centinaia di euro ? E cosa avrebbe dato in cambio agli armatori? Sulla base di quanto sinora emerso, ci sarebbe stata l’esigenza di ottenere notizie utili a favorire gli interessi dell’armatore Salvatore Lauro, a sua volta coinvolto in una indagine del pm Raimondi, in relazione a questioni societarie interne al gruppo. Allo stato attuale non risultano in modo tangibile delle “soffiate” da parte di Nocera agli imprenditori Di Leva e Lauro. Sempre basandosi su quanto trapelato finora da parte di persone “vicine” al magistrato campano, si baserebbe la convinzione di poter fugare ogni dubbio sulla propria condotta in questa squallida vicenda. Agli atti dell’inchiesta giudiziaria ci sono molte ore di conversazioni captate dal cellulare di Di Leva che sono durate da aprile allo scorso settembre, ma sopratutto da quanto verrà trascritto dagli interrogatori di Di Leva e dello stesso commercialista Alessandro Gelormini. Un’inchiesta che ha messo in fibrillazione un intero mondo di relazioni, uno giro di amicizie influenti che ruotava attorno ai cantieri di Di Leva, a qualche “attenzione” di troppo: dalle gite in barca o alle tessere gratis per una vacanza a Capri in favore di questo o quel magistrato.

Si dimette il capo degli ispettori del ministro Bonafede: è indagato per corruzione. Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Il magistrato Andrea Nocera, scelto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per guidare l’ispettorato del ministero, si è dimesso dopo dopo aver scoperto di essere indagato dalla procura di Napoli. L’ipotesi di reato formulata dai pm Henry John Woodcock e Giuseppe Cimmarotta, coordinati dal procuratore capo Giovanni Melillo, è di corruzione in concorso con l’armatore Salvatore Lauro, ex deputato di Forza Italia, e l’imprenditore marittimo Salvatore Di Leva, amministratore della società Alilauro Gruson. Nocera, secondo l’accusa, si sarebbe reso disponibile a dare informazioni segrete in merito ad una inchiesta su Lauro in cambio di biglietti di viaggio per Capri, dove il magistrato possiede una casa, e del rimessaggio gratuito del suo gommone. La vicenda sarebbe emersa tramite una conversazione intercettata sul telefono cellulare dell’armatore, socio di Lauro, risalente allo scorso aprile. A quella conversazione avrebbero partecipato il capo dell’ufficio ispettorato del ministero della Giustizia, l’ex senatore e il commercialista del gruppo Alessandro Gelormini, quest’ultimo già in carcere nell’ambito di un altro procedimento giudiziario. L’indagine sul capo dei suoi ispettori è stata comunicata a Bonafede giovedì scorso. Venerdì il ministro grillino ha quindi convocato Nocera che ha subito deciso di lasciare il suo posto al ministero, chiedendo al Csm di tornare a lavorare al Massimario della Cassazione. Ieri infine è arrivato il via libera dal Consiglio superiore. Nocera in poco meno di un anno e mezzo di lavoro al ministero ha istruito un centinaio di azioni disciplinari e 42 accertamenti preliminari: tra le ultime missioni quella al tribunale dei Minori di Bologna e alla procura di Reggio Emilia, disposta dal ministron Bonafede, legata all’inchiesta "Angeli e Demoni" sugli affidi illeciti.

Si dimette Nocera, il capo degli ispettori di Bonafede E’ accusato di corruzione. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it. Indagato e dimissionario, per provare a evitare, o almeno depotenziare, un nuovo scandalo nella magistratura. Il giudice Andrea Nocera, fino all’altro ieri capo dell’Ispettorato del ministero della Giustizia, ha lasciato l’incarico dopo aver appreso di essere inquisito dalla Procura di Napoli per una presunta corruzione: biglietti per aliscafi e il rimessaggio di un gommone in cambio di notizie su un procedimento penale in corso. L’ipotesi di reato è scaturita da un’inchiesta condotta dai pm Henry John Woodcock e Giuseppe Cimmarotta, coordinati dal procuratore Giovanni Melillo, che s’è trasformata in un’altra tegola per le toghe italiane, già messe a dura prova dal «caso Palamara» che ha investito il Consiglio superiore della magistratura. E proprio al Csm Nocera ha comunicato la decisione di lasciare l’incarico apicale che ricopriva, chiedendo di tornare a lavorare all’Ufficio del massimario della Cassazione. Il magistrato, 54 anni, da quasi un anno e mezzo era il responsabile degli ispettori ministeriali, chiamati a vigilare e indagare sulla correttezza del lavoro svolto negli uffici giudiziari da giudici e pm, anche per ciò che riguarda gli aspetti deontologici. L’Ispettorato è infatti il «braccio operativo» del ministro, titolare dell’azione disciplinare insieme al procuratore generale della Cassazione. La segnalazione su Nocera indagato, oltre che al Csm, è giunta anche al «palazzaccio» di piazza Cavour, dove però per il momento il pg Giovanni Salvi attenderà gli sviluppi dell’indagine penale. Non ha atteso ad accettare le dimissioni, invece, il ministro Bonafede, considerate le evidenti ragioni di inopportunità che al vertice di uno degli uffici più delicati del suo dicastero restasse un inquisito. L’inchiesta a carico di Nocera deriva da quella sul conto dell’imprenditore sorrentino Salvatore Di Leva, sessantatreenne amministratore del gruppo Alilauro, con interessi anche nei settori turistico, alberghiero e della ristorazione. Nelle intercettazioni, attivate per verificare manovre sospette intorno ad alcune concessioni demaniali, sono state registrate conversazioni che hanno fatto emergere l’ipotetico ruolo del magistrato in servizio al ministero — amico dell’imprenditore — come «informatore» su un’altra indagine in corso a Napoli, a carico dell’armatore Salvatore Lauro. Come contropartita Nocera, che ha una casa sull’isola di Capri, avrebbe ricevuto «numerosi biglietti e tessere per usufruire gratuitamente dei servizi di trasporto marittimo mediante aliscafi esercitati da società del gruppo Alilauro, soprattutto sulla tratta Napoli-Capri e Capri-Napoli»; in più, gli viene contestata «l’erogazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio di un gommone» da 8 metri e mezzo. Secondo l’accusa — che dovrà accertare il collegamento tra le «utilità ricevute» e il presunto «abuso delle qualità e funzioni» — le notizie che Nocera avrebbe dovuto trasmettere a Di Leva e Lauro riguardavano un’indagine a carico di quest’ultimo, ex parlamentare di Forza Italia e proprietario della Alilauro. L’incontro fra i tre sarebbe avvenuto ad aprile, accertato successivamente dagli inquirenti ascoltando altre conversazioni tra Di Leva e un commercialista indagato e arrestato dopo i tentativi di concordare le versioni da fornire ai magistrati. Nell’indagine è emersa anche la figura di un altro magistrato campano, di cui si occupa la Procura di Roma competente per le toghe di quel distretto. Di qui il recente interrogatorio congiunto di Di Leva da parte delle due Procure interessate, nel quale l’imprenditore avrebbe spiegato l’amicizia con Nocera provando a ridimensionare le accuse.

Punito il pm Facciolla, «ma le accuse erano state archiviate». Simona Musco il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. Il Csm trasferiscre il procuratore di Castrovillari. Il magistrato era accusato di aver violato I doveri di imparzialità, correttezza e rischio. Ora si occuperà di cause civili a Potenza. Punito dal Csm per accuse archiviate. Al centro della vicenda il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, per il quale la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha deciso il trasferimento a Potenza, destinandolo alla giustizia civile. Una misura richiesta dal ministro Alfonso Bonafede e dalla procura generale della Cassazione e decisa lunedì dalla sezione disciplinare presieduta da Davide Ermini, vicepresidente del Csm, con relatrice Paola Braggion. Alla base della decisione l’indagine aperta a Salerno – competente per le inchieste sui magistrati del distretto di Catanzaro – su una presunta violazione dei doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. Secondo i pm, abusando delle proprie funzioni, il magistrato avrebbe rivelato dati sensibili e favorito una società che si occupa di intercettazioni. Ma proprio le accuse oggetto del procedimento disciplinare sono state già archiviate nei mesi scorsi, come spiega al Dubbio il difensore del procuratore, Antonio Zecca, che lo assiste solo in merito alla vicenda penale. Al momento il trasferimento rimane in sospeso, spiega il legale, in vista dell’impugnazione della decisione. «Dopo la fuga di notizie sulle indagini che riguardano Facciolla – sottolinea Zecca -, dell’archiviazione, invece, stranamente non si è saputo nulla. E il difensore con fatica è riuscito a prendere visione del provvedimento sollecitato dallo stesso pm di Salerno». Rimangono in piedi le ipotesi di corruzione per atto conforme ai doveri d’ufficio per l’utilizzo di una scheda sim, i cui pagamenti delle telefonate e del canone, secondo la difesa, venivano effettuati dallo stesso Facciolla, e per falso per la presunta alterazione della data di una relazione di servizio, accuse per le quali l’udienza preliminare, dopo il rinvio di ieri per difetto di notifica, è stata fissata al prossimo 29 gennaio. Secondo i pm, Facciolla avrebbe «affidato il noleggio di apparecchiature nell’ambito di attività di intercettazione alla Stm srl, formalmente intestata a Marisa Aquino e di fatto amministrata da Vito Tignanelli, con il quale il magistrato intratteneva relazioni personali risalenti a circa 20 anni addietro». Affidamenti che, secondo l’accusa, avrebbero procurato un «ingiusto vantaggio patrimoniale» alla Stm srl «in violazione dell’obbligo di imparzialità gravante su ogni pubblico ufficiale». In cambio, avrebbe ottenuto, come «utilità», l’uso di un’utenza telefonica intestata a Marisa Aquino «da epoca anteriore e prossima al 23 dicembre 2015 e fino a tutto il 17 ottobre 2016, avendone assunto la titolarità solo il 17 ottobre 2016». L’ipotesi di falso riguarda poi Facciolla e il maresciallo forestale Carmine Greco, indagato con l’accusa di concorso esterno nell’inchiesta “Stige”: i due, secondo l’accusa, avrebbero concordato la redazione di una relazione falsa, della quale, però, il maresciallo si è assunto la piena responsabilità nel corso dell’incidente probatorio. Infine, si contesta la rivelazione di dati sensibili. «Il riferimento è al fatto di aver fatto scansionare alcuni atti di un procedimento che lo riguardavano personalmente, non in qualità di procuratore – sottolinea Zecca -, ma come parte offesa costituita parte civile». Il provvedimento del Csm, secondo Zecca, dovrebbe far aprire una discussione sull’opportunità di un controllo da parte dei cittadini sui procedimenti disciplinari, i cui atti sono coperti. «Visto quello che accade ed è accaduto sarebbe auspicabile un controllo del popolo anche sui provvedimenti disciplinari – conclude -, visto che c’è stato un momento di disagio nello spostamento dei magistrati sul territorio nazionale e nel conferimento degli incarichi direttivi». Facciolla, secondo il Csm,  avrebbe commesso una «grave scorrettezza» nei confronti dei magistrati della Dda di Catanzaro che stavano svolgendo indagini a carico di Spadafora Antonio e di Carmine Greco, nell’ambito dell’inchiesta “Stige”, accusati di 416 bis, «per la possibile interferenza della nota falsa» redatta da Greco nel corso della stessa indagine. Per la sezione disciplinare, risulterebbe accertato, dunquem «tramite la copiosa documentazione trasmessa dalla Procura di Salerno e i documenti prodotti dallo stesso incolpato, la sussistenza del fumus degli illeciti disciplinari». In particolare, il comportamento di Facciolla avrebbe minato «la credibilità indispensabile» per poter continuare a svolgere «con il necessario prestigio» le funzioni requirenti in qualsiasi sede giudiziaria, in quanto risulterebbe lesa non solo «la credibilità personale» del magistrato nella sede di Castrovillari, ma anche quella «della funzione requirente esercitata».

Libri. Il caso Mario Conte. «E se fossi tu l’imputato?», storia di un magistrato morto di malagiustizia. Il Corriere della Sera il 26 settembre 2019. Un accanimento giudiziario durato vent’anni, una lunga battaglia con la rinuncia alla prescrizione e l’assoluzione pochi mesi prima della morte per tumore. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. È la storia di Mario Conte (1951-2015), napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino. A lui sabato 28 settembre alle 17.30 il Comune di Villanova del Battista (Avellino) intitolerà la Sala Consiliare del nuovo palazzo comunale “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”. Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo come suo primo incarico nel 1978, poi magistrato addetto ai rapporti con l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, Mario Conte nel 1992 a seguito dell’omicidio di Giovanni Falcone fu chiamato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e nello stesso anno fu designato a partecipare in rappresentanza della magistratura Italiana al programma di studio sul crimine organizzato e sul traffico internazionale di stupefacenti “Combatting organized crime, narcotics and drug trafficking”. Una carriera brillante che nel 1998 lo aveva portato alle soglie della nomina a magistrato di Cassazione poi bloccata per una gravissima vicenda giudiziaria e riconosciutagli postuma nel 2016 con una lettera del CSM alla famiglia. Una lettera che riconosceva la sua piena estraneità ai fatti dopo quasi vent’anni di battaglie processuali conclusesi con la piena assoluzione dopo che Mario Conte aveva anche rinunciato alla prescrizione per vedere dichiarata la sua innocenza anche nella sostanza dei fatti. Associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso e peculato. Era l’estate del 2003 quando Mario Conte, ricevette un inquietante e inatteso avviso di garanzia. “C’era scritto davvero traffico di stupefacenti? Sono un narcos? Il mio lavoro di pm si era improvvisamente trasformato in attività criminale?”. Così Mario Conte descrive nel suo libro denuncia il suo stato d’animo di quei momenti. “E se fossi tu l’imputato?. Storia di un magistrato in attesa di giustizia” (Guerini e Associati Editore) è stata la sua ultima battaglia prima della sua scomparsa, avvenuta il 2 Ottobre 2015 nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dopo una straziante battaglia con un mieloma multiplo diagnosticatogli nel 2006. “Come medico, mi chiedo quanto questa brutta storia possa avere influito sull’eziopatogenesi della sua malattia. Una malattia che ha affrontato con una dignità incredibile, senza mai autocommiserarsi, ma dialogando con la morte quotidianamente, augurandosi solo di poter avere il tempo di riscattare il suo nome”. Così l’amico Giorgio Gabriele Bani, neurochirurgo all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, sottolineava la probabile correlazione tra la malattia oncologica e la sofferenza per l’incredibile vicenda processuale. Il 15 Luglio del 1997 è la data d’inizio del calvario giudiziario di Mario Conte. Il pm bresciano Fabio Salamone (i cui conflitti di interesse emergeranno proprio nel libro di Mario Conte in maniera dettagliatamente documentata) raccoglie la deposizione di Biagio Rotondo, criminale di lungo corso, che dopo l’ultimo arresto della Questura di Brescia, di fronte ad accuse gravissime (tra cui tentato omicidio e rapina aggravata) si dichiara pronto a collaborare per riferire di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militare del ROS di Bergamo e di Roma e coordinate da Mario Conte che avrebbero costituito una “struttura deviata” per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti al fine di conseguire brillanti operazioni di polizia. Dal luglio 1997 all’estate del 2003 passano sei anni solo per gli avvisi di garanzia. Altri due anni per il rinvio a giudizio. Altri nove anni anni per due gradi di giudizio con l’assoluzione con formula piena per Mario Conte che arriva dalla Corte di Appello di Milano soltanto il 2 Luglio 2014 e soltanto perché Conte aveva scelto di rinunciare ad avvalersi della prescrizione. Una assoluzione che arriva però quando Mario Conte aveva capito di essere prossimo alla sconfitta nella sua battaglia parallela: quella contro il mieloma. Ed è per questo che Mario Conte decide di scrivere un libro-testamento. E lo fa senza acredine ma con un’accurata ricostruzione delle carte processuali “avendo speso gli ultimi 12 anni della mia vita esclusivamente nel ruolo di avvocato difensore di me stesso”, ricorda Conte nel libro, sottolineando “come sia stato quasi fortunato ad aver avuto le competenze e i mezzi per potersi difendere a differenza di tanti cittadini comuni che possono essere travolti dagli errori del sistema giudiziario”. E allora il libro, come scrive Conte, nasce proprio per questo “per sollecitare nelle istituzioni e nella magistratura una riflessione sulle contraddizioni dell’ordinamento giudiziario italiano, su i suoi vuoti e sulle sue possibili degenerazioni, affinché il ruolo del pubblico ministero resti sempre e solo quello di chi deve accertare i fatti e acquisire le prove a carico ma anche a discarico dell’imputato e non quello di un giustiziere che deve ristabilire un ordine sociale violato”. Un libro quello di Mario Conte che, ripercorrendo la sua vicenda giudiziaria con dovizia di documenti e di particolari, diventa anche un manifesto programmatico per una possibile riforma della giustizia o meglio per una serie di piccoli accorgimenti mirati perché, come scrive Conte, “in Italia il vero problema in materia di giustizia non è quello di fare riforme epocali ma di recuperare la distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello stato incapaci di esprimere il proprio ruolo”. Secondo Mario Conte serve un sistema in cui il processo penale “debba solo accertare in tempi ragionevoli se l’imputato è colpevole o innocente oltre ogni ragionevole dubbio, senza nessuna forzatura, senza preconcetti o tesi precostituite da difendere” così come servirebbe prevedere “un rapporto più equilibrato tra imputato e inquirenti restituendo dignità al primo (intesa come rispetto della persone e dei diritti e non dimenticando la presunzione di innocenza) e professionalità ai secondi: elementi essenziali per l’efficienza e l’affidabilità di un sistema giudiziario di uno stato democratico”. Idee semplici e chiare che avranno bisogno di un’immediata applicazione per evitare che in futuro si possano ripetere vicende giudiziarie così paradossali. Del resto il valore assoluto della ricerca della verità e il miglioramento di quel sistema giudiziario per cui ha speso una vita intera sono stati proprio l’obiettivo per cui Mario Conte si è battuto fino all’ultimo respiro.

La storia di Mario Conte, magistrato morto di malagiustizia. La Vocedinapoli.it il 27 settembre 2019. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. È la storia di Mario Conte (1951-2015), napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino. A lui sabato 28 Settembre alle ore 17.30 il Comune di Villanova del Battista (Avellino) intitolerà la Sala Consiliare del nuovo palazzo comunale “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”.

La storia di Mario Conte da paladino della giustizia a vittima delle falle del sistema giudiziario italiano. Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo come suo primo incarico nel 1978, poi magistrato addetto ai rapporti con l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, Mario Conte nel 1992 a seguito dell’omicidio di Giovanni Falcone fu chiamato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e nello stesso anno fu designato a partecipare in rappresentanza della magistratura Italiana al programma di studio sul crimine organizzato e sul traffico internazionale di stupefacenti “Combatting organized crime, narcotics and drug trafficking”. Una carriera brillante che nel 1998 lo aveva portato alle soglie della nomina a magistrato di Cassazione poi bloccata per una gravissima vicenda giudiziaria e riconosciutagli postuma nel 2016 con una lettera del CSM alla famiglia. Una lettera che riconosceva la sua piena estraneità ai fatti dopo quasi vent’anni di battaglie processuali conclusesi con la piena assoluzione dopo che Mario Conte aveva anche rinunciato alla prescrizione per vedere dichiarata la sua innocenza anche nella sostanza dei fatti.

Le dichiarazioni senza riscontri di un pentito per un’accusa scioccante di ‘narcotraffico’ a chi lo aveva combattuto per anni. Associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso e peculato. Era l’estate del 2003 quando Mario Conte, ricevette un inquietante e inatteso avviso di garanzia. “C’era scritto davvero traffico di stupefacenti? Sono un narcos? Il mio lavoro di pm si era improvvisamente trasformato in attività criminale?”. Così Mario Conte descrive nel suo libro denuncia il suo stato d’animo di quei momenti. “E se fossi tu l’imputato?. Storia di un magistrato in attesa di giustizia” (Guerini e Associati Editore) è stata la sua ultima battaglia prima della sua scomparsa, avvenuta il 2 Ottobre 2015 nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dopo una straziante battaglia con un mieloma multiplo diagnosticatogli nel 2006. “Come medico, mi chiedo quanto questa brutta storia possa avere influito sull’eziopatogenesi della sua malattia. Una malattia che ha affrontato con una dignità incredibile, senza mai autocommiserarsi, ma dialogando con la morte quotidianamente, augurandosi solo di poter avere il tempo di riscattare il suo nome”. Così l’amico Giorgio Gabriele Bani, neurochirurgo all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, sottolineava la probabile correlazione tra la malattia oncologica e la sofferenza per l’incredibile vicenda processuale. Il 15 Luglio del 1997 è la data d’inizio del calvario giudiziario di Mario Conte. Il pm bresciano Fabio Salamone (i cui conflitti di interesse emergeranno proprio nel libro di Mario Conte in maniera dettagliatamente documentata) raccoglie la deposizione di Biagio Rotondo, criminale di lungo corso, che dopo l’ultimo arresto della Questura di Brescia, di fronte ad accuse gravissime (tra cui tentato omicidio e rapina aggravata) si dichiara pronto a collaborare per riferire di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militare del ROS di Bergamo e di Roma e coordinate da Mario Conte che avrebbero costituito una “struttura deviata” per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti al fine di conseguire brillanti operazioni di polizia.

Un calvario giudiziario lungo 20 anni e il libro-testamento “E se fossi tu l’imputato?” Dal luglio 1997 all’estate del 2003 passano sei anni solo per gli avvisi di garanzia. Altri due anni per il rinvio a giudizio. Altri nove anni anni per due gradi di giudizio con l’assoluzione con formula piena per Mario Conte che arriva dalla Corte di Appello di Milano soltanto il 2 Luglio 2014 e soltanto perché Conte aveva scelto di rinunciare ad avvalersi della prescrizione. Una assoluzione che arriva però quando Mario Conte aveva capito di essere prossimo alla sconfitta nella sua battaglia parallela: quella contro il mieloma. Ed è per questo che Mario Conte decide di scrivere un libro-testamento. E lo fa senza acredine ma con un’accurata ricostruzione delle carte processuali “avendo speso gli ultimi 12 anni della mia vita esclusivamente nel ruolo di avvocato difensore di me stesso”, ricorda Conte nel libro, sottolineando “come sia stato quasi fortunato ad aver avuto le competenze e i mezzi per potersi difendere a differenza di tanti cittadini comuni che possono essere travolti dagli errori del sistema giudiziario”. E allora il libro, come scrive Conte, nasce proprio per questo “per sollecitare nelle istituzioni e nella magistratura una riflessione sulle contraddizioni dell’ordinamento giudiziario italiano, su i suoi vuoti e sulle sue possibili degenerazioni, affinché il ruolo del pubblico ministero resti sempre e solo quello di chi deve accertare i fatti e acquisire le prove a carico ma anche a discarico dell’imputato e non quello di un giustiziere che deve ristabilire un ordine sociale violato”.

Le proposte di Conte per una riforma della giustizia. Un libro quello di Mario Conte che, ripercorrendo la sua vicenda giudiziaria con dovizia di documenti e di particolari, diventa anche un manifesto programmatico per una possibile riforma della giustizia o meglio per una serie di piccoli accorgimenti mirati perché, come scrive Conte, “in Italia il vero problema in materia di giustizia non è quello di fare riforme epocali ma di recuperare la distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello stato incapaci di esprimere il proprio ruolo”. Secondo Mario Conte serve un sistema in cui il processo penale “debba solo accertare in tempi ragionevoli se l’imputato è colpevole o innocente oltre ogni ragionevole dubbio, senza nessuna forzatura, senza preconcetti o tesi precostituite da difendere” così come servirebbe prevedere “un rapporto più equilibrato tra imputato e inquirenti restituendo dignità al primo (intesa come rispetto della persone e dei diritti e non dimenticando la presunzione di innocenza) e professionalità ai secondi: elementi essenziali per l’efficienza e l’affidabilità di un sistema giudiziario di uno stato democratico”. Idee semplici e chiare che avranno bisogno di un’immediata applicazione per evitare che in futuro si possano ripetere vicende giudiziarie così paradossali. Del resto il valore assoluto della ricerca della verità e il miglioramento di quel sistema giudiziario per cui ha speso una vita intera sono stati proprio l’obiettivo per cui Mario Conte si è battuto fino all’ultimo respiro.

AL MAGISTRATO MARIO CONTE SARÀ INTITOLATA LA SALA CONSILIARE DI VILLANOVA DEL BATTISTA. Da avellinotoday.it. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. A Mario Conte, napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino, verrà intitolata la sala consiliare del Comune di Villanova del Battista alle ore 17.30 di sabato 28 settembre. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. L’amministrazione comunale di Villanova del Battista ha voluto fare questo gesto “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”.

Palermo, suicida l’ex capo dei gip Vincenti. Era indagato. Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. Choc al Palazzo di Giustizia di Palermo. Si è suicidato Cesare Vincenti, magistrato a lungo presidente della sezione gip-gup del Tribunale del capoluogo siciliano, è prima ancora della sezione Misure di prevenzione. Vincenti era andato in pensione da poche settimane al termine di una carriera lunga (oltre quarant’anni in magistratura) e apprezzata che nell’ultimo periodo era stata scossa da un’indagine giudiziaria. Vincenti e il figlio Andrea, avvocato, erano indagati dal giugno scorso dalla procura di Caltanissetta per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell’ambito dell’indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all’ex patron del Palermo calcio Maurizio Zamparini. Secondo l’ipotesi dei pm nisseni, l’imprenditore friulano avrebbe appreso preventivamente del rischio di una richiesta di custodia cautelare nei suoi confronti. Incredulità in tribunale tra ex colleghi e avvocati. Poche settimane fa Vincenti, che soffriva da mesi di depressione, aveva salutato il personale del Palazzo di giustizia con un brindisi, come da prassi, nel suo ufficio. Oggi, nella tarda mattinata, si è tolto la vita nella sua abitazione palermitana nella zona residenziale di via Sciuti.

Dramma a Palermo, si uccide l'ex capo dei gip Cesare Vincenti: era indagato per il crac del Palermo. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Si è tolto la vita l'ex capo dei gip del Tribunale di Palermo Cesare Vincenti. Il magistrato, che era andato in pensione da pochi mesi, era indagato insieme con il figlio Andrea, avvocato, dalla Procura di Caltanissetta per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell'ambito dell'indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all'ex patron del Palermo Maurizio Zamparini. Vincenti si è gettato dal balcone. Sono arrivati sul posto il questore di Palermo Renato Cortese, il procuratore capo Francesco Lo Voi, il capo della Mobile Rodolfo Ruperti e il capitano della Compagnia di San Lorenzo maggiore Andrea Senes. Appena arrivato anche il medico legale.  

Si suicida l’ex gip Vincenti. «Lasciato solo da tutti». Il Dubbio il 22 novembre 2019. Era indagato per la fuga di notizie sul caso Zamparini. L’accusa degli avvocati: «è vittima del processo mediatico». Ma il suo legale smentisce il collegamento con l’avviso di garanzia di giugno: «era depresso da tempo». Si è tolto la vita il giudice Cesare Vincenti, ex presidente dell’ufficio del gip di Palermo, che ieri si è lanciato dal pianerottolo del quinto piano del palazzo in cui abitava, da una finestra del vano scale che dà sul parcheggio interno. Prima del gesto si trovava con la figlia nel suo appartamento, al terzo piano dello stabile di via Rapisardi. L’ex giudice, andato in pensione a giugno scorso, era indagato assieme al figlio Andrea, avvocato, per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell’ambito dell’indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all’ex patron del Palermo, Maurizio Zamparini. Un’indagine che, secondo la Camera penale di Palermo, lo avrebbe fatto finire al centro di un processo mediatico che lo ha portato ad essere lasciato solo dai colleghi. Ma a smentire qualsiasi collegamento tra la scelta di suicidarsi e l’indagine è il legale di Vincenti, Paolo Grilli. «L’avviso di garanzia e le indagini della procura di Caltanissetta non hanno nulla a che vedere con quanto successo – ha sottolineato – poiché Vincenti era affetto da un anno dalla depressione. Era refrattario alle cure». Non sono dello stesso avviso, però, gli avvocati di Palermo. «Questo evento – si legge in una nota della Camera penale – costituisce la conseguenza di un perverso circuito mediatico-giudiziario che travolge vita e affetti senza alcun discernimento. Il principio costituzionale di non colpevolezza, unico strumento di contrasto alla gogna mediatica, è un segno di civiltà che deve essere richiamato e ribadito in momenti drammatici come questo – dicono i penalisti -. Una tragedia che si consuma subito dopo il trentennale della scomparsa di Sciascia, che della nostra terra contemporanea ha saputo evidenziarne tratti, contraddizioni e crudeltà». Il dolore per la sua morte corre anche sui social. «Sembra essere un gesto di un uomo di altri tempi, che si ribella contro l’ipocrisia di un mondo in cui lui era controcorrente – scrive su Facebook Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada -. Spero che chi lo ha lasciato solo in vita abbia il pudore di non fare passerelle nel momento delle sue esequie. La sua tragica morte dovrebbe farci riflettere sulle conseguenze dei processi mediatici». L’ex giudice, in magistratura dal 1976, era stato presidente della sezione gip- gup del Tribunale di Palermo e prima ancora della sezione Misure di prevenzione. A giugno, poco prima del pensionamento, aveva ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta. Secondo l’ipotesi investigativa, sarebbe stato lui la talpa in Procura che avrebbe informato Zamparini dell’esistenza di un’indagine a suo carico e del rischio che venisse emessa un’ordinanza di custodia cautelare. Dopo essere finito sul registro degli indagati, come raccontato da alcuni magistrati, era «stato allontanato da quasi tutti i colleghi». Al punto che alla festa di commiato organizzata recentemente al Palazzo di giustizia se n’era presentato solo uno. A salutarlo, dunque, si erano presentati solo avvocati e amministrativi. Nelle prossime ore verrà deciso se disporre o meno l’autopsia. Nel frattempo, i carabinieri hanno acquisito le immagini dell’impianto di videosorveglianza del palazzo.

·         Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.

Oltre cento testimoni, decine di avvocati e cinque imputati: si apre oggi il maxi-processo all’ex prefetto Malfi. Andrea Zanello il 7 Novembre 2019 su La Stampa. Oltre 100 testimoni, una decina di avvocati, almeno tre parti civili, cinque imputati. Oggi in Tribunale a Vercelli davanti al collegio presieduto da Enrica Bertolotto si apre il processo nato dall'inchiesta sull' accoglienza dei migranti e che ha coinvolto quelli che erano i vertici della prefettura. Il giudice Claudio Passerini lo scorso giugno ha rinviato a giudizio l'ex prefetto di Vercelli Salvatore Malfi ed il suo vice Raffaella Attianese, ora in servizio a Torino, le funzionarie Cristina Bottieri e Lucia Catelluccio e Gianluca Mascarino, presidente di Obiettivo Onlus (cooperativa favorita secondo le accuse nei bandi per la gestione dell'accoglienza dei migranti). Oggi si terrà l'udienza filtro: dopo eventuali questioni preliminari sarà calendarizzato il dibattimento che si annuncia denso. La lista dei testimoni dovrebbe superare i 100 nomi tra accusa, difesa e parti civili. Le accuse, a vario titolo, mosse dal sostituto procuratore Davide Pretti che ha coordinato l'inchiesta sono turbativa d'asta, abuso d'ufficio, frode, rivelazione di segreto d'ufficio, corruzione, favoreggiamento, maltrattamenti, minacce, estorsione, induzione indebita ad ottenere utilità. Le indagini condotte dalla squadra mobile della questura di Vercelli e dal nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Vercelli e coordinate da Pretti hanno prodotto un'inchiesta che inizialmente era stata affossata dal gip di Vercelli, ma poi resuscitata dal Riesame di Torino che ha accolto gran parte dell'impianto accusatorio della procura. L'inchiesta sulla gestione dell'accoglienza dei migranti tra 2015 e 2016 in provincia di Vercelli è nata da un esposto di alcuni volontari che lavoravano nelle strutture gestite dalla cooperativa Obiettivo Onlus. La procura contesta, tra gli altri, una serie di reati legati alla selezione delle location destinate all’accoglienza, ma anche la gestione dei migranti al loro interno ed episodi per aggirare i controlli. Durante l'indagine però l'inchiesta ha preso una piega diversa aprendo un secondo filone lungo una zona grigia tra pubblico e privato che è costato altre accuse ad Attianese e Malfi, relativamente al modo in cui venivano trattate segretaria e colf del prefetto. Queste ultime due si sono costituite parti civili così come il ministero dell'Interno.

·         Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».

Beppe Alfano, l’assassinio del cronista anti boss cerca ancora una verità. A 26 anni dalla morte la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio di Olindo Canali, il magistrato che era Pm nel processo a esecutori e mandanti. Con l’accusa di aver favorito Cosa nostra. Fabrizio Gatti il 29 novembre 2019 su L'Espresso. L’amore di un padre non smette mai di proteggere la propria figlia, anche se lei ormai è una giovane donna. E Beppe Alfano è un papà pieno di attenzioni. Lo sarà fino alla sera di venerdì 8 gennaio 1993, quando tre proiettili sparati da un revolver calibro 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, fermano per sempre l’intelligenza di un giornalista scomodo. Un cronista controcorrente anche oggi, perché le sue simpatie a destra poco si adattano al cliché che vorrebbe gli eroi dell’antimafia schierati solo a sinistra. Così, grazie alla spiccata capacità di guardare dentro l’antropologia della Sicilia orientale, il caso Alfano brucia ancora nella sua irriverente attualità: pochi giorni fa la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio del magistrato che aveva sostenuto l’accusa al processo contro il mandante e l’assassino e ha riaperto le pagine di un giallo che, ventisei anni dopo, è ancora alla ricerca di un finale credibile. L’allora pubblico ministero si chiama Olindo Canali, 64 anni, è nato in Brianza e oggi lavora come giudice del Tribunale di Milano nella sezione specializzata per l’immigrazione. Canali è accusato di corruzione in atti giudiziari: con l’aggravante, scrivono il procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto, Gaetano Paci, di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di Cosa nostra e in particolare della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto. La Barcellona italiana, quella affacciata sul Tirreno, è una città di oltre quarantamila abitanti: dove, trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, la Guerra fredda con i suoi riti occulti non è mai terminata. Un giorno del 1992, qualche mese prima di essere ucciso, proprio per quel sentimento di protezione che ogni genitore esprime, Beppe Alfano, 47 anni, avverte la figlia Sonia, che allora è una ragazza di 22 anni. «Io ero spesso in macchina con mio padre», racconta Sonia Alfano, che nel procedimento di Reggio Calabria si costituirà parte civile contro il giudice Olindo Canali: «Una volta papà vide Saro Cattafi a Barcellona e lui non me lo indicò al momento, me lo disse dopo che ci eravamo passati con la macchina. Mi disse che era preoccupato, dopo che abbiamo incrociato questa persona. Gli ho detto: e chi è? Mi rispose: se Saro Cattafi è qua, vuol dire che deve succedere qualcosa o che c’è qualcosa in itinere. Gli ho detto: perché? Mi disse che era un esperto di armi e di esplosivi». Le piste investigative seguite da Canali, nel ruolo di pubblico ministero della Procura di Barcellona e poi di applicato alla Direzione distrettuale antimafia di Messina, non hanno mai coinvolto l’uomo indicato da Beppe Alfano. Rosario Cattafi era rientrato da poco a Barcellona dopo anni trascorsi a Milano e in Svizzera, impegnato in «attività di intermediazione nel traffico d’armi estero su estero». Così lo definisce nel 1986 il magistrato Francesco Di Maggio della Procura di Milano, chiedendo il suo proscioglimento dall’inchiesta per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati. Oggi Cattafi ha 67 anni e una fedina giudiziaria in punta di diritto: dichiarato colpevole di calunnia e associazione mafiosa senza ruoli direttivi dagli anni Settanta al 1993, dopo il rinvio della Corte di Cassazione è in attesa del giudizio in appello per gli anni dal ’93 al 2000. L’episodio che lo riguarda è ricordato nella memoria con cui Sonia Alfano, assistita dall’avvocato Fabio Repici, si è opposta alla recente richiesta di archiviazione dell’ultima indagine sull’agguato: un fascicolo ancora aperto a Messina, di cui però potrebbe essere disposto il trasferimento alla Procura di Reggio Calabria, competente sui magistrati in servizio nella Sicilia orientale. L’avvocato Francesco Arata, uno dei due difensori di Olindo Canali, spiega che si tratta di una questione già «chiarita, nota, vecchissima: ripresa ora nel contesto e a supporto di una vicenda calunniosa, reiterata dopo l’assoluzione piena di Canali qualche anno fa». Il procuratore Bombardieri e l’aggiunto Paci chiedono comunque il rinvio a giudizio del giudice in concorso con il boss della mafia di Barcellona, Giuseppe Gullotti, 59 anni, e un ex killer, Carmelo D’Amico, 48 anni, oggi collaboratore, secondo il quale alcune dichiarazioni irrituali di Canali e qualche errore procedurale sarebbero stati fatti in cambio della promessa di denaro. Mediatore tra la mafia e il magistrato, sarebbe un medico, Salvatore Rugolo, figlio del precedente capoclan di Barcellona e cognato di Gullotti, il nuovo boss. Il giudice, interrogato un anno fa a Reggio Calabria, respinge le accuse di corruzione e ammette la frequentazione saltuaria con Rugolo tra la seconda metà del 2003 e i primi mesi del 2005. Perché, spiega, tutti dicevano che si era staccato da Gullotti e dal padre e aveva cercato di tirarsi fuori. Il medico nel frattempo è morto in un incidente stradale. I tormentati gradi del processo agli assassini di Beppe Alfano si concludono soltanto nell’aprile 2006: quando diventa definitiva la sentenza a ventuno anni di carcere per Antonio Merlino, ritenuto l’esecutore materiale, che si aggiungono ai trent’anni irrevocabili dal 1999 per il boss Giuseppe Gullotti, riconosciuto come mandante. Ma qualche mese prima, arriva il colpo di scena. A gennaio 2006, Canali spedisce due memorie personali: una all’avvocato della famiglia Alfano, l’altra al giornalista della “Gazzetta del Sud”, Leonardo Orlando, con le quali sostiene che Gullotti era stato condannato ingiustamente per l’omicidio del giornalista e che comunque sulle prove della sua responsabilità gravavano dubbi e perplessità tali da chiedere e ottenere la revisione della condanna. Né il procuratore di Messina, né il capo della Procura di Barcellona vengono però preventivamente informati dal pubblico ministero. Canali in quegli stessi mesi ha già perso il suo incarico alla Direzione distrettuale antimafia: il 30 maggio 2005 rappresenta per l’ultima volta l’accusa al maxiprocesso “Mare nostrum”, poi la sua applicazione viene revocata in seguito agli incontri, documentati dalla polizia giudiziaria, con Salvatore Rugolo, il cognato del mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. In cambio di atti contrari ai propri doveri d’ufficio, dichiara ora il collaboratore D’Amico, il magistrato avrebbe accettato la promessa della consegna di trecentomila euro, della quale avrebbe ricevuto una prima parte di cinquantamila, allo scopo di favorire la posizione processuale di Gullotti. Deciderà il giudice per le indagini preliminari se i movimenti sul conto personale sono dovuti alla vendita di beni propri, come Canali ritiene di aver sufficientemente dimostrato. Ma le repliche alla sua versione messa a verbale non sono lusinghiere. Gianclaudio Mango, pm antimafia di Messina ora in pensione, dichiara di essere rimasto sorpreso dai rapporti del collega, perché Rugolo era il figlio di un capomafia ucciso e cognato di colui che veniva considerato il capo della famiglia di Barcellona, nonché imputato dell’omicidio Alfano: sebbene su Rugolo figlio non fosse emerso nulla di penalmente rilevante, almeno all’epoca, tali circostanze avrebbero dovuto sconsigliare Canali dalla frequentazione. Il tenente colonnello dei carabinieri, Domenico Cristaldi, racconta a verbale come già nel 2003 Salvatore Rugolo e il magistrato fossero soliti circolare insieme, a piedi o in macchina, per il centro di Barcellona. E di come abbia notato diverse volte Rugolo a bordo dell’auto di servizio dei carabinieri, sulla quale viaggiava anche Canali. Proprio per questa ragione l’allora capitano Cristaldi decise di ritirare l’auto. Luigi Croce, procuratore a Messina dal 1998 al 2008, ricorda invece di aver chiesto la revoca dell’applicazione di Canali dal maxi-processo “Mare nostrum” dopo una relazione di servizio dei carabinieri, che avevano visto il magistrato a pranzo con il cognato del boss Gullotti in un ristorante fuori Messina. Olindo Canali arriva a Barcellona dalla Procura di Monza il 22 maggio 1992, la vigilia della strage di Capaci. E Beppe Alfano, secondo i suoi colleghi al quotidiano “La Sicilia”, ha con il nuovo pubblico ministero un rapporto confidenziale. Alfano in redazione dice di essere certo che il boss Benedetto “Nitto” Santapaola si nasconda in città. E forse scopre che un apparato statale ne segue la latitanza da vicino, senza arrestarlo. Un ulteriore, possibile testimone è l’avvocato siciliano Ugo Colonna, che è anche il secondo difensore nominato ora da Canali. Interrogato in un altro procedimento dalla Distrettuale antimafia di Messina nel 2002, poco prima che il magistrato brianzolo cominci a turbare colleghi e carabinieri, Colonna spiega il ruolo di Salvatore Rugolo. «A capo di Barcellona c’è il figlio di Rugolo, il medico che è uno importante», dice Colonna. «Il cognato di Gullotti?», chiede il pubblico ministero, Rosa Raffa. «Di Pippo Gullotti», conferma l’avvocato. Ma nella sua ricostruzione storica, una risposta è dedicata anche a Nitto Santapaola, di cui parlano alcuni collaboratori che il legale assiste: «L’intelligenza di Santapaola è quella di mettersi con lo Stato. Mai contro lo Stato perché lo Stato, deviato ovviamente, non fa la giustizia, lo Stato fa gli interessi particolaristici di queste persone: quindi mi devo mettere con lo Stato», aggiunge Ugo Colonna riferendosi ai mafiosi, «perché nel momento in cui mi distacco dallo Stato, in sostanza, vengo combattuto». Barcellona, secondo Colonna, è ormai al vertice: «I gruppi di Riina e di Santapaola vengono buttati via dopo le stragi, no? I barcellonesi sono la nuova Cosa nostra». Aveva scoperto questo, Beppe Alfano? E con chi ne aveva parlato? Gullotti intanto non perde l’occasione. Già ha evitato l’ergastolo perché, pur condannato come mandante dell’omicidio, nella richiesta di rinvio a giudizio il pubblico ministero di Barcellona non gli aveva contestato l’aggravante della premeditazione. Ma oggi può addirittura sperare di tornare libero. Le due memorie scritte dal magistrato al di fuori del rito giudiziario, cioè il presunto corpo del reato nel procedimento penale che riguarda sia Canali sia il boss, hanno avuto un’incredibile conseguenza legale. Il 10 ottobre 2019 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dopo aver accolto l’istanza dei difensori, ha avviato il giudizio di revisione a favore di Giuseppe Gullotti. Dal carcere di Parma, il capomafia si prepara a una seconda vita. I figli e la moglie di Beppe Alfano a un nuovo, ingiusto dolore.

«L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Olindo Canali, oggi in servizio a Milano, è accusato di «corruzione in atti giudiziari». I pm: «Deve andare a processo». Lui: «Niente prescrizione». Per i pm che lo accusano è un giudice (oggi in servizio a Milano) che da pm in Sicilia si fece corrompere per proteggere due triplici killer e il boss mafioso mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano. Per la difesa è invece un giudice che rinuncia alla prescrizione e chiede un processo-lampo sulle accuse false e tardive (oltre i 180 giorni) di un collaboratore di giustizia che riferisce parole di un morto su fatti di 19 e 11 anni fa. Il risultato attuale è che la Procura di Reggio Calabria chiede il rinvio a giudizio di un giudice civile molto stimato dai colleghi milanesi, Olindo Canali, per due ipotesi di «corruzioni in atti giudiziari» aggravate dall’aver agevolato il clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto del boss Giuseppe Gullotti quando là a fine anni ‘90 Canali era pm. Dop che Canali chiese la condanna a 30 anni di Carmelo D’Amico e Salvatore Micale per un triplice omicidio del 1993 ma gli imputati furono assolti in primo grado il 20 novembre 1999, l’assoluzione divenne definitiva perché il pm depositò l’appello non entro il termine del 3 aprile 2000 ma il 7 aprile (pur con data 3 aprile), e poi il 14 aprile vi rinunciò «per errore di calcolo». Ora la Procura di Reggio Calabria, sulla scorta di dichiarazioni nel 2015 proprio di D’Amico divenuto collaboratore nel 2014, collega l’errore a «100 milioni di lire promessi a Canali», che così si sarebbe «adoperato per condizionare l’esito del processo». Il giudice ribatte che l’appello in ritardo fu davvero un errore; che nemmeno pg e parti civili appellarono; che i capi, pur se non lo ricordano, erano informati; e che è contraddittorio che D’Amico racconti anche d’aver nel 2002 cercato un modo per ricattare il pm se già nel 2000 l’aveva comprato. Per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano l’8 gennaio del 1993, dopo un’iniziale assoluzione, su ricorso di Canali furono poi condannati in via definitiva i ritenuti esecutore Nino Merlino (21 anni) e mandante Giuseppe Gullotti (30 anni). Il 9 marzo 2009, nel processo d’appello «Mare Nostrum» per associazione, l’avvocato di Gullotti, Franco Bertolone, depositò un anonimo che disse trovato nella posta, e che additava la condanna di Gullotti ingiusta e meritevole di revisione. L’aveva redatto nel 2006 proprio Canali, il quale per i pm reggini lo «inviò il 9 gennaio 2006 all’avvocato Fabio Repici» (parte civile per la figlia di Alfano, Sonia) e «l’11 gennaio al giornalista Leonardo Orlando», dicendogli di renderlo pubblico in caso di arresto: timore del pm, all’epoca, per le polemiche sulla sua frequentazione del medico Salvatore Rugolo, consulente giudiziario ma figlio del boss barcellonese e cognato del capomafia Gullotti. Dopo 2 anni Repici nel 2008 depositò lo scritto ai pm di Messina, ai quali in dicembre Canali ne ammise la paternità. Poi in aula lo tirò fuori pure il legale di Gullotti, Canali fu chiamato teste il 15 aprile 2009, lo spiegò come momento di sconforto e isolamento, fu denunciato da Repici per falsa testimonianza, condannato in primo grado a 2 anni ma assolto in via definitiva a Messina nel 2013 «perché il fatto non sussiste». Adesso l’accusa stilata dal procuratore aggiunto reggino Gaetano Paci è che Canali abbia scritto il memoriale (pervenuto non si sa come anche al legale di Gullotti che l’utilizzò per cercare di ottenere la revisione della condanna definitiva del boss) in cambio del denaro («50.000 euro» su «300.000 promessi») che il collaboratore D’Amico asserisce d’aver consegnato nel 2008 a Rugolo intermediario di Gullotti. Rugolo non può confermare perché è morto il 26 ottobre 2008, ma l’accusa valorizza «le espresse indicazioni fornite da Gullotti mediante la corrispondenza epistolare con la sorella Fortunata dal carcere di Cuneo» (in regime di 41 bis) in 7 lettere tra giugno e dicembre 2008, specie nella frase «si devono portare i soldi» a un legale. I difensori Francesco Arata e Ugo Colonna obiettano che Canali già dal 2005 non aveva più con Rugolo i rapporti iniziati solo nel 2001; che nel 2006 Gullotti denunciò Canali incolpandolo della propria condanna; e che tutti i conti bancari forniti dal giudice provano la liceità dei soldi usati per una casa. Inoltre la difesa, in forza di relazioni del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala ai pm che l’avvocato di parte civile Repici, come assistente dell’allora parlamentare Sonia Alfano, nel 2012 sia entrato in carcere con lei e con il senatore Beppe Lumìa a colloquio con il boss Gullotti proprio anche sul processo.

·         Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.

Nonostante 2 anni e 8 mesi per concussione continuava ad amministrare la giustizia. Luca Fazzo, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. C'è voluta una condanna per concussione a due anni e otto mesi di carcere perché Giorgio Alcioni, giudice del tribunale di Milano, finisse sanzionato dal Consiglio superiore della magistratura. Una carriera costellata di contestazioni disciplinari, anche per fatti disdicevoli, era finora proseguita senza scossoni e Alcioni continuava fino a pochi giorni fa ad amministrare giustizia in nome del popolo italiano nella sua stanza al sesto piano del Palazzo di giustizia. Anzi, dopo la condanna per concussione, aveva ottenuto che il presidente del tribunale, Roberto Bichi il mese scorso lo scegliesse tra altri aspiranti per il posto che aveva richiesto alla tredicesima sezione civile, quella che si occupa di sfratti e di locazioni. Una destinazione singolare, visto che proprio da una storia di liti condominiali è scaturita la condanna di Alcioni. Ma l'articolo del Giornale che lo scorso 8 maggio aveva resa nota la condanna di Alcioni, non è passato inosservato. Il giudice è finito sotto procedimento disciplinare e nei giorni scorsi il Csm ha disposto la sua sospensione cautelare dall'incarico. È un provvedimento provvisorio e d'altronde anche la condanna inflitta ad Alcioni non è definitiva. Ma almeno cesserà l'imbarazzante spettacolo di un giudice ritenuto colpevole di un reato grave che continua come se nulla fosse a distribuire torti e ragioni. A rendere nota la sospensione di Alcioni è stato il presidente Bichi, con una circolare che spiega che solo il 16 luglio scorso il tribunale di Milano ha avuto notizia del provvedimento emesso dal Csm a carico di Alcioni che è stato collocato «fuori ruolo». E il posto che gli era stato assegnato alla tredicesima sezione viene riassegnato alla seconda classificata. La condanna a due anni e otto mesi di Alcioni è stata decisa dal tribunale di Brescia, al termine di un processo in cui sono state esaminate una lunga serie di prepotenze - per usare un eufemismo - messe in campo dal magistrato per impedire che un bar, il «Birillo» di viale Monte Nero, si trasferisse sotto casa sua, nel palazzo prospicente. Alcioni era arrivato al punto di fare irruzione negli uffici del Comune cercando di impadronirsi della pratica: «Se voglio, io il fascicolo lo visiono lo stesso. Lo faccio sequestrare e me lo porto a casa». Al barista aveva detto più volte «lei questo bar non lo aprirà mai, lei è a conoscenza del lavoro che svolgo?». La cosa singolare è che il primo procedimento disciplinare a carico di Alcioni risalga addirittura al 1996, quando era pretore ad Abbiategrasso e l'Ordine degli avvocati denunciò una serie di comportamenti anomali, tra cui usare come proprie auto sequestrate e di portare i suoi cani negli spazi del tribunale. Poi nel 2006 era finito nuovamente sotto procedimento disciplinare per avere condannato una società a pagare alla controparte un risarcimento di ben 600mila euro senza motivare la sentenza. Tutte le volte se l'era cavata senza conseguenze. Ed evidentemente questo lo ha convinto di poter continuare a fare quello che gli pareva.

·         Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».

