Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
L’AMBIENTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L'Ossessione del Mangiar bene. Il Senza non è sempre sinonimo di Sano.
L’Euro-Fregatura per il Made in Italy a tavola.
L’Unione fondata sulla lunghezza delle…
Addio foie gras.
L’Agro-fashion.
Non si piange sul Latte versato.
Ma cosa hai messo nel caffè?
Cos’è un mondo senza la Mortadella?
La Storia è un cocktail.
Il vino è passione.
La storia degli Spaghetti.
Festival da mangiare.
Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni.
Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare.
Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto.
Cosa mangeremo nei prossimi anni.
Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…”
Anche i cibi sani possono far male...a parte il Peperoncino, le Verdure e l’Aglio.
Il cibo può essere una medicina?
In campagna si muore di burocrazia.
Il Prezzo del pomodoro.
Il prezzo dell’Olio extra vergine, i conti proprio non tornano.
Una chimera chiamata sovranismo alimentare.
Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro.
L’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo.
La sinistra senza Nutella.
Le Bufale sulla carne.
Cosa si mangia? I regimi alimentari assurdi.
I Vegetariani sono sempre esistiti.
Chi vuol essere vegano!
La Guerra al Made in Italy.
I cibi contaminati.
“La porcata” di Parma.
Le problematiche degli allevamenti intensivi.
SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
Dove non osano le aquile.
La Parabola dell’Orso.
L’animale più pericoloso? La Zanzara.
Brigitte Bardot: la prima vera animalista.
Animali da Circo: Incolpevoli delle disgrazie.
Muto come un pesce.
La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo.
La Sardine.
Il polpo "umano".
Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi?
Gli animali 007.
Il “gatto-volpe”.
Il Ligre.
Non chiamatelo ciuco.
Varenne va in pensione.
Il Marketing degli animali.
La ricetta elettronica.
I Farmaci Veterinari.
Che orrore la corrida delle lacrime.
Gli animali che maltrattiamo.
Combattimenti tra cani.
I Cani vittime di poliziotti violenti ed assassini.
Perché i cani ci salutano quando arriviamo e mai quando partiamo?
Tale cane…tale padrone.
Morte da cani.
Gli amanti della caccia.
IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)
Le Allerte Meteo.
È il Paese delle frane.
Vivere sotto il vulcano.
Macerie e borghi spopolati.
Rigopiano, la tragedia dell'hotel si poteva evitare?
Il Terremoto delle Istituzioni.
L’Aquila non vola.
I furbetti del finanziamento per la ricostruzione.
Addio Tommy. Il Cane eroe.
Le tragedie italiane.
Gli sprechi sul terremoto.
Terremoto in Albania.
IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Farmaci: da una parte ci curano, dall’altra ammalano pesci, animali e piante.
Sabbia d’oro.
Tossico…ma non per tutti.
Gli ultimi scalatori di Uluru.
«Mondo ambientalista inquinato come le fogne».
Bruxelles, la rete delle lobby "green" del clima.
L’ambientalismo? È il nuovo socialismo.
Il catastrofismo ambientale? Una religione!
Ecologia. Il climate-change tra religione e politica.
L’utopia delle emissioni-zero.
L'uomo ha cominciato a modificare il clima ben 10.000 anni fa.
Come moriremo? Prevedere il futuro, ricordando il passato.
La natura batte i catastrofisti.
Disastri Ambientali. «Pago i faggi a prezzo pieno per far partire la rinascita dei boschi».
Gli animali di Chernobyl ci svelano quanto noi umani siamo insignificanti.
Così si leggono le nuvole. Quali portano pioggia e quali aria fredda?
Il clima (impazzito) brucia energia.
Se gli ambientalisti litigano sui "gas" emessi dalle mucche.
I sacrifici contro i cambiamenti climatici. Diventare Vegetariani-Vegani. Cambiare la nostra cultura e la nostra natura.
Lo Sport inquina?
Lo Smog uccide.
Fermare tutte le auto o aerei? Non ferma il CO2.
La Bufala delle Auto Elettriche per ricchi?
La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.
Rifiuti, ecoballe senza fine.
Si fa presto a dire plastic-free.
Perché nella guerra alla plastica l'Europa si è dimenticata dei bicchieri.
La "zarina" del Fai con la mania dei ruderi e di vezzeggiare il Pci.
Il Talebano dell’ecologia: Fulco Pratesi.
Shellenberger, l’ambientalista moderno.
Prima di Greta.
I Gretini.
Un coleottero di nome Greta.
Da Bill Gates a JLo: le star «ecologiste» che inquinano di più.
Non solo Greta.
L'anti-Greta.
Quelli che…non sono Gretini.
5G, rischi per la salute?
Terra dei fuochi e il processo all’Italia.
Ex Ilva e la condanna all’Italia.
La mappa degli inquinanti le nostre città.
Terre a Fuoco.
Chi gioca col fuoco.
In fumo l'ambientalismo grillino.
Xylella, tutte le colpe di scienziati e tecnici: “Falsi e negligenti”.
Lo smaltimento illecito del materiale nucleare.
Farmaci contaminati e contaminanti.
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· L'Ossessione del Mangiar bene. Il Senza non è sempre sinonimo di Sano.
Roberta Salvadori per corriere.it il 30 novembre 2019.
Il rischio ossessione. Invitare a cena un gruppo di amici è sempre più difficile: è diventata un’impresa fare contenti tutti, con un solo menu. C’è chi non mangia glutine, chi ce l’ha col colesterolo, guai al lattosio, alla larga dai grassi e così via. In pratica 74 italiani su 100 (sondaggio Istituto IXé) escludono qualche componente dalla propria alimentazione. Per qualcuno (in caso di allergie specifiche, gravi intolleranze, problemi dietetici), le limitazioni sono prescritte dal medico. Per altri invece si tratta di scelte spontanee, ritenute salutistiche da chi le adotta. Per pochi (ma in crescita in tutti i Paesi sviluppati), la scelta di mangiare senza… qualcosa, si potrebbe addirittura configurare una vera ossessione per il cibo sano, cioè quello ritenuto, a torto o a ragione, privo di elementi nocivi per l’uomo e per l’ambiente. Questo recente disturbo del comportamento alimentare ha già un nome: ortoressia, e che, secondo il ministero della Salute, in Italia interessa per il momento circa 300 mila persone. Però: «l’abitudine di escludere, dalla propria alimentazione questo o quello, senza che ci sia una reale indicazione medica, può portare a diete squilibrate, troppo povere di proteine, vitamine, oligoelementi», avverte Marco Silano, direttore del reparto Alimentazione, nutrizione e salute dell’istituto superiore di sanità. Il fatto è che, data la richiesta crescente, i banchi dei supermercati grondano di prodotti a cui è stato sottratto questo o quell’elemento. Facciamo dunque un piccolo slalom con l’aiuto degli specialisti, fra i «senza» più comuni.
Senza zucchero. Lo zucchero da tavola, o saccarosio (disaccaride formato da glucosio e fruttosio), si può trovare normalmente in molti prodotti confezionati, soprattutto in marmellate, bibite, biscotti ma anche in yogurt, cereali da prima colazione, succhi di frutta ecc. «La riduzione quotidiana di saccarosio è indicata per chi soffre di diabete, obesità, malattie cardiovascolari. Per gli altri, bisogna intendersi: fino al 10 per cento delle calorie quotidiane da zucchero da tavola è consentito per gli adulti», afferma Silano. Questo significa che su 1500 calorie al giorno, 150, pari a meno di 40 g al dì, sono permesse dai nutrizionisti. Quindi, violentare il proprio palato per negargli un po’ di dolcezza, in genere non è necessario. Nemmeno per dimagrire. Secondo lo specialista: «la sensibilità individuale allo zucchero può variare da persona a persona. Non tutti, diminuendo lo zucchero, riescono a dimagrire. La dieta deve essere personalizzata per funzionare». In ogni caso, chi opta per i prodotti sugar free, dovrebbe tenere d’occhio le etichette nutrizionali. La scritta in etichetta senza zucchero/i aggiunti, non esclude di per sé la presenza di zuccheri semplici nel prodotto alimentare (per esempio le marmellate, contengono pur sempre il fruttosio, naturalmente presente nella frutta). «Oltre a quello che non c’è, il consumatore dovrebbe sempre controllare sull’etichetta nutrizionale che cosa è stato introdotto in quell’alimento al posto dell’ingrediente mancante al fine di ottenere un prodotto finale ugualmente appetibile», avverte Marisa Porrini, direttore del Dipartimento di scienze per gli alimenti, nutrizione e ambiente, Università degli studi di Milano. «In pratica, se un prodotto è dolce, o contiene zuccheri o additivi dolcificanti», precisa l’esperta.
Senza lattosio. Il lattosio (costituito da glucosio e galattosio) è il classico zucchero del latte. Se ne trova soprattutto in formaggi molli, gelati, latti fermentati, panna ecc. «Chi non lo tollera, non può che cercare di evitarlo», ammette Silano. Secondo l’Efsa, l’intolleranza al lattosio nella dieta può infastidire 7 persone su 10. In genere non è assoluta ma i livelli possono essere molto vari. Prodotti industriali dichiarati senza lattosio sono, fra gli altri latti vegetali e bevande di cocco, mandorla, soia, riso; latte privato della lattasi, certi biscotti ecc. In ogni caso, occhio alle etichette. Per non contenere lattosio, un prodotto non deve riportare in etichetta, oltre al latte, nemmeno siero, caglio e sottoprodotti del latte. «Certo, la rinuncia a latte e latticini comporta anche la rinuncia a elementi come calcio, fosforo, importanti per le ossa fino a 25 anni di età, cioè fino a quando lo scheletro è in costruzione. Ma le persone adulte, dopo la crescita, se vogliono, possono farne a meno, senza particolari danni», spiega lo specialista.
Senza glutine. Viene dagli Stati Uniti la moda di mangiare cibi senza glutine, (la proteina del frumento formata da gliadina e glutenina) nella convinzione che questa scelta sia più salutare e aiuti a perdere peso ma in realtà non è cosi. «Sono solo i celiaci con diagnosi certa di celiachia, che devono obbligatoriamente togliere non solo il glutine ma anche frumento, orzo, farro dalla propria alimentazione», avverte Silano. «Per tutti gli altri, la rinuncia a pane, pasta ecc. significa privarsi di elementi importanti per la dieta: carboidrati complessi, proteine vegetali, fibre, sali, vitamine. Non solo. L’uso di prodotti gluten free può comportare anche qualche inconveniente per la linea. I prodotti senza glutine in commercio possono essere più ricchi di calorie, perché sono in genere addizionati di grassi, hanno un minore effetto saziante e un più alto indice glicemico, che comporta un maggiore aumento dello zucchero nel sangue dopo il loro consumo».
Senza colesterolo. «Chi ha problemi di colesterolo alto e quindi è a rischio di patologie cardiovascolari come l’infarto, deve stare attento a evitare non tanto al singolo prodotto, dichiarato senza colesterolo, quanto regolare la propria dieta nel suo complesso», osserva Andrea Ghiselli, nutrizionista, ricercatore del Crea (Centro Ricerca Alimenti e Nutrizione). Il fatto è, puntualizza lo specialista, che ben l’80 per cento del colesterolo che può intasare le nostre arterie, viene prodotto dal nostro stesso organismo. L’alimentazione quotidiana può influire solo sul restante 20 per cento. «E il modo migliore per tenerlo sotto controllo consiste nel mangiare soprattutto, verdura, cereali integrali e un po’ di frutta, secondo le classiche indicazioni della dieta mediterranea» conclude Ghiselli.
La questione additivi. Coloranti, addensanti, conservanti, ecc. Sono centinaia i composti chimici consentiti dalla legge, perché considerati sicuri per la salute, che l’industria può aggiungere nei prodotti alimentari perché non si deteriorino troppo presto, non ci intossichino e per migliorarne gusto e appetibilità. «Eppure, fra tutti i possibili senza, che troviamo sulle etichette, l’eliminazione degli additivi è particolarmente delicata», afferma Ernestina Casiraghi, docente di Tecnologie alimentari all’Università Statale di Milano. Il fatto è, spiega la specialista, che gli additivi possono essere indispensabili per la produzione di molti alimenti. Per esempio conservanti e antiossidanti garantiscono sicurezza e durata di conserve a base di carne e pesce. Meno necessari ma pur sempre importanti, gli aromatizzanti migliorano l’appetibilità dei prodotti. I coloranti ne migliorano l’estetica e così via. «Oggi l’industria alimentare tende a usare meno additivi chimici possibile», afferma Casiraghi. Ma chi vuole limitarne il consumo deve rassegnarsi a controllare le etichette nutrizionali senza affidarsi esclusivamente alle dichiarazioni sulle confezioni. È inutile scegliere, per esempio, un prodotto senza coloranti, se poi, quello stesso prodotto è pieno di aromi. La strategia migliore è mangiare prodotti freschi e poco elaborati.
· L’Euro-Fregatura per il Made in Italy a tavola.
Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2019. Dopo i trattati di libero scambio firmati dall'Unione europea con Canada e Giappone, già in funzione e quello con i Paesi del Mercosur - Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela, Bolivia Cile, Perù, Colombia ed Ecuador - si profila una nuova euro-fregatura per il made in Italy a tavola. Nelle stanze del potere a Bruxelles starebbe prendendo corpo un accordo sul nutri-score, l' etichetta nutrizionale a semaforo che con la scusa di avvertire i consumatori sulla presenza di grassi, zucchero e sale, attribuisce un giudizio di «pericolosità» del tutto arbitrario. Ai cibi viene attribuito un voto su una scala a 5 posizioni che va dal verde scuro al rosso intenso, passando per il verde pisello, il giallo e l' arancione. Non a caso questo sistema viene definito etichetta a semaforo. A lanciare l' allarme è stato l' altroieri Matteo Salvini, parlando dagli studi di Porta a porta. «C' è un' altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama nutri-score», spiega il leader della Lega, «un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come il prosciutto San Daniele o il Pecorino Romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. Una boiata pazzesca».
SEGRETEZZA. E la segretezza si spiegherebbe proprio con l' intento di evitare la levata di scudi dell'Italia. Il «no» al nutri-score è trasversale nel nostro Paese. Tutta la filiera agroalimentare, da Coldiretti fino a Federalimentare è fortemente contraria all' etichetta a semaforo perché boccerebbe i campioni del made in Italy promuovendo gli alimenti con un basso contenuto di grassi, sale e zucchero. Così se la Red Bull, nota bevanda energetica, prenderebbe un verde pieno, al Gorgonzola sarebbe attribuito l' arancione e al Parmigiano Reggiano il rosso. Il sistema, in realtà, utilizza due scale correlate per classificare la qualità dei prodotti: una cromatica divisa in cinque gradazioni dal verde al rosso e una alfabetica con lettere che vanno dalla A alla E. I prodotti vengono suddivisi in cinque categorie e il punteggio è determinato in base ai nutrienti che contengono. Fibre, proteine, frutta, verdura rientrano tra gli ingredienti giudicati «buoni» e ottengono un punteggio positivo. Altri ingredienti come grassi saturi, zucchero e sale influiscono negativamente e fanno scattare il rosso o l' arancione. E ha ragione Salvini a protestare. Con la scusa di favorire un' alimentazione sana, il nutri-score, in realtà, finirebbe per penalizzare le nostre eccellenze alimentari, dalle quali i consumatori sarebbero invitati a tenersi alla larga. Mentre molti cibi industriali sarebbero promossi a pieni voti. Fra l' altro, proprio in questi giorni il governo olandese ha annunciato l' intenzione di adottare l' etichetta a semaforo a partire dal 2021. Ad anticipare l' atto ufficiale, atteso prima della fine dell' anno è stato il ministro della Salute, Paul Blockhuis, anticipando su Twitter che l' etichetta a semaforo arriverà sugli scaffali nell' estate del 2021, dopo aver adattato il sistema di calcolo del Nutri-Score alle linee guida dietetiche olandesi. Ma l'Olanda non è sola. L'etichetta a semaforo è già stata introdotta in Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Svizzera, Germania. Pare destinato a finire in soffitta il sistema alternativo proposto dall' Italia, l' etichetta «a batteria» che attribuisce comunque un punteggio alla presenza di grassi saturi, sale e zucchero nei cibi, pesandoli però in base alla dose giornaliera consigliata nell' ambito di una dieta salutare, mentre il nutri-score valuta 100 grammi di prodotto, quando ad esempio, ben difficilmente si potrebbero assumere giornalmente 100 grammi di olio extravergine, che si prende comunque un giallo.
NUTRIZIONISTI. I nutrizionisti, non solo quelli italiani, si sono espressi a favore del nostro sistema di etichettatura che assicurerebbe, fra l' altro, un regime alimentare equilibrato, con apporti calorici, di proteine e di vegetali molto simili a quelli della dieta mediterranea a cui tutti gli organismi internazionali attribuiscono un peso rilevante per la longevità raggiunta dagli italiani. Ma la scelta dei Paesi che si stanno aggregando come sempre attorno all' asse Parigi-Berlino lascia poche speranze. Prima ancora che la Commissione Ue abbia analizzato la proposta italiana, la scelta è di fatto già compiuta e ci penalizzerà duramente. In compenso si avvicina la data di entrata in vigore del Regolamento Ue numero 775 del 2018, il 1° aprile del prossimo anno, quando decadranno tutte le norme sull' origine dell' ingrediente primario in etichetta introdotte in via sperimentale dal nostro Paese. Facendo ripiombare nell' anonimato alimenti quali burro, formaggi, yogurt, latte a lunga conservazione, pasta, riso e sughi a base di pomodoro. A meno che compaiano elementi come il tricolore che ne richiamino l' italianità i produttori potranno omettere ogni riferimento al Paese d' origine degli ingredienti. La Germania ringrazia sentitamente.
Emanuele Bonini per "lastampa.it" il 5 dicembre 2019. L'Aceto balsamico non è quello di Modena. Non solo quello. Il noto marchio del «made in Italy» ha valenza solo se associato al nome della città, altrimenti non è più prodotto di qualità certificata e non può essere protetto. Così ha stabilito la Corte di giustizia dell'Ue, che apre le porte del mercato ai concorrenti di tutto il mondo. Già, perché chiarendo che l’Igp (indicazione geografica protetta) è tutelata e tutelabile solo nella parte «geografica» della denominazione, si dice che chiunque potrà immettere in commercio il proprio aceto balsamico. In realtà i giudici di Lussemburgo esprimono il concetto in un altro modo, dicendo cioè che la protezione della Igp in questione «non si estende all'utilizzo dei termini individuali non geografici della stessa». Ma cambia poco. Nella pratica non si può contraffare il marchio «Aceto balsamico di Modena», ma non è contraffazione scrivere sulle boccette prodotte altrove «aceto balsamico» e basta. E’ la provenienza dall’area modenese a rendere specifico e caratteristico il prodotto registrato e protetto da Igp. Il resto non ha natura distintiva. Il termine «aceto» è un termine comune, mentre «balsamico» è un aggettivo comunemente impiegato per designare un aceto che si caratterizza per un gusto agrodolce. Niente da fare, dunque. L’aceto balsamico non è solo quello di Modena, dunque. A ciascuno il proprio, dunque. Ma solo quello di Modena è sinonimo di made in Italy. A proposito di eccellenze italiane: la Corte UE rileva che i termini comuni non tutelabili in quanto tali compaiono nelle Dop (denominazioni di origine protetta) registrate «Aceto balsamico tradizionale di Modena» e «Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia». Due diciture che non pregiudicano la protezione dell’Igp modenese.
Nuova mina sul governo: il dossier segreto Ue letale per il Made in Italy. L'Europa vuole etichette che promuovono la Coca Cola e bocciano insaccati e formaggi. Giuseppe Marino, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. La dieta più sana secondo l'Unione europea: Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano. Ma mentre l'Unione europea aveva addirittura avviato una procedura di infrazione contro il sistema a semaforo degli inglesi, quello francese, adottato furbescamente come sperimentale, non ha suscitato le ire dell'Ue. Al contrario: la Dg Sante (ovvero la direzione generale Salute e sicurezza del cibo), poco prima che la Commissione Juncker lasciasse il posto, ha prodotto un'analisi riservata che valuta positivamente i sistemi a colori per i cibi. Non è ancora un endorsement per il sistema francese, che nel frattempo ha preso piede anche in altri Paesi, vedi Spagna e Belgio. Ma di certo è la base per una futura legislazione europea che, a fronte del fatto che il sistema sta facendo proseliti in diversi Paesi dell'Unione, potrebbe raccomandarne l'adozione a tutta l'Ue pur di armonizzare le etichette. Il documento preoccupa talmente la Lega che Matteo Salvini ha denunciato il rischio a Porta a porta: «C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella sul bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca». Nulla è deciso e il governo italiano sta presentando un sistema alternativo di classificazione, ma potrebbe comunque essere tardi: il sistema dei colori banalizza la questione e proprio per questo è efficace nella comunicazione. A essere preoccupato non è il solo Salvini. «Si rischia di sostenere, con la semplificazione, modelli alimentari sbagliati che mettono in pericolo non solo la salute dei cittadini ma anche il sistema produttivo di qualità del made in Italy», dice il presidente di Coldiretti Ettore Prandini. E per Federalimentare «nutri-score è peggio dei dazi».
Salvini: "Nella Nutella nocciole turche. Preferisco mangiare italiano". Salvini in un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Angelo Scarano, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. "No signora, non ho freddo...sto bene. Poi mangio pane e salame e due sardine e sto ancora meglio...". Scherza Matteo Salvini a Ravenna, quando una simpatizzante sotto il palco gli chiede se non ha freddo. Il leader della Lega però torna serio quando gli ricordano di mangiare la Nutella. "La Nutella? Ma lo sa signora che ho cambiato? Perché ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". E proprio oggi è arrivato un nuovo schiaffo all'Italia da parte della Ue. Uno schiaffo che minaccia direttamente il Made in Italy. "Il nostro cibo fa male": questo il messaggio contenuto nel dossier segreto dell'Ue, secondo cui la dieta più sana è Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Come ha spiegato Giuseppe Marino sul Giornale, "vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano". Sul tema Salvini aveva dichiarato: "C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama Nutriscore. Un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca".
Salvini: "Nella Nutella nocciole turche. Preferisco mangiare italiano". Salvini in un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Angelo Scarano, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. "No signora, non ho freddo...sto bene. Poi mangio pane e salame e due sardine e sto ancora meglio...". Scherza Matteo Salvini a Ravenna, quando una simpatizzante sotto il palco gli chiede se non ha freddo. Il leader della Lega però torna serio quando gli ricordano di mangiare la Nutella. "La Nutella? Ma lo sa signora che ho cambiato? Perché ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". E proprio oggi è arrivato un nuovo schiaffo all'Italia da parte della Ue. Uno schiaffo che minaccia direttamente il Made in Italy. "Il nostro cibo fa male": questo il messaggio contenuto nel dossier segreto dell'Ue, secondo cui la dieta più sana è Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Come ha spiegato Giuseppe Marino sul Giornale, "vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano". Sul tema Salvini aveva dichiarato: "C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama Nutriscore. Un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca".
Fiorella Mannoia ironizza su Salvini: "Anche le nocciole sono migratorie". I social si scatenano: "Salvini non mangia Nutella perché contiene nocciole turche? Pensate quando scoprirà che l'Italia non produce la canna da zucchero per il rum". Luca Sablone, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Tutto si poteva pensare tranne che pure la Natura avrebbe rappresentato un fronte di duro scontro nella politica italiana. Tutto è partito da un'affermazione di Matteo Salvini durante un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Sulla questione è intervenuta senza troppe parole e in maniera ironica Fiorella Mannoia. La cantante, sul proprio profilo Twitter, ha scritto: "Anche le nocciole sono migratorie". Più duro l'intervento di Matteo Renzi, che ha criticato la caduta di stile da parte del leader della Lega: "Nei giorni di Ilva, Alitalia, legge di bilancio, summit Nato il senatore Matteo Salvini attacca la Nutella. La Nutella, sì, la Nutella. Dice che così sembra più vicino al popolo. E io ingenuo che insisto a voler parlare di cantieri, tasse, Europa". Sui social non sono mancati i commenti ironici. "Salvini ha deciso di non mangiare più la Nutella perché contiene nocciole turche, da oggi in poi solo Pisella, fatta con verdissimi piselli padani", scrive un utente. Sulla vicenda è intervenuta anche la pagina satirica Vujadin Boskov ispirata all'ex allenatore della Roma e della Sampdoria: "Salvini ha detto che non va più da meccanico perchè visto che lui usa chiave inglese invece di quella italiana". C'è chi ha voluto ricordare i giorni d'estate trascorsi dal segretario federale del Carroccio a Milano Marittima, che aveva scaturito le polemiche sul mojito: "Pensate al dramma umano quando Capitan Mojito scoprirà che l'Italia non produce la canna da zucchero per il rum".
Sinistra contro Salvini per la Nutella: “Danneggia il made in Italy”. Salvini attacca ancora la Nutella e lancia un appello alla Ferrero: "Comprate prodotti italiani". Il Pd: "È un irresponsabile, danneggia il made in Italy". Federico Giuliani, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. La confessione di Matteo Salvini di non mangiare più Nutella perché è fatta con "nocciole turche" ha provocato un vero e proprio terremoto politico.
"Preferisco mangiare italiano". Giovedì scorso, quando a Ravenna il leader leghista a margine di un comizio aveva spiegato a una signora di “mangiare italiano” per “aiutare gli agricoltori italiani”, lasciando intendere che nella sua dieta non c’era più spazio per la Nutella, nessuno si aspettava di assistere a un simile terremoto. E invece Salvini ha preso sul serio la "battaglia" contro la crema spalmabile alle nocciole di casa Ferrero, tanto che, parlando in diretta Facebook, l'ex ministro dell'Interno si è rivolto direttamente all’azienda dolciaria di Alba. Il segretario del Carroccio ha lanciato un appello in cui ha chiesto a Ferrero di comprare prodotti italiani: "Signori Ferrero comprate zucchero italiano, nocciole italiane, latte italiano. Posso chiedere alle aziende che hanno tanti appassionati clienti in Italia di comprare prodotti italiani?”.
L'affondo di Renzi. Le parole di Salvini hanno scatenato un putiferio. Tante sono le voci di coloro che hanno risposto per le rime al segretario del Carroccio, a cominciare da Matteo Renzi. Il fondatore di Italia Viva ha colto l'occasione per contrapporre la polemica sulla Nutella scatenata dal segretario del Carroccio alle altre problematiche italiane: “Nei giorni di Ilva, Alitalia, legge di bilancio, summit Nato, il senatore Matteo Salvini attacca la Nutella. La Nutella, sì, la Nutella. Dice che così sembra più vicino al popolo. E io ingenuo che insisto a voler parlare di cantieri, tasse, Europa”.
Le altre reazioni. Il viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni, del Movimento 5 Stelle, si è lanciato in un’invettiva ancora più dura contro quanto dichiarato da Salvini. Il post pubblicato su Facebook da Buffagni è emblematico: “Ormai 'Capitan bacionì è passato dall'essere alla frutta direttamente al dolce. Il suo attacco a uno dei prodotti italiani più conosciuti e venduti al mondo, la Nutella, ne è l'ennesima prova". Non è poi mancata la strenua difesa dell'azienda piemontese, difesa a spada tratta da Buffagni: "Ferrero è un'azienda leader in Italia che dà lavoro a migliaia di dipendenti, il 40% donne, e si distingue nel panorama del Paese per le sue politiche di welfare aziendale". Il fatto che Ferrero importi nocciole dalla Turchia non è un problema in quanto "un quarto delle nocciole utilizzate" per fare la Nutella "proviene dall'Italia". Infine, l'ultimo affondo contro l'ex alleato di governo: "Ormai più che il politico Salvini sembra fare l'influencer. Ma anche per fare quest'attività bisognerebbe essere bravi e preparati". Per il Pd, invece, Salvini è un “irresponsabile” che “danneggia il made in Italy”. Il vice capogruppo dei dem alla Camera, Chiara Garibaudo, ha consigliato al leader leghista di non attaccare Nutella perché con le sue parole il segretario del Carroccio potrebbe mettere in pericolo posti di lavoro e danneggiare la reputazione di un'azienda e del suo prodotto, considerato "un biglietto da visita per l'Italia". Anche Osvaldo Napoli, del direttivo di Forza Italia alla Camera, ha puntato il dito contro le parole di Salvini: “Se tutti sapessero, non solo Salvini, che l'Italia non è in grado di produrre la quantità di nocciole necessarie alla Ferrero per produrre l'ineguagliabile Nutella oggi la politica si occuperebbe di cose molto più serie e urgenti. Invece il demone della propaganda elettorale riesce a fare danni terribili, anche preterintenzionali". Prova a spegnere l’incendio il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. Queste le sue parole ai microfoni di Rainews: “La dichiarazione di Salvini non era sicuramente un attacco alla Nutella ma legata alla follia di Bruxelles di mettere un semaforo per dire i cibi che fanno bene e quelli che fanno male". Nonostante questo, Cirio ha spiegato come "la Ferrero consuma il 40% delle nocciole del mondo quindi sarebbe difficile che potesse usare solo le nocciole italiane perché le finirebbe in una settimana".
L'autogol di Salvini sulla Nutella: senza nocciole turche, non si può fare. Ankara è la leader indiscussa della produzione globale: dalla Turchia arriva il 70% della materia prima. L'Italia è seconda, ma si ferma al 14%. Mentre la Ferrero assorbe il 20% delle nocciole di tutto il mondo: attingere all'estero è necessario. Alba ha anche lanciato un progetto di filiera per far crescere i frutti tricolori. Ettore Livini il 06 Dicembre 2019 su La Repubblica. Niente nocciole turche, niente Nutella. La guerra autarchica di Matteo Salvini contro l'invasione della materia prima straniera nelle creme spalmabili made in Italy ha un difetto all'origine: il nostro paese produce molti meno frutti di quelli di cui ha bisogno la sola Ferrero (una delle ultime multinazionali tricolori sopravvissute allo shopping estero) per la sua produzione. I numeri parlano da soli: la penisola ha prodotto nella campagna 2017/2018 circa 125mila tonnellate di nocciole, pari al 14% circa del totale mondiale. La società di Alba, dicono stime di settore, consuma più del 20% del raccolto globale. Ragione per cui è costretta a comprare parte del suo fabbisogno oltre frontiera e ha lanciato un progetto di filiere destinato ad aumentare del 30%, entro il 2025, la coltivazione nel nostro paese. Il numero uno indiscusso del settore è la Turchia - entrata non a caso nel mirino del leader della Lega - cui fa capo oggi circa il 70% della produzione mondiale. Una leadership che Recep Tayyip Erdogan ha intenzione di consolidare grazie all'accordo di sviluppo e cooperazione a tre appena siglato con Georgia e Azerbaijan, i due astri nascenti che stanno scalando rapidamente le gerarchie del mercato e sono vicine al sorpasso degli Stati Uniti che occupano oggi il terzo gradino del podio alle spalle dell'Italia. La produzione in Italia è circoscritta per ora a quattro regioni: il Lazio mette sul mercato circa 45mila tonnellate di nocciole l'anno, quasi tutte in arrivo dalla provincia di Viterbo, segue la Campania con 39mila (metà da Avellino e dintorni), il Piemonte con 20mila e poi la Sicilia. Troppo poco per garantire al paese l'autosufficienza. La Ferrero - alla luce anche delle fibrillazioni geopolitiche nell'area turca e caucasica e delle oscillazioni dei raccolti legati alle variabili climatiche - ha deciso lo scorso anno di varare il Progetto Nocciola Italia. Obiettivo: aumentare del 30% la produzione nel nostro paese in cinque anni, portando da 70mila a 90mila gli ettari coltivati. Il piano prevede una sorta di censimento dei terreni più vocati alla coltivazione assieme all'Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) per allargare ad altre aree la piantumazione dei nuovi noccioleti. La società piemontese si è impegnata a firmare accordi di filiera a lungo termine con le singole aziende agricole, garantendo una consulenza nella scelta delle piante in vivaio, la formazione costante e l'impegno a comprare il 75% della produzione fino al 2037 a prezzi che prevedono un ritocco all'insù rispetto alla media di mercato e premi legati alla qualità del prodotto consegnato.
· L’Unione fondata sulla lunghezza delle…
Stefano Filippi per “la Verità” il 31 ottobre 2019. Sapevamo che l' Europa è un'Unione fondata sulla lunghezza delle banane (al massimo 14,27 centimetri) e sulla curvatura del cetriolo: 10 millimetri ogni 10 centimetri di lunghezza per un prodotto di prima qualità. Ora però dobbiamo aggiungere un terzo pilastro all' edificio comunitario, cioè la lunghezza delle vongole. Venticinque millimetri, non uno di meno: è la misura aurea delle valve stabilita da un regolamento di Strasburgo. Peccato che quelle pescate in Adriatico non possano raggiungere una lunghezza superiore ai 22 millimetri. Peccato anche che 8 «poveracce» comunitarie su 10 vengano proprio dall' Italia. Ognuno ha la sua specialità: dalla Francia arriva l' 86% delle ostriche, dalla Spagna il 45% delle cozze e dall' Adriatico l' 80% delle vongole. Quei 3 millimetri mettono in ginocchio un prodotto tipico italiano. Questa delle mini vongole condannate all' estinzione è l' ennesima storia di euroburocrazia dannosa. È la prova dell' incapacità del colosso comunitario di piegarsi sul dettaglio e valorizzare la diversità. Tutto nell' Ue dev' essere standard, omologato ai voleri di chi guarda solo a settentrione e considera il Mediterraneo un bacino minore rispetto al Baltico o al Mare del Nord. E se protesti sei uno scocciatore, non un cultore della biodiversità e della sostenibilità, parole che oggi vanno di gran moda ovunque, fuorché nei sordi palazzi del potere europeo. Quando il regolamento fu pubblicato, nel 2015, l' Italia ebbe la forza soltanto di chiedere una deroga, non di bloccare o fare riscrivere il testo. Ci fu concessa una deroga di 36 mesi. Uno strappo carico di commiserazione: i soloni di Bruxelles non amano essere contraddetti. In questi tre anni dovevamo metterci in riga, oppure produrre argomenti in difesa della piccola vongola nostrana. Fior di consorzi tutelano vini e formaggi dagli innumerevoli tentativi di imitazione sparsi nel mondo. Per la minuscola Venus gallina si è messo in campo un pezzo da 90, nientemeno che il Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo gli studi a senso unico dell' Unione, se una vongola non raggiunge i 25 millimetri non è in grado di riprodursi. Raccogliere quelle di taglia inferiore significa, alla lunga, depauperare la specie. Il Cnr ha invece certificato le elevate qualità della vongola nostrana: per esempio, le conchiglie che si pescano lungo la riviera veneta, romagnola e anche più in giù sarebbero già pronte quando raggiungono i 15-16 millimetri, e lasciarle crescere fino a superare i 22 significa condannarle a morte. Per i fondali marini, la pesca delle vongole piccole è più sostenibile perché bastano meno passate delle reti a strascico. L' Adriatico è un ecosistema tutto particolare, con fondali bassi e sabbiosi, dove i pescatori hanno un' attività completamente diversa dai loro colleghi dei mari nordici. Per una volta, l' Italia ha fatto il suo dovere. Ha fornito le ragioni scientifiche e ambientali per le quali la normativa europea dovrebbe essere modificata. Ma il regolamento è rimasto tale e quale. Quei 3 millimetri non si toccano e alla fine del 2019 scade la delega triennale generosamente concessa da Bruxelles. In previsione della ghigliottina, l' europarlamentare leghista Rosanna Conte, componente della Commissione pesca, veneziana di Caorle e quindi sensibile alle preoccupazioni dei vongolari, ha presentato una nuova richiesta di deroga biennale.
Con l' assemblea di Strasburgo appena rieletta, non c' era il tempo di fare altro. La Commissione pesca si è riunita. La discussione è stata una battaglia. «Dopo ore di dibattito», dice Conte, «il presidente è intervenuto chiedendomi come mai avessi così a cuore una conchiglia. Non sapeva neppure che la vongola è un mollusco. Mi veniva da piangere. Si è scusato». Per la cronaca, il presidente della Commissione pesca è un inglese, si chiama Chris Davies, è un liberal democratico esperto di questioni ambientali. La Conte È stata ascoltata a metà perché la sua proposta è stata dimezzata. Proroga di un anno, fino a tutto il 2020: meglio che niente. La decisione, però, non è ancora stata presa dalla Commissione pesca. Il 28 agosto scorso sono stati concessi due mesi di tempo ai componenti per esaminare le carte, chiedere approfondimenti e sollevare obiezioni. Il che è puntualmente successo: gli spagnoli si sono messi in mezzo. Un po' per ragioni di concorrenza commerciale dei pescatori dell' Andalusia, un po' per difendere le grandi compagnie di produzione ittica, un po' perché i sudditi di re Felipe sono in campagna elettorale più spesso di noi, fatto sta che i commissari iberici hanno chiesto e ottenuto altri due mesi per valutare se opporsi alle ragioni dell' Italia. Le vongole valgono oltre un quinto dell' acquacoltura europea, 1,1 miliardi di euro su quasi 5 miliardi, una nicchia in crescita continua che nell' Ue dà lavoro a 73.000 persone. Dunque, il 28 ottobre scadeva il termine entro il quale porre questioni e votare sulla richiesta italiana di proroga. Ora la scadenza slitta al 28 dicembre. «Sono ragionevolmente fiduciosa», sospira Rosanna Conte, «ma la firma non c' è ancora. I nostri pescatori hanno già fatto moltissimo, hanno ridotto le quantità prelevate e i periodi di pesca. Il mare è la loro azienda, non hanno interesse a danneggiarlo». Il problema è che tra un anno saremo daccapo. «I governi di Italia e Spagna devono sedersi a un tavolo e trovare un' armonizzazione sulla taglia delle vongole», dice Vadis Paesanti, vicepresidente di Confcooperative Fedagripesca Emilia Romagna. Ma in Italia abbiamo Giuseppi Conte e in Spagna per ora non c' è nessuno. E quei 3 millimetri di euroburocrazia resteranno una distanza incolmabile.
· Addio foie gras.
Da ilmessaggero.it l'1 novembre 2019. Un piatto di foie gras a New York costa mediatamente 30 dollari al cliente. Da ieri, molto di più rischia di costare al ristoratore che lo servirà: fino a mille dollari (2mila in caso di recidiva) e perfino un anno di carcere. Il consiglio comunale della Grande Mela ha infatti messo fuori legge il ricercato piatto di origine francese. Su 48 votanti in 42 hanno approvato il pacchetto di provvedimenti sul benessere degli animali che vieta anche la cattura di uccelli selvatici e aggiunge restrizioni alle carrozze trainate da cavalli. È la vittoria degli animalisti che da sempre contestano l'alimentazione ipercalorica forzata di anatre e oche. Più è grasso il fegato dei volatili (la traduzione letterale è proprio fegato grasso) più è gradito dagli appassionati, tanto da spingere gli allevatori a ingozzare le oche di mangime conficcando un tubo in bocca per due-tre settimane. La tecnica si chiama gavage ed è estremamente dolorosa per l'animale. Una vera tortura, alla quale sono sottoposti ogni anno circa 80 milioni di oche. New York non è la prima città a vietare il commercio e il consumo di foie gras. Nel 2006 lo aveva fatto Chicago, ma poi due anni dopo il divieto era stato rimosso. Nel 2012 è stata la volta dell'intera California, ma nel 2015 anche in questo caso il divieto era stato poi rimosso dalla decisione della Corte d'appello federale. La Corte Suprema in gennaio aveva deciso invece di non intervenire nella disputa. Entro tre anni, per entrare in vigore, l'amministrazione del sindaco Bill de Blasio dovrà varare le norme attuative, ma - secondo il Times di ieri sera l'intenzione è di far scadere la legge. Puntualmente sono riesplose le polemiche. Il primo a farsi sentire è stato lo chef più famoso a New York nella preparazione di piatti col fegato d'oca. «Sarà un duro colpo per noi», ha detto Ken Oringer che nel suo ristorante di tapas Chelsea Toro, prepara piatti come i torchies di foie gras con biscotti al latte e sandwich di foie gras katsu. «I commensali vogliono mangiare qualcosa di diverso, qualcosa di delizioso», dice, e il foie gras lo fornisce. In Italia sono ormai più di 10mila i supermercati italiani che hanno tolto il foie gras dagli scaffali. Ma resta una chicca a cui i francesi non rinunciano mai. Il mese scorso alla cena di Stato offerta dal premier Conte al presidente francese Macron il foie gras è stato servito con una emulsione di oli e aceti diversi.
· L’Agro-fashion.
DOPO L'ECO-CHIC C'È L'AGRO-FASHION. Mariangela Latella per ''Italia Oggi'' il 24 settembre 2019. Dopo il boom degli agriturismi, la nuova frontiera dell' agricoltura è l' agri-atelier. Un connubio perfetto tra filiera agricola e moda Made in Italy aggiornato alla versione 4.0. Quella eco-friendly, che promuove non solo la diffusione di tessuti vegetali come cotone, lino, seta o canapa, ma soprattutto le tinture 100% «green» ricavate, cioè, da prodotti ortofrutticoli, fiori o erbe. È questo il progetto della eco-stilista Eleonora Riccio, che ha appena costituito una start-up e un brand di abbigliamento 100% eco-friendly a Roma, dove usa solo tessuti e tinte naturali per la realizzazione delle sue collezioni che spaziano dal prêt-à-porter all' haute couture con un unico filo conduttore: la ricerca spasmodica di prodotti naturali, come gli scarti ortofrutticoli (la cipolla, ad esempio, o i carciofi), per creare i colori con cui decorare i suoi vestiti. Trentotto anni, una laurea all' Accademia di costume e moda di Roma. Dopo i primi lavori presso le maison Ferrè e Ferragamo, Eleonora Riccio si mette in proprio, aprendo un laboratorio nel quartiere romano di Monte verde, dove tinge i tessuti di sua fabbricazione, con la tecnica di co-printing, immergendoli in pentoloni dove il materiale vegetale viene messo a macerare. Una tecnica tanto vecchia quanto poco diffusa sul mercato, che, però, in poco tempo sta ottenendo riscontri dalla filiera produttiva, che, di fatto, le ruota attorno: produttori ortofrutticoli, aziende erboristiche, ecc. Una di queste è Aboca; già conquistata dalla start-up della giovane eco-stylist, vende i suoi foulard green realizzati con le erbe officinali esposte al museo di Aboca a San Sepolcro. «Mi sono accorta», spiega la Riccio a ItaliaOggi, «che il mercato aveva un gap importante: i grandi brand non hanno collezioni green con tinture naturali. Così ho aperto un laboratorio a Monte Verde, nel centro di Roma, dove tingo i tessuti con infusioni di melograno, cipolla, carciofi, robbia o ginestra. Ora sto cercando un atelier dove proporre i miei capi con degustazioni dei cibi da cui sono ricavati in un percorso che tocchi tutti e cinque i sensi». Ci vogliono le bucce di circa tre melagrane per tingere di ocra uno dei suoi foulard veduti al Museo delle Erbe Aboca, oppure 10 foglie di castagno per un foulard marrone. Ed i prezzi sono per tutti i gusti: dalle t-shirt a 50-70 euro fino ai capi haute-couture da 4 mila euro. Oggi sono circa un centinaio le aziende italiane pioniere di questa filiera inedita, che mette insieme agricoltura e fashion e che è ancora tutta da costruire; soprattutto perché le blasonate maison della moda stanno iniziando adesso a guardare con crescente interesse al settore. Certamente di nicchia, ma con una domanda in costante crescita: il 78% degli italiani ha dichiarato di essere disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly, ma in Svezia si trovano consumatori ancora più attenti, disposti a pagare fino al 300% in più del prezzo attuale. Creare la rete e arrivare al primo contratto di filiera «agro-fashion», è il progetto di Donne in Campo, l' associazione femminile di Cia-Agricoltori italiani, che ha appena lanciato anche il marchio registrato, Agritessuti: sarà presentato, con le prime case history, il prossimo 24 settembre, ore 10.30, nella terrazza dell' Auditorium Giuseppe Avolio a Roma, durante l' evento «Agritessuti: Paesaggi da indossare - Le Donne in Campo coltivano la moda». «Si tratta di una filiera necessaria se consideriamo che l' Onu ha già bollato l' industria tessile come la seconda più inquinante al mondo, perché responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di CO2 e gas serra», precisa Cia-Agricoltori a ItaliaOggi, anticipando i dati dello studio: «Servono circa 2.700 litri di acqua per fare una maglietta e ben 10 mila litri per un paio di jeans». E ancora: «Le coltivazioni di cotone sono responsabili del 24% dell' uso di insetticidi e dell' 11% dei pesticidi, nonostante occupino solo il 2,4% della superficie agricola mondiale». A fronte di questo impegno di risorse, solo l' 1% dei tessuti gettati viene riciclato e, secondo l' associazione Fashion for Goods, entro il 2030 il consumo di capi di abbigliamento aumenterà del 65%, con una maggiorazione di rifiuti del 61% e un aumento dell' uso di acqua del 49%. «Nei mesi scorsi abbiamo avuto un incontro con l' ex sottosegretario all' agricoltura Alessandra Pesce, ci svela Pina Terenzi, presidente di Donne in Campo, «per presentare le potenzialità di queste innovative filiere basate sull' economia circolare e il riuso degli scarti della produzione agricola per creare tessuti e colori. Confido che l' attenzione non venga meno con il cambio dei vertici del Mipaaft». Del resto, «il know-how, in Italia già c' è», dice Terenzi: «L' abbiamo perché i processi usati per la tintura con materiale vegetale attingono alla tradizione tessile italiana. Nell' immediato potrebbero ri-coinvolgere almeno 3 mila aziende produttrici di piante officinali in tutto il Paese».
· Non si piange sul Latte versato.
Latte versato. Report Rai PUNTATA DEL 25/11/2019 di Rosamaria Aquino. Dopo oltre trent'anni la magistratura inchioda la politica alle proprie responsabilità sulle quote latte. Ma la musica, in uno dei settori chiave dell'economia del nostro paese, non è cambiata. Chi e perché ha messo un segreto sulle aziende italiane produttrici di formaggio che utilizzano latte straniero? Report entra in possesso in esclusiva della lista secretata per anni dal ministero della Salute. Dalle mozzarelle, alle dop, ai formaggi “similari”: vecchie e nuove incognite affliggono allevatori e produttori. L'etichetta indica sempre l'origine del latte, ma quanti formaggi proposti sul mercato come italiani, sono realmente prodotti con materia prima del nostro paese?
LATTE VERSATO Di Rosamaria Aquino. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Italia produciamo ogni anno 11 milioni di tonnellate di latte solo per destinarle ai formaggi, ma non basta. In altri paesi l’estate è meno torrida, c’è più produzione di latte e quindi i prezzi sono più bassi. E allora il risultato è che lo importiamo. Non ci sarebbe nulla di male, senonché abbiamo notato una certa difficoltà a parlarne. Il sospetto è che si voglia celare un segreto. Uno sicuramente l’ha custodito un tenace e caparbio dirigente di un ministero. Solo che sulla sua strada questa volta ha trovato una più tenace di lui. La nostra Rosamaria Aquino.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Vipiteno, ore 9. Questo è il primo dei camion di latte straniero che raggiungerà le aziende italiane.
ROSAMARIA AQUINO Da dove viene questo latte?
AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Allora questo latte viene dalla Germania.
ROSAMARIA AQUINO E dove va?
AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Ed è diretto a Verona.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO In poche ore passano decine di camion. I finanzieri controllano le bolle e consultano i siti delle aziende riceventi per vedere cosa dichiarano sui formaggi che producono.
AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Utilizziamo solo latte 100% molisano.
ROSAMARIA AQUINO Ah, quindi questi stanno andando in Molise a portare questo latte tedesco... AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Doveva fare i chilometri...
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I camion si mimetizzano: davanti motrici straniere, dietro i rimorchi rigorosamente italiani. Così come italianissimi risulteranno i formaggi che saranno prodotti col latte di queste cisterne.
AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Chi c'ha la Spagna?
ALTRO AGENTE La Spagna ce l'ho io.
MANFRED LIBERA - COMANDANTE GDF BRESSANONE Qui passa anche latte spagnolo. Questo è latte di capra... qui abbiamo 23mila litri. Dice: “Principalmente da aziende agricole del Veneto”.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Altro camion fermato, altra sorpresa.
AGENTE GDF La provenienza è sempre dalla Germania. Destinazione: in provincia di Campobasso. AGENTE GDF Questo è il carico del latte, questo il documento di trasporto.
MANFRED LIBERA - COMANDANTE GDF BRESSANONE Facciamo una chiamata alla sala operativa così vediamo....
ROSAMARIA AQUINO “Solo latte vaccino e latte di pecora dai migliori allevamenti locali”.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dopo i controlli con la Guardia di Finanza siamo sempre più confusi: latte straniero, formaggi italiani, linee produttive diverse. É ora di andare a chiedere direttamente a loro: i casari.
AZIENDA MOLISANA Questo è fiordilatte molisano, ancora non è tutelato dalla DOP.
ROSAMARIA AQUINO Ma che tipo di latte utilizzate?
AZIENDA MOLISANA Il latte... abbiamo selezionato un latte dalla Sassonia, è tedesco.
ROSAMARIA AQUINO Quindi mozzarella italo-tedesca.
AZIENDA MOLISANA Sì. Comunque è secondo la tradizione del fiordilatte molisano.
AZIENDA PUGLIESE Non ci siamo resi conto, ma un buon 40% in Italia se non lo importiamo dalla Germania o dai paesi limitrofi, noi non possiamo produrre perché non c'è tanto latte in Italia. Perché io mi ricordo quando c'erano le quote latte i produttori producevano, poverini poi si son trovati a dover pagare le multe perché avevano prodotto in più.
ROSAMARIA AQUINO Le quote latte introdotte nel 1984 e abolite nel 2015, dovevano servire a controllare la quantità di latte che si produceva in Europa. Funzionava così: a ogni paese veniva assegnata una quota di latte da produrre e all’interno di quel paese, veniva assegnata a ogni allevatore la sua personale quota. Vietato sforare, perché l’Europa multava il paese e il paese multava a sua volta l’allevatore che aveva barato. Ma alla fine qualcosa si è inceppato.
FRANCA MIRETTI PERETTI – ALLEVATRICE Qui era tutto pieno di animali, qui c'era tutta la rimonta... tutti dove c'è il box che adesso vedi vuoto. Abbiamo tenuto duro fino all'altro anno, l’altro anno poi abbiamo deciso di chiudere.
ROSAMARIA AQUINO Qui quante multe ci sono? Lei? Ha detto?
ALLEVATORE 1 Un milione e 200mila euro più o meno.
ROSAMARIA AQUINO La sua?
ALLEVATORE 2: Settecentodieci...
ALLEVATORE 3 Sui 400mila.
ALLEVATORE La multa è su un milione e centocinquanta.
ALLEVATORE 5 Praticamente c'è più multa del valore aziendale.
ALLEVATORE 3 Diciamo che non li paghiamo perché quei soldi non son dovuti, assolutamente, perché l'Italia non è mai uscita dalla quota.
ALLEVATORE 5 Chi ha sbagliato sicuramente è Agea che ha falsificato i dati.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’Agea è l’agenzia dello Stato che coordina e controlla l’erogazione dei Fondi per l’agricoltura. E che ci fosse qualcosa di anomalo, viene il sospetto ascoltando la registrazione ambientale all’ex capo di gabinetto dell’allora ministro dell’Agricoltura Galan quando un investigatore gli fa capire che i dati sugli sforamenti delle quote latte sarebbero falsati.
GIUSEPPE AMBROSIO – EX CAPO DI GABINETTO MINISTRO GALAN La nostra cosa è corretta. Comunque, politicamente non la possiamo utilizzare, perché se, diciamo, abbiamo verificato che i dati so' sbagliati, cade tutto il castello e la Commissione Europea per come ci troviamo ci si incula.
MARCO MANTILE – EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Sì sì, ma noi non possiamo... non ci può coinvolgere in questo. Quelli sono dati oggettivi, dottore.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il castello è rimasto in piedi. Hanno preferito far crollare una parte del comparto, fermando chi aveva indagato sul sistema.
ROSAMARIA AQUINO Dopo quella richiesta cos'è cambiato nella sua attività?
MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Sono stato sollevato dall'attività operativa. Non era dignitoso continuare a rimanere in un reparto dove ero confinato.
ROSAMARIA AQUINO Lei avrebbe continuato quell'indagine?
MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Assolutamente sì.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mantile, oggi è direttore della rappresentanza della Regione Veneto qui a Roma e anche a Bruxelles. Mentre invece l’ex capo di gabinetto, Ambrosio, ex capo di gabinetto di Galan poi diventato consulente del ministro Centinaio, è stato denunciato da alcuni allevatori con il reato di tentata concussione. Il procedimento è attualmente pendente. Ma l’inchiesta dell’ispettore Mantile è confluita in quella dei Ros, il reparto speciale dei carabinieri. Che cosa è emerso da quell’indagine? Che 6 milioni di bovini sono stati inseriti nelle banche dati come producenti latte e invece latte non ne producevano. Ci hanno infilato dentro le vacche che non avevano partorito, qualche furbo ci ha infilato tori e vitelli, che insomma, anche a stimolarli, latte non ne fanno. Tutto questo che cosa ha contribuito? I dati falsi hanno contribuito a far incassare a chi non doveva dei contributi, soprattutto, hanno contribuito a far sanzionare il nostro paese. L’Italia ha pagato 4 miliardi e oltre di multe, per aver sforato delle quote latte nazionali che probabilmente se i fatti stanno così, non ha mai superato. E allora perché si è dichiarato di aver munto più latte di quello che serviva? C’è forse un segreto da nascondere?
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO NUOVO Il tribunale di Roma, dopo aver a lungo indagato sulla falsità dei dati forniti all’ Europa, è stato costretto a chiudere con un’archiviazione, “perché”, scrive il gip, “la falsità dei dati è nota a tutte le autorità amministrative e politiche rimaste consapevolmente inerti per vent'anni”. Ma ha inviato gli atti al ministero delle Politiche Agricole, perché facesse pulizia al suo interno.
ROSAMARIA AQUINO Salve, Rosamaria Aquino di Report.
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ah. ROSAMARIA AQUINO La stavamo cercando, abbiamo chiesto più volte di incontrarla.
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ah. ROSAMARIA AQUINO Senta, volevamo sapere, questa commissione di verifica interna dei dati per le quote latte a che punto è e concretamente cosa sta facendo?
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO No non è stata.... ma mi sta registrando? ROSAMARIA AQUINO Certo, stiamo riprendendo.
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ok... e non... non è partita perché dopo il cambio di Governo non è più successo niente. ROSAMARIA AQUINO Non è partita la commissione interna?
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Assolutamente no.
ROSAMARIA AQUINO Ma la gip di Roma aveva mandato gli atti proprio al Ministero.
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Beh io però....
ROSAMARIA AQUINO Chi ha deciso che questa commissione non partisse?
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Non lo so. Semplicemente non è partita.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Chi parla è Cristina Gerardis che a luglio era stata designata come presidente della commissione interna al ministero dell'Agricoltura per verificare i dati delle quote latte.
ROSAMARIA AQUINO Era l'ultimo baluardo per avere una risposta su queste quote latte.
CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Poteva essere utile fare una verifica rispetto a quello che dice il gup del Tribunale Penale di Roma, che ci sono dati falsi. Valuterà il nuovo Ministro che azioni assumere.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO NUOVO Ora la palla passa alla ministra Bellanova. Chissà se avrà voglia di scoprire perché sono stati forniti dei dati falsi all’Europa sulla produzione di latte. Tra gli allevatori che chiedono giustizia e che hanno dovuto chiudere c’è chi ha un’idea precisa.
ROSAMARIA AQUINO Perché hanno aumentato i capi di bestiame?
FRANCA MIRETTI PERETTI - ALLEVATRICE Secondo me serviva a fare coprire tutto il latte in nero che arrivava dall'estero. E già vent'anni fa arrivava latte dall'Austria e superato il confine diventava magicamente italiano, no?
MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Un'ipotesi che secondo me non è peregrina è quella di coprire una presenza di latte non italiano sul territorio nazionale.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dati fasulli per favorire l'ingresso di latte straniero. E oggi che le quote non ci sono più? In Italia produciamo oltre 1 milione di tonnellate di formaggi, per farlo abbiamo bisogno di molto latte e non ce la facciamo.... Dal 2017 però c'è l'obbligo di indicare in etichetta l'origine del latte; è sufficiente un generico “latte UE”. Ma da quali paesi viene?
PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Questi camion normalmente arrivano nelle ore notturne e scaricano la mattina presto, per esempio sappiamo che arrivano delle cagliate oppure del latte.
ROSAMARIA AQUINO Da dove vengono?
PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Soprattutto Romania, Lituania, Estonia...
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A raccontarci come funziona il sistema è un grosso produttore di latte che preferisce restare anonimo.
ROSAMARIA AQUINO Perché c'è questa corsa al latte straniero?
PRODUTTORE ANONIMO Il latte costa meno, intorno ai 4/5 centesimi in meno del nostro latte.
ROSAMARIA AQUINO Cosa ha significato per voi agricoltori l'ingresso di questo latte estero?
PRODUTTORE ANONIMO Una concorrenza sleale.
ROSAMARIA AQUINO Parliamo di un milione e mezzo di tonnellate di latte straniero che entra ogni anno nei nostri caseifici. Proprio adesso che in nome dell’italianità difendiamo i prodotti dai dazi che vorrebbe imporre Trump.
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Non è giusto far credere che stai acquistando un prodotto italiano, quando italiano non è. É giusto che tu possa acquistare un prodotto lituano, io non lo farei mai...
ROSAMARIA AQUINO Perché non lo farebbe mai?
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Perché se io utilizzo oggi un farmaco all'interno di un'azienda zootecnica italiana sono costretto a registrare qualsiasi passaggio, qualsiasi farmaco utilizzo. In tanti altri paesi a livello europeo quest'obbligo non c'è.
ROSAMARIA AQUINO Quindi potrebbe essere che un bovino prenda un antibiotico e questo non venga tracciato?
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Se allevato all'estero questo può assolutamente esistere. Tu puoi utilizzare latte proveniente dalla Romania, però devi scrivere che è latte rumeno. Questo noi vogliamo. Il massimo della trasparenza.
ROSAMARIA AQUINO Secondo lei in Italia quanto auto-italian sounding produciamo con tutto questo latte estero?
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Se noi avessimo oggi la possibilità di accedere ai dati glielo darei nella virgola.
ROSAMARIA AQUINO In una recente intervista lei individua proprio una persona singola e fisica che mette il segreto su questi dati. Di chi parliamo?
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Silvio Borrello.