Foggia, la giudice «furbetta del cartellino» condannata dalla Corte dei conti. Per 8 anni la donna «risultava sempre in servizio o assente giustificata per ragioni di servizio (con permessi retribuiti)», mentre durante le udienze avrebbe dovuto risultare assente dal servizio per poi recuperare le ore perse. Massimiliano Scagliarini il 16 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dal 2006 al 2013 nel Tribunale di Foggia ha operato un magistrato onorario «assenteista», che ha prima svolto funzioni giudicanti e quindi - dal 2010 al 2016 - quelle di vice-procuratore onorario. Dimenticandosi però, una volta cambiato incarico, di chiedere l’autorizzazione alla Provincia di Foggia di cui è dipendente. «Chi ha occultato l’assenza dal servizio e si è procurato un ingiusto profitto è lo stesso soggetto che ha amministrato la Giustizia in nome del Popolo italiano», hanno scritto i giudici della Corte dei conti pugliese condannando Lucia Calderisi, 50 anni, avvocato nell'ufficio legale dell’ente, a risarcire circa 67mila euro. La decisione della magistratura contabile (presidente Raeli, relatore Iacubino) arriva dopo una indagine della Finanza che due anni fa aveva già portato il Tribunale di Lecce a condannare la Calderisi per truffa aggravata a due anni con interdizione dai pubblici uffici: condanna appellata e a rischio di prescrizione. Anche la Corte dei conti ha dovuto ridurre per prescrizione le richieste dell’accusa, rappresentata dal vice-procuratore contabile Antonio D’Amato (il fascicolo era stato aperto dal collega Pierpaolo Grasso), che aveva quantificato il danno in circa 97mila euro. L’indagine, nata da una denuncia, ha infatti accertato - è detto in sentenza - che la donna «risultava sempre in servizio o assente giustificata per ragioni di servizio (con permessi retribuiti, il che, sostanzialmente, è la stessa cosa)», mentre invece durante le udienze avrebbe dovuto risultare assente dal servizio per poi recuperare le ore perse. Da qui la condanna a restituire 4.230 euro, pari agli stipendi da funzionaria della Provincia che avrebbe ottenuto attestando «in modo fraudolento la presenza in ufficio o lo svolgimento di attività d’ufficio». Nel 2010 la Calderisi ha partecipato al bando del ministero della Giustizia per vice-procuratore onorario, risultando vincitrice e prendendo servizio (nel 2011) in Procura a Foggia. Dimenticando però - secondo l’accusa - di chiedere l’autorizzazione alla Provincia: quella che le era stata concessa nel 2001 come giudice onorario, quando era ancora una semplice impiegata, per la Corte dei conti non è infatti valida. Dal 2013 al 2015, peraltro, la funzionaria era in aspettativa per frequentare un dottorato all’Università di Bari, e anche in questo caso avrebbe «dimenticato» di rendere noto l’incarico giudiziario. La legge in questi casi è chiara: i compensi ricevuti tornano allo Stato. Ed ecco che, tolti gli anni dal 2010 al 2012, ormai prescritti, l’ex magistrato onorario restituirà altri 61mila euro, oltre a 2.500 euro per il danno di immagine causato alla Provincia.

·         La dolce vita dei Bancarottieri.

LA DOLCE VITA DEI BANCAROTTIERI MILIARDARI FRA VINI, CAVALLI E NUOVE SPECULAZIONI - DA CRAGNOTTI A MUSSARI FINO A CALISTO TANZI E GIANNI ZONIN, ECCO CHE FINE HANNO FATTO GLI UOMINI AL CENTRO DEGLI SCANDALI - C'È CHI HA ABBINDOLATO 30 MILA INVESTITORI E CONTINUA A TENERE CORSI SU COME METTERSI IN PROPRIO - E C'È CHI HA PRELEVATO I SOLDI DAI CONTI CORRENTE DEI SOCI, MORTI COMPRESI, HA MEZZO DISTRUTTO UN PAIO DI BANCHE, MA NONOSTANTE QUESTO…Pubblichiamo un estratto del servizio di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Francesco Bonazzi ha firmato l’inchiesta «Bancarottieri d’Italia» sugli imprenditori che hanno provocato crac miliardari. Uscendone spesso quasi illesi. Ecco che fine hanno fatto Calisto Tanzi, Sergio Cragnotti e Giovanni Zonin. Articolo di Francesco Bonazzi pubblicato da “la Verità” il 20 giugno 2019. C' è chi ha abbindolato 30.000 investitori, ma continua a tenere corsi su come mettersi in proprio [...]. E c' è chi ha prelevato i soldi dai conti corrente dei soci, morti compresi, ha mezzo distrutto un paio di banche, ma nonostante questi successi è tornato a comprare e vendere quote di istituti di credito. [...]

Sergio Cragnotti, 79 anni, è stato patron della Lazio dal 1992 al 2003 [...]. Si è fatto sei mesi di carcere preventivo, ha incassato condanne, annullamenti della Cassazione e rinvii in un lungo calvario giudiziario che dopo 15 anni non è ancora concluso. Comunque vada a finire, la Cirio sbriciolò come croste di pane 1,1 miliardi di euro a oltre 35.000 investitori. E Cragnotti [...] a Roma non lo si vede mai. Manda avanti la tenuta agricola Corte alla Flora a Montepulciano, in Toscana, dove scontò gli arresti domiciliari e che oggi è intestata ai figli, e gira per il Centro Italia a promuovere i suoi vini in ristoranti e alberghi.

Calisto Tanzi ha appena un anno di più di Cragnotti, al quale è spesso accomunato perché come lui si muoveva sotto l' ala protettiva del banchiere romano Cesare Geronzi [...]. Il fallimento Parmalat pende su di lui [...]: un buco da 14,3 miliardi di euro e 145.000 risparmiatori danneggiati. Dal 2003 a oggi Tanzi è stato sotterrato di condanne, poi in qualche modo riviste e ridotte fino alla metà, circa 19 anni di carcere. Considerata l'età, ha ottenuto i domiciliari e ora anche la semilibertà, che significa poter uscire di casa tre ore al mattino, vicino a Parma. [...] Passa la giornata a fare il nonno e il giardiniere, nel parco di casa. Da fervente cattolico, sa che alla lunga si raccoglie quel che si semina. Ma nel Vangelo c'è anche una parabola che racconta la storia dell'amministratore infedele, ovvero colui che, quando capisce che il padrone sta per licenziarlo, chiama i debitori (del padrone, ovvio) e concede loro ampi sconti. [...]

Come deve aver fatto l'ex banchiere «cattolicissimo» Giampiero Fiorani, che ai tempi della sua Popolare di Lodi era di casa in Liguria (nel 2003 comprò il Banco di Chiavari). Nell'ottobre 2015, per i danni causati dalla scalata Antonveneta del 2005, risarcì la Banca Popolare di Lodi con 34 milioni di euro. Ma Fiorani (classe 1959), dopo una condanna a due anni e mezzo, dall' estate del 2014 è tornato in pista. L' ex banchiere vive a Lodi, ma è il braccio destro di Gabriele Volpi, l'imprenditore di Recco che ha accumulato fortune enormi in Nigeria lavorando nella logistica per l' Eni.

Volpi [...] ha investito oltre 100 milioni di euro per acquisire il 9% della Carige, che oggi è sospesa in Borsa e di milioni ne vale a stento 90 [...]. C'è chi invece vorrebbe scomparire, ma alla fine lo trovano sempre. Come Giuseppe Mussari, penalista calabrese che nell'era pre Bce dei banchieri «del territorio» fu fatto presidente del Monte dei Paschi di Siena. È passato alla storia per aver aperto una voragine nella banca più antica del mondo comprando per 10 miliardi Antonveneta. Vive in un coagulo di villette intestate alla moglie, a pochi chilometri da Siena. Cucina e va a cavallo all'alba. [...] Al centro di varie inchieste, Mussari sta aspettando la sentenza per i derivati appioppati al Montepaschi e per operazioni immobiliari disastrose. A Milano, i pm hanno chiesto per lui 8 anni di carcere e 4 milioni di multa. [...]

Chi ha solo cambiato casa è Giovanni Zonin, per 19 anni dominus incontrastato della Popolare di Vicenza e della controllata Banca Nuova, l' istituto siciliano che gestiva i soldi dei servizi segreti e all' interno della quale si sarebbe mossa, secondo Report e per la Procura di Caltanissetta, la rete spionistica gestita da Antonello Montante, l'ex numero due di Confindustria. L'appartamento nel centro di Vicenza è chiuso e sbarrato. La tenuta nella vicina Gambellara è affidata ai figli. Zonin e consorte si sono spostati tra i vigneti di Terzo d' Aquileia, in Friuli, dove possono andare a cena fuori senza che tutta la sala si metta a rumoreggiare. L'ex banchiere torna a Vicenza solo per il processo di primo grado, che non finirà prima della prossima primavera, dove si mostra sempre sorridente. [...] La prescrizione marcia inesorabile. [...]

Pop.Vicenza, la sorella del giudice frena il maxi processo a Zonin&C. Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Corriere.it. È tutto assolutamente regolare ma il rischio non poteva essere previsto prima? Non poteva astenersi la sorella? Questo è un procedimento gigantesco con 9mila parti civili, 400 avvocati, un milione di pagine di atti (che il nuovo giudice dovrà pur leggersi, sommariamente). È partito il 24 gennaio e imputati per aggiotaggio, ostacolo alle autorità di Vigilanza e falso in prospetto, sono l’ex presidente Zonin, l’ex consigliere Giuseppe Zigliotto e alcuni dirigenti. Per 18 tra ex consiglieri e membri del collegio sindacale i pm Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori hanno già chiesto l’archiviazione perché, in sintesi, «non sapevano» delle manovre illecite, in particolare le operazioni «baciate». In sostanza erano professionisti di altissimo livello (avvocati, professori di economia, industriali, commercialisti) pagati bene dai soci per gestire, controllare, chiedere, informarsi, pretendere, obiettare più che avallare, passare carte, brindare. Le indagini, evidentemente, hanno appurato che non hanno saputo né capito cosa stava succedendo sotto i loro occhi. Ora si attende che il gip confermi l’archiviazione oppure ordini un supplemento di indagini, ammesso che la procura vicentina ne abbia le forze. Intanto l’intoppo dei fratelli Miazzi, così come qualsiasi piccolo ritardo, avvicina il rischio prescrizione cioè «il limite – dice l’avvocato vicentino Renato Bertelle – oltre il quale i cittadini e i risparmiatori non avranno giustizia». Altri legali di parte civile sostengono che adesso i difensori degli imputati vorranno rifare quanto è già stato acquisito come, per esempio, le testimonianze. «Puntiamo a chiudere il processo relativo alle vicende del dissesto della Banca Popolare di Vicenza entro il 2020 abbiamo fissato un calendario di udienze serrato», diceva il presidente del collegio Miazzi giovedì 24 gennaio 2019. Poi è spuntato l’incarico della sorella avvocato.

·         Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.

Caso Cucchi a Roma, a processo Casarsa e altri sette carabinieri per depistaggio. Ilaria: "Momento storico". Prima udienza il 12 novembre, si apre così un quarto processo per il decesso del geometra romano.  L'allora comandante dei carabinieri della capitale aveva dichiarato di aver avuto informazioni solo dal suo superiore dell'epoca, Vittorio Tomasone. La sorella: "Tutto iniziato grazie a Casamassima". La Repubblica 16 luglio 2019. Sono stati rinviati a  processo  otto militari dell'Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell'ambito dell'inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che - secondo le accuse - avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre. Tra militari coinvolti, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'inchiesta coinvolge anche Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Cianni.

I capi di imputazione. Scrive il pm: "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano secondo cui Cucchi lamentava dolori al costato e che non poteva camminare, ndr) fosse modificato nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo Musarò, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che 'Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidita' della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Gli indagati rispondono di falso anche in merito alla annotazione di servizio, sempre del 26 ottobre del 2009 redatta dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio (non indagato), "indotto a sottoscrivere il giorno dopo una nota in cui falsamente attribuiva allo stesso Cucchi 'uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza', omettendo ogni riferimento ai dolori al capo e ai tremori manifestati dall'arrestato". Il tutto "con l'aggravante di volere procurare l'impunità dei carabinieri della stazione appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso". Sabatino e Testarmata, che erano stati delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell'ambito dell'indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsita' di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la cosa all'autorita' giudiziaria, favorendo così gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, una volta scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell'epoca con il nome di Cucchi "sbianchettato", non solo non acquisi' il documento originale, come gli era stato ripetutamente detto da due colleghi, ma neppure riporto' la circostanza nella relazione di servizio. Tra gli otto militari dell'Arma rinviati a giudizio figura De Cianni che in una nota di pg accuso' Casamassima, pur sapendolo innocente, di aver fatto dichiarazioni gradite alla famiglia Cucchi dietro la promessa di soldi da parte di Ilaria, sorella di Stefano. Casamassima, che per aver collaborato con la magistratura e aver dato un impulso significativo alle nuove indagini ha subito pressioni e ritorsioni, compreso un trasferimento ad altro incarico e relativo demansionamento, gli avrebbe riferito che Cucchi la sera dell'arresto tento' gesti di autolesionismo e che fu solo schiaffeggiato, non certo pestato. Dichiarazioni false che De Cianni ha confermato anche in un interrogatorio fatto alla squadra mobile.

Ilaria Cucchi: "Momento storico grazie a Casamassima". "Possiamo dire che la decisione del gup rappresenta un momento storico e significativo per noi. Tutto è cominciato per merito di Riccardo Casamassima (il carabiniere supertestimone che ha fatto riaprire l'inchiesta, ndr)".  E' il primo commento, a caldo, di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma per la vicenda legata ai depistaggi. "Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati - ha aggiunto Ilaria - non immaginavamo neanche quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Oggi poi abbiamo assistito a uno scaricabarile con il generale Casarsa che ha raccontato che le cause della morte di Stefano gli furono dettate dal generale Tomasone".

Casarsa si difende: "Uniche informazioni mediche dal mio superiore". "Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali. Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti". Si era difeso così, nel corso di una dichiarazione spontanea resa di fronte al Gup, Alessandro Casarsa. Il generale aveva chiamato in causa il suo diretto superiore, il generale Vittorio Tomasone (ex comandante provinciale di Roma e da gennaio 2018 comandante interregionale Ogaden), pur senza mai nominarlo direttamente. Casarsa era il comandante del Gruppo Roma, quando Stefano Cucchi venne arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti, picchiato in caserma e poi deceduto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo.

Tomasone: "Quello di Cucchi fu arresto normale". Fino a oggi Tomasone era entrato nella vicenda Cucchi solo in relazione alla sua deposizione avvenuta il 27 febbraio scorso, nella veste di testimone, nel processo in corso davanti alla corte d'assise dove figurano imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati dal pm Giovanni Musarò di omicidio preterintenzionale. "Per me quello di Cucchi era stato un arresto normale - aveva detto quel giorno in udienza Tomasone -. Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del Gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto fino alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Per l'attuale comandante interregionale Ogaden, "tutto portava ad escludere qualsiasi coinvolgimento dei carabinieri in questa storia". Rispondendo al pm, poi, Tomasone aveva escluso con forza di essersi mai interessato delle questioni medico-legali legate alle cause della morte di Cucchi. E a proposito di un atto interno all'Arma del primo novembre 2009, esibito in udienza dal magistrato, proprio a firma del generale, in cui venivano presi per buoni gli esiti (parziali) dell'autopsia, che la procura all'epoca non poteva conoscere anche perchè doveva essere integrato il pool dei suoi consulenti tecnici, il generale Tomasone aveva fornito questa spiegazione: "Confermo di non essermi mai interessato degli accertamenti medico legali così come escludo di aver mai parlato con i consulenti. Posso immaginare di aver raccolto queste informazioni sulla base di quanto giratomi dal comandante del gruppo Roma, ma non so se lui abbia interloquito con i medici".

Saul Caia per il “Fatto quotidiano”  il 10 luglio 2019. L' ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d' ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l'organismo sindacale dell'Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall' accusa di omissioni di atti d' ufficio. Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall' inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari). Comincia tutto con l'indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l'uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti "puniti" avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall' abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore. Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall' Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l' archiviazione. Per loro mancano gli "elementi costitutivi" dell' abuso d' ufficio, "sia dal punto di vista dell' elemento oggettivo che di quello soggettivo", perché "non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari". Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l'imputazione coatta per tutti e tre gli indagati. Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il "coinvolgimento" di "esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell' Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare "una lezione" a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici". Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile "affinché si attivasse per punire" Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea "la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015", quando "Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente" dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie. A Roma, l' ex comandante dell' Arma è imputato per favoreggiamento (con l' ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d' ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all' epoca presidente Consip, l' esistenza di un' indagine sull' imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.

IL CASO CUCCHI FA ESPLODERE L'ARMA DEI CARABINIERI. (ANSA il 9 aprile 2019.) - "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile nel caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". Lo afferma all'ANSA - parlando del comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri - il colonnello Sergio De Caprio, presidente del Sindacato italiano militari Carabinieri, noto come Capitano Ultimo.

Capitano Ultimo contro il comandante dell'Arma "Parte civile? Si dimetta". Il colonnello De Caprio contro il generale Nistri che ha deciso di costituire l'arma parte civile nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive Giovanni Neve, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile sul caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". A dirlo è il colonnello Sergio De Caprio, conosciuto come il "Capitano Ultimo" e attuale presidente del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri che incalza così il comandante generale dell'Arma, il generale Giovanni Nistri. "Per dieci anni i vertici dei carabinieri hanno ignorato e negato il caso Cucchi. Solo ora se ne accorge", dice De Caprio parlando della morte di Stefano Cucchi come riporta Tgcom24, "Qualcuno dirà meglio tardi che mai. Invece, no è troppo tardi. E noi carabinieri ci sentiamo parte lesa per questo ingiustificabile ritardo. Le lettere del generale Nistri non mi interessano. Non è questione di chiedere scusa. Mi interessano i fatti e i fatti sono un silenzio lunghissimo. Non lo dico io, lo dice il calendario. L'Arma vuole fare piena luce? Stiamo parlando di ovvietà e banalità. La violenza va condannata sempre e i responsabili vanno perseguiti, anche se si trovano all'interno della nostra istituzione: alla fine ci si è arrivati, ma con tantissimo ritardo rispetto ai fatti. Ora bisogna indagare e capire come mai e la procura lo sta facendo benissimo. Il sindacato dei carabinieri è con la famiglia Cucchi e con tutte le vittime di violenza. Nessuno potrà strumentalmente allontanarci da Ilaria Cucchi e dalla sua famiglia. Siamo da sempre accanto alle vittime e per le vittime contro ogni abuso e non al servizio di altri padroni. Da carabinieri, ci sentiamo parte lesa dall'assenza e dall'incapacità del vertice dell'Arma, che per dieci anni ha ignorato e negato l'esistenza stessa del caso Cucchi'. Vorremmo sapere perché, come tutti i cittadini".

Dal caso Cucchi all’omicidio Di Gennaro, la catarsi dell’Arma che sa chiedere scusa. Le macchie non cancellano i tanti meriti, dalla lotta alle cosche e al terrorismo fino al Peace keeping. La fiducia della gente sfiora il 70%, scrive Fabio Evangelisti il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il suo nome era Vincenzo Di Gennaro. Enzo per gli amici. Cullava sogni e coltivava speranze. Come ciascuno di noi. Aveva 47 anni e una compagna, Stefania. Presto si sarebbe sposato. Invece, in un sabato di aprile, in una piazzetta di un paese alle pendici del Gargano, quell’uomo è morto. Ammazzato soltanto perché indossava la divisa dei Carabinieri. Immediatamente la notizia è rimbalzata su tutti i siti e i social. Poi sono arrivate le televisioni e la carta stampata. E un coro unanime s’è levato nel Paese. Tutti stretti nel cordoglio e nella vicinanza all’Arma. Mentre una bandiera tricolore veniva poggiata come un velo pietoso sulla macchina con la striscia stilizzata sulla carrozzeria. Come se quel sangue versato su quella piazza di Cagnano Varano rappresentasse la catarsi, la purificazione dell’Arma dopo una settimane ( e mesi) di dolorosa passione. Dapprima la lettera del generale Giovanni Nistri alla famiglia Cucchi. Non soltanto scuse per le botte che avevano portato a morte Stefano. Soprattutto la denuncia delle falsità e del depistaggio perpetrato dai propri commilitoni. Fino a ipotizzare la costituzione dell’Arma come parte civile nel processo in corso. Poi le immagini e la voce in tv di Francesco Tedesco, uno dei militari imputati per quell’omicidio che è diventato il super teste contro i colleghi coimputati. Quindi le polemiche seguite alle parole di Sergio De Caprio. Il famoso “Capitano Ultimo” ( noto per aver arrestato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, nel lontano 1993) ha criticato apertamente il comandante generale dei Carabinieri: ‘ Per dieci anni il vertice dell’Arma ha ignorato e negato il ‘ caso Cucchi’. Ora se ne accorge. Ritardo ingiustificabile”. A febbraio era emersa un’altra storia di depistaggio riguardo alla vicenda di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce, uccisa nel 2001 nella caserma dei carabinieri del suo stesso paese in provincia di Frosinone. Lo hanno confermato le analisi del Ris egli stessi Carabinieri. E, ancora, a ottobre scorso, l’imbarazzo dell’Arma per la prima condanna a 4 anni e 8 mesi ( con rito abbreviato) per il carabiniere Marco Camuffo accusato a Firenze, insieme al collega Pietro Costa ( che andrà a processo il prossimo 10 maggio), di aver abusato di due studentesse ventenni dopo averle riaccompagnate a casa con l’auto di servizio da una discoteca. Macchie difficili da cancellare in una storia pur segnata da quotidiani e normali atti di eroismo, dalle Alpi alla Sicilia. Dalle zone terremotate agli incidenti sulle strade. Dalla lotta alle cosche alle azioni di peace keeping nelle zone calde del mondo. Atti e gesta quotidiani suggellati dal testo di quella splendida canzone che Giorgio Faletti tanti anni fa portò a Sanremo: “… e siamo qui con queste divise. Che tante volte ci vanno strette. Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette. E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo Paese. Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese. E c’è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù. E farla scendere è una parola, se chi ci ammazza prende di più di quel che prende la brava gente..” E infatti, secondo Eurispes, resta ancora altissima la fiducia dell’opinione pubblica verso l’Arma dei Carabinieri. Un livello del 69,4%, calcolato nel 2018. Probabilmente, se l’Italia anche sul piano della sicurezza e della lotta al terrorismo ha fin qui dimostrato grandi capacità di prevenzione, il merito va a questi uomini in divisa, spesso bistrattati se non strumentalizzati. Come è avvenuto anche sabato dopo il grave fatto di sangue in provincia di Foggia. “Pena di morte” qualcuno ha rilanciato. Non c’è bisogno di seppellire nuovamente Cesare Beccaria. E nemmeno di un inasprimento specifico delle pene. Quel che serve è che non si abbassi mai la guardia di fronte al crimine organizzato e l’impegno nel contrasto della microcriminalità diffusa. Quella maggiormente avvertita dai cittadini. E serve che la trasparenza continui a restare un valore primario per chi esercita funzioni istituzionali e amministra pene e giustizia. Altrimenti la retorica patriottica ( come anche quella inneggiante a Dio e famiglia) potrà pure trionfare, ma soltanto come metafora di una civiltà senza presente. E, soprattutto, senza futuro.

STAI SERENA (BORTONE).  Da Libero Quotidiano il 30 marzo 2019. Il poliziotto diventa uno «sbirro». Non succede nella periferia malfamata di una grande città, ma in uno studio Rai , quello di Agorà, dove la conduttrice Serena Bortone si riferisce proprio in quel modo a un ospite in studio. Le cose sono andate così: la Santanchè, anche lei tra gli ospiti, si rivolge a un interlocutore chiamandolo «professore». La conduttrice lo corregge: «Non è un professore, è uno sbirro, un poliziotto». La frase ha poi suscitato inevitabili polemiche sul web.

Non è un paese per sbirri, scrive il 17 aprile 2019 Domenico Ferrara su Il Giornale. Vengono ricordati solo quando vengono ammazzati. O quando commettono dei soprusi. Per il resto le forze dell’ordine non esistono. Anzi, peggio ancora, lavorano rischiando la vita ogni giorno. L’Italia non è un paese per sbirri. Diciamocelo una volta per tutte. Il rispetto per la divisa è un sentimento che va e viene come una bandiera sballottata dal vento. Per questo non esiste mai una via di mezzo. Ci sarà sempre qualcuno pronto a difenderli ciecamente a spada tratta e ci sarà sempre qualcuno pronto a puntare il dito contro un’intera categoria. Il caso Cucchi è l’emblema dello status quo. Un deprecabile caso che avrebbe potuto e dovuto essere chiuso nel giro di 24 ore (con l’individuazione dei responsabili e la loro punizione ed esclusione dall’Arma) e che invece ha visto uno spiraglio di luce solo alla fine di un tunnel durato dieci anni. Alimentando così un disprezzo generalizzato verso il corpo militare ed esacerbando gli animi dei difensori dello stesso corpo. Come un elastico tirato da entrambe le parti, gli estremi si sono allargati e allontanati sempre di più. ImageIn medio stat virtus, dicevano i latini. Invece nel mezzo non ci sta niente. Non ci sta quello che ci dovrebbe stare e che sarebbe normale che ci fosse, cioè il normale rispetto e la sana fiducia nei confronti dell forze dell’ordine. E non ci sta perché le persone che dovrebbero garantire la nostra sicurezza vengono considerate soltanto quando realmente abbiamo bisogno di loro. E siamo pronti pure a lamentarci del fatto che non abbiano risolto la situazione o che siano arrivati troppo tardi. Questo quando si trovano di fronte persone normali. Altrimenti sono solo sbirri, guardie contro cui ingaggiare battaglie fuori dagli stadi di calcio, a cui sputare, contro cui rivolgere insulti, lanciare sassi, bulloni, pietre, fumogeni, bombe carta, a cui sparare, da uccidere. Andate a chiederlo a quei poveri cristi che per mesi al freddo e al gelo a Chiomonte erano semplicemente dei bersagli dei violenti dei No Tav. Svolgevano semplicemente il loro dovere. Per una paga risibile. Andate a chiederlo a quelli che devono combattere con uniformi desuete e attrezzature inadeguate, che sono costretti a mangiare sugli scudi, ma che nonostante tutti ogni giorno sono lì a proteggerci. Tutte cose che stanno in mezzo. Nel silenzio. Nell’indifferenza. Sono sbirri e basta. Sinonimo di spia. Allarmi da segnalare a chi ti viene incontro in auto se si sorpassa indenni un posto di blocco. Guastafeste quando vogliono interrompere un’occupazione in una scuola, quando in realtà applicano solo la legge e l’illegalità sta proprio nell’occupazione. O quando effettuano uno sgombero. Piedipiatti rompipalle quando ti beccano senza casco o ti multano: perché sono loro a violare il tuo codice della strada e non sei tu a farlo. L’Italia non è un paese per sbirri. E neanche per le regole e per la legge. Ma nonostante questo, loro, carabinieri e polizia, saranno sempre lì in prima fila a prendersi sputi, insulti, sassi, bulloni, pietre, fumogeni, bombe carta, pallottole. A morire. Nel mezzo del silenzio.

Renzi: “C’è il capitano Ultimo dietro il complotto Consip”. E lui lo querela. Lo scontro tra l’ex premier e il carabiniere che catturó Riina, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 16 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “L’Arma ama poco i personaggi che brillano di luce propria. Successe con Dalla Chiesa, che i vertici di allora avrebbero volentieri ridimensionato, ma che sfuggì di mano. Accade oggi con capitano Ultimo”, dichiara il giornalista Mediaset Enrico Fedocci, grande conoscitore delle dinamiche interne alla Benemerita. Il trasferimento di Ultimo, alias colonnello Sergio De Caprio, e dei suoi 23 fedelissimi dal Nucleo operativo ecologico (Noe) ai Servizi segreti (Aise) avvenuto nel 2015, e la loro successiva brusca cacciata avvenuta nel 2017, non celerebbe quindi alcun “complotto” contro Matteo Renzi. Era stato l’ex premier, nel libro “Un’altra strada”, da ieri nelle librerie, ad ipotizzare che dietro questi trasferimenti si potesse nascondere qualcosa di poco chiaro. “Perche Ultimo e tutto il suo gruppo, di colpo e con un atto senza precedenti, viene rimandato indietro?”, scrive Renzi. “In quel periodo – prosegue – l’Arma pativa una strisciante tensione interna legata al cambio di vertice”. Il riferimento è alla proroga concessa dal governo all’allora comandante generale Tullio Del Sette, nonostante fosse rimasto coinvolto nell’inchiesta Consip. Sempre secondo la ricostruzione di Renzi, Ultimo sarebbe stato trasferito dal Noe all’Aise con lo scopo di catturare Matteo Messina Denaro. “Un segugio infallibile”, dissero di Ultimo i vertici dell’epoca dei Servizi. Solo che il gruppo di Ultimo non si mise alla caccia di Matteo Messia Denaro. Anzi, “qualcuno avrebbe sbagliato Matteo”, aggiunge ironico Renzi. Il capitano Giampaolo Scafarto, poi promosso maggiore, “avrebbe manipolato le prove”, puntualizza l’ex premier, citando la testimonianza davanti al Consiglio superiore della magistratura del procuratore di Modena Lucia Musti: “Dammi le prove per arrivare a Renzi, devo arrestare Renzi”. Ultimo ha dato mandato a Francesco Romito, il suo storico avvocato di Roma, di agire nei confronti dell’ex premier. “Leggo – si legge in una sua nota – che Matteo Renzi nel suo libro paventa ancora fantomatici complotti ed azioni eversive contro di lui. Non mi sono mai occupato di Renzi e non me ne occupo ora”, “Il motto dell’Arma è ’Usi obbedir tacendo e tacendo morir’. Capitano Ultimo è tipo da ‘obbedir’ e da ‘morir’ ma non tacendo”, ricorda Fedocci. Anni addietro, il vicecomandante Clemente Gasparri, a proposito della sobrietà che deve contraddistingue il carabiniere, fece questo esempio: “L’Arma è come un treno in corsa, i passeggeri sono vincolati prima di scendere alla responsabilità di lasciare pulito il posto occupato”.  Vanno evitati comportamenti che possano comportare il “deragliamento dell’antico treno”.  E a viale Romania sono molto attenti al fatto che ciò non accada.

G8, per la Diaz è ora di pagare, i poliziotti condannati a rimborsare tre milioni. Quasi vent'anni dopo, la sentenza della Corte dei Conti per il rimborso delle spese legali e dei risarcimenti. I giudici: "Quella notte sonno della ragione", scrive Marco Preve il 15 marzo 2019 su La Repubblica. A quasi vent’anni dalla notte della macelleria messicana, i 27 poliziotti responsabili delle violenze alla scuola Diaz e delle false prove “per coprire le nefandezze perpetrate” subiscono una nuova condanna. Alti dirigenti, ispettori e agenti sono stati condannati dalla Corte dei Conti a risarcire un danno erariale pari a due milioni e 800 mila euro per danni materiali. Un’ulteriore condanna da cinque milioni per il danno d’immagine dovrà essere valutata il 22 maggio dalla Corte Costituzionale poiché un controverso codicillo del 2009 consente di contestare il danno erariale solo per reati contro la pubblica amministrazione e non per imputazioni come il falso o le lesioni gravi. Come richiesto dal procuratore regionale della Corte, Claudio Mori, dovranno rifondere ai ministeri dell’Interno e della Giustizia le spese legali dei tre gradi di processo penale, le provvisionali stabilite come risarcimenti alle decine di manifestanti inermi massacrati di botte e arrestati sulla base di prove costruite ad arte, nonché ripagare gli avvocati del gratuito patrocinio delle parti civili. Nonostante siano trascorsi, appunto, quasi due decenni e l’ultimo capo della polizia Franco Gabrielli, due anni fa proprio su Repubblica, abbia finalmente fatto pubblica ammenda a nome della polizia per quanto accaduto nel luglio del 2001, il G8 e i fatti della Diaz in particolare continuano a rappresentare un corto circuito della nostra democrazia. Intanto perché in questi lunghi anni tutti i responsabili hanno potuto fare tranquillamente carriera nonostante gli avvisi di garanzia e le prime condanne (Gilberto Caldarozzi, uno dei condannati, è oggi il numero due della Dia, la Direzione investigativa antimafia, l’Fbi italiana) e nonostante le sentenze della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che condannò l’Italia per la mancanza di un reato di tortura (legge arrivata, fra mille polemiche, solo nel 2017). E poi perché il comportamento processuale degli imputati è stato sempre quanto di più distante vi sia da ciò che ci si aspetterebbe da alti rappresentanti delle istituzioni. Esempio illuminante, il rifiuto di massa (se si eccettuata il vicequestore Massimiliano Fournier ) di deporre nelle aule dei processi. Il rifiuto di manifestare un minimo pentimento che valse ad alcuni dei condannati la negazione dell’affidamento ai servizi sociali. Un atteggiamento ostruzionistico proseguito anche nel giudizio davanti alla Corte dei Conti con situazioni a dir poco imbarazzanti. Filippo Ferri, ex capo della squadra mobile di Firenze, figlio dell’ex ministro Enrico e fratello del leader dell’Anm Cosimo, ha tentato di sostenere la nullità della notifica “poiché il plico dell’invito a dedurre è stato consegnato a soggetto che non rivestiva la qualifica di familiare convivente”. La Corte ha ritenuto insussistente la questione poiché l’atto “è arrivato nella sfera di conoscibilità del destinatario, in particolare alla cognata”. Inoltre, attraverso le difese di alcuni degli imputati del processo erariale si è scoperto che i due ministeri hanno notificato le cartelle esattoriali ai funzionari di polizia ai fini di rivalsa sulle spese sostenute ma che le “cartelle sono state annullate per vizi formali e per difetto di motivazione…. sicchè è ragionevole ritenere che allo stato degli atti non un solo euro di risarcimento è stato retrocesso alle amministrazioni danneggiate”. Insomma, vent’anni senza interruzione di carriera - Franco Gratteri all’epoca il più alto in grado divenne questore, prefetto e poi capo Divisione Centrale Anticrimine prima di andare in pensione, Pietro Troiani è oggi capo di una delle centrali della Polstrada più importanti d’Italia - e senza risarcire alcunché. Ora tutti i condannati faranno ricorso in appello e se la sentenza verrà confermata si vedranno pignorare stipendi e pensioni del quinto. Ovvero, i costi della macelleria messicana ricadranno quasi interamente sui cittadini italiani. Resta nei confronti di coloro che “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero” il marchio d’infamia per aver infangato la divisa, per quel “sonno della ragione da parte dei vertici operativi Luperi e Gratteri che si propaga e investe tutta la catena di comando, la notte del 21 luglio sono sospese le garanzie costituzionali. Per gli occupanti non c’è via di scampo… Alla polizia venne lasciata carta bianca…sciolti i freni inibitori”.

·         CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

TOGHE ROTTE. Giorgio Meletti per "il Fatto Quotidiano” il 30 luglio 2019. "Se il Csm è il buco nero della giustizia all'italiana, la sua sezione disciplinare lo è dell' intero Palazzo dei Marescialli. Quella dove le correnti del sindacato in toga ordiscono le trame più inconfessabili". Se vi sembrano parole ispirate dallo scandalo di questi giorni, vi state sbagliando. Le ha scritte dieci anni fa Stefano Livadiotti - coraggioso giornalista dell' Espresso che ci ha lasciato troppo presto l' anno scorso - in un libro intitolato Magistrati. L'ultracasta. Il nocciolo del discorso era quello che ancora oggi lorsignori vogliono rimuovere: nella giustizia c' è il vero cancro italiano, tutto il resto è metastasi. La classe dirigente continua a girarsi dall' altra parte perché tutti hanno paura dei magistrati: o hanno la coscienza sporca, o sono già in debito per un' archiviazione allegra o un' indagine dolosamente sciatta, oppure sono onesti ma la paura dei magistrati l' hanno interiorizzata a prescindere. Il libro di Livadiotti fu liquidato dagli interessati con commenti pigramente diffamatori: la tecnologia della merda nel ventilatore è stata brevettata ben prima dei social network dai comparti più sussiegosi della classe dirigente. Un magistrato del Nord che andava per la maggiore lo definì "livido e rancoroso"; dall' altro capo della penisola una valorosa toga antimafia lo trovò "pieno di errori che inducono alla disinformazione". A dieci anni di distanza c'è una pagina dell'Ultracasta che fa stringere il cuore. Livadiotti riferisce che, secondo le rilevazioni 2008 di Eurobarometro, solo il 31 per cento degli italiani ha fiducia nel sistema giudiziario, mentre la media europea è al 46 per cento. Secondo un altro sondaggio un italiano su tre ammette di aver perso ulteriormente fiducia nella magistratura. L'autore aggiunge che anche il primo presidente della Corte di Cassazione, inaugurando l'anno giudiziario, ha dovuto ammetterlo: "La magistratura non può ignorare il forte calo di fiducia non solo internazionale, ma ora anche interno nei suoi confronti". Commento di Livadiotti: "L'auspicio di tutti è, appunto che non lo ignori. Che consideri suonata la campanella dell' ultimo giro e si dia una mossa, riformandosi dall'interno. Prima che lo faccia qualcun altro, magari con intenti poco nobili. Il paese ha bisogno di tutto meno che di una magistratura delegittimata e per ciò stesso, alla fine, asservita". Ai normali sudditi queste parole profetiche fanno stringere il cuore, ai magistrati dovrebbero farli arrossire di vergogna per dieci anni di silenzio e furbizie. Quel presidente di Cassazione che doveva prendere coscienza era Vincenzo Carbone: nel 2010, appena andato in pensione, è stato indagato per la sua collaborazione alle trame della cosiddetta P3, associazione segreta capitanata da Flavio Carboni che si occupava, guarda un po', anche di pilotare sentenze e carriere dei magistrati. Nel 2013 Carbone è stato rinviato a giudizio. I suoi colleghi hanno impiegato più di quattro anni per condannarlo in primo grado - il 16 marzo 2018, quarantesimo anniversario della strage di via Fani - a due anni per abuso d' ufficio. Per lui la strada della prescrizione è spianata. Ma in questi dieci anni i suoi colleghi dov' erano? Erano pieni di lavoro. Dovevano vendersi le assoluzioni o gli insabbiamenti, indagare il collega per fotterlo (loro parlano così), difendersi dagli agguati "disciplinari", strappare poltrone per i propri compagni di corrente. I più hanno taciuto, per giustificata paura dei colleghi delinquenti o per vigliaccheria semplice, e se gli fai notare come si sono ridotti si offendono. Adesso che è saltato il coperchio c'è chi, per malinteso senso dello Stato, cerca di mettere la sordina allo scandalo. Credendo che le istituzioni si difendano con l'omertà.

Caso Palamara-Csm: toghe sporche. Decine di magistrati sono sotto inchiesta per corruzione, con effetti devastanti sulla giustizia italiana. Antonio Rossitto l'1 luglio 2019 su Panorama. «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra» avvertiva il giurista Piero Calamandrei. Qualche decennio dopo, è la corruzione ad aver sfondato quell’uscio. Le trame romane, esacerbate dall’ultima sfornata di intercettazioni, sono lo sgradevole rumore di fondo. Il vero frastuono è un altro: le inchieste che stanno travolgendo giudici e inquisitori. Un florilegio investigativo mai visto prima. Abusi, falsi, favori e mercimoni. Che stanno sconquassando tribunali e procure di mezza Italia. E rischiano di ferire a morte la nostra magistratura. La bomba è detonata nella capitale. La procura di Perugia indaga per corruzione sul pm romano Luca Palamara, riverito simbolo delle toghe nostrane: ex membro del Csm, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, leader di Unicost. Avrebbe beneficiato di «varie e reiterate utilità, consistenti in viaggi e vacanze» per lui, amici e conoscenti. E poi, dettaglia ancora l’avviso di garanzia, un «anello non meglio individuato del valore di 2 mila euro in favore dell’amica Adele Attisani». Regalie. Per agevolare nomine e danneggiare magistrati ostili. Il burattinaio sarebbe l’avvocato siracusano Pietro Amara. Uno abituato a intrecciare, oliare e mistificare. Nel gorgo ha trascinato una decina di toghe. Le sue supposte gesta corruttive hanno figliato deflagranti fascicoli. Nella rete investigativa finisce anche Palamara. E poi, a strascico, un altro blasonato pm romano: Stefano Rocco Fava. È indagato per concorso in rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento personale. Avrebbe aiutato Palamara «a eludere le investigazioni a suo carico». Così come a screditare l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e il suo fido aggiunto, Paolo Ielo. Anche Luigi Spina, consigliere dimissionario del Csm, viene coinvolto: per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.

Le intercettazioni svelano pure il rimestio di toghe. Chi va a guidare la procura di Roma? Meglio un sodale che un Robespierre. Giusto. Magari mette anche una pietra sopra l’indagine che fastidia gli amici. Come quella sugli appalti Consip, che coinvolge Luca Lotti: ex ministro turborenziano allo Sport, più interessato alle liane giudiziarie che alle funi delle palestre. Così, una telefonata via l’altra, Lotti s’è autosospeso dal partito. Pochi giorni dopo, il 20 giugno 2019, viene però ascoltato a Messina: nell’ennesimo procedimento nato dalle prodezze di Amara. L’ex ministro è difatti testimone nel processo contro l’ex giudice amministrativo, Giuseppe Mineo, imputato per corruzione in atti giudiziari assieme a Denis Verdini, a sua volta accusato di finanziamento illecito ai partiti. Ossia: aver ricevuto 300 mila euro dall’avvocato siciliano per il suo defunto gruppo politico Ala. È stato ancora il disinvolto legale a tirare in ballo Lotti, che ammette di aver ricevuto una mail da Verdini per spingere la nomina di Mineo, mai avvenuta, al Consiglio di Stato. Il giudice, proprio mentre il suo nome viene caldeggiato, avrebbe ricevuto 115 mila euro: per sovvertire due sentenze, care ad Amara e al collega Giuseppe Calafiore. Attorno ai due legali si sviluppano altri robusti tronconi investigativi. Come l’inchiesta sulle sentenze pilotate, ancora al Consiglio di Stato. Una settimana fa è cominciato il processo per tre magistrati: il già presidente del Consiglio di giustizia amministrativo siciliano, Raffaele Maria De Lipsis; l’ex giudice della Corte dei conti, Luigi Pietro Maria Caruso; un altro togato, ora sospeso, Nicola Russo. Sono accusati di corruzione in atti giudiziari. Per la Procura di Roma i tre sarebbero stati il fulcro di un rodato meccanismo truffaldino: sentenze benevole in cambio di mazzette. Il procuratore aggiunto Ielo, lo stesso avversato da Palamara e Fava, contesta cinque episodi. Una delle tangenti, da 30 mila euro, l’avrebbe consegnata un politico: il deputato regionale siciliano, Giuseppe Gennuso, eletto dopo un rocambolesco ricorso. La decisione sarebbe stata aggiustata da De Lipsis. I due, assieme a Caruso, il 18 giugno 2019 chiedono di patteggiare. L’ex giudice Russo, invece, è accusato di aver alterato gli appaltoni pubblici Consip. Sentenze per cui sono indagati anche due presidenti di sezione del Consiglio di Stato. Uno è Sergio Santoro. L’altro, ora in pensione, è Riccardo Virgilio: gli contestano 751 mila euro su conto svizzero. Denaro, ipotizzano gli inquirenti, da ripulire. E dunque girato a una società maltese dei tentacolari Amara e Calafiore.

La giustizia, invece, comincia a fare il suo corso in un ulteriore filone marchiato Amara: il cosiddetto «sistema Siracusa». Che ha già portato alla condanna di un pm del capoluogo siciliano: Giancarlo Longo. Amara, legale anche dell’Eni, gli avrebbe dato sottobanco 88 mila euro. E si sarebbe prodigato per pagare lussuose vacanze a Dubai. In cambio il magistrato, dettaglia la sentenza di primo grado, aveva aperto un’inchiesta dall’ardita ipotesi investigativa: un complotto ai danni di Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni. Già, ma perché? Per depistare, rimestare, confondere. Sperando infine di fiaccare le indagini della Procura di Milano sulla corruzione in Congo e Nigeria del colosso petrolifero italiano. Longo, lo scorso dicembre, patteggia cinque anni. E lascia la toga. Due settimane fa stessa sorte è toccata a un suo vecchio collega, rimosso dal Csm: Maurizio Musco, già pm di Siracusa, poi a Sassari. Sprofondato in un’inchiesta cui gli contestano, tra le altre cose, d’aver violato «consapevolmente e reiteratamente» l’obbligo di astenersi da un procedimento su familiari e clienti di un intimo amico. Ovvero: l’immancabile Amara. In attesa di giudizio, Musco però è già stato condannato a 18 mesi, in via definitiva, per abuso d’ufficio. Stessa sorte per il suo vecchio capo, l’ex procuratore di Siracusa, Ugo Rossi.

Un anno fa, invece, viene radiata dalla magistratura l’ormai mitologica Silvana Saguto: ex potentissima e ossequiatissima presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Finisce sotto inchiesta nel 2015, per associazione a delinquere. È accusata di aver creato un prolifico cerchio magico attorno alla gestione dei beni confiscati alla mafia: figli, mariti, amici e colleghi. Tutti beneficiati, è l’ipotesi della Procura di Caltanissetta, da rigide regole spartitorie nell’assegnazione di amministrazioni giudiziarie e incarichi vari. Il processo all’ex presidente è in corso, tra appassionanti colpi di scena. Intanto lo scorso febbraio, in uno stralcio del fascicolo, è condannato a due anni e quattro mesi il giudice Fabio Licata. Per falso materiale. Più prosaicamente: avrebbe firmato tre provvedimenti illeciti di Saguto. Nella gloriosa compagine della sezione fallimentare palermitana sono però indagati altri due togati: Raffaella Vacca e Giuseppe Sidoti.

E qui si spalanca un nuovo precipizio. Che nel capoluogo siciliano, ancora una volta, rischia di trascinare giù influentissimi magistrati. È l’inchiesta sul Palermo calcio. Sidoti è accusato di concorso in corruzione, abuso d’ufficio e rivelazione di notizie riservate. In parole povere: avrebbe contribuito a salvare la malmessa compagine dal fallimento. Con una sentenza pilotata ad arte. In cambio di un posto per un’amica nell’organismo di vigilanza della società. Lo scorso novembre, Sidoti viene sospeso per un anno. Ma le traversie dei rosanero, due settimane fa, coinvolgono pure il capo dei gip del tribunale, Cesare Vincenti. Per un altro supposto caso di familismo amorale. È indagato per rivelazione di notizie riservate e corruzione assieme al figlio Andrea, avvocato e presidente del comitato etico della squadra di calcio. Incarico che avrebbe ottenuto in cambio degli spifferi paterni sull’ex patron del Palermo, Maurizio Zamparini, oggetto di una richiesta d’arresto per falso in bilancio e riciclaggio. Informazione, ipotizzano i pm di Caltanissetta, poi girata all’interessato. Che, un anno fa, si dimette provvidenzialmente dalle cariche societarie. Gesto che, sostiene un gip dell’ufficio di Vincenti, fa venir meno le esigenze cautelari.

Il 12 giugno 2019, negli stessi giorni in cui scoppia quest’ultimo bubbone, a Palermo esplode un’altra granata giudiziaria. Anche stavolta, le verifiche riguardano un magistrato di riconosciuto prestigio: Anna Maria Palma, avvocato generale nel capoluogo. Viene indagata per concorso in calunnia, aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Così come Carmelo Petralia, procuratore aggiunto a Catania. I fatti sono di un decennio fa. Quando i due, allora pm a Caltanissetta, si occupano della strage di via D’Amelio: quella in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. I magistrati sono accusati di aver imbeccato un falso pentito: Vincenzo Scarantino. Suggerendo di attribuire l’attentato a incolpevoli estranei. Depistaggio definito «clamoroso» nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, costato l’ergastolo a sette innocenti. E che adesso coinvolge i due ex pm nisseni.

Per favoreggiamento alla mafia indaga anche la Procura di Salerno. Ma l’inchiesta riguarderebbe pure presunte corruzioni, rivelazioni di segreto d’ufficio e abusi vari. Sarebbero coinvolti almeno 15 magistrati calabresi, tra cui procuratori e aggiunti. Le accuse nascono da una faida interna. La denuncia sarebbe partita da un esposto di Nicola Gratteri, capo della Procura di Reggio Calabria. E adesso i colleghi salernitani, competenti sul distretto calabrese, starebbero verificando le supposte violazioni. Un procedimento su cui, per ora, regna tombale riserbo.

Anche in Puglia, continuano le indagini sulle «Toghe sporche» alla Procura di Trani. Il 7 giugno 2019 il gip del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, dispone altri tre mesi di custodia cautelare per l’ex pm Antonio Savasta e il gip Michele Nardi, già arrestati lo scorso gennaio. L’accusa ai due è gigantesca: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso. Reati che sarebbero stati commessi tra il 2014 e il 2018, mentre erano in servizio nell’ufficio giudiziario pugliese. Solita, drammatica, solfa: mazzette, in cambio di sentenze pilotate. Savasta sta collaborando. S’è dimesso dalla magistratura. E ha ammesso di aver chiesto 300 mila euro a un imprenditore barese per archiviare un’indagine farlocca: avviata solo per ottenere denaro dal malcapitato. «Era stato letteralmente spolpato» racconta al gip. Sarebbe andata ancora peggio a un altro imprenditore: Flavio D’Introno. Riferisce di aver pagato 2 milioni di euro per evitare di scontare una condanna per usura. Diventato il principale accusatore a Trani, l’uomo continua a vuotare il sacco. E adesso c’è un terzo ex pm pugliese coinvolto: Luigi Scimè, ora in servizio alla Corte d’appello di Salerno. I colleghi di Lecce gli contestano tre mazzette: 75 mila euro in totale. Soldi che sarebbero servizi per aggiustare procedimenti penali a favore dell’imprenditore.

Decisioni pilotate, assoluzioni prezzolate, persecuzioni su commissione. Per la giustizia penale è una Caporetto. Ma anche i tribunali fallimentari vacillano sotto i colpi di scandali e inchieste. Il 1° aprile 2019 è finito agli arresti domiciliari Enrico Caria, ex giudice a Napoli, adesso a Bologna. È al centro di un’inchiesta di Fava, uno dei pm indagati a Perugia. Caria è accusato di aver veicolato nomine e consulenze in cambio di favori. Come gli incarichi che avrebbe affidato alla compagna. Un altro giudice con gloriosi trascorsi nella fallimentare è indagato dalla procura di Ancona: Giuseppe Bersani, già a Piacenza. Il copione, stavolta, sarebbe differente: affidamenti ad amici avvocati in cambio di mazzette. Ma Bersani è sotto inchiesta anche a Venezia per corruzione in atti giudiziari assieme all’amico Tito Ettore Preioni, presidente della sezione civile a Lodi. Una storia assonante con le beghe romane. Avrebbero brigato per far ottenere a uno, Preioni, l’ambita poltrona di presidente del Tribunale di Cremona. Dov’era in servizio l’altro: cioè Bersani. Viene scoperto persino un incontro a Roma con un membro laico del Csm, grazie ai buoni uffici di un avvocato. Che avrebbe pure pagato il viaggio nella capitale dei due magistrati. In cambio, ipotizzano gli inquirenti, dei soliti incarichi. Così torniamo all’inizio, come nel gioco dell’oca. Al mercato delle toghe. Alla giustizia lottizzata e carrierista. Ma che ora s’è intersecata con corruzioni e favori. Una pletora di mercimoni e scorrettezze. Troppi per derubricare o autoassolversi. L’incendio è divampato. E le fiamme, stavolta, non smettono di avanzare.

Giustizia: basta con questo Csm da riformare. L’oscena guerra per la nomina del successore del procuratore di Roma mostra che il sistema correntizio è corrotto e irriformabile. Maurizio Tortorella 31 maggio 2019 su Panorama. La guerra per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, il procuratore di Roma andato in pensione lo scorso 8 maggio, sta devastando l’ultimo vero potere politico rimasto in Italia: la giustizia. I concorrenti per la poltrona di Pignatone all’inizio erano addirittura 13. Ma da metà maggio i giochi si sono concentrati sui due nomi di Franco Lo Voi e di Marcello Viola, rispettivamente procuratore di Palermo e procuratore generale a Firenze ed entrambi appartenenti alla corrente di maggioranza relativa, Magistratura indipendente. Il problema è che la contesa da qualche giorno scatena la rissa delle correnti in seno al Consiglio superiore della magistratura, con dossieraggi incrociati e perfino inchieste giudiziarie. Uno spettacolo di giochi di potere violento e sconcertante. Sembrava che Lo Voi dovesse prevalere, perché sul suo nome convergeva anche la corrente più di sinistra, Area. Prima di arrivare al plenum, però, le candidature per ogni ufficio direttivo devono passare per il vaglio della quinta commissione del Csm. E qui il 23 maggio è successo il patatrac, perché per Lo Voi ha votato solo Mario Suriano, membro togato di Area, mentre per Viola hanno votato in quattro: Antonio Lepre (membro togato di Magistratura indipendente, il gruppo di maggioranza relativa dei magistrati), Piercamillo Davigo (della corrente “grillina” di Autonomie a Indipendenza, che lui stesso ha fondato), Emanuele Basile (membro laico della Lega) e Fulvio Giglioti (un altro laico, del Movimento 5 stelle) .

È a quel punto che si è scatenato l’inferno. La lobby giornalistica della sinistra ha attaccato Viola. Sono partiti i dossier. Un ex membro del Csm a lui vicino, il magistrato romano Luca Palamara, che è uno dei leader della corrente di Unità per la costituzione e ora viene descritto dai giornali come grande manovratore di voti in seno al Csm, è finito indagato con l’accusa di avere accettato denaro per favorire nomine quando sedeva nel consiglio. Si è aperto un verminaio di accuse incrociate e confuse, e a leggere le cronache pare che il più pulito dei protagonisti abbia la rogna. L’effetto complessivo è disastroso per l’immagine della magistratura e della giustizia. Le toghe cadono come birilli, e spesso nella polvere finiscono presunti o celebrati campioni del moralismo giudiziario. Nel 2008, per fare un solo esempio, Palamara era stato nominato presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato dei magistrati, al posto di Simone Luerti, costretto a lasciare quel posto per le polemiche feroci causate dalla notizia di un incontro che Luerti aveva avuto con l'imprenditore calabrese Antonio Saladino, allora coinvolto nell'inchiesta Why Not, e con l'ex guardasigilli Clemente Mastella (anni dopo, peraltro, Saladino e Mastella sono stati assolti con formula pena). 

Difficile dire come andrà a finire, quasi inutile sapere chi sia nel torto e chi nella ragione. Para noi, garantisti, oggi pare ragionevole solo sospendere il giudizio sulle responsabilità individuali, penali o comportamentali, in attesa almeno di qualche sentenza. Ma poi sarà fatta davvero giustizia? C’è davvero da fidarsi, delle toghe che giudicheranno questo guazzabuglio? Decisioni, assoluzioni e condanne saranno sincere e oneste oppure saranno inquinate da giochi di corrente? E quante altre volte accadrà che decisioni, assoluzioni e condanne saranno invece condizionate dai giochi di corrente e dagli interessi di questa e di quella parte?

Questo è il vero dramma che va in scena con l’ultima guerra sulla Procura di Roma. Che la giustizia esce dal calderone del Csm come una larva di zanzara emerge da uno stagno: sembra un piccolo vampiro evanescente, un macabro ectoplasma. È il simbolo della vergognosa decadenza di un Csm che sempre più viene trasformato in osceno mercato delle vacche. Dove interessi di parte, scambi di potere, traffici illeciti e favori inconfessabili si barattano senza che nella politica a ogni livello ci sia chi trovi il coraggio di bloccare questa sconcezza collettiva. Oggi si può ben dire, purtroppo retroattivamente, quanta ragione avesse il centrodestra berlusconiano quando, nel 2004, cercò inutilmente di ridimensionare il Csm nell'assegnazione, nel trasferimento e nella promozione dei magistrati. Il tentativo, sacrosanto, venne bloccato dalla sinistra giudiziaria collegata alla sinistra politica, che ottennero il no del presidente Carlo Azeglio Ciampi. Per quanto celebratissimo sia stato l’uomo, il suo fu un errore fatale.

POST SCRIPTUM. Più volte Panorama ha scritto quanto sia moralistica la logica del “traffico illecito di influenze”, un tipico reato di derivazione (e deriva) grillina divenuto l’articolo 346 bis del nostro Codice penale nel novembre 2012 grazie - ahinoi! - al voto demenzialmente inconsapevole di tutti i gruppi parlamentari (la Camera votò con 480 deputati a favore, appena 19 eroi dissero No, e altri 25 si astennero). Vogliamo leggerne insieme il testo? Perché è utile e istruttivo: “Chiunque (…) sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della propria mediazione illecita (…) ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Questo reato fastidiosamente moralistico, il traffico d’influenze, finora è stato contestato a politici e ministri, a sindaci e assessori regionali. I magistrati, soprattutto quelli poco garantisti, ne hanno fatto il tipico strumento di devastazione della politica, contestandole accordi (spesso legittimi), e scambi di potere, e intese incrociate. Esattamente quel che poi gli stessi magistrati fanno (del tutto illegittimamente) nelle stanze oscure del Csm. Ma da un male potrebbe venire fuori un bene, perché forse l’art. 346 bis potrebbe essere usato per arginare il comitato d’affari giudiziario, l’idra che da troppo tempo avvolge nelle sue spire il Consiglio superiore della magistratura. Ci pensi, qualche magistrato. Da qualche parte ce ne sarà pure uno senza corrente, no? 

Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Palamara. Luca Palamara accusato di corruzione: un patto per controllare la procura di Roma. L'inchiesta che fa tremare il Csm. Giovanni Corato, Mercoledì 29/05/2019, su Il Giornale. L'ex presidente dell'Anm, Luca Palamara, sarebbe indagato per corruzione. Come racconta oggi Repubblica, infatti, la procura di Perugia ha aperto un fascicolo sui veleni scoppiati per la successione alla carica di procuratore generale di Roma dopo il pensionamento di Luigi Pignatone e avrebbe scoperto un vero e proprio "mercato delle toghe". Al centro ci sarebbero i rapporti che legano Palamara - consigliere del Csm fino all'anno scorso - a Fabrizio Centofanti, lobbista arrestato nel febbraio 2018 per reati fiscali ed ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone. Si parla di "viaggi e regali galanti" che vengono ritenuti "al di là dell'opportuno". L'inchiesta coinvolgerebbe anche altre persone di spicco alla quale la procura di Perugia sta lavorando. E questo proprio mentre al Csm si gioca la battaglia delle nomine con la decisione del successore di Giuseppe Pignatone. Battaglia che vede protagonista proprio Palamara, che - di concerto con il renziano Cosimo Maria Ferri - non vorrebbe appoggiare il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, ma quello di Firenze, Marcello Viola, "ritenuto dalla coppia caratterialmente controllabile". Proprio per questo la corrente Unicost guidata proprio da Palamara avrebbe appoggiato la nomina a vicepresidente del Consiglio di David Ermini, laico del Pd ed ex responsabile giustizia del partito, che risponderebbe - riporta sempre Repubblica - a Luca Lotti, ex ministro e braccio destro di Matteo Renzi coinvolto nell'inchiesta Consip.

Corruzione, l’inchiesta che agita la corsa  alla Procura di Roma. Pubblicato mercoledì, 29 maggio 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. La partita per la nomina del nuovo procuratore di Roma non s’è chiusa con la votazione della commissione Incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura, che giovedì scorso ha espresso una chiara indicazione per uno dei tre candidati in lizza: 4 preferenze per lui, e una ciascuna per gli altri due aspiranti. In attesa di questa delicata e importante decisione — la più rilevante che il Csm è chiamato a compiere — si stanno infatti moltiplicando trattative e notizie che potrebbero influire sul verdetto finale. Ad esempio la comunicazione all’organo di autogoverno dei giudici, da parte della Procura di Perugia, di un’indagine per l’ipotesi di corruzione a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione magistrati e componente del Csm fino allo scorso anno. Lui non è in corsa per il posto di procuratore ma per quello di aggiunto (il Consiglio dovrà eleggerne due), e il suo nome è inserito nel risiko delle poltrone da assegnare, tutte collegate tra loro. Inoltre Palamara, esponente di punta della corrente centrista Unità per la costituzione, è uno dei protagonisti di trattative e cordate che si stanno delineando al Csm, ma anche nei palazzi della politica. L’inchiesta di Perugia, avviata sulla base di atti inviati dalle Procure di Roma e Messina dopo che nel febbraio 2018 furono arrestati — sempre per corruzione — l’avvocato Pietro Amara, l’imprenditore Fabrizio Centofanti e altri indagati, è stata aperta diversi mesi fa, ma solo di recente il Csm ne è stato informato, quando gli inquirenti umbri hanno acquisito carte sull’attività del precedente Consiglio, di cui Palamara faceva parte. Nelle stesse ore ha ripreso improvvisamente fiato l’esposto che un pm romano ha inviato contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone e un aggiunto, per presunti asseriti comportamenti scorretti nella gestione di un’indagine. Proprio intorno alla continuità o discontinuità rispetto alla gestione di Pignatone — che ha guidato l’ufficio negli ultimi sette anni con risultati unanimemente riconosciuti —ruota il dibattito sulla scelta del successore. La corrente di Magistratura indipendente, la più a destra dello schieramento politico-giudiziario, ha puntato su Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, per il quale hanno votato anche Piercamillo Davigo di Autonomia e Indipendenza e i «laici» espressi dalla Lega (Emanuele Basile) e dai Cinque stelle (Fulvio Gigliotti). Il consigliere di Unicost, Gianluigi Morlini, ha votato per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, della sua stessa corrente, mentre Mario Suriano di Area, il gruppo di sinistra, ha indicato Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, che appartiene a Magistratura indipendente. Proprio il fatto che Lo Voi sia il candidato di Area ha convinto il gruppo di Mi a preferirgli Viola, considerato da tutti il concorrente in maggiore discontinuità con Pignatone. Non fosse altro perché Lo Voi ha lavorato per anni con l’ex procuratore a Palermo in molte indagini antimafia, e lo stesso accadde con Creazzo quando Pignatone era a Reggio Calabria e lui a Palmi. Viola viene visto come «persona capace di fare squadra e dialogare con i colleghi» (così l’ha definito il segretario di Mi Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma), nonostante non abbia mai guidato una Procura distrettuale di grandi dimensioni, a differenza degli altri due. In considerazione dei diversi curricula, il rappresentante di Area in commissione aveva chiesto l’audizione dei tre candidati; richiesta fatta propria dal vice-presidente David Ermini, anche per conto del capo dello Stato che guida l’organo di autogoverno. Ma l’istanza non è passata, e subito dopo la commissione ha votato con un risultato che prelude a una netta spaccatura del Csm sulla guida dell’ufficio giudiziario più importante d’Italia. Per evitare questo esito, che porterebbe con sé il rischio di ricorsi alla giustizia amministrativa, sono cominciate discussioni e trattative riservate. A cui ora si aggiungono le notizie sulle inchieste in corso.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 31 maggio 2019. Siamo passati dal Porto delle nebbie a Fronte del porto. Infatti, a leggere le cronache di questi giorni, il tribunale di Roma più che il tempio in cui si amministra la giustizia pare un luogo popolato da gangster, dove si combatte una guerra senza quartiere, con accuse fra diverse componenti della magistratura. Come la guerra sia iniziata non è dato sapere, però la sensazione che tutto abbia a che fare con il futuro capo della Procura della Capitale è piuttosto forte. Per capire ciò che sta succedendo, comprese le perquisizioni disposte ieri a casa dell' ex segretario dell' Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, accusato di corruzione, forse bisogna partire dall' inizio, cioè da qualche settimana fa, quando Giuseppe Pignatone, numero uno dei pm romani, se ne va in pensione per raggiunti limiti di età. Quello è l' ufficio giudiziario più importante d' Italia, da cui passano inchieste delicate, ma è anche un crocevia di potere. Sono in tanti a voler occupare la poltrona di procuratore capo e a seconda di chi vi si andrà a sedere inizierà un risiko che riguarderà altri incarichi di prestigio in tutta Italia. La posta in palio scatena le varie anime della magistratura, che tramite le correnti si danno da fare per stringere alleanze e spartirsi le nomine. Il tutto, ovviamente, nel nome della Giustizia con la G maiuscola e della sempre decantata autonomia della magistratura. Un gioco che va in scena la scorsa settimana al Csm, il parlamentino di autogoverno delle toghe. La quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura deve vagliare i candidati. In corsa ci sono diversi nomi, ma la sfida essenzialmente è tra Franco Lo Voi, procuratore capo a Palermo, e Marcello Viola, procuratore generale a Firenze. Il primo sembra favorito, spinto da Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei giudici, nonostante egli faccia parte di quella indipendente. Ma invece, a sorpresa, passa Viola, grazie a un accordo fra la stessa Magistratura indipendente e la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo. Il procuratore di Firenze, ovviamente, dovrà ricevere l' incarico formale dal plenum del Csm, ma essendo il suo nome uscito un po' a sorpresa, perché a sinistra erano convinti che la poltrona fosse già stata conquistata da Lo Voi, succede il finimondo. Viola è un tipo schivo, con un solido curriculum alle spalle, anche sul fronte antimafia e pare non avere referenti o sponsor politici. Ma essere indipendente e riservato non lo salva dalla reazione stizzita di chi aveva già dato per scontata la nomina di Lo Voi. Da Repubblica sparano ad alzo zero, usando l' artiglieria pesante. Le frasi più carine parlano di un colpo di mano, anzi di un' operazione che fa ritornare in auge il Porto delle nebbie. Così infatti la stampa chiamava la Procura di Roma negli anni Settanta, perché le inchieste che approdavano in quella sede, naturalmente o avocate, poi sparivano nei meandri degli uffici senza lasciare traccia, soprattutto se foriere di risvolti politici e di governo. Ma la reazione giornalistica pare solo l' inizio di un' offensiva che ha come posta in palio il potere sulla più importante sede giudiziaria d' Italia, la cui perdita potrebbe rimettere in gioco i delicati equilibri della giustizia nel nostro Paese. E così, ecco cominciare a girare le carte. Accuse e controaccuse planano sui tavoli delle redazioni, soffiate o spifferate da chi ha deciso di andare alla resa dei conti. È un gioco tra correnti, una battaglia senza esclusione di colpi fatta a suon di carte, di accuse e controaccuse. Il primo a finire nel mirino è Luca Palamara, ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati, uomo di Magistratura indipendente ed ex togato del Csm. È accusato dai pm di Perugia di essersi fatto corrompere da un indagato. La notizia dell' inchiesta, aperta da mesi, curiosamente arriva ai giornalisti proprio pochi giorni dopo l' indicazione di Marcello Viola e la sconfitta di Franco Lo Voi. Ma a un Palamara indagato fa da contraltare la notizia dell' esposto di un pm di Roma contro l' ex capo dell' ufficio Giuseppe Pignatone e il suo vice Paolo Ielo. Tutti e due non si sarebbero astenuti dalle indagini su un certo avvocato coinvolto in un giro di milioni e corruzione, mentre avrebbero dovuto fare un passo indietro avendo parenti che in qualche modo lavoravano per l' indagato. Il pubblico ministero accusa Pignatone di avergli negato l' arresto del legale, a suo dire inspiegabilmente. Neanche il tempo di riprendersi dalla botta, che ecco arrivarne altre. Prima il pm che accusa Pignatone finisce a sua volta indagato, con l' accusa di aver spifferato a Palamara l' inchiesta a suo carico, e poi lo stesso ex capo del sindacato dei magistrati viene perquisito. La Finanza si presenta a casa sua e passa al setaccio l' abitazione come quella di un qualsiasi lestofante e l' accusa è di essersi fatto pagare per il ruolo al Csm. Ovviamente i magistrati sono uguali agli altri cittadini davanti alla legge e dunque si capisce che per loro vengano disposte le misure applicate a chiunque altro. Tuttavia lo scambio di accuse e il fuoco incrociato, con al centro un ufficio giudiziario, dà la sensazione di una giustizia impazzita, dove la guerra non si combatte in nome della legge, ma delle poltrone. E noi - noi cittadini, intendo - dovremmo avere fiducia davanti a una toga?

Luca Palamara, Filippo Facci e la verità sul "sottobosco delle nebbie": cosa c'è dietro la guerra tra le toghe. Libero Quotidiano il 31 Maggio 2019. Ci sono dei magistrati che indagano su altri magistrati accusati di aver favorito o danneggiato altri magistrati, e per il resto, se arrivate in fondo a questo articolo, siete degli eroi. Già fatichiamo a render conto di forze politiche che bene o male conosciamo - addirittura votiamo - benché occupate dal personale più dilettantesco di sempre: figurarsi che cosa può impicciarvene, ora - meno che mai - di burocrati che nessuno o quasi conosce, gente autoriferita, non eletta, invischiata nella propria corporazione e abituata a cantasela, suonarsela e arrestarsela: la magistratura, ma quella di potere, quella correntizia e para-politica, quella al centro della cagnara impazzita che abbaia a margine della prossima elezione del procuratore capo di Roma. Parliamo di un sottobosco che resta un porto delle nebbie (da sempre) e dove il controllo mediatico-sociale è ridotto al minimo, le opinioni si mischiano alle notizie - ieri lo spiegava bene Bruno Tinti, ex magistrato, su ItaliaOggi - e ci sono veline che diventano articoli, cordate di cronisti che pubblicano e contro-pubblicano per logiche di parte, notizie che starebbero in tre righe con presunti retroscena che ne occupano ottanta. Scusate l' introduzione, ma era necessaria. Dopodiché le notizie, dicevamo, sono poche, anche se i cronisti, per ottenere spazio, cercano di convincere i capo-cronisti che a Roma stia succedendo di tutto, e che questo faccia parte di piani e complotti per favorire o sfavorire la nomina di tizio e di caio al vertice della Procura di Roma, ora che Roberto Pignatone è andato in pensione. Una notizia l' abbiamo data ieri: Luca Palamara, magistrato, ex segretario dell' Associazione magistrati, ex Csm, leader della corrente Unità per la Costituzione, è indagato a Perugia per corruzione. Ci sono nuovi particolari. L' accusa indaga sui suoi rapporti con Fabrizio Centofanti (area Pd, arrestato e poi scarcerato nel febbraio 2018 per frode fiscale, capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone sino al 2012) il quale Centofanti avrebbe avuto, con Palamara, un rapporto disinvolto fatto di viaggi e di «regali galanti». la perquisizione La procura di Perugia indaga anche sui rapporti di Palamara e Centofanti con tal avvocato Piero Amara, un palermitano a sua volta coinvolto nelle indagini sulle sentenze comprate al Consiglio di Stato e su alcune inchieste depistate riguardanti l' Eni. Sono stati perquisiti l' abitazione e gli uffici di Palamara, l' abitazione del suo commercialista e anche quella di Adele Attisani, amica del magistrato. Altri avvisi di garanzia (tutti per concorso in corruzione) hanno raggiunto il citato Pietro Amara e il suo avvocato Giuseppe Calafiore, oltre, naturalmente, a Fabrizio Centofanti. Ora: nonostante tutti i giornali abbiano messo in relazione l' indagine su Palamara (eccetera) con valenze politico-dietrologiche legate a questa o quest' altra nomina romana, è venuto fuori che l' indagine di Perugia riguarda fatti che con la Capitale non c' entrano niente: l' obiettivo della corruzione sarebbe stato il danneggiare un ex pm di Siracusa, Marco Bisogni, già oggetto di vari esposti di Amara e Calafiore nonché di un procedimento disciplinare contro la cui archiviazione Palamara, da membro del Csm, si oppose, anzi, chiese l' incolpazione di Bisogni che poi fu assolto. pilotare nomine Più in generale, Amara e Calafiore avrebbero corrotto Palamara affinché «mettesse a disposizione la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati». A parte questo, ora tutti vogliono sapere di quali «viaggi galanti» stiamo parlando, vista l' ambiguità dell' espressione. In pratica, indagando su Fabrizio Centofanti nel dicembre scorso, sono saltati fuori quattro viaggi-weekend in Toscana, Sicilia, Ibiza e Dubai: alla presenza di Luca Palamara nonché di suoi familiari e conoscenti. Ha pagato Centofanti, anche se Palamara - informalmente - nega, e dice che lui rimborsava tutte le spese, compresa, evidentemente, quella per un «anello non meglio individuato del valore di 2 mila euro in favore della sua amica Adele Attisani», indagata. Palamara invece è indagato in realtà da dicembre, anche se l' iscrizione è saltata fuori adesso (a parte un articolo solitario del Fatto Quotidiano risalente al 27 dicembre scorso) perché le carte, intanto, sono arrivate in quel colabrodo che è il Csm. Ad arricchire c' è una notizia di ieri: la Procura di Perugia, nella sua indagine su Palamara, ha indagato anche il suo collega Stefano Rocco Fava (favoreggiamento e rivelazione del segreto di ufficio) oltre al consigliere del Csm Luigi Spina (stesse accuse). Fava, in pratica, avrebbe spifferato a Palamara che a Perugia lo stavano indagando, e poi l' avrebbe aiutato: questo «rispondendo alle plurime e incalzanti sollecitazioni» di Palamara e «specificandogli che gli accertamenti erano partiti dalle carte di credito dell' imprenditore Fabrizio Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Il favoreggiamento, invece, sarebbe legato a un' altra indagine del 2016 su Palamara «in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori», e in cui Rocco Fava «aiutava Palamara ad eludere le investigazioni a suo carico». complotti vari Vien da dire che le notizie finiscono qui - non che sia poco - anche se ad addensare le nebbie romane, sulla stampa, potreste trovare infinite altre «notizie» che si cerca di appiccicare allo sfondo della prossima nomina del procuratore capo di Roma, e, in particolare, a corredo di un presunto complotto per danneggiare il candidato Francesco Lo Voi (attuale procuratore capo di Palermo) e favorire invece Marcello Viola (attuale Procuratore Generale a Firenze). In realtà, tra chiacchiericci e vari esposti incrociati di tizio contro caio, e pettegolezzi sulle cene di sempronio e i conflitti d' interesse di altri ancora, nulla avvalora la tesi di nessun complotto. A parte Roma, che è un complotto di per sé. Filippo Facci

Da "porto delle nebbie" a "porto dei veleni". La Procura di Roma non prende pace per la corsa alla nomina del nuovo procuratore capo. Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2019. Il pm Luca Palamara indagato per corruzione. Esposti contro Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo. Le lotte interne negli uffici giudiziari della Capitale hanno portato alla luce giochi di potere ed i retroscena nella guerra in corso fra le correnti di Palazzo dei Marescialli, a colpi di esposti, indagini, soffiate e accuse. Lo scontro in corso al Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autocontrollo dei magistrati è  violentissimo . Un conflitto che  a colpi di esposti, indagini, soffiate ed accuse di corruzione ha fatto letteralmente saltare in aria gli equilibri e gli accordi di retrobottega fra le correnti, . Tutto gira attorno alla più importante delle poltrone da assegnare: quella del procuratore capo di Roma. Un incarico fondamentale per gli equilibri giudiziari interni alla magistratura. Dietro le quinte compare un avvocato siciliano Piero Amara onnipresente filo conduttore delle inchieste . Infatti c’è Amara al centro dell’esposto arrivato al Csm  che ha portato a galla un presunto conflitto d’interessi di Giuseppe Pignatore, il procuratore capo di Roma da poco andato in pensione, e Paolo Ielo, attuale aggiunto della Capitale. Sempre Amara viene citato nell’inchiesta che coinvolge l’attuale sostituto procuratore della Repubblica di Roma , Luca Palamara, leader di UNICOST Unità per la Costituzione, la corrente “moderata” della magistratura,  in passato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, e consigliere del Csm nella precedente consiliatura . Il Consiglio Superiore della magistratura, il baricentro dell’ordinamento giudiziario ha intuito troppo tardi la profondità della guerra in corso senza esclusioni di colpi fra toghe.  Ed ora manifesta  una fretta a dir poco sospetta ed imbarazzante, dividendosi, e mandando in frantumi ogni forma di “galateo” istituzionale, lasciando dunque cadere ogni richiesta di trasparenza arrivata dal capo dello Stato e presidente del Csm Sergio Mattarella. Il Consiglio di Palazzo dei Marescialli ha trasformato la successione del procuratore Giuseppe Pignatone , che ha lasciato l’incarico l’8 maggio scorso per raggiunti limiti di età,  in una congiura di palazzo trasformatasi in un mercato delle vacche, mandando all’aria. equilibri,  correnti, alleanze.  Ed incredibilmente, non ha fatto i conti proprio con il lavoro della magistratura. E l’inchiesta della Procura di Perugia che ha informato il Consiglio, annuncia ora di travolgere tutto e tutti. Palamara è indagato dalla procura di Perugia, l’ufficio giudiziario competente per reati commessi dai magistrati capitolini per rispondere sulle accuse di “corruzione” . La procura umbra ha immediatamente  informato il Csm. La vicenda, resa nota dal Corriere della Sera e Repubblica, è strettamente collegata ai rapporti intercorsi tra il pm Palamara e Fabrizio Centofanti, ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, arrestato nel febbraio del 2018 per frode fiscale. Centofanti  considerato “vicino” agli ambienti del Pd, è in affari proprio con Piero Amara, l’avvocato coinvolto nelle indagini sulle sentenze comprate al Consiglio di Stato, sul caso del depistaggio delle inchieste sull’Eni, il quale ha già patteggiato (quindi riconosciuta la colpa) una sentenza a tre anni di reclusione per corruzione. Il fascicolo d’ indagine della Procura di Perugia sul pm Palamara, è affidato alla pm Gemma Milano e al Gico della Guardia di Finanza. Al centro dell’attività degli inquirenti c’è il rapporto tra il pm e Centofanti, considerato troppo stretto, fatto di viaggi e “regali galanti“. “Apprendo dagli organi di stampa di essere indagato per un reato grave e infamante per la mia persona e per i ruoli da me ricoperti. Sto facendo chiedere allaProcura di Perugia di essere immediatamente interrogato perché voglio mettermi a disposizione per chiarire, nella sede competente a istruire i procedimenti, ogni questione che direttamente o indirettamente possa riguardare la mia persona”, scrive Palamara in una nota inviata alle agenzie. Il pm Luca Palamara attualmente è in corsa per una delle due poltrone da procuratore aggiunto a Roma. E da “leader” della corrente di  Unicost ha un ruolo non da poco anche nelle trattative tra le correnti per nominare il nuovo procuratore capo della Capitale. Trattative in corso condotte con l'”influenza” di  Cosimo Maria Ferri, uno dei tanti magistrati entrati in politica, senza aver mai perso influenza nel mondo giudiziario. Ferri è figlio d’arte essendo figlio di un magistrato che fu anche ministro per il PSDI nel governo De Mita, Ferri è stato sottosegretario alla giustizia nei governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Attuale deputato del Pd, intrattiene notoriamente rapporti più che buoni con Denis Verdini, Niccolò Ghedini e tutto l’ entourage berlusconiano. Cosimo Maria Ferri è ancora oggi un esponente molto influente di Magistratura Indipendente, la corrente più conservatrice delle toghe, di cui è stato anche segretario. Proprio l’accordo raggiunto tra le due “correnti” di Unicost e Magistratura Indipendente – che hanno eletto dieci consiglieri togati al Csm – hanno portato all’elezione di David Ermini, ex responsabile giustizia del Pd, a vicepresidente di Palazzo dei Marescialli. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano La Repubblica, l’influenza di Ferri e Palamara  avrebbe portato a sciogliere l’accordo già siglato da Unicost e Mi nella corsa al vertice della procura di Roma,  per nominare Francesco Lo Voi, attuale procuratore capo di Palermo, al vertice della procura capitolina. Lo Voi è infatti un autorevole esponente di Magistratura indipendente, considerato “vicino” e molto amico  dello stesso Pignatone, ed è diventato Procuratore Capo di Palermo nel 2014 grazie un intervento fondamentale, peraltro irrituale, dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. All’epoca della sua nomina, infatti, Lo Voi aveva meno titoli dei due concorrenti, Sergio Lari e Guido Lo Forte, il quale peraltro aveva raccolto tre voti in commissione incarichi direttivi. Dal Quirinale, però, era arrivata una lettera, che ordinava a Palazzo dei Marescialli di procedere con maggiore urgenza alla nomina degli incarichi vacanti da più tempo. Con il rinnovo del Csm ed una nuova maggioranza, di colore diverso. Il vantaggio di Lo Forte era stato azzerato aveva portato alla nomina di Lo Voi. Insomma, quello di Lo Voi non è certo un nome sgradito ai vertici del potere istituzionale. In più è vicinissimo a Pignatone, con cui ha lavorato diversi anni fa alla procura di Palermo. Secondo il quotidiano LA REPUBBLICA  l’obiettivo di Palamara e Ferri è soprattutto quello di “azzerare” il lavoro e l’eredità di Pignatone a Roma e quindi boicottare Lo Voi. E’ questo il motivo per il quale – come scrive il collega Carlo Bonini – l’ accoppiata Ferri e Palamara punta su un altro esponente di Magistratura indipendente, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola,  magistrato al di sopra di ogni sospetto e con il vantaggio di essere ritenuto coppia caratterialmente controllabile. A Palamara sarebbe stato “garantito” dalla corrente di ì Magistratura indipendente il sostegno per la sua nomina a procuratore aggiunto a Roma. Dell’impronta di Pignatone sull’operato della Procura di Roma non si vuole fare rimanere neppure il più vago minimo ricordo. Non vanno fatti “prigionieri” nel gioco delle correnti, come ad esempio  l’aggiunto Michele Prestipino il quale nell’ipotesi di Lo Voi a Roma sarebbe destinato alla guida della Procura di Palermo), o altri “magistrati senza etichetta” come l’aggiunto Paolo Ielo, competente per i reati della pubblica amministrazione, o il sostituto Mario Palazzi (il pm che insieme a Ielo ha istruito il “caso  Consip“) o il pm Giovanni Musarò  che ha svela i depistaggi nel caso Cucchi. La nomina del nuovo procuratore di Roma, in pratica vuole essere un ritorno alla “tradizione”, a quella  magistratura capace di stare un passo indietro, oltre ad essere la verifica di quella che toccherà ad altri uffici vacanti come ad esempio  la Procura di Torino, quella di Brescia (importante per la sua competenza per i reati commessi dai magistrati di Milano) e Perugia, dove il procuratore capo attuale Luigi De Ficchy si prepara a lasciare. Un accordo questo di cui non vi è alcuna traccia nel voto espresso dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Csm: infatti giovedì scorso Gianluigi Morlini il consigliere togato di  Unicost ( la corrente di Palamara n.d.r. ) non ha votato per Viola ma per il terzo candidato, Giuseppe Creazzo attuale procuratore capo a Firenze. A Viola sono arrivati i voti di Antonio Lepre (Magistratura indipendente), Piercamillo Davigo (Autonomie a Indipendenza), Emanuele Basile (membro “laico” indicato dalla Lega) e Fulvio Gigliotti (laico indicato dal M5s). In favore di Lo Voi è arrivato il voto di Mario Suriano membro “togato” di Area,  la corrente di sinistra delle toghe .  Ma la mancanza di “tracce” in commissione, non deve meravigliare più di tanto, in quanto in realtà vuol dire ben poco. Non sono state poche le nomine del “plenum” del Csm che hanno cambiato le indicazioni del plenum del Consiglio superiore della magistratura, “Mai, e sottolineo mai, baratterei il mio lavoro e la mia professione per alcunché e sono troppo rispettoso delle prerogative del Csm per permettermi di interferire sulle sue scelte e in particolare sulla scelta del procuratore di Roma e dei suoi aggiunti”, dichiara Palamara. Adesso la prima commissione del Csm magistratura aprirà un fascicolo. “In questi casi c’è un automatismo ma in presenza di un’indagine penale si sospende in attesa dell’esito”, spiega il presidente della Commissione, Alessio Lanzi, membro “laico” di Forza Italia. Sullo sfondo del Csm si muovono le “operazioni” sotterranee per designare il successore di Pignatone. Presto gli stessi consiglieri dovranno occuparsi di un esposto che riguarda lo stesso ex procuratore capo di Roma, andato in pensione l’8 maggio scorso. A raccontare la storia è stato il collega Marco Lillo sul Fatto Quotidiano.

L’esposto è firmato dal sostituto procuratore di Roma, Stefano Rocco Fava, che ha illustrato al Csmil presunto conflitto di interessi di Pignatone e Ielo. I rispettivi fratelli dei due magistrati svolgono un’attività professionale che li ha portati ad intrattenere contatti con Piero Amara. Roberto Pignatone, fratello dell’ ex-procuratore capo di Roma , ha 61 anni, è professore associato di diritto tributario con studio a Palermo, ha ottenuto nel 2014 un incarico da Piero Amara. Domenico Ielo, 49 anni, titolare di un suo studio associato con sede a Milano, ha fatto legittimamente il consulente per l’Eni, finita nel mirino della Procura di Roma per i pagamenti effettuati di decine di milioni a una società di nome Napag, considerata dello stesso Amara. L’esposto al Csm su Pignatone. L ’esposto presentato dal pm Fava verte su una riunione convocata nel suo ufficio lo scorso 5 marzo dal procuratore Pignatone  per discutere dell’eventuale sua astensione in ragione dei rapporti professionali del fratello. Il 12 dicembre 2018 era stato lo stesso Fava a chiedere di accelerare un’indagine su soggetti legati ad Amara. A quel punto è stato il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo a chiedere di astenersi per evitare conflitti, visti gli incarichi di suo fratello in Eni . La richiesta del pm Fava di andare avanti, però, non venne approvata da Pignatone (e dall’aggiunto Rodolfo Sabelli, che aveva preso il posto di Ielo). Il pm Fava contesta a Pignatone i rapporti di suo fratello con Amara. e quindi l’allora procuratore capo convoca  la famosa riunione del 5 marzo, a cui partecipano gli aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e il sostituto Mario Palazzi, il pm che con Ielo e Pignatoneha condotto l’inchiesta Consip. In quella riunione Pignatone sostenne che tutti sapevano i rapporti professionali di suo fratello Roberto e che nessuno aveva avuto nulla da ridire sulla sua “non astensione”. Ma il pm Fava nega questa circostanza. I procuratori aggiunti si schierano con il capo. Passano tredici giorni e guarda caso Pignatone toglie il fascicolo che era assegnato Fava  il quale a sua volta presenta il suo esposto al Csm. Il procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio ha reso noto che avvierà accertamenti disciplinari su Palamara: “Una pre-istruttoria ci sarà come accade per tutte le notizie di reato che riguardano i magistrati e che vengono comunicate alla Procura generale e al Csm”  ha dichiarato l’alto magistrato rispondendo ad una domanda dei cronisti a margine di una tavola rotonda . Fuzio facendo un riferimento ad alcuni articoli di giornali ha aggiunge: “Mattarella è il presidente del Csm e non ha attuato nessuna invasione di campo, ma ha rispettato le sue attribuzioni”.

Perquisito Palamara, indagato il pm Fava e il togato Spina. Terremoto alla Procura di Roma. Roberto Frulli giovedì 30 maggio 2019 su Il SEcolo D'Italia. Gli sviluppi dell’inchiesta della Procura di Perugia sui colleghi romani travolgono altri magistrati e scuotono fin dalle fondamenta il palazzo di Giustizia capitolino al centro, in questi giorni, di una specie di guerra di potere sotterranea per gli avvicendamenti, che il Csm sta valutando, alle poltrone di vertice di piazzale Clodio dopo il freschissimo pensionamento dell’ex-procuratore capo Giuseppe Pignatone. La guardia di Finanza di Perugia, delegata dai magistrati eugubini, si è presentata stamattina, esibendo un decreto di perquisizione, a casa e nell’ufficio di piazzale Clodio del pm romano Luca Palamara, indagato da ieri per corruzione, e nel suo ufficio di piazzale Clodio. A Palamara, ex-presidente dell’Anm ed esponente della corrente centrista “Unità per la Costituzione”, in corsa per un posto da procuratore aggiunto alla Procura di Roma, i colleghi di Perugia contestano la sua amicizia, sfociata, secondo l’accusa, in una serie di scambi di favori sul filo della corruzione, con l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Contestualmente i magistrati di Perugia, territorialmente competenti per le indagini sui colleghi romani, hanno indagato, con l’accusa di  rivelazione di segreto e favoreggiamento, anche Luigi Spina, consigliere togato del Csm in rappresentanza della corrente di Unicost, la stessa a cui appartiene Palamara. Indagato, infine, anch’esso con l’accusa di  rivelazione di segreto e favoreggiamento, il pm romano Stefano Rocco Fava, cioè il magistrato che presentò un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura contro l’ex-procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo per presunte irregolarità  nella gestione delle inchieste sull’avvocato Piero Amara. La vicenda è intricatissima è restituisce un quadro coerente con la guerra di potere che si è scatenata alla Procura di Roma per l’avvicendamento ai vertici. Fava era il titolare del fascicolo sul caso Amara ma la delega di indagine gli venne ritirata dall’ex-capo Pignatone dopo che lui aveva scritto al Csm per segnalare il presunto conflitto di interessi dello stesso Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo in merito ad alcune importanti inchieste giudiziarie a causa dell’attività professionale dei loro fratelli. Per tutta risposta, denunciò Fava, gli venne tolto il fascicolo sul caso Amara e sulle presunte sentenze pilotate nell’ambito della giustizia amministrativa. Dalla Procura di Perugia, ora, risultano indagati anche l’imprenditore Fabrizio Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. I tre, secondo i magistrati umbri, sono accusati di aver «corrisposto varie e reiterate utilità a Palamara, all’epoca consigliere del Csm, consistenti in viaggi e vacanze(soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio», come si legge nell’avviso di garanzia. Da questo punto di vista, secondo i pm perugini, l’imprenditore Centofanti sarebbe stato l’anello di congiunzione fra Palamara e Amara. Secondo l’indagine della Procura di Perugia, l’imprenditore Centofanti e gli avvocati Amara e Calafiore, avrebbero «corrisposto» le «utilità» «anche a beneficio di familiari e conoscenti» di Palamara «e anche un anello non meglio individuato del valore di 2mila euro» per il compleanno «dell’amica (di Palamara, ndr) Adele Attisani, essendo Centofanti in rapporti di stretta ed illecita collaborazione e correità con Amara e Calafiore». «La Attisani – si legge nel provvedimento dei magistrati di Perugia – veniva prelevata da un autista di Centofanti ed infine da questi raggiunta (a bordo del veicolo monitorato in viaggio verso l’aeroporto di Fiumicino). Nel corso del tragitto emerge il chiaro riferimento della Attisani ad un gioiello che deve essere acquistato (“io non lo so se voglio il solitario …. io volevo una cosa più … sottile”)». I due, proseguono i pm nel decreto notificato agli indagati, «fanno riferimento esplicito a una gioielleria che si trova a Misterbianco, e la Attisani invita l’amico a passarci (una volta evidentemente atterrati a Catania)». Sul punto, prosegue il decreto, la polizia giudiziaria verificava che dalle intercettazioni «emergeva un messaggio inerente un pagamento del 15.9.2017 POS di euro 2. 000 in favore» di una gioielleria di Misterbianco» e che l’utenza «monitorata in uso a Centofanti alle ore 17 .15 si trovava in una zona ubicata nei presso della predetta gioielleria». Inoltre, ancora nelle intercettazioni, rilevano i pm, «sempre Attisani e Centofantiparlano della organizzazione della festa di compleanno della donna per il 6.10.2017 (il compleanno era il giorno 4.10.2017), dato dal quale può ipotizzarsi che l’acquisto del gioiello a Misterbianco per conto di “Lui” (che qui si assume essere Palamara Luca) sia avvenuto in vista del compleanno della donna». Secondo la Procura di Perugia, l’attività corruttiva era messa in atto «per danneggiare Marco Bisogni – sostituto procuratore di Siracusa (in precedenza già oggetto di reiterati esposti depositati presso la Procura generale di Catania a firma da Amara e Calafiore, il primo indagato da Bisogni, il secondo, suo difensore) nell’ambito del procedimento disciplinare nel quale Palamara faceva parte della sezione che con ordinanza n.94/2017 rigettava la richiesta di archiviazione proposta dalla Procura generale della Corte di Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico di Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla Commissione in diversa composizione il 29 gennaio del 2018». Inoltre, secondo la Procura di Perugia, «per fare in modo che Palamara mettesse a disposizione, a fronte delle utilità, la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore». Al pm Fava i magistrati eugubini contestano, in concorso con Palamara, di aver violato «i doveri inerenti la sua funzione e abusando della sua qualità, comunicando con Palamara e rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti “dalle carte di credito” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi, rivelandogli altresì alcuni retroscena delle indagini». Il favoreggiamento è contestato a Fava perché «nella medesima conversazione» con Palamara «consegnandogli alcuni atti e documenti allo stato non identificati, ed alcuni atti già allegati all’esposto inoltrato al Csm, asseritamente comprovanti i comportamenti non consoni del Procuratore di Roma e di un procuratore aggiunto (Paolo Ielo, ndr), anche in relazione alla conduzione e gestione del fascicolo 44630/16, dal quale erano scaturite le investigazioni a carico dello stesso Palamara» e «in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori (circostanze allo Stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita presso la Procura della Repubblica di Roma)» aiutava «Palamara ad eludere le investigazioni a suo carico». In tutto questo caos spicca l’aplomb british dell’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato delle toghe che, per nulla scosso dalla guerra di potere e dalle accuse di corruzione che stanno volando e di presunto conflitto di interessi denunciato da Fava, esprime «piena fiducia nell’autorità giudiziaria di Perugia» sostenendo che la vicenda «conferma la capacità della magistratura italiana di esercitare il controllo di legalità anche quando riguarda appartenenti all’ordine giudiziario». Ma la preoccupazione maggiore del sindacato delle toghe sembra essere quella che la procedura di nomina dei nuovi vertici della Procura di Roma non si arresti: «il percorso decisionale che porterà il Csm alla nomina di ogni dirigente degli uffici giudiziari avvenga esclusivamente nell’ambito del confronto dialettico tra i componenti togati e laici, che in base alle norme costituzionali lo compongono, e non sia in alcun modo influenzato da alcun altro fattore, esterno o interno alla magistratura».

La Procura di Perugia: a Palamara 40.000 euro per favorire la nomina del pm Longo. Roberto Frulli giovedì 30 maggio 2019 su Il Secolo D'Italia.  Luca Palamara, il pm romano ed ex-componente del Consiglio Superiore della magistratura, in corsa per la poltrona di procuratore aggiunto agli uffici giudiziari di piazzale Clodio e indagato per corruzione dalla Procura di Perugia avrebbe ricevuto, da Giuseppe Calafiore e Piero Amara «in concorso tra loro e con Giancarlo Longo», la somma di 40.000 euro per favorire – cosa che, poi, in realtà non gli riuscì – «quale componente del Csm» la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore capo della Procura di Gela. C’è anche questa contestazione nel decreto di perquisizione fatto notificare oggi dai magistrati eugubini che contestano al magistrato romano «un atto contrario ai doveri di ufficio, ovvero, agevolare e favorire il medesimo Longo nell’ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo, ciò in violazione dei criteri di nomina e selezione come individuati dalle circolari e atti correlati, in particolare dalla circolare consiliare (del Csm, ndr) del 28. 7.2015, che individua le precondizioni e i parametri generali per il conferimento degli incarichi dirigenziali». Quella nomina, poi, non andò in porto.

A sorpresa nelle intercettazioni di Palamara spuntano anche due parlamentari. E, a sorpresa, fra le 19 pagine del decreto di perquisizione nei confronti di Palamara, spunta anche un riferimento a due parlamentari. Inizialmente non si capisce se ad essere ascoltati dagli inquirenti umbri siano anche i due esponenti politici presenti alla conversazione con i magistrati Spina e Palamara. Subito dopo la Procura di Perugia chiarisce che la coppia di parlamentari è finita casualmente nell’intercettazione disposta dai pm eugubini perché la polizia giudiziaria non poteva prevederne la presenza. In particolare, scrivono i pm di Perugia, «in tale conversazione che intercorre tra Spina, Palamara, e due parlamentari, il primo comunica che all’esposto di Favaè allegato un Cd che sarebbe stato secretato. Tale conversazione, poi, dimostra come Palamara fosse già consapevole del suo procedimento pendente a Perugia (pagina 45, progressivo 40 del 9.5.2019 – “perché quel cazzo che m’hanno combinato lì a Perugia ancora nemmeno si sa”), tanto da parlarne con il parlamentare». Sull’utilizzabilità della conversazione con i parlamentari, la Procura richiama la posizione della Cassazione sul concetto di “casualità”, tanto che «questo pm aveva specificato alla Pg operante con nota in atti di non attivare il microfono, quando dovesse emergere preventivamente che l’indagato Palamara si stesse per incontrare con parlamentari o altre figure ricoperte da specifiche garanzie similari, pertanto, le conversazioni qui citate sono da considerarsi casuali nei termini anzidetti non avendo la Pg in anticipo percepito alcun ascolto che facesse presagire la presenza di tali soggetti».

La soffiata del membro del Csm, Spina a Palamara sull’indagine. Quanto agli altri personaggi coinvolti, il togato di Unicost al Csm, Luigi Spina, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento nell’inchiesta di Perugia, rivelò a Luca Palamara l’arrivo al Consiglio Superiore della magistratura degli atti relativi all’indagine a suo carico. In particolare, si legge nel decreto di perquisizione, Spina, «quale consigliere Csm in seno alla I Commissione, essendo pervenuta al Csm una comunicazione di avvenuta iscrizione nel registro degli indagati nei confronti di Palamara Luca del presente procedimento, proveniente dal Procuratore della Repubblica di Perugia (con allegata una nota della Pg operante contenente atti ed elementi coperti dal segreto istruttorio), comunicazione inoltrata dal comitato di Presidenza alla I e alla V commissione in forma secretata, comunicando con Palamara, violando i doveri inerenti la sua funzioni e abusando della sua qualità, rilevava al predetto non solo il pervenimento dell’atto, ma, rispondendo alle reiterate ed incalzanti sollecitazioni del Palamara, gli rivelava, a grandi linee, i contenuti della nota, i nominativi degli altri soggetti coinvolti (familiari e conoscenti che avevano preso parte a dei viaggi oggetto de/l’accertamento medesimo) i nomi dei sostituti procuratori a cui quella nota era diretta, la Polizia Giudiziaria che l’aveva redatta, i particolari emergenti da alcune intercettazioni ivi citate, nonché, il titolo di reato oggetto dell’iscrizione e a suo carico ed anche l’epoca dell’iscrizione (art. 319 c.p. e mese di dicembre 2018)».

Da San Casciano ai Bagni a Dubai, i viaggi sospetti di Palamara. Ma come sono arrivati gli investigatori a Palamara? E’ indagando sulle spese di Centofanti in favore di un assessore di Artena, il Gico della guardia di Finanza incappa in una serie di pagamenti in hotel a favore di Palamara o di persone a lui vicine da parte dello stesso Centofanti o di società a lui ricollegabili. Al capitolo «utilità oggetto di investigazione» del decreto di perquisizione firmato dai pm di Perugia la Finanza riferiva alla Procura di più soggiorni presso l’Hotel Fonteverde di San Casciano dei Bagni, un lussuoso resort in Toscana, di pernotti e pasti all’Hotel Campiglio Bellavista, un quattro stelle di Madonna di Campiglio. Sempre le Fiamme Gialle fanno notare come su un viaggio a Dubai, «con relativo soggiorno», il cui pagamento risulta in parte fatturato con carta di credito di Palamara e in parte pagato in contanti da un suo conoscente, ci siano aspetti da chiarire: «Pagamenti sulla cui verosimiglianza la Pg avanzava alcuni dubbi in relazione alle date delle fatture». Sempre il Gico fa riferimento infine a un soggiorno a Favignana anche qui con fatture regolarmente pagate da Palamara su cui però gli investigatori sollevano perplessità.

Con le carte ricevute da Fava, Palamara puntava a screditare Ielo. Dal decreto di perquisizione della Procura di Perugia emerge il presunto «interesse di Palamara per la trattazione di un esposto che il dottor Fava (pm romano anch’esso oggi indagato dai colleghi di Perugia, ndr) aveva trasmesso al Consiglio Superiore della Magistratura. In tale atto, acquisito da quest’ufficio e pervenuto al Consiglio il 2 aprile 2019, venivano segnalate alcune “asserite” anomalie commesse dall’allora Procuratore della Repubblica di Roma (Giuseppe Pignatone, ndr) e da un aggiunto (Paolo Ielo, ndr). I destinatari di tale esposto, come vedremo, verranno individuati da Palamara come i responsabili dei suoi problemi giudiziari». «In un distinto colloquio, Fava, che aveva seguito le iniziali indagini del procedimento 44630/2016 mod. 21 presso la Procura di Roma, rivelerà a Palamara anche i “destinatari” originari della nota della polizia giudiziaria, tra i quali il Procuratore Aggiunto Paolo Ielo. A questo punto tornerà come argomento forte la vicenda dell’esposto di Fava che nell’intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare il Procuratore Aggiunto che ha disposto, all’epoca, la trasmissione degli atti a Perugia (rif. progressivo 15 del 16.5.2019 pagina 57 e progressivo 20 del 16.5.2019 pagina 66 in cui Palamara esclama “siccome un angelo custode ce l’ho io … sei spuntato te, m’è spuntato Stefano che è il mio amico storico …» e Spina lo rassicura «Ma è spuntato Stefano adesso si va fino infondo … »). «Tale dato – proseguono i magistrati di Perugia – emerge sia nelle citate comunicazioni con Spina, sia ancor di più nel progressivo 82 del 16.5.2019 intercorso con Fava, dal quale si ricava la consegna di carte da Fava a Palamara finalizzate a recare discredito al Procuratore Aggiunto Ielo».

Un consulente della Procura informò Palamara sul fratello di Ielo. Sarebbe stato un professionista, anche consulente della Procura, secondo quanto riportano i magistrati umbri nel decreto di perquisizione, a informare il pm di Roma, Luca Palamara di avere «raccolto informazioni compromettenti sul conto del collega Ielo». La circostanza per i pm perugini emergerebbe anche da alcune conversazioni telefoniche intercorse con questo consulente «che evidentemente a conoscenza delle intenzioni di Palamara lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello del dottor Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo». «Non vi è dubbio – continuano i magistrati umbri nel decreto – che tale ipotesi va accertata e verificata sia in un senso che nell’altro al fine di fugare il dubbio che si stia cercando di alterare il quadro probatorio».

Spina a Palamara: «avrai la tua rivincita contro chi ti sta fottendo». I magistrati di Perugia che hanno indagato per corruzione Palamara si dicono convinti che «la consegna di queste carte “contro” i suoi colleghi da parte di Fava e parimenti le informazioni assunte» dal consulente della Procura che avrebbe spifferato a Palamara informazioni sul fratello di Ielo «abbiano per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di “ritorsione”». Ciò per i magistrati umbri «emerge nitidamente dal colloquio che Palamara ha con l’amico Spina dopo le informazioni assunte sulle iniziative di questa Procura». Nel decreto viene riportato uno stralcio di questa intercettazione. Spina: «C’avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e tutte le cose forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo». Palamara: «No, adesso lo devi chiamare (in audizione al Csm, ndr) altrimenti mi metto a fare il matto».