ROSAMARIA AQUINO Deve essere potente questo funzionario…
ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI O lui o chi c'è dietro di lui.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La lista delle aziende italiane che comprano latte estero c’è, ma il custode che da anni impedisce l’accesso è un solerte funzionario del ministero della Salute. In questi anni ha detto no. Ai politici che chiedevano e persino alla Magistratura, dopo che una sentenza lo costringeva a renderla accessibile. Tuttavia è rimasto al suo posto.
SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Io non posso dare dei dati che lei come cittadino mi affida. Sono dei dati anche privati, commerciali. É come se qualcuno chiedesse di sapere il suo conto in banca, lei sarebbe felice?
ROSAMARIA AQUINO Sembra un po' come se la politica dicesse qualcosa e poi il Ministero viaggiasse un po' per i fatti suoi.
SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Allora la politica dà degli indirizzi politici però i provvedimenti li firma il direttore generale e se io faccio un danno economico come è stato paventato da alcune industrie che hanno detto che non volevano l'ostensione dei dati... mi hanno in qualche modo avvisato che avrebbero fatto una richiesta di risarcimento danni.
ROSAMARIA AQUINO A luglio di quest'anno, l'allora vicepremier Di Maio, dice: se questo dirigente non vuole ottemperare a quello che dice la sentenza è meglio che cambi lavoro. Si riferiva a lei?
SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Ah non lo so, io non l'ho sentito. Però se si riferiva a me io sono ancora qua.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come dargli torto? Però come è possibile che il direttore generale del Ministero della Salute, Borrello, tuteli le aziende private e non risponda agli input delle Istituzioni? Ha resistito anche all’ordine della magistratura che gli imponeva di consegnare senza indugio la lista e di renderla pubblica. Ecco, se è rimasto al suo posto e nessuno gli ha chiesto conto ha fatto bene a essere caparbio. Solo che sulla sua strada ha incontrato la nostra Rosamaria, che è più caparbia di lui e la lista l’ha ottenuta. Come non lo diciamo. L’ha ottenuta anche Coldiretti al termine di una lunga battaglia legale solo che si riferisce solo a tre mesi del 2017. Se è questo il grande segreto che custodiva Borrello, ma non lo crediamo, sa di beffa. Tuttavia aiuta a capire il fenomeno. Dentro ci sono i nomi di 1800 aziende e multinazionali che acquistano latte straniero e aiuta a comprendere la dimensione. Galbani acquista tonnellate di cagliate lituane, creme di latte dalla Spagna, mozzarelle dalla Francia. Dice che le cagliate sono solo l'1% delle loro produzioni le utilizzano per formaggini e mozzarelle per la ristorazione e riportano l'origine in etichetta. Prealpi: tonnellate di formaggi e cagliate dalla Germania, formaggi a pasta dura persino dalla Finlandia – pensate un po’ - mozzarelle dalla Danimarca. Ci ha scritto che mette l’origine in etichetta. Granarolo compra latte dalla Francia, dalla Repubblica Slovacca, dalla Slovenia e dall'Ungheria. Il gruppo Newlat che significa Giglio, Polenghi, Torre In Pietra tonnellate di latte crudo dall'Ungheria. Parmalat di Collecchio, Parmalat, compra tonnellate di latte crudo dalla Slovenia, Belgio, Croazia, Ungheria, Repubblica Slovacca e formaggi dalla Polonia equivalenti a circa il 30 % della produzione complessiva; lo indica in etichetta, ci scrive. Poi ci sono i produttori di mozzarelle Francia e Cuomo che dalla Germania comprano le mozzarelle. Francia dice che commercializza prodotti a marchio tedesco in Italia e che le mozzarelle sono destinate alla ristorazione. Poi ci sono anche i caseifici del Grana Padano che oltre la produzione DOP fanno i grattugiati misti e acquistano latte e formaggi da Germania, Polonia, Ungheria. Quelli del Parmigiano che acquistano da Lituania e Lettonia. Su nostra domanda ci hanno risposto che utilizzano il prodotto straniero solo per i formaggi generici. Se è tutto così trasparente non capiamo perché poi i casari sono così stitici nel parlare di questo problema.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questa è Forme, fiera di Bergamo. Aspira a diventare il Vinitaly dei formaggi. In gara ci sono formaggi presentati come italiani - almeno in etichetta - e quelli provenienti da tutto il mondo.
ROSAMARIA AQUINO Si può capire assaggiando un formaggio se c'è latte italiano o no?
GIUDICE DONNA No. Non è possibile capire se è italiano o no. Mi permetto anche di dire che ci sono territori anche al di fuori dell'Italia, che consentono di produrre materie prime di eccellente qualità.
ROSAMARIA AQUINO Io però se compro un prodotto italiano vorrei sapere se è veramente italiano.
GIUDICE DONNA Io personalmente lo vorrei assolutamente sapere. Certo non è che made in Italy è sempre sinonimo di migliore.
GIUDICE UOMO Io sono pro Italia tutta la vita, però sinceramente i cugini francesi o gli inglesi... noi qua stiamo valutando senza sapere da dove vengono.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alla fine ha vinto un erborinato dell'Oregon, con buona pace di chi oggi fa resistenza a Trump. I formaggi più colpiti dall’introduzione dei dazi sono proprio quelli della DOP: il costo di una forma di Parmigiano passerebbe dai 40 a 60 dollari al chilo. Alla base della difesa della DOP italiana c’è un mantra: di latte straniero non se ne deve nemmeno sentir parlare.
PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Il latte per il Parmigiano reggiano deve esclusivamente provenire dalle seguenti province: Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna a sinistra del Reno e Mantova a destra del Po, quindi una piccola fetta di Mantova e una piccola fetta di Bologna.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO É uno dei caseifici di Parmigiano che il latte va a prenderlo direttamente in stalla a 100 metri da dove si produce. La fama è arrivata addirittura in Vaticano, il suo formaggio l’ha gradito pure il Papa, e da quelle parti ne capiscono. Ma quanto costa produrre seguendo con rigore il disciplinare della DOP?
PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Sui 300 euro.
ROSAMARIA AQUINO 300 euro a forma.
PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Esatto.
ROSAMARIA AQUINO Se questo latte non provenisse da area DOP, magari latte estero, quanto verrebbe a costare?
PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Mediamente sui... 100 euro.
ROSAMARIA AQUINO C'è qualcuno che fa il furbo?
PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Che cosa mi vuoi arrivare a far dire?
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Queste, secondo stralci della lista segreta del Ministero che abbiamo potuto leggere, sono alcune delle aziende che producono sia DOP che formaggi cosiddetti “similari”, che finiscono per fare concorrenza alla stessa DOP.
ROSAMARIA AQUINO Questi sono fatti con latte italiano o straniero?
UOMO AZIENDA DOP Essendo dei mix non può che esserci...
DONNA AZIENDA DOP No no no, non puoi mandare... scusa.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alla prima domanda arriva subito un membro dell'azienda a controllare cosa stiamo chiedendo.
ROSAMARIA AQUINO Vabbè quindi non possiamo vedere se c'è latte straniero, non straniero, latte Ue. No.
UOMO AZIENDA DOP Allora... uhm.... Dovrebbe esserci latte Ue... se c'è... se c'è latte...
ROSAMARIA AQUINO La DOP abbiamo detto, viene fatto con latte italiano. E quello per forza. Però volevamo capire se invece questi erano prodotti col latte…
UOMO AZIENDA DOP Dovrei aprirvi le vetrine, sono un po' in difficoltà come faccio?
DONNA AZIENDA DOP Posso aiutarvi?
ROSAMARIA AQUINO Sì: volevamo sapere una cosa, se questo formaggio che diciamo è simil grana è prodotto con latte italiano o straniero.
DONNA AZIENDA DOP Questo io non glielo so dire, ma non è una produzione nostra. Noi non lo produciamo, produciamo solo formaggi
DOP. ROSAMARIA AQUINO Però voi lo distribuite e non sapete che latte c’è?
DONNA AZIENDA DOP No, no, no, noi sappiamo esattamente che prodotto è, abbiamo anche tutte le specifiche, ma io personale non autorizzato dall'azienda non so dare le specifiche di un prodotto.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E dopo qualche altra domanda sull'origine del latte arriva la telefonata dello staff della fiera.
STAFF FIERA “FORME” Io ho il dovere di seguirvi, far vedere come van le cose... se mi girate così. ROSAMARIA AQUINO Devi inseguirci intervista per intervista?
STAFF FIERA “FORME” Sì sono qua apposta. Devo capire un attimino il taglio che state dando alle varie domande.
ROSAMARIA AQUINO Ma te le ho dette prima le domande.
STAFF FIERA “FORME” Sì però visto che sento già qualche difficoltà negli stand, han chiamato subito quello che ha organizzato la fiera. Cioè, mi fa: “c’è un casino con Report e adesso sono cazzi vostri”, mi ha proprio detto così.
ROSAMARIA AQUINO Ce ne andiamo controllate a vista e senza risposte. Continuando a scorrere la lista notiamo che alcune aziende che fanno anche la DOP acquistano formaggi e latte straniero a colpi di 50mila chili al giorno. Ma se uno volesse scoprire se nella DOP ci finisce latte straniero dovrebbe andare nell’unico laboratorio esistente per questo tipo di analisi. É l’istituto agrario San Michele all’Adige. La proprietà dei dati è dei Consorzi e il Grana vorrebbe accompagnarci in tutte le fasi, sin dalla campionatura.
STEFANO BERNI – DIRETTORE CONSORZIO GRANA PADANO San Michele all'Adige può ricevere solamente campioni consegnati da un pubblico ufficiale o un agente vigilatore del consorzio riconosciuto
ILARIA PROIETTI Ok cioè noi non possiamo andare lì e portare dei campioni che abbiamo prelevato diciamo personalmente, questo giusto? Ho capito bene?
STEFANO BERNI – DIRETTORE CONSORZIO GRANA PADANO No. Né voi né nessun altro eh!
ILARIA PROIETTI Ok. ROSAMARIA AQUINO Ma che rapporto c'è tra Consorzio e laboratorio?
FEDERICA CAMIN – IST. AGRARIO SAN MICHELE ALL'ADIGE Il consorzio Grana Padano è il consorzio più serio che abbia mai conosciuto. Perché loro finanziano - ma danno un finanziamento abbastanza grosso alla fondazione - per scovare chi dei loro associati imbroglia. ROSAMARIA AQUINO Se io dovessi trovare il campione di Grana Padano prodotto da una persona che ha una carica nel consorzio che cosa succede in quel caso?
FEDERICA CAMIN – IST. AGRARIO SAN MICHELE ALL'ADIGE Mah io veramente loro sono...cioè… beh innanzitutto quelli che hanno una carica non penso possano essere anche produttori. Ma comunque a me non è mai successo…
ROSAMARIA AQUINO Alcuni lo sono eh.
DOTTORESSA FEDERICA CAMIN – ISTITUTO SAN MICHELE ALL'ADIGE Comunque non m'è mai successo che loro dicessero: “eh non questo non”...no veramente.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nel 2017 la Procura di Reggio Emilia indaga 27 persone per frode e contraffazione di Grana Padano e Parmigiano. Nell'inchiesta finiscono anche pezzi grossi dei consorzi, tra cui lo stesso Berni sul quale pende una richiesta di rinvio a giudizio per abuso d'ufficio, perché, sarebbe venuto meno al suo dovere di terzietà cercando di diminuire la responsabilità della Nuova Castelli, alla quale erano state sequestrate 7.700 forme. Chi controlla come controllano i controllori? In un film giallo a questo punto entrerebbe in gioco “la scientifica”.
SILVIA CANADELLI – VICEDIRETTRICE ISTITUTO SPERIMENTALE LAZZARO SPALLANZANI Essendo il Grana Padano un formaggio made in Italy estremamente contraffatto, abbiamo deciso di tracciare praticamente tramite la tecnica del Dna la zona di provenienza del Grana Padano.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il ministero dell'Agricoltura alle analisi già in vigore, ha deciso di affiancare da qualche anno una ricerca pubblica chiamata Newtech, che dal Grana Padano e dal suo latte, tirerà fuori nientemeno che il Dna. Partner del progetto sono il Centro di ricerca Agricola e l’istituto Spallanzani. Ma come avviene l'analisi?
GRAZIELLA BONGIORNO – RESPONSABILE LABORATORIO GENETICA MOLECOLARE Quello che viene mangiato dalla bovina, quota parte di questo Dna vegetale viene secreto nel latte. Dal latte riusciamo a recuperare il Dna, quindi andando a fotografare i latti prelevati da tutti i caseifici che aderiscono al Consorzio del Grana Padano sarà possibile dato un campione di latte ignoto valutare se è compatibile o meno con il latte che viene prodotto nell'areale del Grana Padano.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma ci vuole un anno e mezzo per ottenere i risultati. L’alternativa è quella di andare al laboratorio dove le analisi sono finanziate dal consorzio. Il vigilante che veste i panni del vigilato, questo per legge. Ed è vigilato a sua volta dal Ministero delle politiche agricole. Che non è che abbia dato poi così prova di saper controllare bene, visto che sotto il naso per anni sono passati i dati falsi che la sua agenzia Agea aveva fornito all’Europa in termini di quote latte. Dati “assolutamente falsi”. Lo scrive il gip Paola Di Nicola, con una sentenza emessa a giugno scorso che mette sotto accusa tutta l'amministrazione pubblica. Ma è stata costretta a chiudere con un’archiviazione, scrive il gip, perché è esistita “per decenni una totale incapacità, superficialità e connivenze” da parte di tutti gli organi di controllo dello Stato. “La falsità dei dati era nota a tutte le autorità amministrative e politiche rimaste consapevolmente inerti per vent’anni per evitare di scontentare singole corporazioni o singoli centri di potere, di interesse, determinando ingenti danni allo Stato e a i quei singoli allevatori onesti che invece le regole dello Stato le hanno rispettate. Il Gip aveva anche dato le carte al ministero delle Politiche agricole perché facesse pulizia. Hanno istituito una commissione durata pochi mesi, è caduta con il Governo. Buonanotte ai suonatori. Rincorrono così tanto l’oblio, a discapito di quegli allevatori onesti e della qualità, che non vogliono neppure piangere sul latte versato. Poi però si rammaricano se alle olimpiadi dei formaggi a Bergamo, quest’anno la medaglia d’oro se l’è aggiudicata un formaggiaio dell’Oregon.
· Ma cosa hai messo nel caffè?
Report Rai PUNTATA DEL 03/06/2019 di Bernardo Iovene in collaborazione di Michela Mancini. Gli italiani pensano di essere grandi intenditori di caffè, in realtà hanno il gusto tarato su una qualità dal sapore legnoso, amaro e spesso rancido; un equivoco dovuto a una importazione di caffè di bassa qualità, tostato al limite del bruciato, che uniforma il sapore. Il simbolo di questa mentalità è Napoli: dopo la nostra inchiesta del 2014, siamo tornati al Gambrinus per un confronto sulla qualità del caffè dell’antica caffetteria e in generale sul caffè che si beve nei bar napoletani. Le sorprese non sono mancate. In questo giro di degustazioni Report è stato accompagnato da alcuni esperti di fama internazionale. Siamo stati anche nei nuovi Specialty coffee, nei bar e nelle torrefazioni dove importano caffè selezionati e li abbiamo confrontati con il gusto e gli aromi del caffè che beviamo nei nostri bar. Abbiamo assaggiato e valutato i caffè di Starbucks a Milano e abbiamo degustato persino il caffè al ginseng, prodotto con un preparato in polvere. Ma nella nostra tazzina quanto ginseng c'è?
PRECISAZIONE DEL 20/06/2019
Precisiamo che ci sono produttori di caffè al ginseng che hanno una concentrazione di zucchero inferiore. Come abbiamo documentato nel servizio ci sono anche quelli che non utilizzano zucchero ma usano dolcificanti e sciroppo di glucosio.
“CAFFÈ: IL BUONO, IL RANCIDO E IL GINSENG” Di Bernardo Iovene Collaborazione di Michela Mancini.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il nostro Bernardo Iovene è tornato sul tema, e ha distrutto quelle poche certezze che c’erano rimaste. Ci crediamo un popolo di intenditori, crediamo che il miglior caffè al mondo sia il nostro espresso, in realtà il migliore lo bevi o in Giappone o in Australia, qualche volta a Londra o a Parigi. Questo perché? Perché indugiamo più che altro sulla ritualità o sulla liturgia quotidiana che ruota intorno alla tazzulella di caffè piuttosto che sulla qualità. Siamo tra i peggiori importatori al mondo, spendiamo male e poco. Questo perché i nostri bar sono ostaggi della torrefazione che è, diciamo così, il finanziatore occulto dei bar, offre la macchina per il caffè, i macinini, il tavolo, le tazzine, anche la ristrutturazione del bar purché vengo comprata la loro miscela di caffè che non è poi tra le qualità migliori. Se a questo aggiungi anche la macchina che è un po’ sporca, il fatto che viene servito il caffè in un’acqua che non è pulitissima, perché ci sono dentro le scorie del caffè bruciato rischi la ciofeca quando invece il caffè è un seme esotico e dovrebbe liberare nella tua bocca l’aroma.
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Questo è un caffè con uno spiccato tenore di acidità, basso tenore di caffeina. Floreale, fruttato; lieve ed elegante in entrata, molto lungo, complesso e persistente in retrogusto.
BERNARDO IOVENE Questo? Del Perù?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Sì, più fruttato che floreale. Anche questo ha un discreto tenore di acidità; cresce in montagna anche questo, a 2mila metri.
BERNARDO IOVENE Che sapore ha?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Frutta, frutta esotica.
BERNARDO IOVENE Questo qua invece? Guatemala?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Sì, ancora frutta secca e frutta esotica.
BERNARDO IOVENE Questo qua India?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Mandorla, tabacco biondo.
BERNARDO IOVENE Voi cambiate sempre oppure avete sempre gli stessi?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA 2 Cambiamo sempre. Tutte le settimane compriamo caffè, tutte le settimane cambia l’offerta.
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Pianta il naso in mezzo ai chicchi, senti che meraviglia di profumo. Profumo di fiori, profumo di cioccolato bianco, profumo di gelsomino, no?
BERNARDO IOVENE Sì.
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Meraviglioso.
BERNARDO IOVENE Sì.
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Caffè profumatissimo, pensa che è un seme, non è un fiore.
BERNARDO IOVENE In questo mondo – che è un mondo infinito diciamo – però quando arriviamo alla macchina del caffè, ai bar che noi frequentiamo, c’è proprio inconsapevolezza di tutto questo no?
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Purtroppo torrefattori e baristi rischiano di essere – anche inconsapevolmente - degli assassini.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si chiamano Specialty Coffee, sono i nuovi bar che servono caffè selezionati: sono tutti associati, baristi e torrefattori, alla Associazione specialty coffee, la Sca. Hanno un’alta preparazione sia tecnica che culturale sul prodotto caffè.
PAOLA CAMPANA – TORREFAZIONE CAMPANA CAFFÈ Questo è un caffè che viene dall’Etiopia, che è la patria del caffè in quanto è dove è nato il caffè, ha sentori di frutti rossi, liquore allo cherry. È un’esplosione di sapori.
BERNARDO IOVENE Il titolare di questo bar va in giro per piantagioni?
SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Va in giro per piantagioni, esattamente.
BERNARDO IOVENE A scegliere i caffè? SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Seleziona i caffè. Seleziona… BERNARDO IOVENE Non è uno normale questo.
SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE 3 Avere un contatto diretto con i produttori, in maniera da conoscere la materia prima, sapere come trattarla al meglio.
BERNARDO IOVENE Proviamo a leggere qua
RISTINA CAROLI – COORDINATRICE SPECIALTY COFFEE ITALY Il territorio da cui viene è il Ruanda, la varietà che è un Red Barbon, il tipo di lavorazione che ha subìto – una naturale, una lavorazione a secco, a che altezza è nato, chi è il produttore, quando è stato raccolto, a maggio del 2018.
BERNARDO IOVENE Quindi qua io posso scegliere…
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Tra le varie piantagioni. Questo Julian Palomino è l’agricoltore di questa finca in Colombia; Fazenda Uma…
BERNARDO IOVENE Questo è un Brasile.
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA È un Brasile. Questo è una fattoria etiope.
BERNARDO IOVENE Colombia. DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Un’altra Colombia.
BERNARDO IOVENE E sono? Robusta o…
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi abbiamo, una nostra caratteristica è fare solo arabica.
BERNARDO IOVENE Ma quanti siete qua? Vedo tantissimi…
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA In totale siamo nove.
BERNARDO IOVENE Nove?
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Nove.
BERNARDO IOVENE Uno per ogni caffè? DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Uno per ogni caffè, sì. 4
FABIO MILANI – EUROPEAN BARTENDER SCHOOL Questa qua è una classe di studenti stranieri. C’è un po’ di tutte le nazionalità, magari dopo chiedi un po’ a loro. Li ho portati qua perché credo che sia uno dei migliori coffee shop della città.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questo bar arrivano anche gli alunni di una scuola internazionale di baristi per studiare l’espresso specialty e tutti gli altri modi di fare il caffè.
BERNARDO IOVENE Dove hai studiato?
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Sono stato due anni in Australia, due anni a Londra, un anno e mezzo a Berlino. Sempre in delle torrefazioni, sempre lavorando con specialty.
BERNARDO IOVENE E hai imparato là a fare il caffè?
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA In Australia. BERNARDO IOVENE In Australia?
BERNARDO IOVENE A Melbourne c’è una gran cultura del caffè.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi viaggiano e quando tornano in Italia si trovano davanti al paradosso: ci crediamo i migliori intenditori di caffè al mondo - così ci hanno sempre fatto credere - e invece non è così.
LORENZO SORDINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE L’Italia – a livello qualitativo – è uno dei peggiori importatori del mondo. Sul prodotto medio – si parla di prodotto medio - siamo tra quelli che spendono meno per l’importazione del prodotto caffè e siamo il più grande importatore di robusta nel mondo. E oltretutto viene utilizzata anche robusta – tante volte – di scarsa qualità: dà alla tazza sapore di bruciato, di copertone di gomma, di legno, di affumicato.
MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Per me robusta non è caffè. Robusta non è caffè. Non ha senso: non ha aromi, non ha eleganza, non ha piacevolezza. Solo intensità e sensazione tattile.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Di arabica e robusta ne abbiamo parlato ampiamente nella inchiesta Espresso nel caffè qualche anno fa. Dai grandi spedizionieri abbiamo imparato la quantità di robusta che arriva e in che condizioni.
DA REPORT DEL 7/4/2014 LUCA ROMANI – SPEDIZIONI CAFFÈ 5 All’interno del caffè ci possono essere un’infinità di corpi estranei: troviamo piatti, bicchieri, di tutto. Per cui come potete vedere c’è una grandissima quantità di pietre. BERNARDO IOVENE Poi c’è una selezione ottica per isolare i chicchi scuri.
LUCA ROMANI – SPEDIZIONI CAFFÈ Questo può essere utilizzato magari in prodotti di fascia inferiore. Però il chicco scuro è un chicco che – quando viene tostato – se viene poi in buona quantità miscelato, crea un senso di amaro. BERNARDO IOVENE Non si butta niente diciamo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Kimbo imparammo a distinguere nei loro laboratori la differenza in tazza tra la qualità robusta e arabica.
BERNARDO IOVENE Questa parte nera qua…
GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO No questo diciamo è il caffè, la percentuale di robusta ha più cera e quindi c’è questa possibilità.
BERNARDO IOVENE È cera, si chiama cera questa?
GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO Si chiama cera. È quella che dà il corpo alla tazza.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi la robusta ha più caffeina e più cera. La cera l’abbiamo vista per caso girando in uno stabilimento dove fanno il decaffeinato.
BERNARDO IOVENE Dentro al caffè c’è questo? UOMO Sì. Sopra il caffè c’è questo soprattutto.
BERNARDO IOVENE Questo qua invece è arabica.
GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO 80 per cento di arabica. È più pulita. Diciamo che la tazza è più pulita.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A quel punto girammo l’Italia assaggiando e valutando i caffè, con esperti assaggiatori. I risultati furono mediocri; alla fine approdammo a Napoli e qui la sorpresa fu veramente grande. 6
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Allora al palato è molto amaro. È astringente; una sensazione di allappamento al palato, il retrogusto è di gomma bruciata, legno bruciato, cenere. Questo caffè lo possiamo valutare al 2. Da 1 a 10.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il nostro viaggio si concluse nel bar simbolo e tempio del caffè. Al Gambrinus.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Annusiamo l’aroma. Allora è molto amaro, non è acido, è astringente. Dei sentori leggeri di terra, darei una valutazione di 3 e mezzo.
BERNARDO IOVENE 3 e mezzo?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA 3 e mezzo.
BERNARDO IOVENE Al Gambrinus, questo è il migliore.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, sì. Ma io degusto tecnicamente e valuto quello che sento in bocca.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Voti da 2 a 3,5: insomma è un duro colpo per l’orgoglio di quello che viene considerato il miglior caffè di Napoli ma per tutta l’autostima partenopea. Però il parere di Andrej Godina, il nostro assaggiatore, che è laureato in scienze del caffè ed ha anche un dottorato in ricerca per l’analisi sensoriale, è assolutamente indiscutibile. Il nostro Bernardo Iovene, che cosa ha fatto? Dopo cinque anni a distanza delle polemiche che aveva suscitato all’epoca, è tornato sul luogo del delitto al Gambrinus. Questa volta ha portato con se un degustatore napoletano, Mauro Illiano, il re del food napoletano Luciano Pignataro, poi ha messo insieme in una tavola rotonda intorno seduti anche esperti torrefattori, e anche i proprietari del bar che stanno raccogliendo firme per far considerare il caffè napoletano come un bene dell’Unesco. Però fate attenzione, a dire la verità, perché il nostro Bernardo Iovene prima di presentarsi con telecamere a vista è andato ad assaggiarlo di nascosto per vedere se il trattamento riservato è lo stesso di quello riservato agli altri clienti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo cinque anni siamo tornati al Gambrinus. Questa volta ad assaggiare e giudicare il caffè ci sarà anche un assaggiatore di formazione napoletana, Mauro Illiano; ad accoglierci c’è il proprietario, il direttore del locale, il rappresentante della torrefazione, giornalisti ed esperti chiamati dalla caffetteria. Cominciamo l’assaggio al banco principale.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io sento cioccolato fondente, caramello, un leggero sentore di paglia. 7
LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Tu ti trovi Mauro? MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Decisamente, l’analisi tecnica è perfetta.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Abbastanza amaro, allappa al palato e sempre una sensazione piuttosto intensa di astringenza. Nel caffè viene considerata negativa perché potrebbe essere che la ciliegia è stata raccolta verde. Potrebbe essere dovuto a una tostatura molto scura, oppure potrebbe anche essere un segnale di sovra estrazione.
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Esatto, classica la macchina a leva. Tu hai sottolineato – soprattutto dove c’è tanto lavoro – ci può essere un problema di sovra estrazione.
LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Queste caratteristiche che hai dato, dipendono anche dalla composizione della miscela?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Certo.
LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Robusta piuttosto che arabica…
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA E poi robusta di quali paesi e arabica di quali paesi.
BERNARDO IOVENE Qua abbiamo il direttore, da dove viene il caffè vostro?
GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Dal centro America.
BERNARDO IOVENE Dal Centro America, ma quale paese?
GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Questa è una cosa che sa la torrefazione. Noi usiamo il caffè che è arabica e robusta.
BERNARDO IOVENE Cioè è una miscela arabica e robusta?
GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS È una miscela che noi abbiamo fatto principalmente per i nostri clienti, che sono abituati a prendere questa tipologia di caffè. 8
BERNARDO IOVENE Però lei non sa da quale paese viene?
GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS No, questo no, so che viene dal centro America.
BERNARDO IOVENE Ah quindi questa è una ricetta segreta questa del caffè?
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Sicuramente.
BERNARDO IOVENE Però lei rappresenta la torrefazione qui?
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Io collaboro con la torrefazione.
BERNARDO IOVENE Ci può dire da dove viene questo caffè?
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Il caffè che è stato fatto per loro è una ricetta creata apposta per…
BERNARDO IOVENE Sì, ma da dove viene? Il paese di origine.
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Principalmente l’80 per cento Sud America.
BERNARDO IOVENE Sud America. Il resto? SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO L’altra parte del mondo.
BERNARDO IOVENE Cioè Vietnam?
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Assolutamente no, non c’è assolutamente caffè che arriva dal Vietnam.
BERNARDO IOVENE Eh, dall’altra parte del mondo.
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Indonesia. BERNARDO IOVENE Non è segreto dire da dove viene il caffè, mi sembra il segreto di Pulcinella.
SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Assolutamente, la miscela è segreta. Mi consenta. 9 BERNARDO IOVENE Ah.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da un lato ci sono i Coffee Specialty che si vantano delle origini del caffè dall’altro ci sono le miscele segrete. Ci spostiamo poi nella saletta riservata per un altro assaggio. Qui è il direttore del locale che prepara il caffè, dopo l’assaggio si analizzano anche i chicchi.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sfortunatamente ci sono dei difetti in queste tazze, che sono considerate a livello internazionale: l’astringenza è un difetto, l’amaro eccessivo è un difetto, il sentore di legno generalmente è un difetto. Poi appartiene molto alla specie robusta, canefora, che è considerata comunque di più basso livello a livello internazionale e infatti costa anche di meno. Rispetto al 2, 2.5 di cinque anni fa, per fortuna, almeno dal mio punto di vista tecnico, siamo migliorati molto perché io direi 4.5, 5. Poi qui siamo migliorati perché l’altro caffè era molto astringente, ma questo probabilmente perché era dovuto a una sovra estrazione della macchina.
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Tecnicamente Andrej fa una valutazione corretta, insomma. Da un punto di vista invece del gusto e del palato e di quella che è la piacevolezza del caffè, inevitabilmente bisogna fare i conti con quello che il caffè è a Napoli e sicuramente questo è un caffè perfettamente in linea con i gusti del pubblico partenopeo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo assaggio però è stato annunciato ed è avvenuto davanti alle telecamere. Noi siamo stati al Gambrinus anche in incognito una settimana prima con gli stessi assaggiatori. Nessuno li ha riconosciuti; il primo assaggio è ai tavoli esterni.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Si sente che ha tanta robusta.
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Sì.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Questa astringenza, forse un po’ di sovra estrazione. Sì però senti che anche qui adesso viene fuori la nota di rancido?
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Alla lunga sì. Sta amaricanza che alla lunga dà un attimo una scodata.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 10 L’analisi sulla tazzina più o meno è la stessa della settimana dopo, ma c’è una novità: il sentore di rancido. Per avere conferma fanno un ulteriore assaggio del caffè servito al banco. BERNARDO IOVENE Siamo tornati nel luogo del delitto.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Siamo tornati al Gambrinus, esatto. Dopo cinque anni.
BERNARDO IOVENE Questa volta però ci siamo fatti accompagnare da un napoletano. Come è andata?
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Ok, un caffè a mio avviso non eccezionale da un punto di vista tecnico. Se poi mi dici il Gambrinus rispetta quella che è l’attesa di un bevitore di caffè qui a Napoli quando degusta un caffè non ha delle aspettative tecniche altissime.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA In particolare al retrogusto una nota forte di rancido. Quindi sopra il 4 non..
BERNARDO IOVENE Oltre il 4 non andiamo.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io non mi sentirei di dare.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sapore forte di rancido nell’assaggio ufficiale con le telecamere a vista non c’era. Il dubbio è che sapendo che il caffè veniva sottoposto a giudizio ci sarà stata forse un attenzione alla qualità o alla freschezza del prodotto o alla pulizia delle macchine. E dunque almeno il sapore di rancido si può evitare. Nello stesso giorno abbiamo fatto un assaggio in altri bar del centro. E tutti mantengono il riserbo più assoluto sulle origini delle miscele.
BERNARDO IOVENE Da dove viene questo caffè? Il chicco da dove viene? BARISTA Il chicco sinceramente non lo so. La torrefazione è qui a Napoli.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA C’è sicuramente robusta, è una miscela con anche un po’ di arabica.
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Riconosco in questo caffè una matrice partenopea. 11
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In ogni bar abbiamo anche prelevato dei chicchi per verificare la qualità.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Provando ad annusare i chicchi, c’è un odore fortissimo di rancido. Ovviamente questo rancido te lo porti in tazza.
BERNARDO IOVENE Questo è un caffè rancido?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA È molto rancido, sì.
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Però secondo me quando ci si approccia alla degustazione di un caffè napoletano, con la consapevolezza di ciò che ai napoletani piace.
BERNARDO IOVENE Però è un dato di fatto che questo è un chicco rancido o no?
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Assolutamente, il colore non mente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questo bar invece l’analisi è stata divergente.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Si sente un forte odore di rancido. Anche qui un sentore anche leggero anche di terra bagnata.
MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Per un napoletano questo è un buon caffè. Un caffè più che sufficiente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tracce di rancido ci sono anche nel mitico caffè del Professore che assiste molto disponibile al giudizio degli assaggiatori.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA C’è una leggera nota di rancido alla fine che si sente, poco eh. Perché rispetto ad altri che ho assaggiato era molto, molto di più. Probabilmente deve essere, dalla tostatura finché arriva qui, il periodo di degassamento o forse in silos o prima di impacchettarlo, forse un po’ troppo a lungo.
RAFFAELE FERRIERI – VERO BAR DEL PROFESSORE NAPOLI Io non sono tanto convinto, perché noi purtroppo, per fare un certo tipo di caffè, abbiamo bisogno di avere questa sensazione che lei prova prendendo il caffè. 12
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh ma se è rancido, è rancido. È un difetto nella tazza il rancido.
RAFFAELE FERRIERI – VERO BAR DEL PROFESSORE NAPOLI Ma ciò che è gradito dalla gente non è un difetto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma si ammette che c’è un sapore di rancido ma che è comunque gradito, forse perché mascherato con tanto zucchero e cremine varie. Anche Aldo, il gestore del mio caffè preferito che è persona competente e obbiettiva esprime lo stesso concetto.
ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Quando ti esce un caffè…
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh si vede, ma poi quando si vedono questi nei neri sono segni di… è un difetto cosiddetto di tostatura – si dice tipping – perché poi dà un pochino di amaro, un po’ di bruciacchiato.
ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Però loro…
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Però è quello che piace qui.
ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Bravo. ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Che i napoletani sono abituati sostanzialmente a ...
ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Quando tu gli dai un sapore molto delicato, molto largo, sembra che dicono: “Ma che mi hai fatto? Mi hai fatto l’acqua?”.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infine tiriamo le somme in una tavola rotonda al Gambrinus, dove avevamo invitato a discuterne oltre ad alcuni giornalisti ed esperti, anche i maggiori torrefattori napoletani: Passalacqua, Toraldo e Kimbo. Ma non sono venuti.
BERNARDO IOVENE In città abbiamo sentito tanto rancido noi, tanto.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Dappertutto.
BERNARDO IOVENE 13 Non c’è un bar dove non abbiamo sentito rancido.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Significa che nel processo, dalla tostatura alla preparazione in tazza, i grassi che sono contenuti nel caffè sono rimasti esposti all’ossigeno troppo a lungo. Oppure la macchina da caffè è sporca.
LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Ci sono sicuramente dei parametri che si riscontrano evidentemente oggettivamente a prescindere. Io penso che il caffè debba essere la terza grande rivoluzione gastronomica napoletana dopo la prima che è stata il vino, perché all’epoca i contadini che bevevano e noi che bevevamo quei vini da ragazzi, belli tannici che lasciavano tutti i resti, ci piacevano tanto. Poi abbiamo capito che andavano un po’ più ripuliti e magari c’era un’estrazione di sapore superiore. Stessa cosa per la pizza, anche grazie alla vostra trasmissione iper criticata, però alla fine ha avuto effettivamente l’effetto di dare una…
BERNARDO IOVENE Sferzata di qualità dal punto di vista degli ingredienti.
LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Sì. È una cosa oggettiva col senno di poi. E poi credo che per il caffè ci sia bisogno anche di questo.
MICHELE SERGIO – PROPRIETARIO GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Il caffè del Gambrinus rispetta la tradizione napoletana. A Napoli il caffè è qualcosa che va tutelato. Io ho incominciato insieme a Francesco Borrelli una petizione per raccogliere delle firme per candidare a patrimonio Unesco il caffè napoletano. Perché il caffè al di là della tazzina – la tazzulella ‘e cafè, cara a Pino Daniele e a Sofia Loren - non è soltanto questo, è anche un rito. Il caffè è un momento aggregante, è un catalizzatore sociale.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA A me piacerebbe, però sarebbe meglio dire “il rituale” del caffè napoletano. Perché se poi noi all’Unesco gli presentiamo o gli proponiamo la qualità organolettica sensoriale del caffè napoletano, scusate…
MICHELE SERGIO – PROPRIETARIO GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Mi perdoni, all’Unesco non interessa la tazzina, la bevanda. All’Unesco interessa il rito, la socialità. Però alla fine, se mi posso permettere, il caffè napoletano è qualcosa che esce dagli schemi, che non può essere valutato secondo i criteri, perché noi ricordiamo che in Italia esistono due tipi di caffè: il caffè napoletano e il caffè italiano. Punto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Punto. Quando morirò, poi portami un caffè che io resusciterò come Lazzaro. Questa è la citazione dell’inimitabile Eduardo De Filippo in “Fantasmi a Roma”. Forse, però non immaginava proprio questo caffè che c’aveva un po’ di retrogusto rancido. Il professore ha provato la difesa estrema, ha detto “ciò che è gradito dalla gente non ha difetti” insomma, questo per antonomasia. Vale anche quando c’è l’espressione della democrazia. Però certo che se tu offri al popolo il rancido a colazione, a pranzo e 14 a cena, anche il rancido è buono. E puoi magari ingannare anche il palato mettendoci la cera e una cremina zuccherata. Alla fine però anche quello che era stato più critico con noi, Luciano Pignataro, ha dovuto ammettere con il senno del poi che dopo aver fatto la denuncia sulla piazza napoletana che era migliorata la qualità e, ha detto, “ora si aspetta la rivoluzione, che però è quella più difficile, quella intorno al caffè partenopeo”. Anche perché è difficile, perché c’è una vera e propria ritualità. È un veicolo di affetto, di socialità ed è per questo che quelli del Gambrinus stanno raccogliendo firme per farlo considerare bene per l’umanità, patrimonio dell’Unesco. Ma puoi farlo anche migliorando la qualità, eliminando il rancido. Anche perché un caffè diverso è possibile farlo a partire dalla tostatura, abbiamo capito che è lì intorno che si gioca la partita, noi abbiamo in Italia un’eccellenza, abbiamo il campione del mondo di tostatura. Ma non è napoletano. Vedremo di dov’è. E c’è anche chi l’ha capita, e punta molto sulla scelta della materia prima, sulla qualità, sulla formazione, sulla competenza. Anche perché il barista ha un ruolo: se tu bevi un caffè bruciato è possibile che la macchina stia lavorando ad una temperatura troppo alta, oppure è stato macinato il caffè troppo fino, o è stato pressato troppo o è stato servito in un’acqua che non è limpida ma perché non è stato fatto il purge. Stanno nascendo in tutta Italia gli specialty coffee, dove tutto è trasparente a partite da dove viene piantato e coltivato il caffè. Perché l’eccellenza la devi mostrare, non la devi nascondere. Il risultato è che il nostro Godina ha assegnato un bel 9,5! A chi?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’Italia si è sempre autoproclamata la patria del caffè, noi l’abbiamo girata tutta, abbiamo assaggiato caffè anche sui treni, in autogrill, nei bar delle piazze storiche delle maggiori città italiane: piazza Navona a Roma, a Firenze, a Milano, e a parte rare eccezioni - che ci sono - i fattori negativi sono abbastanza comuni.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Quando si tosta molto scuro, il chicco come vedete si danneggia, viene via una scaglia superficiale e si brucia. Questo procura poi in tazza amaro e astringenza, aroma di bruciato e del cosiddetto difetto di scorching.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi una tostatura spinta brucia anche gli aromi positivi che una tostatura più chiara invece esalta. DONNA Questo in tazza risulta più fruttato.
BERNARDO IOVENE Questo è vostro?
DONNA Sì. E questo in tazza risulta, può risultare anche rancido.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I caffè Specialty puntano proprio sull’esaltazione degli aromi che possono regalare le singole origini, è una nuova generazione che sta rivoluzionando l’approccio al caffè, valorizzandolo dal seme alla tazza. E a proposito di valori in pochi sanno che in materia di caffè abbiamo un campione del mondo. Ed è a Forlì.
BERNARDO IOVENE 15 Cioè tu qua a Forlì…
RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Eh nella zona industriale di Forlì qui siamo.
BERNARDO IOVENE Non si è mai sentito il caffè a Forlì. Tu sei il primo torrefattore al mondo?
RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Il primo torrefattore italiano ad aver vinto il campionato mondiale di tostatura. Qui abbiamo dei sacchi, per esempio quello che sta inquadrando è del Guatemala, un lotto del Guatemala. Possiamo avere del Colombia, dell’Etiopia, due etiopi, Ruanda. Il tostatore non può fare altro che rovinarlo. Se fa un buon lavoro, ottiene quello che il verde sa dare. BERNARDO IOVENE La regola di base: più è bruciato e più si ammazzano gli aromi?
RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Ah sì. Si sente solo il bruciato, aumenti un po’ il corpo. Come ti dicevo Bernardo, non è sudato, vedi? Non c’è olio, è un colore medio chiaro.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questi caffè costano dagli 8 euro fino ai 25: poi ci sono quelli pregiatissimi che viaggiano anche sotto vuoto. RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Se lo brucio, che viene fuori da questo? Che senso ha spendere 200 euro al chilo verde per poi bruciarlo? E senti solo l’amaro… non ha senso.
BERNARDO IOVENE Quindi viene macinato direttamente nel filtro? DONNA Viene macinato direttamente nel filtro.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La tostatura non basta, è importante come viene conservato e come viene trattato e cucinato all’interno del bar, anche la migliore specie può essere rovinata. Negli specialty il caffè si macina al momento. I grammi devono essere perfetti e sono pesati ogni volta, si pulisce il filtro sempre e si pressa il macinato dall’alto verso il basso. Poi, prima di inserire il filtro è d’obbligo fare il cosiddetto purge. In queste caffetterie se recuperiamo l’acqua prima dell’erogazione è limpida. BERNARDO IOVENE Eccola qua. Bianca.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo provato a fare la stessa operazione in alcuni bar dove il purge non lo fanno. BERNARDO IOVENE Basta, basta, basta. Quanti caffè hai fatto da stamattina? 16 DONNA Parecchi. Un chilo e mezzo. BERNARDO IOVENE E l’acqua bisogna farla scorrere ogni tanto, no, qua? DONNA Eh sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Eh sì, si sa ma non si fa, noi consumatori dovremmo pretendere che puliscano il filtro e che facciano il purge sennò l’acqua con cui ci fanno il caffè è questa. Invece negli Specialty la combinazione di tutte le attenzioni intorno alla tazza di caffè alla fine dà questi risultati.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Soprattutto marzapane, caramello, un po’ di latte caramellato. Una leggera nota agrumata di arancia rossa: nove e mezzo.
BERNARDO IOVENE Nove e mezzo? ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Nove e mezzo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo a Milano dove da poco è sbarcato Starbucks. Pare che il fondatore - proprio a Milano nel 1983 - affascinato dai bar italiani ebbe l’idea di realizzare una catena di caffetterie che oggi nel mondo sono circa 30 mila. GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS Infatti Howard Schultz dice sempre che questo è un cerchio che si chiude in circa 35 anni di storia, perché dal 1983, quando è venuto qua a Milano, è venuto ad imparare da noi italiani come bevevamo il caffè.
BERNARDO IOVENE Adesso ha la presunzione di venire qua a dire agli italiani come si fa il caffè?
GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS Assolutamente no. Siamo arrivati in Italia con rispetto e umiltà. BERNARDO IOVENE State facendo un tentativo di invasione…
GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS No, è un tentativo di condivisione.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Milano in questo meraviglioso spazio c’è anche la torrefazione; il caffè tostato viaggia in questi tubi fino alla tazzina. 17
UOMO Abbiamo appunto il blend che è una miscela… L’Uganda e invece l’Honduras sono entrambe delle mono origini. Noi usiamo solo 100 % arabica.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Starbucks non ci sono segreti. Miscele e origini sono ben specificate. È scritto tutto su queste tesserine che vengono offerte insieme al caffe. Questo è un Uganda, questo un Honduras. Dietro c’è la descrizione del gusto, dove è situata la piantagione e la storia di chi la coltiva. I baristi hanno tutti una formazione tecnica e culturale che si trasforma anche in passione per il caffè. UOMO Sono stato a Londra, poi sono venuto qui e ho fatto tre mesi all’area gusto con Starbucks dove ci hanno insegnato tutto riguardo alle macchine, il caffè, da dove proviene come dare l’eccellenza, quindi come pressare il caffè quando appunto andiamo a tampare.
DONNA Mi si è aperto un mondo quando sono arrivata qua.
BERNARDO IOVENE Ma avevi già lavorato?
DONNA Avevo già lavorato, ma mi si è aperto un mondo.
BERNARDO IOVENE Cioè che cosa non sapevi?
DONNA Non sapevo i vari metodi di estrazione, non sapevo tutti i tipi di caffè, come vengono raccolti, come vengono lavati, asciugati, tutti i vari procedimenti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Come negli specialty oltre all’espresso troviamo anche gli altri modi di bere il caffè, a filtro a goccia, ma a noi interessa valutare i vari espressi con il nostro assaggiatore. Assaggiamo prima la miscela Gravitas.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sento un aroma di frutta candita, scorza di arancia candita, pan tostato, caramello, anche una nota di marmellata di frutta di bosco, forse un pochino di fragola, caramello. Io direi che gli possiamo dare 7.5.
BERNARDO IOVENE Questo è Uganda?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA È Uganda. Ha una nota di marmellata di frutta, di fragola, frutta rossa di bosco. Il voto: otto e mezzo.
BERNARDO IOVENE 18 Otto e mezzo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Concludiamo cercando di tutelare il nostro Sigfrido che arriva in Rai prima dell’alba e beve tanto caffè al bar di via Teulada.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Una nota prevalente di cacao, pan tostato, leggermente legnoso e forse un pochino rancido. Che non sono cose positive.
SIGFRIDO RANUCCI Io ne bevo 7/8 qui di caffè al giorno. Capito Gabri? Dice che sa leggermente di rancido... Simone niente sufficienza. BARISTA RAI Quanto è? Cinque?
SIGFRIDO RANUCCI Cinque, ha detto. Che però rispetto alla media com’è?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA In questi giorni che abbiamo assaggiato caffè, siamo più o meno in media.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo nella media italiana e allora rivolgiamo un’attenzione anche a tutti i nostri colleghi che invece sempre in via Teulada si servono alla macchinetta.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Odore leggero di muffa, di terra, terra bagnata, legno, leggero cacao, muschio, leggera muffa, legno, come lo definisco a volte straccio bagnato di qualcosa di sporco, fava di cacao, bastoncino di liquirizia. Io direi leggermente anche rancido in retrogusto, poi con un corpo molto molto basso. Una votazione di due e mezzo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Due e mezzo. Mamma mia. Proprio nella sede gloriosa della Rai di via Teulada, dove i tg anni fa annunciavano lo sbarco sulla Luna, il caffè della macchinetta ha il sapore dello straccio bagnato. E invece il nostro Godina ha dato tra 4 e 5 al caffè del bar di Via Teulada. Ecco sotto la sufficienza ma più alto di quello che ha dato al Gambrinus. Questo grazie al lavoro del nostro Simone e di tutti gli altri ragazzi che lavorano lì freneticamente ma sempre con il sorriso sulla bocca per renderci più sopportabili la lunga giornata in redazione. Abbiamo però visto che un altro modo di fare il caffè è possibile ma si è trasformato in un incubo perché sono gli americani di Starbucks che ce lo insegnano. Tu prendi il chicco di caffè, vedi tostarlo, poi lo segui, viene macinato direttamente nel filtro pulito e servito in acqua calda trasparente perché è stata pulita la macchinetta. E vengono poi allegate tutte le informazioni. Tu hai qualità della materia prima, competenza, trasparenza, tutto insieme condensati in un caffè, che meraviglia. Adesso però lasciateci una preoccupazione, il nostro Godina: riuscirà a prender sonno dopo tutti i caffè che ha tirato giù? Meno male che l’abbiamo esentato dall’ assaggiare il caffè che va più di moda in questi ultimi tempi, quello al ginseng. Uno crede di tirar giù gli effetti benefici, miracolosi, di una radice coreana e invece… 19
BARISTA I ginseng nell’ultimo periodo stanno crescendo, ma in maniera molto importante.
BARISTA 2 Il ginseng va molto in voga ora.
BERNARDO IOVENE Ah sì?
BARISTA 2 Sì.
BERNARDO IOVENE Ne vendete tanto?
BARISTA 2 Sì.
BERNARDO IOVENE Chi è il consumatore medio del ginseng?
BARISTA 2 Chi non può prendere caffè o chi gli dà noia la caffeina, o chi, diciamo, ha bisogno di energia.
CLIENTE Io lo prendo spesso, perché è energizzante. Non contiene la caffeina, però a me piace moltissimo. Anche il gusto, l’aroma sì.
BERNARDO IOVENE Ma anche perché è salutare?
CLIENTE Sì, e ne prendo anche di più al giorno. Più di uno.
CLIENTE 2 Ginseng.
BERNARDO IOVENE Sempre? CLIENTE 2 Sempre.
BERNARDO IOVENE Ma come mai?
CLIENTE 2 Mi dà più spinta, più coraggio. Lo prendo perché non potendo prendere altro caffè in quanto ho colite, gastrite, eccetera … il ginseng mi dà un sollievo.
BERNARDO IOVENE 20 Ah, e non le dà queste controindicazioni?
CLIENTE 2 No. Io lo prendo tutte le mattine.
BERNARDO IOVENE Ah, mentre se prende il caffè?
CLIENTE 2 Se prendo il caffè ho degli spasmi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per tutti ormai è caffè al ginseng. In realtà se chiediamo al barista di leggere le etichette scopriamo che è un “preparato in polvere per bevanda al gusto di caffè e ginseng”. Si beve perché ha meno caffeina e si pensa che faccia anche bene.
BERNARDO IOVENE Ah, ma lei ha mai visto che c’è dentro la bevanda ginseng?
CLIENTE 2 No. BERNARDO IOVENE Lei lo sa cosa c’è dentro quello che beve?
CLIENTE No, non lo so. Perché fa male il ginseng?
BERNARDO IOVENE Però le piace?
CLIENTE No, mi dica: fa male il ginseng?
BERNARDO IOVENE Però le piace?
CLIENTE A me si piace molto.
BERNARDO IOVENE Eh quello è il punto allora.
FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Intanto non scordiamoci che il consumatore questa cosa la beve al bar: quindi quando va al bar è alla ricerca di qualcosa che sia alternativo a qualche altra bevanda e quindi quello che beve deve anche essere buono. Altrimenti non lo consuma. Oppure deve andare in farmacia.
BERNARDO IOVENE Sì. FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS 21
Se vuole invece qualcosa che lo aiuti a migliorare.
BERNARDO IOVENE Deve andare in farmacia.
BERNARDO IOVENE Chi è lui?
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Lui è il titolare, mister YO.
BERNARDO IOVENE Piacere. Un coreano originale.
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE È un coreano originale… T
ITOLARE PERSALUTE Pelle coreana, testa coreana.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è coreano il ginseng puro. Si estrae dalla la radice di questo fiore che si coltiva a 800 metri sugli appennini della Corea del sud. Da questa radice essiccata si estrae il Ginseng in polvere o in estratto molle.
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE La radice viene centrifugata ad altissima velocità, per cui se ne estrae il succo.
BERNARDO IOVENE Posso?
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Prego.
BERNARDO IOVENE Non muoio?
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Non muore. È un gusto particolare, abbastanza forte. Forte.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un grammo al giorno di ginseng puro rafforza il sistema immunitario, perché in questa qualità rossa coreana che è il Panax ci sono 32 tipi di ginsenosidi, il principio attivo che dà benessere, forza ed equilibrio.
SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Affinché ciò avvenga bisogna consumare ginseng puro per un periodo abbastanza lungo – diciamo di almeno 2/3 settimane – prendendone almeno un grammo puro al giorno. BERNARDO IOVENE Estratto di ginseng 0,3? 22
UOMO Esatto.
BARISTA Come vedi, l’estratto di ginseng è all’1%.
BERNARDO IOVENE Ah. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il ginseng contenuto in questi preparati varia dall’0,3% al 1%, ma parliamo della percentuale rispetto al peso del contenuto nel barattolo. In tazzina ne arriva molto meno.
FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Le dico anche quanto ce n’è per tazzina: in una tazzina di ginseng, l’estratto è 0,04 grammi.
BERNARDO IOVENE 0,04? FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Ogni tazzina 0,04 grammi di ginseng.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per arrivare a un grammo e avere i benefici del ginseng ci vogliono 25 tazzine al giorno! Restano gli ingredienti dell’altro 99 e rotti per cento. Ci sono dei bar, che quando hanno letto l’etichetta l’hanno tolto con tanto di cartello. BERNARDO IOVENE Non più ginseng?
RICCARDO SCHIAVI – CAFFETTERIA LA PASQUALINA BERGAMO No.
BERNARDO IOVENE Ecco il perché. Perché?
RICCARDO SCHIAVI – CAFFETTERIA LA PASQUALINA BERGAMO Mi sono reso conto che poi effettivamente all’interno del prodotto che vendevamo di ginseng c’era solo lo 0,8/0,9 %. Tutto il resto era fatto di zuccheri, additivi come mono trigliceridi e aromi chimici. E allora ovviamente non mi sono sentito coerente. Qualche cliente ci ha ringraziato e ha apprezzato la scelta, qualche altro si è un po’ arrabbiato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In alcuni caffè specialty il ginseng non l’hanno mai avuto.
SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Non utilizziamo nessun tipo di surrogato del caffè.
BERNARDO IOVENE Quindi il ginseng? 23
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi il ginseng non lo abbiamo.
DONNA Come mai?
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Non usiamo prodotti liofilizzati…
BERNARDO IOVENE La signora dice che è una cosa salutare il ginseng.
DONNA Beh, fa bene.
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Fa bene?
DONNA È ottimo il ginseng, sì, e poi è un’alternativa al caffè e a chi non prende la caffeina.
DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi preferiamo il caffè buono.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Negli ingredienti c’è anche il caffè: in media è il 10%, ma i primi ingredienti che troviamo su tutte le etichette e che rappresentano l’altro 90% del contenuto sono zucchero, sciroppo di glucosio, grassi di cocco, aromi, stabilizzanti. Analizziamo queste etichette insieme al professor Spisni nutrizionista dell’università di Bologna.
ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Quelli zuccherati contengono una quantità di zucchero impressionante. Siamo circa per tazzina o per tazza circa, 100 ml di preparato, intorno ai 14 grammi di zucchero.
BERNARDO IOVENE Che significa?
ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Tre bustine di zucchero. Cioè in un caffè uno mette una bustina di zucchero se proprio ne mette tanta, sennò mezza insomma.
BERNARDO IOVENE Il beneficio del ginseng – se si vuole avere – bisogna prendere una zuccheriera intera.
ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Esatto. Che poi lo zucchero non è sempre solo saccarosio, ma spesso c’è sciroppo di glucosio, che da un punto di vista fisiologico è peggio. Non tutti, ma molti di questi, hanno anche grassi all’interno che sono su base cocco. Latte scremato in polvere, 24 oppure proteine del latte, diversi additivi, tra cui emulsionanti, anti agglomeranti … insomma tutta questa parte è una chimica che non fa bene. Poi abbiamo appunto gli stabilizzanti, aromatizzanti. Mettono polifosfati – sono quelli che abbiamo tolto dai formaggini - abbiamo fatto la battaglia per togliere i polifosfati dai formaggini e adesso ce li rimettono nel ginseng. BERNARDO IOVENE E 471, E 472: cioè qui c’è un colorante? E-450.
ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sì. È tutta chimica che potremmo assolutamente evitare. Come le ho detto, a parte il caffè io qui dentro non ci vedo nulla di salutare.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se ne è accorto anche il signor Lusetti, la sua ditta da poco ha introdotto un Ginseng senza zucchero.
FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Noi abbiamo cercato di pulire questa etichetta. Quindi quello che lei dice – che c’è il 99,9 % di altre cose – ma le altre cose sono latte, caffè, nel nostro caso maltitolo – che è un dolcificante naturale che proviene dal mais, non alza l’indice glicemico, ha meno calorie - perché poi io devo dare un prodotto dolce, altrimenti lei non me lo beve. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma secondo il professor Spisni i dolcificanti non sono migliori del saccarosio né come effetti sull’intestino né come effetti non ingrassanti.
ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Alla fine se uno vuole l’effetto del ginseng, è un effetto sicuramente interessante, ma non lo tira fuori da queste bevande.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma una pensa di beneficiare degli effetti miracolosi della radice rossa coreana, invece butta dentro 3 bustine di zucchero, grassi, aromi chimici e additivi. Ma uno come fa a saperlo se con la tazzina non ti servono anche la lista degli ingredienti. È stato bravo quel gestore di bar che l’ha ritirato di sua iniziativa dal commercio. Contrariamente all’avidità di chi pensa al profitto o al consenso dei clienti, lui ha pensato alla tutela della salute. In quanti pensano al bene consumo al rischio anche di sembrare inadeguati?