SOLDI, VIAGGI, GIOIELLI «COSÌ L'IMPRENDITORE CORROMPEVA L'EX CONSIGLIERE CSM». Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della sera" il 31 maggio 2019. Indagato per corruzione, l'ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati (Anm) e già membro del Csm Luca Palamara è stato perquisito a casa e in ufficio e interrogato ieri dai pm di Perugia. È sotto accusa per aver accettato soldi e regali dall' imprenditore Fabrizio Centofanti al centro di un'inchiesta per corruzione e compravendita delle sentenze al Consiglio di Stato, assieme agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore. In cambio di quei vantaggi Palamara si sarebbe messo a disposizione degli indagati «favorendo (da membro del Csm, ndr ) nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore» come ad esempio la Procura di Gela. Nella giornata più complicata per i pm capitolini, affiorano i nomi di altri due indagati dai magistrati della Procura guidata da Luigi De Ficchy: sono il collega di Palamara a Roma, Stefano Rocco Fava e il consigliere del Csm Luigi Spina. L'uno e l'altro avrebbero contribuito a informare l'ex presidente dell'Anm sull' inchiesta in corso, rivelando dettagli cruciali e ovviamente riservati. A Spina si contesta di avergli rivelato l'esistenza dell' inchiesta a suo carico dopo la comunicazione arrivata al Csm, con i nomi degli altri soggetti coinvolti «e a particolari emergenti da alcune intercettazioni». Quanto a Fava, «rispondendo alle plurime e incalzanti sollecitazioni (di Palamara, ndr ) gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui specificandogli che gli accertamenti erano partiti dalle carte di credito di Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Di tutte queste informazioni Fava era in possesso in quanto pm titolare dell' inchiesta su Centofanti e soci. Ed è proprio indagando su quei pernottamenti che i finanzieri del Gico hanno trovato elementi a sostegno della presunta corruzione di Palamara: «Viaggi e vacanze (una anche a Dubai, ndr ) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti ed anche un anello non meglio individuato del valore pari a euro 2 mila in favore dell'amica Adele Attisani». Non solo. Palamara avrebbe ricevuto 40 mila euro per facilitare la nomina a procuratore capo di Gela di Giancarlo Longo, il magistrato che fu arrestato per ordine dei giudici di Messina con l'accusa di corruzione. Palamara era stato convocato a Perugia per il 7 giugno, ma ieri, accompagnato dagli avvocati Mariano e Benedetto Buratti, si è presentato nella caserma della Guardia di Finanza per essere interrogato. Oltre cinque ore domande dei pm Gemma Miliani e Mario Formisano, ma proseguirà oggi. Ma intanto ha detto: «I veleni della Procura di Roma si stanno abbattendo sulla mia persona per scalfirne moralità e dignità. Sto chiarendo punto per punto fatti che attengono alla mia sfera intima e privata». Agli investigatori ha consegnato «una serie di ricevute e altre posso portarne per dimostrare che non ho preso soldi, né ho fatto favori». E sulle nomine si difende: «Chiunque conosce le dinamiche del Consiglio sa benissimo che trattandosi di un organo collegiale le decisioni non vengono prese da uno solo. Non ho mai avuto nessun tipo di rapporti con Amara e Calafiore, mentre ho specificato modalità e circostanze della mia amicizia con Centofanti».

QUEGLI INCONTRI CON I PARLAMENTARI E LA VENDETTA CONTRO PIGNATONE. Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini per il "Corriere della sera" il 31 maggio 2019. Sono condensati in alcuni incontri di poche settimane fa, tra il 7 e il 16 maggio, i presunti reati e le manovre consumate dal pubblico ministero romano Luca Palamara - indagato per corruzione - e il componente togato del Consiglio superiore della magistratura Luigi Spina, accusato di violazione di segreto e favoreggiamento. Un collega che i pm di Perugia titolari dell'inchiesta definiscono vicino a Palamara non solo «per interessi legati al mondo della magistratura, come le nomine dei procuratori della Repubblica di sedi vacanti, ma anche per un sottostante rapporto di natura personale e frequentazioni anche al di fuori dell' ambito "professionale"». Frequentazioni talvolta allargate ai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice e leader ombra della corrente di Magistratura indipendente) e Luca Lotti, ex sottosegretario a Palazzo Chigi durante il governo Renzi. Incontri intercettati dagli investigatori della Guardia di Finanza nei quali Palamara - ex presidente dell' Associazione magistrati ed esponente di gruppo Unità per la Costituzione, lo stesso gruppo di Spina - avrebbe rivendicato un proprio ruolo nell' operazione per portare l'attuale procuratore generale di Firenze Marcello Viola alla guida della Procura di Roma. Ma la successione dell' ex procuratore Giuseppe Pignatone non sarebbe l'unica che Palamara avrebbe voluto telecomandare. Secondo la ricostruzione dell' accusa era interessato anche alla Procura di Perugia, dove c'è l'indagine a suo carico e che da domani sarà libera con il pensionamento dell'attuale capo, Luigi De Ficchy. Palamara, accusano i pm, cercava un capo «sensibile alla sua posizione procedimentale e all'apertura di un procedimento fondato sulle carte che Fava era intenzionato a trasmettere a tale ufficio». Il 7 maggio dice a un collega: «Ma io non c'ho nessuno a Perugia, zero». Insieme fanno l'elenco dei candidati, l'altro lo invita a sostenerne uno che lui conosce, e Palamara chiede: «Chi glielo dice che deve fà quella cosa lì?... Deve aprire un procedimento penale su Ielo...cioè stamo a parlà de questo... non lo farà mai». Paolo Ielo è il procuratore aggiunto di Roma che insieme a Pignatone aveva inviato a Perugia gli atti da cui è nata l’indagine su Palamara. In un esposto al Csm il pm romano Stefano Fava li ha accusati di aver compiuto irregolarità nella gestione di alcuni fascicoli. Proprio il 7 maggio Spina rivela a Palamara l'esistenza di quel dossier. Nasce da lì, secondo i pm umbri, il «forte interesse di Palamara a gettare discredito sull'operato dei magistrati che riteneva responsabili dell'avvio delle indagini», utilizzando l'esposto di Fava. Palamara quasi lo confessa a Spina: «Un angelo custode ce l'ho, io... sei spuntato te, m'è spuntato Stefano (Fava, ndr ) che è il mio amico storico», e il collega conferma: «Ma è spuntato Stefano, adesso si va fino in fondo...». Da un incontro del 16 maggio «si ricava la consegna di carte da Fava a Palamara finalizzate a recare discredito a Ielo», e lo stesso giorno Spina gli dice: «C'avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo forse sarà lui a doversi difendere a Perugia per altre cose, perché noi a Fava lo chiamiamo». Palamara replica: «No, adesso lo devi chiamare altrimenti mi metto a fare il matto». La settimana precedente, il 9 maggio, Palamara e Spina si vedono con i deputati Ferri e Lotti (quest' ultimo imputato di favoreggiamento nel caso Consip dopo la richiesta di rinvio a giudizio firmata da Pignatone, Ielo e dal sostituto procuratore Mario Palazzi); nell'occasione Spina rivela che «all' esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe secretato». Quel giorno l'ex presidente dell'Anm e componente del Csm fino al settembre scorso si mostra già consapevole dell' indagine a suo carico, e dice a Lotti: «Perché quel c.... che m' hanno combinato a Perugia ancora nemmeno si sa». Qualcosa ha cominciato a sapere il 16 maggio, quando Fava «gli rivelava, rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti "dalle carte di credito" di Fabrizio Centofanti, e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Si tratta dei viaggi e di altri favori che - secondo le verifiche della Finanza - sarebbero stati pagati da Centofanti, imprenditore arrestato a febbraio 2018 insieme agli avvocati siciliani Piero Amara e Giuseppe Calafiore per reati legati alla corruzione giudiziaria. Tra i regali contestati ci sono un anello del valore di 2.000 euro per un' amica di Palamara, Adele Attisani che dava indicazioni: «Io non lo so se voglio il solitario... io volevo una cosa più... sottile»; il pagamento di loro soggiorni in hotel a San Casciano dei Bagni, Favignana e Dubai (cinque giorni comprensivi di viaggio) tra il 2016 e il 2017; vacanze a Madonna di Campiglio per il magistrato e i suoi familiari, e per la sorella Emanuela. Secondo l' ex pm di Siracusa Giancarlo Longo (5 anni di pena patteggiati per corruzione) Calafiore e Amara avrebbero anche pagato 40.000 euro «a beneficio di Palamara» per far nominare Longo procuratore di Gela. Calafiore, che ha patteggiato la pena dopo aver collaborato con i pm, smentisce quel versamento. Inoltre Longo non ha ottenuto l'incarico. I pm di Perugia ritengono che l'ex consigliere possa aver avuto un ruolo anche nella sezione disciplinare del Csm, quando fu rigettata la richiesta di archiviazione in un procedimento nei confronti dell' ex pm di Siracusa Marco Bisogni, osteggiato da Amara e Calafiore. Tra le carte sequestrate a Centofanti c' erano atti giudiziari e ministeriali su processi che contrapponevano quel pm ai soliti avvocati, Longo, intercettato, commentava: «Intanto adesso se ne va a giudizio al Csm... c' è Palamara, e secondo me lo condanna». Bisogni invece fu assolto, ma il giorno della sentenza Palamara non era nel collegio giudicante.

Procura di Roma, pm Fava indagato a Perugia con Palamara: “Rivelazione di segreto e favoreggiamento”. Il pm accusato di aver rivelato al collega retroscena sulle indagini a suo carico per corruzione. I fatti contestati risalgono al 16 maggio. Due mesi prima, invece, il sostituto procuratore aveva preso carta e penna per scrivere al Csm e segnalare un presunto conflitto d'interessi di Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma ora in pensione, sul caso Amara. Marco Lillo il 30 Maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Si allarga l’indagine sui magistrati della procura di Roma. La Guardia di finanza – su mandato della procura di Perugia – ha perquisito casa e ufficio del pubblico ministero Luca Palamara, indagato per corruzione, in relazione ai suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, arrestato nel 2018 a Roma e scarcerato, in attesa di giudizio. Altre tre informazioni di garanzia sono state notificate a Luigi Spina, membro togato del Csm della corrente Unicost, la stessa di Palamara; all’avvocato Pietro Amara e al lobbista Fabrizio Centofanti, l’imprenditore che nella tesi dell’accusa avrebbe pagato le vacanze allo stesso Palamara. La procura di Perugia ha notificato anche un invito a comparire al pm della procura di Roma Stefano Fava, calabrese come Palamara e amico del collega da molti anni. Fava è l’autore di un esposto inviato a marzo al Csm sulle presunte ragioni di astensione in capo all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al suo aggiunto Paolo Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati, entrambi avvocato di grido. Circostanze – quelle del conflitto d’interessi – che nell’avviso a comparire recapitato a Fava la stessa procura di Perugia – competente per i reati dei magistrati romani – considera “allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita”. Ora i pm di Perugia entrano in quella storia di contrapposizioni tra magistrati romani. Da un lato fanno capire che considerano irrilevanti le cose sostenute contro i pm Pignatone e Ielo da Fava. Dall’altro lato contestano come un’ipotesi di reato la consegna da parte di Fava degli allegati a quell’esposto, atti presi dal fascicolo non più segreto. La svolta investigativa di Perugia svela un retroscena importante nella vicenda dell’esposto, della quale si era occupato Il Fatto. Per i pm di Perugia, quell’esposto (o almeno i suoi allegati) era stato condiviso con Palamara in una conversazione del 16 maggio nella quale quest’ultimo chiedeva a Fava notizie sull’innesco romano delle indagini a suo carico. Il pm Fava è accusato dai colleghi umbri di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Al centro c’è sempre Luca Palamara, ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche lui in servizio nella Capitale come sostituto. Palamara infatti è indagato dalla procura di Perugia per corruzione. E Fava è accusato di aver rivelato a Palamara i motivi per i quali era indagato dalla procura di Perugia. Fava è indagato dai pm perugini perché avrebbe rivelato i segreti di cui era titolare “quale sostituto procuratore titolare del procedimento penale n.44630/16, in seno al quale erano scaturiti gli accertamenti che avevano poi imposto la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica di Perugia nei confronti di Palamara Luca (reati di corruzione di cui al presente procedimento) confluiti nella nota di indagine che la Procura di Perugia aveva inoltrato al Csm in relazione alla iscrizione nel registro degli indagati nei confronti di Palamara Luca, violando i doveri inerenti al sua funzione e abusando della sua qualità”. Come avrebbe realizzato Fava questa violazione del segreto? “Comunicando – scrivono i pm di Perugia – con Palamara e rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti ‘dalle carte di credito’ di Centofanti Fabrizio e si erano estesi alle verifiche e pernottamenti negli alberghi, rivelandogli altresì alcuni retroscena delle indagini”. Fabrizio Centofanti, imprenditore ed ex capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, è l’uomo che inguaia Palamara. I pm di Perugia ipotizzano che avrebbe corrotto il pm pagandogli gli alberghi per alcune brevi vacanze. Palamara nega. Arrestato nel febbraio del 2018 per frode fiscale, considerato vicino agli ambienti del Pd, Centofanti è in affari proprio con Piero Amara, l’avvocato siciliano al centro del caso delle sentenze comprate al consiglio di Stato. Proprio su Amara indagava Fava, prima d’imbattersi in Centofanti. Anche se, secondo quanto risulta al Fatto, nel fascicolo di cui Fava era titolare non c’era l’informativa della Guardia di Finanza sugli accertamenti svolti sulle carte di credito di Centofanti e sui soggiorni di Palamara. Il presunto reato sarebbe stato commesso il 16 maggio scorso e probabilmente la contestazione nasce da un’intercettazione di un colloquio. Due mesi prima, invece, come ha raccontato il Fatto Quotidiano il pm Fava aveva preso carta e penna per scrivere al Csm e segnalare un presunto conflitto d’interessi di Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma ora in pensione. Al centro dell’esposto di Fava c’è una riunione del 5 marzo scorso convocata da Pignatone nel suo ufficio per discutere dell’eventuale sua astensione in ragione dei rapporti professionali del fratello con l’avvocato Amara, che ha patteggiato 3 anni per corruzione. I pm di Perugia indagano Fava anche perché “consegnando a Palamara atti e documenti allo stato non identificati e alcuni atti già inoltrati al Csm ed alcuni atti già allegati all’esposto inoltrato al Csm, asseritamente comprovanti comportamenti non consoni del Procuratore capo e di un procuratore aggiunto anche in relazione al fascicolo 44630/16 (dal quale erano scaturite le investigazioni a carico del medesimo Palamara) in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori (circostanze allo stato smentite dalla documentazione acquisita presso la Procura di Roma) aiutava Palamara a eludere le investigazioni a suo carico”. Il 4 giugno prossimo Stefano Fava sarà davanti ai pm di Perugia e spiegherà le sue ragioni nell’interrogatorio.

 Ora i pm incastrano Palamara "40mila euro per una nomina".

Nel 2016 il magistrato avrebbe intascato soldi per favorire l'incarico a Gela per Longo, poi arrestato per corruzione. Giovanni Neve Giovedì 30/05/2019 su il Giornale. Non solo le pressioni per piazzare Marcello Viola come successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Luca Palamara avrebbe intascanto nel 2016 ben 40mila euro per facilitare la nomina di Giancarlo Longo a procuratore capo di Gela.

L'ex capo dei giudici fissato con Berlusconi. Nomina che in realtà non è mai andata in porto, ma che ora rischia di costar cara al procuratore, già nella bufera. A dirlo è il decreto delle perquisizioni eseguite oggi in casa e nell'ufficio del magistrato. Secondo la procura di Perugia, infatti, Palamara "quale componente del Csm riceveva da Calafiore e Amara la somma pari ad euro 40 mila per compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo". Lo stesso Longo che fu poi arrestato nell'ambito di un'inchiesta per corruzione. Per i pm, poi, l'imprenditore Fabrizio Centofanti "era una sorta di anello di congiunzione tra Luca Palamara e il duo Calafiore-Amara". E proprio Centofanti "ha agito come rappresentante di tale centro di potere che ha operato sistematicamente mediante atti corruttivi di esponenti dell'autorità giudiziaria". "Le utilità percepite nel corso degli anni da Palamara, dai suoi conoscenti e familiari ed erogate da Centofanti- si legge nel provvedimento - appaiono direttamente collegate alla sua funzione di consigliere dell'organo di autogoverno della magistratura. Il numero di donativi e il valore degli stessi non è spiegabile sulla base di un mero rapporto di amicizia". Per la procura di Perugia, quindi, "occorre tener conto che l'autore di tali emolumenti è un soggetto in stretti rapporti illeciti con imputati rei confessi del delitto di corruzione".

Palamara: «Clima avvelenato, ho usato frasi sbagliate Ma contro di me solo fango».  Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Io sono stato infettato da un’amicizia, quella con Fabrizio Centofanti, e per questo posso essere giudicato. Ma ho avuto rapporti con lui, non con il suo mondo, gli avvocati finiti sotto processo e i loro affari». Dopo sei ore di interrogatorio (altre quattro giovedì pomeriggio) davanti ai pubblici ministeri di Perugia che lo accusano di corruzione e violazione di segreto, Luca Palamara dice di aver fornito tutti gli elementi per dimostrare la propria innocenza: «Non ho mai avuto soldi, regali o altri vantaggi, né ho mai barattato le mie funzioni di magistrato».

L’ex pm Giancarlo Longo, arrestato per corruzione, racconta di 40.000 euro versati per aiutarlo a diventare procuratore di Gela.

«È un falso, lo stesso avvocato Calafiore che avrebbe dovuto pagare quei soldi ha negato. Per fortuna si possono controllare i movimenti bancari. Sono millanterie, io Longo l’avrò visto una volta, e di Gela non mi sono mai interessato. Inoltre non ho fatto nulla per danneggiare chicchessia nella Sezione disciplinare, né avrei potuto visto che è un organo collegiale».

E i viaggi pagati da Centofanti?

«Rientrano in un rapporto che risale al 2008, Fabrizio era amico di mia sorella e ho cominciato una frequentazione insieme a varie persone, tra cui qualche magistrato. Niente di male né di sospetto, lui non mi ha chiesto niente. Degli avvocati arrestati con lui, Calafiore non l’ho mai visto, e Amara l’avrò incontrato due volte in situazioni conviviali».

Ma i viaggi pagati restano.

«Li ho pagati io, e se non ho potuto dare tutte le ricevute e prove dei versamenti è per motivi privati che ho spiegato ai pm. Qualcosa ho trovato, continuerò a cercare, ma non mi si può cucire addosso l’abito del corrotto per questo».

C’è pure l’anello da 2.000 euro per una sua amica.

«Un’altra vicenda privata che ho potuto chiarire. Nell’intercettazione in cui si parla dell’anello non sono io a parlare, ed è stata interpretata male. Di queste storie su di me si parla dal 2017, adesso finalmente so di che si tratta e mi posso difendere».

Sta dicendo che sapeva di essere indagato prima che glielo dicessero i suoi colleghi Spina e Fava?

«Sapevo da tempo, come tanti altri, che a Perugia si indagava su quella mia amicizia; era il segreto di Pulcinella, e da quando sono rientrato in Procura questa storia mi ha danneggiato. C’era un clima avvelenato, sentivo dire “ti vogliono fregare”, che non potevo diventare procuratore aggiunto e dovevo ritirare la domanda. Questo mi ha ferito e amareggiato: ditemi che non sono bravo, ma non che c’è un’inchiesta a Perugia. Sono rimasto molto deluso, sul piano umano prima che professionale, e da lì nascono certe affermazioni in cui ora non mi riconosco».

Sarebbero quelle da cui trapelano ritorsioni contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo? Lei cercava un procuratore di Perugia che lo mettesse sotto processo...

«È un fraintendimento. Intendevo dire, dopo aver saputo dal collega Fava che c’erano delle questioni su procedimenti gestiti insieme, che bisognava trovare qualcuno affidabile che verificasse ogni circostanza. Certi commenti esasperati sono frutto della forte tensione, io mi sentivo in trappola e cercavo una via d’uscita, ma non mi riconosco in quelle frasi».

Le ha dette lei.

«Sì, ma il significato non è quello che gli si attribuisce oggi. Non volevo danneggiare nessuno, ancora oggi mi sento un protagonista della Procura di Giuseppe Pignatone, non volevo vendette né ritorsioni contro di lui o altri».

Come spiega allora il suo appoggio alla nomina a procuratore di Roma di Marcello Viola, in discontinuità con la gestione Pignatone?

«Si cercavano soluzioni valutando possibili schieramenti e convergenze tra correnti. Non faccio più parte del Csm, ma è normale continuare a parlarne con i colleghi».

Anche con due deputati come Cosimo Ferri e Luca Lotti che sembra ce l’avessero con Pignatone?

«Ferri non ha niente contro Pignatone, e si facevano discorsi generici. Il tema era cercare di capire come superare il clima incandescente che si era creato, non danneggiare qualcuno».

Forse volevate anche capire se con la nomina di Viola lei poteva diventare procuratore aggiunto...

«Io ero comunque in difficoltà per questa storia che aleggiava, e cercavo le ragioni dell’ostilità nei miei confronti. Ma adesso tutto questo è superato, voglio mandare un segnale di distensione. Mi interessa solo scrollarmi di dosso questa assurda ondata di fango».

Csm e Palamara,  le trame di Luca Lotti  per il dopo Pignatone «Viaggi e gioielli». Pubblicato venerdì, 31 maggio 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. C’erano altri due componenti del Consiglio superiore della magistratura agli incontri con i politici per scegliere il nuovo procuratore di Roma. Quando Luca Palamara discuteva con i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (entrambi sottosegretari del governo Renzi) la successione a Giuseppe Pignatone, erano presenti i due esponenti di Magistratura Indipendente: il capogruppo al Csm Corrado Cartoni e il collega Antonio Lepre. Con loro, almeno in un’occasione, c’era l’altro «togato» Luigi Spina, ora indagato per aver rivelato proprio a Palamara l’avvio dell’inchiesta per corruzione a Perugia che aveva appreso grazie alla comunicazione trasmessa al Csm e per questo ha deciso di autosospendersi. Le conversazioni intercettate grazie a un «troyan» inserito circa un mese fa nel telefonino di Palamara svelerebbero le trattative diventate serrate a pochi giorni dalle scadenze di palazzo dei Marescialli, ma anche l’interesse di Lotti alla discontinuità con la gestione Pignatone. Pochi mesi prima il procuratore, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi avevano chiesto per lui il rinvio a giudizio per l’affare Consip e dunque negli incontri delle ultime settimane Lotti avrebbe sostenuto la necessità di un cambio di rotta, sostenendo la candidatura del procuratore aggiunto di Firenze Marcello Viola, anziché quello di Palermo Francesco lo Voi. Valutazioni condivise da Ferri e discusse con i vari esponenti del Csm. Al momento nei confronti di Cartoni e Lepre non sono emersi rilievi di natura penale, ma i loro nomi saranno segnalati per eventuali azioni disciplinari. Non sono gli unici. La volontà di Palamara di screditare Ielo — diventato un nemico da quando aveva deciso di segnalare a Perugia proprio le spese di viaggi e gioielli che sarebbero state effettuate in suo favore dall’imprenditore Fabrizio Centofanti — è stata condivisa anche con un collega in servizio alla Direzione Nazionale Antimafia. Il 7 maggio scorso Palamara lo incontra e gli dice che «Fava vuole andare a Perugia», riferendosi all’esposto che il pm romano Stefano Fava ha deciso di presentare accusando Pignatone e Ielo di scorrettezze nella gestione delle inchieste. Fava è indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto. E adesso si valuterà se anche il magistrato della Dna abbia avuto un ruolo attivo in queste manovre. La Guardia di Finanza delegata alle indagini ha denunciato una vera e propria attività di dossieraggio svolta contro Ielo e tra i più attivi nella raccolta delle informazioni ha indicato il commercialista Andrea De Giorgio, che mercoledì scorso ha subito una perquisizione. Si tratta di un consulente della Procura di Roma che contatta Palamara il 25 marzo e l’11 aprile scorsi «e lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello di Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo». Il 16 maggio Palamara ne parla con Spina, concordano le nuove mosse contro Ielo. Spina sembra sicuro dell’esito e parla di quanto farà il Csm: «C’avrai la rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e sarà lui a doversi difendere a Perugia, perché noi Fava lo chiamiamo».

Antonio Massari e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 31 maggio 2019. Se davvero, come sostiene di aver saputo l' ex pm Giancarlo Longo in un interrogatorio, fu il Colle a fermare la sua nomina come procuratore di Gela, saremmo di fronte a uno scenario singolare: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da un lato, nel 2015 avrebbe bloccato meritoriamente la nomina di un magistrato che ha appena patteggiato una pena di 5 anni per corruzione in atti giudiziari. Dall' altro, però, dovrebbe almeno spiegare sulla base di quali informazioni agì in quel modo. Il motivo è semplice: Longo è il pm che a Siracusa ha imbastito un' inchiesta farlocca per sostenere che Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato dell' Eni, fosse vittima di un complotto. Inchiesta ritenuta un depistaggio per intralciare il processo milanese sulla maxi tangente, pagata da Eni in Nigeria, per acquistare il giacimento Opl 245 e che vede proprio Descalzi tra gli imputati. L' intervento del Colle è citato nel decreto di perquisizione, eseguito ieri dal Gico della Guardia di Finanza, nei confronti di Luca Palamara, consigliere del Csm ed ex segretario dell' Anm, accusato di corruzione per atti contrari al dovere di ufficio. Palamara secondo l' accusa ha ricevuto in cambio regali - un anello per la sua amica del valore di 2mila euro -, viaggi e soggiorni i albergo dall' imprenditore Fabrizio Centofanti. La vicenda Longo è il primo dei sei capi d' imputazione menzionati nel decreto disposto dai pm perugini Mario Formisano e Gemma Miliani. Tra le accuse mosse a Palamara c' è anche quella - in concorso con l' avvocato esterno dell' Eni Piero Amara e il suo collega Giuseppe Calafiore - di "aver ricevuto 40mila euro per () agevolare e favorire Longo nell' ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela () in violazione dei criteri di nomina e selezione come individuati dalle circolari e atti correlati () pur non venendo Longo nominato". Negli atti viene citato un interrogatorio di Longo dinanzi ai magistrati di Messina: fu un intervento "diretto" del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - dice - a bloccare la sua nomina alla guida della procura di Gela. "Longo - scrive la procura di Perugia - riferiva di aver appreso da Calafiore che questi (Amara) sarebbe stato in grado di gestire i voti di Unicost (corrente del Csm, ndr) tramite Palamara, intimo amico di Centofanti (imprenditore indagato con Palamara, ndr)". Longo spiega che "Calafiore gli avrebbe riferito di aver dato, unitamente ad Amara, 40mila euro 'a beneficio di Palamara' per la sua (di Longo) nomina a procuratore di Gela, non avvenuta, a dire di Palamara, a causa di un intervento diretto del Presidente della Repubblica". In sostanza Palamara avrebbe riferito Longo che fu Mattarella a bloccare la sua nomina. L' ex consigliere potrebbe aver millantato per giustificare il mancato risultato raggiunto. O potrebbe millantare Longo che infine aggiunge di "aver incontrato Palamara tra novembre e dicembre 2015, a Roma, in un centro sportivo, di aver parlato della sua possibile nomina a Gela, verso la quale Palamara si dichiarava disponibile o in alternativa anche in relazione al posto di procuratore di un' altra procura, precisando che () non parlarono di soldi". "Longo - si legge ancora - spiegava l' interesse di Amara rispetto alla nomina del procuratore di Gela in relazione ai procedimenti riguardanti Eni ivi pendenti, e in sostanza affermava che Calafiore l'aveva incoraggiato a presentare domande di trasferimento avendogli promesso specifici aiuti e possibilità di agganci al Csm". L'obiettivo erano quindi i procedimenti pendenti a Gela sull'Eni. Ecco perché Mattarella dovrebbe spiegare se è vero che stoppò la nomina di Longo e sulla basi di quali informazioni: se il Colle era a conoscenza di manovre che intendevano interferire con le inchieste su Eni a Gela è un fatto che non può restare riservato. Calafiore nega ai pm perugini di aver mai pagato qualcuno ma ammette di aver aiutato Longo nelle sue domande di trasferimento "facilitandolo ad avere un contatto con Palamara per il tramite di Centofanti". Longo ha lasciato la magistratura sei mesi fa, dopo aver patteggiato una pena di 5 anni per l' accusa di corruzione. Dal Colle ci si limita a far sapere che il Presidente detta soltanto linee generali che riguardano tutti i magistrati senza mai entrare in casi specifici. Fonti autorevoli del vecchio Csm smentiscono qualsiasi interferenza di Mattarella.

“HO DATO 10MILA EURO A PALAMARA”. CARLO VULPIO (ANSA l'1 giugno 2019.) - "Sono certo di chiarire i fatti che mi vengono contestati. Il mio intendimento ora è quello di recuperare la dignità e l'onore e di concentrarmi esclusivamente sulla difesa nel processo di fronte a tali infamanti accuse. Per tali ragioni mi assumo la responsabilità di auto sospendermi dal mio ruolo di associato con effetto immediato". Lo scrive il pm romano Luca Palamara, indagato per corruzione a Perugia, al presidente dell'Anm Pasquale Galasso. Gli altri non so, ma io sì, ho dato soldi veri a Luca Palamara. Diecimila euro. Non so se la Guardia di Finanza li ha trovati durante le perquisizioni, ma dovrebbero esserci 10 mila euro con una fascetta sulla quale c’è il mio nome e cognome “Carlo Vulpio”. Sono i soldi che il giudice monocratico di Bari, Luna Calzolaro, con sentenza del 3 febbraio 2016 ha deciso che io pagassi a Palamara - subito, con una provvisionale - come risarcimento per averlo “diffamato”. E senza aspettare il giudizio della Corte di Appello, alla quale mi sono ovviamente rivolto per continuare a sostenere che non ho diffamato Palamara e che il primo giudice ha compresso il mio diritto di difesa decidendo all’ultimo momento di non ascoltare il testimone chiave della vicenda. Ma intanto, ho dovuto dare a Palamara 10 mila euro. Adesso tutti si chiedono perché il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si scagliò contro Palamara. E adesso (adesso!) casca giù dal pero anche l'ex presidente della Camera, Luciano Violante, e viene a dirci che per il Csm invece delle elezioni bulgare sarebbe meglio procedere per sorteggio. Ciao Violante, buonaseraaa...

GUERRA PER PROCURA. Stefano Zurlo per “il Giornale” l'1 giugno 2019. Quando ha letto gli è parso di rivedersi allo specchio. Le carte di Perugia, per quel che si capisce, descrivono un network che mischiava poltrone e anelli, posizioni di potere e vacanze all inclusive. La politica e la giustizia a braccetto. Ad Alfredo Robledo, che oggi non è più in magistratura ma solo cinque anni fa era una delle toghe più note a Milano, non interessano i benefit che appassionano l' opinione pubblica ma le guerre dietro le quinte. «Nel tempo, come è noto, il rapporto fra il Procuratore Edmondo Bruti Liberati e il sottoscritto si guastò. Ma non si trattava di un conflitto fra due primedonne come pure è stato raccontato, io semplicemente volevo preservare la mia autonomia e indipendenza, lui aveva un' altra concezione. Io riconoscevo in lui il monarca, ma non assoluto. E chiedevo, come stabilito dal Csm, che motivasse il cambio in corsa di regole e assetti codificati». Una battaglia sempre più aspra in un' escalation di colpi di scena. «In un modo o nell' altro io mi ritrovai isolato nel momento in cui avevo afferrato un filone di indagine su Expo, quello della cosiddetta piastra, che io ritenevo molto promettente e di cui poi non ho saputo più nulla». Difficile tentare paragoni, anche perché sono molte le tessere del puzzle. Si può ricostruire una singola vicenda, entrando in un labirinto di repliche, controrepliche, pareri, risoluzioni. Ma si può anche cogliere un clima generale, una tendenza, alcuni snodi simbolici. Robledo, che nel 2014 è procuratore aggiunto e ha il delicatissimo ruolo di guida del dipartimento che si occupa della pubblica amministrazione, si ritrova spalle al muro. Gli vengono imputati rapporti non ortodossi con l' avvocato Domenico Aiello. Perde le deleghe. Dopo qualche mese scatta il trasferimento a Torino. Lui allinea alcuni elementi: «Io non sono mai stato iscritto ad alcuna corrente, ma posso dire che all' inizio gli esponenti di Magistratura indipendente mi furono vicini, promisero di difendere le mie ragioni al Csm, dove la sinistra di Magistratura democratica era schierata compatta a tutela di Bruti Liberati. Invece, dopo un po' sparirono tutti, io mi sono ritrovato solo. Il Csm non ha mosso un dito. Nulla. Non so cosa sia successo, io scrivevo documenti, mandavo carte, davo prove di quel che sostenevo, ma mi sembrava di parlare al muro. Solo il Consiglio giudiziario a un certo punto prese la mia parte andando contro Bruti Liberati, ma poi il Csm scavalcò Milano». Ed è a questo punto che entra in scena Luca Palamara. «È lui che ha scritto il provvedimento cautelare con cui sono stato trasferito a Torino ed è ancora lui, sempre lui, a comporre la sentenza in cui quel trasloco diventa definitivo. E diventa una condanna. Io ho cercato in tutti i modi di far sentire la mia voce, di spiegare che dietro quelle vicende non c' erano beghe personali o caratteriali ma due visioni della magistratura assai diverse. Ma non è servito a niente». Facile leggere quello di Robledo come lo sfogo dell' ex, come il tentativo di rivincita di chi ha perso il match e non accetta il verdetto. Ma si può anche ricordare come sia stato il premier Matteo Renzi a ringraziare ai tempi di Expo la procura di Milano per la sua «sensibilità istituzionale». Una frase accolta dai giornali con maliziosi e ironici commenti sulle sinergie fra poteri dello Stato. Oggi l' indagine di Perugia sembra mettere i bastoni fra le ruote al tentativo di egemonizzare, e quindi fatalmente normalizzare, pezzi importanti del sistema giudiziario. «È una storia che parte da lontano, che inizia con me - conclude Robledo - e che fu risolta dall' intervento del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano: la sua lettera dava al capo, quindi a Bruti Liberati, poteri estesi ed eliminava l' indipendenza della mia funzione». Il resto, a sentire Robledo, è stato il dispiegarsi di un sistema. Fino alla condanna firmata da Palamara. «Ma contro quel procedimento ho fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. E Strasburgo ha dichiarato ammissibile il mio caso». Un passaggio importante in una vicenda che non è ancora finita.

TOGHE CONTRO TOGHE, PALAMARA CONTRO IELO, CARLO BONINI CONTRO MARCO LILLO. Carlo Bonini per “la Repubblica” il 2 giugno 2019. Il magistrato della Direzione Nazionale Antimafia con cui Luca Palamara, intercettato dal Gico della Guardia di Finanza, discuteva al telefono della nomina del futuro Procuratore di Perugia era il suo collega di corrente (Unicost) Cesare Sirignano. Arrivato a Roma nel 2015, dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, dove aveva brillato per l' eccellente lavoro sulla Camorra (da cui aveva ricevuto minacce di morte), e tornato ad aprile 2018 in Campania come magistrato di collegamento con le Procure di Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere, Nola, Benevento ed Avellino, Sirignano è dunque l' ennesimo nome che, per "contagio", entra nelle carte dell' inchiesta di Perugia. Per quale motivo, poi, l' ex Presidente dell' Anm indagato per corruzione avesse bisogno di sollecitare Sirignano per la scelta del futuro Procuratore di Perugia sarà chiaro solo quando cadrà il segreto sul contenuto delle telefonate intercettate. Un fatto è certo: il pm della Dna non sarà l' ultimo magistrato a rimanere impigliato nella micidiale rete a strascico che sono stati gli ascolti del telefono di Palamara vista la sua frenetica attività di tessitura nel mercato delle nomine. Quello di cui altro e di più promettono di dire i giorni che abbiamo davanti. Partendo da un dato che, ad oggi, pare acquisito. In quel mercato, a capotavola, a trattare con Palamara per conto di Unicost e con gli «amici» di Magistratura Indipendente in Consiglio (Corrado Cartoni e Antonio Lepre) erano i parlamentari Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti. Per i quali la nomina del Procuratore di Roma - primo movimento di un Grande Gioco in divenire - era diventata una linea del Piave da presidiare con un Procuratore ritenuto "affidabile". L' inchiesta di Perugia - per quanto riferiscono qualificate fonti investigative - sorprende infatti Lotti a rivendicare per sé l' ultima parola sull' accordo circa il successore di Pignatone. Lotti avrebbe dovuto dare semaforo verde. E in nome di un solo criterio. Che il futuro Procuratore non avesse "pendenze" con la stagione renziana. Motivo per il quale - per dire - Giuseppe Creazzo, oggi procuratore di Firenze e uno dei tre candidati in Consiglio, era dato come spacciato. Perché politicamente inaffidabile per il lavoro fatto a Firenze sul Giglio magico. In questa partita, del resto, non erano previsti per altro prigionieri. Come dimostra un nuovo dettaglio sul dossieraggio che avrebbe dovuto spezzare le ossa di Paolo Ielo, colpevole di essere stato uno dei pivot della stagione di Pignatone a Roma, di aver pestato troppi piedi e dunque condannato, nei piani della congiura, a passare i prossimi mesi a difendersi a Perugia di fronte a un nuovo Procuratore scelto dai suoi carnefici. Nel ciarpame fatto arrivare al Csm sul suo conto era infatti anche un' altra vicenda (anche questa affacciata con singolare tempismo nel marzo scorso sul "Fatto", lo stesso giornale utilizzato come buca delle lettere per veicolare l' esposto dell' oggi pm indagato Stefano Fava su Pignatone e lo stesso Ielo) che, nelle intenzioni dei cartari, doveva imbarazzare il procuratore aggiunto. Parliamo di una consulenza avuta nel 2018 dal fratello Domenico Ielo, da Giovanni Bruno, commissario liquidatore di "Condotte", terza società italiana di costruzioni. Ebbene, la sorella di Bruno, B.runella, magistrato amministrativo, era stata nel 2016 imputata in un processo di cui Ielo era stato pm e da cui era uscita assolta. Il dossier doveva calunniosamente lasciare ipotizzare chi sa quale inconfessabile trastula. Peccato che Paolo Ielo avesse chiesto la condanna della Bruno (1 anno e 2 mesi) e avesse comunicato la sua astensione da qualsiasi procedimento su "Condotte" appena avuta notizia dell' incarico al fratello. Ma, evidentemente, in questo verminaio, tutto faceva brodo. Anzi, veleno.

Pm, politici e manager: la lista dei 40 nella rete di Palamara per «gestire le nomine». Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 da G. Bianconi e F. Sarzanini su Corriere.it. Nella rete costruita dal pubblico ministero Luca Palamara ci sono giudici, politici, imprenditori e manager. Con loro aveva rapporti professionali e privati sui quali svolgerà accertamenti la Procura di Perugia, che ha inquisito il magistrato per corruzione. La lista comprende una quarantina di nomi che la guardia di finanza ha mostrato a Palamara al momento della perquisizione, informandolo che avrebbe cercato nei suoi computer, nel telefonino, ma anche nei documenti prelevati a casa e in ufficio, riferimenti a quelle persone per verificare la natura dei contatti. Alla vigilia di una giornata che potrebbe rivelarsi cruciale per l’inchiesta penale e le ricadute istituzionali delle trame per l’assegnazione di poltrone negli uffici giudiziari — con gli interrogatori fissati degli altri magistrati indagati Stefano Fava e Luigi Spina, e la riunione straordinaria del plenum del Consiglio superiore della magistratura — emergono nuovi dettagli sul materiale raccolto negli ultimi mesi che consentiranno di approfondire diversi filoni investigativi. Nell’elenco ci sono almeno quattro pm di Roma che con Palamara erano in stretto contatto. Due avrebbero condiviso con lui viaggi e vacanze. Altri, oltre a Fava che per questo è indagato di favoreggiamento e rivelazione di segreto, lo avrebbero appoggiato nei presunti progetti di «vendetta» contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. In una conversazione captata grazie al trojanche ha trasformato il suo telefono in una microspia, Palamara è esplicito sul candidato da scegliere per la Procura di Perugia: «Deve aprire un procedimento penale su Ielo... de questo stamo a parla’». Per questo — sebbene nel suo interrogatorio, assistito dagli avvocati Mariano e Benedetto Buratti, abbia cercato di spiegare che voleva solo un inquirente che appurasse tutto — si muoveva con politici come Cosimo Ferri e Luca Lotti. Ma anche con alcuni consiglieri del Csm che avrebbero dovuto votare le nomine dei nuovi procuratori. Allargando poi la propria rete a tutti coloro che potevano dargli informazioni utili, compresi politici locali e professionisti o manager custodi di informazioni riservate. Tra le persone su cui svolgere verifiche ci sono anche alcuni consiglieri del precedente Csm. L’accusa di aver orientato nomine e decisioni in cambio di soldi, viaggi e gioielli riguarda infatti soprattutto il Consiglio di cui Palamara ha fatto parte fino al 2018. Proprio in quel periodo — è il sospetto — potrebbe aver gestito alcune pratiche segnalate dal suo amico Fabrizio Centofanti, che a sua volta agevolava gli affari degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. A parte le scelte del procuratore di Gela e il procedimento disciplinare su un pm di Siracusa, già contestati all’indagato, i controlli potrebbero allargarsi ad altre vicende come quelle della Procura di Trani, dove inizialmente era stato inviato il dossier su un falso complotto ai danni dei vertici dell’Eni, poi trasmesso a Siracusa. Lì c’era un pm, Antonio Savasta, poi arrestato per corruzione, messo sotto inchiesta disciplinare e assolto dalla Sezione di cui faceva parte anche Palamara. Ma si tratta di provvedimenti collegiali, dove sarà complicato trovare riscontri a eventuali responsabilità individuali.

Le decisioni del Csm. In questo contesto a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si attende l’arrivo delle trascrizioni delle intercettazioni. Per affrontare con piena cognizione di causa la discussione nel plenum straordinario che si terrà domani pomeriggio e poter valutare i colloqui tra magistrati e politici a cui hanno partecipato, assieme a Palamara e Spina, almeno altri due consiglieri: Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura indipendente. Soprattutto Lepre potrebbe trovarsi in una situazione delicata, poiché fa parte della commissione incarichi direttivi che tratta le pratiche sulle nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari. E proprio delle nomine dei procuratori di Roma e non solo, pare si discutesse in quelle riunioni. Lepre è uno dei quattro consiglieri che il 23 maggio ha votato per proporre Marcello Viola nuovo procuratore della Capitale, il candidato sponsorizzato da Palamara. Ed è uno dei tre che ha deciso di respingere la richiesta di fare le audizioni prima di votare, come chiesto da un componente ma esplicitamente raccomandato dal vicepresidente David Ermini, portavoce di un’istanza del Quirinale. In questo contesto a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si attende l’arrivo delle trascrizioni delle intercettazioni.

[L’inchiesta] "Volevano il controllo sulle procure per vendicarsi di alcuni colleghi". La difesa di Palamara: "Su di me fango, mai barattato dignità e professione". Claudia Fusani, giornalista parlamentare 1 giugno su Tiscali News. Il pm romano al centro della bufera giudiziaria che intreccia fatti di corruzione con il tentativo di condizionare alcune nomine ai vertici degli uffici. Tra questi, la procura di Roma e di Perugia che indaga sulle toghe della Capitale. Giura di “non aver mai barattato la dignità e la professione con alcuno”. Nega di aver avuto “40 mila euro in cambio della nomina del procuratore di Gela”, circostanza che in effetti non si è poi mai verificata. Mette a disposizione il proprio conto corrente, “l'ho appena fatto con i magistrati di Perugia”. Dice che su di lui “è stata rovesciata una quantità inaudita di fango”. E comunque riuscirà a spiegare tutto, assicura, “lo devo ai miei figli, alla famiglia, ai magistrati italiani e a tutte quelle persone che hanno riposto fiducia in me”.

Un interrogatorio lungo un giorno e mezzo. Dopo un interrogatorio durato in pratica un giorno e mezzo, tutta la giornata di giovedì a Roma e ieri fino alle tre del pomeriggio davanti ai colleghi a Perugia, il pm romano Luca Palamara consegna ai giornalisti, con passione e molta disperazione, la sua versione dei fatti. In 48 ore, da essere uno dei magistrati più noti d'Italia, leader di Unicost, ex membro del CSM ed ex presidente dell'Anm, sostituto a Roma con buone possibilità di passare aggiunto, si ritrova ad essere “lo scandalo della magistratura”, il simbolo “del punto più basso raggiunto dalla toghe”. Oltre che indagato per una presunta brutta storia di corruzione dai contorni ancora poco chiari e proprio per questo abbastanza inquietanti. Già nota come “la battaglia finale per il controllo della procura di Roma”, “le mazzette al CSM”, “il mercato delle nomine” e via di questo passo con una ridda di titoli di giornali e servizi Tv che sembrano ignorare il fatto che è sempre pericoloso generalizzare quando si parla delle istituzioni perché significa indebolirle, svilirle e metterle alla berlina senza pensare agli effetti collaterali, l'inchiesta della procura Perugia ha scatenato un tale inferno politico e istituzionale che deve procedere il più velocemente possibile verso la verità. È necessario fugare o confermare il prima possibile quelli che oggi sono indizi e sospetti che rischiano di azzoppare senza ritorno la magistratura.

Tenere distinti i fatti. L’Anm cerca di tenere distinti i fatti: una cosa sono i fatti relativi alla presunta corruzione per cui sono indagati tre magistrati, due pm della Capitale – Palamara e Stefano Fava per i quali mercoledì 5 si riunirà la sezione disciplinare dell’Anm – e il consigliere togato Luigi Spina (da ieri autosospeso da ogni funzione consiliare); altra cosa sono le dinamiche correntizie che da sempre – sarebbe ipocrita negarlo – caratterizzano le scelte dei vertici dei vari uffici. Nel breve periodo il Csm dovrà nominare oltre centro magistrati ai vertici di tribunali e procure, caselle a volte delicate come possono essere le procure di Roma, più di tutte, Torino, e poi Brescia e Perugina. Naturale che ci siano consultazioni preliminari e contatti che non sempre sono spartizioni e lottizzazioni. Il problema è che dalle carte dell’inchiesta di Perugina, che per legge indaga sui colleghi della Capitale, emerge, secondo l’accusa, un piano, si spiega negli uffici della procura di Roma, “finalizzato non solo a condizionare quelle nomine ma, attraverso quest’ultime, a regolare conti interni nati da gelosie, vendette personali e finanche propositi di controllare l’attività dei giudici per gestire inchieste scomode”. In Sicilia, tra Gela e Siracusa, ma anche a Roma e a Perugia. Un quadro che, se confermato, “potrebbe configurare quasi l’eversione”. Un quadro che Palamara avrebbe smontato pezzo dopo pezzo nel suo lungo faccia a faccia con i pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani giustificando il tutto, al massimo, con qualche rancore personale e legittima ambizione.

L’uso del trojan. Perugia è da ieri senza procuratore capo visto che Luigi de Ficchy è andato in pensione come è già successo l’8 maggio a Roma quando Pignatone ha salutato i suoi quasi cento sostituti dopo sette anni incredibili che hanno scoperchiato il malaffare criminale e politico della Capitale. Incredibili perché la procura di Roma aveva scoperchiato sempre molto poco affidata negli anni per lo più a procuratori zelanti e poco coraggiosi. Sono stati Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Paolo Ielo ad inviare, ormai un anno fa, le carte ai colleghi di Perugia per verificare ed esplorare quello che stava emergendo intorno al ruolo e alla figura di Palamara, sostituto a piazzale Clodio in prestito al Csm fino a settembre 2018 quando poi è tornato nuovamente in procura a Roma. Il nome di Palamara emerge in quanto amico di Fabrizio Centofanti, manager romano, che ha da poco patteggiato una condanna in una brutta storia di corruzione giudiziaria che ha visto protagonisti due avvocati siciliani (Pietro Amara e Giuseppe Calafiore) che avevano creato una vasta rete di relazioni utile a condizionare le sentenze del Consiglio di Stato. A questo punto anche le nomine dei capi delle procure. Considerata la delicatezza degli indizi, i pm umbri decidono di non fare sconti al collega e di impiegare addirittura un trojan (meccanismo inviato allo smartphone che nei fatti si trasforma in cimice che ascolta tutto). Segno che i sospetti sono stati da subito inquietanti.

"Ha venduto la propria funzione". I pm umbri scrivono che Palamara “ha venduto la propria funzione di consigliere del Csm dal 2014 al 2017”. Nelle carte ci sono indizi documentali che parlano di viaggi regalati, a Dubai, in Toscana e a Madonna di Campiglio con tanto di cenone di fine anno. Si parla di passaggio di danaro, ben 40 mila euro: ne parla, interrogato, l’ex toga Giancarlo Longo, poi condannato per corruzione, che Palamara avrebbe cercato di promuovere procuratore a Gela così come chiedevano i due avvocati che per questo lo avrebbero pagato 40 mila euro (la nomina fu stoppata da Mattarella). Soldi che Palamara nega tassativamente di aver ricevuto e che difficilmente potranno essere dimostrati. Ma quello che più inquieta dell’indagine sono le intercettazioni. Dialoghi che spiegherebbero la contropartita di quei regali. E il contesto dove la vendetta personale si mescolerebbe alla volontà di controllo di alcune procure chiave. In pratica Palamara, una volta consapevole (grazie alla soffiata di Spina che sta al Csm e poi del collega Fava che per primo aveva trovato il contatto, tramite carte di credito, tra Palamara e Centofanti), non solo rivendicava un ruolo di king maker nella nomina del nuovo procuratore di Roma (è in testa il pg di Firenze Marcello Viola ma la votazione finale è attesa intorno a metà giugno), ma avrebbe lavorato anche per condizionare la nomina del nuovo capo di Perugia e trovare così una persona amica che avrebbe potuto indagare sull’aggiunto Paolo Ielo colpevole di aver iniziato l’indagine su Palamara e, una volta sostituito Pignatone, certamente più solo.

"La rivincita". I passaggi chiave per l’accusa sono racchiusi in alcune intercettazioni captate tra il 7 e il 16 maggio, un paio di settimane fa, quando viene a sapere che Fava ha presentato un esposto al Csm contro Ielo e Pigantone. In quei giorni Palamara, è la tesi dei pm umbri, sconvolto e preoccupato dalla notizia, voleva condizionare la nomina del nuovo procuratore di Perugia “per avere un capo sensibile alla sua posizione procedimentale e all’apertura di un procedimento fondato sulle carte che il pm Fava era intenzionato a trasmettere a Perugia proprio sull’operato di Pignatone e Ielo”. Il 7 maggio Palamara dice ad un collega: “ ma io non c’ho nessuno a Perugia, zero”. I due prendono in esame alcuni candidati e, una volta individuato quello più utile alla bisogna, Palamara osserva: “Ma chi glielo dice che deve fare quella cosa lì… che deve aprire un procedimento su Ielo, cioè di questo parliamo, non lo farà mai”. Il pm Fava assume così le fattezze dell’”angelo custode”. Sempre parlando con Spina, che lo aggiorna nel dettaglio su ciò che si sta movendo a palazzo dei Marescialli, Palamara dice: “Un angelo custode ce l’ho io, m’è spuntato Stefano (Fava, ndr) che è il mio amico storico”. E Spina: “E’ spuntato Stefano, e adesso si va fino in fondo”. Il 16 maggio “Fava consegna a Palamara documenti finalizzati a gettare discredito su Ielo”. Quello stesso giorno Spina dice: “Avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo forse sarà lui a doversi difendere a Perugia per altre cose perché noi (la I° commissione del Csm, ndr) Fava lo chiamiamo”. E Palamara: “No, lo devi chiamare adesso perché che altrimenti mi metto a fare il matto”.

I parlamentari. Nelle 19 pagine del decreto di perquisizione si fa riferimento anche ad alcuni incontri che Palamara e Spina hanno avuto con alcuni deputati. Si tratta del magistrato Cosimo Ferri, leader di riferimento di Mi, e Luca Lotti (entrambi del Pd). Con loro Palamara, secondo gli investigatori del Gico della Finanza, avrebbe rivendicato un ruolo nella nomina, ancora non avvenuta, del nuovo procuratore di Roma. Incarico per cui la V Commissione del Csm si sarebbe espressa sul pg di Firenze Marcello Viola. In procura a Roma si fa notare che “Lotti, indagato a Roma per Consip, viene aggiornato sulla scelta del nuovo procuratore della Capitale”. Una coincidenza? Qualunque cosa sia, suona come minimo inopportuna.

La difesa di Palamara. Nel lungo faccia a faccia con i pm umbri, Palamara non ha rinnegato l’amicizia con Centofanti. “Ma è un rapporto di amicizia preesistente e risalente. Siamo usciti insieme e abbiamo passato del tempo insieme. Ma non accetto minimamente da chicchessia che si possa pensare che abbia ricevuto favoritismi, anche con riferimento ai viaggi, per dare in cambio qualsiasi favore”. Il magistrato è sicuro che potrà “continuare a fare a testa alta quello che ho fatto. Poi posso aver fatto errori ma mai e poi mai ho barattato in alcun modo l'imparzialità del mio giudizio, il mio essere magistrato ma soprattutto l'attività che ho svolto al Csm nell'interesse della magistratura intera, dei colleghi e nel pieno rispetto di tutte le istituzioni”. Da comprendere alcuni sfoghi verbali nati dalla preoccupazione per un’inchiesta che però Palamara dice di conoscere da settembre “quando già ne parlarono alcuni giornali”. Legittimo anche ambire all’incarico di aggiunto. Circa i politici, si tratta di “rapporti ordinari nell’ambito del ruoli istituzionali ricoperti negli anni”. Tra Csm e Anm “ho avuto in più occasioni incontri con i più svariati appartenenti al mondo politico di qualsiasi parte per questioni relative alle politiche della giustizia. Mai però queste discussioni hanno potuto interferire con la scelta dei capi degli uffici”.

Coincidenze, errori, ingenuità, leggerezza, svendita della propria funzione: qualunque cosa sia, occorre che le indagini arrivino presto alla conclusione dando risposte certe. La magistratura non può operare con questo verminaio sullo sfondo.

L'amante gli alberghi e il "solitario", ecco come si è difeso Luca Palamara davanti ai magistrati. Voleva essere interrogato per spiegare, convincere i suoi colleghi, i sostituti procuratori di Perugia, che non ha mai preso soldi, regali, viaggi. Guido Ruotolo 31 maggio 2019 su  Tiscali News. Ha cercato disperatamente di difendersi, Luca Palamara. Ma ha capito di avere poche possibilità di rialzarsi in piedi. Voleva essere interrogato per spiegare, convincere i suoi colleghi, i sostituti procuratori di Perugia, che non ha mai preso soldi, regali, viaggi. Sperava che i pm scoprissero le carte, approfondissero gli elementi che li avevano convinti del suo coinvolgimento. L'ex membro del Csm in attesa di essere nominato procuratore aggiunto di Roma ha visto in pochi giorni crollare il suo mondo. Era potente, Palamara. Contava e diceva la sua sulle nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Tutto questo fino a all'inizio di questa settimana quando è arrivata la perquisizione della Finanza.

Sperava di poter chiarire tutto. Ma il suo è stato un drammatico monologo davanti ai magistrati della Procura di Perugia. Quasi quattro ore per cercare di smontare le accuse contestate nel provvedimento con il quale gli 007 del Gico della Finanza lo hanno perquisito. Muti, i pm di Perugia hanno lasciato che Palamara parlasse.

Colpisce e inquieta questa inchiesta. Perché racconta della degenerazione di un sistema di autogoverno della magistratura.  Unico, il Consiglio Superiore della Magistratura, dove sopravvive il Manuele Cencelli, un lascito della Prima Repubblica. In base alla rappresentanza, le varie correnti si spartiscono le nomine dei vertici degli Uffici giudiziari. Ora però, se si dovesse arrivare al processo e i giudici di Perugia dovessero confermare le accuse della Procura, almeno nella scorsa consiliatura, a Palazzo dei Marescialli alcune nomine sono state garantite e pilotate dall'esterno, per interessi criminali, illegali, illeciti. I magistrati di Perugia stanno verificando alcune nomine in particolare. Il numero dei magistrati indagati va ben al di là di Luca Palamara (corruzione) e di Luigi Spina, membro del Csm indagato per aver violato il segreto d'ufficio e per favoreggiamento. Ci sono vertici di uffici giudiziari che secondo alcuni testimoni sono stati nominati per essere a disposizione.

Da dove è partita l'inchiesta. L'inchiesta che sta terremotando il Csm e gli uffici giudiziari, muove i suoi primi passi nella Sicilia Orientale. Siracusa. Due avvocati, un magistrato e un faccendiere. Sono loro i protagonisti di  storie di sentenze comprate, assoluzioni garantite, magistrati da promuovere e altri da punire. E dal faccendiere, Fabrizio Centofanti, si arriva a Luca Palamara e le carte vengono spedite a Perugia.

L'amante e il contante. "Posso chiarire tutto. Quegli alberghi li ho pagati io, in contanti. Non volevo che mia moglie scoprisse che ero in compagnia di una donna". Ha provato a difendersi così Palamara. Non sapendo che la Guardia di finanza aveva raccolto persino le dichiarazioni dei titolari degli alberghi e le fatture. Soggiorni offerti da Fabrizio Centofanti sin dal lontano 2011, quando Palamara non era ancora componente del Csm.  Soggiorni da 425 euro per due notti all'Hotel Fonteverde di san Casciano dei Bagni, Siena. Altro che conti saldati in contanti. L'amministrazione dell'Hotel Campiglio Bellavista di Madonna di Campiglio conservava persino l'appunto che il prenotante della stanza era Fabrizio Centofanti, che per loro era riservata la mezza pensione e che avrebbe saldato il conto lo stesso Centofanti. La storia dell'anello ha fatto scalpore perché durante una conversazione intercettata,  Adele Attisani non è convinta di prendere "il solitario", preferendo un gioiello più sottile. Valore 12.000 euro. Nelle carte della inchiesta perugina si raccontano storie di mercimonio di magistrati che si vendevano sentenze e trasferimenti di fascicoli da una città a un'altra. Quello che è certo è che la inchiesta di Perugia è destinata ad avere nuovi sviluppi.

GIUSTIZIA E' SFATTA. Marco Lillo e Antonio Massari per “il Fatto Quotidiano” l'1 giugno 2019. Il 9 maggio Luca Lotti, in compagnia del collega di partito Cosimo Ferri, discute con Luca Palamara e Luigi Spina del futuro della procura di Roma e della successione di Giuseppe Pignatone. I quattro non sanno che la Procura di Perugia, dopo aver inoculato un trojan nel telefono di Palamara, trasformandolo in una cimice, sta intercettando le loro conversazioni. Sarebbe riduttivo definire l' intercettazione di questo consesso gelatinoso un mero atto d' indagine: ritrae in diretta la delegittimazione in cui stanno sprofondando la magistratura e un' importante parte della politica. Lotti, non a caso, è definito negli atti il "parlamentare imputato". È imputato, infatti, con l' accusa di favoreggiamento, nell' inchiesta Consip condotta dalla Procura di Roma. Non solo. Per Tiziano Renzi, accusato di traffico d' influenze nella stessa inchiesta, è stata richiesta l' archiviazione, ma non è stata ancora disposta: sul suo destino pende sempre l' ipotesi di un' imputazione coatta. Lotti non doveva essere lì e non doveva interessarsi al futuro della Procura che ha chiesto il suo rinvio a giudizio. Non dev' essere affar suo se il posto di Pignatone sarà preso da Marcello Viola, Francesco Lo Voi o Michele Creazzo. Ma c' è di più. Discute con Palamara anche di quel che potrà accadere al suo accusatore: il procuratore aggiunto Paolo Ielo che, con il collega Mario Palazzi, ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Lotti è in compagnia di Cosimo Maria Ferri, ex magistrato, storico e inossidabile ras della corrente di Magistratura Indipendente, oggi deputato del Pd: una formidabile cerniera tra mondo politico e giudiziario. A invischiare il quadro c' è la presenza del componente del Csm, Luigi Spina. A renderlo insostenibile c' è infine il protagonista dell' indagine: l' ex presidente dell' Anm e consigliere del Csm Luca Palamara, uomo forte della corrente Unicost, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d' ufficio, sostituto procuratore a Roma, dove aspira a conquistare la poltrona di procuratore aggiunto. È già difficile in questo contesto cogliere la separazione tra i due mondi, quello politico, giudiziario e correntizio, ma a rendere più fosco il clima è un altro contenuto della loro conversazione: l' esposto che, secondo l' accusa, sarà lo "strumento" di Palamara per "recare discredito" a Ielo, ovvero il magistrato che ha indagato Lotti chiedendone il suo processo. Lotti e Ferri non dovrebbero essere lì e non dovrebbero assistere alla strategia che, in base all' accusa, mira a colpire Ielo. Invece ci sono. A scrivere l' esposto consegnato al Csm - e destinato alla Procura di Perugia secondo la conversazione - è stato il pm romano Stefano Fava. "L' esposto di Fava - scrive la Procura di Perugia - nell' intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare il procuratore che ha disposto, all' epoca, la trasmissione degli atti a Perugia". E ancora "la consegna di carte da Fava a Palamara", aggiungono i pm umbri, è "finalizzata a recare discredito al procuratore aggiunto Paolo Ielo". Al centro dell' esposto di Fava - che i pm definiscono "circostanze allo stato smentite dalla documentazione fin qui acquisita" - c' è la mancata astensione di Ielo e del procuratore capo uscente di Roma Giuseppe Pignatone, in un fascicolo che riguarda l' ex avvocato esterno dell' Eni, Piero Amara, per il duplice motivo che il fratello di Ielo ha lavorato per Eni mentre quello del procuratore capo ha in passato collaborato con Amara. E ancora: Spina - si legge negli atti di Perugia - rivela ai tre che "all' esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe stato secretato". Spina alla presenza di Palamara e Ferri fornisce al "parlamentare imputato" Lotti un' informazione che riguarda il suo accusatore e la manovra di "discredito" che sta per colpirlo. Manovre contro Ielo e discussioni su chi sarà il nuovo procuratore di Roma. Tutto questo non è solo un atto d' indagine. È il finale di una commedia tragica che oltre ai tre magistrati, vede protagonista il Pd e quel che resta del Giglio magico e del suo senso delle istituzioni.

Marco Lillo, Antonio Massari e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” l'1 giugno 2019. Quella che si sta consumando in queste ore nei palazzi di giustizia romani è una storia di tradimenti e colpi sferrati dietro la schiena tra chi dovrebbe stare sempre dalla stessa parte. Protagonista è Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma, ex consigliere al Consiglio superiore della Magistratura (Csm), in passato anche presidente dell' Associazione Nazionale Magistrati. Doveva rappresentare la sua categoria, meno uno. Ossia Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. Lo stesso che a Perugia aveva inviato nel 2018 le carte di un' indagine che raccontavano i rapporti tra Palamara e l' imprenditore Fabrizio Centofanti e che sono costati all' ex consigliere l' accusa di corruzione. Uno smacco che Palamara non sopportava, tanto da utilizzare per screditare Ielo - secondo le carte dei pm di Perugia - una denuncia fatta al Csm da un altro magistrato, Stefano Rocco Fava in cui "venivano segnalate 'asserite' anomalie commesse" da Ielo ma anche dall' ex procuratore capo Giuseppe Pignatone. È la storia di un esposto rivelato mercoledì dal Fatto che riguarda presunte ragioni di astensione in una particolare indagine in capo a Pignatone e Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati. Accuse che i pm di Perugia bollano così: "circostanze allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita". E così anche Fava si ritrova indagato a Perugia, ma per favoreggiamento e rivelazione di segreto. Quest' ultimo reato contestato anche al consigliere del Csm Luigi Spina. È stato il trojan installato sul cellulare di Palamara a svelare questa storia di notizie rivelate e usate a proprio favore. Un trojan che ha raccolto anche tante altre voci di chi nel Csm ora sta discutendo la nomina a procuratore capo di Roma. Sono stati ad esempio intercettati "casualmente" almeno due parlamentari che parlavano con Palamara a maggio del 2019. Ci sarebbe poi anche una registrazione della voce di Luca Lotti, il renzianissimo ex sottosegretario allo Sport, totalmente estraneo alle indagini. Sono due dunque le rivelazioni fatte a Palamara. Da una parte Spina - secondo le accuse - gli ha detto che era arrivato alla prima commissione l' esposto di Fava, ma anche che era stata inoltrata da Perugia la comunicazione della sua iscrizione nel registro degli indagati. È stato poi lo stesso Fava a consegnarli il 16 maggio scorso l' esposto, "strumento" per Palamara "per screditare il procuratore aggiunto". "Siccome un angelo ce l' ho io sei spuntato te, m' è spuntato Stefano che è il mio amico storico", diceva l' ex consigliere a Spina. Che lo rassicura. "Ma è spuntato Stefano, adesso si va fino in fondo". Quegli atti consegnati a Palamara sono costati a Fava l' accusa di favoreggiamento per averlo aiutato "ad eludere le investigazioni a suo carico". Agli amici il pm Fava ha detto che "erano atti non più segreti". La rivelazione di segreto invece gli viene contestata perchè come titolare del procedimento dal quale erano "scaturiti gli accertamenti" su Palamara, "rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti 'dalle carte di credito' di Centofanti e si erano estesi alle verifiche e pernottamenti negli alberghi". Su questo Fava, che sarà interrogato il 4 giugno, si difende dicendo: "Non ho mai avuto in mano quell' informativa Centofanti-Palamara, non era nel mio fascicolo". Dell' esposto contro Ielo si parla in diverse conversazioni. Per esempio, il 9 maggio scorso alla presenza anche di "due parlamentari". "Per quel cazzo che mi hanno combinato lì a Perugia ancora nemmeno si sa", dice l' ex consigliere. E il 7 maggio sempre Palamara dice che Fava "vuole fare andare a Perugia". E qui entrano in gioco le nomine: domani infatti il procuratore capo di Perugia Luigi De Ficchy sarà in pensione e bisogna nominare il successore. Palamara vuole qualcuno che lo aiuti quando l' esposto contro Ielo arriverà anche lì. "Ma io non c' ho nessuno a Perugia zero", dice Palamara, informandosi "su uno dei tanti candidati conosciuto e in contatto con il suo interlocutore". Di questa nomina parla anche con Fava il 16 maggio. È scritto negli atti: "Traspare l' interesse di Palamara che venga nominato un procuratore a Perugia che sia sensibile alla sua posizione procedimentale e all' apertura di un procedimento fondato sulle carte che Fava sarebbe intenzionato a trasmettere". Per i pm "la consegna delle carte contro i suoi colleghi da parte di Fava" hanno "per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di ritorsione". E la sintesi delle intenzioni sta in una intercettazione tra Spina e Palamara del 16 maggio. "C' avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e tutte le cose forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo", dice Spina. E Palamara: "No, adesso lo devi chiamare, altrimenti mi metto a fare il matto".

"Toghe sporche" . Altri due togati del Csm coinvolti nelle trattative segrete per controllare le procure. Il Corriere del Giorno l'1 Giugno 2019. Si è dimesso dal CMS il consigliere Spina di Unicost. Coinvolti anche i membri “togati” Cartoni e Lepre presenti agli incontri con Lotti, Ferri e Palamara. Molte le nomine sospette, fra cui quella del procuratore di Matera Pietro Argentino. All’interno dei faldoni dell’inchiesta della Procura di Perugia sul “mercato” delle nomine al Csm compaiono due altri nomi. Si tratta di due magistrati, consiglieri togati, della corrente Magistratura Indipendente: Corrado Cartoni, attualmente giudice presso il Tribunale di Roma, ed Antonio Lepre, pubblico ministero della Procura di Paola in Calabria. Cartoni è membro della terza commissione del Consiglio, mentre Lepre è membro della quinta commissione , cioè quella che valuta le candidature per gli incarichi direttivi e semidirettivi. Secondo l’informativa del Gico della Guardia di Finanza  contenente il risultato investigativo pedinamenti e le intercettazioni telefoniche , vengono  documentati  delle riunioni “carbonare” a cui hanno partecipato il pm Luca Palamara, ex presidente della Anm ed ex consigliere del Csm, attualmente indagato per corruzione e “regista” delle grandi operazioni che volevano determinare la geografia negli uffici giudiziari chiave del Paese, e sopratutto i suoi interlocutori nel “Palazzo” : a partire  dal parlamentare del Pd, Cosimo Ferri,magistrato ex sottosegretario alla giustizia e “dominus” della corrente di Magistratura Indipendentedella quale è stato segretario), e l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Matteo Renzi, successivamente ministro Luca Lotti. Incontri avvenuti nel mese di maggio appena terminato, in almeno tre occasioni. Secondo quanto riferiscono fonti investigative qualificate, le intercettazioni dei finanzieri del Gico “fotografano” infatti i magistrati Cartoni, Lepre e Palamara, con i parlamentari Ferri e Lottibeccati a discutere del “dopo Pignatone“, cioè della nomina del suo successore alla guida della procura di Roma, che sembra essere diventata un’ossessione per Lotti, conseguenziale probabilmente al suo coinvolgimento nell’ “inchiesta Consip“, condotta dal pool dei reati contro la pubblica amministrazione guidata da Paolo Ielo che pochi mesi insieme al pm Mario Palazziavevano chiesto per lui il rinvio a giudizio e negli incontri delle ultime settimane Lotti avrebbe sostenuto la necessità di un cambio di rotta, patrocinando la candidatura del procuratore aggiunto di Firenze Marcello Viola, invece di quello di Palermo Francesco lo Voi, considerato troppo vicino alla gestione Pignatone. Un’inchiesta che Lotti ritiene una macchinazione in suo danno. Infatti non a caso l’ex ministro Pd braccio destro da sempre di Matteo Renzi è da tempo alla ricerca di di un editore che gli pubblichi un suo libro sulla vicenda “Consip”. Il tenore ed i modi di questa cricca della malagiustizia,  le loro parole intercettate non devono essere molto “istituzionali” al punto da costringere la Procura di Perugia, a trasmettere a Palazzo dei Marescialli gli atti relativi a questo passaggio dell’inchiesta perché il Consiglio valuti gli aspetti disciplinari del comportamento di Cartoni e Lepre, con riserva di eventuali future valutazioni penali. Nei prossimi giorni, dopo l’autosospensione da consigliere comunicata ieri al Csm dall’indagato Luigi Spina  magistrato di Magistratura Indipendente, che viene indicato nelle indagini della Procura di Perugia come il “sodale” che assieme a Palamara tramava per la rovina di Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma ritenuto “uomo di Pignatone“, la corrente di Mi e il Consiglio Superiore della Magistratura  potrebbero perdere altri due consiglieri. Un’inchiesta che si è rivelata un vero e proprio ciclone inarrestabile. Un “ciclone” giudiziario che ha origine della squallida vicenda professionale e non solo del pm Luca Palamara, sembra ormai non potersi più fermare,  coinvolgendo persino anche gli uffici della Direzione Nazionale Antimafia, dove è bene ricordare, l’ex procuratore capo Roberti è stato appena eletto parlamentare europee nelle liste del Pd. Sono arrivate arrivate alla D.N.A. le telefonate intercettate dell’ex Presidente dell’Anm Palamara, che cercava di coinvolgere uno dei magistrati antimafia di via Giulia per decidere il nome del futuro capo della Procura di Perugia (fino a ieri diretta da Luigi De Ficchy, da oggi in pensione), una sede “fondamentale” per i suoi destini personali ed in generale strategica nei rapporti di forza interni alla magistratura in quanto procura competente sui reati commessi dai magistrati di Roma. Il 7 maggio scorso Palamara incontra il magistrato e gli dice che “Fava vuole andare a Perugia“, riferendosi all’esposto che il pm romano Stefano Rocco Fava ha deciso di presentare accusando Pignatone e Ielo di presunte scorrettezze nella gestione delle inchieste.

La Guardia di Finanza delegata alle indagini ha comprovato una vera e propria attività di dossieraggiosvolta contro il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo e ha indicato il commercialista Andrea De Giorgiotra i più attivi nella raccolta delle informazioni , motivo per cui mercoledì scorso è stata effettuata una perquisizione nei suoi confronti. De Giorgio è un consulente della Procura di Roma, il quale gli scorsi 25 marzo e l’11 aprile contattava Palamara “e lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello di Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo“. Palamara ne parla con Spina, il 16 maggio ed insieme concordano delle nuove mosse contro Ielo. Spina manifesta assoluta sicurezza sull’esito ed anticipa di quanto accadrà al Csm: “C’avrai la rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e sarà lui a doversi difendere a Perugia, perché noi Fava lo chiamiamo“. Il captatore trojan inserito da remoto dagli investigatori del Gico della Guardia di Finanza nello smartphone di Palamara ha consentito agli inquirenti umbri di poter ascoltare e registrare il frenetico impegno del magistrato romano e della sua corrente Unicost nel cercare di raggiungere compromessi ed accordi con le altre componenti della magistratura che, si scopre ora, hanno riguardato, nella passata consiliatura (cioè quella nella quale il pm Palamara è stato consigliere) e in quella presente il destino di quattro uffici giudiziari del Mezzogiorno aventi un “peso” politico per il tipo di procedimenti ed inchieste che gestiscono. A partire dalla Procura di Gela dove – come raccontato ieri da “Repubblica” – gli “amici” di Palamara, gli avvocati Amara e Calafiore, hanno cercato di imporre ala guida  il pm Giancarlo Longo precedentemente in servizio presso la Procura di di Siracusa, il quale successivamente è stato arrestato per corruzione, ed ha lasciato la magistratura. O la Procura di Trani, dove Antonio Di Maio venne incredibilmente preferito a Renato Nitti, un capace ed eccellente magistrato della Direzione distrettuale Antimafia di Bari. Nonostante il Consiglio di Stato, aveva bloccato nell’ottobre del 2018, la nomina di Di Maio invitando il Csm a riconsiderare quella di Nitti, l’attuale composizione del plenum del  Consiglio Superiore della Magistratura, nel febbraio 2019, ha riconfermato la precedente nomina di Di Maio.

Per finire alla Procura di Matera, dove nel luglio del 2017, il Csm aveva indicato e nominato  Pietro Argentino come Procuratore capo, nonostante lo stesso magistrato fosse stato indicato dal Tribunale di Potenza come testimone falso e reticente nel processo penale che aveva mandato in carte il pm Matteo Di Giorgio che sta scontando una condanna a 8 anni di carcere proprio a Matera. Alfredo Robledo che da cinque anni non più in magistratura, dopo essere stato procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, Robledonel 2014 da aggiunto, aveva il coordinamento del pool di magistrati della procura milanese che si occupava dei reati nella pubblica amministrazione, ma gli venne contestato dei rapporti non ortodossi cn l’avvocato Domenico Aiello, ritirate le deleghe ed in seguito trasferito a Torino, a suo dire proprio per volontà di Palamara. “E’ lui che ha scritto il provvedimento cautelare con cui sono stato trasferito a Torino, ed è lui, ancora lui a a comporre la sentenza con cui quel trasloco diventa definitivo“. Sentenza contro la quale Robledo si è rivolto alla Corte Europea (CEDU) a Strasburgo presentando un ricorso, che è stato ritenuto ammissibile.

Palamara con una lettera inviata al presidente dell’Anm, Pasquale Grasso ha spiegato i motivi della sua decisione di dimettersi dall’ ANM: “Sono certo di chiarire i fatti che mi vengono contestati –scrive Palamara (a lato nella foto)  – il mio intendimento ora è quello recuperare la dignità e l’onore e di concentrarmi esclusivamente sulla difesa nel processo di fronte a tali infamanti accuse. Per tali ragioni mi assumo la responsabilità di auto sospendermi dal mio ruolo di associato con effetto immediato. Sono però sicuro –  conclude conclude il pm di Roma, che ha guidato l’Anm dal 2007 al 2012 –  che il tempo è galantuomo e riuscirà a ristabilire il reale accadimento dei fatti“. E proprio l’Anm questa mattina ha chiesto gli atti dell’inchiesta alla Procura di Perugia. L’azione dei magistrati italiani, sottolinea l’Anm, “deve ispirarsi quotidianamente a principi di correttezza, trasparenza, impermeabilità ambientale, assoluta distanza e terzietà dagli interessi economici e personali. Ogni comportamento che si discosta da tali principi compromette e lede l’immagine dell’intera magistratura. Immagine che l’Anm intende tutelare: chiederemo alla Procura di Perugia gli atti ostensibili per poter avere una diretta conoscenza dei fatti e consentire una preliminare istruzione dei probiviri sulle condotte di tutti i colleghi, iscritti alla Anm, che risultassero in essi coinvolti“. È un atto che “riteniamo necessario per salvaguardare il lavoro, l’etica e l’impegno che ogni magistrato – conclude la nota dell’Anm – testimonia ogni giorno col suo lavoro“. Intanto è stato convocato per mercoledì 5 giugno  il Comitato Direttivo Centrale dell’Anm per prendere alcuni provvedimenti dopo un’analisi di quanto accaduto negli ultimi giorni. In una nota, i consiglieri del Csm Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura indipendente,che avrebbero partecipato a incontri con esponenti politici per discutere della nomina del Procuratore di Roma, si difendono: “Il nostro comportamento è sempre stato improntato alla massima correttezza. Non siamo mai stati condizionati da nessuno. Marcello Viola è il miglior candidato alla procura di Roma e solo ed esclusivamente per questo lo sosteniamo”. La corrente della magistratura Unicost, Unità per la Costituzione, alla quale appartiene il pm  Palamara, ha reso noto che se al termine dell’inchiesta di Perugia dovesse aver luogo un processo, “si ritiene parte lesa, sicchè sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa“. Lo dichiara il presidente Mariano Sciacca, ex componente del CSM  “Più leggiamo gli articoli e ancor più ci convinciamo del danno, forse ancora non compiutamente calcolabile, che la vicenda all’attenzione della magistratura perugina porterà alla magistratura italiana“, aggiunge Unicostnella nota firmata oltre che dal presidente Sciacca dal segretario Enrico Infante. “Al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni, Unità per la Costituzione, ma ancor prima ciascuno dei suoi associati, non possono accettare la perdita di credibilità davanti ai colleghi e ai cittadini”. E questa non è “ vuota retorica, ma sostanza”, affermano ancora i vertici della corrente di magistrati , assicurando che tutto il gruppo è pronto ad “assumere la propria responsabilità politica senza sconto alcuno“. E conclude: “Chiediamo ai colleghi Spina  e Palamara, iscritti a Unità di Costituzione – ai quali auguriamo di potere chiarire tutto tempestivamente –  di assumersi le rispettive responsabilità politiche, adottando le decisioni necessarie delle dimissioni dall’istituzione consiliare e dalla corrente“. Poco dopo il Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura ha reso noto le dimissioni di Spina, di Unicost, da membro togato, ed annunciato un plenum straordinario convocato per martedì 4 giugno, alle ore 16.30. Da noi contattato un importante magistrato, già componente del Csm , a Palazzo dei Marescialli,  ci ha dichiarato: “Stiamo attenti a colpevolizzare un’intera categoria, che ha il diritto di essere difesa dalle mele marce. Se questa inchiesta è venuta alla luce è proprio grazie alla indipendenza e determinazione di alcuni magistrati“. Anche se bisogna ricordare che a Perugia da oggi il procuratore capo è in pensione, ed è proprio per quella poltrona, cioè di capo della procura che indaga sulle vicende oggetto dell’inchiesta giudiziaria in corso,  che si è scatenata questa inchiesta sulle toghe sporche .

Il pm senza indagini da copertina diventato megafono dei giustizialisti. Il talento per la comunicazione l'ha trasformato in una star della televisione. Stefano Zurlo Giovedì 30/05/2019 su Il Giornale. C'è un dialogo, in realtà un monologo contro di lui che è diventato un pezzo di storia televisiva. Francesco Cossiga, ormai presidente emerito, lo apostrofa con parole beffarde: «Faccia di tonno. I nomi esprimono la realtà. Lui si chiama Palamara come il tonno, la faccia da intelligente non ce l'ha assolutamente». Luca Palamara scuote la testa: «È molto offensivo». E Cossiga, al telefono, infierisce: «Mi quereli, mi diverte se mi querela». Maria Latella dagli studi di Sky nicchia e allora l'ex capo dello Stato spara il colpo finale: «Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare magistrati con quella faccia alla tue trasmissioni per carità». Siamo nel 2008, nei giorni delle dimissioni del Guardasigilli Clemente Mastella, azzoppato da un'inchiesta giudiziaria, e Palamara è già una star della tv. L'astro nascente del partito dei giudici nell'ultima stagione in cui le toghe dettano l'agenda politica. Mastella e Prodi, ma non solo. Gli scontri più cruenti sono quelli con Silvio Berlusconi, sempre accerchiato dalle indagini, in particolare quelle di Ilda Boccassini, con il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti.

Palamara, classe 1969, è il presidente della potente Associazione nazionale magistrati e spesso parla in coppia con il segretario dell'Anm, Giuseppe Cascini. Cascini appartiene all'ala sinistra della corrente di sinistra dei giudici italiani, Magistratura democratica, Palamara invece è targato Unicost, il grande contenitore moderato, ma questo elemento non è sufficiente a chiarirne la collocazione: la verità è che anche lui viene da Md e sta nell'area progressista della corrente, difficilmente distinguibile da Md, e contrapposta alla parte più conservatrice di Giacomo Caliendo e Antonio Martone. Che si parli della prescrizione breve o degli articoli del Giornale sulla vita privata della Boccassini, che intanto ha scoperchiato la vicenda Ruby, Palamara è in prima pagina e sullo schermo, sempre pronto a rilanciare il verbo puro del giustizialismo italiano. È un continuo batti e ribatti, inevitabilmente anche un gioco delle parti ma non solo. Palamara, che come pm prima a Reggio Calabria e poi a Roma non ha mai condotto indagini da copertina e nemmeno fa parte dell'élite degli studiosi del diritto, ha un talento per la comunicazione e diventa il megafono di quella stagione burrascosa. Non avrà mai la popolarità dei Davigo, degli Spataro e dei Caselli, che peraltro sono della generazione precedente, ma acquista un posto di rilievo nella politica giudiziaria del Paese. Una carriera solida che prosegue al Csm e una vicinanza alla procura di Milano e al suo leader Edmondo Bruti Liberati, erede potente del rito ambrosiano dei Borrelli e dei D'Ambrosio, anche se l'epopea di Mani pulite è ormai solo un ricordo. Una contiguità ideale ma anche fatalmente la gestione del potere che parte da Palazzo dei Marescialli, attraversa le correnti e arriva fino alle poltrone più importanti del sistema giudiziario. Quando Alfredo Robledo si mette di traverso agli assetti della gloriosa macchina da guerra ambrosiana e si ritrova isolato e sotto accusa, è Palamara a scrivere una sentenza di condanna disciplinare che fa molto discutere. Il clima nel Paese è cambiato. Le zuffe fra politica e magistratura non appassionano più come prima, ora dominano la crisi economica e il tema dei migranti. Palamara è meno visibile, ma è tutta la corporazione in toga a non avere più l'appeal di prima sull'opinione pubblica. Quel che è accaduto dietro le quinte, se qualcosa di non lineare è avvenuto in un disinvolto game of thrones sulla linea di confine fra politica e magistratura nell'era renziana, ce lo dirà l'inchiesta di Perugia.

Lo scontro in tv Cossiga-Palamara: "Hai la faccia da tonno". Uno scontro in tv tra Cossiga e Palamara è tornato virale in queste ore sui social. L'ex Capo dello Stato disse: "Ha la faccia da tonno..." Angelo Scarano Giovedì 30/05/2019 su Il Giornale. Il pm Luca Palamara finito nel ciclone delle inchieste per corruzione ha un precedente televisivo che in queste ore sta facendo il giro del web. Siamo nel 2008 e l'allora Guardasigilli, Clemente Mastella, si è appena dimesso per un'inchiesta giudiziaria a suo carico. Palamara, ospite di Sky Tg24, pontifica sul ruolo della magistratura e sulle dimissioni del ministro Mastella. Ma ad un certo punto irrompe la telefonata dell'ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga. Con una telefonata che ha il sapore del monologo, in pochi minuti il "picconatore" abbatte il pm con una sfilza di insulti e di critiche: "Ha la faccia da tonno. I nomi esprimono realtà. Lui si chiama - afferma Cossiga rivolgendosi alla conduttrice Maria Latella - Palamara come il tonno. La faccia intelligente non ce l'ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere...". Palamara resta in silenzio. Cossiga non molla la presa e rincara la dose: "Mi quereli, mi diverte se mi querela...". A questo punto Cossiga si rivolge direttamente alla Latella e afferma: "Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare i magistrati con quella faccia alle tue trasmissioni per carità". Quel diverbio così acceso nelle ultime ore è diventato virale sui social. Il battibecco tra Cossiga e Palamara è diventato all'improvviso un pezzo della storia della tv. La chiusura di quella telefonata è ancora più forte degli attacchi a Palamara: "L'associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso". Ultimo affondo del "picconatore" che quando parlava badava poco allo stile ma andava direttamente alla sostanza. Anche davanti al pm con la "faccia da tonno"...

·         Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.

Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)

La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").

Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.

Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.

A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione  2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.

Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.

Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.

Il carabiniere, il pm e la società: «Perizie inutili per un milione». Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Come i gabbiani dietro ai pescherecci: si sposta da una Procura all’altra il pm, si sposta con lui il suo carabiniere più stretto collaboratore, si sposta l’imprenditore amico (e pure foraggiatore) del carabiniere braccio destro del pm, e si sposta un fiume di denaro di consulenze tecniche affidate senza motivo e strapagate dalla Procura (tramite carabiniere) all’imprenditore. Così la Procura di Milano nel 2009-2010, quando qui tra i pm di punta operava S.ndro R.imondi e nella sua polizia giudiziaria spiccava il carabiniere Lorenzo Terraneo, ha liquidato 750.000 euro (per copie forensi di dati informatici sequestrati nei pc o nei cellulari) alla After Hour srl amministrata dall’imprenditore Alessandro Tornotti; e così la Procura di Brescia nel 2010-2011, dopo il passaggio qui sia del pm (che ne diventerà procuratore aggiunto fino a marzo 2018 prima che il Csm lo nominasse attuale capo della Procura di Trento) sia del carabiniere, ha liquidato 300.000 euro alla stessa After Hour srl, peraltro controllata da una società di Malta. Questo inedito spaccato affiora solo ieri nelle pieghe dell’arresto per bancarotta di Tornotti per il fallimento della After Hour srl nel 2016, al cui interno la gip Alessandra Clemente accoglie anche l’accusa di corruzione che i pm milanesi Silvia Bonardi (già collega di Raimondi a Brescia) e Stefano Civardi formulano per i benefit dell’imprenditore al carabiniere che gli procacciava gli incarichi firmati dal pm: l’affitto di un residence a Brescia per 33.000 euro, un viaggio a Capo Verde, ricariche del cellulare per 4.400 euro, l’uso di una moto. La nomina dei consulenti è un «atto discrezionale del pm» ma qui «in sostanza era pilotato proprio in virtù della massima fiducia riposta in Tornotti da Terraneo e quindi da Raimondi», scrive la gip, rilevando che «sul punto Raimondi non è mai stato sentito» dai pm coordinati da Ilda Boccassini, «forse in virtù dei suoi rapporti con i due indagati che lo ponevamo in una situazione delicata». Pur se appaiono «peculiari le plurime nomine del consulente», e se il «risalente rapporto di collaborazione» pm-imprenditore «ha contribuito a confondere i piani che avrebbero dovuto restare separati», per la gip «è da escludersi che il pm sia stato coinvolto in scambi di favori». A stoppare l’andazzo nel 2011 furono le resistenze di una giovane pm, Lara Ghirardi, e lo scomparso procuratore bresciano Nicola Pace, che impose il visto sopra i 2.500 euro. Ora si scopre che il Csm nel 2015 nulla fece quando un gip bresciano, Lorenzo Benini, in una di quelle archiviazioni-fuffa denunciò una consulenza pagata alla After Hour 100.000 euro per intercettazioni inesistenti, e fu controdenunciato da Raimondi per calunnia. Senza indagini diverse dall’interrogatorio di Benini e dalla memoria di Raimondi, il procuratore veneziano Luigi Delpino, e gli aggiunti Carlo Nordio e Adelchi d’Ippolito, esclusero l’abuso d’ufficio per Raimondi ritenendo la sua giustificazione (e cioè l’aver caricato su quel fascicolo tutte le asserite spese di noleggio di 8 pc e 8 fax-scanner a beneficio del lavoro generale della polizia giudiziaria) opinabile, ma dettata dall’esigenza di superare le carenti dotazioni degli uffici; e esclusero per Benini la calunnia per difetto di dolo nel suo esposto, aggiungendo che i «toni avrebbero potuto essere più misurati». A quel punto pure la I commissione del Csm (relatore Zanettin) archiviò la vicenda: con la motivazione che «non aveva avuto alcuna risonanza esterna».

Carlo Taormina su Facebook il 17 gennaio alle ore 19:52. "Dunque, magistrati corrotti, magistrati mafiosi, magistrati speculatori, magistrati che vanno a puttane pagandole con atti giudiziari; dunque magistrati disonesti a nord, a sud e al centro del Paese e ne conosciamo solo una parte perché molti altri vengono protetti dai loro stessi colleghi. Io mi sono rotto un po’ i coglioni di rispettare una categoria in cui Il tasso dei ladri e persino mafiosi è’ così alto. Non sono mele marce se da una parte ne trovi quindici di magistrati disonesti, da un’altra parte ne trovi altri quindici e da un’altra parte ancora ne trovi altri quindici. E mi sono anche rotto i coglioni ad andare in carcere a consolare e difendere degli innocenti condannati da questi ladri. Persino la cassazione è un luogo in cui è inutile andare perché invece di essere garante dei cittadini onesti che invece vengono condannati e di essere garante della imparzialità dei giudici che hanno condannato i cittadini, è diventata una istituzione di copertura delle malefatte dei giudici. Non capisco perché il governo giallo verde tagli gli stipendi a tutte le caste e tagli il numero degli appartenenti alle caste, ma non si ponga mai il problema di tagliare lo stipendio ai magistrati e di diminuirne il numero. Lo faccia, sarebbe suo ulteriore merito. Ma è’ anche ora di svolte populistiche anche per la magistratura. Cacciamo dai tribunali i magistrati statali e mettiamoci i giudici popolari, come nei paesi civili di tipo anglosassone ai quali si ispira il nostro sistema processuale. Come è ora di liberarsi dei pubblici ministeri arroganti, prevaricatori ed incapaci perché c’è ben la polizia per fare le indagini e c’è l’Avvocatura dello Stato per sostenere l’accusa davanti ai giudici popolari. Bonafede, pensaci tu!"

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 24 gennaio 2019. I veleni nella magistratura amministrativa, la più riservata e prossima al potere politico, non sono destinati a prosciugarsi. Domani è convocato il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l'organo di autogoverno che decide sugli incarichi. All'ordine del giorno la nomina del presidente aggiunto del Consiglio di Stato, il numero due del supremo organo che decide tra l'altro sugli atti delle pubbliche amministrazioni, compresi quelli del governo. La quarta commissione interna che ha istruito la pratica ha vagliato tre autorevoli candidati, proponendo infine all' unanimità Sergio Santoro, preferito all' ex ministro berlusconiano Franco Frattini e a Giuseppe Severini. Domani al plenum l'ultima parola. Santoro vanta una superiore anzianità di servizio: dopo essere stato magistrato del Tar, diventò consigliere di Stato per concorso nel 1981, quando aveva trent' anni. Dal 1983, per i successivi 25 anni, ha svolto incarichi fuori ruolo come consigliere giuridico e capo di gabinetto in ministeri e altre pubbliche amministrazioni, dal Campidoglio (con Alemanno) a Palazzo Chigi (con Berlusconi). Rientrato al Consiglio di Stato, attualmente presiede la sesta sezione giurisdizionale. L' elemento destinato a riaprire il rubinetto delle polemiche emerge proprio nei giorni della designazione. Santoro risulta indagato dalla Procura di Roma per corruzione in atti giudiziari nell' ambito della maxi inchiesta su una rete di avvocati, giudici, politici, imprenditori e faccendieri che avrebbero pilotato l'assegnazione di grandi appalti «aggiustando» le sentenze proprio al Consiglio di Stato, dove approdano tutte le controversie tra le imprese che partecipano alle gare pubbliche. La vicenda era esplosa un anno fa, quando le inchieste condotte dalle Procure di Roma, Milano e Siracusa avevano intrecciato diversi episodi di corruzione legati dal ruolo determinante degli stessi attori. Al punto da ipotizzare l'esistenza di un «sistema corruttivo» unico, da Nord a Sud. A capo dell'associazione a delinquere un avvocato siciliano, Piero Amara, assai attivo proprio in Consiglio di Stato. Tra i quindici arrestati in quella prima fase c'era anche un ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, accusato di corruzione in atti giudiziari. Nei mesi successivi l'inchiesta romana, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si è approfondita ed allargata, toccando altri giudici o ex giudici. Fino alla svolta di luglio, quando Amara decide di collaborare con i magistrati e svela i dettagli di un'organizzazione in grado di determinare con la corruzione l'esito di 18 sentenze su alcuni dei più importanti e lucrosi appalti banditi in Italia negli ultimi anni (compresi quelli Consip oggetto di altre indagini), per un valore di diverse centinaia di milioni di euro. Nel frattempo gli indagati sono saliti a 31, compresi Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio (corruzione), l'ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (corruzione giudiziaria e rivelazione di segreto d' ufficio) e Francesco Saverio Romano, che fu ministro dell'Agricoltura con Berlusconi (rivelazione di segreto d' ufficio). A tutti è stato notificato nei giorni scorsi un avviso di proroga delle indagini, disposta dal giudice per le indagini preliminari di Roma su richiesta della Procura. Tra gli indagati su cui Ielo proseguirà gli accertamenti c' è Santoro, il più alto in grado tra i magistrati coinvolti nell' inchiesta. Santoro è contemporaneamente parte in causa anche in un altro processo. Non penale ma amministrativo e generato proprio da un suo ricorso, tre anni fa. Anche all' epoca era candidato ai vertici del Consiglio di Stato, ma fu scavalcato sia come presidente (da Alessandro Pajno) sia come presidente aggiunto (da Filippo Patroni Griffi, da pochi mesi diventato presidente dopo il pensionamento di Pajno). Santoro, con altri colleghi, aveva lamentato la lesione dell'indipendenza della magistratura amministrativa ad opera del governo Renzi, presentando ricorso al Tar contro le nomine. Quella ferita non è mai stata chiusa, le indagini giudiziarie ne hanno aperte altre e al Consiglio di Stato i veleni continuano a scorrere.

Cinque anni per scrivere la sentenza. Il Csm perdona. Il Csm al termine dell’istruttoria ha assolto il giudice ritardatario, partendo da una premessa: sono tollerati ritardi superiori al triplo del temine legale, scrive Giovanni M. Jacobazzi l'1 Marzo 2019 su Il Dubbio. Assolto nonostante abbia depositato centinaia di sentenze con anni di ritardo. E’ questa la linea del nuovo Csm che emerge dalla prima pronuncia della sezione disciplinare. Una grande discontinuità con il passato, quando era sufficiente che il giudice depositasse una sola sentenza con un anno ritardo per uscire da Palazzo dei Marescialli con una condanna. Questi i fatti. Un giudice civile di un importante Tribunale dell’Italia centrale impiega anni per depositare i suoi provvedimenti. Alcune sentenze vengono depositate addirittura dopo oltre cinque anni. Lo stesso periodo di tempo impiegato da Tolstoj per scrivere il romanzo capolavoro del Novecento, Guerra e pace, o da uno studente per conseguire la laurea in giurisprudenza. La situazione viene segnalata dal presidente del Tribunale, il quale evidenzia come il suo giudice non riesca proprio a depositare le sentenze rispettando i tempi. E ciò nonostante avesse condiviso con il diretto interessato un programma di smaltimento dell’arretrato. Il capo dell’Ufficio, infatti, vista la situazione fuori controllo, dopo aver esonerato il magistrato ritardatario dalla partecipazione alle udienze dove non fosse relatore e dalla decisione dei reclami cautelari, aveva concordato con lui una tabellina di marcia: depositare in un mese cinquanta sentenze e quaranta ordinanze, per un totale di tre provvedimenti al giorno. Tutto inutile. Dopo appena qualche mese il crono programma salta e l’obiettivo non viene raggiunto. Da qui, dunque, l’inevitabile avvio del procedimento disciplinare. Secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, il magistrato ritardatario avrebbe violato con la sua condotta i doveri di «diligenza e laboriosità», determinando «un’evidente lesione del diritto del cittadino ad una corretta e sollecita amministrazione della giustizia con conseguente compromissione del prestigio dell’Ordine giudiziari», nel quinquennio 2012- 2016. Un particolare. Il magistrato ritardatario è recidivo, essendo stato già condannato per avere dal 2007 al 2012 depositato, sempre con ritardo di anni, altre centinaia di sentenze.

«Ritardi gravi ed ingiustificati prosegue il pg – nonché pregiudizievoli del diritto della parti ad ottenere la definizione in tempi ragionevoli del processo secondo quanto previsto dall’art. 111 co 2 della Costituzione e 6 CEDU». Il Csm, come detto, al termine dell’istruttoria ha assolto il giudice ritardatario. La decisione del Csm parte da una premessa: sono tollerati, secondo giurisprudenza costante, ritardi superiori al triplo del temine legale. Una sorta di “extrabonus” temporale che il giudice può quindi spendersi prima di essere sanzionato. Oltre a ciò, tralasciando alcune sentenze, la maggior parte dei ritardi si concentrerebbero nel deposito delle “ordinanze istruttorie”. E questo, a dire del Csm, non costituirebbe illecito disciplinare. A far pendere la bilancia in favore del giudice, poi, il fatto che negli anni «non c’è stato alcun avvocato che si sia mai lamentato della gestione del ruolo del magistrato», ed alcuni motivi personali, come il ricovero di un familiare per dieci giorni in un ospedale, che gli avrebbero impedito il rispetto dei tempi. Di diverso parere il procuratore generale che ha impugnato la sentenza davanti alla Sezioni unite civili della Cassazione. Varie le questioni d’appello. E’ irrilevante il fatto che gli avvocati non abbiano mai protestato contro il giudice «in quanto l’illecito tutela il regolare corso della giustizia ed in principi del giusto processo». Sui motivi personali, comprensibilissimi, «il giudice poteva ricorrere a periodi di congedo o aspettativa». Tali periodi di criticità, però, devono essere transitori ed eccezionali e non, come in questo caso, di durata ultra decennale. La decisione della Cassazione è attesa dopo l’estate.

Pm torinese diventa youtuber e propone il suo metodo dimagrante. La pm Monica Supertino all'opera su YouTube. La magistrata spiega davanti ai fornelli di casa la sua dieta i suoi esercizi di fitness, scrivono Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi il 25 febbraio 2019 su La Repubblica. Mele cotte a colazione, crepes di solo albume e muffin alle carote. Con l’arrivo della bella stagione, in procura a Torino impazza un nuovo metodo tra dieta e fitness firmato dalla pm Monica Supertino che sabato ha aperto un suo canale Youtube per dettare consigli per avere un fisico scultoreo e “pietroso” come il suo. e si propone in video in versione influencer sui temi della salute e del benessere anche a tavola. Ai fornelli direttamente dalla sua cucina di casa, vestita però in un fasciante e cortissimo tubino da sera, la magistrata spiega i suoi segreti per rimanere in forma. E li battezza “il metodo Supertino”: “un percorso di benessere che vi porterà nel giro di poco tempo a mangiare con menù che appagheranno tutti i vostri sensi per raggiungere naturalmente un fisico non solo magro ma statuario, pietroso”. Una cucina “sensoriale”, senza faticose limitazioni, per mangiare a volontà cose golose senza rinunciare alla linea e dando il massimo anche in palestra. Un vero stile di vita che mostra una passione anche per il video, finora sconosciuta ad avvocati e colleghi che sono rimasti così stupiti da rendere i primi video già “virali”, se non ancora sul web, quanto meno a Palazzo di Giustizia.

La pm youtuber dà consigli per dimagrire, scrive Il Giornale Martedì 26/02/2019. Da pm a nutrizionista. La parabola di Monica Supertino, magistrata torinese, dalla procura atterra su Youtube. Dove la toga piemontese, che al lavoro da magistrato aveva già affiancato un'attività da podista amatoriale, ora si scopre aspirante influencer. E per la carriera da youtuber la donna sceglie di lanciare il «Metodo Supertino», ossia - il titolo è suo - una «ricetta per avere un fisico definito e pietroso». Al momento i video sul «metodo» sono solo due, le visualizzazioni meno di mille e gli iscritti al «canale» appena 41, ma da qualche parte bisogna pure cominciare, e così la pm sceglie di farlo dal suo «percorso di benessere», finalizzato - come spiega lei stessa, in tubino bordeaux, come gli occhiali - «a nutrirvi sempre di cibi ad alto contenuto sensoriale e al contempo avere un fisico non solo magro ma statuario, pietroso, scolpito». Da nutrizionista, la Supertino più che pm diventa giudice. La prima sentenza? «I grassi non fanno colazione».

Giulia Bongiorno, la proposta per ribaltare la magistratura: un test psicologico ai giudici, scrive Andrea Morigi l'11 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Occorre una svolta nei criteri di selezione dei magistrati. La invoca Giulia Bongiorno, celebre avvocato e ora ministro della Pubblica Amministrazione. Ieri, durante il suo intervento alla scuola di formazione politica della Lega a Milano, ha proposto di cambiare: «Spero ci possa essere una nuova riflessione sul metodo di reclutamento della magistratura perché ci servono dei magistrati che siano sempre all'altezza dei loro compiti. Oggi come oggi i magistrati hanno un tipo di concorso solo nozionistico». Invece, a suo parere, «bisognerebbe cercare di fare in modo che ci sia un percorso di tirocinio fatto in modo anticipato rispetto all' esame. Prima si fa il corso di tirocinio e poi si supera l'esame un po' come avviene con gli avvocati». Al termine, insomma, chi ha in affidamento il tirocinante esprime un parere sulle attitudini di quest' ultimo. Inoltre, il ministro ritiene che «bisogna cercare di verificare anche l'attitudine a giudicare, non solo la conoscenza delle norme». Come? L' orientamento del ministro pare sia favorevole a procedere a una valutazione delle caratteristiche psico-caratteriali degli aspiranti giudici, pm, gip e di tutti i candidati a indossare la toga. Per ora, soltanto la corrente più moderata dell'Associazione Nazionale Magistrati accoglie favorevolmente la proposta. Magistratura Indipendente (MI), guidata da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano, ha visto da tempo quel che non funziona e afferma: «Registriamo con attenzione le parole del ministro Giulia Bongiorno sulla riforma dell'accesso in magistratura. Da tempo riteniamo necessario riflettere su opportune modifiche al sistema di accesso in magistratura». L' elenco delle criticità del sistema è pronto: «Oggi si entra in magistratura troppo tardi, con evidenti problemi dal punto di vista previdenziale per i futuri magistrati e attraverso un percorso che non appare del tutto adeguato alle nuove sfide». Perciò, MI invita «il ministro della Giustizia a promuovere una seria e tempestiva riflessione sul tema, coinvolgendo la magistratura, l'avvocatura e l'Università», senza peraltro far cenno al mutamento delle procedure selettive.

L'AZIONE DEL GOVERNO. In realtà, c' è già un testo approvato dal governo nel dicembre scorso, che ha iniziato il suo iter ed è stato ideato proprio dalla Bongiorno, il disegno di legge «Deleghe al Governo per il miglioramento della Pubblica Amministrazione». In particolare, sia nella fase di reclutamento sia negli avanzamenti di carriera, i servitori dello Stato dovranno misurarsi con test psico-attitudinali per comprenderne le capacità relazionali e l'attitudine al lavoro in gruppo.

I TENTATIVI PRECEDENTI. Non è la prima volta che si punta a introdurre una griglia di selezione più mirata a tutelare il pubblico. Lo aveva già pensato il ministro della Giustizia Roberto Castelli, in carica fra il 2001 e il 2006, nella sua riforma dell'ordinamento, prevedendo proprio un test psico-attitudinale. Ma allora, era il 2002 e la bozza non entrò in vigore prima del 2005, le battute di Silvio Berlusconi contribuirono ad avvelenare ancora più il clima fra politica e giustizia. Il Cavaliere, come presidente del consiglio dei ministri, il 3 settembre del 2003, aveva detto di ritenere che i giudici sono «doppiamente matti», aggiungendo che «per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato». Una generalizzazione forse spiegabile con l'accanimento giudiziario nei suoi confronti, ma che nel 2008 gli fece avanzare l'ipotesi che i pubblici ministeri «siano periodicamente sottoposti ad esami che ne attestino la sanità mentale». Intanto il Guardasigilli del secondo governo Prodi, Clemente Mastella, nel 2007 aveva già provveduto a stravolgere con modifiche profonde la riforma Castelli, abrogando anche «il test psicoattitudinale, che peraltro non era mai stato applicato», ricorda Castelli, parlando con Libero. In realtà, fa notare, «non si trattava affatto di una norma offensiva od oltraggiosa nei confronti dei magistrati e nemmeno soltanto di una garanzia per i cittadini, ma di un'esigenza che vale per molte altre categorie che esercitano grandi responsabilità, che quindi riguarda anche l'immagine della magistratura».