Ma cosa hai messo nel caffè? Report Rai PUNTATA DEL 21/10/2019 di Bernardo Iovene. Le capsule del caffè ormai sono una realtà nelle nostre case, tra i vari sistemi soltanto Nespresso è arrivata a un accordo con il Cial, Consorzio italiano alluminio, per riciclare tonnellate di capsule, tutte le altre vanno in discarica (o in inceneritori). Abbiamo sottoposto dieci capsule, tra le più vendute, ad analisi sensoriale del trainer Andrej Godina e a nove professionisti dell’Istituto Internazionale assaggiatori. Abbiamo poi chiesto alle case coinvolte di avere un confronto diretto sull’assaggio con Godina, ha accettato soltanto una. Le capsule sono state inoltre analizzate da tre laboratori diversi per la ricerca di metalli eventualmente rilasciati e poi sono stati esaminati separatamente acqua e caffè macinato. I risultati sono stati commentati dalle maggiori case coinvolte e da esperti dell’Istituto Ramazzini, dell’Università di Padova e dell’Arpa Roma-Lazio. Le osservazioni del Gruppo Gimoka, a cui abbiamo sottoposto le analisi realizzate da Bernardo Iovene e quelle dei laboratori di Arpa Lazio a cui abbiamo sottoposto gli esiti delle indagini interne all’azienda Come anticipatovi in occasione della nostra comunicazione del 14/10/2019, siamo a condividere con voi le risultanze delle analisi commissionate allo scopo di verificare ed approfondire il tema da voi evidenziato con la vostra @mail del 9 Ottobre 2019. Premettiamo che le analisi sono state condotte da un laboratorio accreditato (Mérieux NutriSciences), al quale affidiamo buona parte delle analisi annualmente previste dall’azienda. Sono stati dunque analizzati alcuni campioni di caffè prelevati in corrispondenza delle differenti fasi maggiormente caratterizzanti il nostro processo produttivo, al fine di determinarne il contenuto di alluminio, con lo scopo di rilevarne la concentrazione sia nel del caffè macinato, sia nel prodotto finito confezionato. Nella tabella sottostante vengono riportati i valori di alluminio rilevati all’interno del caffè macinato (Nome campione: Caffè macinato_Gran Bar_ L08U), all’interno del caffè confezionato (Nome campione: Prodotto finito_Gran Bar_L08U) e all’interno della bevanda erogata (Nome campione: Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U), riferiti al prodotto Gran Bar, risultato il secondo più critico dalle vostre analisi. Come sottolineato nella nostra comunicazione precedente, la descrizione “caffè in polvere a marchio Gimoka (sacchetto alluminio)” con la quale viene marcata la prima referenza all’interno del rapporto di analisi fornito, risulta talmente generica da non poterci permettere una chiara identificazione del prodotto oggetto di analisi. ID Prova Parametro di analisi Nome campione Valore/Incertezza (mg/kg) Quantità di campione analizzata Metodo utilizzato 1 Alluminio – caffè macinato Caffè macinato_Gran Bar_ L08U 25,3±5,0 100 g MP 1288 rev. 16 2019 2 Alluminio – caffè macinato Prodotto finito_Gran Bar_L08U 26,2±5,1 100 g MP 1288 rev. 16 2019 3 Alluminio – caffè erogato Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U < xx, 00 mg/kg 100 g MP 1288 rev. 16 2019 I risultati ottenuti, oltre ad evidenziare dei valori ben al di sotto di quelli da voi rilevati, indicano una concentrazione di alluminio nel caffè erogato inferiore rispetto al limite di rilevabilità dello strumento: nulla di quanto presente all’interno della matrice originaria migra in tazza a seguito del processo di erogazione, evitando dunque qualsiasi tipo di esposizione al consumatore finale. Questo elemento, rafforza la validità dell’analisi che vi abbiamo sottoposto in occasione della nostra precedente comunicazione del 14 ottobre, comprese tutte le considerazioni, metodologiche e non, che ne derivano. Ci teniamo inoltre a sottolineare che il laboratorio che si è occupato di effettuare le analisi, non solo è accreditato per la prova di determinazione dell’alluminio all’interno del caffè (requisito non garantito invece per i laboratori Arpa), ma partecipa anche a prove di Proficiency Test. Questi, in particolare, sono strumenti utili per garantire qualità e affidabilità dei metodi analitici e, di conseguenza, dei risultati delle prove condotte in laboratorio. Sinteticamente ciò significa che in ogni circuito interlaboratorio i partecipanti effettuano una o più prove sul medesimo campione. Ciascun laboratorio raffronta i propri risultati analitici con quelli ottenuti dagli altri, provvedendo così ad una costante autoverifica delle proprie capacità di prova e, allo stesso tempo, ad una verifica ad ampio spettro della performance e dell'affidabilità del laboratorio stesso. Tramite i Proficiency Test, infatti, si verifica la gestione e l’applicazione nell’esecuzione di una prova sotto tutti gli aspetti di sistema previsti e, pertanto, rappresentano un mezzo per garantire il corretto svolgimento delle analisi, l’affidabilità degli operatori e la qualità dei laboratori nel tempo. A valle di tutte le considerazioni esposte in precedenza e delle relative risultanze analitiche fornite a supporto, certi di avere contribuito ad una valida, completa e trasparente informazione, confidiamo nella divulgazione di informazioni corrette, obiettive e non fuorvianti. Di seguito alcune utili precisazioni a supporto dell’attività analitica svolta dai laboratori dell’Agenzia e in particolare dal laboratorio sanitario di Roma che ha determinato il tenore dei metalli sui campioni di “caffè in polvere” che ci avete consegnato. Il laboratorio sanitario ARPA nella sede territoriale di Roma è il laboratorio ufficiale nell'ambito del controllo sugli alimenti nella Regione Lazio ed è accreditato secondo la norma UNI CEI EN ISO/IEC 17025 che definisce i "Requisiti generali per la competenza dei laboratori di prova e di taratura". L’accreditamento, rilasciato da un Ente terzo, in Italia ACCREDIA, attesta che il laboratorio soddisfa sia i requisiti tecnici che quelli relativi al sistema di gestione della qualità, necessari per garantire dati e risultati accurati e tecnicamente validi. Il mantenimento della competenza tecnica del laboratorio è inoltre assicurata dalle attività di sorveglianza periodica svolte dagli ispettori ACCREDIA. Il laboratorio utilizza metodi ufficiali e accreditati per la determinazione dei metalli nei prodotti alimentari e per assicurare la validità dei risultati partecipa a circuiti interlaboratorio, Proficiency Testing Providers (PTP) gestiti da organizzatori accreditati ai sensi della norma ISO/IEC 17043. Entrando nel dettaglio delle analisi eseguite, si vuole precisare che i campioni di caffè consegnati presso la nostra sede, a marchio GIMOKA, non corrispondono a quelli denominati “Gran Bar” cui fa riferimento la ditta GIMOKA, rendendo quindi non corretto un confronto dei risultati analitici ottenuti dai due laboratori. A supporto di quanto detto, si vuole inoltre evidenziar che il tenore dei metalli nei campioni di “caffè in polvere” analizzati presso il nostro laboratorio era in generale molto variabile soprattutto per quanto riguarda il contenuto in mg/kg di Alluminio. Tali differenze si riscontravano tra caffè di diverse denominazioni commerciali, ma anche tra tipologie diverse di caffè aventi stessa denominazione commerciale, probabilmente riconducibili a differenti miscele di caffè utilizzate.
“MA COSA HAI MESSO NEL CAFFÈ” di Bernardo Iovene collaborazione di Alessia Marzi immagini di Cristiano Forti - Alfredo Farina – Davide Fonda S
IGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, il nostro Bernardo Iovene, nella scorsa stagione aveva fatto infuriare i napoletani perché aveva messo in discussione una loro ritualità, il caffè. Questa volta riuscirà a recuperare? Vediamo, la prendiamo un po’ dalla fine. UOMO Laggiù non ci deve andare.
BERNARDO IOVENE No, no. Sto vedendo le capsule che già stanno là. UOMO Lo so, però adesso facciamo finire di caricare. Poi dopo semmai fai la ripresa.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Capannori è all’88 per cento di raccolta differenziata. Quello che resta – il 12 per cento – viene caricato su questi camion e va in discarica.
ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Questo qui è un ufficio, questo è un ufficio. Guarda la roba. BERNARDO IOVENE Questa è una roba che non si smaltisce.
ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Eh no. Eccoli qua, Dolce Gusto. Questa era roba… andrebbero sanzionati però, eh. Questo non va bene. Questo è un caffeinomane.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Fanno eccezione le capsule Nespresso, che attraverso accordi con le aziende di raccolta dei rifiuti e il Consorzio Imballaggi Alluminio e grazie alla sensibilità dei consumatori che le riportano esauste nei punti vendita, vengono trasformate in grani di alluminio riutilizzabile. La polvere del caffè invece serve da compost per fare il riso…
MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA L’abbiamo proprio chiamato “Da chicco a chicco”, proprio per il fatto che un chicco di caffè si trasforma in un chicco di riso. E sappiamo che il riso poi va al banco alimentare della Lombardia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutte le altre capsule, che utilizzano ancora la vaschetta di plastica, vanno invece in discarica o negli inceneritori.
ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO - CAPANNORI Si stima che siano un miliardo all’anno le capsule che vanno o in discarica o negli inceneritori. 2
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però, bravi quelli di Nespresso, con la cialda riciclata fanno, coltivano il riso. Ma sono svizzeri. Noi siamo italiani, ci crediamo intenditori, ma avevamo visto nella scorsa puntata che non è così. Il nostro assaggiatore, Andrej Godina, una laurea in scienza del caffè e un dottorato nell’analisi sensoriale, aveva girato l’Italia e aveva bocciato gran parte dei caffè fatti nei nostri bar, ma soprattutto aveva distrutto un rito: il caffè napoletano che molti vogliono candidare a patrimonio dell’Unesco. Secondo lui invece aveva un sapore di rancido e bruciacchiato. Quando avevamo denunciato, eravamo stati sommersi dalle critiche. Questa volta il nostro Bernardo invece che cosa ha fatto? Ha analizzato, ha messo sotto inchiesta il caffè delle cialde e anche il caffè fatto con la moka. E per tutelarsi dagli attacchi l’ha portato ad assaggiare a 9 professionisti, gli assaggiatori ufficiali dell’istituto internazionale, che hanno assaggiato il caffè senza conoscere la marca, senza sapere. Quindi il loro parere è inappellabile. Il caffè è il seme di un frutto esotico, dovrebbe avere un retrogusto di arancia, mandarino, limone, bergamotto, di nocciola tostata o di fava di cacao. E invece qui che cosa hanno trovato i nostri assaggiatori? Hanno trovato un retrogusto di cartone da imballaggio, straccio bagnato, cicoria bollita, gomma bruciata e addirittura l’empireumatico. Ma che cos’è l’empireumatico? Ma cosa ci mettono dentro il caffè?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se non è moka, ormai è espresso. In casa nostra arriva con le capsule di alluminio o in plastica. Il massimo per la sostenibilità ambientale sarebbero quelle di carta, ma il caffè se prende aria, diventa rancido.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Quel caffè prende aria.
BERNARDO IOVENE Non è il massimo.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Infatti è necessario… ti faccio vedere qui, è necessario un altro imballo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono le compostabili, ancora poche, le fa anche Lavazza, costano 42 centesimi per capsula. E ci sono anche quelle che possono essere utilizzate con il metodo Nespresso.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Qui viene utilizzato un materiale che viene derivato da composti organici: funghi, mais, vegetali sostanzialmente, e si può gettare insieme al caffè esausto nel compostabile. Bene questi sono i vari format: ogni format necessita di una macchina di erogazione differente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cominciamo con il sistema Lavazza, analizziamo l’originale e qualche compatibile più diffusa. Partiamo proprio con la Passionale.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE 3 PROFESSIONISTA Il corpo è morbido, è leggermente dolce, è amaro. Sostanzialmente non è acido, forse un pochino. E il retrogusto è sostanzialmente di pan dolce, caramello e legno. Legnoso. Retrogusto abbastanza intenso. Quindi a questo caffè io darei cinque.
BERNARDO IOVENE Cinque?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Va bene, andiamo a inserire quindi il prossimo, il compatibile. Fa più bolle, potrebbe essere dovuto al fatto di una percentuale maggiore di robusta. Il corpo è molto intenso, il gusto amaro è molto intenso. E ha un aroma molto molto intenso e persistente di terra. Leggermente si, di sottobosco, di muschio, forse un pochino di gomma, di gomma bruciacchiata. Sì, questo caffè… la cosa positiva – se proprio si vuole dire di questa tazza – è un corpo molto morbido. Però, con i sentori che ho descritto precedentemente, gli darei tre.
BERNARDO IOVENE Tre?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre. Perché la terra, la gomma…non sono considerate positive.
BERNARDO IOVENE Quindi abbiamo la Lavazza cinque e abbiamo la compatibile tre.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, che è questo colore blu, Borbone. Abbiamo tre, adesso passiamo alla rossa, sempre una compatibile.
BERNARDO IOVENE Di che marca è?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Rossa Borbone.
BERNARDO IOVENE Sempre Borbone.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Un po’ di carta o cartone, cartone da imballo. Molto amaro: sa di un retrogusto di cicoria, cicoria bollita, bruciacchiato, fumo, un pochino anche qui di gomma, misto a una liquirizia e una fava di cacao fondente. È leggermente astringente al palato. Astringente è quando si passa la lingua sul palato e si sente il ruvido. Ed è anche leggermente rancido, il retrogusto. Due e mezzo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 4 Abbiamo proposto un confronto diretto tra Godina e Borbone, ma l’azienda non ha accettato. Ci siamo rivolti allora all’Istituto Internazionale Assaggiatori dove nove professionisti hanno valutato gli stessi caffè. LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È ignoto ai giudici come sono ignoti i tipi di caffè che noi assaggiamo. BERNARDO IOVENE Loro non lo sanno che cosa assaggiano…
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Non sanno neanche se si tratta di cialde, di capsule.
BERNARDO IOVENE Quindi al buio assaggiate?
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sempre.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I caffè vengono preparati in questa stanza e serviti nell’aula adiacente. Ogni assaggiatore ha una scheda, che compila sul tablet. Indica il punteggio per la percezione visiva, olfattiva, gustativa e retro olfattiva. Una centrale elabora i dati e dà un’unica valutazione per ogni caffè. Cominciamo con i primi tre, Sistema Lavazza.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Vediamo che ha un’intensità di colore abbastanza elevato, una buona tessitura, una buona intensità olfattiva, un buon corpo, scende sull’acido logicamente. BERNARDO IOVENE È poco acido?
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È poco acido. È più amaro che acido e abbiamo un che di fiori e frutta fresca e un che di vegetale per poi esprimersi tutto sul tostato.
BERNARDO IOVENE Quindi che giudizio diamo? Sufficiente…
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Visto così, vorrei dire che è un giudizio standard. Uno si beve un caffè…
BERNARDO IOVENE Standard.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ 5 Sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo ai risultati della capsula Borbone rossa.
BERNARDO IOVENE Borbone rossa.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Borbone rossa: ancora più amaro del precedente.
BERNARDO IOVENE Molto amaro.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ E praticamente con un’acidità quasi assente. Più vegetale.
BERNARDO IOVENE Vegetale che significa?
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sentore di paglia.
BERNARDO IOVENE Paglia? Legno?
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Potrebbe essere. Poi abbiamo Don Carlo miscela blu, sempre caffè Borbone. L’amaro aumenta ancora. Fiori e frutta fresca proprio non ne troviamo più la presenza. Abbiamo già un qualcosa sull’empireumatico. Cos’è l’empireumatico? Fumo e di bruciato.
BERNARDO IOVENE Ah… fumo e bruciato.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Quindi questo scendiamo ancora leggermente. Poi andiamo a vedere se abbiamo ragione.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La valutazione dell’Istituto Assaggiatori si esprime in centesimi. Tecnicamente è complicatissima, per noi terreni è più comprensibile il grafico: se Lavazza è standard e – diciamo – vale 6, i due Borbone sono meno della metà.
BERNARDO IOVENE Se standard vale sei, abbiamo detto, no, standard… 6
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì…
BERNARDO IOVENE Questi valgono tre? LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ
Sì, è un modo di comunicare.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Torniamo a Pistoia da Godina e passiamo al sistema Nespresso, con un originale Colombia.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al gusto è particolarmente acido, leggermente dolce, poco amaro, il corpo è molto leggero, le note sono agrumate: limone, lime, un pochino di mandarino, leggermente fiorito. In laboratorio questa è una buona tazza di caffè. Otto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche Illy ha fatto le sue capsule compatibili con le macchine Nespresso.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato ha un acidità abbastanza intensa, piacevole, dolce, mi ricorda in retrogusto un po’ il bergamotto, il pan tostato, un po’ di caramello, leggermente floreale. Questa invece è una buona tazza, non ho riscontrato difetti. Sette e mezzo. Forse anche otto. Molto piacevole anche il retrogusto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo a Kimbo. Atra capsula compatibile con il sistema Nespresso.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato è molto corposo, è denso. Leggermente astringente. Un aroma di legno piuttosto importante, muschio, carta, un pochino di cartone che ha degli aromi che abbiamo già sentito in altre capsule, soprattutto amaro e leggermente dolce. Sì… è terroso.
BERNARDO IOVENE Terroso?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, nel retrogusto lungo, un voto da quattro. E poi terminiamo…
BERNARDO IOVENE Con Napoli non ce la facciamo proprio?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA 7 A Napoli non ce la facciamo. Se vogliamo provare un’altra torrefazione partenopea.
BERNARDO IOVENE Che cosa è questo? ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Borbone. Anche loro fanno la capsula alluminio, e vedi, plastica, un pochino… Al gusto è molto corposo, è molto astringente. Ha un retrogusto di terra, di muschio, forse leggermente muffa, fungo. Hai presente il sottobosco quando si va a camminare e ha appena piovuto?
BERNARDO IOVENE Ce l’ho proprio qua.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Appunto, è intenso nel retrogusto. Io direi tre. BERNARDO IOVENE Tre?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Riepilogando: Nespresso e Illy otto. Lavazza cinque. Kimbo ed Esselunga quattro. Borbone miscela blu, Borbone Respresso ed Aneri 3. Borbone miscela rossa 2 e mezzo. Sembra un giudizio severo. Sentiamo allora i nove assaggiatori dell’Istituto internazionale, prima che uscissero i risultati e quando ancora non sapevano i nomi delle marche dei caffè assaggiati.
BERNARDO IOVENE Allora che caffè ha bevuto?
ASSAGGIATORE 1 Direi tra il mediocre e il pessimo. ASSAGGIATORE 2 Decisa presenza di robusta.
BERNARDO IOVENE Quindi negativo?
ASSAGGIATORE 2 Per il nostro gusto, sì.
ASSAGGIATRICE Sì, son d’accordo sul mediocre, livello non molto alto.
BERNARDO IOVENE Non molto alto? Conferma lei? 8
ASSAGGIATORE 3 Le dirò soltanto una cosa: è stato un purgatorio, mi son guadagnato delle indulgenze.
ASSAGGIATORE 4 Molto tostati, sensazione di cenere, di gomma bruciata e pochissimo – anzi non son riuscito a trovare – l’aspetto floreale che solitamente è quello che ricerco in un caffè.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed ecco i risultati finali.
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Come primo Nespresso Colombia. Come secondo abbiamo un Lavazza.
BERNARDO IOVENE Lavazza è secondo?
LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Secondo la scala in centesimi Nespresso è primo con un voto che potrebbe corrispondere a un sette, segue Lavazza con sei, poi Illy con cinque e mezzo, e poi Esselunga con quattro. Tre Aneri e Borbone Nero, e poi sotto il tre gli altri Borbone e per ultimo Kimbo.
BERNARDO IOVENE L’ultimo? LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Dispiace per te che sei napoletano, che vuoi che ti dica?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci spiace sì, i caffè napoletani Borbone e Kimbo risultano ultimi della scala ed è la stessa valutazione – a parte invertite – che ha dato anche il nostro assaggiatore. E, d’accordo con Godina abbiamo proposto un confronto diretto sia a Kimbo che a Borbone, ma non hanno accettato. Lavazza invece che è stato giudicato con un sei dai nove assaggiatori e un cinque da Godina ha accettato la sfida.
FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Ecco qua. Assolutamente. BERNARDO IOVENE Quindi cominciamo l’assaggio?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Ha una nota intensa di amaro, è leggermente dolce, una nota acida molto molto bassa. Forse un po’ bruciacchiato. 9
FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Assolutamente. Mi ritrovo anche assolutamente nella descrizione della tazza.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Il voto non sarà molto alto, ma perché l’intensità di amaro per me in questa tazza – considerando che è arabica – è abbastanza elevato.
BERNARDO IOVENE Il legno?
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No, legno qui non l’ho sentito.
BERNARDO IOVENE Qui non c’è… Perché nella capsula che hai assaggiato l’altra volta sentivi legno.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh un pochino sì infatti. BERNARDO IOVENE Quindi è differente, ci hanno imbrogliato, hanno messo nella capsula…
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No. Non credo proprio, perché poi i lotti dovrebbero essere…
FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI No, assolutamente. Diciamo che sicuramente un amaro è presente. Sicuramente è ben bilanciato dall’acidità bassa, da una buona dolcezza.
ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io direi che – almeno per quanto mi riguarda – un sei lo prende.
FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Concordo assolutamente su moltissime di queste valutazioni. Non mi permetto di andare sul voto, diciamo che parlo chiaramente di un buon bilanciamento, di questo bel finale di caramello. Questo è un gusto che incontra moltissimo i nostri consumatori.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine Lavazza ha recuperato un punto. È un dato di fatto comunque che sulla qualità del caffè c’è confusione: a noi italiani piace la robusta, che è considerata mediocre ma fa tanta schiuma, bella, alta. L’arabica invece ha uno strato inferiore ma non è schiuma, è crema, che sviluppa – se buona – solo aromi. BERNARDO IOVENE Arabica vediamo, questa qua è crema?
EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì. Vedi come è, subito lo spessore è molto più basso. Però è ben specifico. 10 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sandalj a Trieste importa caffè verde di qualità da oltre settant’anni. Eddy Bieker ci spiega la differenza tra crema e schiuma, con un caffè arabica che costa otto euro al chilo all’ingrosso e un caffè robusta di due euro.
EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Guarda lo spessore di questa… ovviamente il consumatore medio italiano…
BERNARDO IOVENE Gli piace questo? EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Ahh, questa qui sì che una bella crema… BERNARDO IOVENE Questa fa impazzire gli italiani?
EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Esatto. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La crema dell’arabica persiste, mentre la schiuma della robusta, dopo un po’ sparisce.
EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Vedi quanto è già calata la crema?
BERNARDO IOVENE Un fuoco di paglia questa crema? Quindi la robusta poi dopo cala, perché è tutta schiuma e non è crema.
EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì, sì, esatto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E non è un caso che i caffè premiati dai nostri assaggiatori sono tutti arabica, come Illy, che utilizza anche nelle capsule - sia compatibili Nespresso, che quelle dedicate alle proprie macchine - lo stesso caffè. BERNARDO IOVENE Voi non utilizzate robusta?
MORENO FAINA - DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ- ILLY Non utilizziamo robusta.
BERNARDO IOVENE Solo arabica? MORENO FAINA- DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ - ILLY Una scelta strategica originale, che ci ha portato a fare queste selezioni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 11 In casa Illy la robusta è considerata un difetto. In questo laboratorio vengono campionati i chicchi difettosi. E tra quelli rotti, tarlati e immaturi ci sono anche della qualità robusta.
BERNARDO IOVENE Anche robusta è un difetto?
DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Per noi che siamo 100 per cento arabica, se troviamo un solo chicco è come se fosse presente un difetto grave. Quindi quando quel chicco passerà tra le due telecamere, automaticamente il chicco sarà scartato. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il cento per cento arabica è la qualità del caffè primo classificato unanimemente tra tutti gli assaggiatori. Siamo andati a provarlo anche noi. È un colombiano che ha una maturazione particolare.
MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Le ciliegie vengono fatte maturare più a lungo rispetto agli altri caffè, fino a quando raggiungono il colore e le caratteristiche adeguate. Addirittura i coltivatori le controllano ogni due giorni per cogliere il momento migliore per la maturazione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che più ci brucia come italiani è lasciare lo scettro agli svizzeri di Nespresso. Chi esce invece ancora con le ossa rotte è il povero Bernardo: il caffè napoletano proprio non ce la fa. È una questione anche di mancanza di cultura del gusto. I produttori, anche per risparmiare, preferiscono la miscela con il caffè robusta, invece della più nobile arabica. Ma chi non ha il palato fine di Godina, come fa ad accorgersi se un caffè è arabica o robusta? Basta fare il caffè, lasciarlo riposare per 10 minuti, se è robusta all’inizio fa una bella cremina poi si sgonfia perché per lo più è schiuma. Mentre se è arabica la crema iniziale è minore, ma poi rimane e dovrebbe essere anche aromatica. Invece qui i sapori che sono stati ascoltati, sentiti, percepiti, sono quello di straccio bagnato, cicoria bollita e anche di gomma bruciata. “Ci avete costretto a un purgatorio” questo ha detto uno degli assaggiatori. Ma cosa c’è nel caffè? A Bernardo è venuto in mente di andarlo a verificare, per la prima volta. Ha scelto dei campioni di caffè, lo diciamo subito, tra quelli più diffusi e anche quelli meno diffusi, però a campione. Quello che ha trovato, lo diciamo, non è pericoloso, tuttavia è importante saperlo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo prelevato tre campioni di caffè da capsule Nespresso, Lavazza e da una compostabile. Abbiamo usato la stessa acqua. Imbottigliati e sigillati, li abbiamo portati in laboratori diversi per la ricerca dei metalli. Da Gesteco, vicino Udine, ai laboratori Giusto di Oderzo e gli stessi campioni all’Arpa di Roma Lazio. Dai risultati abbiamo subito notato che l’acqua utilizzata contiene 73 microgrammi litro di bario.
BERNARDO IOVENE Quindi non abbiamo utilizzato un’acqua pura, noi?
ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo utilizzato un’acqua che contiene bario. Molte acque contengono bario. Molte acque contengono bario, in concentrazioni significative. Sono 70 microgrammi per litro. Il bario è uno dei metalli che si accumula, quindi si accumula nell’organismo. È tossico 12 per alcuni animali, attualmente viene ancora adoperato come tossico per i topi. Quindi veleno per i topi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Perfetto. Il bario nell’acqua è il primo metallo che ritroveremo in tutti i caffè. Vediamo adesso se c’è presenza di altri metalli.
ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo osservato che c’è presenza significativa di alcuni metalli: ferro, manganese, rame, zinco, e alluminio.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I risultati dei tre laboratori sostanzialmente coincidono. Abbiamo però qualche sorpresa: avevamo usato una capsula compostabile non ancora in commercio e pensavamo di trovare zero metalli. Invece il bario è a 230 microgrammi, il valore più alto. L’alluminio 107 microgrammi litro, rispetto a 89 di Nespresso e 70 di Lavazza e ha il doppio del manganese e del rame. Seconda sorpresa: questi metalli non vengono né dalle capsule, né dalle macchine, perché l’acqua che abbiamo estratto senza il caffè è priva di metalli, c’è solo il bario originale.
LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Arriviamo alla conclusione che la presenza di metalli che poi ritroviamo nel caffè vero e proprio è data dal caffè che c’è all’interno della capsula.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E alla stessa conclusione sono arrivati anche all’Arpa di Roma.
ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Il caffè ha una concentrazione più o meno costante di questi metalli. Questi sono stati ritrovati in concentrazioni significative: quindi rilevabili…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi i metalli sono contenuti nel caffè. A questo punto abbiamo pensato di analizzare anche il caffè della moka, sia di alluminio che di acciaio. Ma prima anche qui abbiamo estratto l’acqua senza la polvere di caffè, e ci arriva la brutta sorpresa.
LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Per cui la moka in alluminio ha una cessione dell’alluminio. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nostra moka ha rilasciato 346 microgrammi litro di alluminio, siamo al di sotto di un milligrammo/chilo. La soglia consigliata è 5: ma è una linea-guida europea, non è una norma.
ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Per l’alluminio la normativa non prevede delle prove di migrazione, ma soltanto una verifica della composizione del materiale alluminio.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella moka d’acciaio invece c’è solo il bario dell’acqua. Non ci sono migrazioni di altri metalli. Ma attenzione. C’è acciaio e acciaio. Noi l’abbiamo fatta su questa caffettiera.
BERNARDO IOVENE 13 Se io consumatore voglio capire che è un acciaio che non rilascia…
GIULIO COLPANI - DIRETTORE TECNICO GIANNINI Noi lo marchiamo dicendo che è acciaio inox 18.10, praticamente implica una determinata classe di acciai che non hanno alcun problema nel contatto con gli alimenti, col caffè innanzitutto.
LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Poi vediamo l’acqua invece con la polvere di caffè e vediamo che l’alluminio aumenta, 811.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All’alluminio della moka si aggiunge quello del caffè e arriviamo a 811 microgrammi, dieci volte l’alluminio contenuto nel caffè delle capsule. Con la moka d’acciaio però scende a 312 ed è lo stesso caffè: anche il valore del piombo è più del doppio delle capsule e il rame è tre volte tanto. Il ferro arriva fino a 955, il manganese parte da 1161 della capsula Nespresso ai 1675 della Lavazza. Il nichel invece è presente nelle capsule, ma è assente nella moka.
ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Un po’ di preoccupazione c’è: abbiamo verificato che la coltivazione del caffè è sottoposta a uno stress particolare per avere prodotto in quantità elevate, quindi antiparassitari a tutta botta e concimi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La preoccupazione del professor Giusto è condivisa anche dalla direttrice dell’area ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna, alla quale abbiamo inviato tutte le analisi dei vari laboratori. BERNARDO IOVENE Sono state mai fatte analisi sui caffè?
FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI Io credo proprio di no. Il primo sentimento che provo è quello di meraviglia, rimango abbastanza sorpresa dal fatto che ci siano dei livelli di questo genere nelle analisi che sono state fatte. Direi che questi sono quelli che mi preoccupano di più perché queste sostanze hanno degli effetti. Se vuole le faccio un esempio. Alluminio: un aumento di cancro nell’uomo della vescica e anche del polmone. Anche l’arsenico c’è presente, ma in piccolissime quantità. Quando eccede quei livelli, tumori della vescica, della pelle e dei polmoni. Il ferro a certe quantità…
BERNARDO IOVENE Fa bene. FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI È un beneficio. Se l’abbiamo in maniera esagerata può portare a un aumento di tumori del polmone. Il manganese è un agente neurotossico anche a basse dosi.
BERNARDO IOVENE Ad esempio?
FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI 14 Il Parkinson per esempio. Da tossicologo le dico, io se vedo dei livelli così alti di manganese, mi vengono subito in mente i carbammati perché noi abbiamo fatto uno studio sul Mancozeb che contiene appunto Man, come manganese, contiene il manganese e abbiamo visto un aumento di tumori della tiroide veramente esagerato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, la presenza di metalli nel caffè – anche se in dosi minime – preoccupa i tossicologi, ma non è così per gli esperti dei produttori. Qui siamo da Lavazza.
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Consideri che i metalli sono dei naturali costituenti del caffè. E in questo senso peraltro contribuiscono assolutamente alla crescita delle piante.
BERNARDO IOVENE Lei li considera elementi nutrienti questi qua?
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Contribuiscono proprio alla crescita della pianta del caffè così come della maggior parte delle specie vegetali.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sulla stessa linea si trova Nespresso.
BERNARDO IOVENE Lo sapevate già, immagino.
MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Sì. Noi non siamo meravigliati, perché questi metalli si trovano in natura e nell’acqua e il caffè derivando da una pianta, sicuramente il suolo ne è una fonte. BERNARDO IOVENE Noi sappiamo che questi metalli si accumulano, no?
MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Certo, ma guardi per ogni metallo abbiamo immaginato di consumare cinque tazze di caffè. Se io bevessi solo caffè Nespresso dovrei bere più di 2800 tazzine al giorno per raggiungere la dose tollerabile giornaliera.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo ribadiamo i quantitativi di metalli che abbiamo riscontrato sono abbondantemente sotto la soglia di rischio. Tuttavia vale un principio, un regolamento europeo: negli alimenti devono essere mantenuti quanto più bassi possibile. Solo per piombo, cadmio, mercurio e stagno sono fissati dei limiti. Mentre invece per l’alluminio, il manganese, ferro, zinco, nichel, l’Efsa, l'Agenzia per la Sicurezza Alimentare, fissa delle dosi di tolleranza. Però per la prima volta quello che sappiamo è che ci sono dei metalli dentro il caffè che è la seconda bevanda più diffusa dopo l’acqua. È importante saperlo per chi come me beve 6 -7 caffè ogni giorno. E poi c’è anche un fatto, che tutti gli studiosi a cui abbiamo portato le analisi, che hanno contribuito anche alle analisi, quelli dei laboratori indipendenti, quelli dell’Arpa Lazio-Roma che si sono appassionati nella ricerca e li ringraziamo, e anche la dottoressa Belpoggi, del prestigioso Istituto Ramazzini, si sono meravigliati e poi la Belpoggi anche un po’ preoccupata. Il nostro Bernardo Iovene che cosa ha fatto? Si è intestardito ed è andato a vedere anche che 15 cosa c’è nel caffè che facciamo con la moka, la vecchia moka. È andato a vedere anche quello biologico, anche qui i campioni sono stati scelti tra i caffè più diffusi, e anche qui le sorprese non sono mancate.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal caffè liquido a quello in polvere: in collaborazione con l’Arpa Lazio di Roma abbiamo analizzato una dozzina di caffè, dai più cari ai più economici, compresi alcuni biologici. Alla fine tiriamo le somme avendo un quadro generale.
ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Ci sono stati dei caffè che abbiamo analizzato che presentavano questa concentrazione che erano significativamente maggiori rispetto alla media analizzata. Ora ci dobbiamo chiedere da dove provengano questi metalli nel caffè.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio abbiamo confrontato due caffè della stessa marca: Lavazza qualità oro e Tierra biologico. Quello biologico ha una concentrazione inferiore di metalli: meno alluminio, meno manganese e zinco. BERNARDO IOVENE Da dove viene? Se nel biologico ce ne è la metà, vuol dire che nello standard… cioè non è contenuto nella pianta, ma che la pianta è trattata diversamente?
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I numeri che stava leggendo prima sono numeri che hanno un’unità di misura assolutamente infinitesima rispetto a quelle che sono soglie significative.
BERNARDO IOVENE Però non mi ha spiegato come mai il biologico ha la metà dei metalli rispetto a quello standard.
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Come dicevo prima, parliamo di ordini di grandezza assolutamente infinitesimi…
BERNARDO IOVENE Quello che non mi è chiaro… è che io trovo un dato: 7,1 milligrammi di alluminio. In quello biologico c’è 2,8. C’è una bella differenza.
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Intanto l’importante è sempre l’unità di misura…
BERNARDO IOVENE Quindi vuol dire che questo alluminio non viene dalla terra.
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I valori sono comunque assolutamente inferiori alla soglia.
BERNARDO IOVENE E l’abbiamo detto già dieci volte questo. Quello che non abbiamo detto è da dove vengono, perché il manganese è probabile che possa venire da trattamenti di Mancozeb per esempio, no?
FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA 16 Ribadisco il concetto che parlando di questi ordini di grandezza, la differenza che si può cogliere è una differenza che giudichiamo non significativa.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra le decine di caffè che abbiamo analizzato c’è anche Illy. Abbiamo mostrato le analisi agli esperti dell’azienda.
DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Vedendo questi dati di queste analisi Illy si posiziona o più basso degli altri, o in linea con gli altri. Il caffè contiene già il metallo di suo. Poi ci sono anche delle altre fonti esogene.
BERNARDO IOVENE Noi abbiamo trovato dei valori altissimi di alluminio o di manganese…
DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY È molto probabile che sia fertilizzanti sia erbicidi possano contenere metalli, diciamo, ulteriori…
BERNARDO IOVENE Questo ci dice che se noi mettiamo fuori legge il Mancozeb, nel caffè non possiamo, non possiamo controllarlo perché viene da altre parti?
DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Esatto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per capirne di più siamo andati da una delle aziende simbolo del biologico. Alce Nero vende un caffè biologico prodotto in Perù e Nicaragua. Ma se confrontiamo le analisi dei metalli non sono differenti da Illy, che non è biologico. Anzi, ha un valore leggermente superiore di alluminio e di bario. I valori di ferro e manganese invece sono gli stessi.
BERNARDO IOVENE Il biologico Lavazza ha meno alluminio del vostro, però voi avete addirittura più alluminio dell’Illy che non è biologico. Voi avete mai fatto analisi di metalli?
MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, noi le facciamo ma non per i metalli, perché i metalli normalmente non sono… andiamo a vedere i prodotti chimici e non i metalli che sono in natura nel terreno. Quindi qui, secondo me, la differenza la fa proprio dal tipo di terreno; ci sono terreni che sono ricchissimi di metalli perché ad esempio sono vulcanici.
BERNARDO IOVENE Il manganese potrebbe venire dal Mancozeb…
MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Potrebbe. Poi rispetto alla certificazione “biologico”, la presenza di inquinanti, diciamo così, di chimica, non è sempre una discriminante.
BERNARDO IOVENE C’è un certificatore sul posto che dice: “Questo caffè è biologico”. No? MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO 17 Sì.
BERNARDO IOVENE Quando entra, entra come già biologico?
MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, un certificatore non può mettere in discussione il lavoro di chi lo ha preceduto.
BERNARDO IOVENE Di un altro certificatore. Quindi è certificato là, quindi è biologico e basta, finisce là.
MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono caffè che costano la metà o meno della metà. Ad esempio, nel Gimoka Tiago, la concentrazione di alluminio è di 142,9 milligrammi chilo. Se pensiamo che Illy ne ha solo 3,6 Lavazza 7, siamo a valori fino a 40 volte superiori. Gimoka Gran Gusto ha 96,8 milligrammi e così per il ferro, il caffè Tiago arriva a 191. Ci sono anche tracce di nichel, 1,6.
ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO In questi caffè dove avevamo riscontrato una presenza di metalli più alta, hanno poi anche una concentrazione di ocratossina più alta rispetto alla media.
BERNARDO IOVENE Proprio siamo al limite?
ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Siamo in prossimità del limite e sotto il limite.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo stati anche a Padova, dal professor Carlo Foresta, direttore di Endocrinologia. Nel 2017 ha scoperto che nelle capsule del caffè si libera una sostanza chimica – lo ftalato – dannosa per il sistema riproduttivo dell’uomo. Attenzione: anche in questo caso siamo al di sotto della soglia consentita, che è lo 0,1.
CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA L’Europa ha dato questo limite e quindi dobbiamo attenerci a questo. Io sono un po’ scettico su questa faccenda, perché a dire il vero son presenti in tante altre condizioni: nei rivestimenti alimentari, negli abiti, nelle sostanze di plastica, quindi gli ftalati sono in giro dappertutto. La sommatoria di tutte quante queste contaminazioni, potrebbe essere –stiamo attenti – essere superiore al limite consentito.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il professore, con il suo staff, ci spiega che lo ftalato è una sostanza chimica che si sviluppa nella filiera e si libera ad alte temperature.
BERNARDO IOVENE Quindi attraverso queste capsule.
LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA 18 Esattamente queste capsule, le abbiamo provate di diverse tipologie.
BERNARDO IOVENE Quindi avete analizzato il liquido?
LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Abbiamo analizzato il caffè, quello che poi alla fine noi beviamo. Vedete in questo campo, le celluline che vedete muoversi sono proprio gli spermatozoi. Sono tutta una serie di prove secondo le quali l’esposizione a questi interferenti endocrini inficia e quindi peggiora in modo estremamente rilevante le caratteristiche del liquido seminale dei pazienti.
CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA La ricaduta è che ci sono – soprattutto negli uomini – un aumento del rischio di infertilità, di tumori del testicolo, di criptorchidismo, di ipospadia. Criptorchidismo è quando non scendono i testicoli, l’ipospadia determina un’alterazione della emissione delle urine.
BERNARDO IOVENE Lei beve il caffè?
CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Io bevo il caffè sì, ma per fortuna però sono già nato e non ho più bisogno di far figli.
BERNARDO IOVENE Come lo beve il caffè?
CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Purtroppo qui ho la capsula.
BERNARDO IOVENE E ma vabbè, allora…
CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Eh, ma non lo diciamo. E che cosa faccio?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Simpatico il prof. Foresta. Ha scoperto che le cialde di plastica rilasciano degli ftalati, in dosi sotto la soglia di rischio, che lui stesso peraltro critica, tuttavia continua a berlo con il sorriso sulle labbra, con la consapevolezza. Cosa che vorremmo fare anche noi, ma in mancanza di etichette, continuiamo a farlo al buio. E anche se scegliamo un prodotto, un caffè bio, rischiamo di tirare giù più metalli di un caffè come quello Illy, che bio non è. Questo perché poi dobbiamo affidarci ai certificatori anche se vengono da paesi stranieri, i nostri certificatori non possono metter in dubbio la certificazione bio, dobbiamo fidarci. I controlli vengono fatti in dogana, su 600 milioni di chili di caffè che importiamo, in dogana controllano il 3%, a caso, a campione, solo il 3%. Insomma. Chiudiamo però con una buona notizia, arriva dal prof. Ghiselli, del centro ricerche del Crea, studia i rapporti tra la nutrizione e gli alimenti e secondo lui, bere dalle 2 alle 4 tazzine di caffè al giorno fa bene, aiuta a combattere delle malattie croniche, 19 cardiovascolari e il diabete, questo perché il caffè contiene degli antiossidanti e degli antinfiammatori naturali. Poi chiudiamo con un consiglio: per chi vuole fare il caffè con la moka scelga l’acciaio almeno vi lascia meno metalli e poi quando mette l’acqua, mi raccomando, sotto la valvoletta. Non fate come me, a me vengono delle ciofeche.
· Cos’è un mondo senza la Mortadella?
Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. «Non riesco a immaginare un mondo senza musica. Sarebbe come immaginare un mondo senza mortadella: impossibile!», sosteneva tempo fa Zucchero Fornaciari. Che in un una delle più note canzoni Cuba libre aveva precisato le sue priorità: «Mi piace la Bologna e poi mi piaci tu». Dal bel color rosa, profumata, vellutata in bocca e con un sapore chiaro, la lussuriosa mortadella è del resto uno dei simboli irrinunciabili del mangiare italiano. Sicuramente romane con buona pace dei bolognesi - sono le sue origini quando era aromatizzata al mirto. Il nome deriva infatti da myrtatum oppure mortarium, il mortaio per schiacciare la carne di maiale. Poi Boccaccio nel Decameron citò il mortadello. Ma è Bologna che vanta il primo disciplinare di produzione. Era il 24 ottobre 1661 quando il cardinal Farnese emanò il Bando e provisione sopra la fabbrica delle Mortadelle e salami. La ricorrenza verrà celebrata giovedì dal Consorzio dei produttori con l'inaugurazione di un'ala del Museo della Storia di Bologna interamente dedicata al salume e degustazioni a Fico. A Roma la mortazza si gusta con la rosetta o la pizza bianca. È il salume più amato, popolare e a buon mercato, come nel resto d'Italia: in Sicilia si dice che «a' mortadella costa picca e sape bella», costa poco ed è buona. Eppure un tempo era un prodotto riservato all'élite di buongustai ricchi che potevano permettersi un prezzo superiore a quello del prosciutto, dovuto al valore della materia prima e ai più alti costi di produzione e del lavoro degli artigiani specializzati. Oggi come ieri è fatta di carne suina: la parte rosa - quella più magra è la muscolatura striata, prevalentemente dalla spalla; per i lardelli dal colore bianco si utilizza il grasso di gola, cioè la parte più pregiata dell'animale. «In cucina è un sapore protagonista», sostiene Luca Marchini, stella Michelin a Modena, presidente di JRE, i giovani ristoratori europei. «Questo orgoglio gastronomico tutto italiano dice Marchini - è tra gli insaccati più utilizzati, magari per insaporire altri impasti, gustato con del semplice pane o servito come amuse bouche, che ad esempio io propongo in crema in una pomme soufflé». Però, come per ogni prodotto, la mortadella necessita di rigorosa qualità. «Quindi aggiunge Marchini va scelta senza conservanti, avvolta in budello naturale, da maiali allevati su suolo italiano con foraggi naturali». Lo chef modenese indica anche i criteri per valutarla: «Nei gusti e profumi più pregiati si ritrova un lievissimo tono d'aglio. L'impasto è consistente al morso, ma scioglievole una volta in bocca. Anche il colore è un ottimo indicatore di qualità. La mortadella è rosa, certo, ma quella da scegliere ha un tono poco acceso. La parte olfattiva è essenziale, come la sua facile digeribilità». La bontà dipende moltissimo dai lenti tempi di cottura e dalla qualità delle spezie usate. Tra le produzioni industriali le migliori stando alla guida salumi del Gambero Rosso sono Ibis (Parma), Lem Carni (Bologna), Villani (Modena). Tra le artigianali la Bidinelli (Reggio Emilia). Ma ci sono anche le varianti del resto d'Italia. Spesso sembrano salami, come quella di Camaiore (con lombo, prosciutto, coppa, spalla e pancetta) e Prato (più carica di spezie). In Abruzzo a Campotosto la concia di aromi è segreta e nell'impasto è inserito un lardello lungo una decina di centimetri. Davvero caratteristica. Come il nome (per la sua forma): coglioni di mulo.
· La Storia è un cocktail.
La Storia è un cocktail e non sbaglia miscela. Dal punch importato in Inghilterra dall'India al Proibizionismo. Filologia ad alta gradazione. Marco Zucchetti, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. La storia è un bar affollato, tenete sempre gli occhi sul barista. Soprattutto se oltre ad essere uno dei più influenti bartender del mondo, «padre» del Cocktail Renaissance dei primi Duemila, il barista in questione è anche un bibliofilo accanito, un maniaco della ricerca filologica e un folle in grado di snocciolarvi l'etimologia araba della parola alcol (da «colorare», dato che indicava un cosmetico tipo ombretto) o di citare Mies Van der Rohe parlando di quel moderno altare che è il bancone. Su quell'altare Jim Meehan, fondatore del locale mito newyorchese PDT, è sommo sacerdote e scriba. E in tale veste, dopo diversi libri di ricette di drink, ha deciso di stendere un suo vangelo, Il manuale di Jim Meehan (Readrink, pagg. 471, eruo 37). Ora, se Hemingway aveva ragione e c'è più filosofia in una bottiglia di vino che in tutti i libri del mondo, probabilmente in queste pagine si trovano distillate tutte le altre materie scolastiche. Perché al netto del titolo poco accattivante e del generale snobismo con cui ci si avvicina di solito ai baristi con aspirazioni letterarie, questo libro è come la drink list di un grande locale: ciascuno ci trova la chicca che cerca. La storia della miscelazione, la tecnica e la geografia che hanno influenzato l'evoluzione delle ricette, la logica cartesiana che sta dietro ai singoli cocktail. Dove «come nel jazz, tutto è sincretismo e improvvisazione», ma mai a casaccio. È questa erudizione la parte più rivoluzionaria e affascinante del libro. Chi lavora nel settore manderà a memoria i capitoli (iper-tecnici) sull'organizzazione della bottigliera, il design delle sale o la formazione del personale. Tutti gli altri naufragheranno dolcemente in una miriade di curiosità e osservazioni, frutto di una cultura mostruosa formatasi sui «classici» della storia della mixology, che Meehan comprava da giovane spendendo ogni dollaro di paga: dal The Bar-tenders guide di Jerry Thomas del 1862 al Savoy cocktail book di Harry Craddock (1930), fino a The fine art of mixing drink di David Embury. Rapito dal fluire del tempo, che gocciola inesorabile come birra da una spina guasta, Meehan riflette su quanto lo Zeitgeist sia ingrediente base di ogni drink. Su come «il terroir culturale conti più di quello geografico»: la rilassatezza caraibica più della frutta crea la miscelazione tiki, mentre - come ben sintetizza nell'introduzione Alex Frezza - «a noi europei ci ha sempre fottuto il romanticismo, al bar». Partendo da qui, e conscio del fatto che «collezionare ricette è come far salire gli animali sull'Arca», Meehan compila un compendio enciclopedico in piccoli sorsi, con un solo obiettivo: passare la torcia di mixologist illuminato alla generazione successiva, perché «la storia dei bar è basata sulla tradizione orale, diffusa nella nebbia di una notte passata a bere. E leggere libri antichi mi ha spinto a capire che il valore del nostro lavoro potrebbe perdersi se non lo conserviamo». D'altronde «miscelare è raccontare una storia», dunque perché non accoccolarsi ad ascoltarla, tramandandola? Storie minuscole, come quella del Moscow Mule, il drink a base di vodka, ginger beer e lime servito in tazze di rame: inventato nel '46 agli albori della Guerra Fredda per smaltire vodka che nessuno voleva e sfruttando l'eredità ricevuta da una manifattura di rame. O come quella del Vesper di James Bond, l'immortale variante del Martini descritto da Ian Fleming in Casino Royale. Ma anche Storia maiuscola, la grande mano che shakera esperienze e suggestioni. Dei vini aromatizzati di greci e romani, dei monaci italiani e francesi che distillavano erbe medicamentose e degli olandesi che crearono il gin non per diletto ma per spirito mercantile, ormai si sa. Ma ogni tendenza, ogni scelta di liquore contiene un mondo. Il primo cocktail (a proposito, la parola compare sulla stampa inglese nel 1806 ma dalla coda di gallo all'aqua decocta latina, l'etimologia è incerta) fu il punch, introdotto nel XVII secolo dall'India, dove un'acquavite di palma era mescolata ad agrumi, zucchero e spezie. Patriottico e imperiale perché ogni ingrediente proveniva dalle colonie, salubre perché si conservava più di birra e vino, collettivo perché servito da bowl con un mestolo. Almeno fino a quando James Ashley cominciò a offrirlo in porzioni singole: a ognuno il suo. Era nato il drink moderno. L'idea del bere era stata rivoluzionata. Esattamente come accadde poi con Frederic Tudor, che brevettando una macchina per trasportare il ghiaccio diede il via negli Usa ai julep. E a tutto il resto. Pian piano in filigrana compare il disegno di Meehan. Ricopiare pedissequamente le ricette per quanto originali e accurate -, come i bartender in pensione che se le rivendevano, non basta. Cosa significa la misura «un bicchiere di vino»? Di cosa sapeva lo champagne a San Francisco nel 1930, com'era stato conservato? Nell'epoca superficiale di Google, la conoscenza fa la differenza. Anche al bar. Ci sono dinamiche da comprendere e miti da abbattere. Per esempio l'esausto cliché degli speakeasy, i bar clandestini durante il Proibizionismo. Oggi sono di moda, ma ai tempi servivano schifezze letali e fecero fuggire in Europa i bartender, stanchi di cocktail «svuota-dispensa» come il Corn Popper, in cui sciroppi, panna, soda, latte e qualsiasi altra cosa venivano usati per coprire il sapore di distillati tremendi, che spesso rendevano ciechi. Perché l'approvvigionamento degli ingredienti e le contingenze hanno sempre plasmato il gusto più delle mode. La miscelazione esplose nel XIX secolo negli Usa per diversi fattori: gli immigrati europei che portavano i loro prodotti, 40 anni di esenzione fiscale sugli alcolici e la legge che dava licenza di somministrazione anche senza affittare camere a ristoranti e taverne, sostenuti da partiti che offrivano drink in cambio di voti. Allo stesso modo, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il blocco dell'importazione di Scotch, gli States furono invasi dal rum (il Cuba Libre comparve per la prima volta nel 1946). I cocktail sono creature sensibili, «percepiscono» il clima. Non è un caso se durante la guerra del Vietnam la scena andò degenerando, con i drink sostituiti dalle droghe. Non è un caso se a fine Settanta la Discomusic portò con sé gli shot bevuti d'un fiato, se l'edonismo degli Ottanta partorì i cigar bar, la riscoperta dei cocktail classici e dei distillati invecchiati e il Cosmopolitan di Toby Cecchini, se dopo l'11 Settembre la lezione di Sacha Petraske l'uomo considerato inventore della moderna cultura del cocktail di qualità prese piede. E così, immaginando un fresco Pimm's Cup bevuto sugli spalti di Wimbledon e studiando la chimica guardando l'acqua che precipita gli oli essenziali nel bicchiere, ci si perde fra le pagine fra racconti di spezie e soldati salvati dalla china antimalarica, fra il sindaco di Digione che offriva il Kir ai suoi ospiti e il Bloody Mary figlio del progresso e dei succhi di pomodoro industriali. E si capisce che «la storia è un archivio, non una messinscena da riesumare come i baffi a manubrio di certi bartender vestiti come in Boardwalk Empire». Siamo quello che beviamo, beviamo quello che siamo stati.
· Il vino è passione.
Dagospia il 21 novembre 2019. Estratto del libro “Il metodo Easywine”, editore Pendragon Bologna, di Cristiana Lauro. Vi piace il vino? Ottima scelta. Basta non scambiare un prodotto alcolico per una vitamina o un ricostituente. È soprattutto questo il senso del consumo consapevole. Siamo fra più importanti e migliori produttori di vino al mondo. Ricordatelo e andatene fieri perché il vino concorre parecchio a tenere alta la nostra bandiera. Saper descrivere le caratteristiche di un vino o trovare il suo felice abbinamento a un piatto, è un esercizio florido per il nostro ego che può risolvere molte serate senza troppo impegno sui libri a studiare. Però il vino, dal punto di vista della degustazione, non è una scienza esatta ed è per questo che tutti possiamo parlare di vino. Il fatto che uno di noi apra bocca o scriva la sua roteando un calice, non indica assolutamente che abbia ragione o torto. A bottiglia aperta e col bicchiere in mano chiunque parli di quel vino trascurando la storia produttiva che lo ha preceduto, esercita prevalentemente il suo ascendente, la sua capacità di persuasione. E condiziona, inoltre, il pubblico che lo ascolta. Soggezioni, insicurezze e cerimoniali inclusi. La percezione del bicchiere di vino non è una scienza esatta ed è molto sensibile al contesto. Ma va educata, condotta. Quindi non abbiate paura perché tutti potete imparare a parlare di vino. I sentori “olfattivo” e “gustativo” di quel momento e in quel contesto, sono soggettivi e fugaci. Sarebbe meglio accompagnarli fuori scena con un applauso come la maggior parte delle opinioni del primo che capita. Non esiste una verità nel bicchiere perché il vino e la sua interpretazione non hanno molto senso. Insomma dipende dalla storia di quel vino, da chi lo ha prodotto ed è per questo che la passione per il vino dovrebbe condurvi in giro a conoscere i produttori e chi lavora in cantina e nelle campagne. Ecco un’antologia di alcune boiate sul vino che ho condiviso in giro per l’Italia con professionisti del mondo del vino e del servizio di sala.
- A tavola. Un tipo annusa il calice di vino e prima ancora di assaggiarne un sorso spara la sua: “sentite che tannini!” (I tannini all’olfatto non si percepiscono. E’ bene che si sappia).
- In enoteca, fra scaffali pieni di ottimi vini: “ stiamo cercando delle bottiglie di Insolaia provate qualche sera fa a casa di amici. (Curioso mix fra un vitigno bianco siciliano di nome Insolia e una nota etichetta di rosso "toscano" che si chiama Solaia).
- Avete un Brunello bianco? Ricordo di averlo bevuto e mi piacque parecchio. (più che altro avevi alzato il gomito quella sera, perché il Brunello di Montalcino bianco non esiste).
- Il tipo che si fa aprire un buon Barbaresco: “ scusi ma perché è rosso? Io ne ho bevuto uno bianco” (Forse su Marte).
- “A noi piacciono i vini bianchi molto secchi non fruttati, per esempio il nostro preferito è il Sauvignon Blanc"....(urca, ma quindi avete preso fischi per fiaschi fratelli: il Sauvignon Blanc è aromatico e fruttato per precetto).
- Il top sono comunque i giapponesi: “Barolo di Montalcino o Brunello di Montepulciano”. (Molto difficile accontentarli).
- Posso avere un vino senza soffitti? (Si chiamano solfiti, perdio).
- un cliente italiano ordina Dom Perignon di annata 2006 ma si lamenta perché non è lo stesso dell’anno prima che era il 2004. ( povero cuore, si è perso nel frattempo anche la 2005 che era diversa dalla 2004 e dalla 2006).
- il saputello:” il Gewürztraminer rosso che fa questa azienda è il più buono della storia. (Il Gewürztraminer è notoriamente un ottimo vitigno aromatico bianco che sarebbe bene smettere di chiamare con buffe e frequenti storpiature come Straminer Ghevizztraminer o Giustraminer.
- Al ristorante la signora appassionata di yoga chiede un vino senza solfiti perché i solfiti le chiudono i chakra.
- E per finire quella che fa cascare le braccia: “ci dia un Prosecco, però quello francese” (No comment).
Tratto da Il Metodo Easywine di Cristiana Lauro. Capitolo 8. Alcune cose che devi assolutamente sapere sul vino.
– In natura i vigneti, come li vediamo in mezzo alle campagne, non esisterebbero. La vite infatti è una liana, come quelle che usava Tarzan per spostarsi nella giungla. È una pianta rampicante che l’azione dell’uomo costringe in filari. Quindi i vigneti adatti alla produzione di uva da vino o da tavola sono una sorta di bonsai.
– La vinificazione avviene per mano dell’uomo e interrompe, di fatto, il processo naturale dell’uva. Quindi l’uva non diventa vino se non per mezzo della tecnica applicata attraverso la tecnologia.
– Va bene il vino rosso sul pesce? Dipende, può starci. Ad esempio, se il piatto contiene pomodoro e a patto che il vino rosso sia giovane, semplice e leggero.
– È corretto abbinare un vino spumante secco con un dolce? Meglio di no, ma così fan tutti.
– Caraffare un vino, o “decantarlo” come si dice in gergo tecnico, vuol dire eliminare eventuali sedimenti e farlo ossigenare dopo un lungo periodo di permanenza in bottiglia. È una pratica dedicata a vini rossi e di una certa età. Caraffare un vino giovane è solo ridicolo e non serve a nulla.
– La parola sommelier non è semplicemente sinonimo di “esperto di vino”, ma vuol dire in francese “mescitore” o “coppiere”. Era ed è usata nel mondo per indicare chi al ristorante consiglia e serve il vino ai clienti ed è un titolo professionale preciso.
– Una delle leggende metropolitane enologiche è quella secondo cui mischiare vini diversi farebbe male. L’unica controindicazione sta nel fatto che cambiando vino si tende a bere di più, ma di per sé bere vini diversi durante un pasto non fa assolutamente venire mal di testa. State piuttosto attenti a non alzare il gomito.
– I solfiti contenuti nel vino non sono certo una panacea, però in quantitativi limitati servono come disinfettanti e antibatterici. Evitano fenomeni come lo spunto (sentore di aceto) e l’ossidazione, nonché la formazione di sostanze che farebbero male alla salute.
– Vini minerali. Per definire un vino ricco di acidità e di aromi diversi da quelli della frutta, molti usano il termine “minerale”. In realtà si tratta di un uso traslato, perché di minerale nel vino non c’è nulla. Le sostanze contenute nel vino appartengono al mondo della chimica organica e nessun minerale (che non è organico) si scioglie nella saliva. Perdipiù, non ha sapore e non è volatile, quindi non ha odore.
– Non tutti i vini invecchiano bene, dunque affermare che il vino vecchio sia il migliore è quasi sempre sbagliato. Ricordate che un vino cattivo non diventerà mai buono con l’invecchiamento, ma è vero che i vini migliori possono invecchiare bene.
– Conservare il vino in casa non è semplice. Le bottiglie devono essere coricate e tenute possibilmente al buio e lontano da fonti di calore come i termosifoni e le cucine.
– Aspettate sempre una decina di minuti prima di bere qualsiasi vino appena aperto perché diventa più buono. Ha dormito per parecchio tempo, lasciatelo risvegliare con calma.
Vincenzo Chierchia per ilsole24ore.com il 30 ottobre 2019. Conoscere il vino significa conoscere la storia, i territori, la botanica, la geologia, l'evoluzione del gusto e dei costumi. «La convivialità è il fattore chiave dell'esperienza enologica, la degustazione è un momento magico» amano ripetere celebri chef de caves come Hervé Deschamps (Perrier Jouët) o Vincent Chaperon (Dom Pérignon). Degustazione, convivialità, esperienza e cultura sono gli elementi richiamati da Cristiana Lauro nel suo agile libro sul vino, edito da Pendragon.