Test psicologici per i magistrati, in molti paesi europei si fanno. La proposta di Giulia Bongiorno: l’idea era già stata lanciata dal ministro Roberto Castelli ma l’Anm è da sempre critica ad ogni valutazione di questo genere, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Un test psicologico per chi abbia intenzione di diventare magistrato. L’argomento non è certamente nuovo. A riproporlo nelle ultime settimane è stato il ministro della Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno. In precedenza si era cimentato sul tema Roberto Castelli, un altro leghista, ministro della Giustizia durante il governo Berlusconi II. “Urge riformare il tradizionale metodo di selezione”, ha dichiarato Bongiorno intervenendo alla Scuola di formazione politica della Lega. “I magistrati – ha aggiunto – sono troppo legati ad un sapere nozionistico, spesso lontano dalle concrete complessità della carriera in magistratura”. In tale ottica, “i test psicologici dovrebbero essere funzionali a verificare la stabilità emotiva, l’empatia ed il senso di responsabilità, caratteristiche imprescindibili della professione”, ha precisato. La proposta però, come era accaduto in precedenza per il collega Castelli, non ha raccolto molti consensi da parte dei diretti interessati. L’Associazione nazionale dei magistrati, infatti, è da sempre critica ad ogni valutazione di questo genere. Solo i vertici del gruppo moderato di Magistratura indipendente, il segretario Antonello Rancanelli ed il presidente Giovanna Napoletano, hanno dichiarato di essere d’accordo con la necessità di riformare le modalità di accesso alla magistratura. I test psicoattitudinali vengono da sempre considerati un tabù per le toghe. Forse perché fra i più convinti sostenitori del loro impiego vi era Silvio Berlusconi. Ed è noto che fra il Cav e le toghe non sia mai corso buon sangue. Previsti per moltissime categorie lavorative, dalle Forze di polizia ai piloti d’aereo, sono visti dai magistrati come “un’offesa” e non come il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto, per il quale empatia e stabilità mentale sono fondamentali. In Europa, invece, l’attenzione all’equilibrio psicologico di chi amministra la giustizia è molto forte. In Francia, ad esempio, sono andati oltre la semplice somministrazioni di test psicoattitudinali e di colloqui con lo psicologo. Le prove d’esame per l’aspirante magistrato, che in Italia si limitano a delle verifiche scritte ed orali, prevedono lo svolgimento di un caso pratico in cui è prevista la partecipazione dello psicologo. Quest’ultimo analizza le reazioni da parte del candidato, valutando in particolar modo come reagisce alle situazioni di stress a cui viene sottoposto dagli esaminatori. Altre simulazioni vengono poi organizzate dalla Scuola superiore della magistratura. Non solo la Francia ma anche i Paesi bassi hanno sistemi di selezioni analoghi. In Germania, addirittura, le valutazioni psicologiche sono periodiche ed entrano nella progressione di carriera degli operatori del comparto giustizia. In conclusione, dovrebbe essere evidente anche ai detrattori dei test psicoattitudinali che non basta un ottimo scritto ed un ottimo orale per essere un buon magistrato.

Davigo giudicherà Woodcock. Ma non è incompatibile? L’ex pm del pool di Milano è nella commissione disciplinare che dovrà valutare le responsabilità del collega. Ma in un’intervista al Fatto si era già schierato con lui, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 9 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Le dichiarazioni rilasciate da Pier Camillo Davigo al Fatto Quotidiano circa il procedimento disciplinare che vede coinvolto Henry Jonh Woodcock rischiano di creare più di un imbarazzo al Consiglio superiore della magistratura. Il prossimo 18 febbraio è attesa a Palazzo dei Marescialli la sentenza sul pm napoletano, accusato di aver violato i diritti di difesa dell’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni. Costui venne ascoltato nel dicembre del 2016 nell’ambito dell’inchiesta Consip come testimone e non come indagato, dunque senza l’assistenza di un avvocato. Inoltre, sempre Woodcock, avrebbe esercitato pressioni nei suoi confronti, come quella di mostrargli dalla finestra della Procura il carcere di Poggioreale, chiedendogli «se vi volesse fare una vacanza» e facendogli vedere dei fili, spacciati per delle microspie. Ma, soprattutto, con la collega Celestina Carrano avrebbe lasciato mano libera agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria (tra i quali c’era anche il maggiore dei carabinieri del Noe Giampaolo Scafarto), permettendo a tutti loro di «svolgere in maniera confusa e contemporaneamente, una molteplicità di domande», invitando quindi Vannoni a «confessare». L’indagine Consip, con i suoi indagati eccellenti, in particolare Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, accusato di traffico di influenze, monopolizzò per mesi le prime pagine dei giornali, scatenando la polemica politica. Intervistato la scorsa estate da Marco Travaglio, l’ex pm di Mani pulite affermò di essere rimasto esterrefatto dell’atteggiamento del Csm che «non dice nulla contro gli attacchi del governo a un pm colpevole di fare indagini ad alti livelli e anzi lo processa disciplinarmente prima ancora che vengano processati gli imputati. Sono esterrefatto». Davigo era stato appena eletto al Csm con un plebiscito di voti. Per lui uno dei due posti destinati a piazza Indipendenza ai giudici di legittimità. Essendo nella composizione della Sezione disciplinare del Csm previsto un membro eletto fra i giudici di merito, la presenza di Davigo come titolare o come supplente era scontata. E infatti fu eletto come titolare. I giudizi di valore espressi da Davigo su questo procedimento disciplinare rischiano ad una settimana dalla sentenza di gettare un’ombra su quello che sarà il giudizio finale su Woodcock. Sia nel caso di condanna, il pg della Cassazione ne ha chiesto la censura, che di assoluzione. La Procura di Roma, a cui venne trasmesso per competenza territoriale il fascicolo Consip in cui era indagato Tiziano Renzi, lo scorso ottobre ha chiuso le indagini chiedendone l’archiviazione. I carabinieri del Noe, come si ricorderà, volevano invece arrestarlo e cercarono elementi affinché Woodcock chiedesse nei suoi confronti la custodia cautelare al gip. Il processo disciplinare ha le stesse regole del processo penale. L’obbligo di astensione del giudice scatta se «esistono gravi ragioni di convenienza». E’ una norma di carattere generico. La Corte costituzionale con una sentenza del 2000 ha precisato che le ragioni di convenienza debbano «essere valutate caso per caso». L’ultima parola su questa vicenda toccherà quindi solo a Davigo. Il vice presidente del Csm David Ermini, a cui sarebbe spettato presiedere il collegio, ha risolto un “problema” analogo subito dopo essersi insediato, optando per l’astensione. Da ex parlamentare del Pd e responsabile Giustizia, nella scorsa legislatura attaccò duramente gli inquirenti di Consip. «Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?», furono le sue parole.

Caso Consip, il Csm censura Woodcock. Assolta Carrano. La sezione disciplinare ha ritenuto il magistrato responsabile del solo addebito della "scorrettezza" nei riguardi del procuratore Fragliasso, escludendola invece nei confronti dei pm di Roma. La difesa: "Ricorreremo in Cassazione", scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. La sezione disciplinare del CSM ha condannato il PM di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura, mentre ha assolto la collega Celestina Carrano nell'ambito del procedimento sul caso Consip. Il 'tribunale delle toghe' ha 'condannato' Woodcock soltanto per il capo di incolpazione relativo ai 'virgolettati' sul caso Consip contenuti in un articolo di 'Repubblica' dell'aprile 2017: secondo la procura generale della Cassazione, questi avrebbero rappresentato una "grave scorrettezza" nei confronti sia dell'allora procuratore facente funzioni Nunzio Fragliasso, sia dei pm della Capitale titolari del filone romano dell'indagine Consip. La sezione disciplinare ha ritenuto Woodcock responsabile del solo addebito della "scorrettezza" nei riguardi di Fragliasso, escludendola invece nei confronti dei pm di Roma. Caduta, inoltre, l"accusa, contestata sia a Woodcock che a Carrano, di aver violato i doveri di "imparzialità, correttezza e diligenza", con le modalità in cui, il 21 dicembre 2016, venne svolto l'interrogatorio di Filippo Vannoni, all'epoca consigliere economico di Palazzo Chigi, sentito come persona informata sui fatti e non come indagato, dunque senza l'assistenza di un difensore. "Leggeremo le motivazioni, ma sicuramente ricorreremo in Cassazione". Lo ha detto l'ex procuratore di Torino Marcello Maddalena, difensore del pm di Napoli Henry John Woodcock davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Woodcock è stato condannato alla sanzione della censura. Il verdetto della disciplinare del Csm, presieduta dal laico M5s Fulvio Gigliotti, che ha sanzionato con la censura il pm di Napoli Henry John Woodcock, potrebbe essere impugnato davanti alle sezioni unite civili della Cassazione anche dalla procura generale della Suprema Corte. "Non sono soddisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione", ha detto il rappresentante della procura generale della Cassazione Mario Fresa. Fresa aveva chiesto per Woodcock la sanzione che gli è stata inflitta ma anche rispetto a un'altra accusa dalla quale il pm napoletano è stato invece assolto (così come Carrano per la quale era stata chiesta la condanna all'ammonimento): quella di aver violato i diritti di difesa di Filippo Vannoni, uno degli indagati dell'inchiesta Consip. Nessun commento invece da parte di Woodcock e Carrano, che hanno lasciato Palazzo dei Marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti.

Woodcock censurato dal Csm per Consip Ma è assolto per la gestione dell'inchiesta. Nessuna sanzione per la Carrano. E a Firenze prima udienza per i Renzi, scrive Patricia Tagliaferri, Martedì 05/03/2019, su Il Giornale. Roma Per il caso Consip il pm napoletano John Henry Woodcock è stato censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura. La sanzione che gli è stata inflitta dall'organo di autogoverno dei giudici e che prevede una dichiarazione formale di biasimo è legata ad alcune frasi, pubblicate su Repubblica, riferite alle accuse di falso contestate dalla Procura di Roma all'allora capitano del Noe Gianpaolo Scafarto e per le quali ha mancato al dovere di riserbo comportandosi in modo gravemente scorretto nei confronti dell'allora capo facente funzione della Procura di Napoli, Nunzio Fragliasso, che lo aveva invitato alla massima riservatezza sulla vicenda in un momento particolarmente delicato, in cui la parte «politica» dell'inchiesta era stata stralciata e trasmessa a Roma per competenza. Per l'altro capo di incolpazione, che riguardava più direttamente la gestione dell'indagine sulla corruzione nella centrale acquisti della pubblica amministrazione, Woodcock è stato assolto e con lui la collega Celestina Carrano, totalmente scagionata (per la pm era stata sollecitata la sanzione più lieve dell'ammonimento). I due magistrati erano accusati di aver violato i diritti di difesa nei confronti dell'ex consigliere di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, che non era stato iscritto nel registro degli indagati mentre per il pg della Cassazione Mario Fresa, che rappresentava l'accusa, ci sarebbero stati i presupposti per farlo. Il 21 dicembre del 2016 Vennoni era stato interrogato come testimone senza l'assistenza di un legale e con metodi ritenuti lesivi della sua dignità. L'assoluzione su questo punto non ha soddisfatto Fresa, che si riserva di valutare il ricorso in Cassazione. Lo stesso potrebbe fare l'ex procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena, difensore del pm napoletano: «Leggeremo le motivazioni, ma ricorreremo sicuramente in Cassazione». I virgolettati apparsi su Repubblica secondo Fresa avrebbero interferito anche con l'inchiesta della Procura di Roma, che nel frattempo aveva ereditato il fascicolo. Ma questa contestazione è stata esclusa e la censura per il pm partenopeo è arrivata solo per la scorrettezza nei riguardi del procuratore Fragliasso. Woodcock si era difeso davanti alla sezione disciplinare, prima della sentenza, ribadendo che il colloquio con la giornalista sarebbe dovuto rimanere privato: «Sono stato ingannato e tradito. Se questo debba essere causa di una mia condanna lo lascio decidere alla serenità della vostra camera di consiglio». In questa inchiesta era stato coinvolto anche Tiziano Renzi, ma la sua posizione è stata archiviata. Adesso il papà dell'ex premier ha altri guai giudiziari. Ieri a Firenze si è aperto il processo che lo vede imputato con la moglie Laura Bovoli per false fatture, un'inchiesta diversa da quella che li ha fatti finire agli arresti domiciliari. Un'udienza lampo, quella di ieri, per individuare il perito che dovrà trascrivere le intercettazioni ambientali e stilare il calendario del processo. I coniugi Renzi ieri non erano in aula perché non era richiesta la loro presenza.

(ANSA) - La sezione disciplinare del CSM ha condannato il PM di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura, mentre ha assolto la collega Celestina Carrano nell'ambito del procedimento sul caso Consip. Woodcock è stato condannato per l'accusa di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dell'allora capo del suo ufficio, Nunzio Fragliasso. L'accusa di riferisce ai virgolettati che gli erano stati attribuiti da Repubblica nell'aprile 2017 e che riproducevano il suo giudizio che il falso di cui era accusato il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto dai pm romani era da attribuire a un errore e non era stato determinato da dolo. Durante il processo disciplinare Woodcock ha spiegato che quell'opinione lui l'aveva espressa in un colloquio "salottiero" con una giornalista amica che gli aveva promesso che non avrebbe scritto niente. Ma evidentemente non ha convinto la sezione disciplinare che lo ha ritenuto responsabile di scorrettezza verso Fragliasso che lo aveva invitato a osservare il riserbo. Per la stessa vicenda a Woodcock veniva anche contestato di aver interferito nell'inchiesta della procura di Roma, ma da questa accusa è stato assolto. Con Carrano, Woodcock è stato assolto anche dalla contestazione principale di aver violato i diritti di difesa di uno degli indagati dell'inchiesta Consip, l'ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, per averlo ascoltato come testimone, e quindi senza avvocato, quando invece - secondo l'accusa che non è stata riconosciuta fondata dalla Sezione disciplinare- c'erano già gli elementi per la sua iscrizione nel registro degli indagati.

(ANSA) - "Leggeremo le motivazioni, ma sicuramente ricorreremo in Cassazione". Lo ha detto l'ex procuratore di Torino Marcello Maddalena, difensore del pm di Napoli Henry John Woodcock davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Woodcock è stato condannato alla sanzione della censura. Nessun commento invece da parte di Woodcock e Carrano, che hanno lasciato Palazzo dei marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti.

(ANSA) - Il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, componente della Sezione disciplinare del Csm, ha querelato il Foglio che aveva scritto che si sarebbe dovuto astenere dal collegio sul caso Consip per essersi "espresso a più riprese su Consip e, in particolare sulla vicenda che ha coinvolto il collega napoletano (ndr il pm Henry John Woodcock). I reati ipotizzati nella querela presentata alla procura di Milano sono di diffamazione aggravata e omesso controllo.

(ANSA) -"Non sono sodisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione". Lo ha detto il rappresentante della procura generale della Cassazione Mario Fresa a proposito della sentenza che ha condannato il pm di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura e ha assolto la collega Celestina Carrano. Fresa aveva chiesto per Woodcock la sanzione che gli è stata inflitta ma anche rispetto a un'altra accusa dalla quale il pm napoletano è stato invece assolto (così come Carrano per la quale era stata chiesta la condanna all'ammonimento): quella di aver violato i diritti di difesa di Filippo Vannoni, uno degli indagati dell'inchiesta Consip.

Woodcock quasi perdonato Solo uno schiaffetto dal Csm. Il tribunale delle toghe assolve il magistrato napoletano, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 Marzo 2019 su Il Dubbio. “Consip” è salva. Wooodcock un po’ meno. Dopo un’istruttoria durata mesi, il pm napoletano è stato dunque assolto dalla grave accusa di aver violato i doveri di ‘ imparzialità, correttezza e diligenza” per le modalità con cui, il 26 dicembre del 2016, condusse con i carabinieri del Noe comandati dall’allora capitano Giampaolo Scafarto l’interrogatorio di Filippo Vannoni, all’epoca consigliere economico di Palazzo Chigi. Vannoni venne sentito come persona informata sui fatti e non come indagato, senza l’assistenza di un difensore. Un interrogatorio, secondo quanto riportato da Vannoni, a tratti drammatico, con Woodcock che avrebbe esercitato pressioni nei suoi confronti, come quella di mostrargli dalla finestra della Procura il carcere di Poggioreale, chiedendogli ‘ se vi volesse fare una vacanza’ e facendogli vedere dei fili, spacciati per delle microspie.  La Sezione disciplinare non gli ha invece perdonato il suo “colloquio” con la giornalista di Repubblica, Liana Milella. La sentenza è arrivata ieri pomeriggio. Condanna della censura per la violazione del dovere del riserbo sull’indagine Consip, con un comportamento gravemente scorretto nei confronti dell’allora procuratore facente funzione, Nunzio Fragliasso. Woodcock aveva sempre ribadito di aver espresso alcune riflessioni in un colloquio «che sarebbe dovuto rimanere salottiero» con una giornalista amica, che invece poi tradì l’impegno di non scrivere nulla. «Io sono stato tradito. Se questo inganno, questo tradimento, debba essere causa della mia condanna lo lascio alla serenità della vostra camera di consiglio», aveva detto prima che i giudici si ritirassero per la camera di consiglio. Il pm aveva anche letto le dichiarazioni rilasciate da Fragliasso, il quale gli aveva dato atto di «grande correttezza ed estrema professionalità». Una versione confermata anche dalla giornalista che, citata come teste davanti al Csm aveva detto: «Avevo dato la mia parola d’onore che non avrei mai scritto. Ma poi ha prevalso il demone giornalistico, la voglia di fare uno scoop». Milella, a dimostrazione di ciò, aveva citato alcuni sms scambiati con Woodcock e degli appunti, evidenziando come non ci fosse mai stata alcuna intenzione da parte del pm di screditare il suo capo. Il Csm, però, è stato di diverso avviso. E solo leggendo le motivazioni della sentenza si capirà perché. Motivazioni che saranno anche un "avviso" alle toghe. Ad esempio: «Quando parlate con un giornalista sappiate che egli, a prescindere, pubblicherà qualsiasi cosa voi direte». Con la censura Woodcock è ora “azzoppato”. Una condanna che peserà per eventuali incarichi direttivi o semi direttivi. Il collegio era presieduto dal laico M5s Fulvio Gigliotti in quanto David Ermini si era astenuto a causa di alcune dichiarazioni su Woodcock fatte quando, nella scorsa legislatura, era responsabile giustizia dei dem. C’era invece Piercamillo Davigo. «Non sono soddisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione», ha detto il pg della Cassazione Mario Fresa dopo aver ascoltato il dispositivo della sentenza. Nessun commento invece da parte di Woodcock che ha lasciato Palazzo dei Marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti. Era stato Pierantonio Zanettin, componente laico del Csm nella scorsa consiliatura, a richiedere un’apertura pratica sull’indagine Consip. Richiesta che per mesi era stata però stoppata.

Perché il Csm ha salvato Woodcock e condannato il pm Valter Giovannini? Il magistrato interrogò una farmacista senza il suo avvocato, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 6 Marzo 2019 su Il Dubbio. L’assoluzione di Henry John Woodcock dal capo di imputazione più grave, cioè quello di aver violato i diritti di difesa dell’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, sentito come testimone e non come indagato, quindi senza la presenza dell’avvocato, è una ulteriore conferma del mutato clima all’interno dell’attuale Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, la memoria va infatti ad una vicenda analoga, quella di Vera Guidetti, la farmacista che uccise la madre ultranovantenne e poi si suicidò qualche giorno dopo essere stata ascoltata, nel marzo del 2015, dall’allora procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini come testimone in un’indagine su un furto di gioielli avvenuto nel capoluogo emiliano. La Sezione disciplinare del Csm, all’epoca, aveva condannato con la censura il magistrato per aver “trascurato” le garanzie difensive a tutela della donna e per avere in questo modo colpevolmente violato le norme processuali. Giovannini fece poi ricorso, senza successo, in Cassazione. Il collegio era presieduto dal laico Antonio Leone, relatore della sentenza il togato Luca Palamara. «Riguardo la mancata iscrizione di Guidetti nel registro degli indagati – si legge nella sentenza – appare necessario procedere alla descrizione di tutti gli elementi di prova che delineano la condotta antecedente, contemporanea e successiva all’esame come persona informata della stessa Guidetti nella giornata del 9 marzo 2015 e che fanno emergere per le ragioni di seguito indicate una responsabilità dell’incolpato per la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell’applicazione del citato art. 63 cpp». La farmacista, in un biglietto trovato a casa sua, scrisse che Giovannini l’aveva trattata come una criminale e non aveva creduto nella sua buona fede. Per il Csm, Giovannini doveva interrompere l’audizione della donna, iscriverla nel registro degli indagati e invitarla a nominarsi un difensore dal momento che nel frattempo a casa della Guidetti erano stati trovati dei gioielli che lei aveva ammesso di custodire su richiesta di un ragazzo nomade, Ivan Bonora, sospettato del furto. La posizione della farmacista era dunque cambiata e doveva essere iscritta nel registro degli indagati. Come nel procedimento Woodcock, l’accusa era sostenuta dal sostituto pg della Cassazione Mario Fresa. Nella sua requisitoria fu molto severo con Giovannini e gli investigatori, parlando di un modo di procedere da “Stato di polizia”. La sentenza del Csm, come detto, venne confermata in Cassazione. «La Sezione disciplinare non ha addebitato a Giovannini scrissero i giudici di piazza Cavour – le soggettive ricadute psicologiche per la Guidetti, anziana farmacista, né gli insani suoi gesti, bensì l’aver trascurato, nel corso del suo esame, prolungato e ripetuto, quelle minime garanzie difensive a lei spettanti quale persona ` di fatto ´ indagata e la prosecuzione dell’esame, sempre quale persona informata sui fatti, nonostante fosse esigibile l’iscrizione dell’esaminata nel registro delle notizie di reato, con tutte le conseguenze di legge sul piano difensivo». Il Csm aveva correttamente motivato il suo provvedimento «rispetto alla peculiare offensività della condotta omissiva e commissiva ascritta al dottor Giovannini, nell’attuale assetto del valore costituzionale e convenzionale dato alle garanzie difensive e al giusto processo». Il primo ieri ad evidenziare il cambio di passo della Sezione disciplinare, di cui fa parte Piercamillo Davigo, è stato lo stesso Giovannini, attualmente sostituto pg a Bologna. «Da quel che ho letto sulla stampa ci sono aspetti tecnico processuali simili alla vicenda che mi ha riguardato. Nel mio caso i fatti sono ormai coperti dal giudicato e le sentenze, anche quelle che possono non piacere, si rispettano», così Giovannini interpellato dall’Ansa proprio sull’assoluzione di Woodcock.

Giudici e pm arrestati. L’allarme di Legnini: «la magistratura reagisca alle toghe corrotte». Per responsabilità di pochi si compromette fiducia dei cittadini, scrive la Redazione di PdN Prima da noi l'8 Febbraio 2018.  «Cinque magistrati detenuti e due interdetti per fatti di corruzione», preoccupano il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, che ritiene indispensabile «una forte reazione di tutta la magistratura», come dice in un'intervista a Repubblica. Già, perché dopo il caso Bellomo, sul Consiglio di Stato si abbatte l'inchiesta sui giudici corrotti. La reazione è di "stupore" anche perché uno dei protagonisti, Riccardo Virgilio, aveva fama di "duro". Gli investigatori ne hanno individuate 18, tra sentenze, ordinanze e decreti del Consiglio di Stato: sarebbero state tutte aggiustate in modo da produrre «esiti favorevoli» per le società che, direttamente o indirettamente, erano rappresentate in giudizio da quegli stessi avvocati che figuravano essere dietro alla società maltese nella quale il giudice ha investito 750mila euro, provenienti da un conto Svizzero e mai dichiarati al fisco. Per l'ex presidente della IV sezione del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso con i due avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, non è scattato alcun provvedimento restrittivo poiché è in pensione dal 1 gennaio 2016. Dunque, dice il giudice, «non sussiste il pericolo che possa reiterare il reato» e «non sono emersi elementi concreti per ritenere che possa continuare ad esercitare la sua influenza su altri Consiglieri di Stato». Ma la gravità dei fatti che gli viene contestata è sintetizzata dalle parole dei pm, il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini: ci sono sentenze «aggiustate» almeno per 400 milioni.

«ANCHE SOLO UN ARRESTO CREA SCONCERTO». «I magistrati sono circa 9mila e l'ordine giudiziario nel suo complesso è sano», ha ribadito il vice presidente del Csm, legnini, ma «l'arresto anche di uno solo di loro non può che destare preoccupazione e sconcerto perché quella del giudice non è certo una professione qualsiasi. Quindi sì, per la funzione della magistratura, sette misure come queste, di cui ben 4 negli ultimi due mesi, sono tante» e «suscitano due sentimenti tra loro contrastanti: il timore che per responsabilità di pochi si possa compromettere la fiducia dei cittadini nei confronti dell'intero ordine giudiziario», ma anche «la soddisfazione per la capacità della stessa magistratura di accertare reati anche a carico di magistrati». Legnini chiama in causa la magistratura associata: «le correnti dovrebbero sprigionare tutta la loro forza di orientamento nei confronti dei loro associati».  Parlando dell'indagine sulle sentenze pilotate, di cui si è avuto notizie ieri, sottolinea che «se i fatti saranno confermati, il sistema emerso desta gravissime preoccupazioni. Sulle anomalie che si manifestavano da tempo alla procura di Siracusa siamo già intervenuti, pur non potendo conoscere gli episodi di corruzione. La prima commissione a maggio 2017 è andata a Siracusa, tant'è che dopo lo stesso Longo, per l'incompatibilità ambientale e funzionale, ha chiesto di essere trasferito e ciò è stato subito disposto. Longo poi a novembre è stato condannato in sede disciplinare».

LA "RETE" NEGLI ATTI DELL'INCHIESTA. L'ordinanza del gip di Roma documenta i rapporti di Virgilio con i due avvocati. Centrale il finanziamento da 752mila euro che nel dicembre 2014 sottoscrive per una società maltese riconducibile ad Amara e Calafiore: la somma parte da un suo conto svizzero. L'investimento garantisce un interesse netto del 2% annuo e rende «più difficile» essere beccati dal fisco; e proprio nell'arco temporale in cui viene perfezionato, escono le sentenze finite nel mirino dei pm. Ma i tre come entrano in contatto? Amara dice di aver conosciuto Virgilio nell'ottobre, novembre 2014 quando glielo presentò Antonino Serrao, direttore generale al Consiglio di Stato. Quest'ultimo, sentito, ha confermato. Tra le esperienze pregresse di Virgilio c'è anche quella, negli anni '90, di direttore del Secit, gli allora 007 del fisco al Ministero delle Finanze. Dalle carte dell'inchiesta emergono altri consiglieri di Stato, come Nicola Russo. «Anch'egli indagato nel presente procedimento», scrive il gip, nel marzo 2014 stende una delle sentenze chiave a favore di Ciclat, difesa da Amara. Ma proprio Amara difende Russo in due procedimenti che lo hanno visto indagato: uno per rivelazione di segreto d'ufficio e uno per sfruttamento della prostituzione. Fatti per i quali Russo è stato sospeso dal Consiglio di Stato. C'è poi Raffaele De Lipsis: Amara e il suo uomo di fiducia Alessandro Ferraro informano lui e l'ex giudice della Corte dei conti Luigi Caruso che sono intercettati.

15 ARRESTI IN TOTALE. Quindici gli arresti, tra carcere e domiciliari: e in cella è finito anche il pm Giancarlo Longo che sarà interrogato dal gip nel carcere di Poggioreale. Secondo l'accusa, che gli contesta il falso, la corruzione e l'associazione a delinquere, in cambio di soldi avrebbe pilotato procedimenti penali in favore dei clienti di riguardo di due legali siracusani: Piero Amara, anche lui arrestato, avvocato dell'Eni, e Giuseppe Calafiore, socio di Amara riuscito a sfuggire alla cattura e latitante a Dubai. I favori del pm, ora trasferito al tribunale di Napoli, sarebbero stati ricompensati con 88mila euro e vacanze di lusso negli Emirati e in un hotel a 5 stelle di Caserta.

PM SI DIFENDE: «CONTRO DI ME UN COMPLOTTO DEI COLLEGHI». Sospettando da tempo di essere finito nel mirino degli inquirenti tanto da aver dato la caccia alle microspie, che l'hanno puntualmente ripreso, Longo ha depositato nelle scorse settimane una memoria difensiva in cui accusa gli otto ex colleghi pm di aver ordito un complotto tutto per danneggiarlo. «Abbiamo dimostrato attraverso una consulenza che però non è stata tenuta in considerazione dalla Procura di Messina - dice il suo legale - che i soldi depositati sul suo conto erano regali dei suoceri. Bastava confrontare i movimenti bancari da loro fatti». Una difesa a cui il gip non ha creduto e che sarebbe confutata dai prelievi fatti da Calafiore e da un altro personaggio coinvolto, Fabrizio Centofanti. Le somme ritirate corrisponderebbero a quelle versate sui suoi conti dall'ex pm.

IL CASO ENI. Dall'inchiesta, che si intreccia con una indagine della Procura di Roma su alcuni personaggi comuni e che ha accertato una serie di sentenze pilotare al Consiglio di Stato, emerge intanto una lunghissima serie di procedimenti "pilotati" da Longo. Dal caso Eni, in cui l'ex pm avrebbe avrebbe contribuito a creare una sorta di falso complotto per depistare l'indagine milanese su una corruzione internazionale a carico dell'ad De Scalzi, ai fascicoli sugli imprenditori Frontino, clienti e vicini all'avvocato Calafiore. Per "proteggerli" Longo avrebbe estromesso la polizia giudiziaria e incaricato consulenti compiacenti, come l'ingegnere Mauro Verace, anche lui indagato, in modo da avere relazioni tecniche favorevoli ai Frontino coinvolti in diversi procedimenti. E ancora avrebbe cercato di costruire un castello accusatorio contro dirigenti comunali che, in una causa degli imprenditori contro il Comune di Siracusa per un risarcimento del danno da ritardata concessione edilizia, avevano dato torto alla loro società. In alcuni casi poi avrebbe aperto fascicoli ad hoc per farvi confluire false consulenze che avrebbero poi scagionato i Frontino: come nel caso di un fascicolo avviato contestualmente a un accertamento fiscale aperto sugli imprenditori dall'Agenzia delle Entrate. Una gestione a dir poco personalistica della giustizia che, dicono gli inquirenti, veniva riservata, tra gli altri, anche all'impresa Cisma coinvolta in una inchiesta su reati ambientali.

AMARA E’ IL REGISTA OCCULTO? Piero Amara, 48 anni, arrestato per corruzione, falso e associazione a delinquere, è un avvocato siracusano che ha svolto attività legale anche per l'Eni. Ritenuto molto vicino all'ex procuratore Ugo Rossi e all'ex pm Maurizio Musco, entrambi condannati per abuso d'ufficio, nel 2009 è stato condannato (pena sospesa) per accesso illecito al sistema informativo della Procura di Catania. Due anni fa finì sotto inchiesta a Cassino in una indagine su presunti aggiustamenti in cambio di soldi di una perizia ambientale sulla raffineria di Gela. L'indagine è stata archiviata. Fu indagato a Siracusa, insieme al suo collaboratore Alessandro Ferraro, oggi arrestato, in uno stralcio dell'inchiesta su Musco e Rossi. E nell'aprile 2017 dalla Procura di Roma per l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a false fatture. Dagli accertamenti venne fuori che Amara era socio di un ex magistrato del Consiglio di Stato in una società maltese che si occupava di start-up. Dall'inchiesta che oggi ha portato al suo arresto è emerso che Amara, insieme al socio Giuseppe Calafiore e al pm Giancarlo Longo, e grazie alla complicità di una serie di consulenti tecnici, avrebbe condizionato l'esito dei procedimenti penali aperti dalla Procura di Siracusa su alcuni suoi clienti.

Tre anni per chiudere un’inchiesta, magistrato della procura di Alessandria indagato a Milano. La pm Marcella Bosco indagata per omissione di atti d’ufficio: le si contestano ritardi nelle indagini riguardanti il caso di un’eredità a Portofino in cui era coinvolto l’ex presidente del Tribunale Sciaccaluga, scrive il 19/02/2019 Silvana Mossano su La Stampa. Un magistrato della procura di Alessandria, la pm Marcella Bosco, è indagato, a Milano, per omissione di atti d’ufficio. Le viene contestato un ritardo – tre anni – nella chiusura di un’inchiesta per la quale chiese, alla fine, l’archiviazione, motivandola peraltro in modo molto articolato, come riconosce la stessa procura milanese. Ma il tempo trascorso è giudicato eccessivo. La contestazione viene mossa alla dottoressa Bosco a chiusura delle indagini, prima che venga formulata un’eventuale – ma non scontata – richiesta di rinvio a giudizio. La vicenda rappresenta uno strascico di un altro caso, di anni precedenti, in cui finì sotto accusa l’ex presidente del Tribunale di Alessandria, Gian Rodolfo Sciaccaluga, (già presidente a Casale Monferrato, e, successivamente, anche a Chiavari oltre che di una sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte) che aveva affidato a un got una causa civile su una villa di Portofino “invitandolo” a decidere a favore di una “simpatica vecchina”. Che era la suocera di Sciaccaluga medesimo. Una delle controparti di quella causa civile depositò, poi, in procura ad Alessandria, nel 2012, una denuncia in cui ipotizzava la falsità del testamento riguardante la villa di Portofino. E qui c’è il ruolo della dottoressa Bosco. La pm a metà 2013 completa le verifiche, ma soltanto dopo tre anni, e cioè a settembre 2016, deposita la richiesta di archiviazione, ampiamente motivata, che approda al gup Paolo Bargero, il quale, esaminati gli atti, invita la procura a valutare e approfondire ipotesi di concussione o abuso d’ufficio a carico di Sciaccaluga. Trascorrono alcuni mesi, e ad agosto 2018 la pm trasmette il fascicolo alla procura di Milano, competente a indagare su magistrati del tribunale di Alessandria. Su quella vicenda si sono mosse a carico dell’ex presidente l’accusa di concussione nei confronti del got. Successivamente, però, a parte, anche il pubblico ministero Bosco viene indagata e le vengono contestatati i ritardi di inchiesta che ora sono riassunti nell’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio. Il difensore Piero Monti dichiara: “Non c’è stata l’intenzione di favorire nessuno, questo è il primo punto che va chiarito. Se ci fosse stato il minimo sospetto che la dottoressa Bosco intendeva tenere la parte a qualcuno la contestazione sarebbe stata altra. Il magistrato ha effettuato le indagini che, al termine, non hanno portato a nulla e ha quindi chiesto, in modo ampio e articolato, l’archiviazione”. Tempi lunghi? “Indubbiamente hanno inciso i carichi e le difficoltà strutturali dell’ufficio della procura, la somma di altre cause. Avrà modo di spiegare con chiarezza che non ha mai avuto intenzione di compiere atti contrari al proprio ufficio”.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2019. Avviso ai naviganti magistrati nei procellosi mari dei fascicoli giudiziari: chi li lascia giacere senza motivo negli armadi - tipo 3 anni dalla fine dell' indagine prima di archiviarli, o 9 mesi dall' ordine del gip prima di trasmetterli altrove per competenza - rischia di incorrere non solo in un ovvio procedimento disciplinare, ma addirittura anche nel reato di «omissione d' atti d' ufficio»: almeno secondo quanto la Procura di Milano, in un avviso di conclusione delle indagini, sceglie ora di contestare a una pm di Alessandria, del tutto a prescindere invece dalla parallela accusa di «concussione» mossa al già presidente del Tribunale di Alessandria nell' assunto che il 18 gennaio 2008 abbia costretto un giudice onorario a decidere a favore della suocera una causa civile su una villa con boschi e vigneti e uliveti a Portofino. «Le ho assegnato la causa di una simpatica vecchina», si sentì dire il giudice onorario (got) Alfonso Matarazzo da Gian Rodolfo Sciaccaluga, cioè dal magistrato che allora presiedeva il Tribunale di Alessandria e poi presiederà quello di Chiavari nonché una sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte. Solo che la «simpatica vecchina» era la suocera del presidente (poi morta nel 2009). Per i pm milanesi Ilda Boccassini e Cristiana Roveda il presidente (oggi in pensione), oltre a non astenersi, e a violare i criteri per l'assegnazione al got di un fascicolo con controversa competenza territoriale e persino con controparti ignare, avrebbe imposto al got di consegnargli «una bozza di sentenza poi restituita modificata e integrata», dicendogli «questo è quello che deve scrivere». «Un mattino presto al parcheggio del Tribunale il presidente non trovava il provvedimento nella borsa - dipinge la scena il got che, non indagato, dice di aver ceduto per paura che il presidente gli togliesse gli incarichi -: telefonò al figlio imprecando e chiedendogli dove l'avesse messo». «Abbiamo appreso da poco dell'indagine - ribatte il legale Andrea Soliani -, ma sono convinto che, ad un sereno confronto con l'autorità giudiziaria, possa emergere con chiarezza l'assenza di responsabilità penali».

Nel 2012 il secondo round. Una delle controparti denuncia in Procura l'asserita falsità del testamento prodotto nella causa civile, e ad Alessandria la pm Marcella Bosco finisce gli accertamenti a metà 2013: ma fa passare 3 anni prima di definire il fascicolo chiedendo un'articolata archiviazione il 26 settembre 2016. Il 10 agosto 2017 il gip Paolo Bargero risponde al pm che invece vanno esplorate ipotesi di concussione o abuso d' ufficio a carico del presidente del Tribunale, magistrato su cui quindi a indagare deve essere un'altra Procura precostituita per legge (Milano). Dopo 3 mesi il pm iscrive l'abuso d' ufficio, ma non trasmette a Milano il fascicolo per altri 9 mesi, fino al 10 agosto 2018. Dopo 11 giorni il pm milanese Stefano Civardi indaga il presidente per abuso d' ufficio, reato per cui (al pari dell'induzione indebita) il pm Roveda il 9 ottobre 2018 chiede l'archiviazione per prescrizione, nel contempo contestando invece al presidente la concussione del got. «Bosco non conosce e non ha mai visto Sciaccaluga, nulla è mai stato ritardato dalla pm con l'intento di omettere un atto dell'ufficio», spiega l'avvocato Piero Monti. «La pm ha fatto una scelta investigativa (e una valutazione che quel fascicolo fosse di secondo piano) che oggi possono apparire non esatte alla luce degli atti milanesi, e indubbiamente ci furono oggettivi rallentamenti nella tempistica: ma vanno ricondotti alla gestione delle priorità in un ufficio in forte affanno, dove come pm era appena arrivata, l'assistente era in malattia, e c' erano difficoltà nella logistica delle copie degli atti».

La banda dei giudici corrotti: l'inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura. Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C'è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia, scrive Paolo Biondani il 19 febbraio 2019 su L'Espresso. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado.

La banda delle toghe sporche, di Paolo Biondani. L'Espresso, 17 febbraio 2019. Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. Una rete di giudici corrotti, da Milano alla Sicilia. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall'interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un'inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L'accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell'associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado. Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L'indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all'estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, "a pacchetti di dieci". Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione. L'antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l'accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l'elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell'ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati. L'esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, "un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie", con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio dí Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l'accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di - "magistrati di Roma" e "ufficiali della Finanza". Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l'ex giudice cerca di "controllare questa rete riservata" di magistrati e ufficiali "in debito con lui per i favori ricevuti". Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue "raccomandazioni" a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell'avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza. L'inchiesta riguarda molti verdetti d'oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all'impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l'accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore. Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato. A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l'accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l'ordinanza d'arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l'ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni. Amara, come avvocato siciliano dell'Eni, è anche l'artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell'Eni in Nigeria e Congo. Dopo l'arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell'Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa. Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell'ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L'ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane. Tra i legali ora agli arresti c'è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l'imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un "arbitrato libero" (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l'ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione.

Arresti domiciliari per tre giudici (e un deputato siciliano): «Pagati da Amara per pilotare sentenze». Le toghe coinvolte sono in pensione o già sospese, scrive Errico Novi l'8 febbraio 2019 su Il Dubbio. Tre magistrati ai domiciliari. E, con loro, un deputato regionale siciliano. È l’ultimo effetto della lunga indagine su presunte sentenze “comprate” avviata un anno fa dalle Procure di Messina e di Roma e imperniata attorno all’avvocato Piero Amara, del Foro di Catania ma con studio anche a Roma, ritenuto dai pm il terminale di una sorta di “centrale di acquisti giudiziaria”. Le ordinanze cautelari eseguite ieri portano la firma della gip capitolina Daniela Caramico D’Auria e si basano sull’accusa di corruzione in atti giudiziari. Riguardano in particolari l’ex giudice del Consiglio di Stato, ora in pensione, Nicola Russo, già arrestato a marzo 2018 con l’immobiliarista Stefano Ricucci; l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa siciliano Raffaele de Lipsis, già sospeso dalle funzioni giurisdizionali due anni fa; il deputato regionale siciliano Giuseppe Gennuso, siracusano della lista “Popolari e autonomisti”; e un altro magistrato in pensione, l’ex consigliere della Corte dei Conti Pietro Maria Caruso. Si tratta di provvedimenti restrittivi riguardanti fatti già da tempo oggetto d’indagine. Tanto che, poco dopo la notizia sulle ordinanze della gip di Roma, dall’ufficio stampa della Giustizia amministrativa si prova a fare ordine, visto che nei primi lanci di agenzia e sulle testate on line si era subito parlato di operazioni condotte materialmente a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, e presso la sede del Consiglio di Giustizia amministrativa siciliano. Niente di tutto questo, considerato che appunto i due magistrati amministrativi coinvolti, Russo e de Lipsis, sono l’uno «in pensione dal 2015» e l’altro «già sospeso dal servizio dal 2017 con misura cautelare disciplinare». Oltretutto le stesse ipotesi di reato che ieri hanno prodotto gli arresti domiciliari per i quattro indagati riguardano, nel caso dei due magistrati amministrativi, «sempre i medesimi episodi». Si tratta insomma di illeciti già contestati a toghe ormai «non in servizio», e non ha quindi senso ipotizzare perquisizioni nei palazzi dove un tempo gli interessati lavoravano. A parte il caso di Russo, secondo i pm destinatario di una presunta tangente da 20mila euro, pagata da Amara per l’aggiustamento di tre fascicoli, gli altri tre destinatari delle misure sono chiamati in causa per la sentenza che annullò le elezioni regionali a Siracusa e consentì così a Gennuso di essere eletto al “secondo round”, dietro pagamento di una presunta tangente da 30mila euro.

Sentenze pilotate, arresti e perquisizioni al Consiglio di Stato. Quattro provvedimenti cautelari per i giudici Nicola Russo e Raffaele Maria De Lipsis, ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano, e Luigi Pietro Maria Caruso, ex consigliere della Corte dei Conti. Ordine di cattura anche per il deputato siciliano Giuseppe Gennuso, scrivono Giuseppe Scarpa e Alessandra Ziniti il 7 febbraio 2019 su La Repubblica. Quattro ordinanze di custodia cautelare sono state emesse dal gip di Roma Daniela Caramico D'Auria, per i reati di corruzione in atti giudiziari commessi in seno al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia. Ai domiciliari il giudice del Consiglio di Stato Nicola Russo (ora in pensione), già arrestato a marzo dello scorso anno con l'immobiliarista Stefano Ricucci, l'ex presidente del Cga siciliano Raffaele de Lipsis, il deputato siciliano di Popolari e Autonomisti Giuseppe Gennuso di Siracusa e l'ex consigliere (ora in pensione) della Corte dei Conti Luigi Pietro Maria Caruso. L'indagine è quella relativa a presunte sentenze pilotate (almeno cinque) presso palazzo Spada e presso il Consiglio di giustizia amministrativa di Sicilia. Un giro di mazzette da 150.000 euro, solo quello accertato in questo troncone d'inchiesta che fa riferimento al giro dell'avvocato Piero Amara, il grande regista dei verdetti aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Uno dei giudici arrestati è l'ex consigliere di Stato Nicola Russo, già destinatario di un ordine di cattura a marzo scorso insieme all'immobiliarista Stefano Ricucci.Amara, che collabora da diversi mesi, racconta di avere pagato 20.000 euro a Russo per pilotare sentenze su tre diversi procedimenti. Uno degli ordini di custodia cautelare riguarda l'ex presidente del Cga siciliano Raffaele Maria De Lipsis, accusato di corruzione. Avrebbe intascato diverse tangenti da Amara. ll nome di De Lipsis era stato uno dei primi a finire nel mirino dei pm di Roma e Messina che da oltre un anno indagano sul giro di sentenze aggiustate nei processi che riguardano la giustizia amministrativa.  Le sue sentenze, a cominciare da quelle sul contenzioso della Open land a Siracusa, sono state passate al setaccio dagli investigatori della Guardia di Finanza. Secondo gli inquirenti, insieme ad un altro ex presidente del Cga Riccardo Virgilio, già finito agli arresti a febbraio dell'anno scorso, De Lipsis sarebbe stato tra i giudici sui quali Amara e il suo socio di studio Calafiore ricorrevano in favore dei loro clienti. La sentenza contestata per la quale procede la procura di Roma è quella del collegio presieduto da de Lipsis che, accogliendo il ricorso di Giuseppe Gennuso, annullò le elezioni regionali a Siracusa facendo poi rivotare e favorendo così l'elezione di Giannuso che avrebbe pagato 30.000 euro per il tramite per il tramite dell'amico consigliere della Corte dei Conti Caruso. Tra i mediatori delle sentenze pilotate torna il nome dell'avvocato Stefano Vinti il professionista che, secondo quanto dice l'ex parlamentare Italo Bocchino intercettato, comprava le cause " a blocchi". Con De Lipsis salgono a tre i giudici del Cga siciliano ad essere finiti agli arresti in un'inchiesta che, dopo le dichiarazioni di Amara e Calafiore, continua ad allargarsi a macchia d'olio e promette nuovi sviluppi. A luglio, la Procura di Messina guidata da Maurizio de Lucia aveva ottenuto l'arresto di Giuseppe Mineo, anche lui accusato di corruzione in atti giudiziari.

Cga Sicilia e Consiglio di Stato, il marcio di storie di "favori" e mazzette nell'Isola, scrive il 07/02/2019 Marco Maffettone su La Sicilia. Svelato, grazie alle dichiarazioni fatte negli ultimi mesi dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, un sistema corruttivo in cui giudici amministrativi si erano messi al servizio di privati in cambio di denaro: cinque gli episodi contestati. Un sistema corruttivo in cui giudici amministrativi si erano messi al servizio di privati in cambio di mazzette. Soldi dati e promessi per «comprare» sentenze e ottenere, in alcuni casi, cifre a sei zeri o elezioni ad un consiglio regionale. E’ il quadro che emerge dalle carte della maxindagine della Procura di Roma su sentenze pilotate al Consiglio di Stato e che oggi ha vissuto una nuova accelerazione con quattro arresti. Ai domiciliari sono finti il giudice Nicola Russo, già coinvolto in altre vicende giudiziarie, l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, l’ex giudice della Corte dei conti, Luigi Pietro Maria Caruso. Destinatario dell’ordinanza anche il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. Il reato contestato a tutti è corruzione in atti giudiziari. In totale sono cinque gli episodi contestati dai magistrati di piazzale Clodio, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. In base agli accertamenti le mazzette messe a disposizioni dei giudici corrotti erano di 150mila euro. L’indagine si basa sulle dichiarazioni fatte negli ultimi mesi dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio del 2018 scorso nell'ambito di uno dei filoni dell’inchiesta. Dichiarazioni riscontrate dai magistrati e inquirenti attraverso intercettazioni e analisi dei flussi finanziari. Nella loro funzione di giudici - scrive il gip nell’ordinanza - «hanno posto a disposizione dei privati la loro funzione, contravvenendo ai doveri di imparzialità e terzietà e ricevendo in cambio un’utilità economica e ciò, indipendentemente dall'esito favorevole o sfavorevole delle decisioni assunte». Tre episodi sono contestati al giudice del Consiglio di Stato (ora sospeso) Russo e due all'ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, De Lipsis. In base a quanto raccontato da Amara, Russo avrebbe ottenuto da lui circa 80mila euro (e altri 60mila promessi), per aggiustare sentenze di tre procedimenti. A svolgere un ruolo di «mediatore», in base a quanto accertato dagli inquirenti, sarebbe stato anche l’avvocato Stefano Vinti oggetto questa mattina di una perquisizione. Il suo nome spunta in una vecchia intercettazione nell'ambito del caso Consip, finita agli atti dell’indagine, tra Alfredo Romeo e Italo Bocchino, in cui i due parlando dell’avvocato affermano che «comprava cause a blocchi». Per quanto riguarda De Lipsis avrebbe incassato tangenti per 80mila euro per intervenire su alcune sentenze. Tra queste anche quella relativa ad un contenzioso che la società Open Land, rappresentata da Amara, aveva con il comune di Siracusa. Il giudice, attraverso la nomina di consulenti graditi ad Amara e Calafiore, fa ottenere alla società un risarcimento dal comune siciliano di 24 milioni euro. Di questi ne verranno elargiti due prima dell’esplosione del caso giudiziario. Per questa operazione De Lipsis ha ottenuto 50mila euro di tangenti. Infine l’ex presidente del Cga è intervenuto, in qualità di presidente del collegio, nella vicenda relativa al ricorso presentato da Giuseppe Gennuso dopo la sua mancata elezioni alle amministrative del 2012. Il tribunale amministrativo annullò quel risultato elettorale di Siracusa favorendo Gennuso che venne rieletto alla nuova tornata. In cambio il giudice ottenne 30mila euro. Denaro che Gennuso consegnò attraverso l’ex giudice della Corte di Conti, Caruso.

Consiglio di Stato, nuovi indagati per le sentenze amministrative comprate. La Procura di Roma ha ottenuto la proroga d'indagine per 31 persone tra cui l'ex governatore siciliano Raffaele Lombardo e l'ex ministro Saverio Romano, scrive Alessandra Ziniti il 24 gennaio 2019 su La Repubblica. Ci sono diversi nomi nuovi nella sempre più lunga lista degli indagati delle Procure di Roma e Messina che si occupano dei due filoni delle sentenze amministrative truccate e che ormai da mesi stanno raccogliendo le dichiarazioni degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore che gestivano il giro di corruzione. Sono 31 i nomi che compaiono nella richiesta di proroga delle indagini disposta dal gip di Roma, su richiesta della Procura, e che riguarda anche uno dei filoni legati a presunte attività di corruzione in atti giudiziari al Consiglio di Stato. Oltre al presidente di Sezione, Sergio Santoro, compaiono i nomi del giudice Nicola Russo (già coinvolto in una vicenda giudiziaria con l'imprenditore Stefano Ricucci), l'ex ministro Francesco Saverio Romano accusato di rivelazione del segreto d'ufficio, l'ex governatore della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, l'imprenditore Ezio Bigotti e l'avvocato Giuseppe Calafiore. La vicenda giudiziaria, che coinvolge le procure di Roma e Messina, è legata alle dichiarazioni dell'avvocato Pietro Amara che da alcuni mesi sta collaborando con gli inquirenti. L'ipotesi investigativa gira intorno a presunte corruzioni di giudici di Palazzo Spada per pilotare alcune sentenze. Il filone siciliano è in parte già approdato in aula. Stralciata la posizione di Amara e Calafiore, il gup di Messina, Monica Marino, ha rinviato a giudizio l' ex senatore di Ala, Denis Verdini, per finanziamento illecito ai partiti. Comparirà davanti alla seconda sezione penale del tribunale insieme a Giuseppe Mineo, ex magistrato del Consiglio di giustizia amministrativa, per corruzione in atti giudiziari. Secondo l'accusa, attraverso una serie di passaggi societari, Verdini avrebbe ricevuto, a titolo di finanziamento del gruppo politico di cui era coordinatore, circa 300 mila dall'avvocato Pietro Amara per suo interessamento per la designazione di Mineo al Consiglio di Stato, che non otterrà l'incarico. L'ex magistrato del Cga siciliano è accusato invece di avere favorito clienti di Amara in contenziosi milionari che avevano instaurato contro il Comune e la Sovrintendenza di Siracusa, in cambio, sostiene la Procura, di 115mila euro, andati in parte a beneficio di un amico del magistrato, l'ex governatore della Sicilia Giuseppe Drago, bisognoso di cure.

Il giudice che «vendeva le sentenze» presenta appello (e torna in servizio)

Il caso di un giudice del Tar arrestato e condannato nel 2016. In attesa dell’Appello riprende il lavoro, scrive il 4 febbraio 2019 Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. Non sono omonimi, sono proprio la stessa persona: il magistrato amministrativo che celebra udienze al Tar-Tribunale amministrativo regionale della Valle d’Aosta è lo stesso giudice del Tar Lazio arrestato nel 2013 e condannato nel 2016 in primo grado a 8 anni per corruzione in atti giudiziari. Un paradosso, formalmente legittimo, determinato dalla lentezza dei processi che livella le ragioni di tutti: sia di chi si stupisce di vedere sentenze decise anche da un giudice condannato (pur solo in primo grado) proprio per compravendita di sentenze, sia del diretto interessato che rivendica il diritto dopo 6 anni di non restare indefinitamente «sospeso in via cautelare» in attesa di Appello e Cassazione. È il 18 luglio 2013 quando il giudice del Tar Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, viene arrestato con l’accusa di essersi accordato con una avvocato amministrativista (che patteggerà poi 3 anni e mezzo) «per indirizzare clienti presso lo studio legale e porre in essere a loro favore indebite interferenze su assegnazioni, procedure e decisioni»: collegata all’arresto scatta il 6 agosto 2013 anche la sospensione cautelare dal servizio, di tipo automatico, che dall’11 febbraio 2015 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l’equivalente del Csm per i giudici del Tar) sostituisce con la sospensione cautelare di tipo facoltativo. Il 22 luglio 2016 il Tribunale di Roma condanna in primo grado il magistrato a 8 anni (uno più della richiesta dei pm), alla confisca di 115.000 euro e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici. La conseguenza è che il 20 marzo 2017, al posto della sospensione facoltativa, viene disposto un altro periodo di quella automatica. Solo che l’appello non è ancora stato fissato. Ma quanto può durare la sospensione in attesa di sentenza definitiva? Nel 2002 la Consulta ritenne incostituzionale, in quanto manifestamente eccessiva, una sospensione lunga quanto la prescrizione del reato, rimarcando che «una misura cautelare, proprio perché tendente a proteggere un interesse nell’attesa di un successivo accertamento, deve per sua natura essere contenuta in una durata strettamente indispensabile per la protezione di quell’interesse, e non deve gravare eccessivamente sui diritti del singolo che essa provvisoriamente comprime». Restano allora o i 5 anni di durata massima come clausola generale; o, scaduti questi 5 anni, la scelta discrezionale di ricorrere di nuovo alla sospensione facoltativa dal servizio, cioè stavolta per motivi fondati non più sulla mera pendenza del processo penale, ma sull’apprezzamento in concreto dei fatti. L’opzione non è stata ritenuta percorribile dal «Csm» amministrativo, che ha finito per assegnare De Bernardi al Tar Valle d’Aosta dopo che il 17 aprile 2018 i magistrati del Tar Piemonte avevano paventato il «rischio di menomazione al prestigio, oggettivamente derivante dalla pendenza di un processo per reati gravi connessi all’esercizio delle funzioni giurisdizionali». A giugno la storia finirà comunque: perché il giudice andrà in pensione. 

RAI3 PRESADIRETTA 14/01/2019 21:20: "Palazzi di ingiustizia", intervista a Ministro Bonafede. Ospite in studio Ministro Grillo, scrive L'Ufficio stampa della Rai. “Palazzi di ingiustizia” è un’inchiesta sulla macchina della Giustizia che rischia il collasso: l’emergenza dei Tribunali italiani, il mondo dei giudici, le correnti nella magistratura, le pressioni della politica, le storie di errori giudiziari e di malagiustizia. A rispondere a tutto campo sulle tematiche aperte dalla puntata di “PresaDiretta”, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La puntata andrà in onda lunedì 14 gennaio alle 21.20 su Rai3. L’ospite in studio, in apertura della seconda puntata, è il ministro della Salute, Giulia Grillo. Risponderà alle critiche del presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, alle polemiche degli ultimi giorni circa le informazioni raccolte sulle simpatie politiche degli scienziati e soprattutto sulle emergenze della sanità pubblica e i nuovi progetti in campo. Le telecamere di “PresaDiretta” sono entrate nei tribunali italiani, a Venezia, a Palermo, a Latina, a Catania, a Tempio Pausania, ad Avellino, a Napoli, ovunque l’esercizio della Giustizia è un autentico calvario. Mancano i giudici, manca il personale amministrativo, mancano gli uscieri, qualche volta mancano anche i bagni. E poi edifici pericolanti, crepe sui muri, aule bollenti d’estate e fradice di pioggia in inverno, topi negli edifici. E ancora, fascicoli pendenti, condanne definitive che non si riesce a far eseguire, indagini che non partono, richieste di arresto inevase. Le storie di giustizia negata. Quella del maxi processo Eternit per le morti di asbestosi provocate dall’amianto della fabbrica di Casale Monferrato.  Quelle delle donne che hanno subito le violenze dei mariti. Cosa resta ai parenti delle vittime quando il processo cade nell’oblio della prescrizione? Per la prima volta in televisione “il caso Robledo” che ha avvelenato la procura di Milano. PresaDiretta è entrata anche nel Palazzo del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati che ne garantisce l’autonomia e l’indipendenza. E’ proprio così? Quale è il ruolo delle correnti nella magistratura?

PresaDiretta: nei palazzi della ingiustizia, scrive Aldo Funicelli su Uno e Nessuno lunedì 14 gennaio 2019. Si fa un gran parlare di sicurezza, di certezza della pena, di delinquenti da sbattere in carcere, eppure non si va mai a fondo per capire come mai la macchina della giustizia è andata nel corso degli anni in sofferenza, rischiando ora di finire al collasso. Forse perché negli anni si sono applicate ricette sbagliate: leggi pensate per salvare imputati dai processi, leggi per svuotare le carceri, leggi per gerarchizzare le procure e portare l'azione giudiziaria sotto il controllo dell'esecutivo. Non si è mai parlato di giustizia, di legge uguale per tutti, dei diritti degli imputati e di quelli delle vittime. E anche dei diritti di coloro i quali sono stati condannati al carcere. Si parla di prescrizione, di pene più severe, ma non si cerca mai di affrontare le cause a monte dei problemi: l'inchiesta di Presa diretta cercherà di colmare questa lacuna, andando a capire cosa cosa non funziona nelle procure, definiti “palazzi d'ingiustizia”. Il processo sulle morti per Eternit, a Casale Monferrato è uno dei casi di giustizia negata: in un'area di 94mila metri quadrati lavoravano 5000 operai, tutto il paese. Non si faceva caso alla polvere delle fibre di amianto che si infiltrava nei polmoni degli operai e degli abitanti del paese: questa polvere ha causato 2200 morti, in una cittadina che oggi fa 35mila abitanti. Sono persone morte per una condotta criminale – racconta Bruno Pesce dell'associazione vittime al giornalista di Presadiretta: il processo di primo grado è finito con una condanna dei responsabili dell'azienda, sentenza confermata in appello. Ma poi la Cassazione ha chiuso tutto, perché secondo i giudici della suprema corte, il reato era prescritto già dal primo grado. E per quelle morti, e per i parenti delle vittime? La scorsa puntata si chiudeva con un servizio sul Tribunale di Bari, chiuso per rischio crollo: una delle leve su cui puntare per far crescere il paese è anche questa, la macchina della giustizia, ma finché questa funzionerà a singhiozzo, coi processi tagliati per la prescrizione, non avremo speranza: In Italia la maggioranza dei processi viene rinviata e le uniche sentenze emesse sono quelle di prescrizione. Ogni anno 145 mila processi vanno in prescrizione e ci vogliono 8 anni per una sentenza definitiva, è la peggiore performance di tutta Europa. Di questa performance non si può sempre dare la colpa ai magistrati e giudici se abbiamo un sistema giudiziario garantista che si basa su tre gradi di giudizio, dove i testimoni devono ripetere in aula quanto già detto in fase di acquisizione delle prove prima del rinvio a giudizio. Un sistema come il nostro, funzionerebbe se procure e tribunali fossero dotate di tutto il materiale necessario, del personale che oggi è carente. Ma a volte sono proprio i palazzi a cadere a pezzi, come ad Avellino: crepe sui muri e sui pilastri, su un muro un cartello che invita a lasciare il palazzo “appena svolti gli adempimenti di interesse”. A Tempio Pausania un altro palazzo transennato, con muri che perdono i pezzi. A Catania le udienze di rinviano di frequente per motivi più disparati – racconta l'anteprima – per esempio perché gli impianti di condizionamento non funzionano da anni: d'estate fa caldo e d'inverno ci piove dentro. Durante il servizio verrà ripercorsa la vicenda del procuratore aggiunto di Torino Alfredo Robledo, storia che era stata già raccontata da Iacona assieme al giornalista Danilo Procaccianti nel libro “Palazzo d'Ingiustizia”: gli scontri con l'allora procuratore capo Bruti Liberati per alcuni fascicoli che toccavano politici lombardi (alcuni tenuti nel cassetto), l'estromissione dalle indagini su Expo 2015 (e l'allora presidente Renzi che ringraziò la procura per la “sensibilità istituzionale” per come aveva gestito o non gestito le inchieste sugli appalti). Dal caso particolare, la vicenda del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, finito sotto procedimento disciplinare, cacciato da Milano dal suo posto di capo del dipartimento contro i reati della ppaa, come spunto per raccontare un problema generale della giustizia italiana, di cui forse non abbiamo colto tutta la portata e pericolosità. La spinta verso la gerarchizzazione dentro le procure, con un Procuratore Capo che non solo può avocare a sé fascicoli, coordinare i lavori, dirigere gli uffici: un Procuratore Capo col potere di dirottare i fascicoli dal giudice competente ad n altro magistrato, di un altro ufficio, in spregio all'organizzazione interna. Che può dimenticarsi i fascicoli (che magari riguardano proprio qualche personaggio potente) nel cassetto; perfino usarli per attaccare qualche magistrato troppo indipendente, troppo poco disciplinato, troppo poco disposto a cogliere quelle “sensibilità istituzionali”. Quella sensibilità che va a discapito della legge uguale per tutti, dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare, di una giustizia che non deve tener conto delle dinamiche industriali di un gruppo o di un partito o di un governo. La storia di Alfredo Robledo, oggi tornato alla funzione requirente dopo due anni di Purgatorio a Torino, è sintomatica di tutto questo. Sta succedendo qualcosa nelle procure, qualcosa che riguarda tutti noi, la possibilità di veder riconosciuti i nostri diritti pur senza avere santi in paradiso. Tutto questo è avvenuto grazie (o per colpa) delle varie riforme della giustizia, dalla riforma Castelli, fino all'ultima legge targata centro sinistra sulla responsabilità civile dei magistrati. Su questo argomento, a parte i tratti di facciata, destra e sinistra si sono dimostrate uguali nel dimostrare la stessa insofferenza nei confronti dei magistrati che si muovono contro politici, contro le banche, contro le lobby. Contro i troppi don Rodrigo di questo paese contro cui in pochi hanno voglia di andare ad indagare. C'è un altro aspetto sta minando l'indipendenza e la credibilità della magistratura che, va sempre ricordato, è un organo indipendente dall'esecutivo come sancito dalla Costituzione: il potere delle correnti all'interno del CSM, la capacità di questi gruppi, di diritto privato, nel condizionare, pilotare, imporre nomine di magistrati a ruoli apicali. In apertura di puntata Iacona intervisterà il ministro della salute Grillo, sui rapporti tra politica e scienza, in riferimento a quanto ha raccontato la scorsa settimana l'ex presidente dell'Istituto superiore di sanità, Mario Ricciardi. Ci sarà spazio anche per un'intervista al ministro della Giustizia Bonafede che esporrà le proposte del governo in tema giustizia.

Il Csm pronto a secretare i procedimenti disciplinari contro i magistrati, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. La discussione nella Commissione che valuta i togati. Trovare il punto d’incontro fra la tutela del diritto alla privacy e l’esigenza di rendere sempre più trasparente l’azione amministrativa. Attività per nulla facile soprattutto se l’interessato è un magistrato. Fino a che punto, ad esempio, può spingersi il bisogno di conoscenza sui trascorsi disciplinari di una toga? In particolar modo se tali trascorsi hanno poi avuto conseguenze sulla sua valutazione di professionalità e quindi sulla sua progressione in carriera? Lo spinoso tema è stato affrontato dal Consiglio superiore della magistratura nel corso dell’ultimo Plenum. La IV Commissione del Csm, competente sulle valutazione di professionalità delle toghe, sta da tempo disponendo la segretazione di tutte le pratiche di valutazione di professionalità nelle quali si faccia riferimento ai precedenti disciplinari del magistrato. Il presidente della Commissione, il togato di Magistratura indipendente Antonio Lepre, ha rivendicato la decisione presa trattandosi di dati sensibili. Per Lepre, questi procedimenti hanno già inciso sulla vita del magistrato in maniera negativa, ingenerando ansia e sofferenza. Molti di questi procedimenti disciplinari, prosegue Lepre, riguardano infatti fattispecie di ritardi nel deposito dei provvedimenti, omesso rispetto dei termini di custodia cautelare, commenti inopportuni sui social. E gli incolpati sono spesso magistrati estremamente laboriosi che lavorano in condizioni di oggettiva difficoltà. Per evitare, dunque, inutili ed ulteriori situazioni di imbarazzo ai magistrati coinvolti in procedimenti disciplinari, la soluzione migliore è quella di non riaprire vicende ormai concluse, ponendo uno stop ad un voyeurismo che rischia di nuocere alla funzione. L’argomento è fra i cavalli di battaglia di Mi, la corrente moderate delle toghe che esprime l’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il giudice Pasquale Grasso. Le toghe di Mi sono poi favorevoli all’esclusione di ogni automatismo tra provvedimento disciplinare e negazione della valutazione di professionalità. Con particolare riguardo ai fatti disciplinari ritenuti insussistenti oppure scusabili dal giudice competente. La materia, come detto, è estremamente delicata perché deve contemperare il diritto alla riservatezza e al diritto alla conoscenza, tramite l’accesso agli atti. L’attività valutativa del Csm è stata talvolta oggetto di aspre critiche. Fra le accuse quella di opacità nelle decisioni, non sempre comprensibili. Ad insistere in tema di trasparenza sono stati i consiglieri di Area, la corrente progressista delle toghe, che hanno rivendicato la necessità della trasparenza, trovando sponda nel regolamento del Csm che prevede come regola la pubblicità dei lavori consiliari. Le sentenze disciplinari, peraltro pubbliche e adottate all’esito di un dibattimento pubblico, non possono considerarsi attinenti alla sfera privata del magistrato, dicono i consiglieri di Area. Se il magistrato fornisce il proprio consenso, fino a quando il servizio sarà disponibile, le udienze disciplinari sono trasmesse da Radio Radicale. L’interesse di tutti, comuque, è che "l’ oblio" sulle vicende disciplinari sia a tutela del corretto ed equilibrato esercizio della giurisdizione e non a salvaguardia di privilegi di casta.

MAGISTRATI, ATTENTI A COME USATE I SOCIAL. Claudia Guasco per ''Il Messaggero'' il 6 aprile 2019. Una foto inopportuna, un commento offensivo, una frase fuori luogo. Basta un post sconveniente per delegittimare un pubblico ministero o gettare l' ombra di mancanza di terzietà su tutta la magistratura. E nell' era del web il rischio è elevato, tanto da richiedere un richiamo forte. «Una questione nuova, tra le più delicate, è l' uso dei social media da parte dei magistrati; sono strumenti che se non amministrati con prudenza e discrezione, possono offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria», avverte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando alla platea togata della Scuola superiore della magistratura a Scandicci. «Se la qualificazione professionale» è lo strumento principale, «questa non può prescindere, anche a garanzia dell' imparzialità, da un profondo rispetto della deontologia professionale e da sobrietà nei comportamenti», sottolinea il capo dello Stato. In effetti le intemperanze social negli ultimi anni non sono mancate e i casi sono finiti dritti sulla scrivania della prima commissione del Csm. Tra i protagonisti la pm di Trani Simona Merra, immortalata a una festa estiva mentre l' avvocato Leonardo de Cesare, difensore di uno degli indagati per la strage del disastro ferroviario tra Corato e Andria, le baciava il piede. Travolta dalle polemiche ha lasciato l' inchiesta ed è stata condannata alla sanzione della censura. Assolta invece la pm di Imperia Barbara Bresci che, titolare dell' indagine sull' esplosione nella villetta di Sanremo in cui rimase ferito Gabriel Garko, si lasciò andare ad apprezzamenti in rete con le amiche: «Com' era bello, Garko». Lo scorso febbraio l' ex presidente dell' Anm Eugenio Albamonte affrontò il tema dei social all' interno dell' associazione, aprendo la strada a una possibile modifica del codice deontologico. La riflessione è la seguente: vi sono comportamenti non necessariamente censurabili dal punto di vista disciplinare ma non opportuni, perché espongono la magistratura ad addebiti di scarsa serietà. Non solo: «Nel nostro sistema costituzionale la magistratura non è composta da giudici o pubblici ministeri elettivi e neppure ovviamente da giudici o pm con l' obiettivo di essere eletti», è la risposta indiretta ma chiara di Mattarella a quanti ogni tanto ripropongono l' idea che i giudici possano essere eletti dai cittadini. E la magistratura, da parte sua, «non deve mai farsi suggestionare dal clamore mediatico intorno ai processi, da spinte emotive evocate da un presunto e indistinto sentimento popolare», avverte Mattarella. Infatti il Csm ha aperto una pratica nei confronti del pm di Trani Michele Ruggiero, che in merito all' assoluzione del processo rating ha scritto su Facebook: «Sono stato lasciato solo. Evidentemente ci sono verità che è bene restino sullo sfondo». Condannato per diffamazione aggravata a otto mesi in primo grado (pena sospesa) Luigi Bobbio, magistrato di Nocera che sul web definì «feccia, teppista» Carlo Giuliani, morto nel G8 di Genova, e pratica aperta per Giorgio Nicoli, gip di Trieste, che bollò l' ex governatrice Debora Serracchiani come «supponente e inconsistente». Ammonimento del Csm invece per Desirée Digeronimo, pm di Roma: nel 2015 sul suo profilo scrisse che l' ex sindaco Ignazio Marino «ha applaudito beotamente per essere stato messo sotto tutela». E corre il rischio di sanzioni anche la pm di Torino Monica Supertino, cinquant' anni portati splendidamente, che su YouTube ha lanciato due video di ricette e benessere. Ma il «metodo Supertino» è stato rimosso di tutta fretta in un paio di giorni.

·         La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».

La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti». Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. Esulta su Facebook il ministro M5S della Giustizia, Alfonso Bonafede: «La class action in Italia è legge. Fino ad ora era limitatissima e aveva diversi paletti che l’avevano resa inutilizzabile. Noi l’abbiamo fatta diventare uno strumento generale. Era un altro punto del contratto di governo ed è stato realizzato in nove mesi. Finalmente la giustizia in Italia è al servizio dei cittadini onesti...». Il Senato ha approvato il ddl con 206 sì, 44 astenuti e un solo voto contrario, quello del senatore azzurro Gaetano Quagliariello. La legge, composta di sette articoli, trasferisce la disciplina dell’azione di classe dal codice di consumo al codice di procedura civile, al fine di potenziarne la portata e l’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo. «I cittadini - spiega il ministro Bonafede - ogni volta che vengono lesi i loro diritti, possono unirsi e far valere i loro diritti tutti assieme. Questo dà la possibilità a tanti cittadini che da soli sarebbero deboli, di unirsi e diventare forti, magari nel caso in cui dall’alta parte c’è un soggetto economicamente molto forte. Un punto importante è che la norma non vale solo per il provato cittadino, ma anche per le imprese: con questa legge, diamo la possibilità anche agli imprenditori di unirsi se un loro diritto è stato leso». Ma i senatori di Forza Italia, che si sono astenuti a parte Quagliariello che ha votato no, contestano apertamente l’ottimismo del governo: «Questo testo, blindato dalla maggioranza, è chiaramente squilibrato a favore dei consumatori e foriero di grandi rischi per le imprese - secondo Alessandra Gallone, vicepresidente dei senatori di Forza Italia - È un testo impregnato di odio sociale, di stampo neo-giacobino nei confronti di chi fa impresa. Un testo pasticciato scritto guardando a una sola delle parti in causa, quella dei consumatori, quasi che le imprese siano considerate sempre in malafede e quindi non meritevoli di tutela e da penalizzare. Una legge che penalizzerà gli investimenti». Oltre alla nuova azione inibitoria collettiva, sottolineata da Bonafede, la cui vecchia procedura secondo il governo si era rivelata farraginosa, lenta, costosa e poco efficace, la legge introduce ora anche la disciplina degli accordi transattivi tra le parti. Il vaglio di ammissibilità del giudice bloccherà le azioni pretestuose e infondate. Previsto, infine, anche un ampio ricorso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini di pubblicità della procedura. E passa il principio della irretroattività: la class action, cioè, non potrà più essere chiesta contro eventi accaduti prima dell’entrata in vigore della legge. «Ora i cittadini sono più forti e potranno difendersi dai comportamenti scorretti di gruppi di potere, lobby e aziende senza scrupoli», conclude il ministro M5S per il Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro.

·         Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».

Dress code imposto alle borsiste: chiuse indagini su ex giudice Bellomo. Il barese Bellomo risponde dei maltrattamenti in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin. La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Bari ha chiuso le indagini sull'ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo accusato dei reati di maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura 'Diritto e Scienza', alle quali avrebbe imposto anche un 'dress code' con minigonna e 'tacco 12'; e di estorsione nei confronti di un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Bellomo risponde dei maltrattamenti in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin. Il procuratore aggiunto Roberto Rossi e la pm Iolanda Daniela Chimienti contestano all’ex giudice barese anche i reati di calunnia e minaccia nei confronti dell’attuale premier Giuseppe Conte (all’epoca vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa) e di Concetta Plantamura, rispettivamente ex presidente ed ex componente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo quando nel 2017 fu sottoposto a procedimento disciplinare. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari è stato notificato anche ad un terzo indagato, l’avvocato barese Andrea Irno Consalvo, all’epoca dei fatti contestati organizzatore dei corsi all’interno della Scuola, accusato di false informazioni al pm. Quando Consalvo fu chiamato a rendere dichiarazioni nell’ambito di questa inchiesta, avrebbe «taciuto - secondo la Procura - quanto a sua conoscenza» sui rapporti tra l’ex magistrato e le corsiste. Bellomo è attualmente interdetto dall’attività di insegnamento dopo aver trascorso, dal 9 al 29 luglio, 20 giorni agli arresti domiciliari. Fu il Tribunale dei Riesame ad attenuare la misura cautelare riqualificando i reati da maltrattamenti in concorso in tentata violenza privata aggravata e stalking, e da estorsione in violenza privata. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, però, la Procura contesta agli indagati i reati originariamente ipotizzati. Stando alle indagini dei pm baresi, Bellomo tra il 2011 e il 2018 avrebbe adescato corsiste proponendo loro borse di studio a patto della sottoscrizione di un contratto che disciplinava "doveri» e «dress code» imponendo, tra le altre cose, minigonna e tacco 12, l’obbligo di rispondere al telefono entro il terzo squillo e punizioni in caso di violazione del codice di comportamento. Inizialmente la Procura aveva chiesto una proroga delle indagini ma la difesa dell’ex giudice ne ha eccepito la tardività, perché presentata un giorno dopo la scadenza dei termini. Nelle scorse settimane i difensori di Bellomo, gli avvocati Gianluca D’Oria e Beniamino Migliucci, hanno chiesto inoltre l'attenuazione della misura interdittiva sostituendola con lezioni in streaming per evitare il contatto con le studentesse. Il gip del Tribunale di Bari che ha ereditato il fascicolo su Bellomo, Francesco Mattiace, ha rigettato l’istanza. Sulla questione cautelare pende ora un appello non ancora fissato. Si discuterà, invece, il 7 novembre dinanzi alla Corte di Appello di Bari l’udienza per la ricusazione del gip Antonella Cafagna che aveva firmato l’ordinanza di arresto e che poi si è astenuta. Bellomo, nell’atto di ricusazione, ricordava che la giudice nel 2009 aveva fatto domanda per entrare come borsista nella Scuola “Diritto e Scienza”.

Caso Bellomo, gip Milano archivia inchiesta su ex magistrato. Era accusato di stalking e violenza privata su alcune studentesse milanesi. la Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2019. E’ stata archiviata, come richiesto dalla Procura, l’inchiesta milanese sull'ex consigliere di Stato Francesco Bellomo accusato di stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura «Diritto e scienza» e difeso dall’avvocato Beniamino Migliucci. Lo ha deciso il gip Guido Salvini non ravvisando reati e accogliendo l’istanza dei pm Barilli e Pavan. Bellomo, divenuto noto per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, è indagato in un’inchiesta a Bari. Sebbene «molte delle richieste rivolte alle borsiste appaiano inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Lo scrive il gip di Milano Guido Salvini nel provvedimento con cui ha deciso di archiviare l’inchiesta a carico dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo che era accusato di stalking e violenza privata su quattro studentesse. Di certo, spiega il gip, era «decisamente poco consono ad un corso per la preparazione dell’esame di magistratura la circostanza, riferita da numerose studentesse, secondo cui la proposta di diventare «Borsiste» nasceva dall’«immagine» esteriore delle ragazze e non dall’essersi distinte per conoscenze giuridiche nella prima fase delle lezioni. Ma anche questa circostanza in sé non è di rilievo penale». «L'attività svolta dal dr. Bellomo - prosegue il giudice - nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato, ma con questo si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno il segmento milanese del corso di Scienza e Diritto, non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale». Il gip fa presente anche che «molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità tra l'indagato e le studentesse». 'Reciprocità' di cui avevano parlato anche i pm chiedendo l’archiviazione.

(ANSA Paolo Delgado il 25 Ottobre 2019) La "proposta" che l'ormai ex consigliere di Stato Francesco Bellomo faceva ad alcune sue studentesse "di diventare 'Borsiste' nasceva dall''immagine' esteriore delle ragazze e non dall'essersi distinte per conoscenze giuridiche". Una richiesta certamente poco consona "ad un corso per la preparazione dell'esame di magistratura", ma anche una circostanza che, assieme ad altre, come le "telefonate in tarda serata" o le "modalità di persuasione talvolta incalzanti", non ha "rilievo penale". Con queste motivazioni il gip di Milano Guido Salvini, accogliendo la richiesta dei pm Cristian Barilli e Antonia Pavan, ha archiviato l'inchiesta a carico di Bellomo, difeso dall'avvocato Beniamino Migliucci e divenuto noto per il "dress code" che imponeva alla sue 'borsiste' e che nel capoluogo lombardo era indagato per stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura "Diritto e scienza". A luglio era anche stato arrestato dal gip di Bari per maltrattamenti nei confronti di 4 giovani e nei mesi scorsi, però, il Riesame ha revocato i domiciliari e riqualificato le accuse. Sebbene "molte delle richieste rivolte alle borsiste" non rispettassero "i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica", il gip, seguendo la linea dei pm, non ha ritenuto che fossero molestie e minacce. Tra l'altro, osserva il giudice, "l'attività svolta dal dr. Bellomo nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato". Con questo, però, "si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno" all'indagine milanese "non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale". Il gip, inoltre, fa presente che i "contatti" tra Bellomo e le studentesse (tutte hanno passato, poi, il concorso di magistratura) non sono stati "posti in essere in via unilaterale" dal magistrato, "ma si siano iscritti nell'ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità". E' "significativo", si legge ancora nel decreto, che è stato "inviato avviso" alle 4 ex studentesse "della richiesta di archiviazione" e "nessuna di queste" ha presentato opposizione o o si è "presentata in udienza". In più, "con nessuna delle corsiste milanesi" l'ex magistrato "risulta aver intrapreso qualche forma di relazione sentimentale". Per il giudice, poi, non ha rilievo il "timore, manifestato da alcune delle borsiste, legato alla possibilità di essere espulse dal corso di formazione con perdita della retta o di non superare il concorso in magistratura qualora si fossero rifiutate di aderire alle richieste". Si tratta, spiega, di "uno stato soggettivo forse autoindotto, alimentato dall'autorevolezza dell'indagato, che non trova peraltro nel concreto comportamento di Bellomo alcun significativo fondamento". Oltre al "look vistoso e provocante" il "contratto" di Bellomo prevedeva anche "un dovere di collaborazione e fedeltà", di "distacco rispetto ai 'comuni allievi' e di rispetto della propria immagine al fine di garantirne 'l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività'". Tuttavia, chiarisce il gip, la "sottoscrizione, pur nella sua 'singolarità', era rimessa alla libera volontà delle aspiranti, che in diversi casi si sono rifiutate di firmare per continuare a frequentare le lezioni nella veste di studentesse ordinarie".

«Dress code» imposto dal giudice alle studentesse: accuse archiviate per 4 casi. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. È stata archiviata, come richiesto dalla Procura, l’inchiesta milanese sull’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo accusato di stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura "Diritto e scienza" e difeso dall’avvocato Beniamino Migliucci. Lo ha deciso il gip Guido Salvini non ravvisando reati e accogliendo l’istanza dei pm Barilli e Pavan. Bellomo, divenuto noto per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, resta indagato in un’inchiesta analoga davanti alla magistratura di Bari, inchiesta per la quale lo scorso luglio era finito anche agli arresti domiciliari. Sebbene «molte delle richieste rivolte alle borsiste appaiano inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Così scrive il gip di Milano Guido Salvini nel provvedimento di archiviazione. Di certo, spiega il gip, era «decisamente poco consono ad un corso per la preparazione dell’esame di magistratura la circostanza, riferita da numerose studentesse, secondo cui la proposta di diventare `Borsiste´ nasceva dall«immagine’ esteriore delle ragazze e non dall’essersi distinte per conoscenze giuridiche nella prima fase delle lezioni. Ma anche questa circostanza in sé non è di rilievo penale». «L’attività svolta dal dr. Bellomo - prosegue il giudice - nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato, ma con questo si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno il segmento milanese del corso di Scienza e Diritto, non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale». Il gip fa presente anche che «molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità tra l’indagato e le studentesse». `Reciprocità´ di cui avevano parlato anche i pm chiedendo l’archiviazione.

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 27 ottobre 2019. Il gip di Milano Guido Salvini ha archiviato l’indagine sull’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, accusato di violenza privata e stalking ai danni di 4 ex studentesse della sede milanese di «Diritto e scienza», una scuola di formazione per la preparazione al concorso in magistratura con sedi a Roma, Milano e Bari. Secondo Salvini quella di Bellomo è una condotta non conforme a un normale rapporto di collaborazione accademica, ma non è né molestia né minaccia. Ricordate? A luglio Bellomo era finito agli arresti domiciliari nella sua casa di Bari per maltrattamenti, estorsione: si parlava di un «contratto di schiavitù» che prevedeva alle sue borsiste diversi vincoli, tipo l’obbligo di un dress code (tacco 12 e gonna corta), telefonate seriali, la cancellazione di foto e amicizie da Facebook o permessi per uscire la sera. Bellomo rimane indagato a Bari e vedremo come andrà a finire: anche la legge ha un suo dress code. Né molestia né minaccia, resta però una ferita morale di non poco conto. Ci sarà sempre qualche collega che alle magistrate divenute tali dopo i «consigli» vestimentari di Bellomo non risparmierà insinuazioni, ammiccamenti, pettegolezzi. Come se non bastassero già le correnti del Consiglio Superiore della Magistratura, a quando una giustizia secondo scienza, coscienza e avvenenza?

Azzurra Barbuto per ''Libero Quotidiano'' il 27 ottobre 2019. «Il contratto è sempre stato frutto di libera scelta, e il termine "imposizione" - che ricorre di frequente nelle contestazioni che mi sono mosse - è del tutto fuori luogo; piuttosto erano le studentesse che aspiravano alla borsa come mezzo per instaurare un rapporto più stretto con me». È quanto si legge nella memoria difensiva dell' ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo. L' indagine nei suoi confronti è stata archiviata dal gip di Milano Guido Salvini, che ha accolto la proposta della procura. Eppure Bellomo, descritto dalla stampa come una sorta di persecutore maschilista e spietato, è stato destituito dal suo ruolo e la sua fulgida carriera stroncata a causa di accuse infamanti che appaiono sempre più evanescenti. È vero, il contratto sottoscritto dalle allieve, così come dagli allievi, che avevano il privilegio di frequentare la scuola "Diritto e Scienza" prevedeva a carico dei firmatari i doveri di "fedeltà e segretezza". Tuttavia, essi vanno intesi come "espressione di obblighi canonici di un rapporto giuridico" nonché inseriti nell' ambito di comuni rapporti di collaborazione, mica di tipo sentimentale. Non erano poche le studentesse che desideravano frequentare il consigliere di Stato al di fuori degli orari di lezione, stando alla testimonianza di una ex allieva di Bellomo, C. G., la quale oggi è magistrato. Ella dice: «Notavo da parte di molte studentesse, ma tale circostanza mi veniva anche riferita da altri corsisti e corsiste, un atteggiamento di interesse e di infatuazione nei confronti del dottor Bellomo. Da parte di alcuni corsisti mi è stato riferito che in passato il dottor Bellomo aveva ricevuto diverse proposte di frequentazione da parte di ragazze che volevano avvicinarsi a lui. Durante le pause delle lezioni mi è capitato di vedere alcune studentesse che si avvicinavano al Consigliere mentre pranzava, durante la prima pausa dalle lezioni». E poi: «A me risulta che fossero le borsiste a manifestare un particolare interesse per il dottor Bellomo e non il contrario. Il dottor Bellomo tende a mantenere un atteggiamento di distacco nei confronti degli altri, sia che si tratti di borsisti, sia che si tratti di normali studenti. Per come l' ho conosciuto io come insegnante, non lo considero una persona emotiva, tutt' altro, molto neutrale e rispettoso dei suoi allievi». Allorché alla testimone, ritenuta della massima attendibilità, viene chiesto se Bellomo abbia mai prospettato la revoca della borsa di studio in caso di rifiuto di prestazioni sessuali, ella risponde: «No, non mi risulta. E mi pare che sia un' assurdità». «In generale c' era molta stima nei confronti del Consigliere e a mio avviso in alcuni casi si trasformava in infatuazione», riferisce M. F., una delle testimoni. Un'altra ex borsista, C. F., che rifiutò di firmare il contratto che conteneva indicazioni sul dress code, ha dichiarato: «Specificai al Consigliere che non me la sentivo a priori di impegnarmi ad indossare gonna di una determinata lunghezza piuttosto che un' altra, ma che preferivo decidere autonomamente cosa indossare. Non ho ricevuto pressioni né minacce per essere indotta a firmare. Preciso che non mi sono mai sentita costretta a tenere un determinato look. Ho ottenuto lo stesso la borsa di studio, pur non firmando il contratto». Dalle carte emerge che «molte ragazze erano invaghite di Bellomo» e che questi non ha mai sfruttato il fascino che sapeva di esercitare. Una delle presunte vittime dell' ex consigliere inviava alla sua collega foto di Bellomo tempestate di cuoricini, un' altra sospirava a lezione che lo avrebbe seguito per sempre. E poi ci sono le mail che le ragazze inviavano a Bellomo e che sono allegate agli atti. Si tratta, da un lato, di lettere, condite con esagerate lusinghe, il cui intento è quello di coinvolgere il docente in argomenti più personali ed intimi; dall' altro, di epistole da parte di soggetti che hanno frequentato il corso di magistratura e che esprimono gratitudine nei confronti di Bellomo per gli insegnamenti ricevuti. Francesco Bellomo è stato altresì tacciato di avere un atteggiamento ostile nei confronti del gentilsesso, eppure allorché alcuni studenti gli fecero presente che una delle allieve non meritava la borsa di studio in quanto aveva fatto alcune comparse televisive, il docente prese le sue difese e rassicurò l' aspirante magistrato spiegandole di averla valutata per le sue capacità giuridiche e che così avrebbe continuato a fare. Inoltre, la esortò a fregarsene delle critiche. Non mancavano le occasioni di dialogo tra docente e discenti su temi che esulano da quelli giuridici. Una testimone ha narrato che Bellomo le consigliò di «rimanere sola in vista di una prospettiva di carriera futura». Da un misogino ci si aspetterebbe semmai che inciti la fanciulla a rinunciare alla realizzazione professionale per dedicarsi solo al focolare. «Una suggestione ricorrente è che il contratto ed i suoi corollari patrocinerebbero una visione di subalternità della donna. È un equivoco grossolano: la divisione dei sessi è del tutto indifferente rispetto alle teorie enunciate, che hanno uno spiccato carattere di neutralità ed anzi confutano una visione della società patriarcale e maschilista. Conta l' individuo e non il genere», sottolinea Bellomo sempre nella sua memoria. L' ex consigliere spingeva le giovani a credere in loro stesse e a perseguire tenacemente il sogno di superare il concorso in magistratura. Il monito fondamentale è che a ciascuno di noi è data la possibilità di raggiungere qualsiasi obiettivo ci poniamo, purché lo desideriamo davvero e non siamo disposti a tirarci indietro davanti a sacrifici e rinunce.

Bellomo: «Mai fatto del male a studentesse, oggi sono magistrati». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Non ho fatto mai nulla di male e queste studentesse dei miei corsi, poi, sono diventate tutte magistrati». Così, come sintetizzato dal suo legale, l’avvocato Beniamino Migliucci, l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, con una memoria depositata al gip di Milano Guido Salvini, ha raccontato «la sua attività e il suo vissuto» nel procedimento milanese nel quale gli stessi pm hanno chiesto l’archiviazione per lui, accusato di stalking e violenza privata nei confronti di 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura «Diritto e scienza». Bellomo, divenuto noto in particolare per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, a luglio era stato arrestato dal gip di Bari per maltrattamenti nei confronti di 4 giovani e di recente il Riesame ha revocato i domiciliari e riqualificato le accuse. Sul fronte dell’indagine milanese (le quattro studentesse non hanno presentato denuncia) i pm hanno ritenuto che tra Bellomo e le studentesse ci fosse «una rete di scambi connotata da reciprocità». Il gip nei prossimi giorni dovrà decidere se archiviare o meno l’indagine, come chiesto dai pm. «Noi condividiamo assolutamente in tutti i suoi punti la richiesta di archiviazione della Procura che non ha ravvisato reati», ha spiegato l’avvocato Migliucci ai cronisti dopo la discussione davanti al gip (Bellomo non era presente e per la Procura c’era il pm Antonia Pavan). «Le studentesse - ha aggiunto il legale - erano libere di accettare i contratti, qualcuna li accettava altre no, nessuna di queste ha mai ricevuto pregiudizi, l’unico cambiamento in positivo per loro è che sono diventate magistrati». Stessi concetti ribaditi dall’ex giudice del Consiglio di Stato in una lunga memoria depositata al giudice. L’inchiesta milanese era nata nel dicembre del 2017. Dopo le prime notizie emerse sul «dress code» che sarebbe stato imposto alle giovani frequentatrici della scuola «Diritto e Scienza», i pm avevano, infatti, sentito come persone informate sui fatti molte persone che frequentavano la sede milanese del corso. E avevano individuato come parti offese dei reati di violenza privata e atti persecutori quattro ragazze che sono state allieve di Bellomo a Milano. Per la Procura, però, dalle indagini non sono emersi «atti idonei ad integrare una condotta di sopraffazione, né un’abitualità di comportamenti volti ad incidere negativamente sulla serenità e l’integrità psicofisica delle allieve». Secondo i pm, «sebbene molte delle richieste rivolte alle borsiste siano apparse inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». 

Bari, dress code alle corsiste: dopo 9 ore di interrogatorio Bellomo nega tutto. Destituito da gennaio scorso dal Consiglio di Stato, è ai domiciliari dal 9 luglio. Bellomo è accusato di maltrattamenti ed estorsione nei confronti di borsiste e ricercatrici della sua Scuola di formazione. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2019. L’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo ha «contrastato in modo molto rigoroso e documentato tutte le accuse che gli vengono rivolte», rispondendo per più di 9 ore alle domande del gip del Tribunale di Bari nell’interrogatorio di garanzia. Al termine, dopo aver depositato anche una memoria difensiva, i difensori di Bellomo, Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria, hanno chiesto la revoca degli arresti domiciliari ai quali l’ex giudice è sottoposto da una settimana per maltrattamento e estorsione.

L'INIZIO DELL'INTERROGATORIO - Si è svolto a Bari l’interrogatorio di garanzia dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, agli arresti domiciliari dal 9 luglio scorso per i reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di formazione per la preparazione al concorso in magistratura, ed estorsione ad un’altra ex corsista.

Bellomo, pantaloni e camicia bianchi, scarpe nere, giacca e cravatta grigio scuro, cartellina sotto il braccio, è arrivato con la sua auto poco dopo le 8.30 ed è salito al secondo piano del palazzo di giustizia dove ad attenderlo, c'erano già i suoi difensori, Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria. Dovrà rispondere alle domande del gip Antonella Cafagna che una settimana fa ha firmato l’ordinanza di arresto, e dei pm inquirenti, l’aggiunto Roberto Rossi e il sostituto Daniela Chimienti. L’ex consigliere di Stato, destituito nel gennaio 2018, è accusato di aver vessato alcune corsiste della scuola, con le quali aveva poi anche relazioni sentimentali, in cambio di borse di studio con le quali imponeva rigidi codici di comportamento e dress code, fino a controllarne profili social e frequentazioni.

Dress code alle corsiste, Bellomo: «Io strumentalizzato, non maltrattatore». Domani la difesa chiederà al Riesame l'annullamento della misura cautelare. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2019. «C'è qualcosa di ancora più prezioso della libertà, la dignità...a rileggere tutta questa storia, ora a mente fredda, e vedendo le cose che vanno a dire dopo, ho la netta sensazione di essere stato strumentalizzato, altro che maltrattatore». È uno dei passaggi dell’interrogatorio di Francesco Bellomo, l’ex giudice del Consiglio di Stato agli arresti domiciliari dallo scorso 9 luglio per presunti maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura 'Diritto e Scienza', ed estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Bellomo è stato interrogato per quasi nove ore il 16 luglio dal gip Antonella Cafagna e dai magistrati che hanno coordinato le indagini, il procuratore aggiunto Roberto Rossi e il sostituto Daniela Chimienti. Domani i suoi difensori, gli avvocati Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria, saranno a Bari per discutere l’udienza di Riesame e chiedere l’annullamento della misura restrittiva. Nell’interrogatorio della scorsa settimana, all’esito del quale il gip ha rigettato la sua istanza di revoca della misura cautelare, Bellomo nega tutte le accuse, dicendo di essere stato «strumentalizzato» da donne che "volevano ottenere» qualcosa. Parla di alcuni episodi come di "baggianate», di «storielle» e definisce «bugiarde» le donne che lo hanno accusato. «Come in qualsiasi rapporto contrattuale ci sono diritti e obblighi» dice, spiegando il senso del contratto che veniva fatto sottoscrivere alle borsiste e che prevedeva rigidi codici di comportamento, un dress code e anche «la clausola del fidanzato a punteggio» perché «tutte le persone che ti stanno accanto inevitabilmente ti influenzano. Tu impari e disimpari da loro». Per l’ex giudice «le regole sono il codice che noi diamo al nostro rapporto, la nostra struttura esistenziale», descrivendo la sua idea di «fedeltà»: «non la esigevo, ma per me era mancanza di rispetto, e la mancanza di rispetto io la chiamo tradimento». Al gip Bellomo nega di aver sottoposto le donne a prove di velocità e di averne controllato la vita privata. «Le ho fatto credere di aver fatto i controlli...in realtà non ho fatto nessun controllo, ero un buon giocatore di poker». Ammette però di aver chiesto a una di loro di scusarsi in ginocchio, spiegando che «non è un atto di sottomissione, io voglio la prova che mi posso fidare di te, questo il punto. Questo magari può fare scalpore, non dovrebbe, perché quando un uomo si inginocchia per chiedere la mano di una donna, non è un atto di sottomissione, ma un atto per dire io sto, voglio dare importanza».

Bellomo torna libero, ma niente insegnamento per un anno. Il Corriere del Giorno il 30 Luglio 2019. L’ex giudice barese del Consiglio di Stato era stato ristretto agli arresti domiciliari per presunti maltrattamenti sulle sue allieve non potrà insegnare per un anno. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Bari riqualificando i reati a carico di Francesco Bellomo. Francesco Bellomo l’ex giudice espulso dal Consiglio di Stato e dalla magistratura, che si trovava ristretto ai domiciliari dallo scorso 9 luglio, ritorna a piede libero ma non potrà insegnare per un anno,  a seguito delle accuse per suoi presunti maltrattamenti su 4 donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura “Diritto e Scienza“, e per una denunciata estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Bari, in parziale accoglimento in parte l’istanza dei difensori Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria , riqualificando i reati. I giudici dell’appello hanno sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con l’interdizione per 12 mesi dalle “attività imprenditoriali o professionali di direzione scientifica e docenza“, riqualificando i reati contestatigli dalla Procura di Bari. I presunti maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della Scuola, sono stati riqualificati in “tentata violenza privata aggravata” e “stalking“, mentre la presunta estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta nel 2011 a lasciare il lavoro in una emittente locale, è stata ritenuta dal Riesame una condotta di “violenza privata”, che secondo la difesa “già sostanzialmente prescritta”. Peccato che Bellomo per dimostrare la sua millantata innocenza,  non abbia rifiutato la prescrizione scappatoia grazie alla quale molti avvocati “salvano” i loro assistiti. Sulla base ed evidenze emerse delle indagini dell’ Arma dei Carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e condotte dal pubblico ministero Daniela Chimienti, il Bellomo avrebbe vessato alcune corsiste della sua Scuola in cambio di borse di studio. Alle donne, con le quali aveva preteso ed avviato anche relazioni intime, avrebbe imposto dei codici di comportamento e dress code assurdi, arrivando a controllare i profili sui socialnetwork e persino le frequentazioni. Per il procuratore aggiunto Roberto Rossi della Procura di Bari “il Tribunale del Riesame ha riconosciuto i fatti così come descritti nell’ordinanza, ma ha ritenuto che siano un reato diverso, lo stalking, per ragioni giuridiche“, mentre “per le esigenze cautelari i giudici hanno ritenuto sufficiente che lui non tenga più le lezioni alla scuola di magistratura”. La Procura si ritiene per voce di Rossi  “più che soddisfatta, sarà poi il dibattimento  a decidere sulla colpevolezza dell’indagato” . Secondo i difensori di Bellomo, Migliucci e D’Oria  “premesso che occorre leggere le motivazioni dell’ordinanza, il quadro ci sembra notevolmente ridimensionato rispetto alle accuse originarie. Faremo comunque ricorso per Cassazione appena saranno depositate le motivazioni, perché non riteniamo sia condivisibile che rispetto ad una impostazione di questo tipo si inibisca per 12 mesi l’insegnamento. Riteniamo che non sussista un grave quadro indiziario con riferimento ai fatti contestati, neppure così come riqualificati”.

L'ex giudice Bellomo torna libero ma non può insegnare per un anno. Il Riesame accoglie parzialmente le istanze della difesa. E cambiano i reati: non è più contestata l'estorsione. La Repubblica il 29 luglio 2019. Torna libero, ma non potrà insegnare per un anno, l'ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, ai domiciliari dal 9 luglio per maltrattamenti su 4 donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura Diritto e Scienza, ed estorsione ad un'altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame, in parziale accoglimento dell'istanza della difesa, riqualificando i reati. Il Tribunale ha riqualificato i reati da maltrattamenti in concorso in tentata violenza privata aggravata e stalking, e da estorsione in violenza privata. I giudici hanno quindi sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con quella del "divieto temporaneo, per la durata di dodici mesi, di esercitare attività imprenditoriali o professionali di direzione scientifica e docenza, interdicendogli in tutto le attività ad esse inerenti". Le motivazioni della decisione del Riesame si conosceranno tra 45 giorni. Secondo le accuse, le borsiste della scuola di formazione dell'ex giudice Bellomo,  dovevano "attenersi ad un dress code suddiviso in "classico" per gli "eventi burocratici", "intermedio" per "corsi e convegni" ed "estremo" per "eventi mondani" e dovevano "curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività' al fine di pubblicizzare l'immagine della scuola e della società". Ad alcune borsiste, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare era imposto "il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa". Alle ragazze era imposto un contratto che "imponeva una serie di obblighi e di divieti", come la "fedeltà nei confronti del direttore scientifico" e "l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse".  Per il procuratore aggiunto Rossi "il Tribunale del Riesame ha riconosciuto i fatti così come descritti nell'ordinanza, ma ha ritenuto che siano un reato diverso, lo stalking, per ragioni giuridiche", mentre "per le esigenze cautelari i giudici hanno ritenuto sufficiente che lui non tenga più le lezioni alla scuola di magistratura". La Procura si dice "più che soddisfatta, sarà poi il dibattimento - conclude il magistrato - a decidere sulla colpevolezza dell'indagato". Per i difensori di Bellomo "premesso che occorre leggere le motivazioni dell'ordinanza, il quadro ci sembra notevolmente ridimensionato rispetto alle accuse originarie. Faremo comunque ricorso per Cassazione appena saranno depositate le motivazioni, - dicono Migliucci e D'Oria - perché non riteniamo sia condivisibile che rispetto ad una impostazione di questo tipo si inibisca per 12 mesi l'insegnamento. Riteniamo che non sussista un grave quadro indiziario con riferimento ai fatti contestati, neppure così come riqualificati".

Bellomo, aperta inchiesta a Milano: chiesta archiviazione. Il magistrato barese è accusato di atti persecutori e violenza privata nei confronti di 4 studentesse. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2019. Anche a Milano è stata aperta un’inchiesta a carico dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, ai domiciliari a Bari dallo scorso 9 luglio per maltrattamenti nei confronti di 4 donne, ed estorsione ad una ex corsista della scuola di magistratura di cui era direttore. I pm di Milano hanno chiesto l’archiviazione per il magistrato, accusato di atti persecutori e violenza privata nei confronti di 4 studentesse della sede milanese della scuola. L’archiviazione sarà discussa davanti al gip Guido Salvini il 16  settembre.

«C'ERA RECIPROCITA'» (di Manuela Messina) - Le «insistenze» sull'abbigliamento da indossare - dalla gonna al trucco fino allo smalto e alle calze - ma anche i «punteggi» da attribuire ai fidanzati e le "gerarchie» esistenti tra le borsiste e le altre studentesse. Anche a Milano sono finiti sotto la lente della Procura i discutibili codici di comportamento per le allieve dei corsi preparatori alla magistratura diretti dall’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, finito ai domiciliari a Bari dallo scorso 9 luglio per maltrattamenti nei confronti di 4 donne ed estorsione ad una ex corsista della scuola di cui era direttore. Indagine per la quale, però, i pm del capoluogo lombardo Cristian Barilli e Antonia Pavan hanno chiesto l’archiviazione. Istanza che sarà discussa in un’udienza davanti al gip Guido Salvini il prossimo 16 settembre. L’inchiesta milanese, di cui in pratica oggi si è saputo dell’esistenza, era nata nel dicembre del 2017. Dopo le prime notizie sul 'dress code' che sarebbe stato imposto alle giovani frequentatrici della scuola 'Diritto e Scienza', i pm hanno ritenuto di sentire come persone informate sui fatti molte persone che frequentavano la sede milanese del corso. E hanno infine individuato come parti offese dei reati di violenza privata e atti persecutori, ossia stalking, che avrebbe commesso Bellomo quattro ragazze che sono state sue allieve a Milano. Tra le molte testimoni sentite, un’allieva del corso ha riferito ai pm che dalla fine del 2013, nelle pause tra una lezione e l’altra, Bellomo era divenuto «insistente circa l'abbigliamento da osservare». Dato che la stessa ragazza «non aveva rispettato il dress code con riferimento alla lunghezza della gonna e all’altezza dei tacchi» non è stata «riconfermata come borsista per l’anno successivo». La giovane ha raccontato anche di essere stata invitata, nel Natale del 2014, a «prendere parte a un aperitivo organizzato a Milano in Corso Como (dove è stata accompagnata con un autista) per discutere della sua situazione». Nel corso dell’incontro, ha spiegato, Bellomo le si è avvicinato e le ha dato un bacio sulla guancia, all’irrigidirsi della ragazza Bellomo le ha comunicato l'esclusione dal corso, perché non voleva borsiste che non "seguivano la linea». Tuttavia, i pm hanno ritenuto che dall’indagine non sono emersi «atti idonei ad integrare una condotta di sopraffazione, né un’abitualità di comportamenti volti ad incidere negativamente sulla serenità e l’integrità psicofisica delle allieve». Secondo i pubblici ministeri, «sebbene molte delle richieste rivolte alle borsiste siano apparse inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Secondo la Procura, inoltre, è «da osservare come molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità». La parola passa al gip che dovrà decidere, dopo l’udienza, se archiviare, disporre nuove indagini o l’imputazione coatta. 