Il metodo easywine. Di solito chi si accosta all'esperienza enologica si trova davanti guide che pesano chili visto che le etichette, solo in Italia, sono migliaia. Districarsi non è facile. Il volume della Lauro mantiene le promesse: «Il metodo easywine-Impara il vino in poche mosse». In effetti, in poco più di cento pagine si acquisiscono le nozioni base con un racconto piacevole e diretto, che coinvolge il lettore come un'appassionante novella. Gli elementi importanti ci sono tutti, a partire dal richiamo a bere in maniera responsabile, soprattutto valorizzando il rapporto con il cibo. Il libro accoglie i contributi di Daniele Cernilli (il Dizionario dei vini e le Parole del vino) anche in relazione agli accoppiamenti con il cibo. Così, con una piacevole lettura, ci si può accostare ad un mondo complesso, ricco di sfumature e molto vasto. L'esperienza del vino oscilla tra degustazione e narrazione. Ma soprattutto servono gli elementi base per poter scegliere e condividere questa esperienza: il metodo easywine aiuta a comprendere, per esempio, cosa vogliamo, cosa stiamo acquistando e perché.
Gli abbinamenti tra vino e cibo. Così potremo scambiare opinioni e racconti nel momento in cui condividiamo l'esperienza di un buon vino (e di un buon cibo). Il rapporto vino-cibo è complesso. Lo chef Gualtiero Marchesi, principe della cucina italiana moderna, arrivò a dire che con i suoi piatti avrebbe servito solo acqua. Una provocazione che fa riflettere sul senso delle esperienze del gusto e dell'olfatto. La Lauro sgombra subito il campo da falsi miti e luoghi comuni e fornisce gli elementi essenziali per approcciare sia momenti quotidiani sia occasioni importanti in maniera agile e consapevole. Che piatti metteremo in tavola e con quali bottiglie? Le risposte semplici e dirette ci sono, così come c'è una descrizione, con simpatica ironia, dei personaggi che si incontrano nel mondo del vino. Per imparare a conoscere gli interlocutori, e a prendere le dovute distanze se serve, avendo appreso il metodo per amare il vino con intelligenza consapevole.
Da identitagolose.it il 23 ottobre 2019. Aprire una carta dei vini ricca nell’assortimento e non sapere cosa scegliere, un grande classico. Come superare l’impasse? Acquistando “ "Il Metodo Easywine. Impara il vino in poche mosse"”, il nuovo libro di Cristiana Lauro che detta poche mosse per degustare e acquistare le migliori bottiglie oppure abbinare quel vino a quel tal piatto. Figurone assicurato. Ogni capitolo consente di arricchire, in modo semplice, le vostre conoscenze in materia, senza farvi perdere di vista la terminologia del vino. Capitolo dopo capitolo, riuscirete a comprendere un’etichetta, la vera carta d’identità della bottiglia e saper distinguere un vitigno da un vigneto. Un esempio pratico: non esiste il vitigno Prosecco (mai dire “spumante da uve Prosecco”) perché l’uva dell'ubiqua bollicina, prodotta in Veneto e in Friuli, si chiama Glera. L’autrice, origini bolognesi ma romana d’adozione, si definisce ironicamente «assaggiatrice seriale» avendo avuto un maestro preparatissimo, Daniele Cernilli. Ha collaborato con lui per molti anni, per la Guida ai Vini d’Italia del Gambero Rosso mentre da qualche anno cura una rubrica su Dagospia. Lo stesso Cernilli ha integrato alcune parti più tecniche del libro e, per la felicità dell’autrice, ha supervisionato e approvato il suo metodo. «Il vino può essere un’esperienza appagante, un flacone di territorio, un modo per condividere esperienze e sensazioni, ma solo se affrontato con intelligenza», è scritto giustamente nella prefazione del testo. Lauro è stata coraggiosa a scriverne con schematicità e semplicità, sintetizzando in due pagine i metodi di spumantizzazione che, normalmente, vengono descritti in capitoli infiniti e spesso con tecnicismi indecifrabili a molti del settore. La scintilla è stato “Elogio dell’invecchiamento”: «Il testo di Andrea Scanzi», ci spiega l’autrice, «mi ha convinto che dovevo avvicinare la gente all’argomento in maniera rispettosa, ma sdrammatizzando al tempo stesso una materia complessa. Il vino non va spiegato ma raccontato. Questo testo è indirizzato a un pubblico digiuno di materia enologica. È un metodo che colma l’ignoranza in materia. Mi piacerebbe che il lettore si incuriosisse a conoscere produttori, cantine, aree vinicole del nostro bel Paese, per condividere in primis un buon calice di vino. Tutti possono diventare bravi degustatori attraverso l’esperienza e la curiosità». Per Cristiana la missione è culturale e il linguaggio immediato, a tratti irriverente. Il volume spiega le differenze tra biologico, biodinamico e vegano; illustra le regole fondamentali per assaggiare un vino o servirlo alla giusta temperatura e nel calice più adatto. Ci ha colpito la sezione relativa all’abbinamento cibo/vino: zero tecnicismi, utilizzo dell’arte della concordanza di colori: un piatto di contenuti a prevalenza rossi chiama un vino dello stesso colore. Se invece state mangiando una bella sogliola o un branzino al sale, puntate su un bianco leggero. E su un rosato in presenza di gamberi. Facile, no? C’è anche un capitolo dedicato agli “enomostri”: «Sono quelli», ci spiega, «che si autodefiniscono ‘esperti di vino’ ma poi si trasformano in creature abominevoli. Chi usa l’olfatto come elemento distintivo per raccontare noiose sensazioni o chi esalta la polvere, notoriamente inodore! Poi c’è l’acidista, l’amanuense, il bio-talebano, ossia il vero fanatico dei vini biologici. E la gatta morta, di solito molto forte sui social e pur avendo un bel diploma da sommelier e corteggiatori discutibili, in verità fuori dall’ambiente non è che si distingua poi tanto. Un altro enomostro è il millantatore che consuma il suo tempo tra una degustazione e l’altra, cercando prevalentemente di farsi notare». Un’ultima riflessione intelligente che abbiamo letto nel libro: Italia e Francia producono in media 40-50 milioni di ettolitri di vino all’anno. Ma la cantina più grande del mondo è in California con una produzione annua di più di un miliardo di bottiglie…
Stefania Cigarini per leggo.it il 16 ottobre 2019. Diritti al piacere del vino, senza perdere tempo in tecnicismi e birignao. Lo dice anche il sottotitolo del manuale breve Il metodo easywine: impara il vino in poche mosse. Lo conferma l’autrice, Cristiana Lauro: «Perché secondo me il vino va raccontato e non insegnato. Io ho imparato le basi leggendo dispense che parlavano un linguaggio semplicissimo. Poi ho fatto i corsi, ho avuto un maestro come Daniele Cernilli, ma le basi sono state quelle, semplici»
Una esigenza pop.
«Dica pure nazional popolare, non mi offendo. Lavorando nel mondo del vino, promuovendo incontri internazionali, sentivo l’esigenza di parlare a più persone possibili attraverso un linguaggio replicabile da tutti».
Ce l’ha con i super esperti che se la tirano?
«Gli enofighetti, enopazzoidi, enomostri, come li chiamo io? Sì (ride)».
Consigli veloci.
«Abbinare il vino al colore dominante del cibo: Fiorentina? Chianti; caciucco?, rosé; carpaccio di pesce?, bianco. E dove sia possibile, abbinare sempre un vino locale».
Quanto conta essere bolognese nel suo mestiere?
«È fondamentale, siamo gaudenti di natura. La mia cultura del vino è iniziata in giro per osterie. Per lavoro frequento chef stellati, ma sono una che a casa fa le tagliatelle al ragù, innaffiate da un buon Sangiovese di Romagna».
Dei tortellini dell’accoglienza ripieni di pollo del vescovo di Bologna?
«Polemica inutile, i grandi chef reinterpretano qualsiasi cosa. Per me, inclusivo o popolare, va bene tutto, purché si mangi bene. Se non fosse stato il vescovo di Bologna nessuno ne avrebbe parlato. Tra parentesi, noi storpiamo tutte le cucine etniche, pensate di mangiare davvero "cinese" in Italia? Per non parlare della deroga della cotoletta alla milanese, che andrebbe cotta nel burro, ma siccome il burro "fa male", viene cotta nell'olio. Interpretare è indice di libertà».
C’è chi ha detto che vino e cibo sono la nuova religione in un mondo senza valori.
«Ecco sì, dovremmo sempre ricordarci che stiamo parlando di pane, salame, vino. Più valori e meno foodporn. Un piatto di alta cucina non è religione, nemmeno un borgogna o un riesling, vini di cui tutti ora si riempiono la bocca».
Però esistono i veri esperti.
«Certo, ma sono l'uno per cento di chi beve vino, aggiungendo chi ne capisce un po' di più siamo al due per cento della popolazione che beve. Questo libro è scritto per avvicinare con criterio al mondo del vino, per scegliere la bottiglia giusta sullo scaffale del supermercato, perché ormai anche i supermercati hanno ottimi vini. Poi, se ti prende la passione, fai tutti i corsi che vuoi».
Lei tiene una rubrica sul sito Dagospia.
«Roberto D'Agostino aveva scritto la prefazione al mio primo manuale, Delirium tremens, appunti di una wine killer, aveva apprezzato il mio linguaggio, semplice, diretto, schietto. Il suo è uno dei siti più letti in Italia, e mi lascia totale libertà. I titoli dei miei pezzi sono suoi, è un genio in questo».
Estratto del libro di Cristiana Lauro “Il metodo Easywine” (Pendragon) per Dagospia il 3 ottobre 2019. Perché abbiamo paura di scegliere il vino? Come mai cerchiamo mille vie di fuga pur di non assumerci la responsabilità di decidere per l’intero tavolo? Succede al ristorante, in trattoria, a casa di amici e via dicendo. Un po’ meno quando invitiamo a casa nostra perché fare la spesa e cucinare per tutti è un impegno riconosciuto che ci assolve da molti peccati. Il vino buono oggi ha un costo non indifferente che incide sul prezzo della cena e nessuno di noi ha la fabbrica dei soldi, quindi scegliere quella bottiglia è una responsabilità nei confronti dell’intero tavolo. Questa potrebbe essere la prima causa di dubbi, incertezze e fugoni. Oggi però si possono comprare prodotti interessanti a prezzi umani e - mi spingo oltre - si può bere molto bene anche a buon mercato. Negli scaffali delle enoteche e dei supermercati si trovano un sacco di vini veramente buoni a prezzi ragionevoli e, credetemi, i soldi spesi per quella bottiglia si riveleranno un ottimo investimento per il vostro benessere. È anche questo il senso di “bere responsabilmente”. L’altro motivo che può indurre i comportamenti curiosi che ho descritto sopra è che negli ultimi anni si è cercato di creare intorno al vino una specie di aura intellettuale che lo ha raccontato come qualcosa di nobile, complesso e colto al punto da sembrare inafferrabile. Ma il vino non è ricco, non è complesso e non è un totem. Il nostro Paese è fra i migliori e più importanti produttori di vino al mondo. Impariamo quindi a conoscerlo, questo vino, a berlo senza esagerare (perché contiene alcol che non è una vitamina o un ricostituente) e a parlarne con disinvoltura, leggerezza e il giusto rispetto. Non è difficile e ne vale la pena. Ma non fermatevi a questo piccolo saggio, andate con le vostre famiglie o con gli amici in giro a visitare le cantine e a vedere la produzione del vino italiano da Nord a Sud e sulle isole. Parlate coi cantinieri e gli enologi, con gli agronomi e i contadini che vivono la campagna, i climi e le regole della natura che non sono mai scritte. Rimarrete stupiti dall’intima bellezza di tante diversità e imparerete un sacco di cose interessanti senza stare per ore con la schiena piegata sui libri. Il mondo del vino è pieno di persone che hanno storie curiose e divertenti da raccontare. Andate a conoscerle, sono certa che la vostra anima non mancherà di ringraziarvi. Questo non è un vero e proprio libro ma una specie di quaderno che nasce dalla mia idea sedimentata, calcificata, quasi fossile direi, che il vino vada raccontato e non insegnato, bevuto e non santificato, condiviso e mai tracannato in solitario. E, comunque sia, non dobbiamo aver paura di parlarne. A nessuno piace sentirsi dire che è ignorante, quindi avvicinatevi e imparate il vino e i suoi abbinamenti in poche mosse. Se poi ci prendete gusto, esistono interi scaffali di biblioteche che i grandi maestri - quelli bravi per davvero -hanno scritto per noi. Oppure potete scegliere di approfondire l’argomento attraverso i corsi ufficiali di formazione per i sommelier. Il vino è passione. La passione sia con voi!
(Tratto dal libro di Cristiana Lauro “Il metodo Easywine”, Pendragon, ottobre 2019, per gentile concessione dell’editore).
· La storia degli Spaghetti.
Marino Niola per “Robinson - la Repubblica” il 4 ottobre 2019. Gli spaghetti al pomodoro sono il piatto simbolo dell' italianità in cucina, un autentico monumento della gastronomia patria. Ma l' irresistibile ascesa che ne ha fatto il cibo più celebre al mondo, insieme alla pizza, è stata lunga. E Massimo Montanari, storico dell' alimentazione, la ricostruisce in Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro ( Laterza), che aiuta a capire come sono nati pasta e sugo di pomodoro. Per un po' i due ingredienti hanno camminato per conto proprio, anche perché il rosso tomate è arrivato in Europa con gli spagnoli dopo la scoperta dell' America. E la pasta ha percorso un cammino ramificato come un fiume ricco di affluenti. Che solo alla fine confluiscono e prendono lo stesso nome. Lo dicono le parole stesse che costituiscono la preistoria di spaghetti, rigatoni e tagliatelle. Dal risnatu mesopotamico, alla rishta persiana, alla lagana latina, antenata di lasagne e pappardelle. Ma sono paste fresche, lontane dalla nostra idea di maccheronità. A fare il passo decisivo sono gli arabi che, tra il IX e l' XI secolo, combinano il grano duro e l' essicazione dell' impasto, dando vita alla cosiddetta itriyya, da cui la parola tria, che in molte parti d' Italia, come Salento e Liguria, ancora identifica certi formati. Così quando le armate del Profeta occupano la Sicilia, l' isola diventa la capitale della pasta secca. Prodotta industrialmente ed esportata in tutto il Mediterraneo. I primi mangiamaccheroni sono dunque i siciliani. Poi la produzione si sviluppa in altre località costiere ( Sardegna, Pisa, Genova e Napoli). L' universo della pasta diventa via via più ricco. Dando vita a tecniche come il ferretto o la canna per essiccarla meglio. Nel '400 compare la parola " spagho". Un assist per gli spaghetti, che faranno gol secoli dopo. Un nuovo step verso il successo è l' incontro con il formaggio. Che ha letteralmente l' effetto del cacio sui maccheroni. All' inizio raccomandato dai medici, in quanto asciuga l' umido colloso della pasta, che viene stracotta. In seguito, però, pecorino, provolone e parmigiano diventano il tocco gourmet. È proprio grazie a vermicelli e fedelini che in Italia la forchetta si diffonde prima che in altri paesi europei. Ma la pagina decisiva è scritta con l' inchiostro rosso pomodoro. Alla base della cosiddetta " salsa spagnola", entrata nel '600 a far parte del repertorio di celebri cuochi come Antonio Latini, chef della corte vicereale di Napoli. Lentamente l' epicentro della cultura pastaia si sposta all' ombra del Vesuvio, facendo di Torre Annunziata e Gragnano le università dei maccaronari. Grazie anche alle innovazioni tecniche come il torchio, che trafila l' impasto, facendo risparmiare tempo e denaro. E grazie all' incontro con la pummarola che, conquista sia il favore dei gastronomi che dei medici, convinti delle sue proprietà digestive. Così una pioggia benefica di San Marzano cade sugli spaghetti rivoluzionando la nostra cucina. Ad assegnare ai partenopei il copyright del piatto simbolo del Belpaese è un ricettario anonimo del 1807, siglato M. F. e intitolato La cucina casereccia. Dove compare la ricetta dei "maccheroni alla napoletana", cotti al dente, altra innovazione vesuviana, spruzzati di caciocavallo grattugiato e irrorati di un denso ragù di carne. Mentre nei vicoli il popolo deve accontentarsi di un sugo low cost, a base di passata soffritta nel lardo. A riprova del fatto che la dieta mediterranea non ha tabù ma solo virtù. Il resto lo fa il gastronomo partenopeo Ippolito Cavalcanti nel 1837, quando raccomanda di profumare il sugo con abbondante basilico, che arriva dall' India e dall' Africa. Lo spaghetto è servito. Morale della favola. L' identità alimentare e non solo, non deriva da un passato lontano, da una autoctonia immodificabile, ma nasce e prospera grazie agli scambi, alle migrazioni, alle contaminazioni. E la storia degli spaghetti ne è la prova. Perché quello che consideriamo il cibo più nostro, studiato da vicino si rivela uno straniero nel piatto. Ma così ben integrato da sembrare nato qui. A dimostrazione del fatto che la cosiddetta denominazione d' origine in realtà è sempre incontrollata.
· Festival da mangiare.
Festival da mangiare: le Woodstock del cibo conquistano i gourmet. Da LSDM a Paestum a Gather JW a Venezia l'autunno è la stagione delle kermesse golose. Anna Muzio, Sabato 28/09/2019, su Il Giornale. Quest'autunno si va alla sagra. Anzi, pardon, al food festival. Se volete essere davvero à la page ne dovete frequentare almeno uno, considerando che questa (insieme a maggio) è la stagione ideale, anzi occorre affrettarsi. Un fenomeno che ha assunto proporzioni globali quello delle giornate dedicate al «dio cibo» che nell'ultima decina di anni hanno subito una sorta di mutazione antropologica. Passando dalla chiassosa, solitamente ipercalorica e molto popolare sagra di paese quella dove si incontra il vecchio compagno di scuola e si mangia e beve come se non ci fosse un domani a festival, appunto, dove è d'uopo farsi vedere con un sobrio piattino di finger food e un calice di bollicina in mano, a prendere appunti al convegno sul futuro della ristorazione o a riscoprire oscuri presidi territoriali ignoti pure alla bisnonna cuoca sopraffina. Fondamentale la prenotazione, rigorosamente online. Andare al food festival insomma è diventato un po' come frequentare l'essenziale stagione (estiva) dei grandi festival musicali: Primavera Sound, Roskilde, Rock am Ring, Lollapalooza. Happening sparsi in giro per il mondo dove giovani da ogni dove si recano accampandosi per due o tre giorni sul posto, sfoggiando uno streetwear attentamente calibrato, gomito a gomito con star del cinema e della moda per assistere a una macedonia musicale con le band e gli artisti del momento. Sono i grandi eventi frequentati dai Millennials, i trenta-quarantenni vittime favorite del cosiddetto marketing esperienziale. Non si va più a guardare un concerto o a pranzo o cena, si vive un'esperienza, si cerca qualcosa da ricordare (e postare sui social). Tanto che ormai le ex sagre mettono insieme promozione territoriale (Fish&Chef sul lago di Garda), musica, narrazione, artigianato locale e beneficenza (Festa a Vico a Vico Equense), arte e spettacolo (Girotonno a Carloforte) oltre naturalmente al cibo, che ha sostituito la politica e anche un po' la musica nel cuore dei Millennials di cui sopra. Preparato davanti a folle osannanti dalle vere rockstar della nostra epoca, gli chef, possibilmente stellati o comunque mediatizzati. Ma tornando a noi, quali sono dunque gli eventi da non perdere in questo inizio di autunno, il Woodstock della salamella, il Coachella della mozzarella, il Glastonbury della porchetta? Ultimo weekend a disposizione per il Cous Cous Fest di San Vito lo Capo (dal 20 al 29 settembre) dove il piatto simbolo del Mediterraneo viene celebrato e declinato in oltre 30 ricette, con proclamazione del vincitore finale. Si svolge in questi giorni (fino a domani) il festival culinario Gather by JW al JW Marriott hotel di Venezia, con esperti di cucina provenienti da tutto il mondo (tra gli italiani Ciccio Sultano, Martina Caruso e Fabio Trabocchi) che proporranno cene, esperienze e cooking class. Si ragiona sul cibo e soprattutto sulla sua sostenibilità al congresso Le Strade della Mozzarella (LSDM), l'1 e 2 ottobre a Paestum. La Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba (dal 5 ottobre al 24 novembre), che quest'anno celebra il binomio tra uovo e tartufo, è un lusso da concedersi almeno una volta l'anno nel cuore della sua produzione, mentre la dolcezza è di casa a Eurochocolate (a Perugia dal 18 al 27 ottobre). Per chiarire poi che il fenomeno è tutt'altro che nazionale, ricche opportunità ci sono anche per gli esterofili. Gli amanti della birra e dei bagni di folla chiassosa non si perderanno uno dei più tradizionali, l'Oktoberfest (dal 21 settembre al 6 ottobre a Monaco di Baviera), i più modaioli che ci tengono a essere sempre sul pezzo prenderanno l'aereo per la Grande mela dove dal 6 al 13 ottobre c'è il New York City Wine and Food Festival, mentre gli annoiati che han già visto tutto si dirigeranno a Dubrovnik dove chef, ristoratori e pasticcieri dal 14 al 20 ottobre imbandiranno un lungo tavolo nella via principale. E non temano gli originali a tutti i costi di rimanere a pancia vuota: per loro c'è il Campionato mondiale di porridge a Carribridge, Scozia, il 12 ottobre.
· Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni.
Simone Valesini per repubblica.it il 21 novembre 2019. Invecchiando l’udito peggiora. È un processo inevitabile che inizia più o meno con l’ingresso nell’età adulta, e non fa che peggiorare col passare degli anni. Quando il problema diventa abbastanza marcato da complicare la comunicazione e la vita delle persone prende il nome di presbiacusia, o sordità legata all’età: un disturbo che colpisce circa il 40% degli italiani a partire dai 65 anni di età. Come sempre, fortunatamente, l’alimentazione può fare molto per evitare, o ritardare, gli acciacchi causati dall’invecchiamento. Una nuova ricerca del Brigham and Women's Hospital di Boston, pubblicata sull’American Journal of Epidemiology, rivela infatti che una dieta bilanciata, come la nostra cara dieta mediterranea, potrebbe ridurre anche di un quarto il rischio di sviluppare problemi di udito legati all’età. L’esistenza di un legame tra alimentazione e udito, di per sé, non è una novità. Diverse ricerche in passato hanno infatti dimostrato che specifici nutrienti, come carotenoidi e betacarotenoidi (contenuti nei frutti rossi come arance o carote), il folato (presente in legumi e verdure) o gli omega 3 possono proteggere l’udito dagli effetti dell’invecchiamento. Ma nessuna ricerca aveva ancora indagato, più in generale, il rapporto tra perdita dell’udito e differenti modelli alimentari, come possono essere la dieta mediterranea o un’alimentazione ricca di grassi o proteine animali. Ovviamente, era proprio questo l’obiettivo della ricerca. Lo studio ha coinvolto oltre 3.000 donne americane con un’età media di 59 anni, di cui i ricercatori avevano a disposizione sull’alimentazione seguita negli ultimi 20 anni. Grazie a questi dati hanno potuto valutare quanto la dieta quotidiana di ognuna si avvicinasse ad alcuni dei più consigliati regimi alimentari salutari, come al dieta mediterranea, o la dieta Dash (sviluppata in America per prevenire l’insorgenza di ipertensione). Ognuna delle partecipanti è quindi stata sottoposta a un esame audiometrico, per valutare lo stato del loro udito, che è stato ripetuto anche a distanza di tre anni dall’inizio dello studio per valutare i cambiamenti sopravvenuti. Incrociando i dati sull’alimentazione e quelli sulla capacità uditiva delle partecipanti, i ricercatori hanno ottenuto quanto desiderato: le probabilità di un declino uditivo nel corso del periodo di studio è risultato minore per chi seguiva un’alimentazione paragonabile alla dieta mediterraneo o altri regimi alimentari salutari. Del 30% circa considerando le frequenze sonore medie, e del 25% analizzando quelle alte, solitamente compromesse prima e più pesantemente dall’invecchiamento. "L’associazione tra dieta e declino della sensibilità uditiva riguarda frequenze di importanza cruciale per la comunicazione verbale”" spiega Sharon Curhan, epidemiologa del Brigham and Women's Hospital che ha coordinato la ricerca. "Quello che ci ha sorpreso inoltre è la quantità di donne che hanno subito un declino dell’udito in un arco temporale tutto sommato breve come quello analizzato nel nostro studio. L’età media era di 59 anni, molte partecipanti avevano tra i 50 e i 60 anni: un’età inferiore a quella in cui solitamente si pensa che inizino i problemi di udito. E dopo solamente tre anni, il 19% ha riportato una perdita di udito nelle frequenze basse, il 38% in quelle medie e quasi il 50% in quelle alte".
Dagospia il 22 novembre 2019. Pubblichiamo un articolo che il direttore Vittorio Feltri ha scritto negli anni Ottanta sull'obesità e sulla mania delle cure dimagranti. Un'ulteriore testimonianza di come, in questi 30 anni, nel nostro Paese nulla sia cambiato anche in fatto di diete alimentari. Leggere per credere. Articolo di Vittorio Feltri pubblicato da “Libero quotidiano”. Parecchi lettori, dopo le precedenti puntate sulla questione della ciccia, mi hanno telefonato ponendomi dei quesiti specifici: quanti sono gli italiani che pesano troppo? Oppure: qual è la soglia dell' obesità, un quintale? Mi hanno preso per un esperto. O per un panzone, che per molti, probabilmente, è la stessa cosa, persuasi che solamente la gallina abbia i titoli per accertare che l' uovo sia marcio. Scusate se mi cito, un po' me ne vergogno, ma sono magrissimo, genere Biafra. Però ho consultato degli esperti veri e mi hanno assicurato che la magrezza - addio, illusioni - non è affatto garanzia di buona salute. Ci sono personcine filiformi che hanno la pressione arteriosa a 200, il colesterolo a 500 e i trigliceridi a 600. Scoppiano in malattia. Come mai? I motivi possono essere numerosi, anzitutto una dieta errata. È provato che su alcuni individui gli eccessi a tavola non si ripercuotono sul volume della pancia, bensì rendono il sangue vischioso, ricco di grassi: l' ideale per l' infarto, la trombosi, l' ictus cerebrale. I medesimi esperti hanno altresì ammesso che nel nostro Paese, e pure in altri considerati, a torto o ragione, più evoluti, non esistono statistiche attendibili sulla percentuale di obesi in rapporto alla popolazione. Perché, è presto detto: nei moduli del censimento non è ancora stata inserita la voce: «Quanto pesi?»; inoltre, la Saub o le Usl non provvedono a catalogare gli assistiti secondo la stazza. Tuttavia, a spanne, si può azzardare che il 30 per cento della gente abbia polpa in avanzo. Il dato ha un supporto non trascurabile: i consumi alimentari, in 35 anni, sono aumentati di quattro volte. Poiché in pari tempo il numero degli italiani non si è neppure raddoppiato, si deduce che la cospicua parte di cibo non destinata a bocche nuove finisca in quelle vecchie e, di conseguenza, si trasformi in lardo.
L'IPERNUTRIZIONE. Saranno forse conteggi un po' aleatori, ciononostante servono quantomeno a dimostrare, qualora ve ne fosse bisogno, che l' ipernutrizione non è un'ubbia del Censis, ma un allarmante fenomeno nazionale. In quanto poi all'altra domanda: qual è la soglia dell'obesità? Si potrebbe rispondere consultando una delle copiose tabelle stilate con cura da alcuni studiosi. Per esempio quella che indica l' altezza come miglior parametro. Ossia, se una persona è alta 1,70 dovrebbe pesare all' incirca 60 chilogrammi, cioè dieci di meno rispetto ai centimetri eccedenti il metro. Questo per i maschi. Per le donne si tollera un paio di chili in più, questione di cavalleria. Ma è il caso di scomodare la matematica? O non è sufficiente darsi un'occhiata allo specchio per verificare se la trippa deborda? Attenzione, nelle valutazioni è necessario essere verso se stessi né troppo benevoli, né troppo critici; e non scordare che il problema non è esclusivamente estetico, come sembra pensare la maggior parte dei cittadini di ambo i sessi, stando almeno all'andamento dell'industria dell'abbigliamento. Nel 1985, infatti, mentre l' economia in complesso ha registrato incrementi inferiori al 10 per cento, il fatturato della sola moda maschile ha fatto un balzo del 14,7 per cento, arrivando alla quota primato di 9.500 miliardi. È evidente, insomma, che, più di ogni altra cosa, all'uomo contemporaneo preme la bella presenza. Nessuno mette in dubbio che sia importante, tuttavia non dimentichiamo che oltre alla carrozzeria, c'è il motore. E va tenuto da conto, altrimenti si guasta e le riparazioni non sempre sono facili. Come si tutela la "meccanica" del corpo? Negli ultimi anni, mezzo mondo ha scoperto trionfalmente che il carburante più idoneo per la macchina umana è il cibo semplice e genuino: in due parole, dieta mediterranea, di cui in questi articoli ci siamo già occupati, sottolineandone l'efficacia, non per spirito patriottico, ma per fedeltà all' informazione scientifica. Se però non vi sono dubbi che spaghetti, verdure e pane non ingrassano, né intasano vene e arterie con sostanze nocive(sono, cioè, quanto di meglio per star bene sia "fuori" sia "dentro"), vi sono molti alimenti dannosi nei menù di svariate metropoli. Perché ormai, dopo lustri di abitudine alla cucina basata sulla carne fresca o insaccata e sulla abbondanza di condimenti animali, il mercato si è adeguato. Nei negozi si offrono prevalentemente prodotti adatti a una rapida elaborazione culinaria: la classica fettina, i salumi affettati e quant'altro - magari in scatola - si presti ad andare subito in tavola.
ALIMENTI INTEGRALI. Quasi tutto ciò che si espone al pubblico è raffinato: dallo zucchero al sale, dalla patata al riso, dal pane all' olio. E il consumatore, perfino colui che ha intuito la necessità di nutrirsi in modo naturale, viene scoraggiato: è vero che esiste in commercio una gamma relativamente vasta di alimenti integrali, e recentemente sono comparsi anche negli scaffali dei supermarket, ma i prezzi sono da gioielleria, alla portata di stipendi non comuni. I maccheroni con le fibre sono più cari di quelli senza, costano il doppio, tanto per fare un esempio. Ma la farina grezza non è quotata meno di quella "ripulita"? E allora, se la materia prima è più economica, non dovrebbe esserlo anche quella finita? Sarebbe come se l'Alfa Romeo pretendesse per un' auto non verniciata più soldi di quanti se ne devono sborsare per una luccicante. Eppure l' assurdità (apparente) una ragione ce l' ha e va ricercata nella fisiologia della compravendita: la domanda di prodotti integrali è ancora troppo bassa per giustificare un capillare e rifornito circuito distributivo, senza il quale, però, non è possibile ridurre i listini. La marce rara, benché di scarso valore, è obbligatoriamente cara. Qualcosa, però, si sta muovendo. I vegetariani - ovvero gli estremisti del desco - non sono più una esigua minoranza filorientale, composta da santoni e seguaci, ma abbondano in ogni classe sociale. Parecchi individui hanno detto basta alla grigliata mista per ragioni ecologiche: non è giusto, sostengono, che si facciano stragi di animali per soddisfare la gola profonda; e non è civile incrementare la macellazione, gli allevamenti in batteria, i trasporti di maiali, bovini e cavalli stipati su camion, sotto il sole o al freddo, per giorni e giorni senza mangime, foraggio né acqua. Crudeltà inutili esercitate quotidianamente tra la generale indifferenza. Gli erbivori, come già dieci anni fa aveva anticipato il professor Carlo Sirtori al congresso di Grosseto sul cibo verde, sono meno esposti sia alla pinguedine sia alle malattie, specialmente al cancro dell' intestino. E in ogni caso sono in buona compagnia: Leonardo Da Vinci, Einstein, Tolstoj e Shaw, per non parlare di Gandhi e di Schweitzer, erano assolutamente vegetariani.
VEGETARIANI. La "dieta esangue", che un tempo era al bando in quanto ritenuta carente di proteine, è stata rivalutata anche nello sport: hanno scoperto che i famosi e imbattibili maratoneti etiopi o non masticano carne, o ne masticano pochissima. Perché dalle loro parti non ce n' è. Ma ciò non toglie che siano al mondo i più resistenti alla fatica. La teoria che "le bistecche facciano l'atleta" è così miseramente caduta. E questo ha contribuito a rendere popolare l' insalata in ogni ambiente, compreso quello delle indossatrici che, per mantenere la linea senza farsi venire i crampi allo stomaco per i digiuni, cominciano a convertirsi ai piatti definiti poveri. Ai quali, presto, dovranno aggiungere gli spaghetti poiché - e lo dice Ottavio Missoni - dal capriccioso mondo della moda arrivano segnali strani: il pubblico, forse sollecitato dall' indomabile lievito maschilista, non gradisce più le donne ossute tanto care alle riviste femminili; preferisce qualche rotondità. Un po' di misura è necessaria. Va bene la magrezza, ma non esageriamo. In fondo, mangiare è un piacere, e nella vita qualcosa bisogna concedersi. Anche chi campa di rinunce non è eterno, e morire sani non è una gran consolazione.
Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 30 Settembre 2019. Perché dopo i 50 anni si fa più fatica a controllare il peso, e si tende ad ingrassare? E perché diventa così difficile ridurre il girovita e dimagrire anche mangiando poco? Lo rivela uno studio condotto dall' Istituto Karolinska di Stoccolma e dall' Università Uppsala di Lione, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, nel quale si spiega come gli adipociti, ovvero le cellule adipose della "massa grassa", a causa del cambiamento ormonale che inizia dopo i 45 anni, con l' avvicinarsi della menopausa e dell' andropausa, rallentino bruscamente il ricambio del grasso, il loro ciclo di rimozione subisce un marcato calo del metabolismo, favorendo l' accumulo di materiale lipidico al loro interno, che viene trasformato in "grasso di deposito" non più fluido ma denso, una fonte di energia conservata e custodita tenacemente dall' organismo per le emergenze fisiche e cliniche (malattie infettive o debilitanti), che spesso si stabilizza, si solidifica e si raddensa, determinando l' aumento di peso, e tutto questo avviene indipendentemente da altri fattori, quali per esempio l' alimentazione. Gli esperti infatti, hanno osservato, nell' arco di 13 anni, il turnover, cioè la velocità di ricambio del grasso contenuto nel tessuto adiposo di 104 soggetti di entrambi i sessi, dimostrando come tale velocità cali inesorabilmente per tutti con il trascorrere degli anni, predisponendo quindi all' aumento di peso o comunque rendendo più difficile perdere gli odiati chili di troppo. Nutrizionisti in crisi - risultati della ricerca indicano cioè, per la prima volta, che sono proprio i processi di ricambio nel nostro tessuto adiposo a regolare i cambiamenti del nostro peso corporeo con l' invecchiamento, e non c' entra niente come, quanto e cosa si mangia, perché questo accade inesorabilmente, e indipendentemente dal tipo di alimentazione. Una evidenza scientifica che rischia di mettere in crisi tutti i nutrizionisti del mondo, poiché la questione non si può quindi più ridurre a un semplice calcolo aritmetico o automatico, ovvero se si ingeriscono meno calorie di quelle che si consumano si tenderà a perdere peso, mentre se accade il contrario inevitabilmente si ingrasserà, perché il corpo umano è una macchina molto più complessa, sofisticata e intelligente, e mantenere il peso ideale può diventare un' impresa molto faticosa per motivi che trascendono dalla volontà personale. Il desiderio di mangiare, che non è necessariamente connesso alla fame, è controllato dal sistema limbico, il centro del piacere del cervello, che si accende di fronte a un bel piatto di pasta o una pietanza succulenta, ma non è programmato per gestire gli stimoli provocati dall' abbondanza di cibo che abbiamo a disposizione e sotto gli occhi tutti i giorni, e la continua eccitazione del centro limbico ad opera della sovraesposizione ai richiami alimentari è uno degli ostacoli più grandi al dimagrimento, in quanto produce un desiderio incessante di mettere qualcosa sotto i denti. Certamene vi sono persone che hanno una predisposizioni genetica verso l' accumulo di peso, che nascono con un numero maggiore di cellule adipose, con un punto di equilibrio del rapporto peso-altezza più elevato rispetto alle persone normopeso, e che fanno molta più fatica a raggiungere il senso di sazietà. Inoltre, e sembra banale ripeterlo, la vita sedentaria in ufficio, l' uso della macchina e la mancanza di movimento aerobico sono tutti comportamenti che non stimolano il metabolismo a reagire, innescando un circolo virtuoso nell' organismo difficile da invertire. La massa grassa - Ogni individuo inoltre, con l' aumentare dell' età, tende a diminuire la massa magra e, in particolare, la massa muscolare, mentre aumenta la massa grassa, che diventa molto più attiva dal punto di vista metabolico. Da qui uno dei punti cardine di tutte le strategie per dimagrire, cioè non basta semplicemente perdere peso, ma è necessario ridurre la massa grassa, poiché è inutile cercare scorciatoie con diete troppo drastiche, fantasiose e poco credibili, oltre che inadeguate sotto il profilo nutrizionale, perché i regimi restrittivi non comportano risultati duraturi e rischiano ricadute sulla salute generale. Le diete iperproteiche per esempio, possono essere prese in considerazione solo in casi selezionati e per brevi periodi, quando occorre un dimagrimento rapido, e comunque quando si riduce fortemente l' apporto calorico, diventa progressivamente più difficile soddisfare il fabbisogno di alcuni elementi essenziali, tra cui il ferro e il calcio, per cui le donne in età fertile, a causa della fisiologica e regolare perdita di ferro attraverso il ciclo mestruale, dovrebbero compensare tale squilibrio con il consumo di carne e pesce, che contengono il ferro più facilmente assorbibile. Il calcio è un nutriente fondamentale per le ossa, ed un regime alimentare che ne risulta privo (esclusione del latte e suoni derivati) favorisce una progressiva riduzione della densità ossea, che raggiunge il suo culmine negli anni successivi al calo ormonale. Durante la menopausa e l' andropausa sia gli uomini che le donne si accorgono della tendenza ad ingrassare rapidamente pur mangiando le stesse cose e le stesse quantità di sempre, o addirittura riducendole, e in questo periodo si fa così in fretta a mettere su qualche chilo che poi diventa difficilissimo perderlo. Meglio quindi giocare d' anticipo, e quando si avvicina la menopausa vale la pena darsi una regolata, imparando a rinunciare a piccoli snack e golosità che fino a poco tempo prima ci si concedeva, perché con il calo ormonale sale il colesterolo nel sangue, così come la pressione, per cui bisogna fare attenzione anche al "sale nascosto" contenuto nei cereali, nel pane, nei formaggi, affettati e in molti altri alimenti conservati o trasformati. Nella seconda fase della vita delle donne inoltre, il crollo rapido degli ormoni sessuali dovuto alla menopausa, oltre a favorire l' accumulo di peso, modifica anche la forma del corpo, che dalla forma "a pera" (grasso sui fianchi, glutei e cosce), tende a passare a quella "a mela", con adipe localizzato soprattutto al girovita e all' addome, che poi è quello più pericoloso per la salute. Una taglia in meno - Aumentare l' attività fisica in questo periodo è certamente utile, poiché aumentando la massa magra si può arrivare a perdere una taglia, e ridurre la quantità di cibo ingerito rallenta l' accumulo di adipe nei depositi, creando una nuova "memoria" negli adipociti, tarata su un introito calorico più basso, che cambia il loro punto di equilibrio. Il nostro corpo si modifica inesorabilmente di decennio in decennio, e dopo il quinto è imperativo modificare il regime alimentare, anche perché l' accumulo di peso innesca una serie di complicanze metaboliche, cardiovascolari e pressorie che favoriscono l' insorgere di molte patologie, sovente anche mortali. Niente diete punitive e restrittive quindi, difficili da mantenere, ma imparare a gestire la fame emotiva, quella che spinge ad assaggiare e a lasciarsi andare anche senza provare appetito, con la scusa di accusare attacchi di fame che fame non sono, ricordando che se si vuole vivere a lungo, dopo gli anta bisogna rinunciare alle golosità, ridurre le porzioni e fare attività fisica per mantenere una linea accettabile, e tenendo bene in mente che nessuna persona obesa è mai diventata centenaria. Melania Rizzoli
· Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare.
Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare. Controlli dei carabinieri anche nei locali che offrono la formula "all you can eat". Cibi scaduti e scarsa igiene. La Repubblica il 14 giugno 2019. Cibi scaduti, scongelati e ricongelati, mancato rispetto delle norme igieniche, etichette incomprensibili, importazioni vietate. I controlli dei Nas dei Carabinieri in tutta Italia su ristoranti etnici e depositi di alimenti provenienti dall'estero hanno accertato irregolarità in 242 strutture, quasi la metà dei locali ispezionati. L'incidenza è maggiore nel settore della ristorazione, specie negli "all you can eat": nel 48% dei locali sono state trovate irregolarità. Chiuse o sospese 22 attività, riscontrate 477 violazioni di legge e sequestrate 128 tonnellate di cibo. Irregolarità anche nel 41% dei controlli a grossisti e depositi di alimenti etnici. Sequestrate 128 tonnellate di prodotti ittici, carnei e vegetali per irregolarità e non idonee al consumo perché prevalentemente privi di tracciabilità ed in cattivo stato di conservazione, per un valore di 232mila euro. I Nas hanno trovato magazzini abusivi di stoccaggio dei prodotti, cucine mantenute in pessime condizioni igienico-sanitarie, ambienti mancanti dei minimi requisiti sanitari, strutturali e di sicurezza per i lavoratori. Sono stati applicati provvedimenti di chiusura o sospensione dell'attività per 22 imprese commerciali per un valore di 5,3 milioni di euro. Complessivamente sono state contestate 477 violazioni penali ed amministrative, deferiti all'Autorità giudiziaria 23 operatori del settore alimentare, mentre altri 281 sono stati sanzionati per infrazioni amministrative per 411mila euro. In ambito penale i reati maggiormente riscontrati, in totale 27, sono stati la frode in commercio e la cattiva conservazione degli alimenti. "Particolare attenzione è stata riservata agli esercizi di ristorazione veloce e a quelli che adottano la formula "all you can eat" per accertare che mantengano i livelli essenziali di corretta prassi igienica e la fornitura di materie prime idonee ad assicurare un livello accettabile di sicurezza per il consumatore", ha spiegato il generale di divisione dei carabinieri Adelmo Lusi. "Il piano di controlli - ha aggiunto - è stato realizzato con una metodologia finalizzata alla verifica del rigoroso rispetto delle procedure di preparazione, conservazione e somministrazione degli alimenti, dello stato igienico e strutturale dei locali di ristorazione e degli esercizi di vendita al dettaglio di prodotti preconfezionati, del mantenimento della catena del freddo soprattutto in relazione ai cibi da mangiare crudi, estendendo la vigilanza anche ai canali di importazione e distribuzione delle derrate alimentari e delle materie prime provenienti da Paesi esteri, gestiti da aziende di commercio all'ingrosso, di deposito e di trasporto".
Da Adnkronos.com il 14 giugno 2019. All'inizio c'è chi addirittura pensava fosse un fake. Ma l'immagine condivisa dal canale Facebook ufficiale del Movimento 5 Stelle - Luigi Di Maio che con sguardo severo e mano ferma annuncia "controlli anche sui negozi di cinesi e pakistani" - non ha lasciato spazio a dubbi. La stretta annunciata dal ministro del Lavoro non è piaciuta a molti deputati e senatori grillini. Ma ancor meno il 'meme' della discordia, che ha fatto il giro delle chat dei parlamentari al punto che qualcuno vorrebbe ora chiedere di sottoporre a 'graticola' anche lo staff della comunicazione. Quell'immagine è "una porcheria" dice all'Adnkronos senza esitazione un eletto alla Camera. "Chi prende queste decisioni?", tuona un'altra parlamentare. "Ormai - dice un senatore - ci ritroviamo a scimmiottare la Lega: perché non annunciare più controlli nei negozi italiani dove si fa il nero o dove, soprattutto al Sud, ragazzi lavorano anche solo per 200 euro al mese?". Nei commenti degli attivisti sui social alla foto 'incriminata' in tanti plaudono alla decisione di Di Maio ma non mancano le voci critiche: "Io direi semplicemente che vanno controllati tutti gli esercizi commerciali - scrive ad esempio Mara -, non ci salvinizziamo dividendo tutti in base all'etnia, siamo famosi per evasione fiscale e lavoro nero". Dello stesso tenore il commento di Fabio, che suggerisce: "Andate a fare i controlli nei ristoranti, bar e hotel stagionali e vedrete quanta evasione e quanti camerieri assunti con pochi soldi e tante ore di lavoro senza giorni di riposo!". Tra i favorevoli alla stretta c'è Raffaele: "Finalmente qualcuno che incomincia a far rispettare le regole, ottimo lavoro". "Da leghista, hai il mio vivo apprezzamento signor ministro... Bravo", è invece il commento di Fabio.
· Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto.
Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto. Nei resti umani trovati nell'antico porto le prove: fino al V secolo, i facchini mangiavano gli stessi cibi dei più abbienti. L'alimentazione si è impoverita dopo il sacco dei Vandali, diventando più povera e campagnola. La Repubblica il 12 giugno 2019. Carne, pesce, grano, olio d'oliva e vino: c'era di tutto nel piatto degli scaricatori di porto nell'antica Roma. Al pari dei banchetti consumati dai più ricchi e benestanti. A impoverire la loro dieta, rendendola più simile a quella dei contadini, furono gli sconvolgimenti politici e dei commerci portati dalla discesa dei Vandali con il sacco di Roma del 455 d.C.. Lo dimostrano le analisi condotte sui resti umani, animali e vegetali ritrovati nel sito dell'antico Portus Romae dagli archeologi dell'Università di Cambridge, che pubblicano i risultati sulla rivista Antiquity. I resti umani trovati nell'antico porto di Roma "appartengono alla popolazione locale impegnata in pesanti lavori manuali, probabilmente facchini che scaricavano le navi in entrata", spiega la coordinatrice dello studio, Tamsin O'Connell. "Se guardiamo gli isotopi presenti negli individui vissuti tra l'inizio del II secolo fino alla metà del V, vediamo che hanno avuto una dieta piuttosto simile a quella delle classi ricche e benestanti seppellite nel cimitero di Isola Sacra", situata vicino alla foce del Tevere. "E' interessante notare - continua l'esperta - che nonostante le differenze di status sociale, entrambe le popolazioni avevano accesso alle stesse risorse alimentari". Fu poi la discesa dei Vandali a determinare un drastico cambiamento non solo politico, ma anche delle rotte commerciali e delle importazioni di cibo: così i lavoratori del porto dovettero cambiare le loro abitudini, portando in tavola piatti più poveri e frugali a base di proteine vegetali, come zuppe di piselli e lenticchie.
· Cosa mangeremo nei prossimi anni.
Cosa mangeremo nei prossimi anni. Dalla genetica al bioprinting la ricerca scientifica sta rivoluzionando le nostre tavole. Nei prossimi anni vedremo cibi molto più sofisticati a tutto vantaggio della salute e degli animali da carne. Luca Sciortino il 9 settembre 2019 su Panorama. Una nota multinazionale pubblicizza una birra sottolineando che è stata fatta con un raro lievito della Patagonia. Questa nuova trovata del marketing è una sorta di finestra sul futuro: nei prossimi anni cibi e bevande ottenuti per fermentazione saranno il frutto della selezione e della ingegnerizzazione di microrganismi come lieviti e batteri. « L’obiettivo sarà quello di ottenere alimenti con più elevato valore nutraceutico, cioè con maggiore contenuto di sostanze nutritive dagli effetti benefici sulla salute» dice Manuela Giovannetti, docente di Microbiologia Agraria al Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa. Facciamo alcuni esempi:« Recentemente sono stati riscoperti e ristudiati per il loro valore come probiotici alimenti come il Kefir, il Kimchi e il Kombucha» spiega Giovannetti « il primo è una bevanda originaria del Caucaso ottenuta facendo fermentare il latte con l’introduzione di particolari lieviti e batteri. Alcuni di questi microrganismi sopravvivono indenni al processo digestivo ed entrano a far parte del nostro bioma, la popolazione microbica del nostro organismo. Selezionandoli o ingegnerizzandoli si possono ottenere benefici come la protezione contro centre malattie o la formazione di anticorpi». Nel Kimchi, fatto di verdure fermentate e spezie, la selezione di particolari batteri può fornire un maggiore contenuto di alcuni tipi di vitamine come la A, la B1 e la B2; nel Kombucha, un tè addolcito fermentato con una particolare coltura, la selezione e l’ingegnerizzazione verrà fatta sui lieviti, con effetti disintossicanti. «Nei prossimi anni anche il pane, la birra, lo yogurth e tutti gli altri alimenti ottenuti da fermentazione saranno ingegnerizzati ad hoc per le esigenze di individui con simili esigenze o caratteristiche genetiche» conclude Giovannetti «io stessa sto coordinando un progetto nazionale sul pane che studia più di trecento ceppi diversi di lieviti. Vogliamo comprendere come migliorarli per ottenere un pane con varie proprietà, per esempio quella anti-infiammatoria». I cibi del futuro cambieranno anche in funzione del fatto che sempre di più genomi di piante commestibili verranno sequenziati. Per esempio, ad Aprile scorso Nature Genetics ha dato notizia del sequenziamento del genoma di grano duro con il contributo del Crea e del Cnr. Grazie alle biotenologie, questi dati permetteranno un grano più calibrato ai gusti dei consumatori e quindi a tipi di pane molto più diversificati di quelli attuali. Forme di trapianti di parti di Dna da un organismo a un altro daranno luogo a varietà di cibi che nessuna selezione riproduttiva potrebbe fornire. Già adesso un aminoacido come la metionina è stato aggiunto al genoma del mais rendendolo più nutritivo e non si contano esempi simili: patate e riso con più proteine; pomodori con antiossidanti presi da altre specie vegetali; lattughe che contengono forme di ferro più digeribili. Le tecniche del bioprinting, ovvero la stampa in tre dimensioni di tessuti e organi, permetteranno di produrre hamburger e bistecche a partire da da cellule di bovino prelevate con una biopsia e dunque senza uccidere l’animale. La stampa avviene strato per strato sulla base di un modello 3D digitale e una stampante dalle testine 3D che contengono “bio-inchiostro”, ovvero biomateriali, come per esempio fattori di crescita, cellule e altre biomolecole. Hamburger di vitello saranno presto in commercio con il marchio della ditta americana Modern Meadow, un fatto che indurrà molti vegetariani a riprendere il consumo di carne, visto che la sofferenza animale sarà evitata. Altri settori della ricerca potranno avere potenziali ricadute sul sapore dei cibi. Uno di questi è il settore delle nanotecnologie: nanoparticelle di natura biologica che al momento vengono create per rilasciare più lentamente i farmaci in certe zone dell’organismo, potranno essere usate per fornire una sorta di retrogusto a certi cibi o per rimuovere certe sostanze che danno a vini e altre bevande un certo aroma. L’industria lavora poi a cosa è più redditizio e non necessariamente significa che ciò sarà di grande beneficio per i consumatori. Ci saranno gelati e tavolette di cioccolato che non si sciolgono nelle giornate calde, birre ottenute da acque reflue, vernici commestibili da applicare ai cibi per renderli più appariscenti e zucchero filato per bloccare il singhiozzo. Anche le neuroscienze daranno il loro contributo suggerendo come devono apparire i piatti per essere più allettanti al consumatore. La “scienza” che sorgerà si chiamerà “neuro-gastronomia” e ci regalerà la conoscenza di come dovrà essere servito un dato tipo di cibo o quale dovrà essere il suo grado di croccantezza: una crema servita in una particolare tazza sembrerà più cremosa. D’altonde, bisognerà pure vincere quella naturale ritrosia umana ad assaggiare le molte novità in arrivo, dagli hamburger di farina di insetti alle barre a base di alghe.
· Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…”
Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…” Più Donna l'8 settembre 2019. Il Dott. Franco Berrino, medico ed epidemiologo italiano, attraverso questa intervista, fa il punto sui “12 comandamenti anticancro” del Codice Europeo. Queste raccomandazioni contro il cancro sono delle raccomandazioni per “la prevenzione dei tumori” e sono molto importanti anche per chi ha un tumore, ma non devono essere viste come delle soluzioni alternative alle normali cure; ciò che la medicina moderna propone, e cioè le terapie per la cura dei tumori, devono essere fatte perché indispensabili in questo tipo di patologie, ma è indispensabile, affinché questi trattamenti risultino efficaci, seguire una corretta alimentazione e il giusto stile di vita. Il Codice Europeo per la prevenzione del cancro sono delle raccomandazioni, proposte dalla Comunità Europea per i suoi abitanti, fatte da una serie di commissioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che hanno rivisto gli studi scientifici e hanno deciso ciò che può e che è sensato raccomandare, sulla base di una considerazione molto prudente di tutti questi studi. Berrino, I 12 punti di questo codice sono i seguenti:
Non fumare ed evitare qualsiasi tipo di tabacco. È importante evitare la dipendenza da fumo, abbassando di molto la probabilità dello sviluppo di neoplasie, soprattutto a livello polmonare.
Non fumare in casa. Il fumo passivo predispone i bambini alla sviluppo di leucemie e ne aumenta il rischio di ammalarsi. È anche importante seguire le direttive contro il fumo sul luogo di lavoro: questo eviterà che le persone non fumatrici siano esposte al fumo passivo dei colleghi fumatori.
È importante mantenere il peso forma o tornare al nostro peso ideale. I chili in eccesso sono dovuti al tipo di alimentazione troppo ricca di proteine, questo confermato dai numerosi studi presenti, contrariamente da quanto sostenuto dalle cosiddette “diete farlocche” iperproteiche che causano soltanto intossicazioni nell’organismo.
Pratica esercizio fisico tutti i giorni. Si sa molto chiaramente che chi esegue quotidianamente dell’esercizio fisico ha meno probabilità di ammalarsi di cancro.
Seguire una dieta sana basta sui cereali integrali non raffinati, sulla verdura e la frutta. È molto importante evitare le carni rosse, sappiamo come l’elevata quantità di ferro ossidante al loro interno favorisca la patogenesi di tumori dell’apparato digerente, le carni conservate, gli zuccheri e le bevande zuccherate. Di tutto ciò il Ministero della Sanità Italiana non ne parla per non danneggiare la nostra industria alimentare; dobbiamo però fare in modo che questa industria cambia i suoi metodi di lavorazione ed eviti di utilizzare gli alimenti citati. Infine, si parla di ridurre il sale nella nostra alimentazione, ma chi segue una dieta a base di vegetale deve aggiungere questo ingrediente affinché ci sia il giusto apporto di sodio, esagerato nella dieta mediterranea.
Limitare il consumo di alcolici. Per la prevenzione del cancro è assolutamente sconsigliata l’assunzione di bevande contenenti alcol.
Evitare lunghe esposizioni al sole, soprattutto per i bambini, utilizzare le protezioni solari e non utilizzare le lampade solari. Fondamentalmente il rischio di melanoma c’è in caso di scottature e non in caso di esposizioni prolungate al sole; si eviti il sole, nel caso in cui non si utilizzino le protezioni solari, e le lampade solari, a causa delle radiazioni UV che vengono emanate e assorbite dalla pelle.
Proteggersi dall’esposizione ad agenti cancerogeni sul luogo di lavoro. È importante che siano seguite le normative in merito alla sicurezza e che il lavoratore sia informato sugli agenti chimici che sta utilizzando.
Controllare se in casa si è esposti a elevati livelli di radiazioni radon. Il radon è un gas emesso dalle pietre di costruzione e dal cemento; può causare tumore al polmone e il suo effetto si somma a quello del tabacco nei fumatori e ne aumenta la predisposizione anche nei non fumatori. Tanto più si chiudono ermeticamente le nostre abitazioni, per risparmiare su condizionatore e riscaldamento, tanto più sarà maggiore l’esposizione alle radiazione del radon.
Nelle donne, l’allattamento riduce il rischio di cancro. È importante allattare il proprio bambino ed evitare le terapie ormonali sostitutive in menopausa, a meno che non ci sia una forte ragione per farlo. È importante in questo caso utilizzare il progesterone naturale perché secondo gli studi non è associato ad un aumentato rischio di cancro alla mammella, mentre i farmaci progestinici sintetici che le case farmaceutiche producono (brevettandoli e ricavandone denaro) sono associati ad una aumentata probabilità di ammalarsi.
Assicurarsi che i bambini siano vaccinati per il virus dell’Epatite B (i neonati) e il Papillomavirus (per le ragazze). Si raccomanda di eseguire queste vaccinazioni perché evitano la formazione del cancro al fegato (virus epatite B) o alla cervice uterina (HPV). Ovviamente la vaccinazione non è sufficiente perché copre solo il 70% dei virus, essendone presenti anche altri ceppi, ed è importante eseguire gli esami di controllo (es. pap test).
Aderire ai programmi di screening per il cancro all’intestino (uomini e donne), cancro al seno (donne) e cancro alla cervice (donne). È importante partecipare ai programmi organizzati, cioè di prevenzione, ma non sono consigliati quelli di controllo per il polmone e la prostata.
È indispensabile aderire a questo programma, magari migliorandolo in alcuni punti, ma è comunque un importante mezzo da utilizzare per evitare di ammalarsi; seguirlo in tutti i suoi punti può evitare di sviluppare numerose neoplasie e permettere di vivere in salute.
Quella dieta (sbagliata) degli ospedali. Si succedono studi che provano che certi cibi aumentano il rischio di recidiva nei malati operati di tumore. Però in molti ospedali si continuano a servire pasti senza tener conto di queste conoscenze. Salvo alcune eccezioni...
Luca Sciortino il 24 luglio 2019 su Panorama. Nella letteratura scientifica sta crescendo la consapevolezza dell'importanza della dieta nella cura dei pazienti affetti da tumore. Una recente statistica condotta su degenti in cura al Karolinska Institute mostra che una dieta appropriata subito dopo l'intervento accelera i tempi di guarigione e determina un risparmio nelle spese di gestione del paziente. Un altro studio pubblicato da Plos One su un campione di 522 pazienti oncologici dimessi dopo un intervento mostra che la qualità della dieta e l'attività fisica diminuiscono il rischio di morte prematura. Inoltre, è ormai assodato che certi cibi possono contrastare efficacemente l'insorgenza di metastasi o recidive, a tal punto che esistono linee guida alimentari codificate sia nel "Codice europeo contro il cancro" sia nel documento del "Fondo mondiale per la ricerca sul cancro". Ci si chiede allora se gli ospedali tengano conto di queste conoscenze nella preparazione dei pasti e nei suggerimenti inclusi nelle lettere di dimissione. L'esperienza di alcuni pazienti curati in vari centri italiani è che i piatti, spesso forniti da ditte esterne, non sono preparati tenendo conto delle linee guida. Inoltre, le lettere di dimissioni non contengono alcuna indicazione su cosa è bene mangiare o non mangiare appena usciti dall'ospedale. Questa impressione è confermata da Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: «In generale, la classe medica non ha una preparazione adeguata sul ruolo della dieta per favorire la guarigione e prevenire l'insorgenza di recidive. In particolare, un giovane appena laureato in medicina non ha studi del genere alle spalle. Questa mancanza di cultura si riflette in una bassa attenzione alla dieta e alle linee guida alimentari all'interno degli ospedali». Berrino nota anche che, «se da una parte la ricerca individua un nesso tra l'eccesso di zuccheri e la crescita dei tumori, in quanto l'aumento di insulina che ne deriva favorisce la divisione cellulare, negli ospedali vengono somministrati cibi che fanno molto aumentare la glicemia, ovvero il contenuto di glucosio nel sangue» e cita alcuni esempi: «Uno dei pasti tipici degli ospedali è il prosciutto con il purè di patate: grave che si ignori che il secondo aumenta la glicemia e il primo è altamente sconsigliato dalle linee guida del Codice europeo contro il cancro, come tutte le carni lavorate. Per non parlare del fatto che nelle corsie di ospedale si trovano distributori di bevande zuccherate, altro alimento sconsigliato nella prevenzione. Succede perfino qui nell'Istituto Tumori di Milano. Tra l'altro bisognerebbe dare ai malati l'esempio e aiutarli così a capire cosa non dovrebbero fare dopo le dimissioni». Secondo Berrino bisognerebbe anche evitare il pane bianco e le farine raffinate: «ciò non avviene per una certa inerzia delle amministrazioni degli ospedali, che sperano di risparmiare affidandosi a ditte esterne le quali non hanno alcuna conoscenza di come la dieta possa aiutare il malato. Di fatto, però, risparmierebbero molto di più con diete corrette e calibrate: come mostrano vari studi, queste riducono i tempi di degenza e quindi i costi dell'ospedale». Le eccezioni, come sempre, non mancano: «Ci sono ospedali come il Policlinico San Donato di Milano o come il Policlinico Sant'Orsola di Bologna o l'Ospedale di Mantova i quali hanno intrapreso una strada differente, che tiene in conto le linee guida del Codice europeo» conclude Berrino. È quindi importante capire meglio la politica in fatto di alimentazione di questi ospedali dalla voce diretta di coloro che la stanno mettendo in atto. Livio Luzi, responsabile dell’area Endocrinologia e malattie metaboliche al Policlinico San Donato e Direttore del comitato scientifico Progetto EAT Alimentazione sostenibile, dice: «Che ci sia poca attenzione all'alimentazione dei malati è provato dal fatto che spesso negli ospedali si trova malnutrizione, soprattutto nel caso di anziani, di pazienti oncologici, o di pazienti con chirurgia intestinale maggiore, che vedono quindi ancora di più allungarsi i tempi di degenza. Noi ci impegniamo perché all'entrata i pazienti vengano visti da un nutrizionista-dietista, o ricevano indicazioni dietetiche dal personale del reparto. In questo modo individuiamo carenze o eccessi e formuliamo indicazioni dietetiche importanti non solo durante la degenza ma anche dopo la guarigione. Nella lettera di dimissioni includiamo almeno alcune indicazioni alimentari sulla base della diagnosi e del decorso della malattia. Nei casi di obesità-diabete, neoplasie, interventi di chirurgia maggiore, pazienti in rianimazione, i suggerimenti dietetici sono basati sulla misurazione del dispendio energetico mediante calorimetria indiretta». In particolare Luzi ha introdotto nel percorso diagnostico terapeutico calorimetri per la misurazione del consumo di calorie. Sulla base dei dati acquisiti, al San Donato sono così in grado di calibrare le diete nella degenza dando, se necessario, indicazioni dettagliate alle ditte che forniscono i pasti. «Sulla figura del nutrizionista-dietista bisogna notare che esistono anche figure professionali non sanitarie (laurea magistrale in scienze agro-alimentari), che non possiedono le competenze per operare in ambiente ospedaliero. Noi utilizziamo altre figure, specialisti che hanno anche conoscenze mediche come biologi nutrizionisti o dietisti, oltre ai Medici Dietologi» fa notare Luzi. Nell’Azienda ospedaliera-universitaria Policlinico di Sant’Orsola di Bologna c’è un’analoga consapevolezza delle potenzialità di una dieta ottimale, come spiega Marco Storchi, direttore dei "Servizi di supporto alla persona": «mentre gran parte degli ospedali compra menù già confezionati e uguali per tutti i pazienti, noi abbiamo mantenuto le cucine sotto il nostro controllo e abbiamo lanciato il progetto “Crunch” per unire cucina, ristorazione e nutrizione. Un team di dietisti e cuochi, coordinato da un nutrizionista esperto in collaborazione con la Dietetica Clinica e i medici delle diverse Unità Operative, provvede al miglioramento della dieta del paziente agendo sulla componente nutrizionale, sul gusto del piatto e sull’innovazione delle ricette. Grazie a queste strategie non solo riusciamo a essere più competitivi economicamente di un'eventuale gestione esterna, ma offriamo un servizio di migliore qualità e otteniamo benefici per i pazienti, che poi si traducono in risparmi ». Secondo Storchi il contesto dell’ospedale, ovvero Bologna, una città di grande cultura gastronomica, ha favorito una gestione attenta alla dieta. «I malati sono più esigenti e si rendono conto dell'importanza dell'alimentazione: ciò è stato un grande stimolo per noi. Per i pazienti oncologici abbiamo ridotto gli alimenti di origine animale a favore dei vegetali e dei legumi. In più abbiamo realizzato alcuni studi interni, per esempio uno riguardante i pazienti disfagici, cioè che hanno difficoltà a deglutire, tra i quali vi sono anche pazienti affetti da tumore. Questi pazienti, che hanno caratteristiche di particolare fragilità, sono costretti a nutrirsi di cibi frullati o morbidi e, a causa di ciò, spesso non riescono a mangiare le stesse quantità degli altri, motivo per il quale sono spesso a rischio malnutrizione. Noi non ci limitiamo a frullare il pasto, come fanno molti ospedali, ma abbiamo reingegnerizzato il processo produttivo per offrire contenuti nutrizionali e apporti calorici in linea con i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (LARN) anche a fronte di minori quantità. Alimentare i pazienti disfagici in modo corretto significa accelerare il loro processo di guarigione». «Noi invece abbiamo attivato un progetto denominato “Chef in ospedale”» racconta Consuelo Basili, direttrice del Presidio Ospedaliero di ASST Mantova «una biologa nutrizionista e uno chef stellato supportano il personale della cucina ospedaliera in tutte le fasi principali, dalla formulazione dei menù alla preparazione dei pasti. Questo lavoro di contaminazione culturale tra cucina collettiva ospedaliera e alta ristorazione ha portato a rivisitare alcuni piatti classici dei menù ospedalieri, nella consapevolezza che una dieta sana permette di guarire più rapidamente. Così rendiamo il purè di patate più sano preparandolo con brodo di verdure fresche senza l’uso dei fiocchi, che causano un aumento del picco glicemico, e senza il burro. Il grande punto di forza dell’Ospedale di Mantova è possedere una cucina interna a gestione diretta e poter intervenire sull’acquisto delle materie prime. Appositi capitolati di gara ci aiutano a tutelare la qualità degli alimenti e la composizione dei menù. Se un piatto sano e anche buono si hanno maggiori probabilità che i pazienti continuino a mangiarlo anche fuori dall’ospedale. In questo modo avremo contribuito a quel cambiamento dello stile alimentare che influisce sullo stato di salute. Con questo spiritoo abbiamo richiesto la sostituzione delle bevande zuccherate con acqua e altre bevande senza zuccheri aggiunti. Abbiamo anche intrapreso una campagna informativa e formativa sui corretti stili alimentari rivolta a pazienti e dipendenti e a breve verrà attivato un ambulatorio di medicina integrata rivolto alle donne affette da tumore per il controllo nutrizionale durante il periodo del follow up». La scarsa attenzione agli effetti della dieta avviene in un contesto storico nel quale alcuni chef diventano popolari proponendo ricette d'avanguardia estremamente raffinate. Esiste perfino una nuova "scienza", la "neuro-gastronomia", che si avvale delle neuroscienze per comprendere come meglio presentare un piatto. Tutto ciò stride con la situazione negli ospedali, dove il "mangiar male" è considerato un fatto normale, con il quale bisogna convivere. Questa contraddizione profonda in seno alla nostra società è necessariamente destinata a esplodere man mano che sempre più pazienti ne prenderanno coscienza.
· Anche i cibi sani possono far male...a parte il Peperoncino, le Verdure e l’Aglio.
DAGONEWS il 2 ottobre 2019. Mangiare verdure cotte o crude potrebbe cambiare drasticamente i nostri batteri intestinali. Nella ricerca condotta sia su topi che su esseri umani, gli scienziati hanno scoperto che mangiare cibi cotti non solo cambia il nostro microbioma, ma anche il fatto che i geni di questi batteri vengono "attivati" o "disattivati". I ricercatori affermano che ciò è dovuto al fatto che mangiare cibi cotti può migliorare la salute dell'intestino, mentre molti cibi crudi contengono composti che uccidono i microrganismi, il che significa che molti dei nostri batteri intestinali vengono distrutti. Il team, guidato dalla University of California San Francisco, afferma che i risultati ci aiutano a capire come alimenti crudi o cotti possono cambiare i batteri del nostro corpo e come il nostro microbioma si è evoluto quando i primi umani hanno imparato a cucinare il cibo. «Il nostro laboratorio ha studiato in che modo diversi tipi di dieta - come le diete vegetariane rispetto alle diete a base di carne - incidono sul microbioma - ha affermato il dottor Peter Turnbaugh, professore associato di microbiologia e immunologia presso l'UCSF - Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che nessuno aveva studiato la questione fondamentale di come la cottura stessa alterasse la composizione degli ecosistemi microbici nelle nostre viscere». Per lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Microbiology, il team ha diviso i topi in quattro gruppi. I roditori venivano nutriti con una di quattro diete: carne cruda, carne cotta, patate dolci crude o patate dolci cotte. I ricercatori hanno scoperto, con loro sorpresa, che non vi era alcuna differenza nei microbiomi dei topi che mangiavano carne cruda rispetto a quelli che consumavano carne cotta. Tuttavia, c'era una differenza significativa tra i topi che mangiavano patate crude o cotte. I ricercatori affermano che uno dei motivi di questi cambiamenti è che diversi cibi crudi contengono composti antimicrobici che danneggiano o uccidono i batteri nei nostri corpi. I ricercatori dell'UCSF volevano vedere se simili cambiamenti microbiotici si sarebbero verificati nell'uomo e hanno collaborato con uno chef professionista per preparare menù crudi e cotti. Incredibilmente lo stesso risultato si è riscontrato negli umani. «È stato emozionante vedere che l'impatto della cottura che vediamo nei roditori è rilevante anche per gli esseri umani - ha detto il dottor Turnbaugh - Siamo molto interessati a fare studi più ampi sugli esseri umani per comprendere l'impatto dei cambiamenti dietetici a più lungo termine».
Da Leggo.it il 2 ottobre 2019. Le proprietà antiossidanti dell'aglio ne fanno un vero e proprio viagra naturale. Lo consiglia il famoso sessuologo Marco Rossi, che è intervenuto a “Dee Notte” su Radio DeeJay spiegando come deve essere assunto per ovviare ai problemi di erezione negli uomini. Ciò che lascia perplessi è che si sconsiglia l'assunzione per via orale. «C'è una ricerca, neanche troppo recente, che ne parla. Sappiamo che l'aglio ha proprietà benefiche per l'organismo, nell'antichità veniva usato dai soldati romani e dagli schiavi che costruivano le Piramidi in Egitto» - ha spiegato Marco Rossi, noto per diverse apparizioni in tv - «Può anche curare la disfunzione erettile, ma siccome l'assunzione per via orale comporta un alito poco gradevole, la ricerca consiglia di introdurre per via rettale due spicchi d'aglio, come se fossero delle supposte». Quando i due conduttori, Nicola e Gianluca Vitiello, si chiedono se una simile tecnica possa provocare bruciore in un punto poco piacevole, Marco Rossi risponde così: «Andrebbe provato, personalmente non saprei. La ricerca comunque consiglia di assumere per via rettale gli spicchi d'aglio almeno 24 ore prima del rapporto sessuale».
Viola Rita per wired l'1 ottobre 2019. Oggi i riflettori si accendono di nuovo su un tema a lungo discusso, gli effetti (nocivi) sulla salute di un consumo eccessivo di carne rossa e della carne processata (cioè quella lavorata e conservata, come salumi, salsicce e wurstel), quella che fa più male. Un nuovo studio controcorrente, infatti, indica che interrompere il consumo di queste carni non sembra apportare dei benefici importanti per salute. Anzi i vantaggi dell’esclusione di questi alimenti sarebbero piccoli se non nulli. Ad affermarlo è un panel internazionale di esperti, che ha condotto una serie di revisioni scientifiche su questo argomento. I loro risultati, pubblicati sugli Annals of Internal Medicine, contengono nuove linee guida sull’alimentazione. E indicano che in generale non bisogna demonizzare il consumo della carne rossa, eliminandola completamente. Il dibattito rimane aperto e ad oggi le raccomandazioni sul consumo della carne sono le seguenti.
Le raccomandazioni attuali. Il risultato sembra in contraddizione con le raccomandazioni attuali. Numerosi recenti studi hanno richiamato l’attenzione sull’importanza di abbassare il contenuto di carne rossa e lavorata per diminuire il rischio di diverse patologie, come alcuni tipi di tumore, diabete e malattie cardiovascolari. Tanto che nel 2015 lo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che fa parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha classificato come probabilmente cancerogena la carne rossa (classe 2A) e sicuramente cancerogena la carne lavorata (classe 1). Per questo molte autorità internazionali, fra cui l’Organizzazione mondiale della sanità, hanno recentemente raccomandato di ridurre l’assunzione di carni rosse (mangiandone non più di tre porzioni a settimana, ovvero non più di 500 grammi) e indicano che un elevato consumo di carni lavorate al giorno (50 grammi) aumentano del 16% il rischio di tumore del colon-retto – che per questo dovrebbero essere evitate quanto più possibile.
Il risultato di oggi. Gli autori sono partiti dalla stima del consumo medio di carne rossa e lavorata, in Europa e nell’America settentrionale, che va dalle 2 alle 4 porzioni a settimana. Un rigoroso insieme di revisioni sulle prove su questo argomento, come scrivono i ricercatori, mostra che i benefici associati alla riduzione del consumo di queste carni sono ridotti se non assenti. Per questo le nuove linee guida riportano che “la maggior parte degli adulti (ma non tutti) possono continuare ad assumerle seguendo le loro abitudini medie”. Gli esperti tuttavia sottolineano che si tratta di una “raccomandazione debole” e un “livello di evidenza ancora basso”.
Come è stato ottenuto il risultato. Insomma, il dato, seppure basato – a detta degli stessi autori – su un’evidenza limitata, sembrerebbe andare controcorrente rispetto a molte delle raccomandazioni fornite fino ad oggi. Ma come è stato ottenuto? Il risultato si basa su “cinque revisioni sistematiche di alta qualità”, ovvero revisioni e recensioni di studi già pubblicati sul tema, in particolare sulla relazione fra consumo di carne e salute.
Le ricerche esaminate – 12 trial randomizzati – includono i dati di circa 54mila persone. Dall’analisi non emerge un’associazione statistica significativa o importante fra l’assunzione di carne rossa o lavorata e il rischio di diabete, malattie cardiovascolari e tumori. In pratica, spiegano gli autori, “non ci sono prove stringenti che carni rosse o lavorate causino queste patologie”. A fronte di questo riscontro, i ricercatori indicano che per molti è possibile continuare a mangiare queste carni, spesso apprezzate proprio perché percepite come salutari. Ma allora come interpretare il risultato? La carne rossa e gli affettati fanno bene o fanno male? Secondo gli autori eliminare del tutto queste carni potrebbe non avere un senso, in termini di salute, mentre un consumo medio potrebbe non essere nocivo. Lo stesso Iarc, ad esempio, indica che in persone non particolarmente a rischio di determinate malattie, un’assunzione moderato di carni rosse, non superiore ai 500 grammi a settimana (pari a circa 3 porzioni), potrebbe non aumentare i rischi, mentre mangiarne di più potrebbe non far bene. Diverso il discorso dello Iarc sulle carni lavorate, che dovrebbero essere fortemente limitate se non evitate. Il dibattito, dunque, resta aperto (soprattutto sulle carni lavorate), fermo restando che anche in questo caso la chiave è sempre quella di scegliere la strada della moderazione ed evitare gli eccessi.
Carni rosse e salumi: uno studio riapre la discussione sul legame con i tumori. Una metanalisi appena pubblicata pone dubbi sulla forza delle correlazione tra il consumo di questi alimenti e l’insorgenza di tumori, diabete e malattie cardiovascolari. Vera Martinella 1 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera.
L’allarme del 2015. Sembrerebbe un contrordine rispetto all’allarme «esploso» nel 2015, quando l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione, massima autorità in materia di studio degli agenti cancerogeni che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), aveva inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro negli uomini. Un panel di esperti internazionale, in una serie di raccomandazioni pubblicate oggi sulla rivista scientifica Annals of Internal Medicine, conclude che «per restare in salute non c’è alcun bisogno di ridurre il consumo di carni rosse e processate», ovvero quelle salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti per migliorarne il sapore o la conservazione. Affermazione che però va soppesata e compresa.
Pericolo di tumori di colon-retto, pancreas, prostata. Moltissimi dati sono arrivati negli ultimi anni a indicare che il sovrabbondante (troppe quantità e troppo frequente) consumo di carni rosse è connesso allo sviluppo di tumori, soprattutto dell’apparato digerente. Era già apparso anche chiaro che molto dipende dal tipo di cottura: carni alla brace, affumicate, conservate possono comportare maggiori problemi durante la preparazione. «I dati del 2015 sulla base dei quali lo IARC inserì le carni rosse nell’elenco delle sostanze potenzialmente cancerogene deponevano per un aumento di rischio di sviluppare tumori di colon-retto, stomaco, pancreas e prostata, ma la qualità modesta di questi dati veniva comunque già sottolineata all’epoca dagli stessi esperti» ricorda Roberto Bordonaro, segretario nazionale dell’Associazione di Oncologia Medica Italiana (Aiom).
Esiti contrari a tutte le altre linee guida. Allora quello di oggi è un cambio di rotta? Un contrordine? Non proprio. I ricercatori dei Centri Cochrane canadesi, spagnoli e polacchi hanno fatto una revisione di una dozzina di studi differenti, riguardanti in totale circa 54mila persone, con l’intento di verificare quanta carne rossa e lavorata fosse effettivamente consumata in media dalla popolazione adulta in Nord America ed Europa (le stime riportano tre o quattro volte a settimana) e quali fossero le conseguenze a livello oncologico e cardiometabolico. Ne hanno concluso che la maggior parte delle persone può continuare con le attuali abitudini nel mangiare carne e insaccati, nelle stesse quantità, perché non comportano un aumento del rischio di malattie cardiache, diabete o cancro. Una conclusione che va però contro praticamente tutte le linee guida attuali.Tanto che, sullo stesso numero degli Annals of Internal Medicine viene pubblicato un editoriale di commento in cui gli autori dell’Indiana University Schcool of Medicine si dichiarano consapevoli che queste loro nuove raccomandazioni sono controverse e destinate ad essere ampiamente dibattute.
Parola d’ordine: «moderazione». Fin dal 2015, gli stessi esperti dello IARC che avevano incluso carne rossa e insaccati fra le possibili sostanze in grado di provocare il cancro, si erano appellati a buon senso e moderazione: «La carne rossa contiene anche proteine e micronutrienti importanti (come la vitamina B, il ferro e lo zinco) - avevano scritto -. Inoltre il contenuto di grassi dipende dalla specie dell’animale, dall’età, dal sesso, da come è stato allevato e nutrito. E, infine, dal taglio della carne». Senza dimenticare che molto varia poi in base alla cottura, perché essiccare, grigliare, friggere o affumicare qualsiasi cibo può portare alla formazione di agenti chimici a loro volta cancerogeni.
L’importanza di una dieta equilibrata. Allora la carne rossa è «sicura» e se ne può mangiare quanta se ne vuole? «La notizia è che se si approccia in maniera scientificamente corretta lo studio del rapporto tra il consumo di carni rosse e il rischio di sviluppare il diabete, il cancro o le malattie del cuore, i risultati sembrano smentire l’esistenza di una correlazione — risponde Roberto Bordonaro, che è anche direttore dell’Unità Operativa di Oncologia Medica dell’Ospedale Garibaldi di Catania —. La vera risposta alla domanda ritengo sia che la carne rossa debba continuare a far parte di diete equilibrate, con consumi variabili con le esigenze personali e con l’età».
Comunque necessarie ulteriori verifiche. Che cosa cambia fra quanto uscito con clamore nel 2015 e questo nuovo studio? «La qualità dell’evidenza scientifica su cui si basano le conclusioni di questa nuova revisione pubblicata sugli Annals of Internal Medicine è significativamente maggiore rispetto a quella dei dati del 2015, per cui i risultati attuali sono più attendibili. Il metodo utilizzato sembra scientificamente valido e le conclusioni sembrano ragionevoli. Certo ogni giudizio definitivo non può che rimanere sospeso in attesa di ulteriori conferme». Una cosa è certa: almeno 3 casi di cancro su 10 sono dovuti a quello che mangiamo e al sovrappeso, grande fattore di rischio per molti tipi di neoplasie. Ed è altrettanto certo che la dieta mediterranea svolge una funzione protettiva, contro i tumori moltissime altre malattie.
Il troppo fa sempre male, anche se si tratta di cibi sani. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. È la dose che fa il veleno: l’aforisma di Paracelso vale per tutto, anche per i cibi. La moderazione è un’indicazione che riguarda tutti gli alimenti, non solo quelli sempre nel mirino come sale, zucchero e grassi. Non esiste infatti un cibo che permetta di concedersi eccessi senza dare conseguenze negative, soprattutto a lungo termine. Così come non esistono alimenti «cattivi» in assoluto se vengono assunti in porzioni corrette. Le fibre che fanno tanto bene all’intestino se sono troppe, e all’interno di una dieta squilibrata, possono causare costipazione. Persino le vitamine o i preziosi minerali, come il calcio e il ferro, in dosi massicce alterano l’equilibrio del nostro corpo diventando tossici. E che cosa dire dell’acqua? Quando i reni funzionano poco non riescono a espellere l’eccesso e può insorgere iponatremia: un disturbo che si verifica quando i livelli di sodio sono troppo bassi per la diluizione dei minerali nel sangue e che può portare in terapia intensiva. E gli spinaci? Contengono gli ossalati, composti che, unendosi al calcio, possono favorire la formazione di calcoli renali.
Come facciamo a sapere cosa può far male anche se è sano?
«L’effetto tossico dei nutrienti è comunque un’evenienza rara — spiega Laura Rossi, specialista in Scienza dell’alimentazione e ricercatrice del Crea (Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione) —. Comunque abbiamo a disposizione i Larn, i Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana: le raccomandazioni che riguardano tutti i nutrienti e fissano anche le dosi massime che possiamo ingerire senza subire conseguenze negative. È quello che in termini tecnici si chiama Upper Level ed è fissato per alcune vitamine e minerali. Va ribadito che è molto difficile, se non impossibile, raggiungere le dosi tossiche di nutrienti con la sola alimentazione: quando accade il fatto solitamente riguarda persone che fanno già diete molto squilibrate, cui aggiungono integratori presi senza consulto medico, allora la probabilità di avere qualche problema aumenta».
Ci sono nutrienti più pericolosi di altri?
«I problemi nascono quando il “troppo” è continuativo. L’accumulo non riguarda un singolo giorno, bensì squilibri cronici e quindi alte concentrazioni prolungate nel tempo. L’evento episodico non crea grandi problemi. Riguardo alle conseguenze sono diverse. L’eccesso più preoccupante nella dieta di tutti i giorni riguarda lo zucchero e l’alcol. Lo zucchero per l’aumento che comporta della cosiddette “calorie vuote”, ossia energia che non apporta nutrienti importanti e determina aumento di peso con tutte le patologie correlate (diabete, malattie cardiovascolari e sindrome metabolica). Il binge drinking, ovvero il bere smodato, è per definizione qualcosa che mette molto a rischio il nostro organismo e può perfino portare al coma etilico. Una pratica purtroppo sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani».
E cosa accade, invece, quando semplicemente si mangia troppo un po’ di tutto?
«Si arriva all’indigestione, il modo con cui il corpo segnala che il nostro sistema digestivo non regge la quantità di cibo ingerita. Di solito tutto si risolve con l’espulsione del cibo mangiato nel giro di poche ore e non comporta conseguenze se è legata a un eccesso di quantità. Se invece il malessere è frutto di una congestione per l’ingestione di alimenti o bevande che determinano uno sbalzo termico oppure di cibi contaminati, il quadro clinico è completamente diverso».
È LA DOSE CHE FA IL VELENO. Silvia Turin per “Salute - Corriere della sera” il 22 settembre 2019. È la dose che fa il veleno: l'aforisma di Paracelso vale per tutto, anche per i cibi. La moderazione è un' indicazione che riguarda tutti gli alimenti, non solo quelli sempre nel mirino come sale, zucchero e grassi. Non esiste infatti un cibo che permetta di concedersi eccessi senza dare conseguenze negative, soprattutto a lungo termine. Così come non esistono alimenti «cattivi» in assoluto se vengono assunti in porzioni corrette. Le fibre che fanno tanto bene all' intestino se sono troppe, e all' interno di una dieta squilibrata, possono causare costipazione. Persino le vitamine o i preziosi minerali, come il calcio e il ferro, in dosi massicce alterano l' equilibrio del nostro corpo diventando tossici. E che cosa dire dell' acqua? Quando i reni funzionano poco non riescono a espellere l' eccesso e può insorgere iponatremia: un disturbo che si verifica quando i livelli di sodio sono troppo bassi per la diluizione dei minerali nel sangue e che può portare in terapia intensiva. E gli spinaci? Contengono gli ossalati, composti che, unendosi al calcio, possono favorire la formazione di calcoli renali.
Come facciamo a sapere cosa può far male anche se è sano?
«L'effetto tossico dei nutrienti è comunque un'evenienza rara - spiega Laura Rossi, specialista in Scienza dell' alimentazione e ricercatrice del Crea (Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione) -. Comunque abbiamo a disposizione i Larn, i Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana: le raccomandazioni che riguardano tutti i nutrienti e fissano anche le dosi massime che possiamo ingerire senza subire conseguenze negative. È quello che in termini tecnici si chiama Upper Level ed è fissato per alcune vitamine e minerali. Va ribadito che è molto difficile, se non impossibile, raggiungere le dosi tossiche di nutrienti con la sola alimentazione: quando accade il fatto solitamente riguarda persone che fanno già diete molto squilibrate, cui aggiungono integratori presi senza consulto medico, allora la probabilità di avere qualche problema aumenta».
Ci sono nutrienti più pericolosi di altri?
«I problemi nascono quando il "troppo" è continuativo. L'accumulo non riguarda un singolo giorno, bensì squilibri cronici e quindi alte concentrazioni prolungate nel tempo. L' evento episodico non crea grandi problemi. Riguardo alle conseguenze sono diverse. L'eccesso più preoccupante nella dieta di tutti i giorni riguarda lo zucchero e l'alcol. Lo zucchero per l' aumento che comporta della cosiddette "calorie vuote", ossia energia che non apporta nutrienti importanti e determina aumento di peso con tutte le patologie correlate (diabete, malattie cardiovascolari e sindrome metabolica). Il binge drinking , ovvero il bere smodato, è per definizione qualcosa che mette molto a rischio il nostro organismo e può perfino portare al coma etilico. Una pratica purtroppo sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani».
E cosa accade, invece, quando semplicemente si mangia troppo un po' di tutto?
«Si arriva all' indigestione, il modo con cui il corpo segnala che il nostro sistema digestivo non regge la quantità di cibo ingerita. Di solito tutto si risolve con l' espulsione del cibo mangiato nel giro di poche ore e non comporta conseguenze se è legata a un eccesso di quantità. Se invece il malessere è frutto di una congestione per l' ingestione di alimenti o bevande che determinano uno sbalzo termico oppure di cibi contaminati, il quadro clinico è completamente diverso».
Morello Pecchioli per “la Verità” il 22 settembre 2019. È il terzo moschettiere della più classica tra le paste di mezzanotte. Quando la compagnia batte la fiacca, ecco la proposta che rianima: «Ahò, ce famo du spaghi ajo, ojo e peperoncino?». Il romanesco è d' obbligo, il piatto è nato nell' urbe caput mundi. Il peperoncino, in giuste dosi, esalta ogni piatto, perfino le minestrine più scialbe. Nella cucina italiana è protagonista di piatti leggendari: penne all' arrabbiata, spaghetti alla puttanesca, bucatini alla corsara, seppioline piccanti, pollo alla diavola... Ugo Tognazzi, attore, raffinato gourmet, cuoco per passione, ne L'Abbuffone, propone due ricette che preparava agli amici in cui il peperoncino è fondamentale: spaghetti alla sgualdrina (variazione della puttanesca), penne all'infuriata, per le quali usava una vodka polacca al peperoncino «formidabile, tremenda, fortissima, piccantissima, micidiale». Aldo Fabrizi, ne La Pastasciutta, considerava il peperoncino, con cipolla, aglio e basilico, uno dei quattro elementi fondamentali: «Quanno ner sangue circola 'sto fôco/ se sente un friccicore dapertutto,/ perchè la qualità che cià 'sto frutto/ infiamma, dà salute e dico poco». Dopo Marilyn Monroe il peperoncino è la creatura più piccante arrivata dall' America. Quando la Nina, la Pinta e la Santa Maria gettarono l' ancora a San Salvador, gli amerindi conoscevano la bacca piccante da almeno 7.000 anni. Al Vecchio mondo il peperoncino era ignoto. L' Egitto dei faraoni odorava di aglio, i Greci insaporivano le vivande con olio d' oliva, cipolla ed erbette aromatiche, i Romani usavano il garum, salsa di colatura di pesce, che mettevano a manetta un po' dappertutto: su verdure, carni e zuppe. I nostri antenati conoscevano il pepe dono degli dei e conosciuto fin dalle epoche più remote sia come condimento che come conservante e medicamento. Fu proprio andando a caccia di pepe e di altre spezie che Cristoforo Colombo nel 1492, partito da Palos per «buscar el levante por el poniente», buscò l' America e buscò, oltre a parecchi altri prodotti sconosciuti in Europa, il peperoncino. Il navigatore genovese riferì che gli indigeni ne facevano largo uso per insaporire i cibi e ne sottolineò i poteri medicamentosi. Di ritorno dal secondo viaggio (1493) lo portò in dono ai sovrani di Spagna che si ripromettevano di trarre lauti guadagni con il commercio di quella nuova spezia che era molto piaciuta ai palati aristocratici. Ma non avevano fatto i conti con lo stesso peperoncino, pianticella di natura popolare, democratica. Il «pepe d' India» si ambientò fin da subito nella vecchia Europa. Solo settant' anni dopo il suo arrivo in Spagna, il botanico Pietro Andrea Mattioli ne parla come di «una pianta alquanto comune». Nel Cinquecento il peperoncino non ha ancora un nome suo. Il riferimento al pepe è costante: «pepe d'India», «pepe cornuto», «pepe delle Molucche». I conquistadores lo chiamano pimiento, pepe. Nel Seicento la catena dei nomi si chiude: pepe, peperone, peperoncino. Nel Settecento Linneo gli regala il nome scientifico: Capsicum anuum. Capsicum viene dal latino capsa, scatola (di semi). Non tutti apprezzarono le doti di quel rosso diavoletto vegetale che arrivò dall' America con la fama di stuzzicare la gola, ma anche la passione, tanto che si raccontava che l' imperatore azteco Montezuma fosse un gran divoratore di chili (peperoncino) e di donne. Il gesuita spagnolo José de Acosta, giovane missionario in Centro America nella seconda metà del Cinquecento, condannò il diavoletto rosso, accusandolo di suscitare «insani propositi». Non aveva tutti i torti. Ancora oggi i messicani chiamano affettuosamente il pene chili e tra le varietà di capsicum ce n' è uno che, a parte il color rosso intenso, sembra il gemello dell' organo sessuale maschile. È il Peter Pepper, più conosciuto come chili-penis. L' Organic gardening magazine, rivista di giardinaggio americana, lo ha definito «peperoncino pornografico». Isabel Allende, scrittrice nata in Perù e cresciuta in Cile, in Afrodita scrive del peperoncino: «È il fiero elemento di tutti quei piatti esotici che lasciano la bocca in fiamme e stimolano l' immaginazione e l' appetito amoroso». Forse fu per stimolare meglio l' immaginazione e la partecipazione della gente al Peperoncino Festival, che un paio di anni fa, a Diamente, in Calabria, fu invitata, come madrina, Belen Rodriguez. La soubrette ebbe, secondo il Codacons, un cachet assai piccante: 60.000 euro. L' Accademia del peperoncino, organizzatrice del festival, smentì: la signora ha percepito «solo» 30.000 euro. Il giornalista Marcello Veneziani commentò con l' usuale sarcasmo: «Immaginate che miscela esplosiva, che ordigno atomico, è combinare l' afrodisiaco peperoncino, la bomba sexy Belen e un popolo di allupati». Gabriele d' Annunzio, famoso per le imprese poetiche, guerresche e amorose, adorava il peperoncino al quale dedicò una poesia, l' Ode al diavolicchio che esalta il brodetto di pesce della sua terra d' Abruzzo. Dopo aver messo in pentola cefalo, merlango, orata, rombo, scorfano e murena, il poeta passa al procedimento: «...dai fiorenti orti cogliemmo il timo,/ i rossardenti diavoletti folli e le virenti erbette fini,/ il fuoco lento infine alle terrine porose demmo,/ e il canto alle marine spiagge che vider navi anche col rostro,/ nessun brodetto mai eguaglia il nostro!». Grazie alla sua dirompente natura il peperoncino si salvò dal rogo futurista che si prefiggeva di ridurre in cenere la cucina tradizionale italiana, in principal modo gli spaghetti. Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento, inaugurando a Torino la Taverna Santopalato, volle che all' antipasto fossero serviti peperoncini verdi che nascondevano all' interno, come i baci Perugina, un cartiglio: niente frasi romantiche, ma muscolose espressioni futuriste. Il peperoncino vanta un esercito di celebri estimatori: Gregory Peck, Frank Sinatra, Giorgio Albertazzi,Maria Grazia Cucinotta, la pittrice messicana Frida Kahlo che amava cucinare per il marito Diego Rivera, pure lui famoso pittore, il mole, specialità che richiede diversi tipi di peperoncino, cioccolato, noci, cannella e sesamo. Zubin Mehta, direttore d'orchestra indiano, lo ama talmente che ne ha sempre qualcuno in tasca per aggiungerlo ai piatti che ordina al ristorante. Probabilmente lo usa anche come portafortuna: il peperoncino, per la forma a cornetto, è considerato un benefico talismano. Si racconta che durante un concerto Mehta trasse dalla tasca il fazzoletto per detergersi la fronte, ma tra le pieghe c' era del peperoncino sbriciolato che lo fece lacrimare vistosamente. Sono più di 3.000 le varietà di peperoncini coltivati nel mondo. Tra le varietà più famose (e piccanti) la chayenna, habanero, red savina. Hanno una piccantezza gradevole paprika, delicatesse, serrano. Ottimo il peperoncino calabrese che dà sapore e piccantezza alla 'nduja, insaccato di maiale. Sono apprezzate in tutto il mondo le salse al peperoncino: paprika, worchester, chimichurri, chutney, harissa, tabasco. Si chiama carolina reaper il peperoncino più piccante al mondo. Prende il nome da uno stato Usa, la Carolina, e il cognome dalla sua sconvolgente piccantezza: reaper, mietitrice: non uccide, ma chi ne mette troppa in bocca ci va vicino. Secondo il Guinness dei primati è il peperoncino più bruciante al mondo per la concentrazione di capsaicina, l' alcaloide che provoca la piccantezza. La mietitrice toglie letteralmente il respiro e provoca, secondo le testimonianze di chi l' ha assaggiato,un acuto dolore fisico. Bisogna stare attenti anche a come si maneggia: brucia. Ma il peperoncino è buono e fa bene. Medici e ricercatori universitari riconoscono che previene le malattie cardiovascolari, purifica il sangue, è utile per combattere l' obesità, la depressione e la dipendenza dall' alcol, è decongestionante e antifiammatorio, aiuta a digerire e protegge il fegato. Secondo Giulio Tarro, virologo di fama internazionale, il contenuto di vitamine antiossidanti e immunostimolanti e della capsaicina combatte la formazione di tumori.
· Il cibo può essere una medicina?
Il cibo può essere una medicina? Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Maria Giovanna Faiella su Corriere.it. La natura come laboratorio per un nuovo regime alimentare e per il benessere; il cibo visto come una “medicina”; l’agricoltura a supporto della salute grazie alla nutraceutica, disciplina che sta a indicare il connubio tra nutrizione e farmaceutica e studia gli effetti benefici dei principi attivi contenuti negli alimenti, quali antiossidanti, sali minerali, acidi grassi essenziali, vitamine e tanti altri. Delle potenzialità dei prodotti di origine naturale nella prevenzione e nel trattamento delle malattie si è discusso in un convegno a Roma, organizzato da Foragri, Fondo paritetico nazionale interprofessionale per la formazione continua in agricoltura. Da sempre l’uomo si è curato con le erbe medicinali, poi nel XIX secolo è arrivata la chimica in campo medico, oggi si punta a un recupero di tradizioni secolari coniugate con le moderne tecnologie e la ricerca scientifica. L’anno scorso, col varo del «Testo unico in materia di coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali», c’è stato un riassetto della normativa in tema di piante officinali, per favorirne la crescita e lo sviluppo, valorizzare le produzioni nazionali e, al tempo stesso, dare maggiori garanzie al consumatore finale. Del resto, nel settore l’Italia è al secondo posto nel mondo per produzione, dopo gli Stati Uniti, con un giro di affari di 3 miliardi di euro l’anno. «L’esistenza di una relazione tra alimentazione, stato di salute e patologie cronico-degenerative, note come malattie non trasmissibili, è ormai riconosciuta - dice Laura Di Renzo, professore associato presso la sezione di Nutrizione clinica e nutrigenomica all’Università Tor Vergata di Roma -. Grazie a nuove discipline, come la nutrigenetica e la nutrigenomica, si ha oggi la possibilità di prevenire l’evento patologico, partendo da un piano nutrizionale che non si basa più su mere basi empiriche ma sulla profonda conoscenza dell'individuo, della sua genetica, della regolazione di geni legati allo stato infiammatorio e alla stress ossidativo». «Dobbiamo puntare alla prevenzione - concorda Valentino Mercati, presidente di Aboca, azienda che coltiva col metodo dell’agricoltura biologica 67 specie di piante medicinali su oltre 1.750 ettari di terreno e ha dato vita a una piattaforma “Evidence Based Naturali” che si basa sui principi della medicina basata sulle evidenze scientifiche applicata al mondo vegetale -. Il medico del futuro dovrà dare meno medicine e guidare i pazienti a nutrirsi avendo cura di sé e attraverso i frutti di un’agricoltura sostenibile. Le sostanze naturali sono le uniche in grado di interagire con il nostro organismo rispettandone la fisiologia, e poi - ricorda Mercati - nella natura e nella terra c’è tutto: si tratta solo di trovarlo e di combinarlo nel modo opportuno, avvalendosi della ricerca più avanzata, per un nuovo equilibrio tra uomo e ambiente che sia vantaggioso per entrambi».
· In campagna si muore di burocrazia.
In campagna si muore di burocrazia. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Susanna Tamaro su Corriere.it. La via per comprendere la profonda contraddittorietà del nostro Paese è una sola. Provare a fare qualcosa. Finché si resta nel campo della teoria, infatti, si può anche trovare un bandolo, una traccia che, apparentemente, illumini il groviglio delle inutili complessità. Se invece ci si attiva in modo concreto, ben presto ci si rende conto della situazione: più ci muoviamo, più siamo prigionieri. Personalmente mi sono sottoposta a diverse prove iniziatiche. Ho restaurato una casa, ne ho costruita un’altra, le ho dotate di un sistema fotovoltaico, ho creato una piccola azienda agricola. Tutto questo l’ho realizzato grazie unicamente ai soldi guadagnati con il mio lavoro, senza chiedere contributi e facilitazioni a nessuno, e l’ho fatto semplicemente perché sono convinta che, una volta risolti i tuoi problemi, devi provare a risolvere quelli degli altri. Ho sempre pensato che i soldi che stanno fermi, magari chiusi in qualche bel pouf — abitudine piuttosto diffusa a livello nazionale — non siano altro che carta. Non servono a niente e, dunque, non sono niente. Un’alluvione, un incendio, una famiglia di topolini affamati, il crack di una banca o un tonfo in Borsa bastano a vanificare ingentissimi risparmi. Dunque, armata delle migliori intenzioni e sedotta da quello che ora si chiama, purtroppo, storytelling — il ritorno alla terra, la superba eccellenza del Made in Italy alimentare ecc. ecc. — mi sono lanciata in quest’avventura. Sulla stampa e sui media siamo bersagliati da continue immagini da Mulino Bianco, che ci testimoniano le ardimentose esperienze di giovani sprezzanti del pericolo che hanno lasciato un’attività — o un’inattività — cittadina per dedicarsi alla terra, trasformando, grazie alle potenzialità offerte da questi tempi, quello che una volta era un lavoro inviso a tutti — lavorare la terra — in un’attività invidiabile oltre che, naturalmente, successful. Le attività verdi, insomma, sembrano diventate la mecca della nostra società. Sulla carta ciò non è sbagliato, il settore agricolo ha — o meglio avrebbe — grandi potenzialità. Potenzialità che però attualmente vengono vanificate in modo sistematico dai problemi cronici del nostro Paese.
Da dove cominciare? Forse dalla bilancia della mia cucina dove, oltre a pesare la farina e lo zucchero, spesso controllo il peso degli incartamenti burocratici. Per mettere in funzione l’impianto fotovoltaico ci sono voluti ben due chili di carte. Per ottenere il Psr, vale a dire il Programma di sviluppo rurale, finanziato con i fondi della Comunità europea, dallo Stato e dalle Regioni per sostenere — e incrementare? — questo settore, non credo che le carte necessarie siano molto inferiori di numero. Neanche gli addetti ai lavori sono ormai in grado di decifrare la scrittura cuneiforme dei burocrati! Dato che il mio principale strumento di lavoro è la lingua italiana, provo un senso di indignazione assoluta davanti alla perversione del burocratese. In questa nebbia legislativa può avvenire tutto e il contrario di tutto e — tra questo tutto e il contrario di tutto — prospera la grassa intercapedine della corruzione. Le imprese agricole dunque, come d’altronde ogni settore del nostro Paese, sono intrappolate in una quantità abnorme di leggi, molto spesso in contraddizione tra di loro, con un’aggravante in più. L’agricoltura è un’attività viva e mutevole, condizionata dalle stagioni e — ora più che mai — dalle bizzarrie meteorologiche. Aspettare, essere fermati, ritardare, bloccare per un intoppo burocratico può voler dire perdere o aver danneggiato il lavoro di un anno. L’allegro storytelling del ritorno alla terra mostra il suo vero volto di fronte alla nuda crudezza dei dati. Il ritmo di chiusura delle attività agricole è di 60 al giorno, per un totale di 172.000 aziende chiuse negli ultimi anni. Continuando di questo passo, secondo gli studi di Coldiretti, tra 33 anni nel nostro Paese non esisterà più neppure un’azienda agricola. Forse, allora, la scienza avrà trovato delle pillole in grado di sostentarci senza alimentazione ma, se così non sarà, anche «il Paese dove fioriscono i limoni» si trasformerà in una landa di migranti ambientali. Tra l’altro i limoni, povero Goethe, fioriscono sempre meno. In Sicilia, tanto per fare un esempio, il 50% degli agrumeti sono stati divelti, la stessa sorte stanno subendo i pescheti dell’Emilia, per non parlare dell’ecatombe di ulivi già avvenuta in buona parte delle regioni del Sud. Le politiche e le leggi comunitarie hanno — credo — una grande responsabilità in questo campo. Per quale ragione, infatti, una zucchina, per rientrare nella legalità, deve misurare 13 cm? E per quale altra, se non il delirio di un perverso, un grappolo di ribes deve avere almeno 12 chicchi per essere messo sul mercato? A chi giovano i frutti della terra trasformati in prodotti da catena di montaggio? Il resto del danno lo fa un mercato malato per cui un chilo di mele viene pagato 4 centesimi al produttore, mentre la sola raccolta ne costa 18. Si potrebbe farle raccogliere da chi ha bisogno, naturalmente, ma la legge non lo consente. Le grandi raccolte che venivano fatte unendo le forze — un giorno mi aiuti tu, un altro ti do una mano io — non possono più esistere e, oltre alla civiltà umana, è la frutta la prima vittima di questo sistema. Non resta allora che lasciarla marcire sugli alberi. Ma lasciar marcire qualcosa che era nato per nutrirci non può che evocare sinistri presentimenti. Presentimenti che si aggravano fino al panico quando a venir sradicati dalle ruspe sono centinaia, migliaia di alberi nel pieno del vigore vegetativo e produttivo. Come si può pensare che tutto questo non abbia conseguenze tragiche?
Fino ad ora, purtroppo, l’agricoltura nazionale è stata trattata alla stregua di un malato terminale: tenuta in vita con trasfusioni, tende di ossigeno, iniezioni di miracolosi prodotti rigeneranti il cui effetto è destinato a vanificarsi nel breve corso di una stagione. Di questo sostentamento artificiale hanno beneficiato soprattutto le realtà di grandi dimensioni. Alle aziende piccole, familiari, che costituiscono — o meglio, costituivano — l’ossatura della campagna italiana non è rimasto che soccombere. L’idea che la terra, lasciata a se stessa, ritrovi l’arcaica armonia di un primitivo Eden è un sogno da seguaci di Gaia che poco o nulla ha a che fare con la realtà. Abbandonati a sé, gli alberi in breve non producono più frutti, i campi lasciati incolti non generano cibo ma rovi e copiose malerbe. La stessa sorte subiscono i pascoli dismessi. In poco tempo la vegetazione prende il sopravvento ovunque, annullando la possibilità di creare risorse alimentari. Ormai da molto tempo coltivare la terra non rende più. Per le estensioni modeste, come quelle dei cereali, nel migliore — ma proprio nel migliore — dei casi, al massimo non si va in perdita. Il 23% del nostro territorio presenta ormai avanzati stati di degrado, percentuale che sale al 41,1% per il Centro-Sud. Dove degrado vuol dire deserto che avanza. E il deserto, è bene ricordarlo, è quel luogo in cui non cresce più nulla. Un Paese che avesse a cuore il proprio futuro farebbe estesissime campagne di ri-alfabetizzazione agraria, concederebbe incentivi e sgravi — per ora presenti soltanto, credo, in Lombardia e Veneto — a chi applica l’agricoltura antideserto. Modalità di agricoltura che, oltre a essere lungimirante, consentirebbe un risparmio da subito. La preparazione di un letto di semina, infatti, con il sistema tradizionale costa 375 euro a ettaro, mentre con le tecniche scientificamente più moderne può arrivare a costare 68 euro per ettaro. Invece, per il momento, lo Stato continua a spendersi con gran zelo nell’unica attività che sembra davvero capace di fare: sorvegliare le irregolarità e somministrare multe. Parafrasando il detto evangelico, verrebbe da dire che lo Stato va in cerca con spasmodica meticolosità di pagliuzze mentre con allegra sbadatezza si fa sfuggire le travi. «Mi arrendo! Non ce la faccio più!». Quante volte ho sentito ripetere queste parole! E quante realtà ho visto chiudere, mandando a casa uno, due, tre lavoratori!
In chiusura, dato che il mio mestiere è quello di raccontare storie, permettetemi di fare qualche esempio in grado di aiutare la comprensione concreta della tanto inneggiata vita in campagna per chi non ne ha la consuetudine. L’anno scorso la vendemmia di un mio conoscente è stata interrotta bruscamente da un controllo dell’Inps. Abominio! Risultava che pagava quattordici operai e invece nella vigna ce ne erano soltanto tredici! Inutile spiegare che il quattordicesimo aveva la febbre e che sarebbe stato grave il contrario: tredici operai pagati e uno in nero. Per i funzionari questa incongruenza nascondeva qualcosa di losco che necessitava di ulteriori, vessatori accertamenti. Dunque, niente più vendemmia. Con il bel risultato che l’anno dopo il mio amico ha comprato una bella macchina con cui ha fatto la vendemmia e i tredici, anzi i quattordici, a malincuore, li ha lasciati per sempre a casa. A me è capitato, ad esempio, di dover ridipingere una serra — serra peraltro visibile soltanto dal cielo! — perché la tinta non è stata ritenuta perfettamente in linea con la volontà dei sorvolatori. La multa dunque può arrivare per una tinta «sbagliata» ma può venire anche per un cugino o una zia che sono venuti a darti una mano nel vigneto o nell’uliveto — sfruttamento di mano d’opera —, per una piccola tettoia ombreggiante che hai tirato su durante la canicola estiva — falso ideologico —, per un vecchio ciuchino che hai salvato dal macello e che non hai dotato di regolare passaporto.
Già, i passaporti degli equini! A raccontarla adesso viene da ridere ma qualche anno fa questa vicenda ha fatto piangere diverse persone. Un bel giorno, infatti, qualcuno in qualche stanza aveva deciso, di punto in bianco, che tutti i quadrupedi di origine equina dovessero essere forniti di questo documento. Decisione naturalmente mai comunicata per lettera agli interessati, vale a dire ai proprietari di vari ronzinanti, e così, senza nessun preavviso, erano fioccate le multe. «Dov’è il passaporto della bestia?». «Perché? Serve un passaporto?». «Certo! Non si è adeguato alla normativa?». «Veramente non sapevo...». «Non legge la Gazzetta Ufficiale?». «A dire il vero, no...». «Allora sono tremila a capo. Lei ne ha quattro. Dunque fanno dodicimila». Come sfuggire al dubbio che si trattasse dell’ennesimo folle balzello, dato che, dopo solo due anni, il passaporto degli equini non è stato più considerato obbligatorio?
E per finire — potrei andare avanti all’infinito come Sherazade nelle Mille e una notte— vorrei raccontare ciò che è accaduto a una mia vicina di casa. La loro azienda produce bovini da carne e cereali. Oltre a questo, affittano una casa per le vacanze. Proprio mentre era intenta a pulire la casa per l’imminente arrivo degli ospiti, piomba un controllo dell’Inps. «A che titolo lavora in questa casa?» le chiedono. E lei serena: «Sono la padrona di casa». «Non è vero» le rispondono. «La casa risulta essere di suo marito». «Appunto...» cerca di controbattere la mia amica. «Ma lei non ha un regolare contratto di lavoro». «Sono la moglie» balbetta confusa, «siamo sposati da quarant’anni». Tutto inutile. L’alternativa era tra pagare ventimila euro di multa per lavoro in nero o l’immediata iscrizione all’Inps della moglie da parte del marito, anche se lei ha superato da un bel po’ i sessant’anni. Che dire? I caporali ringraziano! Nel 1840, John Ruskin durante un suo viaggio in Italia, annota nel suo diario: «Sono giunto alfine alla meta dopo aver subito l’assalto di una folta schiera di doganieri [...]. Vediamo nell’ordine: porta di Bologna, uscita: passaporto e gabella. Ponte, mezzo miglio più avanti: pedaggio. Dogana, due miglia innanzi, lasciati gli Stati Pontifici: passaporto e gabella. Dogana, dopo un quarto di miglio, entrati nel ducato di Modena, prima l’ufficiale della dogana, poi l’addetto ai passaporti. Versato un tributo a entrambi. Porta di Modena, entrata: dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Modena uscita: passaporto, gabella. Porta di Reggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Reggio, uscita: passaporto, gabella. Cambio di cavalli, più avanti: passaporto, gabella. Entrata nel ducato di Parma, ponte: pedaggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Dunque in totale sedici soste, con una perdita media di tre minuti e un franco ogni volta. Quello della dogana di Modena non s’è rabbonito per meno di cinque paoli; l’ufficiale pontificio di Bologna ci ha assicurato che in coscienza non poteva evitare la perquisizione per meno di una piastra. Nell’intero sistema c’è un che di furtivo e abietto: arriva il doganiere, poggia la mano lurida sulla carrozza e non molla la presa finché non vi infili un franco, altrimenti attacca a frugarti». Dal viaggio di Ruskin sono trascorsi centosettantasei anni. Le cose sono cambiate? Mah! Dato che il mio ciuchino ormai ha il passaporto, vien voglia davvero di saltare in groppa e lanciarsi al trotto verso le Alpi. Evitando ogni dogana, naturalmente.
· Il Prezzo del pomodoro.
LA TERRA GIUSTA. IL PREZZO DEL POMODORO. Chiara Nardinocchi il 2 ottobre 2019 su La Repubblica. Non solo caporalato. Il costante ribasso dei prezzi da parte del mercato agricolo soffoca i piccoli produttori, mette in difficoltà le aziende di trasformazione e alimenta il circolo vizioso del lavoro nero. A farne le spese a cascata tutti i componenti della filiera. Eppure, con qualche centesimo in più e leggi ad hoc si potrebbero garantire i diritti e la legalità. Più della metà di tutti i pomodori prodotti in Europa arriva dall’ Italia, il 12% della coltivazione mondiale. Numeri non difficili da credere per chi percorre le strade del foggiano, del salernitano e di parte del sud Italia durante il periodo della raccolta. Il rosso e il verde sono i colori che predominano e in questa tavolozza ogni tanto si scorgono piccole chiazze. Sono i braccianti agricoli, per lo più provenienti da paesi extraeuropei, che ogni anno d’estate arrivano e mettono la loro forza lavoro a servizio di agricoltori. La manodopera agricola, la cui presenza è sempre più minacciata dai nuovi decreti sicurezza che rendono difficile ottenere un permesso di soggiorno, compongono la base su cui poggia l’intera piramide del business. Nel mezzo ci sono piccoli imprenditori, trasformatori, addetti ai trasporti e in alto, al vertice si erge la Grande distribuzione organizzata che da tempo determina il valore, le quantità e i compromessi cui dovranno scendere tutti gli altri attori per far fronte ai prezzi, troppo bassi, imposti. Un peso che a cascata ricade su tutti i componenti fino appunto alla base, agli operai agricoli che più di tutti pagano il conto salato dei prezzi stracciati di conserve e passate sugli scaffali dei supermercati. Una situazione insostenibile che sta dando vita giorno dopo giorno a iniziative che cercano di ritornare ad una dimensione di equità e giustizia sociale. Tra queste c’è Funky Tomato, il primo progetto in Italia che garantisce un contesto di legalità e rispetto di diritti per tutta la filiera. Buone pratiche che si traducono in lavoro contrattualizzato e in prezzi della materia prima concordati direttamente dall'azienda di trasformazione e dai piccoli imprenditori.
Il giusto prezzo, viaggio nella filiera del pomodoro. Dalla Puglia alla Basilicata, dalla Campania ai supermercati di mezza Italia. Un viaggio con Oxfam Italia per raccontare una filiera corta, legale e che ricompensa tutti gli attori in base al lavoro svolto. L'esperimento del progetto Funky Tomato intende dimostrare come un altro mercato sia possibile. L'economia circolare oltre a combattere lo sfruttamento ripartendo equamente il profitto, garantisce agli agricoltori un prezzo bloccato che permette di fare investimenti sul medio e lungo periodo e incrementare il guadagno. “Tutti i comparti della filiera agricola sono sotto scacco della figura dominante, è un processo inevitabile. Quando il rapporto è basato esclusivamente tra capacità di gestione dei rischi e capitale effettivo, è inevitabile che si generi questo meccanismo ed è per questo che abbiamo lavorato sul concetto di filiera”.Paolo Russo, fondatore di Funky Tomato. L’iniziativa è sostenuta da Oxfam Italia promotrice di questa “comunità economica solidale”, una filiera trasparente e partecipata di produzione del pomodoro che promuove rapporti di scambio orizzontali, democratici e mutualistici. A questo va affiancata la campagna “Al giusto prezzo” realizzata col contributo dell'Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nell'ambito del progetto New business for good e nata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle dinamiche a volte malate del mercato. Accorciare la filiera quindi per diminuire il rischio speculazione e sfruttamento. Ma per combattere l’illegalità non basta. Agricoltori e imprenditori puntano anche sulla meccanizzazione dell’agricoltura che da sola non può essere la soluzione ma solo parte di questa. Alla meccanizzazione infatti deve affiancarsi il gioco di squadra dei diversi attori. Nelle aree a vocazione agricola gli imprenditori iniziano ad unirsi per aumentare le tutele per sé e per le parti più deboli della catena. Su questa scia è nata nel territorio della Capitanata, nel foggiano, Op Mediterraneo, una catena di piccole imprese agricole (circa 15) che hanno deciso di svincolarsi dai mediatori, per mettere al centro cooperazione e mutualità. “Questo meccanismo di sfruttamento del lavoro a noi ci reca dei danni. Si generano dei costi di produzione economici molto bassi che fanno sì che venga messo sul mercato un prodotto molto più competitivo”. Maria D’Aloia, vice presidente della OP Mediterraneo
“A questa - continua D'Aloia - va aggiunto il problema delle aste a doppio ribasso della grande distribuzione che di fatto soffocano i produttori”. La filiera dunque deve accorciarsi per poter garantire maggior controllo e la distribuzione differenziarsi e non guardare solo alla Gdo.
L'etichetta trasparente. Ingredienti, valori nutrizionali e data di scadenza sono solo alcune delle informazioni imposte per legge sulle etichette dei prodotti alimentari confezionati. Basterebbero poche altre indicazioni per rendere più 'trasparente' la filiera del prodotto e consapevoli i consumatori sulla legalità di ciò che stanno acquistando: qui un esempio di cosa c'è e cosa invece manca. Ma è possibile ripartire equamente i compensi, guadagnare e contemporaneamente non proporre un prodotto di élite? A rispondere è un imprenditore campano, a capo dell’azienda di trasformazione “La Fiammante” che oltre ad aver sposato il progetto, è stato anche uno dei primi a denunciare il fenomeno delle aste a doppio ribasso. Denunce che hanno portato alla presentazione di un disegno di legge, ad oggi approvato alla Camera e in attesa di esser votato al Senato, contro la vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari.