ORA CHE FACCIAMO CON LE RAGAZZE CHE GIURARONO FEDELTÀ A FRANCESCO BELLOMO? Luca Fazzo per “il Giornale” il 19 luglio 2019. C' è chi è venuto allo scoperto, rendendo interviste, come il pm di Massa Alessia Iacopini, secondo cui Francesco Bellomo «era come dottor Jekyll e mister Hyde». Delle altre va tutelata la privacy, perché in questa vicenda rivestono il ruolo di vittime. Ma un dato è certo, ed emerge dalle due inchieste condotte in Italia contro Bellomo, giovane e brillante consigliere di Stato, finito agli arresti dieci giorni fa per avere imposto alle allieve dei suoi corsi obblighi che sconfinavano nel plagio e nella violenza. Le due indagini sono state condotte, con esiti opposti, dalle Procure di Bari e di Milano. È possibile incrociare i dati delle prime due inchieste con due decreti ministeriali: quelli con la data 18.1.2016 e 12.3.2019. Sono i decreti che immettono in ruolo due infornate di centinaia di nuovi magistrati. E si scopre che buona parte delle vittime di Bellomo compaiono nei due elenchi. Oggi, insomma, indossano la toga. Tranne la Iacopini, che fa il pubblico ministero, sono quasi tutti giudici civili e penali. Nei tribunali dove esercitano, i pettegolezzi sul loro passato non mancano. E in qualche modo rischiano di inficiarne la serenità. Prima o poi, un imputato arrabbiato o un avvocato deluso, rinfaccerà: «Ma lei non era una di quelle che per avere la borsa di studio ha firmato il contratto con Bellomo?». L'inchiesta della Procura di Bari si è chiusa con l' arresto di Bellomo e del suo collaboratore Davide Nalin. Quattro le vittime individuate. Due di queste sono riuscite a diventare giudici. Una è la Iacopini, che le carte dell' indagine di Bari definiscono «legata a lui (Bellomo) da una relazione sentimentale dall' estate 2013 al febbraio 2016», e che avrebbe subito «reiterate e sistematiche condotte di controllo, imposizione, minaccia, vessazione e denigrazione». Un bombardamento di sms cui la vittima a volte cedeva: «Non vorrei perderti (...) La verità è che, anche se sono coinvolta, non riesco ad essere affettuosa e presente quanto meriteresti. E non credo che dipenda dal sentimento, ma dalla mia natura». Ha superato il concorso per diventare magistrato, e amministra la giustizia in un tribunale del Sud, anche la borsista di Bellomo che ai pm racconta di avere firmato, dopo le ritrosie iniziali, il contratto che le veniva sottoposto dal consigliere di Stato giustificandosi così: «Ero condizionata dalla figura di Bellomo che induceva una certa soggezione. Posso dire che una sorta di venerazione era condivisa da gran parte dei partecipanti al corso. Il motivo che mi indusse ad accettare era la curiosità, una certa attrazione verso questa persona che percepivo come fuori dal Comune». Il troncone d' inchiesta milanese si è concluso con la richiesta di archiviazione da parte della Procura, secondo cui «nessun comportamento volto a coartare la libertà morale delle studentesse può invero essere ravvisato nella sottoposizione di contratti di collaborazione la cui sottoscrizione, pur nella sua singolarità, era rimessa alla libera volontà delle alunne»; peraltro spesso i contatti non erano unilaterali ma «iscritti nell' ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità». Nessuna delle quattro vittime si è opposta alla richiesta di archiviazione: tre di loro nel frattempo sono divenute giudici in altrettanti tribunali del Nord. Il gip Guido Salvini però non è convinto che reato non ci sia stato, e ha fissato udienza per il 16 settembre.

Arrestato l'ex giudice Bellomo: maltrattava studentesse imponendo il look e calunniò il premier Conte. L'ex consigliere di Stato, già indagato perché avrebbe imposto il dress code alle ragazze iscritte ai suoi corsi di preparazione ai concorsi in magistratura, è ai domiciliari. I fatti risalgono a quando Conte non era capo del governo, ma era vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa. Chiara Spagnolo il 9 luglio 2019 su La Repubblica. Non solo i maltrattamenti e le estorsioni nei confronti di quattro giovani borsiste della scuola di formazione giuridica "Diritto e scienza" di Bari a cui imponeva anche il dress code, ma anche la calunnia e la minaccia bei confronti del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Finisce agli arresti domiciliari Francesco Bellomo, 49enne barese, consigliere di Stato destituito dopo che nel 2017 scoppiò lo scandalo della scuola di preparazione per il concorso in magistratura. La scintilla parti da Piacenza, con la denuncia di una studentessa, e si estese presto anche a Bari, città d'origine di Bellomo e dove è presente una sede di "Diritto e scienza", tuttora in funzione. L'arresto giunge al termine di un'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dal pm Daniela Chimienti, con l'ordinanza firmata dalla gip Antonella Cafagna. Quattro le studentesse individuate come parti offese, per i reati di maltrattamenti e estorsione, alcune delle quali legate a Bellomo da relazioni sentimentali. Nell'inchiesta barese si inserisce poi il nuovo filone, che vede come vittime il presidente del Consiglio Conte, in passato vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa, organo chiamato ad esercitare l'azione disciplinare nei confronti di Bellomo, dopo che erano emersi i primi illeciti a suo carico. Il premier (all'epoca non in carica) fu trascinato davanti al Tribunale civile di Bari, insieme alla collega Concetta Plantamura, componente dello stesso organismo. Bellomo paventò che avessero commesso illeciti nella trattazione del giudizio a suo carico e poi fece notificare loro un atto di citazione per danni. Secondo la procura di Bari, tale atto fu un'implicita minaccia, finalizzata a prospettare all'intero Consiglio il possibile esercizio di azioni civili nei confronti di Conte e Plantamura. Il gip Cafagna parla di "indole dell'indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso". Nell'ordinanza il giudice analizza quello che definisce "sistema Bellomo", nel quale "l'istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell'agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia". Le borsiste della scuola di formazione dell'ex giudice Bellomo,  dovevano "attenersi ad un dress code suddiviso in "classico" per gli "eventi burocratici", "intermedio" per "corsi e convegni" ed "estremo" per "eventi mondani" e dovevano "curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività al fine di pubblicizzare l'immagine della scuola e della società". Sono alcuni passaggi del contratto imposto alle borsiste e riportati nell'ordinanza di arresto. L'abbigliamento definito "estremo" ad esempio prevedeva "gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza". Ad alcune borsiste, si legge sempre nell'ordinanza di custodia cautelare era imposto "il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa". Alle ragazze era imposto un contratto che "imponeva una serie di obblighi e di divieti", come la "fedeltà nei confronti del direttore scientifico" e "l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse".

Arrestato Bellomo, l’ex giudice del Consiglio di Stato per il dress code imposto alle borsiste. Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Virginia Piccolillo e Antonio Crispino su Corriere.it. Una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari è stato notificata a Francesco Bellomo, ex giudice barese del Consiglio di Stato, docente e direttore scientifico dei corsi post-universitari per la preparazione al concorso in magistratura della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata "Diritto e Scienza". Bellomo deve rispondere dei reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice, alle quali aveva imposto anche un dress code (minigonna e tacchi a spillo), ed estorsione aggravata ai danni di un’altra corsista. I fatti contestati risalgono agli anni 2011-2018. L’arresto è stato disposto dal gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna. Il reato di maltrattamenti sarebbe stato commesso da Bellomo nei confronti di donne con le quali aveva avuto una relazione sentimentale, in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin, coordinatore delle borsiste. Francesco Bellomo attualmente è anche direttore scientifico di un’altra scuola di formazione giuridica, la Legal & Business school di Catania dove tra l’altro compare come presidente del Comitato scientifico Guido Alpa, l’avvocato con cui ha lavorato il premier Giuseppe Conte. La particolarità sta nel fatto che Alpa è il difensore di Conte in un processo a Bari che lo vede contrapposto proprio a Bellomo per il reato di calunnia. A inizio giugno lo avevamo sorpreso all’esterno della Fiera di Roma, dove si stava svolgendo la prova scritta per il concorso in magistratura, mentre faceva lezione ai suoi studenti. «Non ho fatto nulla di male e spero quanto prima di essere reintegrato in magistratura, ho presentato ricorso al Tar» aveva detto alle nostre telecamere. Stando alle indagini dei Carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e dal sostituto Iolanda Daniela Chimienti, Bellomo, con «l’artifizio delle borse di studio offerte dalla società» che consentivano tra le altre cose la frequenza gratuita al corso e assistenza didattica individuale, «per selezionare ed avvicinare le allieve nei confronti delle quali nutriva interesse, anche al fine di esercitare nei loro confronti un potere di controllo personale e sessuale» si legge nell’imputazione, avrebbe fatto sottoscrivere un «contratto/regolamento» che disciplinava i «doveri», il «codice di condotta» ed il «dress code» del borsista. A selezionare le donne tramite colloquio, sottoponendole al «test del fidanzato sfigato» sarebbe stato l’ex pm Nalin, incaricato anche di vigilare sul rispetto degli obblighi contrattuali, svolgere istruttorie in caso di violazioni e proporre sanzioni. La presunta estorsione sarebbe stata commessa nei confronti di un’altra corsista, costretta a rinunciare ad un lavoro da co-presentatrice in una emittente televisiva «in quanto incompatibile con l’immagine di aspirante magistrato» e «minacciando di revocarle la borsa di studio».

Giusi Fasano per il “Corriere della sera” il 10 luglio 2019. Un anno fa, quando scoppiò lo scandalo e dopo la sua destituzione, lui si disse «tranquillo» e «in attesa di essere reintegrato in magistratura». Gli inquirenti avevano appena cominciato a svelare il «sistema Bellomo», come lo chiamano oggi, e adesso lui - Francesco Bellomo - dice al suo avvocato Gianluca D'Oria che «sono decisamente sorpreso perché mi sarei aspettato un'archiviazione». E invece no. L'ex Consigliere di Stato - travolto un anno fa dall'accusa di adescare ragazze attraverso le borse di studio della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata «Diritto e Scienza» - da ieri è agli arresti domiciliari per maltrattamenti, estorsione e minacce. E assieme a lui è indagato anche l'amico ed ex pubblico ministero di Rovigo Davide Nalin. Messi tutti in fila, gli episodi raccontati nell' ordinanza - vittime quattro borsiste e una ricercatrice - sono un'incredibile combinazione di soprusi, manipolazione psicologica, sete di dominio e affermazione di sé. Una parte dell'inchiesta riguarda anche i reati di calunnia e minaccia ai danni dell'attuale premier Giuseppe Conte che nel 2017, come presidente della commissione disciplinare, fu chiamato a pronunciarsi proprio su un procedimento a carico di Bellomo, il quale se la prese con lui e una sua collega: li incolpò «falsamente», dicono le indagini, di aver esercitato «in modo strumentale e illegale il potere disciplinare» con «intento persecutorio» motivato da «invidia». Tolto il capitolo Conte, il resto delle indagini racconta il delirio di «un potere di controllo personale e sessuale», una «sopraffazione sistematica» che Bellomo pretendeva di esercitare con le ragazze incappate nella sua sfera di interesse. Lo faceva, scrive il gip Antonella Cafagna, creando «un legame elitario, modalità elettiva con cui si soggiogavano le vittime, ponendole in una condizione di dipendenza psicologica». Con quasi tutte lui ha avuto una relazione sentimentale (per lunghi periodi anche con diverse contemporaneamente). Ogni cosa, anche la più piccola, doveva passare per la sua approvazione. Era lui a decidere se e quando la ragazza poteva uscire di casa, e che cosa dovesse indossare. Obbligo di rispondergli sempre, abbandonando qualsiasi attività in corso. Divieto di rimanere in zone d'ombra senza linea telefonica. E davanti a una «violazione» il primo passo punitivo era la «reazione rivista»: pubblicare sul periodico della Scuola articoli diffamatori con dettagli personali e intimi della malcapitata. I passi successivi erano minacce di procedimenti disciplinari, di espulsione dai corsi, di avviare cause di risarcimento, di ostacolare studi e carriera. A una delle ragazze che aveva osato non rispondergli subito al telefono, per esempio, lui scrisse: «Ti sei rovinata vita e carriera». E il giorno dopo: «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici: ti chiedo perdono non lo farò mai più». Per concedere la sua approvazione a una borsista il Consigliere Bellomo imponeva l'osservazione di codici comportamentali, a volte scritti altre no. Il dress code, per esempio, disponeva il look secondo tre criteri: estremo, intermedio o classico. E a ciascuno dei criteri corrispondeva un tipo di gonna (molto corta, corta o sopra il ginocchio, morbida o stretta). Poi le camicette o i maglioni: con maniche, senza, scollatura ampia oppure no. E ancora: «Gonne o vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco». D'inverno «cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero)». Dopo una prima frequentazione le ragazze troncavano la relazione con Bellomo, o quantomeno ci provavano. E allora toccava all'amico Davide Nalin provare a ricontattarle, come toccava a lui fare da «sentinella», così dicono le carte, per controllare che tutte si attenessero ai codici del Consigliere, comprese le indicazioni sui fidanzati possibili e non, e l'obbligo di postare su Facebook soltanto fotografie gradite. Sempre suo il compito di «istruttoria» per accertare eventuali trasgressioni alle regole Bellomo: a volte lui stesso proponeva di presentare una «istanza di grazia», un mea culpa per dichiarare «di aver agito in preda a distorsioni emotive». Una di loro, a un'amica confidò di un «contratto di schiavitù sessuale» che Bellomo le avrebbe chiesto di sottoscrivere. Racconta l'amica ai magistrati: «Mi disse: "Tu non sai che cosa mi voleva far fare. Hai presente 50 sfumature di grigio ?". Io non l' avevo letto.

Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 10 luglio 2019. «Questa è la magistratura che sognavo da quando avevo 8 anni, quella che sta facendo giustizia». Rosa Calvi, pugliese, è stata la prima studentessa a denunciare quello che è stato definito «sistema Bellomo». Sull'arresto dell' ex giudice barese commenta: «Ti faceva credere che fosse onnipotente, invece rubava sogni. Era un abile manipolatore, non tutti purtroppo hanno la forza di resistere. Cercavo di dare una logica a quello che stavo leggendo, a quel contratto. Dissi a me stessa: non può essere quello che penso. Avevo 27 anni e di fronte a me c' era un consigliere di Stato».

Cosa c'era scritto?

«Si trattava di accettare alcuni obblighi pesanti, anche di restrizioni della libertà personale: obbedienza, fedeltà, riservatezza, reperibilità, il dress code. Inizialmente pensai fosse una prova: vuole vedere se firmo e, in quel caso, mi dice che non posso fare il giurista. Perché se scrivi "divieto di relazioni intime", è un diritto indisponibile e quel contratto è nullo. Iniziai a riflettere. Peraltro non avevo mai fatto domanda di borsa di studio perché, pur avendone i requisiti, erano scaduti i termini. Fu lui a scegliermi, insieme ad altre sei corsiste. Tutte belle ragazze».

E lei?

«Non ho firmato. La sera del colloquio, fece domande personali: io parlavo della mia formazione e lui mi chiedeva quanti fidanzati avessi avuto, le mie esperienze intime. Poi, con la scusa che avevo le occhiaie, si avvicinò e mi diede un bacio sulle labbra. Indietreggiai spaventata, volevo solo andare via. Lui spiegò che era un gesto d' affetto perché non dava baci sulle guance. Io risposi che dovevo andare a casa da mio fratello. E Bellomo mi disse che lui veniva prima di mio fratello».

Il periodo a scuola com'è stato?

«Mi disse che potevo seguire il corso ma che, avendo rifiutato, non avevo diritto a fargli domande a lezione. Diceva di poter fare tutto, anche accedere ai miei messaggi privati di Facebook. Poi mi mandò via, dicendo che non voleva una studentessa così e restituendomi i 2500 euro che avevo pagato. Da ottobre 2016 a gennaio 2017 è stato un incubo. Si arrabbiava se non rispondevo al telefono, mi chiedeva di tornare. Ho conservato tutti i messaggi. Aveva anche cambiato approccio: mi piaci, sei estroversa, ho bisogno di una persona così nella mia vita».

Poi ha deciso di denunciare.

«Non è stato facile, era sempre un consigliere di Stato e avevo paura. Peraltro non era mancata una minaccia velata: "tra 10 anni ti renderai conto dell' errore che hai fatto perché non farai progressi nella tua vita". Pensai che, così come poteva farmi vincere il concorso, poteva anche farmi perdere. E quell' anno non lo tentai neppure, ero confusa. Poi ho trovato il coraggio: se volevo diventare magistrato, dovevo essere a posto innanzitutto con la mia coscienza. Dopo il mio racconto, sono stata contattata da altre ragazze».

Tutto questo ha condizionato le sue scelte?

«A un certo punto mi sono messa in discussione come donna, mi dicevo che forse era colpa mia, che avevo dato un segnale sbagliato. Poi ho realizzato che era il suo modo di fare e che andava avanti da un decennio. A volte, in alcuni contesti, mi sono fatta condizionare al punto da indossare maglie accollate o cucire lo spacco del vestito. Oggi ho 29 anni e seguo un altro corso a Roma. Non gli avrei mai dato la soddisfazione di fermarmi».

Bellomo arrestato, il racconto di una delle studentesse: «Mi ha obbligata a un contratto di schiavitù sessuale». Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Virginia Piccolillo e Antonio Crispino su Corriere.it. «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici ‘ti chiedo perdono, non lo farò mai più’ ‘ Non ha il significato della sottomissione, ma della solennità. Con le forme rituali». Eccole una delle vessazioni inflitte alle aspiranti magistrato, dall’ex consigliere di Stato, Francesco Bellomo, da martedì agli arresti domiciliari, su richiesta del pm Roberto Rossi accolta dal gip di Bari, Antonella Cafagna. Nell’ordinanza di custodia cautelare sono molti gli sms e le mail che testimoniano il suo modo di agire «manipolativo» condotto - con la complicità del magistrato Davide Nalin - sulle borsiste del suo corso per future toghe. Una delle borsiste, confidandosi con la sorella, riferisce di aver firmato «un contratto di schiavitù sessuale» e di essere stata punita per aver violato una delle clausole. In questi casi si finiva in una rubrica sulla rivista della scuola dove si «pubblicavano dettagli intimi sulla vita privata» . La stessa ragazza, a un certo punto, dimostra di temere l’ex giudice e professore Bellomo al punto da «avere paura» al punto da «rinunciare alla borsa di studi. Sono terrorizzata dalla reazione... mi stanno facendo paura... non vogliono lasciarmi andare». Secondo il gip le tecniche usate dall’ex giudice del Consiglio di Stato si basavano su minacce di denigrazione o di rivelare dettagli intimi agli altri studenti. Un metodo che iniziava allettando le ragazze, poi umiliandole e infine sottomettendole psicologicamente e sessualmente. Utilizzando come un’arma la minaccia di far finire nei guai giudiziari chi si sottraeva. Il gip la chiama «singolare, indiscutibile serialità dei comportamenti criminosi descritti, accresciuta da un sicuro senso di impunità» e dalla convinzione che, facendo loro «temere che non avrebbero potuto coltivare con successo il ricorso» ad alcuna tutela della legge, anzi, “al contrario, avrebbero potuto subirla sol che avessero disatteso le prescrizioni imposte, le vittime si sarebbero indotte ad accettare supinamente ogni genere di vessazione inflitta». Al punto di dover ricorrere, alla fine della relazione, «a trattamenti di psicoterapia». «Con il progredire dell’attività in seno alla Scuola di Formazione - scrive ancora il gip - l’indagato ha semplicemente individuato un possibile ulteriore bacino cui attingere per la ricerca di legami sentimentali ed escogitato un sistema, quello incentrato sulle borse di studio, per imbrigliare la prescelta». Una modalità che, hanno riferito le ragazze al pm, riproduceva anche con chi non aveva partecipato al corso ma aspirava comunque a passare il difficile concorso in magistratura. È il caso di una ragazza, ora diventata gip, conosciuta su un sito di incontri che voleva troncare la relazione. Il 3.12.2006 Bellomo le scrive: «Nulla nella tua vita indica genio, eccezionalità, capacità straordinarie ..omissis.. Ho sempre pensato che una donna si qualifica per l’uomo che scegli di avere stabilmente accanto a sé. E il tuo uomo ti (s)qualifica. Inoltre non hai compiuto azioni od opere di particolare significato». Sette giorni dopo aggiunge: «omissis.. Dimenticavo. Il viaggio a Roma (pur rappresentando una delle tue ridicole affermazioni) ti avrebbe riservato un’umiliazione. Vedermi accanto ad una ragazza platealmente più bella (io ti trovavo bella perché ti amavo, lei lo è) e con un senso morale ed una dedizione infinitamente più elevate della tue. Lucrezia avrà 100. Tu 120, 68 meno di me». E due giorni dopo: «omissis.. E’ impossibile che abbia amato una come te. Una puttana di indole (e questo giudizio non l’ho mai rinnegato).. omissis.. Do ut des. Ti ho fatto passare gli scritti (il concorso non lo so, ho qualche dubbio ma penso che non sarai bocciata, Però in Calabria rischi di finirci)». Per costringerle a rimanere nello stato di sottomissione, secondo il gip, Bellomo usava anche la minaccia della denigrazione. Lo aveva già fatto: rivelando fatti intimi e mail private di una borsista sulla rivista del corso. Una ragazza, Veronica D.T. riferisce al pm Roberto Rossi: «Io avevo proprio paura di lui, devo dire la verità. …(OMISSIS)… Lo vedevo come una persona molto potente. …(OMISSIS)… c’era anche un’altra circostanza, cioè il fatto che questo avesse reso la vita impossibile a quella borsista …(OMISSIS)… lui aveva una relazione sentimentale con questa borsista, questa borsista deve aver fatto qualcosa per cui … che a lui non piaceva, e lì ha iniziato ad infangarla, cioè, ha iniziato proprio… Io mi domando come abbia fatto a vivere questa, cioè continuava a … a infangarla. Pubblicava le foto, pubblicava i messaggi, raccontava i dettagli intimi della loro vita». E aggiunge: «addirittura lui aveva aperto questo concorso interno alla rivista dicendo: “Chi mi dà una spiegazione del comportamento di questa ragazza secondo il metodo scientifico avrà accesso ai segreti industriali del corso». È il nucleo delle promesse-minacce di Bellomo: «Lí - conclude di nuovo noi pensammo: ‘Cosa sono questi segreti industriali?’ E l’unica cosa interessante che ci veniva era, appunto, le tracce».

Bari, arrestato l'ex giudice Bellomo: maltrattava studentesse e minaccio il premier Conte. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2019. L’ex consigliere di Stato, già indagato perché avrebbe imposto il dress code alle ragazze iscritte ai suoi corsi di preparazione ai concorsi in magistratura, è agli arresti domiciliari. I fatti risalgono a quando l’attuale premier Giuseppe Conte non era capo del governo, ma vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa. Secondo la Procura di Bari, tale azione di Bellomo fu un’implicita minaccia, “prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni”. E’ finito agli arresti domiciliari Francesco Bellomo, 49enne barese, consigliere di Stato destituito dopo che nel 2017 scoppiò lo scandalo della sua scuola di preparazione per il concorso in magistratura. Bellomo viene accusato non solo dei maltrattamenti e delle estorsioni nei confronti di quattro giovani borsiste e di estorsione aggravata ai danni di una ricercatrice della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata  “Diritto e scienza” di Bari a cui imponeva anche il “dress code”, fatti questi risalenti al settembre 2017, ma anche per le calunnie e la minacce espresse nei confronti del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. L’arresto giunge al termine di un’indagine della Procura di Bari coordinata dal procuratore aggiunto  dr. Roberto Rossi , con l’ordinanza firmata dalla dr.ssa Antonella Cafagna, Gip del Tribunale di Bari. Sono quattro le studentesse individuate come parti offese, per i reati di maltrattamenti e estorsione, alcune delle quali legate a Bellomo da relazioni sentimentali. Le indagini vennero avviate dalla Procura di  Piacenza a seguito della denuncia di una studentessa, e si allargò subito dopo a Bari, città d’origine del Bellomo e dove è presente una sede della scuola “Diritto e scienza”, tuttora in funzione. Nell’inchiesta barese si inserisce un nuovo filone giudiziario, che vede come parte lesa il prof. Giuseppe Conte attuale Presidente del Consiglio, in passato vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa, organo chiamato ad esercitare l’azione disciplinare nei confronti di Bellomo, subito dopo che erano emersi i primi illeciti a suo carico. Il prof. Giuseppe Conte che all’epoca dei fatti, non era ancora diventato  premier,  insieme alla collega Concetta Plantamura (componente dello stesso organismo) vennero entrambi accusati da Bellomo che sosteneva avessero commesso illeciti nella trattazione del giudizio a suo carico e poi fece notificare loro un atto di citazione per danni trascinandoli davanti al Tribunale civile di Bari “incolpandoli falsamente” per aver esercitato “in modo strumentale e illegale il potere disciplinare“, compiendo “deliberatamente e sistematicamente una attività di oppressione” nei suoi confronti, secondo Bellomo “mossa da un palese intento persecutorio, dipanatosi in un numero impressionante di violazioni procedurali e sostanziali, in dichiarazioni e comportamenti apertamente contrassegnate dal pregiudizio“. Alcuni giorni successivi alla notifica della citazione e nell’imminenza della seduta del Plenum  della giustizia amministrativa, per la discussione finale del procedimento disciplinare a suo carico, Bellomo aveva depositato anche una memoria chiedendo “l’annullamento in autotutela degli atti del giudizio disciplinare per vizio di procedura” ed il proprio “proscioglimento immediato per evitare ogni ulteriore aggravamento dei danni ingiusti già subiti“. Secondo la Procura di Bari, tale azione di Bellomo fu un’implicita minaccia, “prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni”  finalizzata a prospettare all’intero Consiglio il possibile esercizio di azioni civili nei confronti di Conte e Plantamura, come si legge nell’imputazione ” per turbarne l’attività nel procedimento disciplinare a suo carico ed impedire la loro partecipazione alla discussione finale, influenzandone la libertà di scelta e determinando la loro estensione, benché il CPGA avesse votato all’unanimità, ed in loro assenza, l’insussistenza di cause di astensione e ricusazione“. Il gip del Tribunale di Bari dr.ssa Antonella Cafagna che ha disposto l’arresto, dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, con concessione degli arresti domiciliari, nella sua ordinanza parla di “indole dell’indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso” analizzando quello che chiama “sistema Bellomo” nel quale “l’istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell’agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia”. Le vittime secondo “la concezione bellomiana dei rapporti interpersonali”  sarebbero state prima “isolate, allontanandole dalle amicizie”, e successivamente Francesco Bellomo avrebbe tentato una “manipolazione del pensiero se non addirittura di indottrinamento con successivo controllo mentale, mediante l’espediente di bollare come sbagliate le opinioni espresse o le scelte compiute dalla vittima, in modo da innescare un meccanismo di dipendenza da sé”. È proprio una delle ragazze sue vittime a definire il rapporto con Bellomo “come se si fosse impossessato della mia testa“. Una borsista della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, confidandosi con la sorella,  le raccontò di aver sottoscritto “un contratto di schiavitù sessuale”, mentre un’altra borsista sarebbe stata “punita” mediante la rivelazione di “dettagli intimi sulla sua vita privata” per aver violato secondo Bellomo, gli obblighi imposti dal contratto, finendo in una rubrica sulla rivista della Scuola “Diritto e scienza” . Con un’altra borsista invece avrebbe preteso che “si inginocchiasse e gli chiedesse perdono” per avere violato regole del contratto. Le borsiste della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, arrestato per maltrattamenti e estorsione, erano tenute ad “attenersi ad un dress code suddiviso in ‘classico‘ per gli eventi burocratici, intermedio per corsi e convegni ed estremo per eventi mondani e dovevano curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività’ al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società“. Questi sono alcuni passaggi contenuti del contratto imposto alle borsiste e riportati nell’ordinanza di arresto firmato  dal Gip del Tribunale di Bari dr.ssa Antonella Cafagna. L’abbigliamento “estremo” prevedeva “gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza“. Quello “intermedio” contemplava  l’uso di “gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche”; quello “classico”  prevedeva “gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati“. Il “dress code” previsto da Bellomo (che deve avere qualche problema…) imponeva anche “gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french”.

Da Il Fatto Quotidiano il 9 luglio 2019.  Umiliava le allieve che non assecondavano i suoi desiderata “anche attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali, e minacciandole di ritorsioni sul piano personale e professionale”. Controllava i loro like, i post sui social, imponeva loro di cancellare amicizie e fotografie. Di essere reperibili in qualsiasi momento. Di non sposarsi e di essergli fedeli per tutta la durata del “contratto/regolamento” che disciplinava i “doveri“, il “codice di condotta” ed il “dress code” del borsista. Sono i dettagli che emergono dall’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari notificata a Francesco Bellomo, ex giudice del Consiglio di Stato agli arresti domiciliari per maltrattamento ed estorsioni ai danni di alcune sue borsiste. Secondo quanto emerso dalle indagini, il magistrato ha instaurato con alcune allieve “rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali” e, “facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti”, avrebbe posto in essere “sistematiche condotte di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione consistite nel controllarne, anche nel timore che intrattenessero relazioni personali con altri uomini, le attività quotidiane, le relazioni personali e in genere le frequentazioni, anche attraverso il monitoraggio dei social network”, controllando foto e like ai loro post. Alle ragazze sarebbero stati imposti “la cancellazione di amicizie, di fotografie pubblicate”, “l’obbligo di immediata reperibilità“, il “divieto di avere rapporti con persone con un quoziente intellettivo inferiore ad uno standard da lui insindacabilmente stabilito”, l’obbligo di “indossare un determinato abbigliamento e di attenersi a determinati canoni di immagine, anche attraverso la pubblicazione sui social network di foto da lui scelte”. “Qualora il loro comportamento non corrispondesse ai suoi desiderata“, Bellomo le avrebbe “umiliate, offese e denigrate”, anche “attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali”. Le avrebbe anche minacciate “di ritorsioni sul piano personale e professionale” e di “azioni legali in sede civile e penale”. Le accuse nei confronti delle allieve – Stando alle indagini dei carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e dal sostituto Iolanda Daniela Chimienti, Bellomo, con “l’artifizio delle borse di studio offerte dalla società” che consentivano tra le altre cose la frequenza gratuita al corso e assistenza didattica individuale, “per selezionare ed avvicinare le allieve nei confronti delle quali nutriva interesse, anche al fine di esercitare nei loro confronti un potere di controllo personale e sessuale” si legge nell’imputazione, avrebbe fatto sottoscrivere un “contratto/regolamento”. A selezionare le donne tramite colloquio, sottoponendole al “test del fidanzato sfigato” sarebbe stato l’ex pm Nalin, incaricato anche di vigilare sul rispetto degli obblighi contrattuali, svolgere istruttorie in caso di violazioni e proporre sanzioni. La presunta estorsione sarebbe stata commessa nei confronti di un’altra corsista, costretta a rinunciare ad un lavoro da co-presentatrice in una emittente televisiva “in quanto incompatibile con l’immagine di aspirante magistrato” e “minacciando di revocarle la borsa di studio”. Nozze e fedeltà: divieti e obblighi del contratto – Alle ragazze, secondo quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, era imposto “il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa” e il contratto prevedeva per loro “una serie di obblighi e di divieti“, come la “fedeltà nei confronti del direttore scientifico” e “l’obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse”. Oltre a questo, c’era anche “un addestramento del borsista” e “attribuiva un potere di vigilanza e un potere disciplinare alla società in caso di violazione dei doveri, sanzionata con la "censura, la sospensione, la retrocessione, la decadenza", prevedendo la revoca della borsa di studio in caso di inosservanza dei doveri e l’irrinunciabilità della stessa una volta iniziata l’attività”. Secondo gli inquirenti, Bellomo avrebbe instaurato con le borsiste rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali. Nell’ambito di questo tipo di rapporti, “facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti, si sarebbe reso responsabile nei loro confronti di comportamenti sistematici di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione offendendone in tal modo il decoro e la dignità personale, limitandone la libertà di autodeterminazione e riducendole in uno stato di prostrazione e soggezione psicologica”. Dress code classico o estremo: i dettagli del contratto – Le ragazze dovevano “attenersi ad un dress code suddiviso in ‘classico’ per gli ‘eventi burocratici’, ‘intermedio’ per ‘corsi e convegni’ ed ‘estremo’ per ‘eventi mondani'” e dovevano “curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività‘ al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società”. Nei passaggi citati dal contratto e riportati nell’ordinanza di arresto l’abbigliamento definito “estremo” prevedeva “gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza”; quello “intermedio” “gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche; il “classico” “gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati”. Il dress code imponeva anche “gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french”.

Dress code alle corsiste, arrestato Bellomo. Minacciò Conte. La difesa: arresto immotivato. L'ex giudice barese del Consiglio di Stato è ai domiciliari. Vittima si rivolse a ex pm Carofiglio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2019. Una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari è stato notificata a Francesco Bellomo, ex giudice barese del Consiglio di Stato, docente e direttore scientifico dei corsi post-universitari per la preparazione al concorso in magistratura della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata Diritto e Scienza. Bellomo risponde dei reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice, alle quali aveva imposto anche un dress code, ed estorsione aggravata ai danni di un’altra corsista. L’ex giudice del Consiglio di Stato è indagato per i reati di calunnia e minaccia ai danni dell’attuale presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. L'accusa, contenuta nell’ordinanza di arresto per maltrattamenti ed estorsione nei confronti di cinque ex borsiste, risale al settembre 2017, quando Conte era vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa e presidente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo. L’ex magistrato aveva citato per danni dinanzi al Tribunale di Bari Conte e un’altra ex componente della commissione disciplinare, Concetta Plantamura, "incolpandoli falsamente» di aver esercitato «in modo strumentale e illegale il potere disciplinare», svolgendo "deliberatamente e sistematicamente» una «attività di oppressione» nei suoi confronti, «mossa - denunciava Bellomo - da un palese intento persecutorio, dipanatosi in un numero impressionante di violazioni procedurali e sostanziali, in dichiarazioni e comportamenti apertamente contrassegnate dal pregiudizio». Pochi giorni dopo la notifica della citazione e nell’imminenza della seduta del Plenum per la discussione finale del procedimento disciplinare a suo carico, Bellomo avrebbe depositato una memoria chiedendo «l'annullamento in autotutela degli atti del giudizio disciplinare per vizio di procedura» e il suo «proscioglimento immediato» per «evitare ogni ulteriore aggravamento dei danni ingiusti già subiti». Per la Procura di Bari, Bellomo avrebbe così «implicitamente prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni». Avrebbe quindi minacciato Conte e Plantamura «per turbarne l'attività nel procedimento disciplinare a suo carico - si legge nell’imputazione - e impedire la loro partecipazione alla discussione finale, influenzandone la libertà di scelta e determinando la loro estensione, benché il CPGA avesse votato all’unanimità, ed in loro assenza, l’insussistenza di cause di astensione e ricusazione».

ALLE BORSISTE OBBLIGO DI FEDELTA' - Ad alcune borsiste della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata Diritto e Scienza dell’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo era imposto «il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa». È uno dei particolari contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari notificata oggi a Bellomo nella sua casa di Bari per i reati di maltrattamenti ed estorsione. Alle ragazze era imposto un contratto che «imponeva una serie di obblighi e di divieti», come la «fedeltà nei confronti del direttore scientifico» e «l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse». Il contratto prevedeva anche "un addestramento del borsista» e «attribuiva un potere di vigilanza e un potere disciplinare alla società in caso di violazione dei doveri, sanzionata con la "censura, la sospensione, la retrocessione, la decadenza", prevedendo la revoca della borsa di studio in caso di inosservanza dei doveri e l’irrinunciabilità della stessa una volta iniziata l'attività» Le borsiste della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, oggi arrestato per maltrattamenti e estorsione, dovevano «attenersi ad un dress code suddiviso in 'classico' per gli 'eventi burocratici', 'intermedio' per 'corsi e convegni' ed 'estremo' per 'eventi mondani'» e dovevano «curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività' al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società». Sono alcuni passaggi del contratto imposto alle borsiste e riportati nell’ordinanza di arresto. L'abbigliamento definito «estremo» prevedeva «gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza"; quello «intermedio» «gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche; il «classico» «gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati». Il dress code imponeva anche «gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french».

GIP: MANIPOLAZIONE PSICOLOGICA DELLE VITTIME -  Il gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna che ha disposto l’arresto, con concessione dei domiciliari, dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, parla di «indole dell’indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso». Nell’ordinanza il giudice analizza quello che definisce «sistema Bellomo», nel quale «l'istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell’agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia». Secondo «la concezione bellomiana dei rapporti interpersonali», le vittime sarebbero state prima «isolate, allontanandole dalle amicizie», quindi Bellomo ne avrebbe tentato una «manipolazione del pensiero se non addirittura di indottrinamento» con successivo «controllo mentale, mediante l'espediente di bollare come sbagliate le opinioni espresse o le scelte compiute dalla vittima, in modo da innescare un meccanismo di dipendenza da sé». È anche una delle vittime a definire il rapporto con Bellomo "come se si fosse impossessato della mia testa».

UN CONTRATTO DI SCHIAVITU' SESSUALE - Confidandosi con la sorella, una borsista della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, disse di aver sottoscritto «un contratto di schiavitù sessuale». Un’altra borsista sarebbe stata «punita» per aver violato gli obblighi imposti dal contratto, finendo in una rubrica sulla rivista della Scuola con «dettagli intimi sulla sua vita privata». Mentre da un’altra ancora avrebbe preteso che "si inginocchiasse e gli chiedesse perdono» per avere violato regole del contratto. Sono alcuni dei particolari contenuti nell’ordinanza di arresto dell’ex giudice del Consiglio di Stato per i reati di maltrattamenti ed estorsione. La ragazza che parlava con sua sorella di schiavitù, si sfogava con un’altra corsista: «Ho rinunciato alla borsa ma sono terrorizzata dalla reazione», «mi stanno facendo paura», «non vogliono lasciarmi andare». Sentita dagli inquirenti della Procura di Piacenza, che aveva avviato un’altra indagine su Bellomo e i cui atti sono stati in parte trasmessi a Bari, la presunta vittima, spiegando il controllo che l’ex giudice aveva sui suoi social network, ha dichiarato di vergognarsi «delle foto che sono stata costretta mettere, mi facevo schifo da sola, mi sentivo messa in vendita». Bellomo l’avrebbe anche accusava di intrattenere relazioni con altri uomini sulla base di scambi di like su Facebook, definendola «scientificamente una prostituta». Dopo la pubblicazione sulla rivista della scuola dei dettagli intimi della borsista «punita» per aver violato gli obblighi imposti dal contratto, Bellomo avrebbe anche bandito un "concorso tra i corsisti lettori» con in palio l’iscrizione gratuita al corso dell’anno successivo «per chi avesse fornito la migliore spiegazione dei comportamenti della ragazza». In uno dei messaggi rivolti invece ad una ricercatrice della scuola «colpevole» di essere uscita di sera senza la sua autorizzazione, scriveva: «Non autorizzerò più uscite serali e mentre attendevo che ti facessi viva, mi sono fatto una lesione al pettorale, perché ho perso la concentrazione. Questo significa avere a fianco un animale. Perché tu sei così». «Gli animali non conoscono dispiacere - scriveva in un altro messaggio - La decisione di uscire ieri sera è l’ennesima riprova del tuo dna malato. Agisci come un selvaggio, ignorando le regole». Bellomo pretendeva «dedizione» come «l'obbligo di rispondere immediatamente alle sue telefonate e messaggi abbandonando qualsiasi attività, anche lavorativa, in cui fosse in quel momento impegnata». Lui doveva essere per lei una "assoluta priorità». All’indomani dell’ennesimo litigio, dopo le scuse della ragazza, lui avrebbe preteso che «si inginocchiasse e gli chiedesse perdono». «Non ha il significato della sottomissione - scriveva in un altro messaggio - ma della solennità. Con le forme rituali».

CONTROLLAVA I LIKE SU FACEBOOOK - L’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, agli arresti domiciliari da questa mattina a Bari per i reati di maltrattamenti ed estorsione, avrebbe instaurato con alcune borsiste «rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali» e, «facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti», avrebbe posto in essere «sistematiche condotte di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione consistite nel controllarne, anche nel timore che intrattenessero relazioni personali con altri uomini, le attività quotidiane, le relazioni personali e in genere le frequentazioni, anche attraverso il monitoraggio dei social network», controllando foto e like ai loro post. Alle ragazze sarebbero stati imposti «la cancellazione di amicizie, di fotografie pubblicate», «l'obbligo di immediata reperibilità», il «divieto di avere rapporti con persone con un quoziente intellettivo inferiore ad uno standard da lui insindacabilmente stabilito», l’obbligo di «indossare un determinato abbigliamento e di attenersi a determinati canoni di immagine, anche attraverso la pubblicazione sui social network di foto da lui scelte». «Qualora il loro comportamento non corrispondesse ai suoi desiderata», Bellomo le avrebbe «umiliate, offese e denigrate», anche «attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali». Le avrebbe anche minacciate «di ritorsioni sul piano personale e professionale» e di «azioni legali in sede civile e penale». 

UNA VITTIMA CHIESE AIUTO A CAROFIGLIO - L’ex pm di Bari Gianrico Carofiglio, poi dimessosi dalla magistratura per dedicarsi alla carriera di scrittore, sarebbe stato contattato da una presunta vittima dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo in quanto suo amico e, stando al racconto della donna, avrebbe poi informato Bellomo della cosa. La donna che riferisce l’episodio di Carofiglio non è tra le quattro presunte vittime dell’inchiesta barese. Il suo verbale è contenuto negli atti del procedimento aperto dalla Procura di Piacenza ma il gup di Bari ne riporta stralci per spiegare la personalità dell’indagato. La donna riferisce vicende risalenti agli anni 2006-2007: «Mi rivolsi spaventata al suo amico Gianrico Carofiglio, allora in servizio alla Procura di Bari, chiedendogli di intercedere e di riportare Francesco alla ragione; lui mi consigliò di rivolgermi a un penalista; poco dopo ricevetti una telefonata furente di Bellomo, che mi disse di essere stato contattato da Carofiglio, che gli diceva che io stavo prospettando fatti di violenza privata, e che la situazione per lui si stava facendo davvero brutta; mi urlava, e mi diceva di lasciar fuori Gianrico e chiunque altro, che avevo passato il segno, e che mi avrebbe scatenato addosso l'inimmaginabile». Carofiglio, dal canbto suo, nega di aver mai chiamato Bellomo. «Molti anni fa, credo nel 2006, una giovane donna chiese di essere ricevuta nel mio ufficio alla Procura di Bari, dove ho cessato di prestare servizio nel febbraio 2007. Mi disse che sapeva che il dottor Bellomo aveva fatto tirocinio con me anni prima e mi chiese un consiglio su una vicenda che riguardava entrambi. Si trattava di una storia confusa nella quale, astrattamente, si potevano configurare estremi di reati perseguibili a querela: lesioni, ingiurie e minacce. Le consigliai dunque di rivolgersi a un avvocato penalista con cui valutare la possibilità di sporgere querela. Escludo ovviamente di aver chiamato Bellomo per raccontargli di questo incontro».

LA DIFESA: BELLOMO NEGA, ARRESTO PER FATTI NOTI. «Il dottor Bellomo nega, nel modo più reciso, di aver mai posto in essere le condotte che gli vengono addebitate, peraltro sulla scorta di elementi acquisiti più di un anno fa e riferibili a fatti risalenti nel tempo». Lo dicono in una dichiarazione all’ANSA gli avvocati Gianluca D’Oria e Beniamino Migliucci, difensori di Bellomo precisando che non ci sono «i presupposti di 'attualità' e 'concretezzà che per legge devono qualificare il pericolo di reiterazione dei reati». «E men che meno - continuano - reputiamo condivisibile che tale 'pericolò possa fondarsi su un giudizio di prognosi che contempli l’astratta eventualità che il dottor Bellomo possa in futuro instaurare nuove relazioni sentimentali che potrebbero offrire occasione per reiterare i reati che gli vengono contestati». «Lo stupore è maggiore - dicono ancora i difensori - considerato che il dottor Bellomo ha sempre manifestato, sin dall’avvio dell’indagine penale (dicembre 2017), un atteggiamento collaborativo con l’autorità inquirente, rendendosi disponibile a confrontarsi con gli elementi in possesso della Procura di Bari e fornendo a più riprese proprie dichiarazioni spontanee, peraltro supportate da pertinente documentazione».

Bellomo, il genio destituito che istruisce le future toghe. Francesco Bellomo a Fiere di Roma dal 4 giugno tiene lezione a migliaia di ragazzi stanno affrontando il concorso per il reclutamento di 330 magistrati ordinari. Simona Musco il 7 giugno 2019 su Il Dubbio. Almeno un centinaio di persone stanno ammassate davanti ad un uomo snello, in giacca nera e maglia bianca, con dei fogli in mano. È Francesco Bellomo, ex magistrato del Consiglio di Stato, destituito per «aver leso il prestigio della magistratura». Non si trova in un posto qualunque, ma a Fiere di Roma, dove dal 4 giugno migliaia di ragazzi stanno affrontando il concorso per il reclutamento di 330 magistrati ordinari. Davanti a lui decine di teste lo ascoltano illustrare le tracce concorsuali. Una, dice chi ha sostenuto l’esame, l’ha anche azzeccata durante il corso che ancora tiene nella scuola di preparazione ai concorsi in magistratura, la “Diritto e Scienza”, con sede a Catania. Una scuola che è finita al centro dello scandalo che lo ha portato ad uscire dalla magistratura, circa un anno fa, dopo la denuncia del padre di una delle sue allieve. Secondo le quali Bellomo aveva imposto minigonne e tacco 12 alle studentesse, costrette, secondo l’accusa, a riferire sulle rispettive vite sessuali e con le quali, in alcuni casi, lo stesso ex magistrato avrebbe avuto rapporti. Che lui, però, nega. Quella scuola, oggi, è sua. E ha corsi non solo a Catania, ma anche a Bari, Roma, Milano ed on-line, tutti rigorosamente accreditati per la formazione forense. Lì, dunque, continua a tenere lezioni, senza, però, quel contratto che gli è costato caro. A riprendere la scena davanti le aule della Fiera di Roma si trova un giornalista del Corriere della Sera, che immortala anche quelli che non gradiscono la sua presenza, urlando dalle scalinate «Vergognati». Ma non solo contro lui, «Anche voi che lo state ad ascoltare». Bellomo, però, non si scompone. Non sente nemmeno gli insulti e dice di non doversi vergognare di nulla. «Io illustro lo svolgimento delle tracce concorsuali, ai miei allievi e a chiunque voglia sentirle», dice al giornalista. Che gli chiede conto del famoso contratto, secondo il quale, stando alle cronache, per non perdere le borse di studio le allieve avrebbero dovuto sottostare ad alcune regole, come divieto di matrimonio, obbligo di gonne corte, tacchi alti, trucco marcato. Pena l’esposizione in pubblico della vita personale della borsista inadempiente, durante le lezioni e negli articoli. «Il contratto che facevo firmare è assolutamente regolare – commenta Bellomo – ma è sospeso da un anno e mezzo». Non è pentito – «non mi posso pentire di cose che non sono scorrette» – e attende il giudizio del Tar, davanti al quale ha contestato la sanzione disciplinare. In attesa di quello, dunque, quel foglio di carta è in un cassetto. «Sarei uno stupido se non tenessi conto di quello che è stato deciso – spiega – ancorché io pensi che si sia trattato di un errore anche abbastanza serio». Dal 31 luglio dello scorso anno, quella scuola, di cui è direttore scientifico, diventa ufficialmente sua all’ 85 per cento, in cambio di una cifra giudicata irrisoria: circa 400 mila euro. Chi ha seguito le lezioni giura che di quei contratti, adesso, non se ne vede più l’ombra. Ma chi si trova lì a fare l’esame si lamenta. «È inopportuno che venga qui a fare proselitismo – dice una ragazza – Sanno tutti per cosa è diventato celebre». C’è però anche chi, pur contestando l’opportunità della sua presenza, gli riconosce il fatto di essere «un genio». Cosa della quale Bellomo stesso, nel curriculum pubblicato sul sito della sua scuola, non fa mistero. «Vincitore di cinque concorsi in magistratura, caso unico nella storia italiana», scrive, laureato con «110 e lode e plauso accademico» e un Qi di 188. Il suo ingresso in magistratura, rimarca, è stato accompagnato da «valutazioni di rilievo assoluto» : chi le ha effettuate ne ha sottolineato «la particolare brillantezza», la «eccezionale preparazione», il «grandissimo valore» e così via. Di quanto capitato nell’ultimo anno nessuna traccia. «Il contratto di borsa di studio valeva per i ragazzi e per le ragazze continua l’ex magistrato – Perché siete fissati con le ragazze? L’abbigliamento cui fate riferimento riguardava eventi mondani, come feste organizzate dalla società, dove è assolutamente ordinario un look di quel tipo. Poi c’erano delle esigenze promozionali, perché i borsisti e le borsiste svolgevano anche attività promozionale». Tutto normale, perché se è vero che «Un magistrato deve essere intelligente, preparato, neutrale», se cura anche la proprio immagine «tanto meglio per se stesso», perché «Ci si fa un’idea anche dall’immagine della persona». E la morale? «È un periodo storico in cui troppo spesso si richiama la morale. Ci sono saperi scientifici di maggior consistenza – conclude – Voi vi attaccate ossessivamente a questa parola».

Antonio Crispino per il “Corriere della sera” il 7 giugno 2019. Sono le 19 circa del 4 giugno. Dai padiglioni della Fiera di Roma escono gli studenti che hanno sostenuto il secondo scritto al concorso per diventare magistrati. Andando via, puntano gli occhi indignati su un gruppo di giovani, per lo più ragazze, riunito in semicerchio ad ascoltare Francesco Bellomo, l'ex toga del Consiglio di Stato destituito per «aver leso il prestigio della magistratura» con lo scandalo del dress code (minigonne e tacchi a spillo) richiesti alle allieve vincitrici di borsa di studio.

Bellomo, non le sembra inopportuna la sua presenza?

«Non mi è chiaro il concetto di inopportuno, me lo spieghi in italiano se ne è capace».

Gli insulti degli studenti li ha sentiti? (urlano «vergogna», «str....», «vergognatevi pure voi che lo ascoltate»)

«Non dica stupidaggini. Nessuno studente si è mai permesso di contestarmi».

Perché viene proprio qui?

«Ci vengo ogni volta che c'è una prova d'esame per illustrare lo schema di svolgimento delle tracce concorsuali ai miei allievi (è direttore della scuola di preparazione al concorso in magistratura Diritto e Scienza, ndr ) e a chiunque voglia sentirli. E venerdì, per l'ultima prova scritta, ritornerò».

Alle sue studentesse fa firmare ancora il contratto dove raccomanda di mettere minigonna e tacchi a spillo?

«No, è sospeso da un anno e mezzo, da quando mi hanno destituito. Ma era un contratto assolutamente regolare».

E allora perché non lo fa firmare più?

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