“Abbiamo fatto una scelta etica, ma siamo comunque una spa e dobbiamo fatturare”. A sottolinearlo è Francesco Franzese, ceo dell’azienda che ribadisce come il fine che è appunto il profitto, può essere raggiunto anche in un contesto di legalità. “La scelta è stata quella di puntare su prodotti di una qualità maggiore che permettono di minimizzare i costi di dispersione durante il processo produttivo e aumentare di qualche centesimo il prezzo del prodotto finale.”
Dizionario
ASTE INVERSE O A DOPPIO RIBASSO. Il meccanismo delle aste elettroniche inverse, o al doppio ribasso, viene utilizzato da alcune catene distributive. Le centrali d’acquisto della GDO aprono l’asta per uno stock di prodotti. Raccolte le proposte, lanciano una seconda asta, nuovamente al ribasso, partendo dal prezzo inferiore raggiunto durante la prima. In pochi minuti, su un portale web, il fornitore è chiamato a competere per aggiudicarsi la commessa. Chi si aggiudica la fornitura, dato il prezzo molto basso raggiunto, per garantirsi un esiguo margine, deve rivalersi sui produttori da cui acquista la merce. A loro volta, questi ultimi si possono trovare in difficoltà nel garantire i diritti fondamentali ai lavoratori agricoli. In tal modo, il meccanismo delle aste al doppio ribasso contribuisce a rendere più difficile l’eradicazione dello sfruttamento e del caporalato.
CAPORALATO. Forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, spec. agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali(da Enciclopedia Treccani).
FILIERA. Catena di passaggi produttivi che precedono l’arrivo della merce sullo scaffale del negozio (per es., nel settore della pasta secca, la filiera produttiva comprende la produzione di grano, la molitura, la produzione di pasta, il settore del confezionamento con film, inchiostri, adesivi, ecc., il magazzinaggio del prodotto finito, il trasporto fino alla vendita nei punti di distribuzione)(da Enciclopedia Treccani).
GDO. Acronimo di Grande distribuzione organizzata. Tipologia di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non di largo consumo, realizzata tramite la concentrazione dei punti vendita in grandi superfici (non minori di 200 m2 ma che arrivano anche a superare 4000 m2) e la gestione a carico di catene commerciali che fanno capo a un unico marchio. Tali aggregati sono costituiti da centri commerciali, mall, factory, outlet centre, catene di discount, e così via(da Enciclopedia Treccani).
ECONOMIA CIRCOLARE. Sistema economico che tende ad autosostenersi sia da un punto di vista ambientale che socioeconomico. Si contrappone al modello economico “lineare” adottato dal XIX secolo in poi fondato su un’economia industriale, estrattiva e basato sul consumo di massa. Negli ultimi anni alcuni grandi nomi della grande distribuzione organizzata hanno fatto passi avanti verso un nuovo mercato, più giusto, legale e rispettoso dei diritti individuali. Altri invece restano sordi alle richieste di produttori, ong e sindacati. Il tutto per garantire prezzi sempre più competitivi e attirare quindi più consumatori. I cittadini possono dunque fare la differenza con le loro scelte e chiedere a gran voce più rispetto e più informazioni. “Il futuro è solo questo, i processi produttivi devono essere inclusivi. Si parla di responsabilità ambientale e sociale d’impresa che è quello che stiamo facendo noi. Noi siamo avanguardia di quello che inevitabilmente sarà per tutti. Se tu produci impatti e quando impatti devi ridistribuire. Questo è il futuro dei processi produttivi”.Paolo Russo, fondatore di Funky Tomato.
La normativa. Negli ultimi anni il fenomeno del caporalato è stato al centro del dibattito politico in seguito a fatti di cronaca spesso tragici avvenuti durante la stagione della raccolta soprattutto in specifiche aree d’Italia. Fatti che hanno scosso l’opinione pubblica e che hanno portato a formulare un nuovo impianto normativo volto a tutelare i braccianti. La legge 199/2016 dal titolo “Disposizioni per contrastare il fenomeno del lavoro irregolare e dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura” stabilisce che commette caporalato chi, sfruttando la loro condizione di povertà, recluti braccianti destinati a lavorare in condizioni di sfruttamento o chi ricorra a questi intermediari e sfrutti persone bisognose. A sostegno di questa norma c’è anche la legge regionale del Lazio approvata il 14 agosto 2019 che introduce a livello regionale gli indici di congruità per individuare le aziende virtuose e quelle che invece impiegano personale irregolare, offrendo premialità alle prime e penalizzando le seconde nell'erogazione dei fondi. Inoltre, istituisce un osservatorio sul lavoro in agricoltura e gli elenchi di prenotazione, ovvero delle liste in cui sono messe a confronto domanda e offerta di lavoro col fine di far emergere il sommerso. Contro le dinamiche del mercato che portano allo sfruttamento c’è la direttiva europea 2019/633 approvata ad aprile 2019 che dovrà essere recepita dall’Italia e da tutti gli stati membri entro maggio 2021. La legge vuole combattere le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare e "contrastare le pratiche che si discostino nettamente dalle buone prassi commerciali, che sono contrarie ai principi di buona fede e correttezza e che sono imposte unilateralmente da un partner commerciale alla sua controparte". Sul tavolo c’è anche la proposta di legge 1549-A “Disposizioni concernenti l’etichettatura, la tracciabilità e il divieto della vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari, nonché delega al Governo per la disciplina e il sostegno delle filiere etiche di produzione”. Il testo già approvato alla Camera, è ancora fermo al Senato. Nata dall’iniziativa privata, la proposta vuole vietare dinamiche che avvelenano le filiere produttive asfissiando i produttori e ricadendo sui braccianti come le aste a doppio ribasso.
· Il prezzo dell’Olio extra vergine, i conti proprio non tornano.
Olio extra vergine, i conti proprio non tornano: nei supermercati bottiglie a 2,99 euro al litro. Eppure... Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 27 Ottobre 2019. Con l' autunno arriva anche il raccolto delle olive che quest' anno, fra l' altro, non è poi così male. Secondo le previsioni del consorzio Italia Olivicola, dai nostri uliveti dovrebbe uscire il necessario per ottenere 330mila tonnellate di olio, un dato che quasi raddoppia (+89%) la produzione finale dello scorso anno, fermatasi intorno alle 175mila tonnellate. Ora più che mai sui social media, Facebook soprattutto, si moltiplicano le polemiche sulle offerte che si trovano nella grande distribuzione, con gli olivicoltori e i piccoli frantoiani - più i primi dei secondi, in verità - incazzati come tori da corrida. «2,99 euro al litro! Manco l' olio da motore», scrive ad esempio Santino, produttore del Barese. «Uno scandalo senza fine: con questi prezzi moriamo», gli fa eco Carmine, che coltiva olive attorno a Mazara del Vallo, Sicilia. «Smetto, vadano al diavolo tutti, anche i consumatori», sentenzia invece Francesco che produce extravergine nella Val Vibrata, in Abruzzo. Le esternazioni degli olivicoltori, infarciti da epiteti irriferibili, sono più o meno tutte di questo tono. E raccolgono migliaia di «mi piace». Il popolo della rete si indigna e sta dalla parte dei nostri piccoli e piccolissimi produttori. Il tema è il solito. Non si può vendere olio extravergine a questi prezzi. Una bottiglia di «vero» olio extravergine di oliva, si dice, non dovrebbe costare meno di 10-12 euro. Ma siamo sicuri che sia così? L'equivoco dell'origine - Vi confesso che in passato anch' io sono caduto nella trappola e ho ricostruito, voce per voce, i costi di un piccolo frantoio come ce ne sono a centinaia, sparsi per le colline del nostro Appennino. Arrivando alle medesime conclusioni: per un litro di oro verde italiano, imbottigliato ed etichettato correttamente, si arriva a spendere facilmente dagli 11 ai 13 euro. Ma si tratta di un equivoco. Vediamo perché. Innanzitutto i prodotti offerti con i super sconti nella grande distribuzione dichiarano tutti: «origine Ue». Dunque non ha senso paragonarli con i nostri. Proprio per una questione di costo. Bastano due cifre a chiarire la questione. Nella terza settimana di ottobre, quella che va dal 14 al 20, le quotazioni all' origine dell' extravergine 100% italiano sono risalite un po' attestandosi a 4,43 euro al chilogrammo, in aumento del 4% sulla settimana precedente, ma in calo del 13,7% sul medesimo periodo del 2018. Sempre nella terza settimana di ottobre l' extravergine origine Spagna si pagava 2,36 euro al chilo, il greco 2,73 e 2,31 quello made in Tunisia. Occhio al confronto - Decisivo il confronto fra queste quotazioni e i prezzi non scontati dichiarati sui cartellini per le bottiglie vendute in offerta nella grande distribuzione. E visto che quasi tutti i prodotti messi in vendita a sconto, tranne due, dichiarano «origine Ue», il raffronto non va fatto con i costi della materia prima italiana, ma con quella straniera. Ad esempio i 2,36 euro dell' extravergine spagnolo. Così i 5 euro di prezzo intero dell' olio «Oliveta classico» - offerto dalla Coop con lo sconto del 40% a 2,99 euro al litro - sono comunque più del doppio rispetto alla materia prima «made in Spain». Un valore compatibile con i costi della grande industria olearia che movimenta milioni di bottiglie. Dunque c' è poco da scandalizzarsi. Semmai è meno comprensibile che si trovi in vendita, al Lidl, una Dop come Terre di Bari Bitonto a 5,99 euro al litro. Ma nei discount tutto è possibile. Attilio Barbieri
· Una chimera chiamata sovranismo alimentare
Una chimera chiamata sovranismo alimentare. Fabrizio de Feo, Mercoledì 15/05/2019, su Il Giornale. Non sono più i tempi dell'autarchia alimentare e della spinta di Stato (o di regime) al consumo dei prodotti nazionali come il grano e il riso, della sostituzione del tè - in mano alla Perfida Albione - con il carcadé proveniente dall'Eritrea, allora colonia italiana (oggi diventato uno smartfood piuttosto di moda), degli orti di guerra, dello zucchero e del caffè banditi dalla tavola degli italiani. Il Ventennio è lontano e l'Italia oggi lotta in un mercato globale per difendere le proprie eccellenze. Ma nella stagione del sovranismo il nostro Paese continua a faticare a trovare l'autosufficienza alimentare, stretta in un meccanismo in cui terreni, allevamenti, marchi, reti distributive sono sempre più concentrate in mani straniere e in cui si perdono milioni di ettari coltivabili a causa dell'abbandono delle terre. Un paradosso che resiste nel tempo e si aggrava a causa della diminuzione dei terreni destinati all'agricoltura. «Abbiamo un fiorire di movimenti sovranisti, ma il ministero delle Politiche Agricole ci ricorda invece che oggi il nostro Paese è in grado di produrre appena l'80-85% del nostro fabbisogno alimentare, contro il 92% del 1991. In neanche 20 anni abbiamo ridotto dal 7 al 12% la nostra sovranità alimentare» raccontava alcuni giorni fa Domenico Finiguerra del Forum nazionale «Salviamo il paesaggio-difendiamo i territori» in un'audizione davanti alle commissioni Agricoltura e Ambiente del Senato. «Per tutelare e riprenderci la sovranità alimentare - spiega - dobbiamo fare i conti col fatto che stiamo perdendo suoli agricoli tutti i giorni».
O SI INVESTE O SI MUORE. Il caso più eclatante è quello delle scorte dell'olio 100% italiano che si sono esaurite a inizio maggio a causa di un calo della produzione del 58%. Ma il discorso è più ampio e riguarda il grano duro per la pasta, lo zucchero, il pesce. E ancora il settore lattiero caseario e in generale tutto il comparto zootecnico nel quale scontiamo i vincoli strutturali del territorio italiano privo delle grandi estensioni necessarie per lo sviluppo di un settore ad alto fabbisogno di suolo come quello zootecnico. Gli allevamenti italiani, insomma, come spiega l'Ismea «non hanno dimensioni tali da soddisfare il fabbisogno interno di materia prima». Tanto che due prosciutti su tre derivano da maiali stranieri. Il ministro dell'Agricoltura Centinaio sta cercando, con la vendita di 7700 ettari in tutta Italia, di attirare giovani verso l'agricoltura. Ma il problema resiste. Con alcuni paradossi, come quello dell'olio, settore dove spesso si esporta qualità e si importa prodotto scadente in uno scambio non certo conveniente per il consumatore italiano. «È stata una stagione complicatissima» spiega David Granieri, presidente di Unaprol, la più consistente associazione del settore olivicolo a livello nazionale e comunitario che rappresenta gli interessi di 250 mila imprese associate in Italia. «Il 2018 è stato segnato da una produzione eccezionalmente contenuta per quanto riguarda il nostro olio producendo ammanchi di produzione del 50%. Siamo a un minimo storico di 180mila tonnellate e il primo maggio le scorte di olio italiano sono finite, secondo i dati di Frantoio Italia. L'Italia è un produttore importante, ma è anche un grande Paese consumatore di olio. Il nostro autoconsumo si attesta sulle 600mila tonnellate, ma ne rivendiamo all'estero 550mila tonnellate. In sostanza quest'anno rischiamo di poter coprire soltanto il 15% del nostro fabbisogno».In questa situazione l'Italia rischia di trasformarsi in una facile preda per altri Paesi produttori come la Spagna: Madrid, di fronte a questo scenario, si trova nelle condizioni di entrare ancora più pesantemente nel mercato italiano. «Siamo a rischio, noi che da sempre siamo il Paese simbolo dell'olio extravergine. Se il governo non decide di investire in questo comparto rischiamo di scomparire».
LA SFIDA FRANCESE. Il tema dell'autosufficienza sta tornando prepotentemente di attualità. «La sovranità produttiva è parte fondante del nostro sistema agroalimentare» continua Granieri. «L'Italia si fonda su un modello agroalimentare e turistico in cui si esporta la cultura del territorio. Negli anni passati abbiamo ceduto quote importanti del nostro mercato, oggi sta tornando al centro del dibattito la necessità di essere autosufficienti, come già fa la Francia». Raffaele Maiorano, presidente di Confagricoltura Giovani, si sofferma sul paradosso qualitativo dell'import-export. «In annate normali produciamo quasi tutto l'olio che ci serve, ma in gran parte lo esportiamo quindi siamo costretti a comprarlo. E spesso la qualità importata è più bassa». Una lettura diversa arriva da Francesco Bruno, docente di diritto alimentare alla Sapienza e al Campus Biomedico. «Per ogni problema complesso c'è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Sicuramente George Bernard Shaw non aveva contezza del sistema produttivo italiano quando ha coniato questa frase. L'olio di oliva e molte derrate agricole sono ai minimi storici produttivi, la dieta italiana e il Made in Italy nei consessi internazionali sono sotto attacco, incombe un atteggiamento governativo (almeno di una parte di esso) anti-imprenditoriale. Ma non serve l'autosufficienza alimentare, serve una nuova di politica di settore. Le imprese agroalimentari necessitano di una competizione regionale, interregionale e globale, di un approccio selettivo e qualificato che guardi a una dimensione quantomeno mediterranea se non planetaria degli scambi in cui il valore aggiunto della nostra penisola può ancora giocare una partita vincente. E c'è un precedente incoraggiante. Lo scandalo del vino al metanolo fu l'occasione per la riconversione dell'intero settore vitivinicolo. Dobbiamo giocare la stessa partita vincente per l'intero comparto alimentare italiano».
NON SOLO CANNA. Un altro settore che è in sofferenza è quello dello zucchero. «Fino al 2005 l'Italia era autosufficiente» spiega Claudio Gallerani, presidente della Cooperativa Produttori Bieticoli (Coprob) «poi è arrivata la riforma europea del 24 novembre 2005 in cui venivano tagliati i prezzi alla produzione del 36% e aumentate le compensazioni; la produzione italiana ha subito una ecatombe». Nell'ultimo decennio, insomma, l'Italia ha notevolmente ridotto la propria capacità produttiva e la maggior parte degli zuccherifici è stata chiusa. Se dieci anni fa c'erano 19 zuccherifici in Italia, oggi ce ne sono solo due; la superficie coltivata era di 233mila ettari e oggi sono 34mila; la produzione di zucchero era di 1,4 milioni di tonnellate e oggi è di 300mila; i dipendenti erano 7mila e oggi sono 1.200, con una copertura del 15-20% del nostro fabbisogno». Oggi «Coprob è l'unico produttore nazionale di zucchero 100% made in Italy» continua Gallerani, «sostenibile e di alta qualità e sta investendo in innovazione e qualità con lo zucchero biologico, ma anche con il lancio di Nostrano, il primo zucchero grezzo ricavato dalla barbabietola, anziché dalla canna da zucchero come avviene solitamente (è uno zucchero più scuro e meno dolce), pensato per consumatori orientati verso cibi genuini e poco raffinati la garanzia della qualità e della sicurezza alimentare tipiche del made in Italy». Il mito dell'autosufficienza alimentare da sempre si lega con la produzione di grano, tanto più in un Paese che ha nella pasta il simbolo dell'italianità a tavola. Gli italiani consumano 26 kg a testa di pasta l'anno. Neppure in questo campo, però, siamo autosufficienti. Si importa grano duro dall'estero per soddisfare un fabbisogno annuo di 6 milioni di tonnellate rispetto a una produzione nazionale media di 3,5/4 milioni di tonnellate ma soprattutto per rispondere alle esigenze qualitative che spesso il grano italiano non soddisfa.
UN POPOLO DI PASTASCIUTTARI. L'Italia è il primo produttore europeo di grano duro, con una raccolta che nel 2015 è arrivata attorno ai 4 milioni di tonnellate. Tuttavia non siamo mai stati autosufficienti dall'Ottocento, quando era straniero il 70% di grano duro, il doppio di oggi e nei porti di Napoli, Genova e Bari arrivava un grano proveniente per il 90% dal Mar Nero. Da allora la produzione di pasta è aumentata di circa sei volte negli ultimi 80 anni. Oggi la nostra produzione copre solo il 70% del fabbisogno. All'origine della pasta c'è sempre il grano, quello duro anzitutto, più ricco di proteine, ma anche i grani antichi, come Tumminia o Senatore Cappelli. Ma ogni anno ne arriva tanto da Francia, Canada, Stati Uniti o Australia. E tutto questo nonostante il settore pasta rappresenti la prima voce del nostro export agro-alimentare valendo da solo un quinto delle esportazioni. Per i grandi produttori usare solo grano italiano è difficilissimo. Ma per i produttori medio-piccoli usare solo grano 100% italiano sta diventando una opzione sempre più attraente e una leva di marketing importante per evocare storia, appartenenza e suggestione del territorio. E fondere cibo, terra e prodotto in una sola parola.
· Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro.
Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro. Ecco i migliori ristoranti italiani in sei delle metropoli più iconiche del mondo. Scrive Andrea Cuomo, Venerdì 26/04/2019, su Il Giornale. D'accordo, noi siamo di quelli che pensano che andare a cercare cucina italiana all'estero sia una bizzarra forma di autolesionismo. Non ce n'è bisogno, in ogni Paese si mangia una buona cucina locale se si sa cercare. Quindi questa non è una guida galattica allo spaghetto alla bolognese. Epperò è bello sapere che nel resto del mondo esistano locali in cui viene proposta dell'autentica buona cucina italiana, lontana dagli strafalcioni, dal vernacolo, dalle Fettuccine all'Alfredo, dalla Carbonara con la panna, dalle polpette negli spaghetti e dall'ananas sulla pizza. Abbiamo così cercato i migliori ristoranti italiani nelle principali città del mondo, uno per metropoli. E ve li raccontiamo.
Londra. Heinz Beck ha ormai quasi dimenticato le sue origini tedesche (solo la sua pronuncia ce lo ricorda) diventando uno dei massimi interpreti della cucina italiana, con quel classico secchionismo teutonico. Nel suo ristorante londinese (Beck at Brown's), ospitato da un antico hotel di Mayfair, ha messo in cucina il suo allievo Heros De Agostinis, che si è fatto le ossa in molte cucine prestigiose e anche per diversi anni alla Pergola. La cucina è convincentemente italiana, molto alta per ambizioni e ricerca, al punto da scioccare qualche critico inglese, abituato al cliché della tovaglia a scacchi. La radice è familiare, lo svolgimento stagionale e casual, con l'obiettivo di fidelizzare il cliente. Piatto bandiera: Spaghetti al limone con scampi e fave.
Parigi. Da anni il romano Gianni Passerini seduce la capitale francese con la sua cucina bistronomica, fatta di pochi fronzoli e tanta concretezza. Quando aprì Rino, nel 2007, in poco tempo conquistò pubblica e critica. E lo stesso è accaduto quando ci ha messo il nome nel Restaurant Passerini nel XII arrondissement. Al punto che un paio di anni fa una rivista francese, «Le Fooding», molto amata dai millennials, lo ha nominato migliore chef dell'anno. Particolare attenzione è data alla pasta fresca, che nel vicino Pastificio Passerini che manda in visibilio i francesi. Piatto bandiera: Tonnarelli cacio e pepe.
Tokyo. Allievo di maestri straordinari quali Gualtiero Marchesi, Andoni Luis Aduriz, Heinz Beck e Carlo Cracco, il veneto Luca Fantin è da qualche anno l'ambasciatore della cucina italiana di qualità in Giappone, nel bellissimo Ristorante Fantin del Bulgari hotel di Ginza. Il suo miracolo è ricreare un'autentica cucina italiana nell'essenza pur attingendo a ingredienti spesso locali, in particolari il pesce e i crostacei. Fantin ha insomma inventato la cucina italonipponica e la critica locale stravede per lui. Il menù è scritto in italiano, giapponese e inglese. Piatto bandiera: Spaghetti Monograno Felicetti ai ricci di mare.
New York. È questo l'unico caso in cui la migliore interpretazione della cucina italiana è affidata a uno chef straniero: Michael White, che in Italia, al San Domenico, si è formato. Marea, il suo locale nei pressi di Central Park, al netto di qualche concessione all'italoamericanismo è ortodosso e di altissimo livello. Piatto bandiera: Polpo alla griglia, patate affumicate, cipolle rosse in salamoia, peperoncini, tonnato.
Hong Kong. Umberto Bombana ha un record: è l'unico ristoratore italiano all'estero ad avere tre stelle Michelin. Una cena nel suo Otto e Mezzo è un'esperienza da ricordare, a partire dai quadri di Andy Warhol e Pablo Picasso e dalle celle dedicate al prosciutto, ai formaggi, al tartufo. Pur non essendo la cucina del vulcanico Bombana semplicemente tricolore (un ristorante tristellato non può limitarsi a un solo vocabolario) ma attingendo anzi a numerose ispirazioni e mercati, è profondamente italiana nell'attitudine e nell'atteggiamento. Uno di quei locali dove magari non mangeremo mai ma la cui sola esistenza deve renderci orgogliosi. Piatto bandiera: Cavatelli con ragù di frutti di mare e ricci.
Singapore. In una città-crocevia, al centro di stimoli di ogni genere, l'unico ristorante italiano davvero convincente ha un nome allarmante (Garibaldi) ma si avvale della mano del bresciano Roberto Galetti, che grazie al suo rigore filologico poco incline all'oleografia ha guadagnato di recente una stella Michelin. Piatto bandiera: Risotto Acquerello ai frutti di mare.
· L’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo.
12 ragioni per cui l’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo, scrivono Erin Brodwin e Aylin Woodward su it.businessinsider.com il 19/4/2019. Quasi 780 milioni di persone in tutto il mondo non hanno accesso a una fonte di acqua potabile (acqua che scorre da un rubinetto di casa, da un pozzo o da una sorgente protetta). Negli Usa, il 99,2% della nazione ha accesso all’acqua pulita del rubinetto, ma molti statunitensi scelgono di bere acqua in bottiglia perché preoccupati dal cattivo sapore e dalla contaminazione. L’acqua in bottiglia e quella potabile del rubinetto sono virtualmente identiche in quanto a purezza e sapore. In uno studio del 2011, solo un terzo di chi l’ha assaggiata senza conoscerne la provenienza ha identificato correttamente l’acqua del rubinetto rispetto a quella in bottiglia. Diversamente da quella del rubinetto, però, l’acqua in bottiglia ha un processo costoso in termini di produzione e di consumo di risorse che richiede petrolio grezzo e acqua supplementare. Non c’è niente di meglio di un bicchiere di pura acqua ghiacciata. Ma mentre alcuni statunitensi bevono l’acqua del rubinetto, gli altri pagano per quella imbottigliata — 100 miliardi di dollari all’anno. Il prezzo medio dell’equivalente di un litro d’acqua in bottiglie monoporzione negli Usa è di circa 2,5 dollari, secondo il FoodandWaterWatch. Quasi tre volte il prezzo medio del latte, e quasi quattro volte il prezzo medio della benzina normale, sempre negli Usa. L’acqua in bottiglia costa circa 1.000 volte più di quella del rubinetto, che costa meno di 0,25 centesimi al litro. Molte persone danno per scontato che il prezzo superiore sia giustificato dai benefici per la salute, ma in molti casi, ciò non è vero. La Giornata mondiale dell’acqua, celebrata quest’anno il 22 marzo, ha lo scopo di attirare l’attenzione nei confronti delle diseguaglianze di accesso in tutto il globo. In tutto il mondo; 780 milioni di persone non hanno accesso a una fonte di acqua potabile. Ma per la gran parte degli statunitensi l’acqua del rubinetto e quella in bottiglia sono simili in termini di salubrità e qualità. In alcuni casi, l’acqua pubblica del rubinetto potrebbe esser più sana, dato che generalmente viene controllata più spesso. Oltretutto, probabilmente l’acqua in bottiglia è contaminata a da particelle di microplastica più dell’acqua del rubinetto. “È sbagliato credere che negli Usa l’acqua in bottiglia sia per qualche motivo più pulita, sana o sicura dell’acqua del rubinetto”, ha detto a Business Insider Peter Gleick, scienziato ambientale e cofondatore del Pacific Institute. Ma ci sono eccezioni: l’acqua che proviene da pozzi privati non sottostà agli stessi controlli rigorosi dell’acqua proveniente da fonti pubbliche. E, come è avvenuto a Flint, nel Michigan, alcune fonti pubbliche non vengono controllate adeguatamente. Ciononostante, ci sono un sacco di motivi per cui la maggior parte delle persone dovrebbe smettere di spendere soldi per l’acqua in bottiglia. Ecco quel che c’è da sapere.
Il primo caso documentato di acqua venduta in bottiglia è stato a Boston, nel Massachusetts, negli anni Sessanta del 1700. Una società chiamata Jackson’s Spa imbottigliò e vendette acqua minerale per uso “terapeutico”. Anche società di Saratoga Springs e di Albany confezionavano e vendevano acqua. Gli statunitensi consumano complessivamente più acqua confezionata di tutte le persone in qualsiasi altra nazione al mondo, Cina esclusa. In tutto il mondo, ogni anno le persone bevono circa il 10% in più di acqua in bottiglia. Su base pro capite, gli USA sono al sesto posto nel consumo di acqua in bottiglia. Leggi anche: Questa mappa animata mostra come è cambiata la quantità d’acqua in 34 regioni del pianeta. Oggi, gli statunitensi bevono più acqua in bottiglia che non latte o birra. Ogni persona consuma approssimativamente 150 litri di acqua in bottiglia all’anno. Nel 2016 gli statunitensi hanno bevuto per la prima volta in assoluto più acqua in bottiglia che bibite gassate. Michael Bellas, presidente e AD di Beverage Marketing ha dichiarato l’anno seguente, “L’acqua in bottiglia ha di fatto rimodellato il mercato delle bevande”. Bere acqua in bottiglia costa 2.000 volte di più rispetto a bere quella del rubinetto. Ma questa cifra, secondo alcune analisi, potrebbe essere addirittura superiore perché la maggior parte delle vendite avviene per singole bottiglie. I produttori di bibite sono consapevoli di quanto sia lucrativa l’acqua in bottiglia — imprese come la Coca-Cola e la PepsiCo hanno già investito in proposito. Nel 2017, la Pepsi ha acquistato 30 secondi di pubblicità durante il Super Bowl per presentare il suo marchio premium di acqua in bottiglia LIFEWTR. “La cosa peggiore sono le dichiarazioni menzognere fatte da alcune acque in bottiglia ‘specializzate’ che pubblicizzano effetti magici grazie dell’aggiunta di ossigeno, della riorganizzazione dei cristalli o di altri riti esoterici”, ha detto Gleick. E ha aggiunto che “anche le società principali di tanto in tanto fanno pubblicità che calunniano direttamente o indirettamente l’acqua del rubinetto”. Le ricerche suggeriscono che per la maggior parte degli statunitensi, l’acqua di una bottiglia non è migliore di ciò che esce dal rubinetto. Una ricerca ha scoperto che, in effetti, quasi la metà delle acque in bottiglia sono ottenute da acqua del rubinetto, che tuttavia potrebbe poi essere ulteriormente processata e analizzata. Nel 2007, Pepsi (Aquafina) e Nestle (Pure Life) hanno dovuto cambiare le proprie etichette per evidenziarlo con più precisamente. “L’acqua in bottiglia non è regolata, analizzata o controllata meglio di quella del rubinetto, e spesso è controllata meno”, ha detto Gleick. “Dove ci sono problemi con l’acqua del rubinetto, la soluzione è di investire per modernizzare e sistemare il nostro sistema idrico, non di passare all’acqua in bottiglia”, ha aggiunto. In effetti, generalmente l’acqua del rubinetto è sottoposta a prove per la qualità e la contaminazione più frequentemente rispetto alle acque in bottiglia. Queste analisi sono svolte dalla Environmental Protection Agency. Però, la qualità dell’acqua del rubinetto può variare da luogo a luogo. Secondo una legge dell’EPA, gli statunitensi dovrebbero ricevere annualmente un rapporto sulla qualità dell’acqua potabile, o Consumer Confidence Report, che dettaglia la provenienza e la composizione dell’acqua, consultabile anche tramite il link sottostante. Tuttavia, chi appartiene a una delle 15 milioni di famiglie Usa (soprattutto rurali) che ottiene l’acqua da bere da un pozzo privato, non beneficia del controllo della qualità dell’acqua da parte dell’Epa. L’acqua potabile, quella dei pozzi compresa, può essere contaminata. L’agenzia dice sul proprio sito che “Il proprietario è responsabile della manutenzione e della sicurezza della propria acqua”. L’acqua di quei pozzi potrebbe non essere sicura. In un rapporto del 2011, il 13% di pozzi privati analizzati dai geologi contenevano almeno un elemento (come arsenico o uranio) con una concentrazione maggiore a quella prevista dalle linee guida nazionali. La recente diffusione dell’acqua in bottiglia potrebbe essere dovuta alle crescenti preoccupazioni per la purezza dell’acqua del rubinetto. Un sondaggio condotto nel 2017 da Gallup ha scoperto che il 63% degli statunitensi era “molto” preoccupato per l’inquinamento nell’acqua potabile. Genetha Campbell trasporta acqua distribuita gratuitamente al Lincoln Park United Methodist Church di Flint, nel Michigan il 3 febbraio 2015. Si trattava della maggiore percentuale di preoccupazione dal 2001. “La fiducia nei nostri sistemi idrici urbani sta diminuendo a causa di disastri evitabili come quello di Flint, nel Michigan”, ha detto Gleick. Anche se alcune persone si lamentano del sapore dell’acqua del rubinetto, probabilmente la maggior parte di noi non la distinguerebbe. In un test alla cieca eseguito su studenti della Boston University, solo un terzo degli assaggiatori ha identificato correttamente il campione di acqua del rubinetto. Inoltre, produrre l’acqua in bottiglia è un procedimento costoso che consuma risorse. Come altre materie plastiche, il materiale delle bottiglie d’acqua deriva dai sottoprodotti del petrolio grezzo. Uno studio pubblicato nel 2009 nel giornale Environmental Research Letters rivelava che la plastica delle bottiglie d’acqua consumate negli Usa nel 2007 derivava dai sottoprodotti di quantità di petrolio compresa tra i 32 e i 54 milioni di barili. Oltretutto, nella realizzazione di una bottiglia si consuma più acqua di quella contenuta: le società nord americane usano 1,39 litri d’acqua per produrre un litro di quella in bottiglia. Potresti pensare: “Almeno le bottiglie vengono riciclate, giusto?”. Sbagliato. Su sei bottiglie d’acqua usate dagli statunitensi, solo una finisce nella raccolta differenziata. Per cui, la prossima volta che pensi di comprare acqua in bottiglia, ricordati di questi fatti.
· La sinistra senza Nutella.
CHE SINISTRA SAREBBE SENZA NUTELLA? il 17 aprile 2019. Dopo il latte di pecora, le arance, i mandarini e le olive, sta per scoppiare ora anche la guerra delle nocciole? È curioso, perché questo frutto è molto richiesto, in Italia e all' estero, e ha fatto la fortuna dei coltivatori, soprattutto di tre regioni italiane (Lazio, Toscana, Umbria), ma anche di quelli della Campania, del Piemonte e della Sicilia. Pensate che, oltre alla vendita a buon prezzo del prodotto sgusciato alla Ferrero e ad altre aziende dolciarie, gli agricoltori, che prima regalavano i gusci, oggi li commercializzano a 12-15 euro a quintale perché vengono utilizzati nelle caldaie, come combustibile, per riscaldare esercizi pubblici e abitazioni. Insomma, del nocciolo non si butta nulla, come i maiali. E allora perché lamentarsi se la natura - meglio, la nostra agricoltura - riesce ad essere così generosa per chi ci lavora? Come spiegheremo, però non tutto è oro quel che luccica. Sono infatti molte le associazioni ambientaliste, ma anche quelle parapolitiche (quasi tutte di sinistra che strumentalizzano questo problema), uscite allo scoperto, coinvolgendo Comuni, Province, associazioni nella lotta alla monocultura, che provocherebbe gravi danni all' ambiente e alle altre colture. Infatti, l' abnorme crescita dei noccioleti (un' eccellenza mondiale del nostro Paese), che comporta anche una forte intensificazione di pesticidi per incrementare la produzione, comporta il diradamento e la morte di tutte le altre storiche colture. Nel nostro paese sono coltivati a nocciolo (dati Istat 2015) 72.000 ettari, con una produzione di 46.000 tonnellate annue (di cui 45.000 concentrate nella provincia di Viterbo). Segue la Campania, con 40.000 tonnellate (di cui più di 15.000 nella provincia di Avellino) e il Piemonte, con circa 20.000 tonnellate (concentrate nella nocciola tonda gentile delle Langhe). Tra le regioni in forte crescita ricordiamo la Sicilia, con 12.000 tonnellate (provincia di Messina). Il nocciolo (dal greco còrys, che significa «elmo») negli ultimi anni ha conosciuto un boom di produzione perché è fortemente richiesto dall' industria dolciaria e, in particolare, dalla multinazionale Ferrero per la Nutella e gli altri prodotti dolciari. Al punto che è costretta ad importarla dalla Turchia (che detiene il primato della produzione nel mondo, col 70 %). L' Italia è al secondo posto (con il 13%) e al primo in Europa, seguita da Stati Uniti (4%), Spagna, Azerbajian, Georgia (ciascuno con il 3%). La domanda mondiale è talmente in crescita che la nostra produzione è insufficiente, nonostante che dal 2000 sia stata incrementata di ben il 35 %. Ma la Ferrero è stata costretta a ricorrere alle importazioni di nocciole anche da Paesi con scarsi quantitativi produttivi, come il Cile, il Sudafrica, l' Australia. Il prodotto made in Italy è però riconosciuto come il migliore in assoluto ed è il più richiesto dalle aziende di trasformazione. I coltivatori investono largamente perché il prodotto (soprattutto nei terreni con molta acqua) rende bene. A Orvieto, dove si è svolto pochi giorni fa un convegno di coltivatori e ambientalisti, un tecnico agricolo ci ha detto che un ettaro di terreno che si comprava due-tre anni fa a 10-12.000 euro, oggi - se coltivato a noccioleto - vale non meno di 80.000 euro. Si spiega così la corsa alla produzione di «elmi» che, tra l' altro, a sentire i medici fanno bene alla salute (riducono il rischio di malattie cardiovascolari, aiutano le donne in gravidanza, contengono vitamina E che protegge le cellule dallo stress ossidativo, come integratore naturale porta giovamento alle ossa, contro lo stress e la stanchezza, e il cui olio viene utilizzato nella cosmetica). Ma vediamo l' altra faccia della medaglia: la «corilicoltura» (questo il nome tecnico della coltura del nocciolo) danneggia fortemente l' ambiente. Con l' uso incontrollato e irresponsabile dei pesticidi si sta avvelenando l' agricoltura, quella spontanea e quella coltivata. Insomma, l' impatto nei territori dove viene coltivato il nocciolo è stato «pesante», «deleterio», «infernale», «distruttivo», «dannoso» per le piante e la salute umana. Tutti questi aggettivi (ma ve ne erano altri ancora peggiori) li abbiamo annotati assistendo al convegno di Orvieto (Sala del Governatore, palazzo dei Sette), patrocinato dal sindaco, Giuseppe Germani, e promosso da quattordici associazioni con numerosi giovani, ma con la scarsissima presenza di coltivatori. E sapete chi guidava l' armata antinocciolo? Una giovane donna, che vive tra i set cinematografici e i festival: Alice Rohrwacher, regista e sceneggiatrice. È stata la star dell' affollatissima sala, interpretando la Giovanna d' Arco della guerra al «pericoloso» nocciolo. Che cosa c' entra Alice con l' elmo? Nulla, tranne il fatto che ha il babbo apicoltore, che vive vicino Orvieto. Ha capito però che quei pesticidi possono distruggere molte piante e uccidere (come hanno già fatto) anche le api E, infatti, per convincere i dubbiosi, la regista Giovanna d' Arco ha fatto trasmettere anche una testimonianza filmata del neurobiologo Stefano Mancuso (Università di Firenze). Lo scienziato ha ribadito che «le piante sono un esempio di convivenza, a differenza degli uomini», aggiungendo che il nocciolo è un intruso che va combattuto, ma forse ci penseranno le stesse piante, «che hanno una testa pensante, con la quale comunicano, prendono decisioni e ricordano persino». Queste le riflessioni serie di un uomo di scienza, ma i «pasdaran» di Orvieto non sono convinti che siano le stesse piante a «mettere ordine» nell' ambiente o che siano le istituzioni o gli stessi agricoltori a risanare. Forse ci vuole ben altro. E a quel punto, nella sala medievale, l' ascia di guerra è stata impugnata dal comandante Famiano Crucianelli, presidente del biodistretto della Via Amerina e delle Forre. Crucianelli è una vecchia conoscenza della sinistra storica (è stato parlamentare di Rifondazione comunista e poi del Pds, Ds, sottosegretario nel governo Prodi e quindi è approdato nel Pd). L' ex dirigente politico ha scaldato la sala con una dichiarazione di guerra alla Ferrero. Ha proclamato di essere assolutamente contrario al progetto della multinazionale che si propone di piantare in tutta Italia 20.000 nuovi ettari di nocciole nei prossimi cinque anni (fino a 1.500 solo nella Tuscia viterbese). «Noi siamo contro il progetto, che rischia di trasformare la ricchezza in una maledizione per tutto il territorio. Chiediamo l' intervento delle istituzioni, Regioni e Province, per una valutazione di impatto ambientale e poi bisogna fare i conti con la Ferrero». Che cosa chiede Crucianelli ai dirigenti della multinazionale? «Che si rispetti la biodiversità e che una parte del territorio della Tuscia previsto dal progetto produca nocciole con metodo biologico. La Ferrero deve occuparsi anche delle ricadute economiche per il nostro territorio senza rischiare di trasformarlo in una colonia. Chiediamo ancora alla Ferrero di investire in ricerca per migliorare la qualità dell' ambiente e della vita delle persone. In sintesi, coltivare senza inquinare». In altre parole, si pongono richieste a una multinazionale, che dovrebbero essere presentate (quasi tutte) alle istituzioni (ministero dell' Agricoltura, Regioni, Province e Comuni) e non certo a un' azienda privata, che si propone soprattutto di incrementare fatturato, occupazione e profitti. Ricordiamoci, infatti, che il gruppo Ferrero comprende 94 società in tutto il mondo, con 25 stabilimenti di produzione, fra cui quello cinese aperto nel 2015.Nel bilancio 2017-2018 si legge che il fatturato è stato di 10,7 miliardi di euro, con un incremento del 2, 1 per cento. Le vendite di prodotti sono aumentate del 3,5 % (6,8% a cambi costanti) trainate prevalentemente da Germania, Francia, Italia, Polonia, Regno Unito e Stati Uniti. L' occupazione è in costante crescita (circa 36.000 dipendenti nel 2018). Si tratta dunque della seconda più grande azienda produttiva di cioccolato e confetteria al mondo, creata nel 1946 da Pietro Ferrero, pasticciere di Alba (Piemonte), noto anche per essere stato l' inventore della Nutella. Contro questo colosso sono scesi in guerra ora associazioni ambientaliste e altre parapolitiche, oltre all' Università della Tuscia, come si è visto al convegno di Orvieto (fra cui il biodistretto di Crucianelli, i Medici per l' ambiente, la Schola campesina, il Lago di Bolsena e tante altre). Ci sembra però che, questa volta, Davide rischi di soccombere davanti al gigante Golia perché gli agricoltori, nella grande maggioranza, non rinunceranno mai a colture, come le nocciole, ad alto reddito. La difesa dell' ambiente va comunque sostenuta, sensibilizzando le istituzioni. E il fatto che le giovani generazioni siano in prima linea in questa battaglia ci sembra comunque positivo, al di là della demagogia, sempre diffusa, e le strumentalizzazioni politiche.
· Le Bufale sulla carne.
LE BUFALE SULLA CARNE. Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2019. La carne fa male. Fra le tante bufale amplificate a dismisura dai social media, in testa Facebook, questa è una delle più clamorose. Alimentate da un sottobosco di pubblicazioni e blog che fanno dello scandalo fine a sé stesso la loro principale ragion d' essere, le balle sul consumo di carne godono pure di una sorta di extraterritorialità che deriva loro dall' essere falsamente «pro ambiente» e vagamente politically correct. Così, quando ho ricevuto un accurato studio condotto nell' ambito del progetto Carni Sostenibili, non ho resistito ad approfondirlo. Scoprendo che la maggior parte delle argomentazioni su cui poggia la campagna contro la carne sono bufale clamorose. Cinque su tutte, che impazzano da anni su web e social. Vediamole una per una.
Prima bufala: in Italia mangiamo 79,1 chilogrammi di carne all' anno. Troppa! Non è vero che il consumo di carne pro capite dei nostri connazionali ammonti a poco meno di 80 chili l' anno. Per un semplice motivo: questa stima prende in considerazione anche le parti non edibili dei capi macellati, vale a dire tendini, ossa, grasso e cartilagini. Se si escludono gli scarti le cifre cambiano e si scopre che in media il consumo reale è di circa 37,9 Kg di carne all' anno. Dunque meno della metà. Fra l' altro, considerando soltanto la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità ben al di sotto delle raccomandazioni dell' Organizzazione mondiale della sanità, l' Oms, che fissano a 100 grammi il consumo giornaliero di carne rossa.
Seconda bufala: la carne fa venire il cancro, lo dice l' Oms! Anche questo è falso. Nel 2015, l' Oms attraverso la Iarc, l' Agenzia per la ricerca sul cancro, ha analizzato il rischio di sviluppare il tumore al colon in presenza però di un consumo giornaliero pari a 50 grammi di carne trasformata (ad esempio sotto forma di salumi) e 100 grammi di carne rossa. Ecco, con queste dosi il rischio cresce di circa il 18% per le carni trasformate e del 17% per le carni rosse. Ma se si riportano i calcoli ai nostri consumi medi effettivi, i rischi diventano trascurabili.
Terza bufala: la produzione di carne non è sostenibile. Servono 15.000 litri d' acqua per produrne un chilo di carne bovina. Nulla del genere! La stima, infatti, si basa sul concetto di «impronta idrica» elaborato dal Water Footprint Network sull'«acqua virtuale», messa in gioco in tutto il processo produttivo. In pratica pure quella usata nella coltivazione dei foraggi e nei cereali necessari all' alimentazione del bestiame, oltre all' acqua impiegata in fase di macellazione o per depurare gli scarichi di produzione. In pratica si calcola pure l' acqua piovana senza la quale il foraggio e il grano non crescerebbero. Negli allevamenti italiani più efficienti, invece, il consumo effettivo di acqua è di 790 litri per chilo di carne. In quelli meno efficienti, che però stanno scomparendo, arriva al massimo a 7mila litri.
Quarta bufala: gli allevamenti inquinano più dei trasporti! Falso pure questo. Se si considera il solo settore zootecnico, cioé gli allevamenti, in Italia il contributo totale ai gas serra è del 4,4%, come certifica un report dell' Ispra, l' Istituto superiore per lo studio e la ricerca ambientale, pubblicato nel 2017. Un viaggio aereo Roma-Bruxelles, ad esempio, genera più emissioni del consumo di carne di un italiano per un anno intero. Oltre all' anidride carbonica, un altro gas sotto accusa per i cambiamenti climatici è il metano, prodotto in natura dal metabolismo di alcuni batteri definiti «metanogeni», presenti nell' apparato digerente dei ruminanti e nelle acque stagnanti, ad esempio le risaie. Ma la quantità di metano prodotta così è trascurabile rispetto a quella ottenuta con lo sfruttamento dei pozzi petroliferi.
Quinta bufala: la carne contiene ormoni e antibiotici; mangiarla è pericolosa! Questa è forse la bufala di più lunga durata visto che ci affligge da tempo immemorabile. Il trattamento di animali con gli ormoni è vietato in Europa da quasi quarant' anni e da oltre un decennio è proibita pure la somministrazione di antibiotici a scopo preventivo. Non è un caso se l' Unione europea ha bloccato a partire dal 1988 l' import di carne bovina da Stati Uniti e Canada, due Paesi in cui gli ormoni sono ammessi. Negli allevamenti l' uso di antibiotici è permesso soltanto a scopo di cura, previa prescrizione del veterinario. Gli animali che li abbiano assunti possono essere macellati soltanto dopo che sia trascorso il tempo necessario a smaltire le sostanze contenute nei farmaci. Infine tre numeri per capire la portata delle bufale sull' alimentazione. Se è vero che 9 italiani su 10 parlano abitualmente di cibo, oltre 7 si informano prevalentemente su internet. Ma appena 6 su 100 lo fanno sui siti di giornali e istituzioni.
· Cosa si mangia? I regimi alimentari assurdi.
Andrea Cuomo per “il Giornale” il 29 giugno 2019. Chi ancora pensa che sia esotico mangiare un sushi o un ceviche, è proprio fuori dal mondo. Ignora quali e quanti regimi alimentari assurdi, strampalati e a volte perfino provocatori esistano. Diete frutto di scelte salutistiche, etiche, religiose, politiche, perfino identitarie. Roba che fa sembrare vegetarianesimo e perfino veganesimo scelte conservatrici. Allacciate le cinture: si parte.
Cucina queer. Queer - parola che dà la lettera Q alla sigla Lgbtq, che identifica le comunità sessualmente differenti dall' eterosessualità - identifica non una pratica sessuale particolare ma l' eccentricità, la liquidità, l' ambiguità.
Translato a tavola indica non una categoria di cibi particolare bensì un modo di mangiare inclusivo e alla portata di tutti, «comfort» ma al contempo strano e spiazzante. Graditi i richiami all' estetica «arcobaleno» ma senza eccessi perché chi mangia queer per definizione non vuole essere etichettato in uno stereotipo. Capito tutto? Noi quasi.
Cucina gay. Esiste anche essa dal 1965, anno in cui lo scrittore omosessuale Lou Rand Hogan provò a codificare un ricettario e una prassi gastronomica omosex nel libro «The Gay Cookbook». Il volume non è tanto interessante per le ricette quanto per lo sforzo di immaginare per la prima volta gli omosessuali americani in una dimensione ironicamente domestica lontana dalle semplificazioni «nottambule» e peccaminose.
Paleodieta. Vegani tappatevi gli occhi e le orecchie. Qui si parla di un regime alimentare basato esclusivamente sui cibi reperibili prima dello sviluppo delle tecniche agricole. E quindi selvaggina, sangue frattaglie, pesce, crostacei, rettili, vermi, bachi, insetti, uccelli, uova, bacche, miele, vegetali spontanei, radici, bulbi, noci e semi. Chi propugna la paleodieta assicura che l' uomo delle caverne non soffrisse di molte malattie dovute allo sviluppo. Ma non ci vuol molto per comprendere che si tratti di un' alimentazione priva di ogni fondamento nutrizionale e scientifico.
Dieta alcalina. Altra consorteria alimentare quella di chi pensa che assumendo prevalentemente alimenti che spingono il nostro pH del corpo verso l' alcalinità (ovvero il contrario dell' acidità) si abbiano effetti benefici per il nostro corpo, soprattutto per quanto riguarda la minore possibilità di sviluppare un tumore. I medici ribattono che qualsiasi cosa noi mangiamo viene comunque attaccata dai succhi gastrici che la «acidificano». Quindi pensare di alcalinizzare il nostro corpo è un' utopia. Esempi di cibi alcalini? Tuberi, radici, crucifere, cetrioli, mele, sedano, uva e - sembra strano - anche il limone. Sai che godimento.
Cucina «liberal veg». I vegetariani liberali sono quelli che reintroducono la carne nella loro dieta a patto che sia di qualità, biologica e certificata, avvalorata da una dichiarazione dettagliata della provenienza e dei sistemi di allevamento animali.
Reducetariani. Assimilabile alla tribù precedente quella che annovera chi senza abolire la carne dalla propria dieta tende a ridurne la quantità e a controllarne la qualità.
Cucina viola. La «purple diet», resa popolare da Mariah Carey, si fonda sull' assunzione almeno tre giorni a settimana di soli cibi di questo colore (mirtilli, ribes, more, fichil, prugne, radicchio, melagnzane e pomodori neri) ricchi di antiossidanti. Pare renda più intelligenti, ma qui scatta il «comma 22» del cibo: «Il cibo viola rende più intelligenti, ma se mangi solo viola non puoi essere intelligente».
Cucina biblica. Tale Jordan S. Rubin assicura di essere guarita dal morbo di Cronin evitando cibi impuri secondo la parola di Dio e comunque pregando sempre prima e dopo ogni pasto.
Dieta delle lenti blu. Inventata dai giapponesi, prevede di mangiare indossando occhiali con lenti blu. Colore che rendendo il cibo meno attraente spingerebbe a mangiare di meno. Poi però tolti gli occhiali arriva una fame... blu.
«Baby food». Molto amata dalle star hollywoodiane prevede di mangiare un po' di tutto ma sempre in forma di omogeneizzati. Sedici vasetti al giorno e via. Poi se vi dimenticate come si usano i denti non lamentatevi con noi.
Savero Capobianco per Davide Maggio.it il 28 giugno 2019. Non parlate mai di veganismo con Gianfranco Vissani. Ieri lo chef umbro era ospite de La Vita in Diretta Estate per parlare naturalmente di cibo. Nel corso del dibattito, come accade spesso quando ci si occupa di cucina, il discorso ricade sulla guerra fredda tra onnivori e vegani. Gli ospiti in studio, chiamati a esprimere la propria preferenza tra tofu e amatriciana, non hanno dubbi nel prediligere quest’ultima, come lo stesso Vissani, che afferma: “Dai per piacere, il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Tutto nella norma, finché Beppe Convertini non ha la geniale idea di domandare a Vissani (e a Roberto Poletti, ospite pure lui) se fosse più attratto dalle donne vegane o da quelle onnivore (ebbene sì, era difficile partorire un quesito simile, eppure c’è riuscito). A questo punto Lisa Marzoli, quasi profetica, invita tutti a stare attenti con le parole, visto che “ognuno può mangiare quello che vuole, lo dico subito prima che…”. Detto fatto. Se il pensiero di Poletti è piuttosto chiaro (“Mangiate quel che volete… a casa vostra!”), ancor più lo è quello di Vissani: “Ci sono state sei persone vegetariane che si sono riunite a Londra nel 1949 ed è uscito il veganesimo. Il veganesimo, signori miei, è come i fruttariani… sono dei cogli0nazzi“. I conduttori insorgono e bloccano subito il discorso dello chef, ammonendolo con un simbolico cartellino rosso (e specificando che quanto uscito affermato fosse rappresentativo solo del suo pensiero dello chef). D’altronde, non è la prima volta che Vissani si scaglia contro il mondo vegano, tanto da finire spesso al centro delle polemiche. Qualche anno fa, lo chef ci andò giù pesante quando, in onda, dichiarò che i vegani fossero una setta e che li avrebbe ammazzati tutti. Un’avversione dunque che persiste da anni e non accenna ad estirparsi.
La vita in diretta Estate, Gianfranco Vissani contro i vegani: "Sono dei cogl..." Ospite della versione estiva del rotocalco di Rai1, lo chef si è scagliato nuovamente contro i vegani: “Il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Alessandro Zoppo, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. Gianfranco Vissani non sopporta i vegani e lo dice proprio chiaramente. Ospite di La vita in diretta Estate, lo chef è stato invitato a parlare di alimentazione per sedurre, tra ingredienti afrodisiaci, corpi perfetto o delizie del palato e non ha perso occasione per scagliarsi contro chi non consuma carne, pesce e derivati. “Dai per piacere – ha esclamato in prima battuta – il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Quando il conduttore Beppe Convertini gli ha chiesto se si sente più attratto dalle donne vegane o da quelle onnivore, la risposta è stata dura quanto scontata, tanto che Lisa Marzoli ha messo le mani avanti specificando che “ognuno può mangiare quello che vuole, lo dico subito”. “Ci sono state sei persone vegetariane – ha raccontato Vissani – che si sono riunite a Londra nel 1949 ed è uscito il veganesimo. Il veganesimo, signori miei, è come i fruttariani... sono dei coglionazzi”. Non è la prima volta che Vissani si scaglia contro il mondo vegano, tanto da finire spesso al centro delle polemiche. Durante il periodo di Pasqua, lo chef è stato denunciato da Daniela Martani, a capo di un gruppo di animalisti e attivista veg, perché, ospite del programma radiofonico Un giorno da pecora, ha raccontato di uccidere gli agnelli a “mani nude”, utilizzando un “coltello che possa arrivare al cuore per fare uscire più sangue possibile”. Tre anni fa invece, durante una puntata di In Onda su La7, Vissani era andato oltre spiegando il perché del suo odio. “Io – aveva detto – non riesco a concepire i vegani. Non mangiano niente. Io ce l’ho con loro, non con i vegetariani. Anche Pitagora era vegetariano e mangiava uova e formaggio. I vegani sono una setta. Sono uguali ai Testimoni di Geova. Cosa gli farei? Li ammazzerei tutti”.
“MAGARI TI ARRIVASSE UNA PALLOTTOLA VAGANTE”. Dagospia il 3 dicembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. “Chi mangia la carne è il mandante di un assassinio. Perché secondo voi per chi uccidono gli animali, per chi la mangia o per chi non la mangia? Come considero i cacciatori che odio? Prima di tutto sono degli assassini, ma assassini legalizzati dallo Stato. Tra l’altro anche impotenti. Perché evidentemente non hanno una vita soddisfacente. Sono anche grassi e brutti”. Si presenta così Daniela Martani, showgirl ex-Gf ed ex hostess Alitalia, alla platea de La Zanzara su Radio 24 in gran parte formata da carnisti e maschi onnivori. Poi entra in scena un cacciatore, Marco Navarro. “Ecco qui il tuo nemico, prova a dargli la mano”, dice Cruciani. “ Devo dare la mano al cacciatore? No, mi rifiuto, mi rifiuto”, dice la Martani. “Non è che mi vergogno – aggiunge – è che mi rifiuto di dare la mano ad un assassino. Questo caccia tutto ciò che mangia? Chissà, magari una pallottola vagante, prima o poi…”. “Ma come, ti stai augurando la morte per un cacciatore”, dice Cruciani. “Molti cacciatori – dice ancora la Martani - muoiono a causa delle pallottole vaganti dei loro amici. Bisogna stare attenti”. “Io ho cacciato di tutto nella mia vita”, dice il cacciatore. Risponde la Martani: “Che schifo. Ma non poteva fare tiro al piattello piuttosto che ammazzare gli animali? Quelli che però qui applaudono alle parole del cacciatore, sono gli stessi che piangono quando gli muore il cane o il gatto. Ipocriti, siete ipocriti, fate schifo. Siete finti, siete dissociati. Avete problemi mentali, si chiama dissociazione mentale”. Sei stata querelata dai cacciatori: “Vediamo in tribunale che succede. Ho detto che non è sbagliato bucare le gomme delle macchine dei cacciatori. Andare contro la legge è un diritto per chi è sovversivo e per fermare le stragi, le vostre. Fate schifo”. Come consideri questo cacciatore?: “Un assassino. Uno che si diverte ad uccidere un animale innocente che sta per i cazzi suoi…E’ come se adesso voi passeggiate qua e ad un certo punto vi arriva un colpo in testa. Ma stiamo scherzando? Siete degli sfigati”. Poi Cruciani indossa una pelliccia. Martani: “Levati sta pelliccia, Cruciani. Ma vattene a vivere nelle caverne. Se incontro una donna con la pelliccia, cosa le faccio? Le dico che è una schifosa…meglio che sto zitta. Vorrei metterle fuorilegge, lo stanno già facendo molti paesi”. “Questa pelliccia è fatta di visone e di agnello, bellissima”, dice Cruciani. Martani: “Fai schifo”. Torniamo ai cacciatori, se ne incroci uno per strada e sei in macchina che fai? Lo metti sotto?: “Fosse per me…occhio per occhio, dente per dente. E’ una lotta impari quella che fate. Vergognatevi, vergognatevi”. “Sei ottusa”, dice il cacciatore. “Ma statti zitto. Se ti trovi da solo davanti al cinghiale senza fucile, vedi che fine che fai. Hai paura ad andare in giro senza fucile, vergognati”.
· I Vegetariani sono sempre esistiti.
Ex vegetariani, perché qualcuno ci ripensa e torna a mangiare carne. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. «Le ragioni possono essere diverse» risponde Stefano Erzegovesi, medico nutrizionista e psichiatra e responsabile del Centro per i disturbi alimentari dell’Ospedale San Raffaele di Milano. «C’è chi ha esaurito la spinta ideale iniziale e chi dopo un po’ di tempo la trova troppo “faticosa”, nel senso di doversi sottoporre a troppe rinunce, e c’è anche chi lo decide per motivi di salute, correlati a carenze nutrizionali per una scelta vegetariana studiata male e quindi squilibrata. Farei comunque una premessa di tipo psicologico: qualunque sia il motivo per cui una persona abbia lasciato la scelta vegetariana, è importante che non si lasci andare a emozioni negative, come colpa e fallimento o, peggio, ad emozioni di rabbia verso i vegetariani “che ce la fanno”. Ricordiamo che i giudizi negativi, su di noi e sugli altri, sono tra le abitudini più ingrassanti e meno salutari della nostra vita».
I VEGETARIANI SONO SEMPRE ESISTITI. Da Focus il 22 marzo 2019. Nel 2000 in Italia gli adepti della dieta verde erano un milione e mezzo, oggi sono circa 4 milioni e nel 2050, secondo l'istituto di ricerca Eurispes, saranno 30 milioni: un aumento vertiginoso nell’arco di pochissimo tempo. Eppure non si tratta di un fenomeno nuovo. Anzi, a ben vedere, come racconta Giuliana Lomazzi nel n. 63 di Focus Storia, i nostri più antichi progenitori erano vegetariani, anche se più per forza che per scelta.
RACCOGLITORI. Durante la preistoria, quando l’uomo si cibava di quello che la natura offriva, la dieta era a base di frutta, erbe e radici. Poi qualcuno cominciò a cibarsi di carogne o di animali uccisi nelle prime battute di caccia. I ritrovamenti fortunati, però, non erano all’ordine del giorno, e la caccia era pur sempre un rischio. Così il consumo di carne tra i cacciatori-raccoglitori rimase a lungo marginale: alleati decisivi furono prima l’uso di strumenti per squartare le carogne e poi il fuoco, che contribuì alla digeribilità della carne. Con l’inizio dell’allevamento, circa diecimila anni fa, arrivò infine la svolta. Fin dallo sviluppo delle prime civiltà l’uomo fu onnivoro, cosa che facilitò la sopravvivenza, ma solamente dopo avere imparato a coltivare la terra e ad allevare animali vennero le prime città organizzate, una società più complessa e il pensiero religioso.
ANIMALISTI. L’uomo cominciò a riflettere sulle sue scelte alimentari e fu allora che si sentirono i primi vagiti del vegetarianismo. La ragione principale che spingeva a diventare vegetariani era di tipo etico-filosofico: la convinzione che sia sbagliato far soffrire e uccidere gli animali. Queste convinzioni attecchirono soprattutto nel subcontinente indiano, dove l’ahimsa (la non-violenza, cavallo di battaglia di Gandhi) è un principio fondante delle sue principali religioni: induismo, buddismo e giainismo. Per costoro, l’idea del rispetto per la vita animale, la compassione per tutte le creature e l’astensione dal consumo di carne sono considerate premesse indispensabili per raggiungere la saggezza. Inoltre, secondo la teoria della reincarnazione (o “metempsicosi”) dopo la morte ogni anima trasmigra in un altro corpo, animali compresi.
ETÀ DELL’ORO. Basta però fare pochi passi indietro nel tempo per scoprire che anche in Occidente, nella Grecia del VI secolo a.C., ci fu un’ondata di misticismo che sfociò nel rifiuto di mangiare carne (anche se non lasciò influssi duraturi come accadde più avanti in India). Accadde quando si diffusero le idee dell’orfismo, un movimento mistico che attraverso la purificazione del corpo voleva allontanarsi dalla condizione umana e avvicinarsi a quella divina. Gli adepti dei culti orfici, che credevano nella trasmigrazione delle anime, conducevano una vita sobria ed evitavano qualsiasi cibo di origine animale, rifiutando carne, uova e persino la lana per gli indumenti.
BENESSERE. Il più convinto nell’opporsi all’abitudine di cibarsi di animali fu il filosofo greco Pitagora (575-495 a.C.). Non a caso, i seguaci del vegetarianismo furono detti “pitagorici” fino all’800. Solo allora, in Inghilterra, si cominciò a parlare di vegetariani, derivato dall’inglese vegetable (“verdura”). Cinque secoli dopo Pitagora, anche il poeta latino Ovidio riteneva che la natura offrisse frutti a sufficienza per tutti. E più tardi altri filosofi, come Plutarco (I secolo), si opposero all’uccisione di animali, mentre il filosofo Porfirio (233-305) nel suo trattato Sull’astinenza dalle carni degli animali condannò i sacrifici rituali e paragonò i carnivori a cannibali: riteneva gli animali dotati di intelligenza e per questo nostri pari. Ma rimasero voci isolate. Per la Chiesa infatti il vegetarianesimo era un segnale di eresia: gli adepti dell’eresia càtara, per esempio, si astenevano da ogni tipo di alimento associato al grasso animale, uova comprese. Ciò che spingeva i càtari verso le verdure non era però l’amore verso le altre creature di Dio, ma la convinzione che gli animali fossero creature di Satana e il desiderio di purificarsi privandosi di quel cibo immondo. Ancora nel ’500 poche voci si levavano fuori del coro. Una era quella del genio rinascimentale Leonardo da Vinci, che affermava "verrà il tempo in cui giudicheremo il mangiare gli animali nello stesso modo in cui oggi giudichiamo il mangiare i nostri simili: il cannibalismo".
IL SALUTISMO. Negli stessi anni mossero i primi passi le argomentazioni salutistiche, e non solo etiche, del vegetarianismo: è su quell’onda che in Europa sempre più medici promossero la dieta vegetariana. Quando però a fine ’700 in Inghilterra, e nel secolo successivo in Europa, ebbe inizio l’era industriale, la dieta cambiò radicalmente. Il lavoro nelle fabbriche indusse molti a vivere lontano dalle campagne e aumentò il cibo di produzione industriale, facilmente trasportabile: il consumo di carne crebbe, sponsorizzato anche da nuove generazioni di medici.
GRAN RITORNO. Questi cambiamenti provocarono una controrivoluzione, da cui maturò la Lebensreform, la “riforma della vita”, nata in Germania a fine ’800 e che, all’inizio del secolo successivo, fece nascere in Svizzera, sul Lago Maggiore, la comunità di Monte Verità. Alla comunità aderirono adepti della teosofia (una corrente filosofica spiritualista), naturisti, seguaci delle medicine naturali e artisti. Lo stile anticonformista di Monte Verità (erano anche favorevoli al nudismo) attirò da ogni dove molti vip, come la ballerina statunitense Isadora Duncan.
VEGANI O VEGETARIANI? Oggi le motivazioni etiche si intrecciano con quelle mediche e ambientali: gli allevamenti intensivi sono responsabili di un'importante fetta delle emissioni di gas serra e le monocolture di cereali per i mangimi hanno costi energetici enormi. Molte ricerche confermano inoltre che l’eccesso di carne rossa è nocivo e che la dieta vegetariana è più sana. A ciò si aggiunga un’aumentata sensibilità animalista a tutti i livelli. Non sarà allora che, come aveva previsto Leonardo, è forse giunto il momento di diventare tutti vegetariani?
· Chi vuol essere vegano!
E i ragazzi russi lanciano la «rivoluzione vegana». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it. «Basato su falsa coscienza e false ipotesi, il vegetarianismo non ha seguaci nell’Urss». Così la Grande Enciclopedia Sovietica, 65 volumi pubblicati fra il 1926 e il 1978. Essere vegetariani, o peggio vegani (in russo si dice «vegetariani estremi»), non è mai stato popolare in Russia; considerata una mollezza borghese se non vicina all’anarchia negli anni dell’Urss — era stato vegetariano Lev Tolstoj, considerato da molti fra i padri nobili anche del pensiero anarchico — la scelta di non mangiare animali gode anche oggi, nel ventennio del presidente cacciatore e pescatore Vladimir Putin, di scarsissimo credito nel sentire comune.
Appena l’1% dei russi è vegetariano, percentuale identica alla media dei vegani nei Paesi Ue; e nelle metropoli, soprattutto a San Pietroburgo, la connotazione politica di questa scelta è esplicita. Minoranza assoluta, ma bellicosa, i vegani sono un movimento vero e proprio; le cui cellule sono ristoranti, caffè, e negozi di alimentari gestiti con spirito più da attivisti che da esercenti. La Bbc ha ribattezzato «i cuochi della rivoluzione», ad esempio, i gestori di Horizontal, ristorantino e take away della centrale Prospettiva Ligovsky a San Pietroburgo: dietro la vetrina coperta di adesivi c’è una brigata di cucina e di sala di nove persone sotto i 28 anni, che si dividono il lavoro in modo «non gerarchico: non c’è proprietà, non c’è anzianità», spiega la più anziana dei nove, Varya. «In un Paese dove chi non è etero non si sente al sicuro, questo è uno spazio sicuro». Oltre che antifascista, antispecista e «privo di gerarchie». «Certo che il mio lavoro è politico», osserva Mikhail Vegan, nome da Youtuber del quarantenne Mikhail Panteleev. «Essendo contro la discriminazione fra i viventi, per logica sono femminista e antirazzista». Mikhail Vegan ha cucinato anche per il canale di divulgazione Feministki Poyasnyanyut (potremmo tradurlo con «Le femministe vi spiegano»). La cui fondatrice Sonia, 26 anni, ha fondato Run Rabbit Run, pasticceria vegana a San Pietroburgo. Il network è fitto: con loro ci sono negozi come Bunker Vegano e B-12 (la vitamina da integrare nella dieta senza animali) ma anche un festival che si tiene a dicembre, Znak Raventsva, «Segni di Uguaglianza», che raduna vegani e associazioni Lgbt. Va avanti da 5 anni: i fondatori ammettono che «quando abbiamo incluso le associazioni gay, molti ristoranti si sono ritirati». Nel 2017 i fondatori di Horizontal avevano un altro locale, Animal: i fash, cioè i fascisti, lo hanno assaltato un pomeriggio tirando petardi nella vetrina. «Nessuno è stato arrestato», racconta Varya. A marzo scorso, del resto, il caffè femminista Simona (da De Beauvoir) era stato «visitato» da attivisti di destra che portavano polemicamente fiori alle avventrici. E lo chef vegano Arman Sagynbaev, due anni fa, era stato arrestato per «terrorismo anarchico», quasi senza prove. È ancora in custodia. «Serve più democrazia in Russia», conclude Mikhail. E passa anche dalla cucina.
Dritto e Rovescio, caos da Paolo Del Debbio: irruzione della polizia in studio, caos per il prosciutto. Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Violento scontro, quasi fisico, a Dritto e Rovescio. In studio gli animi si scaldano quando si parla di vegani contro vegetariani. Uno dei partecipanti, a un certo punto, tira fuori un grosso prosciutto (crudo, pare) e lo punta minacciosamente contro un vegano. L'autore della provocazione è un signore in giacca e cravatta. Il gesto surriscalda l'atmosfera nemmeno si stesse parlando di guerra di religioni. Le due fazioni se le dicono di tutti i colori e quasi arrivano alle mani: “Bravo, bravo – è la risposta dell'uomo con il salume a chi gli ha dato del culattone – la mia famiglia vive di questo”. Entra anche una donna poliziotto in studio, è caos. Provvidenziale l’intervento di Paolo del Debbio, che indossa gli inediti panni del paciere: “Si sieda”, dice a un vegano. E poi: “Se state tutti buoni bene, altrimenti ve ne andate fuori e parliamo d’altro”. Grande applauso, e poi scoppia la pace.
I genitori vegani ed il figlio denutrito: che fare? La vicenda dal punto di vista legale è complessa, ma non nuova. Va quindi affrontata mettendo al primo punto il bambino. Daniela Missaglia il 23 settembre 2019 su Panorama. La notizia del bambino di due anni di Nuoro, ricoverato in gravi condizioni al nosocomio cittadino a causa di un avanzato stato di denutrizione, quasi sicuramente connesso al regime alimentare estremo di stampo vegano, rinnova il dibattito su molteplici tematiche. Quella di cui non intendo parlare, perché estranea alle mie sfere di competenza, riguarda la correttezza - o meno - del tipo di dieta imposta al minore: lascio a medici ed esperti accapigliarsi sul giusto grado di vitamine B12, ferro e omega 3 assimilabili con o senza alimenti di origine animale. Da madre un'idea ce l’ho. Da avvocato ragiono solo in termini di tutela di chi non può difendersi da solo (il bambino) e di strumenti utilizzabili in siffatte situazioni-limite, quando l’amore di un genitore non è sufficiente a garantirne l’adeguatezza o la capacità. L’intervento del Tribunale sarà automatico e così il ventaglio di opzioni che i magistrati specializzati minorili avranno a disposizione: dalle più blande, concernenti la sospensione della responsabilità genitoriale di madre e padre limitatamente a determinate decisioni, passando attraverso il trasferimento dell’affido al Comune di residenza con collocamento del bambino fuori dalla famiglia (nonni, ad esempio, in genere più avveduti), fino alla revoca di quella che un tempo (ora non più, ma è solo un gioco dialettico) si chiamava potestà, con tanto di messa in stato di adozione del bambino. I precedenti d’altronde ci sono: a Milano come a Genova dove - in quest’ultimo caso - addirittura i genitori erano stati iscritti nel registro degli indagati per maltrattamenti in famiglia, proprio a causa del grave stato di prostrazione della piccola figlia, vittima anch’essa di scelta discutibili in fase di svezzamento. Il veganesimo "spinto", somministrato anche a minori in crescita, è fenomeno sempre più diffuso e divisivo che sta entrando prepotentemente nei reparti degli ospedali, costretti ad interventi d’urgenza salva-vita e, di riflesso, nei Tribunali. Anche questi ultimi non sono chiamati ad esprimersi sulla correttezza del regime alimentare ma solo sugli effetti che un determinato tipo di accudimento ha prodotto in capo al minore: quando un bambino di tre anni pesa come un neonato, è svogliato, apatico, emaciato e mostra gravi segni di denutrizione, il problema è grande e va affrontato nell’immediato ed alla radice. Genitori che hanno permesso un epilogo del genere possono considerarsi adeguati a crescerlo in futuro? Nel 2016, a Milano, il Tribunale per i Minorenni aveva optato per collocare il bambino presso i nonni, senza però rescindere i legami con madre e padre, evidentemente pentitisi di quanto fatto e pronti ad un percorso orientato verso un cambiamento. Ma non sempre è così e l’oltranzismo di alcune famiglie, che i magistrati debbono scandagliare con attenzione, merita seriamente di essere valutato come spia per arrivare anche all’extrema ratio della revoca della responsabilità genitoriale, fondamentalmente per salvare una vita che, altrimenti, sarebbe segnata. Uno Stato civile deve proteggere i minori e non può ammettere che essi siano abbandonati nel "miglio verde" della condanna a morte o di gravissimi problemi di salute a causa dell’irriducibile scelta dei loro genitori, quand’anche possidenti, apparentemente inseriti socialmente e acculturati. Sul punto non ci può essere dibattito o spazio per tentennamenti di sorta: l’amore non basta. Non è sufficiente professarlo, bisogna dimostrarlo. Il valore di un sentimento è la somma dei sacrifici che si è disposti a fare per esso, è stato scritto: mi auguro che i genitori di Nuoro sapranno dare risposte valide e dimostrazioni di serio ravvedimento perché, diversamente, la tutela del bene-vita di loro figlio prevarrà su qualsiasi legame di sangue. E sarà giusto così.
Ictus, ecco perché mangiare vegano favorisce la malattia: la ricerca. Tiziana Lapelosa su Libero Quotidiano il 8 Settembre 2019. Meglio tenere sotto controllo il cuore o la testa? Non passa giorno senza leggere qualche suggerimento sulla dieta corretta da seguire, sui cibi da non mangiare o su cibi miracolosi per la salute e per la linea. Non passa giorno in cui non arrivi una notizia che, come una pallina da biliardo, contribuisca ad alimentare ancora di più la confusione che alberga più o meno in tutti in fatto di cibo, croce e delizia dell' epoca che viviamo. L'ultima riguarda i vegetariani e i vegani, quelli, questi ultimi, che dai loro piatti non soltanto hanno escluso la carne (e pazienza), ma anche tutti i derivati animali. Che vuol dire latte, formaggi, uova, miele (e ci vuole davvero tanto coraggio)...Secondo uno studio inglese, questo tipo di alimentazione a base di "foglie", seitan (un impasto ricavato dal glutine del grano tenero o farro o khorasan che assomiglia un po' alla carne), tofu (un derivato della soia), latte di riso, legumi e cloni di hamburger e spezzatino, aumenterebbe il rischio di ictus, la chiusura o la rottura di un vaso cerebrale con conseguente danno alle cellule cerebrali per mancanza di ossigeno. Ma, attenzione, ridurrebbe il rischio di infarto. È quanto emerge da uno studio condotto dalla Oxford University e pubblicato sulla rivista scientifica British Medical Journal. Funzionerebbe così, in base a quanto emerso dalla ricerca durata circa dieci anni e che ha messo sotto osservazione 50mila britannici di età superiore a 18 anni. Non mangiare carne abbasserebbe il livello di colesterolo oltre a ridurre l' apporto di alcune vitamine, in particolare la B12 e la D, proprio quelle che proteggono il corpo umano dall' ictus. Ne è emerso che il 20% della popolazione vegana sarebbe più predisposta a questo tipo di malattia rispetto a chi invece la carne la mangia. E questa è la nota negativa. Perché c' è anche un "lato b" meno preoccupante: preferire legumi, tofu, seitan e compagnia, infatti, ridurrebbe del 22% il rischio di avere un infarto o una qualsiasi malattia cardiaca. Forse, dicono gli esperti ricercatori inglesi, per via di una più bassa pressione del sangue e anche di una minore incidenza del diabete. Ma sarà vero? Fatto lo studio, trovato il difetto nel variegato mondo dell' alimentazione. Tom Sanders, professore del King' s College di Londra, la quarta più antica università britannica, fa notare, per esempio, che lo studio pecca di attendibilità. «È probabile che le persone che seguono diete alternative abbiano meno probabilità di assumere farmaci per l' ipertensione e di conseguenza soffrono di ictus», ha suggerito al Guardian. Un "limite" che si associa al fatto che la ricerca si sia basata sull' autodichiarazione e al fatto che abbia coinvolto per lo più persone bianche che vivono nel Regno Unito e quindi difficilmente applicabile ad altre popolazioni. Gli stessi ricercatori, del resto, hanno sottolineato che lo studio merita un maggiore approfondimento e che nessuno dovrebbe allarmarsi dal momento che lo studio non dimostra un rapporto di causa ed effetto. Per stare tranquilli, insomma, meglio scegliere la via di mezzo, quella della moderazione, senza rinunciare ai piccoli piaceri della tavola. Certo, con una attenzione in più verso le verdure come del resto suggeriscono tutti i nutrizionisti. Tiziana Lapelosa
Quella ragazzina che ha chiesto al Papa di diventare vegano. Papa Francesco dovrebbe convertirsi al veganesimo. Questa è la convinzione di un'attivista dodicenne, che ha incontrato Bergoglio in Vaticano, scrive Giuseppe Aloisi, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. Papa Francesco potrebbe divenire vegano. Una richiesta per nulla formale, almeno, gli è arrivata. Genesis Butler ha dodici anni, ma non le manca certo il coraggio, che magari è tipico dell'età adulta, nel chiedere un serio impegno al romano pontefice. Il fine, manco a dirlo, è quello di "salvare il mondo". Dell'incontro tra la Butler e il Santo Padre ha parlato, tra gli altri, il Corriere della Sera. La giovane, che si batte per la salvaguardia delle specie animali e per la tutela dell'ambiente nella sua interezza, , fa parte di quell'insieme di persone - molte delle quali sono note al grande pubblico - che ha individuato in Bergoglio un possibile testimone straordinario della causa che sta portando avanti. Il Vaticano, per ora, non ha fatto sapere cosa ne pensa. E neppure l'ex arcivescovo di Buenos Aires si è pronunciato pubblicamente sulla domanda ricevuta. Il papa, pure per via delle usanze cattoliche in materia di cibo, non dovrebbe rendersi disponibile a un cambiamento di dieta drastico. Ma "ha sorriso" dopo aver ricevuto la proposta della ragazzina. Certo, se il vescovo di Roma si affacciasse su San Pietro, dichiarando di essere diventato vegano, farebbe il suo effetto. Esiste un desiderio per nulla nascosto: fare del Santo Padre il principale militante della causa in oggetto. Sullo sfondo, del resto, c'è Laudato Sì, l'enciclica del pontefice accostata al francescanesimo di ritorno. I critici, vale la pena sottolinearlo, l'hanno bollata come testo "ambientalista". Ma la Butler ha la tenacia tipica dell'idealista: "Quando gli ho chiesto se poteva diventare vegano - ha dichiarato, come si legge sul quotidiano citato - durante la quaresima non mi ha risposto, ma ha sorriso". E ancora: "Sarei davvero felice se il papa rispondesse al nostro appello per salvare gli animali e il pianeta. So quanto queste battaglie ambientaliste gli siano care. Lui è l'uomo giusto per salvare il futuro del mondo". I tradizionalisti ritengono che quella ambientalista sia una distorsione modernista. In Italia, grazie all'impegno dei monsignor Pompili, che è il vescovo di Rieti, invece, sono nate le "Comunità Laudato Sì". Bergoglio, si può pronosticare, non si convertirà al veganesimo, ma terrà in conto la battaglia della Butler.
· La Guerra al Made in Italy.
Maxi sequestro di pellet tunisino: era spacciato per made in Italy. La merce scoperta all'interno di due container arrivati al porto di Palermo era priva di tracciabilità e falsamente indicata come produzione italiana. Vincenzo Ganci, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. A scoprire il carico di pellet privo di indicazioni di provenienza e destinato ad una nota società di distribuzione romana, sono stati i funzionari dell’Agenzia delle Dogane di Palermo insieme ai finanzieri del Nucleo operativo metropolitano di Palermo, che hanno individuato due semirimorchi provenienti dalla Tunisia, carichi di sacchetti di pellet, sprovvisti di qualsivoglia indicazione circa la provenienza estera del prodotto. L’attenzione dei funzionari della dogana e dei militari della guardia di finanza in servizio al porto di Palermo, si è focalizzata sulla verifica delle indicazioni impresse nelle confezioni del pellet e proprio da quest’ultimo approfondimento è emerso che, ad eccezione del marchio e della società distributrice del prodotto, i sacchetti destinati alla commercializzazione non riportavano il benché minimo riferimento a indicazioni precise ed evidenti circa l’origine e la provenienza estera della merce, ovvero di ogni altra indicazione idonea ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto. Inoltre, i militari hanno constatato che la dichiarazione doganale di importazione era priva di attestazione, resa da parte del titolare o licenziatario del marchio, che riportasse l’impegno a fornire le informazioni, a sua cura, in fase di commercializzazione del prodotto sulla effettiva origine estera dello stesso. Il controllo ha portato al sequestro amministrativo di 3.920 confezioni di pellet da 15 chili ognuno, pari 58.800 chili complessivi, e la contestazione della violazione amministrativa, per "fallace indicazione di origine", punita con sanzione da 10.000 a 250.000 euro, a carico della società importatrice. "Ancora una volta - spiegano dal Comando - la sinergia tra le due amministrazioni ha elevato la qualità dei controlli e, conseguentemente, garantito una maggior tutela del mercato di riferimento, a presidio della trasparente e lecita circolazione dei beni e delle merci nel territorio italiano, oltre che a salvaguardia dei diritti del consumatore finale, con riferimento alla tracciabilità dei prodotti acquistati e del Made in Italy". I container in arrivo nei porti siciliani sono tra quelli maggiormente sottoposti a controllo da parte dell'Agenzia delle Dogane a dai finanzieri. A Catania, poche settimane fa, un altro maxi sequestro di prodotti falsi. Nel mirino dei militari, un milione di prodotti provenienti dalla Cina, destinati ad un importatore cinese con base a Catania. L'uomo già denunciato in passato, ora è accusato di contrabbando, ricettazione, contraffazione, frodi contro le industrie nazionali, vendita di merce con segni mendaci. L'uomo è stato segnalato anche alla Camera di Commercio, per vendita di prodotti non in linea con le prescrizioni previste dalle norme relative alla sicurezza dei prodotti.
La guerra al cibo Made in Italy, non più carne né pesce. Siamo orgogliosi dei nostri prodotti alimentari ma consumiamo quelli stranieri. Imposti dalla grande industria che punta al cibo standard, scrive Mario Giordano il 28 febbraio 2019 su Panorama. Nel 2018 la produzione di olio in Italia è diminuita del 57 per cento. Nello stesso tempo l’importazione di olio dalla Tunisia è aumentata del 150 per cento. In 15 anni abbiamo perso una pianta di arance su tre. Le importazioni di pesce sono aumentate dell’84 per cento negli ultimi 25 anni. L’80 per cento ormai arriva dall’estero: non solo Spagna, Grecia e Tunisia, ma anche Ecuador, Vietnam e Thailandia. Abbiamo perso 6 mila pescherecci e 18 mila posti di lavoro. E siamo rimasti muti come sogliole. Così lo scempio quotidiano è continuato. I pomodori? Vengono dal Marocco. I limoni? Dal Cile. I carciofi? Dall’Egitto. Il riso? Dalla Cambogia. E il latte, ovviamente, dalla Romania. L’unica cosa che rimane made in Italy sono le pive. Ovviamente nel sacco. Ha fatto impressione a tutti, nei giorni scorsi, vedere il latte versato in strada dai pastori sardi. Così come faceva impressione, qualche mese fa, vedere le montagne di riso invenduto nel vercellese o i pomodori di Pachino che non venivano raccolti nei campi della Sicilia. Ma da noi l’impressione dura un attimo, giusto il tempo di un servizio sul Tg. Poi c’è subito altro cui pensare. Il nostro made in Italy non importa a nessuno. Abbiamo le migliori olive del mondo, ma preferiamo farle arrivare dall’estero. Abbiamo i migliori pomodori del mondo, ma preferiamo farli arrivare dall’estero. Abbiamo il miglior pesce del mondo, ma preferiamo mangiare quello dell’Ecuador. Siamo così orgogliosi dei nostri prodotti che li stiamo distruggendo. Facciamo chiudere le nostre imprese, uccidiamo i nostri coltivatori, decimiamo allevatori e pescatori. E per che cosa? Per portare sulle nostre tavole prodotti che, per la maggior parte, sono meno buoni. E pure meno garantiti. È stato calcolato, infatti, che i cibi che arrivano da Paesi extraeuropei sono dodici volte più pericolosi di quelli made in Italy. Dodici volte. Il perché è facilmente spiegabile: all’estero non si adottano gli stessi controlli severi che sono obbligatori da noi e spesso si usano veleni che da noi sono banditi. La Coldiretti nei giorni scorsi ha diffuso un menu tipico di prodotti alimentari importati. Mozzarella al perossido di benzoile, olio colorato con la clorofilla, pane cotto con legna tossica, vino adulterato, carne da macelli clandestini e miele tagliato con sciroppi pericolosi. Non vi basta? Ci sono anche le violazioni dei diritti umani: riso birmano frutto di genocidio e banane dell’Ecuador raccolte con lo sfruttamento dei bambini. Il pranzo è servito. Ma solo per chi ha lo stomaco forte. È chiaro che quando acquistiamo i prodotti dall’estero non mettiamo a rischio soltanto i nostri produttori e la nostra ricchezza: mettiamo a rischio anche la nostra salute. Eppure non se ne parla. Se al contrario se ne parla, si ironizza. Quando nei giorni scorsi ho provato a dire che è stata una sciocchezza aver aumentato le importazioni di latte rumeno dell’85 per cento, facendo crollare il prezzo e riducendo alla fame gli allevatori sardi, qualche benpensante chic ha ironizzato: che vogliamo fare? Dichiarare guerra alla Romania? Come se difendere i prodotti tipici italiani fosse un peccato mortale di imperdonabile superbia sovranista. Mentre invece, forse, sarebbe soltanto buon senso...Si capisce: le proteste degli agricoltori non sono mai troppo popolari. Non fanno share. Dopo un po’ la gente cambia canale. Chi se ne importa se chiude un allevatore sardo? Chi se ne importa se spariscono le olive della Puglia? E non capiamo che difendendo loro, in realtà, difendiamo anche noi stessi, il cibo che ci arriva in tavola, la nostra salute alimentare. In gioco non ci sono soltanto i residui chimici che infestano oggi i pomodori marocchini o le olive tunisine. In gioco ci sono anche i programmi chimici delle multinazionali, che non vedono l’ora di spazzare via la resistenza dei produttori locali per imporci il loro Pranzo Unico Globale, perfetto per la grande industria, con produzioni su larga scala, assai più economiche e redditizie. La direzione è segnata: cibo standard, mode etniche uniformi, piatti riproducibili in vitro, aromi sintetici e gusti serializzati. E per finire anche grilli al curry e locuste al vapore, anch’esse facilmente allevabili in laboratorio. Non è perfetto? Il pranzo è servito. E noi, di questo passo, arriviamo in un attimo ai bolliti.
Sardegna, la protesta del latte e quel sistema disumano per i pastori. Dietro la protesta c’è una questione antica. Ma anche un’ingiustizia tipica dei nostri giorni da sanare subito. Ma la politica sarà in grado di dare risposte? Scrive Aboubakar soumahoro il 20 febbraio 2019 su L'Espresso. Nel 1952 fu istituita la “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla” per indagare sulle condizioni di vita della popolazione in Italia. La Commissione esaminò «nove aree nelle quali il fenomeno della miseria appariva in forme più penose o caratteristiche», tra cui la Sardegna. I deputati Luigi Polano e Salvatore Mannironi, membri della Commissione, scrissero la relazione sulla Sardegna che metteva in evidenza la condizione di lavoratori sfruttati, ridotti alla fame, ricattati e senza tutele sindacali. Soprattutto le donne, che non partecipavano al sindacato per paura di essere licenziate. A distanza di 67 anni, l’isola della Sardegna vede i pastori impegnati in una lotta per un prezzo dignitoso del latte ovino. Questi pastori hanno iniziato una vertenza spontanea ma non inattesa per un osservatore attento. In questa filiera, il prezzo del latte viene stabilito dopo la trasformazione e la vendita delle materie derivanti. Vale a dire che il trasformatore, ovvero l’industriale, stabilisce il prezzo del latte pagato al pastore solo una volta determinato il suo profitto, generato dalla vendita. In aggiunta la Grande distribuzione organizzata (Gdo) si garantisce a sua volta il profitto a partire dalla materia trasformata dall’industriale. È insomma una catena di sfruttamento a cascata dall’alto verso il basso. Tradotto, è il pastore che garantisce il profitto degli industriali e della Gdo. Eppure sono anni che i pastori subiscono questa imposizione. Una vera e propria gabbia dalla quale questi ultimi sono determinati a liberarsi, chiedendo un riconoscimento dignitoso della loro fatica. Dinanzi a questa determinazione, il governo è stato costretto ad affrontare la questione. In altri tempi, come negli anni ’50, all’epoca della Commissione Parlamentare d’inchiesta, si sarebbe cercato di andare alle radici di questa lotta per indagare le ragioni del malessere dei pastori e delle loro famiglie. Invece nel corso degli ultimi anni (e non mi riferisco solo a questo governo) conta la politica degli spot e la spettacolarizzazione degli eventi. In questo contesto, l’onnipresente ministro degli Interni ha radunato delegazioni di pastori, associazioni di categoria e industriali al suo dicastero anziché quelli di competenza, ossia delle politiche agricole o del lavoro. Le discussioni tra industriali e pastori erano incentrate sul prezzo del latte. Gli industriali proponevano 60 centesimi al litro diventato poi 72 centesimi, mentre i pastori dal chiedono di portare il prezzo a un euro passando a 80 centesimi al litro da subito. Tuttavia, se si vuole sviluppare e dare sostanza politica alle rivendicazioni dei pastori, senza ridurle a propaganda elettorale, bisogna dire che va ripensata l’intera filiera a partire dal ruolo della Grande distribuzione organizzata. Quest’ultima, stabilendo i prezzi dall’alto, schiaccia ugualmente i pastori, i contadini e i lavoratori della filiera agricola, tutti costretti a salari da fame. I prodotti agricoli, che finiscono sui mercati, non risentono del giusto riconoscimento della fatica di uomini e donne che si spaccano la schiena di giorno per poi dormire in baraccopoli o tendopoli di notte. Paola Clemente, Soumaila Sacko, Becky Moses, Sekine Traore, Ali Dembele, Suruwa Jaiteh, Moussa Bah (la lista sarebbe lunga) sono caduti, pure se in circostanze diverse, in contesto di sottrazione della dignità della persona. La stessa dignità che li lega alla causa dei pastori sardi. Purtroppo, la politica delle ruspe, della stigmatizzazione dei migranti e della marginalizzazione degli ultimi (anche se italiani) è uno stratagemma finalizzato alla distrazione di massa. Le vere domande alle quali bisogna dare risposte sono: come ci si sta muovendo per garantire l’equità nella filiera agricola? Quali sono le politiche messo in atto per garantire a contadini e produttori la possibilità di vendere a prezzi equi in grado di compensare il proprio lavoro? Come impedire il potere monopolistico dei grandi gruppi sia industriali sia del commercio? Come vigilare sulle condizioni dei lavoratori del settore? Si pone quindi una questione gigantesca di etica su tutta la catena del valore. Una vera politica è quella capace di fornire risposte in una ottica strutturale. Per questo urge la necessità di un intervento su tutta la linea della filiera a oggi comandata dalla Gdo. La politica dovrebbe garantire ai consumatori prodotti agricoli sani che tengano conto delle condizioni dei lavoratori, dei contadini e dei produttori.
· I cibi contaminati.
Cibo insano. Fausta Chiesa per corriere.it il 13 ottobre 2019. Tonno spagnolo? Sgombro francese? E i pistacchi sono turchi o americani? La provenienza del cibo potrebbe fare la differenza, almeno in base a un’analisi fatta da Coldiretti sugli allarmi alimentari che si sono verificati in Italia quest’anno: più di uno al giorno, che in oltre quattro prodotti su cinque hanno riguardato prodotti pericolosi per la sicurezza alimentare provenienti dall’estero: su un totale di 281 allarmi notificati a Bruxelles, 124 provenivano da altri Paesi dell’Unione Europea (44 per cento) e 108 da Paesi extra Ue (39 per cento). L’analisi è stata presentata al Forum Internazionale dell’agroalimentare a Cernobbio (Como) dove è stata apparecchiata la tavola dei cibi più pericolosi venduti in Italia nel 2019 sulla base delle elaborazioni del sistema di allerta Rapido (Rassf, Rapid Alert System for Food and Feed) relative ai primi nove mesi. I maggiori pericoli? «Il pesce spagnolo, come tonno e pescespada, con alto contenuto di mercurio – precisa la Coldiretti – e quello francese, sgombro in primis, per l’infestazione del parassita Anisakis, ma sul podio del rischio ci sono anche i materiali a contatto con gli alimenti (i cosiddetti «Moca»), per i quali si riscontra la cessione di sostanze molto pericolose per la salute del consumatore (cromo, nichel, manganese, formaldeide), in particolare per quelli importati dalla Cina». Come per esempio i pelati. Nella black list alimentare ci sono poi i pistacchi dalla Turchia e le arachidi dall’Egitto per l’elevato contenuto di aflatossine cancerogene, presenti anche nei pistacchi dagli Stati Uniti e la salmonella enterica nelle carni avicole polacche. Sul podio dei Paesi da cui arrivano in Italia il maggior numero di prodotti rischiosi al primo posto emerge la Spagna con 54 notifiche, riguardanti principalmente la presenza di mercurio nel pesce, seguita dalla Cina con 28 segnalazioni, soprattutto per migrazione di metalli nei materiali a contatto con alimenti e dalla Turchia con 22 avvisi, maggiormente per aflatossine nella frutta in guscio. «E questo accade – sottolinea la Coldiretti – nonostante il fatto che la Cina e la Turchia rappresentino rispettivamente appena il 2% e l’1% del valore delle importazioni agroalimentari in Italia mentre la Spagna arriva circa al 10 per cento. Dai risultati sono evidenti le maggiori garanzie di sicurezza dei prodotti nazionali mentre i pericoli vengono soprattutto dalle importazioni». In generale, «sugli alimenti importati - sottolinea Coldiretti - è stata individuata una presenza irregolare di residui chimici più che doppia rispetto a quelli made in Italy, con i pericoli che si moltiplicano per gli ortaggi stranieri venduti in Italia che sono quasi cinque volte più pericolosi di quelli nazionali, secondo l’ultimo report del ministero della Salute sul “Controllo ufficiale sui residui di prodotti fitosanitari negli alimenti” pubblicato in agosto 2019. Su circa 11.500 i campioni di alimenti (ortofrutta, cereali, olio, vino, baby food e altri prodotti) analizzati per verificare la presenza di residui di prodotti fitosanitari appena lo 0,9% dei campioni di origine nazionale – è risultato irregolare ma la percentuale sale al 2% se si considerano solo gli alimenti di importazioni e tra questi il record negativo è fatto segnare dagli ortaggi dall’estero con il 5,9%». Ed è per questo che l’associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana presieduta da Ettore Prandini spinge sull’obbligo di indicare in «etichetta l’origine nazionale dei prodotti da estendere a tutti gli alimenti». Coldiretti ha annunciato di aver raggiunto l’obiettivo della raccolta di 1,1 milioni di firme di cittadini europei per chiedere alla Commissione Ue di estendere l’obbligo di indicare l’origine in etichetta a tutti gli alimenti con la petizione europea «Eat original! Unmask your food» (Mangia originale, smaschera il tuo cibo) promossa assieme ad altre organizzazioni europee. La petizione si è conclusa il 2 ottobre. L’associazione ha consegnato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte un «maxi assegno» di 1.100.000 firme raccolte.
Lo studio sull’insalata in busta. Da "it.style.yahoo.com" del 25 febbraio 2019. Siamo abituati a comprare l’insalata in busta già lavata e pronta per essere condita e gustata. I vantaggi di questo servizio sono indiscussi, a partire dalla possibilità – quando si rientra tardi la sera – di aprire la busta e considerare parte della cena già preparata. Ma siamo sicuri che i prodotti confezionati siano davvero lavati ed igienizzati come dovrebbero essere? L’Università di Torino ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto su un campione di 100 insalate in busta: il dati riportati sono particolarmente preoccupati soprattutto a causa dell’elevata quantità di microrganismi e batteri presenti nei prodotti analizzati. Inoltre è stato sottolineato come l’insalata confezionata tenda a deteriorarsi molto più facilmente, arrivando ad una data di scadenza decisamente precoce: infatti, anche se non ci sono conservanti e la freschezza dovrebbe essere garantita dalla busta stessa e dalla temperatura, tuttavia dal confezionamento al consumo possono passare anche diversi giorni. Inoltre, non bisogna sottovalutare l’eventualità in cui l’insalata possa essere conservata in celle frigorifere per lunghi periodi, in un clima notoriamente sfavorevole per gli ortaggi. Lo studio insiste molto sulle modalità di lavaggio delle insalate prima del confezionamento: dopo aver subito due round di “centrifuga” all’interno di specifiche vasche dove l’acqua viene cambiata ciclicamente, la verdura viene portata in apposite sezioni produttive in cui viene tagliata e predisposta all’imbustamento. Purtroppo la sola acqua non è sufficiente a garantire l’igiene e l’eliminazione di agenti patogeni che potrebbero portare delle malattie anche molto gravi. È opportuno precisare – in via preliminare – che non tutti i batteri presenti nelle foglie di insalata sono potenzialmente dannosi per il corpo umano. Tuttavia, uno degli elementi più pericolosi che si trovano all’interno dell’insalata in busta è la Toxoplasmosi. Si tratta di un agente patogeno particolarmente pericoloso per le donne in gravidanza che, come è noto, devono porre particolare attenzione nel consumo di prodotti crudi dal momento che i batteri in essi contenuti potrebbero passare direttamente al feto. I sintomi con cui si presenta il batterio sono quelli simili ad una lieve forma influenzale, con dolori articolari, spossatezza e possibile cefalea; non è da sottovalutare la possibilità di una forma totalmente asintomatica. Per congiurare qualsiasi rischio è quindi fortemente consigliato lavare accuratamente l’insalata nell’apposita centrifuga casalinga, aggiungendo un misurino di Amuchina che igienizzi in profondità la verdura che si desidera consumare.
I cibi contaminati che finiscono sulla nostra tavola. Coldiretti nel suo rapporto "Agromafie" stila la lista dei prodotti alimentari più facilmente contraffatti e pericolosi, scrive Panorama il 14 febbraio 2019. Pasta, riso, carne, pesce, funghi, nocciole, uova. Ci si potrebbe fare un menù completo con la lista degli alimenti contraffatti che finiscono sulle nostre tavole ogni giorno stando ad "Agomafie" il rapporto anuale redatto da Coldiretti e che ci racconta quali sono i rischi che gli italiani corrono ogni giorno a tavola e quando fanno la spesa.
Antipasti. In questo ipotetico menu illegale si puà cominciare con gli antipasti:
Mozzarella, sbiancata con carbonato di soda o perossido di benzoile, in maniera da far sembrare appetibile e commestibile un prodotto scaduto.
Frittelle di bianchetti, conosciuti a Napoli come cicinielli, vietati dal regolamento UE 1967/2006 che ne mette fuori legge la cattura, lo stoccaggio, l’immagazzinamento e la vendita.
Primi piatti (pasta e riso). Sotto accusa il riso, spesso proveniente dalla Birmania che ha un costo inferiore a quello italiano a causa dello sfruttamento dei lavoratori (spesso di popolazione Rohyngia, perseguitata da anni nel paese asiatico). Oppure la pasta prodotta all'estero con farine dalla provenienza sconosciuta. Il tutto magari condito con delle scaglie di tartufo raccolto in Romania, molto meno pregiato, ma venduto come italiano.
Secondi, carne e pesce. Tonnellate di pesce, spacciato come fresco, è diventato tale solo grazie ad un "lavaggio" con il "cafados" (una miscela di acidi ed acqua ossigenata) che garantisce un aspetto di freschezza. Per la carne non mancano bistecche e tagli di ogni tipo e di ogni animale provenienti da macelli sconosciuti, da animali senza alcuna tracciabilità, quindi senza alcuna sicurezza per i cliente.
Verdure e condimenti. L'olio, da sempre, è uno dei prodotti più contraffatti. Spesso oli provenienti dall'estero e spacciati come degli "extra vergine" sono in realtà prodotti di qualità molto più scadente.
Tra i vegetali più a rischio i funghi, di varia tipologia, che arrivano dall'estero senza alcun controllo ma spacciati e venduti per italiani. Immancabile in questo menù della contraffazione il Parmigiano, prodotto d'eccellenza del nostro paese, ma sempre più frequentemente e facilmente contraffatto con altri formaggi di infima qualità.
Dolci e frutta. Il miele è il principale prodotto finito nell'occhio della Coldiretti che ha scoperto tonnellate di prodotto tagliato con saccarosio o altri dolcificanti liquidi.
Bevande. Qui la fa da padrone il vino, tagliato con acqua e zucchero ed altre sostanze tossiche.
Coldiretti stima in oltre 20 miliardi l'anno il giro d'affari del mondo della contraffazione alimentare in Italia, sempre più nelle mani della criminalità organizzata.
Agromafie, aumentano le truffe a tavola. Nel mirino carne, vino e zucchero. Il rapporto Coldiretti 2018: chi se lo può permettere privilegia il Made in Italy, ma un terzo dei consumatori è costretto a scegliere il low cost, scrive Alessandra Ziniti il 14 febbraio 2019 su La Repubblica. Occhio alla carne e al vino. E' lì che si annidano le maggiori insidie di manipolazione con la quale le agromafie alimentano il loro giro d'affari. Un business che sembra lievitare come confermano i dati del rapporto 2018 elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità. Con i reati nel settore agroalimentare che aumentano del 59 per cento. I settori più colpiti da truffe sono il vino con +75% nelle notizie di reato, la carne dove sono addirittura raddoppiate le frodi (+101%), le conserve con +78% e lo zucchero dove nell'arco di dodici mesi si è passati da zero e 36 episodi di frode. Più di un italiano su cinque è stato vittima di frodi alimentari con l'acquisto di cibi fasulli, avariati e alterati. Sotto accusa sono soprattutto i cibi low cost, dietro ai quali spesso si nasconde l'uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi, denuncia Coldiretti, ma possono a volte mascherare anche vere e proprie illegalità. "Occorre verificare la filiera, la tracciabilità, tutelare le azienda sane che sono il 99 per cento e andare a beccare i delinquenti. A monte di tutto, poi, c'è la difesa del made in Italy in sede Ue perché la contraffazione è un incentivo alla criminalità organizzata", il commento del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Nell'ultimo anno sono stati sequestrati 17,6 milioni di chili di alimenti di vario tipo per un valore di 34 milioni di euro con lo smantellamento di un'organizzazione fra Campania, Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Veneto che importava zucchero da Croazia, Isole Mauritius, Serbia e Slovenia e poi lo immetteva nei canali del mercato nero attraverso fatture false per rivenderlo a prezzi stracciati a imprenditori che lo usavano per adulterare il vino. Chi se lo può permettere, continua a prediligere i prodotti Made in Italy (ben l'82,7 per cento), il 67,7% controlla l'etichettatura e la provenienza dei prodotti. Gli italiani si orientano nella gran parte dei casi verso i prodotti di stagione, privilegiati dal 73,7 per cento, verso i prodotti con marchio Dop, Igp, Doc (il 56 per cento li compra spesso) e senza olio di palma (55,8 per cento); quasi la metà (49,3 per cento) privilegia i prodotti a Km 0. I prodotti biologici vengono acquistati spesso dal 41,3 per cento del campione. Eppure superano un terzo (37 per cento) i consumatori che, indipendentemente dalla provenienza, scelgono i prodotti più economici. L'agricoltura e l'alimentare restano aree prioritarie di investimento dalla malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché del cibo, anche in tempi di difficoltà, nessuno potrà fare a meno, ma soprattutto perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la vita quotidiana della persone in termini economici e salutistici. Di fronte al moltiplicarsi dei casi di frode e contraffazione alimentare più della metà italiani chiede - continua la Coldiretti - che venga sancita la sospensione dell'attività. "E' necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l'ambiente, il lavoro e la salute - afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini che aggiunge - oltre ad applicare l'indicazione d'origine su tutti i prodotti va anche tolto in Italia il segreto sui flussi commerciali con l'indicazione delle aziende che importano materie prime dall'estero per consentire interventi mirati in situazioni di emergenza anche sanitaria che si ripetono sempre più frequentemente".
Come difendersi dal cibo taroccato, scrive Andrea Cuomo, Venerdì 15/02/2019, su Il Giornale. S e il mondo è pieno di ristoranti «Cosa Nostra» e di vini «Il Padrino» in fondo non è strano. È logico, anzi. Perché una parte non trascurabile di quello che mangiamo è frutto di affari loschi, gestiti da organizzazioni criminose talora transnazionali che delinquono in tutte le fasi della filiera del cibo, dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita. Con danni per il nostro portafogli, per il nostro palato, per l'ambiente, talora per la nostra salute. È di 24,5 miliardi di euro il giro di affari annuo dell'«agromafia» secondo il sesto rapporto elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell'agroalimentare presentato ieri a Roma. Un business enorme e in continua crescita: +12,4 per cento nel 2018 rispetto al 2017. Dentro c'è di tutto. Cibi coltivati o lavorati da manodopera irregolare, maltrattata o minorile. Merci che vengono spacciate per italiane ma non lo sono. Aziende e ristoranti aperti con soldi riciclati. Ma, naturalmente, quelli che ci inquietano di più sono i prodotti contraffatti, avariati o alterati, a volte del tutto «falsi». Ecco alcuni di loro.
Mozzarella sbiancata con la soda. Fa inorridire il pensiero, eppure un modo economico per produrre una mozzarella che ovviamente tale non è ma può sembrarlo è produrre un formaggio di pasta filante e sbiancarlo con il carbonato di soda e il perossido di benzoile (ma c'è chi lo fa addirittura con la calce).
Pesce «rinfrescato». Si chiama «cafados» (ma anche «cafodos») ed è un additivo di provenienza spagnola che in Italia non è commerciabile. Viene utilizzato da solo o con aggiunta di acqua ossigenata e fa il miracolo di far sembrare freschissimo anche il pesce che è stato tolto dalla rete in epoche remote. Il «cafados» non è di per sé tossico, ma, ovviamente, lo è indirettamente, dal momento che potrebbe spingerci ad acquistare, e quindi a mangiare, pesce avariato. Il problema è inoltre che questa sostanza non è facile da reperire, visto che a contatto con acqua e ghiaccio si dissolve. I pesci più facilmente sottoponibili a questo make up sono sardina acciuga, tonno, sgombro e palamita. Come rimediare? Guardare il pesce negli occhi, che non mentono. E, se possibile, tastarlo per capire se la carne è soda e elastica.
Carne di macelli clandestini. Li immaginiamo come ambientazione di un noir suburbano, ma sono una triste realtà anche nelle nostre città, in particolare del Sud. Sono luoghi privi di autorizzazione e, quindi, del rispetto delle più elementari norme igieniche e utilizzano manodopera in nero, in essi vengono macellati cavalli, ma anche altri animali spesso frutto di abigeato (furto di bestiame). La carne rientra, nelle ultime fasi, nei canali «ufficiali», ma altre volte viene smerciata in canali paralleli che attirano anche comuni cittadini sedotti dai prezzi «low cost».
Pane cotto in forni tossici. Anche in questo caso è un problema soprattutto meridionale, legato ai tanti forni clandestini che operano per lo più attorno a Napoli e sono gestiti dalla Camorra. Chiamato in gergo «pane cafone», è spesso cotto in forni con legno proveniente da mobili distrutti e, quindi, verniciato, a volte senza nemmeno togliere i chiodi. In un caso, nel 2013, fu trovato addirittura legno di bare.
Miele «tagliato». Di miele si parla poco, ma è un prodotto adorato dalle agromafie a causa del fatto che in Italia, e in Europa, la domanda è molto superiore alla produzione. Quello italiano, molto pregiato, viene così «sostituito» da un prodotto proveniente dall'Est Europa o dalla Cina. Ma il miele viene anche adulterato grazie a «tagli» con sciroppi di riso, mais, zucchero che ne gonfiano il volume a basso prezzo.
Tartufo cinese. Il pregiatissimo tubero è una manna per i contraffattori a causa dell'elevatissimo costo che «premia» coloro che riescono a mascherarlo. Ad esempio, capita sovente che l'esotico, ma non pregiato, Tuber indicum proveniente dalla Cina, venga spacciato per l'ottimo tartufo nero nostrano, a cui assomiglia molto.
Vino allo zucchero. Le contraffazioni del nettare di Bacco sono cresciute del 75 per cento nell'ultimo anno. Si tratta, per lo più, di «tagli» di un vino certificato da un disciplinare con un vino meno pregiato che non rientra nell'area di legge. Ma, soprattutto, dell'aggiunta dello zucchero per aumentare il titolo alcolometrico, pratica vietatissima in Italia.
Olio colorato. È quello di semi, scadente e sbiadito, ma che, colorato con la clorofilla, può, almeno cromaticamente, essere spacciato per un ottimo extravergine d'oliva.
· “La porcata” di Parma.
Prosciutto, lo scandalo sulle cosce col marchio falso: ecco come riconoscere quello che ti porti in tavola. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Lo scorso anno c' è stato uno scandalo che ha scosso il made in Italy a tavola, Prosciuttopoli. Se n' è parlato meno di quanto la sua portata avrebbe meritato. Quasi due milioni di cosce di prosciutti di Parma e San Daniele Dop smarchiati, organismi di controllo sospesi e commissariati, le procure di molte città ad indagare su una truffa di dimensioni colossali. Le cosce ritirate dal circuito delle due Dop provenivano da maiali nati e allevati in Italia. Nulla a che vedere con i salumi tarocchi fatti a partire da materia prima tedesca, olandese o danese. La truffa era più sottile: le scrofe italiane venivano fecondate con seme di verri di razza Duroc danese, vietata dal disciplinare di produzione, che contempla invece il Duroc italiano. La differenza è notevole: i suini con il papà danese crescevano più in fretta dei nostri e così richiedevano una spesa minore per allevamento e alimentazione. Fra l' altro erano più magri e la loro carne diversa dalle cosce si vendeva più facilmente. Gli allevatori coinvolti sono stati centinaia, tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, quasi tutti rei confessi. «Per ripartire con la produzione le aziende hanno ammesso di aver partecipato alla frode», spiegò all' epoca dei fatti uno degli avvocati degli allevatori, Tom Servetto, a giudizio del quale però «era il mercato che imponeva agli imprenditori di allevare il Duroc danese. Il prodotto era più apprezzato: carne più magra e meno scarto. Veniva pagato meglio. Tutti sapevano tutto, ma ora a pagare sono soltanto loro».
TEST AGLI ANIMALI. Le indagini vanno avanti. Immagino che presto arrivino anche le prime condanne. Ma la novità più interessante è di questi giorni. Il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova ha annunciato giovedì la pubblicazione di un decreto che introduce test del Dna sui capi che entrino nelle filiere delle indicazioni geografiche. «D' ora in poi il sistema ufficiale dei controlli di tutte le produzioni Dop e Igp che utilizzino carne di suino pesante come materia prima viene potenziato, con procedure trasparenti e metodologie di analisi incontrovertibili» fa sapere la Bellanova, «che prendono a riferimento una banca dati ufficiali basata sull' analisi del Dna dei riproduttori utilizzati». In pratica il Dna di verri e le scrofe la cui carne entri ad esempio nella filiera dei Prosciutti di Parma o San Daniele verrà inserito in una banca dati ufficiale in modo che sia possibile risalire con certezza ai genitori di ogni singolo capo macellato. In pratica sarà possibile ricostruire la mappa genetica di tutto il patrimonio suinicolo delle nostre indicazioni geografiche. Le razze non previste dai disciplinari verrebbero individuate immediatamente con certezza assoluta. E finalmente si stanno muovendo anche i consorzi di tutela. Quello del Parma, ad esempio, ha deciso di creare una lista di tipi genetici ammessi e una banca dati che li contenga tutti: per ogni verro sarà registrata la sequenza di Dna che si potrà confrontare con quello di ogni singolo prosciutto. Naturalmente ogni verro che si voglia inserire nella banca dati del Dna, dovrà superare prima una specie di esame di idoneità genetica.
IDONEITA' GENETICA. D' altronde i test genetici sono entrati da tempo nei tribunali di mezza Italia per accertare l' origine delle materie prime utilizzate nelle produzioni agroalimentari. Il caso più clamoroso riguarda le 7mila tonnellate di finto olio extravergine italiano individuate nel 2015 presso tre grandi oleifici pugliesi dall' allora Corpo forestale dello Stato. Grazie all' esame del Dna fu possibile risalire all' origine della materia prima che arrivava in quel caso da Siria, Turchia, Marocco e Tunisia. Dopo un lungo braccio di ferro fra periti, la Procura di Bari sventò il tentativo dei truffatori di dichiarare inammissibile il test del Dna nei tribunali. Ora non servirà aspettare che intervenga la magistratura perché grazie ai controlli preventivi le eventuali truffe nel comparto suinicolo verrebbero scoperte subito. Attilio Barbieri
Dal “Fatto quotidiano” il 20 maggio 2019. "Terminata la stagionatura, se andrete ad acquistare un prodotto marchiato Parma, rischierete una volta su tre di essere frodati", cioè di comprare un prosciutto fatto con la carne di maiali allevati sì in Italia ma figli di scrofe inseminate con maiale danese "durok", più magro, molto richiesto, ma escluso dal disciplinare di produzione che consente di fregiarsi del marchio Dop, denominazione d' origine protetta. E conclusioni simili si possono trarre per il San Daniele. Sono prosciutti comuni, buoni per carità, ma senza i marchi Dop il prezzo al dettaglio non potrebbe mai salire fino a 54 euro al chilo. È l' inchiesta di Emanuele Bellano con Alessia Cerantola e Greta Orsi, intitolata "La porcata", che Sigfrido Ranucci presenta nella puntata di stasera di Report (Raitre, 21,30). Le indagini degli ispettori del ministero dell' Agricoltura e dai carabinieri del Nas, coordinate dalle Procure di Torino e Udine, sono note. Un milione di cosce di prosciutto sequestrate per un valore di quasi 100 milioni di euro, i prosciutti a cui è stato revocato il marchio Dop sono circa il 20 per cento della produzione annua di Parma e San Daniela. Report ricorda i 200 indagati e i recenti patteggiamenti di una decina di allevatori: pene fino a 14 mesi di reclusione. Bellano ha intervistato il tecnico che gira per gli allevamenti con i semi del maiale danese. Ma soprattutto presenta documenti, una relazione dell' associazione degli allevatori e alcune recentissime email, in base ai quali afferma che "la frode è ancora in essere". Uno dei controllori scrive: "Mi è stato risposto che se cominciano a far rispettare la legge, sono 2000 euro di multa per ogni suino macellato, oltre il ritiro dal commercio, quindi roba improponibile". Report spiega che la conformità delle carni al disciplinare è affidata, per il Parma, all' Istituto Parma Qualità (Ipq), le cui quote sono in mano ai controllati e cioè il Consorzio di Parma e le associazioni degli industriali della carne e degli allevatori; la filiera Dop del San Daniele è vigilata dall' Ifcq di San Daniele del Friuli, di proprietà di un trust i cui beneficiari sono Assica, l'associazione industriali della carne e il consorzio del San Daniele stesso. E ancora, Report documenta le condizioni in cui vivono i maiali, perfino in allevamenti "sostenibili". Gli animali, tutti col tatuaggio delle filiere Dop, sono "ammassati, a stretto contatto sviluppano fenomeni di cannibalismo e si mordono le orecchie a vicenda"; qua e là spuntano topi. In un allevamento collegato al Parma, una scrofa malata viene invitata a spostarsi con un pistola elettrica, un' altra è abbattuta a martellate.
· Le problematiche degli allevamenti intensivi.
Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 2 ottobre 2019. Chi pagherà il conto della nuova folle crociata mondiale contro il riscaldamento globale? Perché statene certi, se il terrore è stato seminato con tale religioso fanatismo è perché i governi o chi per loro dovranno primo o poi presentare il conto della conversione di interi settori dell'economia, di tagli feroci da una parte e di investimenti sontuosi dall' altra. E state altrettanto certi che alla fine a pagare saranno le categorie più deboli, quelle, solo per fare un esempio, che faranno più fatica a cambiare per l' ennesima volta l' automobile a benzina in una elettrica. Ma il futuro è già presente, perché c' è Greta, c' è il ghiacciaio del Bianco che scivola giù, quelli dell' Artico che si sciolgono, il tempo stringe e i politici devono pur fare qualcosa, è una questione anche di consenso. In Olanda per non perdere tempo hanno iniziato a prendersela non tanto con la CO2, ma con l' azoto che in alcune sue forme è considerato un gas serra ed è un problema annoso da quelle parti in quanto utilizzato a mani basse come fertilizzante. Stabilito che nell' aria c' è troppo protossido di azoto, famoso tra l' altro per essere il gas esilarante, e che l'Olanda avrebbe dunque in questo senso violato le norme Ue sulla protezione della natura, a maggio scorso il Consiglio di Stato dell' Aia ha puntato il dito contro la disinvolta concessione di permessi per l'edilizia e l' agricoltura e ha bloccato migliaia di progetti già approvati. La scorsa settimana poi un comitato consultivo ha dichiarato che sono assolutamente necessarie misure drastiche, sia in agricoltura che sulle strade olandesi, e tanto per rincarare la dose il deputato liberale Tjeerd de Groot ha chiesto di dimezzare la produzione di bestiame, cioè in pratica di abbattere dall' oggi con il domani sei milioni di suini e 50 milioni di polli. Gli allevatori e gli agricoltori, già sul piede di guerra in quanto indicati tra i principali untori di CO2 del Paese, hanno deciso di passare dalle parole ai fatti e di scendere in strada coi trattori bloccando, come hanno fatto ieri, le principali arterie del Paese. Complice la pioggia a dirotto pare che l'Olanda abbia conosciuto il suo peggior giorno in termini di viabilità. Vi ricorda qualcosa? Più o meno è quello che è successo lo scorso anno in Francia con i gilet gialli che hanno iniziato la loro ondata di proteste proprio contro l' aumento del carburante giustificato da Macron con motivazioni ambientaliste e addirittura geopolitiche («non vogliamo che il portafoglio dei francesi finisca nelle mani dei Paesi produttori di petrolio» disse il portavoce dell' Eliseo). In entrambi i casi la rivolta arriva dalla gente comune, da quelli che vivono lontano dalle capitali e che non godono dei privilegi in termini di servizi delle grandi città. Arriva dalle cittadine di provincia, già penalizzate dalla crisi e da una successiva crescita economica non all' altezza del loro passato. Dalle campagne, da gente che vive ancora di lavori tradizionali, come appunto l'agricoltore e l'allevatore, e che adesso viene perfino accusata di essere tra i principali responsabili del futuro incerto dell' umanità intera. «Ci sentiamo come se fossimo messi all' angolo da personaggi che vivono in città e che vengono qui e ci dicono come dovrebbero essere le cose in campagna, come dobbiamo vivere», ha detto uno degli organizzatori della protesta, Mark van den Oever. Ma la rabbia degli allevatori in questo caso non è rivolta solo contro i politici che vogliono dimezzare gli allevamenti, ma anche contro quella società benestante e all' avanguardia, che dipinge li dipinge come "dierenmishandelaars", letteralmente "trafficanti di animali", mostri, che oltre ad allevare bestie che "inquinano", maltrattano le stesse, le uccidono e le macellano. Non a caso ieri in piazza all' Aia sono scesi in strada per una contromanifestazione anche gli animalisti esaltati di Direct Action Everywhere, che sostengono come il liberale Tjeerd de Groot che gli allevamenti del Paese vanno ridimensionati, se non eliminati, a prescindere.
LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PAC. La denuncia di Greenpeace: «I fondi europei? Se li mangiano i maiali». «In Europa il 71% delle aree agricole serve per produrre cibo per animali, non per gli uomini». La scomparsa delle aziende agricole più piccole. I rischi per l’ambiente e per la salute delle persone. E la petizione per cambiare le regole Ue: «Niente soldi agli allevamenti intensivi», scrive Alessandro Sala il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. Il 71% di tutta la superficie agricola dell’Unione europea è destinato all’alimentazione del bestiame e di conseguenza solo il restante 19% a prodotti coltivati per il consumo diretto delle persone. Agli allevamenti intensivi e alle aziende che producono alimenti per il bestiame la Ue versa, attraverso la Politica agricola comune (Pac) una somma compresa tra i 28,5 e i 32,6 miliardi di euro, secondo meccanismi che favoriscono le aziende di maggiori dimensioni, con la conseguenza della progressiva scomparsa di quelle più piccole, mentre quelle più grosse incrementano il numero dei capi allevati. Non solo: quattro Paesi dell’attuale Ue a 28 Stati — Germania, Francia, Spagna e Regno Unito — sommano più della metà dei capi di bestiame allevati nel territorio comunitario (nello specifico: il 54% dei bovini, il 50% dei suini e il 54% di ovini e caprini).
Verso la nuova Pac. I numeri emergono da un rapporto che Greenpeace ha commissionato al giornalista investigativo Nils Mulvad, data specialist e fondatore del sito FarmSubsidy.org, e che viene pubblicato oggi in tutta Europa. Il rapporto — titolo originale Feeding the problem, che in italiano diventa un eloquente «Soldi pubblici in pasto agli allevamenti intensivi» — è accompagnato da una petizione internazionale che chiede a Bruxelles di rivedere i criteri con cui vengono erogati i fondi comunitari, con una netta virata verso l’agricoltura sostenibile. La discussione sulla Pac (che drena da sola il 40% del bilancio Ue) per il periodo 2021-2027 è già avviata: in questi giorni se ne parla in commissione Ambiente, a marzo approderà in commissione Agricoltura. E ad aprile potrebbe approdare nell’aula dell’Europarlamento. Ma difficilmente la pratica si chiuderà in questa legislatura ormai agli sgoccioli e toccherà dunque ai prossimi governanti europei definire le nuove linee guida del sistema agricolo comunitario. «A parole dicono tutti di volere spostare l’attenzione su un’agricoltura sostenibile — commenta Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia —, ma di fatto non si cambiano le regole di erogazione dei contributi, che spazzano via le aziende più piccole facendo cambiare volto all’allevamento nel nostro continente».
La scomparsa dei piccoli. Lo studio evidenzia che tra il 2005 e il 2013 hanno cessato la loro attività circa 3,7 milioni di aziende agricole (passate da 14,2 a 10,7 milioni), con un calo del 26%. Nel solo settore zootecnico la riduzione è stata del 32% in termini proporzionali e di quasi 3 milioni in numeri assoluti. Parallelamente al calo del numero di aziende, aumentano le dimensioni di quelle che restano operative. I dati raccolti da Eurostat certificano che nel periodo preso in considerazione le aziende di grandi dimensioni hanno aumentato di 10 milioni le «unità di bestiame», arrivando ad un totale di 94 milioni. Con il risultato che quasi tre quarti dei capi (il 72,2%) nel 2013 risultavano allevati da aziende di grandi dimensioni. Nello stesso periodo il numero di quelli allevati nelle aziende più piccole si è più che dimezzato e ora supera di poco il milione. Greenpeace sottolinea dunque l’impatto che a livello socio-economico questo trend sta generando. Il denaro dei contribuenti non viene utilizzato per sostenere l’agricoltura tradizionale e la coltivazione di prodotti destinati direttamente alle persone, bensì per alimentare una filiera che ruota alla produzione di carne e che avvantaggia soprattutto i grandi gruppi. «Come dire che i fondi europei se li mangiano i maiali» dicono gli ambientalisti.
La produzione di carne. Tra il 2000 e il 2017 la produzione lorda di carne nell’Ue è aumentata del 12,7%, passando da quasi 42 milioni di tonnellate a quasi 48. Le previsioni sul consuntivo del 2018, ancora non disponibile, parlano di un ulteriore aumento di 871 mila tonnellate. Gli effetti di questo trend sono negativi anche da un punto di vista ambientale perché gli allevamenti sono responsabili del 12-17% dei gas serra prodotti nel territorio Ue. Al settore agricolo sarebbe ascrivibile anche l’80% delle emissioni europee di ammoniaca in aria e di azoto nelle acque, di cui l’80% ascrivibile agli allevamenti. Il Rapporto europeo sull’azoto certifica che questo tipo di inquinamento costa all’Ue fino a 320 miliardi di euro all’anno ed espone circa 18 milioni di persone al rischio di bere acqua con concentrazioni di nitrati superiori ai livelli raccomandati per la salute umana.
L’antibioticoresistenza. E sempre in campo sanitario, gli allevamenti intensivi sono considerati tra i principali responsabili dell’antibioticoresistenza, ovvero la capacità di batteri di sviluppare assuefazione agli antimicrobici utilizzati in grandi quantità negli allevamenti. Questo significa rendere progressivamente inefficaci gli antibiotici per uso umano perché i batteri che colpiscono animali e uomo anche se differenti appartengono alle stesse famiglie. Non a caso l’Oms ha definito l’antibioticoresistenza «emergenza sanitaria globale». Ecd, Efsa e Ema nel 2017 hanno pubblicato una relazione congiunta che ha evidenziato come l’uso di antibiotici per animali sia stato nella Ue più del doppio rispetto a quello di antibiotici in medicina umana.
Una dieta più «veg». La soluzione? Spingere sempre di più verso un’alimentazione a prevalenza vegetariana. Il rapporto Lancet pubblicato a gennaio segnala la necessità di una riduzione di almeno il 50% dei consumi di carne rossa e di un raddoppio del consumo di legumi, noci, frutta e verdura. Per una questione di salute, perché i consumi di carne e latticini nella Ue sono stimati in circa il doppio rispetto a quelli raccomandati, ma anche di tutela dell’ambiente. Greenpeace cita studi secondo cui il dimezzamento di prodotti di origine animale permetterebbe di ridurre le emissioni di gas serra europee del 25-40%.
Cambiare le regole. Nell’anno del rinnovo del Parlamento europeo c’è dunque l’invito a cambiare le regole con cui la Ue finanzia il settore agricolo e zootecnico. «Anche perché — dice ancora Federica Ferrario — quella sulla quantità sarà una battaglia persa nei confronti di Paesi come gli Usa o il Canada che possono contare su territori vasti e non hanno una tradizione di qualità da difendere. Non hanno, come noi, un made-in-Italy da giocarsi, un valore aggiunto di eccellenza da far valere. Se il nostro prodotto si snatura non può più essere difeso. Sono temi scottanti, hanno a che fare con i guadagni immediati. Ma ci si ragiona e si corre ai ripari ora che si riesce ancora a cambiare rotta, oppure si finisce col soccombere». Greenpeace chiede alla Ue di avviare politiche che inducano gli allevatori a produrre meno e meglio e il settore agricolo a produrre più frutta e verdura. Inoltre, per il gruppo ambientalista, vanno stabiliti criteri rigidi sul numero di capi posseduti e di conseguenza sull’inquinamento prodotto e a questi far sottostare l’erogazione di finanziamenti pubblici. Secondo un principio: niente soldi a chi mette a rischio l’ambiente.
Ferrario (Greenpeace): «La Ue cambi rotta, oggi dà più soldi a chi inquina di più». Federica Ferrario, responsabile agricoltura di Greenpeace Italia: «Agire ora prima che sia troppo tardi. La battaglia deve essere sulla qualità della produzione, non sulla quantità», scrive Alessandro Sala il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. Fotografare la realtà dell’agricoltura in Europa non è semplice. Gli Stati membri non forniscono statistiche omogenee e i dati vanno raccolti in diverse banche dati. E’ quello che ha fatto Greenpeace affidandosi, per il suo rapporto sullo stato della politica agricola comunitaria, a enti, osservatori e istituti di statistica istituzionali. «Tutti i dati da cui siamo partiti – conferma Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia – provengono da fonti istituzionali».
«Agire subito». Numeri che risultano impietosi, che evidenziano una politica agricola fortemente sbilanciata verso l’allevamento con conseguenze immediate e probabilmente future sulla preservazione dell’ambiente e sulla salute delle persone. Che avranno costi sociali ed economici che si ripercuoteranno direttamente sui cittadini, chiamati a pagare per le politiche di risanamento ambientale ma anche i costi sanitari, compresi quelli per le malattie legate al consumo eccessivo di carni rosse e prodotti di origine animale, che anche in Europa sono in crescita nonostante le raccomandazioni dell’Oms di limitarli. «Per questo abbiamo deciso di agire subito, ora che la Politica agricola comune è in fase di revisione – dice ancora Ferrario -. C’è ancora la possibilità di invertire la tendenza, prima che sia troppo tardi».
Le responsabilità degli allevamenti. Troppo tardi per l’assetto socio-economico delle aree rurali, dove sono sempre di meno le aziende di medie e piccole dimensioni in grado di competere con le grandi anche nell’assegnazione dei fondi comunitari, oggi sono distribuiti tenendo conto prevalentemente degli ettari di superficie di ciascun operatore. Ma anche per la salvaguardia del territorio e della salute pubblica. «Gli allevamenti industriali hanno grandi responsabilità nell’inquinamento atmosferico e dei suoli – conferma l’esperta di Greenpeace -. Quello che chiediamo è un cambio di paradigma e di vincolare l’assegnazione dei fondi comunitari, ovvero del denaro pubblico, alle pratiche di agricoltura sostenibile. Oggi, paradossalmente, quel denaro arriva soprattutto a chi inquina di più».
La campagna di Greenpeace. La campagna di Greenpeace è iniziata lo scorso anno con l’avvio di una petizione pubblica che chiede alla Ue di indirizzare i propri finanziamenti all’agricoltura di qualità e sostenibile. «Che spesso — fa notare Ferrario — va a braccetto con aziende di dimensioni più piccole. Inoltre, se vogliamo evitare conseguenze più devastanti legate ai cambiamenti climatici è necessario dimezzare a livello globale il consumo di prodotti di origine animale, altrimenti non riusciremo a frenare la compromissione dell’ambiente né comunque a tenere in piedi questo modello economico». Puntare sulla quantità rischia di essere una battaglia persa in partenza per l’Europa nel confronto con nazioni come gli Stati Uniti o il Canada, dotati di ampi territori e di conseguenza avvantaggiati sul piano dei grandi numeri, che con i trattati internazionali tipo il Ceta potrebbero riuscire a sfondare nel mercato europeo.
La sfida della qualità. Ecco perché la sfida dovrebbe essere puntata sul piano della qualità. Un obiettivo che andrebbe perseguito in particolare dalle aziende italiane, considerato che il Made in Italy e i marchi dop sono un valore aggiunto di cui altri non dispongono. «Eppure – sottolinea Ferrario – anche da noi si assiste ad una tendenza all’estensione degli allevamenti che non è garanzia di qualità e di controllo. Se siamo noi i primi a snaturare il nostro prodotto, poi non possiamo più difenderlo. Questi sono temi scomodi, ma o ci si ragiona ora che è ancora possibile cambiare rotta, oppure si finirà col soccombere».
Se gli allevamenti intensivi sono una bomba ecologica anche in Italia, scrive il 19 aprile 2018 Beatrice Montini su Il Corriere della Sera. Il primo allevamento intensivo della storia è nato per caso. Anzi di più: per sbaglio. Quando nel 1923 Cecilia Steel, di Oceanview (nel Delaware), ricevette 500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Così li chiuse tutti in un capannone e li nutrì con mais e integratori. L’operazione riuscì e Steel la replicò. Fino a quando divenne milionaria. Dai polli poi si passò ai maiali, poi alle mucche e ai conigli. Oggi si stima che circa 70 miliardi di animali siano allevati ogni anno in maniera intensiva. Diventeranno 120 miliardi entro il 2050. I numeri del fenomeno parlano quasi da soli e – nonostante la resistenza di molti – dopo il rapporto del 2006 della Fao “La lunga ombra degli allevamenti intensivi” i costi ambientali della nostra “fame di carne” non sono più stati messi in dubbio. Negli ultimi anni – con l’ulteriore crescita del consumo nel mondo di proteine animali – il tema si è imposto anche nell’agenda della maggiori associazioni ambientaliste. Non a caso recentemente Greenpeace ha lanciato una campagna proprio per dimezzare il consumo di carne e latticini. E in Italia la situazione come’è? “Con 12 milioni di animali cresciuti e macellati ogni anno in poche decine di chilometri quadrati, l’allevamento industriale di suini in Italia è una vera e propria bomba ecologica”, si legge nel rapporto “Prosciutto nudo” dell’associazione ambientalista Terra Onlus che cerca di tirare le somme sull’impatto dell’allevamento dei maiali ne nostro Paese. “Come in molti paesi occidentali, anche in Italia assistiamo a una progressiva riduzione dei piccoli allevamenti – spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra e coautore del dossier – A questo corrisponde una crescita del numero di capi per azienda e la definitiva affermazione di un modello di allevamento intensivo con alti costi ambientali, che investono anche le comunità locali e rappresentano un rischio per la salute pubblica, con lo sviluppo di batteri divenuti resistenti alle massicce dosi di antibiotici somministrate agli animali”. Il 90% dei suini italiani è rinchiuso nel 10% di allevamenti con più di 500 capi. Quasi la metà dei maiali allevati si trova in Lombardia, con ben 3.937.201 capi. In cima alla classifica c’è la provincia di Brescia, con i suoi 2.180 allevamenti per un totale di 1.289.614 capi, più dei suoi residenti umani (1.262.678). I suini “autoctoni” coprono circa il 60 per cento del fabbisogno del nostro paese, in cui ogni anno vengono macellati circa 12 milioni di capi. Il resto è di “origine straniera”, prevalentemente nordeuropea (Olanda e Danimarca). Uno degli aspetti più impattanti degli allevamenti è quello delle deiezioni: l,’alta concentrazione di animali in così poco spazio rende infatti questi resti altamente inquinanti perché ricchi di azoto, fosforo e potassio. A tali sostanze vanno aggiunti i farmaci somministrati agli animali, che finiscono con i resti nelle falde acquifere e nell’ambiente. Basti pensare che nel corso di un anno un suino può produrre feci pari a 15 volte il suo peso. “In termini di impatto, poiché i suini producono in media tre volte la quantità di feci degli esseri umani, è come se in Italia ci fosse una popolazione aggiuntiva di oltre 25 milioni di persone”. Ma non solo. “Ogni chilo di prosciutto prodotto comporta 11 chili di deiezioni, 4 chili di cereali consumati dall’animale, 6 mila litri d’acqua e 12 chili di CO2”, si legge ancora nel dossier. Secondo Ciconte, “il modello di allevamento industriale ha trasformato miliardi di animali in macchine fornitrici di materia prima, con impatti giganteschi sul pianeta. Contribuisce al disboscamento di aree ecologicamente importanti come la foresta amazzonica, inquina le falde acquifere e l’atmosfera, aggrava il cambiamento climatico, produce antibiotico-resistenza ed ha un consumo d’acqua spropositato. È necessaria quindi una inversione di rotta, sia attraverso una drastica riduzione del consumo di carne, sia attraverso una maggiore consapevolezza sugli effetti che gli allevamenti intensivi hanno sul pianeta”. “È urgente costruire un modello di trasparenza in cui al consumatore siano indicati in etichetta i costi ambientali della produzione di carne – raccomanda il direttore dell’associazione – Bisogna rendere obbligatoria la dicitura “da allevamento intensivo” per tutti i prodotti a base di carne, così da esplicitare il modo di allevamento e gli impatti associati, contribuendo a rompere quella distanza cognitiva che si è venuta a creare tra la carne che consumiamo e l’animale da cui proviene”.
La vita in gabbia dei conigli nello spazio di un foglio A4. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Beatrice Montini su Corriere.it. Nelle gabbie tradizionali, così come in quelle «arricchite», lo spazio è quello di un foglio A4. Qui i conigli «da carne» vivono la loro vita. Per quegli ottanta giorni (12 settimane) prima di andare al macello, i conigli sono costretti a poggiare le zampe per lo più su pavimenti di filo metallico, non possono stare eretti sulle zampe posteriori, non possono correre, saltare. Tutte condizioni che sono state documentate nella nuova indagine realizzata da Ciwf in tre allevamenti italiani (di cui il Corriere della Sera fornisce un video in anteprima). Altre immagini – che saranno diffuse nei prossimi giorni – provengono da altri allevamenti in diversi Stati membri e sono girate negli anni scorsi da Animal Equality e Ciwf. Nell’Ue ogni anno si allevano circa 120 milioni di conigli, il 94% in gabbia. In Italia si parla di circa 21 milioni di animali. «Queste immagini – sottolineano dall’associazione - confermano come i sistemi di allevamento in gabbia siano diffusi nella maggior parte dei Paesi Ue. Ma la vita in gabbia non è crudele solo per i conigli». Con la diffusione di questa investigazione e con l’iniziativa dei cittadini europei «End the Cage Age», 145 organizzazioni chiedono la fine dell’uso di tutte le gabbie negli allevamenti. In Italia sono 20 le associazioni che aderiscono all’iniziativa: da Animal Law a Lega Nazionale Difesa del Cane, da Legambiente a Lav. E sono già 750 mila le persone che hanno firmato la petizione che sarà inviata alla Commissione Ue. «Sono già passati due anni dalla risoluzione del parlamento europeo a favore di migliori condizioni di allevamento per i conigli – dice Annamaria Pisapia, direttrice Ciwf Italia Onlus - purtroppo non è stato compiuto nessun passo significativo a favore di questi animali, che continuano a soffrire a decine di milioni nelle gabbie della UE. Ora finalmente abbiamo una straordinaria opportunità di mostrare che i cittadini vogliono per questi animali una esistenza migliore fuori dalle gabbie, e di ottenerla».
Che vuol dire «benessere animale» negli allevamenti intensivi? Le risposte per allevatori e Ministero (e le idee diverse dei consumatori). Il 94% degli italiani ritiene importante il benessere degli animali negli allevamenti e il Ministero della Salute sta definendo le nuove linee guida. Ma c’è una sfida sul significato della parola. E si gioca tra produttori, scienziati, supermercati e consumatori, scrive Francesco De Augustinis il 20 marzo 2018 su Il Corriere della Sera.
Cosa significa «benessere animale»? Questa definizione può essere applicata alla produzione di carne e derivati animali senza perdere di significato? Anche se parliamo di produzione di massa in allevamenti intensivi? Queste sono domande etiche, ma anche questioni su cui in questi giorni allevatori, scienziati e... supermercati in Italia stanno proponendo delle risposte da dare ai consumatori, in particolare per quanto riguarda la produzione di suini.
Benessere e allevamenti intensivi. «Noi studiamo il benessere animale per gli allevamenti intensivi. Questa è la conditio sine qua non per garantire proteine animali a tutta la popolazione». Sgombera subito il campo da equivoci sulla sua interpretazione del significato di «benessere» Luigi Bertocchi, dirigente veterinario dell’Istituto zooprofilattico della Lombardia ed Emilia Romagna. Con sede a Brescia, l’istituto è uno dei principali in Italia. Qui Bertocchi è il responsabile del Centro di referenza nazionale per il benessere animale (Crenba), che per conto del Ministero della Salute sta definendo delle nuove linee guida per il benessere dei suini negli allevamenti italiani.
L’etica dei consumatori. Il benessere degli animali da produzione è diventato un argomento con cui gli allevatori in Italia hanno iniziato a confrontarsi per far fronte alle richieste del mercato. Nel 2016 un sondaggio Eurobarometro sosteneva che il 94 per cento dei cittadini (sia in Europa che in Italia) riteneva «importante» il benessere degli animali negli allevamenti. Un dato che si è tradotto nell’esigenza di alcune catene della Gdo di poter scrivere «allevato nel rispetto del benessere animale» sui propri prodotti. Richiesta inoltrata agli allevamenti, che adesso -insieme alle istituzioni- ipotizzano risposte che giustifichino un’etichetta del genere. Un progetto sul «benessere per i suini» era stato annunciato già lo scorso ottobre da Silvio Borrello, capo dei servizi veterinari italiani per il Ministero della Salute. Un “cantiere aperto” affidato proprio ai veterinari del Crenba di Brescia.
La domanda di carne. Fino ad allora il Crenba aveva pubblicato delle linee guida solo per il benessere dei bovini, prese come punto di riferimento dagli allevatori e dai gruppi della Gdo (grande distribuzione organizzata) per certificare carni e formaggi. Anche in quel caso parliamo di produzione intensiva, dove il «benessere» ammette l’allevamento «a pascolo zero», con le vacche da latte confinate in stalla per tutta la vita: «Non stiamo parlando di mucche al pascolo: finché la gente mangerà carne dovremo produrla così», chiarisce ancora Bertocchi. «Consideri che la domanda di carne è destinata a raddoppiare nei prossimi 30 anni», afferma il dirigente, che parla della necessità di «educare il consumatore» ad una corretta interpretazione del termine «benessere». Un’interpretazione che adesso è molto diversa a seconda di chi sia a darla: la grande distribuzione, gli allevatori o le persone per strada.
Le norme Ue e l’Italia. Le norme UE – Il lavoro del Ministero sulla certificazione del benessere dei suini ha avuto una brusca accelerazione a metà novembre, quando una visita di ispettori per conto della Commissione europea ha bacchettato severamente l’Italia per il mancato rispetto delle attuali norme europee sul benessere. «Le autorità italiane non hanno intrapreso azioni efficaci per applicare gli obblighi della Direttiva contro la morsicatura delle code e per evitarne il taglio routinario», si legge nell’introduzione al rapporto stilato dagli esperti UE. «I produttori di suini (italiani, ndr) sono convinti che i loro allevamenti siano in regola con la normativa, e che non sia possibile allevare suini con la coda nel sistema di allevamento italiano. Convinzioni che rappresentano un serio handicap per le autorità per cambiare lo status quo».
Il taglio della coda. La questione del taglio della coda è considerata centrale da chi si occupa di «benessere» negli allevamenti intensivi, in quanto la coda è un «indicatore» del livello di stress degli animali: dove le condizioni di vita sono peggiori, maggiori sono gli episodi di «morsicatura della coda» tra i capi. Il taglio preventivo della coda avviene proprio per evitare queste forme di «cannibalismo da stress», che potrebbero comportare effetti collaterali e infezioni. Sebbene sia una pratica vietata in Europa dal 2008 (se non in casi eccezionali), in Italia in sostanza la totalità degli allevamenti pratica il taglio della coda preventivo su tutti i capi.
La battaglia di Ciwf Italia. Smettere il taglio sistematico della coda ad oggi è anche la principale richiesta di Compassion in world farming (Ciwf), l’ong che si occupa in Italia di benessere degli animali di allevamento. «La normativa è ampiamente disattesa», afferma Elisa Bianco di Ciwf. «Riuscire ad allevare animali con la coda lunga è il principale indicatore che permette di dire che quell’ambiente è più o meno adatto alle esigenze del suino». Tra le richieste di Ciwf negli allevamenti intensivi, l’abbandono delle gabbie di gestazione per le scrofe e l’adozione di ulteriori «arricchimenti» ambientali per tutti i capi, in particolare con l’utilizzo di un suolo di paglia.
L’impegno europeo. In Europa nei giorni scorsi è stata annunciata la costituzione di un Centro europeo per il benessere animale. Si tratta di un centro di riferimento per il «benessere» negli allevamenti intensivi, che avrà sede in Olanda raccogliendo i ricercatori dei centri di referenza di Olanda, Germania e Danimarca, tutti e tre Paesi tra i principali produttori suinicoli del continente.
Animali ammassati, cannibalismo: l’inferno negli allevamenti intensivi di maiali in Lombardia. Il consorzio di Parma: «Campagna denigratoria». Ancora immagini di denuncia dalla Lav che è entrata dentro sei allevamenti intensivi nelle province di Brescia, Mantova e Cremona. L’inchiesta sui media britannici, scrive Beatrice Montini su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2018. Nelle gabbie di gestazione le scrofe non hanno lo spazio per muoversi. I maialini le circondano, cercano il contatto. Così accade che rimangano schiacciati. Fuori da uno dei capannoni, si vedono decine di carcasse di maiali morti. E ancora: ratti e topi che corrono. I maiali, vivendo ammassati, urinano gli uni sugli altri. Feci e urine sono presenti nelle mangiatoie e ricoprono il corpo degli animali. Le immagini arrivano da sei allevamenti intensivi che si trovano in Lombardia. Tra le province di Brescia, Mantova e Cremona. Sono state girate nei mesi scorsi attraverso un’investigazione portata avanti dalla Lav, membro di Eurogroup for Animals, e diffusa dai media britannici che denunciano le «condizioni illegali» in cui vengono tenuti gli animali. Quattro di questi allevamenti - denuncia ancora Lav - forniscono la carne per il Consorzio del Prosciutto di Parma.
«Illegalità diffusa». Sono numerose le pratiche non conformi alle leggi attuali che - denuncia Lav - vengono testimoniate da questi filmati. Dal taglio della coda sistematico - illegale nell’Ue da oltre 20 anni - alla presenza di animali malati che necessitano cure veterinarie. «In un caso, una scrofa gravemente emaciata e zoppa situata in un box di gestazione striscia con difficoltà verso la mangiatoia - raccontano dall’organizzazione animalista - La stessa scrofa viene poi ripresa mentre si stende svogliatamente sul pavimento tremante, chiaramente bisognosa di cure veterinarie urgenti». In alcuni degli allevamenti, i maiali sono tenuti in recinti talmente sovraffollati che gli animali non riescono neanche ad abbeverarsi. Non c’è mai luce naturale. Che in alcuni casi rimane accesa 24 ore al giorno. «Non c’è aria fresca in nessuno dei capannoni e i sistemi di ventilazione sono inefficaci - denuncia ancora Lav - Nessuno degli allevamenti indagati è fornito di zone esterne per i maiali». L'investigazione fa parte della campagna End Pig Pain, di Eurogroup for Animals, per chiedere ai Ministri dell'Agricoltura UE di migliorare il «benessere» dei suini negli allevamenti intensivi.
«Campagna denigratoria». Non è la prima volta che Lav e altre associazioni animaliste denunciano situazioni di questo tipo negli allevamenti di suini in Italia. Anche in altri casi il Consorzio del Prosciutto di Parma era finito nel mirino. In ogni caso si è sempre «dissociato» dalle situazioni mostrate chiedendo alle autorità competenti di «provvedere ai necessari accertamenti», sottolineando che comunque si tratta di una minoranza di casi. Stavolta la presa di distanza è categorica: «Da alcuni anni è in atto una campagna denigratoria e diffamatoria contro il Prosciutto di Parma posta in essere da alcune associazioni animaliste che sistematicamente e a intervalli regolari diffondono immagini scioccanti invitando il consumatore a non acquistare più il nostro prodotto. Lo scopo reale di tale campagna non sembra essere quello di tutelare gli animali, bensì attaccare il buon nome del Prosciutto di Parma. Il Consorzio ribadisce che nessuno dei suoi 145 produttori associati è mai stato denunciato o condannato per maltrattamento di animali e invitiamo caldamente gli autori delle riprese a rendere noti i nomi e a denunciare immediatamente gli allevamenti coinvolti nella loro indagine in modo da permettere alle Autorità competenti di procedere con i dovuti accertamenti».
Un po’ di dati. Gli allevamenti coinvolti che farebbero riferimento al marchio dop, sono quattro. Tutti gli allevamenti sono intensivi e su scala industriale, ciascuno comprende da 3 a 10 capannoni ed ha una capacità totale di 3.000-10.000 suini. L’intero settore impiega 50mila persone, conta 4mila allevamenti di suini, 118 macelli e 150 aziende di lavorazione che trasformano la carne cruda in prodotto finito. Nel 2016 sono stati macellati circa 11 milioni e 848mila maiali, venduti sotto forma di 8,7 milioni di prosciutti di Parma interi e 79 milioni di confezioni di prodotto già affettato. Oltre due terzi del Prosciutto di Parma prodotto sono consumati in Italia (68%), il resto viene esportato in oltre 50 paesi in tutto il mondo. La maggior parte delle esportazioni (61%) è destinata ad altri paesi europei, con Francia, Germania, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi e Belgio tra i principali importatori. Gli Stati Uniti sono il principale mercato internazionale (nel 2016 hanno importato 4,5 milioni di chili di prosciutto) e il Consorzio punta ad aumentare le vendite in Nord America, Asia, Australia e Nuova Zelanda. Secondo i dati Eurostat, l’europeo medio consuma almeno 3 kg di prosciutto e spalla stagionata l’anno. Il consumo maggiore registrato in Germania, Italia e Irlanda, e la domanda in crescente aumento. Nel 2016, i maggiori produttori europei sono stati la Germania (33%), l’Italia (28%) e la Spagna (13%). In termini di valore, l’Italia era al primo posto (34%), seguita dalla Germania (22%) e dalla Spagna (19%). Dal 2013-2016 l’Unione Europea ha esportato maiali e prodotti a base di carne di maiale in 188 paesi e territori per un valore totale di 19 miliardi di euro.
Inquinamento: il 50% è prodotto dai riscaldamenti e allevamenti intensivi, scrive mercoledì, 27 febbraio 2019, Il Corriere.it. Il particolato, PM dall’inglese Particulate Matter, è l’insieme delle sostanze sospese nell’aria che hanno una dimensione fino a 500 nanometri (mezzo millimetro), considerate gli inquinanti di maggior impatto nelle aree urbane. Si tratta di fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi e solidi che finiscono in atmosfera per cause naturali o per le attività dell’uomo. Le fonti naturali (terra, sale marino, pollini, eruzioni vulcaniche) ci sono sempre state, quelle dovute all’uomo (traffico, riscaldamento, processi industriali, inceneritori) sono aumentate negli ultimi decenni con la sovrappopolazione e i processi di industrializzazione, sommandosi alle prime. Le polveri più pericolose sono quelle con diametro inferiore a 10 nanometri (un centesimo di millimetro), il cosiddetto PM10, il cui 60% è composto da particelle con dimensioni inferiori a 2,5 nanometri. Il PM 2,5 è la frazione più leggera, quella che rimane più a lungo nell’atmosfera prima di cadere al suolo e che noi respiriamo maggiormente. Sono proprio queste particelle a entrare più in profondità nei nostri polmoni, aumentando il rischio di patologie gravi: asma, bronchiti, enfisema, allergie, tumori, problemi cardio-circolatori. Il calcolo eseguito dall’Ispra tiene conto del particolato primario e secondario insieme. Una novità che cambia la lettura dei dati e l’origine delle cause. Il primario è quello direttamente emesso dalle sorgenti inquinanti (ad esempio dai tubi di scappamento delle auto): il 59% è dovuto al riscaldamento, il 18% alle auto, il 15% all’industria, mentre il contributo degli allevamenti intensivi è irrisorio (l’1,7% di PM 2,5). Ma questa è una fotografia parziale della realtà. Le polveri, infatti, si formano anche in atmosfera a causa dei processi chimico-fisici che coinvolgono le particelle già presenti. In questi casi si parla di particolato secondario e le percentuali cambiano. L’Ispra punta il dito soprattutto verso gli allevamenti intensivi, i principali responsabili di emissione di ammoniaca nell’aria (il 76,7% a livello nazionale nel 2015), principale fonte di particolato secondario. Non solo: «Il problema è che il settore allevamenti non può essere oggetto di misure di emergenza». In altre parole: mentre per intervenire sul traffico si può bloccare la circolazione dei veicoli, o per ridurre l’effetto del riscaldamento si può limitare la temperatura interna, per intervenire sulla seconda causa di particolato in Italia, secondo Ispra, si deve ricorrere ad «azioni più strutturali, come la riduzione dei capi o le opzioni tecnologiche». Se si guardano i dati degli ultimi sedici anni, si vede come il settore allevamenti non ha subito alcun tipo di miglioramento in termini di inquinamento da PM. Anzi, se nel 2000 gli allevamenti erano responsabili del 10,2% di particolato, nel 2016 la percentuale di PM 2,5 causato dagli allevamenti ha subito un incremento del 32%. Il trend degli ultimi anni è chiaro: diminuisce l’inquinamento dovuto a auto, moto e del trasporto su strada, diminuisce quello legato ad agricoltura, industria e produzione energetica. Ma aumenta la quota legata al riscaldamento (che passa dal 15% del 2000 al 38% del 2016) e al settore allevamenti (dal 10,2% al 15,1% in sedici anni). Le frontiere su cui dovremo lavorare nei prossimi anni. Una direttiva del 2016 ha ridotto del 40% il tetto delle emissioni consentite di PM primario, oltre ad aver introdotto limiti per le emissioni di ammoniaca entro il 2030. E, secondo l’Ispra, se gli allevamenti intensivi non diminuiranno le emissioni, avremo problematiche con i superamenti delle concentrazioni di PM 2,5. Cosa stanno facendo le Regioni per arginare la situazione? Le prime linee guida risalgono al 2016 e prevedono il divieto di spandimento dei reflui zootecnici da novembre a febbraio e la copertura delle vasche di raccolta dei reflui. «Le Regioni stabiliscono questi divieti ma il problema sono i controlli – dice Daniela Cancelli di Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile –. Gli allevamenti sono tanti e i controlli chi li fa? Inoltre il ministero dell’Ambiente dovrebbe fare delle linee guida a livello nazionale, perché lasciare le Regioni e i Comuni a gestire l’emergenza non è efficace». Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, nel 2016 circa 4,2 milioni di persone al mondo sono morte prematuramente a causa dell’inquinamento atmosferico. Inoltre, il 91% della popolazione mondiale vive in luoghi dove i livelli di qualità dell’aria non soddisfano i limiti fissati dall’OMS17.
Carni e allevamenti intensivi. Tratto da “Quattro sberle in padella”, Stefano Carnazzi e Stefano Apuzzo. Pubblicato su Disinformazione.
ALLEVAMENTI INTENSIVI. Sembrerà un consiglio rivoluzionario, ma certo va alla radice del problema: evitare ogni prodotto proveniente da allevamenti intensivi. “Allevamenti intensivi” sono i capannoni industriali, nati negli anni Sessanta, in cui sono rinchiusi decine, centinaia, migliaia di animali (in America ci sono feedlots con dentro 100.000 e più capi di bestiame) in condizioni infernali, privati di libertà di movimento, dell'aria e della luce del sole, rinchiusi in gabbie, costretti alimentazione forzata, immunodepressi. Le condizioni di vita degli animali, tali da suscitare pietà, sono oggetto di continue battaglie delle associazioni animaliste. Ma non è solo questione di pietà: la concentrazione degli animali e il regime alimentare forzato aumentano lo stress, le malattie e la pericolosità microbica e sono la causa prima e principale della diffusione a raggiera dei veleni e dell'esplosione degli scandali alimentari (“mucca pazza”, "pollo alla diossina” e vedremo quali altri). La "modernizzazione" zootecnica ha riempito i cibi di residui di stimolatori dell'appetito, antibiotici (metà della produzione mondiale di antibiotici è destinata alla zootecnia), erbicidi, stimolatori della crescita, larvicidi e ormoni artificiali. Proprio l'abuso di antibiotici in zootecnia è all'origine del fenomeno della resistenza che da 20 anni tanto preoccupa gli scienziati e le cui percentuali in Italia sono quintuplicate dal ' 92 a oggi: lo sviluppo di pericolosissimi superbatteri resistenti a tutti i trattamenti farmacologici (l'ultimo, lo streptococco VISA, che ha già ucciso 4 persone negli USA e due anziani in Scozia - e si è già avuto il primo caso in Italia; in USA in un sacco di mangime per polli sono stati trovati batteri resistenti a tutti gli antibiotici!). Molte altre malattie, l'afta epizootica, l'Aids bovino (Biv), la salmonellosi, l'encefalopatia spongiforme bovina sono consustanziali all'allevamento intensivo. Ecco i metodi di allevamento di alcune specie.
MUCCHE E BOVINI: i trattamenti con ormoni d'origine animale, di sintesi, sperimentali, sicuramente non sono stati interrotti. In America i trattamenti con ormoni sono non solamente ammessi, ma incoraggiati, e continuano ad essere sperimentati: zeranolo, estradiolo, testosterone, progesterone, treribolone acetato sono in continua sperimentazione e inoculati in vitelli, mucche e tori. Riescono a farli crescere più velocemente del 50%. Per fortuna l'UE continua a tenere le proprie frontiere chiuse all'importazione di carne trattata con ormoni: l'ultimo rifiuto ufficiale data luglio 1999. Allora la ormai celebre (o famigerata?) W.T.O. (World Trade Organization) avrebbe ordinato di “lasciare che il bando venga disatteso", e gli USA hanno chiesto miliardi in risarcimenti. Ma in Europa l'importazione di carne americana è ancora vietata. In Italia le condanne penali della Cassazione si susseguono, poche ma senza soluzione di continuità, mentre l'Istituto Superiore di Sanità trova diversi corticosteroidi illegali nel latte, e 17-betaestradiolo nel siero bovino (usato per i vaccini). D'altronde, il D.lgs. 27/1/1992 n.118 vieta, è ovvio, la somministrazione di ormoni, ma li autorizza a scopo terapeutico e nel periodo successivo al parto, cioè: volendo, sempre. Dell'ormone D.E.S. (Dietilstilbestrolo), che provoca cancro al seno, è difficilissimo accertare la presenza, essendo attivo anche in dosi infime (parliamo di milionesimi di grammi). Secondo il Comitato Scientifico dell'Unione Europea, che doveva pronunciarsi a proposito del doping, anche dosi infinitesimali di queste sostanze danneggiano la salute umana, innescando tumori e alterando le risposte del sistema immunitario. Inoltre, i valori residuali di ormoni ritenuti innocui fino a dieci anni fa, sono oggi, grazie a dati scientifici più raffinati, considerati rischiosi per i consumatori, specialmente per i bambini in età pre-puberale. Le ricorrenti malattie dei bovini provocate dalle condizioni-limite in cui vivono costringono a terapie antibiotiche senza sosta. All'esame anatomo-patologico si rileva un'incidenza elevata di lesioni muscolari dovute all'uso di sostanze xenobiotiche.
La dipendenza della zootecnia dall'industria farmaceutica presenta questi riflessi negativi:
sofferenza e patologie iatrogene negli animali;
residui pericolosi negli alimenti d'origine animale;
gravi rischi epidemiologici per selezione microbica;
alterazioni del processo di depurazione con peggioramento dell’inquinante;
rischi mutageni per i principi emessi nell'ambiente.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ripetutamente messo sotto inchiesta i residui di certi farmaci veterinari nel cibo (solo tra il '97 e il '98): abamectina, clorotetracicline e tetracicline, il famigerato clembuterolo, cipermetrina, a-cipermetrina, neomicina, ossitetraciclina, spiramicina, thiamphenical, tilmicosina, xilazina, e ancora ceftiofur, cyfluthrin, danofloxacina, di-idrostreptomicina e streptomicina, fluazuron, flumequine, moxidectina, spiramicina. In Italia, è matematicamente certo (lo dimostra la sproporzione tra le ricette "ufficiali" e il numero di animali: solo 5 ogni 100) che i farmaci vengono acquistati sul mercato nero per non doverne segnalare l'uso. Poi, poco prima della macellazione, viene somministrato agli animali un fortissimo diuretico che cancella le tracce delle sostanze illegali.
Hanno luogo anche trattamenti con farmaci sperimentali. Nei mangimi può esserci ogni genere di rifiuti ripugnanti: carogne di animali, scarti dell'industria di trasformazione, lettiere o escrementi animali, residui della lavorazione dello zucchero, dell'olio, paglia trattata con ammoniaca, olii esausti di motori, addirittura i reflui inquinanti delle distillerie di whisky e di gin; in Francia finivano nei mangimi le acque nere, bollite, delle puliture dei macelli e delle stalle, "condite" con gli scarti della spremitura a caldo dei resti dei macelli. Il mais, che nella dieta dei poveri bovini ha sostituito il più costoso fieno, fermenta nel loro colon e favorisce la proliferazione di batteri, causa di pericolose infezioni che, in Italia, costringono ogni anno decine di bambini alla dialisi per danni ai reni. Nelle città non dotate d'inceneritore, diventano "farine per animali” le carcasse di animali raccolti dal la Nettezza Urbana (cani e gatti randagi, topi, ratti e pantegane). Anche gli animali portati dal proprio veterinario per la "morte dolce" fanno la stessa fine: attenzione, potremmo ritrovarci Fido o Micio nella catena alimentare! Addirittura, potrebbero essere reimmesse (con o senza il consenso dell'ASL) nel mercato dei sottoprodotti (art.5 c.1 del D.lgs suddetto) le carni e i derivati sottoposti a trattamenti vietati! Così, nei grassi degli animali si accumulano le diossine, pesticidi come il 4-4' D.D.T., D.D.E., D.D.D., E.D.T.A. e metalli pesanti come il cadmio (per colpa del quale nel '95 si è scoperto che una fettina di cavallo su due è fuorilegge), piombo, arsenico e cromo. Però, la sanzione (depenalizzata) per chi commercializza mangimi scadenti va da lire 600.000 a lire 3.000.000; se sono nocivi "per il bestiame... ammenda da lire 250.000 a lire 2.000.000” (art.22 l.15/2/1963, depenalizzata e aggiornata nel 1981). La Confcommercio, su impulso del DM 13/4/99, ha avviato a fine '99 una ricerca per censire gli intermediari che immettono in commercio additivi, miscele, prodotti proteici, amminoacidi e simili, tentando di ricostruire l'intero iter della fabbricazione. Ne vedremo delle belle. Perfino nelle mangiatoie dei disgraziatissimi animali si annidano veleni: uno studio condotto in Europa nella primavera ' 98 ha rivelato che una mangiatoia su tre era contaminata da antimicrobici non dichiarati, una su quattro a concentrazioni elevatissime: clorotetraciclina (C.T.C.) nel 15% dei casi, sulfonamidici nel 7%, penicillina nel 4%, trattamenti ionoforetici nel 3%, e tutte le concentrazioni di sulfonamidici erano sufficienti per lasciare residui tali da causare danni al tessuti, alle mucose, da contatto. Importazione illegale di carne. Ne ha parlato con coraggioso tempismo Antonio Delitalia, dalle colonne de “Il Giornale" (16 giugno '97): "Ci sono due tendenze tutte italiane di fronte a un argomento scomodo e ingombrante: chiudere un occhio e fare finta di non avere visto, o spalancarli tutti e due e denunciare situazioni che travalicano la realtà. Il problema della carne contaminata da clembuterolo e affini rischia di essere uno di questi. Scomodo perché si parla di frode alimentare, ingombrante perché la carne arriva nel piatto di oltre quarantacinque milioni di italiani". Il problema assai grave è quello dell'importazione di carni clandestine, che, per evitare l'Iva, sfuggono qualunque accertamento sanitario. E dal Triveneto gli allevatori fanno sapere che il 10% della carne importata è al clembuterolo. Dal momento che importiamo circa il 50% della carne bovina che consumiamo, il problema ha dimensioni preoccupanti. Non allarmistiche, ma preoccupanti. Dice Vincenzo Dona, segretario generale dell’Associazione consumatori che ha elevato frequenti proteste, senza però ottenuto risultati apprezzabili: “I controlli sono inadeguati, e fanno acqua più di una bistecca al cortisone". L’Europa ha imposto il marchio di qualità, però il governo è inadempiente. Per evadere l'Iva si è creato un mercato clandestino lucrosissimo. Ma anche nell'importazione legale il controllo è possibile solo sulle mezzene, non sulla carne pezzata e confezionata che finisce sul banco di macelleria. Un documento ministeriale certifica l'avvenuta intossicazione collettiva di Assisi per carne al clembuterolo, la cui responsabilità, ridotta a pochi allevatori, ricade su tutti. “Il problema esiste" diceva nel '97 il prof. Agostino Macrì, responsabile del servizio veterinario dell'Istituto superiore di sanità. E va risolto perché riguarda la salute.
Ma nulla è stato fatto. E non ci sono solo veleni "artificiali". Come se non bastasse, anche i “contaminanti naturali" sono un'insidia per chi mangia carne: le aflatossine (un tipo di micotossine, sostanze tossiche prodotte dalle muffe) possono contaminare i cereali destinati a diventare mangime per animali prima e durante il raccolto o per immagazzinamento e conservazione sbagliati. Quando gli animali mangiano cibo contaminato, perdono peso e diminuisce la produzione di latte; i metaboliti di queste tossine infettano i tessuti animali commestibili, e si riversano nel latte. Sono pericolose per la salute umana concentrazioni di aflatossine superiori a 20 miliardesimi di grammo nei mangimi e a 0.5 miliardesimi di grammo nel latte! Infine, lo stress innaturale e perpetuo causa un accumulo di adrenalina che realmente avvelena la carne, la cui assunzione può essere nociva per l'uomo. Motivi dello stress: condizioni di vita, alimentazione forzata, interminabili trasporti di ore e giorni con carri bestiame fermi alle frontiere o nei porti senza alcun supporto vitale, niente acqua, niente riposo, niente riparo dal sole torrido o dalla pioggia. Unica speranza, la morte.
VITELLI: il sistema per mantenere la carne pallida, rosea e delicata consiste nel tenerli in condizioni enormemente innaturali. Al terzo-quarto giorno di vita, strappati alle madri inseminate artificialmente, vengono collocati ognuno in un box largo 40 cm. e lungo un metro e mezzo. I vitelli sono legati con una catena al collo per impedire ogni movimento (la catena potrà esser tolta quando saranno cresciuti tanto da occupare tutto il ristretto spazio del box). Essi non vedranno mai né paglia né fieno, poiché mangiarne potrebbe rovinare il tenue colorito delle carni. Gli studiosi, per questi poveri vitellini, parlano di stress acuto e cronico, le cui conseguenze sono immunodeficienza (i vitellini si ammalano), infezioni, necessità di antibiotici. Nutriti con budini semiliquidi iperproteici che causano un’inestinguibile arsura (l'acqua è loro assolutamente negata, per indurli a ipernutrirsi, mangiando più budino e più velocemente) e un’inarrestabile dissenteria per spingerli all'anemia al fine di sbiancare le carni, disordini digestivi e ulcere sono frequenti; sottoposti a cicli costanti di trattamenti antibiotici, dopo tredici-quindici settimane si portano al macello. Avete mai visto gli occhioni spaventati di un vitello portato al macello? L’allevamento intensivo di bovini e vitelli è anche un rischio ecologico e biologico, oltre che sanitario. I vitelli sono la “residenza” preferita di germi e infezioni, di Escherichia Coli 0157:H7, VTEC e STEC, parassitemie theileriali da Theileria buffeli, Neospora caninum (diffusa dal Canada all'Argentina, e in Spagna) e altre malattie epidemiche. Per esempio, nel novembre '99 un modello di simulazione dinamica realizzato dal Dipartimento di farmacologia, microbiologia e igiene alimentare della Scuola norvegese di scienze veterinarie di Oslo ha stabilito che, anche qualora l'importazione di carne di vitello in Norvegia cessasse nel volgere di due anni, per oltre dieci anni continuerebbero a crescere le infezioni da Taenia saginata nei vitelli domestici, e di conseguenza gli episodi epidemici di infezioni negli uomini. Nell'agosto del 1999 è stato isolato in Malesia un Enterococcus Faecium quasi invincibile, resistente alla vancomicina e a un'ampia gamma di antibiotici. E dov'era? Era in 10 campioni di tessuto molle di carne bovina. Nota di demerito speciale per il fegato di vitello e di bovino adulto, che molti ritengono "prelibato". Il fegato si impregna di tutte le sostanze nocive assimilate da un organi. Carne trita. La carne trita è soggetta ad annerimento più di altri "tagli di carne”. Non possiamo escludere la possibilità che "additivi non consentiti” (come scrive la Pretura di Torino in una sentenza di condanna di un macellaio) vengano aggiunti per ritardare questo processo. Abbiamo iniziato a sospettare qualcosa di simile quando ci siamo accorti che i gatti di nostri amici, ghiottissimi di carne, invece annusavano con diffidenza e non assaggiavano neppure la carne trita quando gli veniva offerta. Comunque, nei supermarket, ove ormai spesso è confezionata "in atmosfera protettiva' (C02), è più difficile che quest'eventualità si verifichi.
Ragù. Sfuggono all'etichettatura i conservanti e gli additivi di cui è impregnata la "carne secca per minestre" e la "carne secca per preparati di minestre o salse". I più pericolosi sono i gallati di propile (E310), di ottile (E311), dodecile (E312), di eritorbati...
Storia degli allevamenti intensivi: dagli anni ’20 a Wendell Murphy. Un breve excursus per scoprire quando e come è nato l’allevamento intensivo, tecnica di produzione industriale che non tiene conto della sofferenza animale, scrive Laura Di Cintio il 31 Gennaio 2017 su vegolosi.it. Nonostante oggi siano una realtà consolidata in ogni parte del mondo sviluppato, gli allevamenti intensivi (detti anche industriali) non sono sempre esistiti. Anzi, la loro nascita è piuttosto recente e si fa risalire ai primi anni del Novecento. Grazie a quanto riporta il sito Factoryfarming.com possiamo fare insieme un breve excursus attraverso la storia di questa attività del tutto particolare che, sebbene coinvolga esseri senzienti, è comunque sottomessa in tutto e per tutto alle logiche della produzione industriale.
Anni ’20: nasce “per sbaglio” il primo allevamento industriale. Costa orientale degli Stati Uniti, 1926. Un piccolo allevatore di bestiame della penisola di Delmarva riceve per errore un carico di 450 pulcini; invece di restituirne una parte, decide di tenerli tutti nella sua piccola fattoria, allestendo uno spazio di fortuna per il loro sostentamento. Sorprendentemente, quasi tutti i pulcini sopravvivono e si riproducono velocemente, tanto che in meno di 10 anni il loro numero arriva a toccare i 250 mila esemplari. Questi numeri, naturalmente, sono del tutto irrisori se confrontati con quelli degli allevamenti intensivi odierni, ma bisogna tenere conto che stiamo pur sempre parlando degli inizi del secolo scorso, quando le tecniche di allevamento erano ancora artigianali e gli spazi da dedicare a questa attività erano ben più ridotti rispetto a oggi. Ma certamente il seme degli allevamenti intensivi era stato piantato.
Anni ’60: gli allevamenti intensivi si moltiplicano grazie all’uso di antibiotici. Anche se il primo allevamento intensivo risale agli anni ’20, bisognerà comunque aspettare gli anni ’60 perché questo tipo di attività si diffonda e prenda piede in diverse parti del mondo. Il fatto che ciò avvenga in questo preciso periodo storico non è un caso, ma il frutto dell’aumento della produzione di antibiotici e della loro diffusione su larga scala: è grazie all’utilizzo massiccio di questi farmaci, infatti, che diventa possibile stipare un gran numero di animali in spazi ristretti preservandoli dalle malattie. Da questo momento i numeri degli allevamenti industriali cominciano ad assomigliare sempre di più a quelli odierni anche se il dilagare delle patologie, nonostante l’impiego di antibiotici, resta comunque per anni una problematica importante in questi ambienti.
Non più solo polli. L’allevamento industriale non tarda a estendersi ad altre specie animali: siamo negli anni ’80 quando Wendell Murphy, prima di diventare senatore di uno stato del Nord della Carolina, allarga l’allevamento intensivo ai maiali su imitazione di quanto avvenuto fino ad allora negli allevamenti avicoli. Non trascorre molto tempo prima che questa attività prenda piede e si diffonda, tanto da far meritare a Murphy il titolo di “re della carne di maiale”. I risultati di questo tipo di produzione non si fanno attendere, e l’allevamento intensivo negli Stati Uniti inizia a coinvolgere anche i bovini, allevati sia per la produzione di carne che per quella del latte. Da questo momento in poi gli allevamenti intensivi si ingrandiscono e si diffondono a macchia d’olio in diversi paesi del mondo, fino a raggiungere l’estensione odierna.
I numeri dell’allevamento intensivo ieri e oggi. Nel 1950 una mucca produceva in media 665 litri di latte all’anno, oggi ne produce più di 2.320. Oggi un maialino appena nato pesa circa 1 chilo, ma in sei mesi riesce a toccare i 120 chilogrammi di peso; 50 anni fa, questo stesso incremento di massa veniva raggiunto nel doppio del tempo. Fino a pochi decenni fa, i polli impiegavano 70 giorni per raggiungere il peso ideale per la macellazione, oggi vengono macellati a 47 giorni di vita con un peso superiore del 67% rispetto a quello del 1950. Ma anche i numeri dell’allevamento intensivo odierno sono sorprendenti (fonte CIWF Italia): ogni anno vengono allevati 70 miliardi di animali; di questi, la metà all’interno di un allevamento intensivo. A livello globale il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina e il 60% delle uova vengono prodotti in allevamenti intensivi. E in Italia la situazione non è migliore: l’85% dei polli e il 95% dei suini sono allevati in allevamenti industriali e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo. Sempre CIWF Italia riporta, a questo proposito, che la produzione di cibo negli allevamenti intensivi è tra le principali cause del surriscaldamento globale: ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà dell’estensione della Gran Bretagna per coltivare mangime per animali e allevare bestiame, che produce metano che si diffonde nell’atmosfera. In più, l’allevamento intensivo è correlato anche alla mancanza di cibo nei paesi poveri: un terzo della raccolta mondiale di cereali viene utilizzato per alimentare il bestiame negli allevamenti; se fosse utilizzato per il consumo umano, invece, sfamerebbe circa 3 miliardi di persone.
Allevamenti sempre più intensivi foraggiati dai fondi europei. Greenpeace denuncia: almeno il 70 per cento della superficie agricola dell’Unione Europea è destinata all’alimentazione del bestiame. E annualmente tra i 28 e i 32 mld di euro di pagamenti diretti vanno al settore dell’allevamento, favorendo solo le grandi imprese, scrive il 23/02/2019 Francesco Paolini su La Stampa. Almeno il 70 per cento della superficie agricola dell'Unione Europea è destinata all'alimentazione del bestiame. Se si escludono dal calcolo i pascoli, oltre il 63 per cento delle terre coltivabili è utilizzato per produrre mangime per gli animali piuttosto che cibo per le persone. Sono i risultati del nuovo rapporto di Greenpeace “Soldi pubblici in pasto agli allevamenti intensivi”, pubblicato nei giorni scorsi. In Europa 125 milioni di ettari di terra sono utilizzati per produrre mangimi o per il pascolo. Tenendo conto dei pagamenti della Politica Agricola Comune (PAC), Greenpeace stima che annualmente tra i 28 e i 32 miliardi di euro di pagamenti diretti vanno al settore dell’allevamento, rappresentando circa il 18-20 per cento del bilancio totale dell'Unione. «Gli scienziati avvertono che dobbiamo diminuire drasticamente la produzione di carne per evitare disastrose conseguenze per l’ambiente, la salute e il clima, ma i sussidi della PAC, invece di incentivare gli agricoltori verso un’agricoltura più ecologica, stanno spingendo in una direzione pericolosa. A questo si aggiunge la mancanza di informazioni ufficiali sull’ammontare complessivo dei sussidi PAC destinati alla zootecnia, che è sintomatico di una preoccupante opacità del sistema», dichiara Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura e Progetti speciali di Greenpeace Italia. Secondo i dati Eurostat, circa il 72 per cento degli animali allevati in Europa proviene da aziende intensive di grandi dimensioni. Il numero totale di allevamenti è diminuito di 2,9 milioni, ovvero di quasi un terzo, tra il 2005 e il 2013 ma ciò è avvenuto a scapito delle piccole aziende. L’Italia, per esempio, tra il 2004 e il 2016 ha perso oltre 320 mila aziende (un calo del 38 per cento), ma il numero delle aziende agricole molto grandi è aumentato del 21 per cento e di quelle grandi del 23 per cento. «Le aziende agricole di piccole dimensioni stanno scomparendo a ritmi allarmanti e il denaro pubblico aiuta quelle di dimensioni maggiori a crescere sempre più. Un ciclo perverso che deve finire», aggiunge Ferrario. «Questo è il momento per invertire la rotta, ce lo chiede il Pianeta e i governi nazionali e il Parlamento europeo non possono non tenerne conto nella negoziazione della prossima Politica Agricola Comune, che riguarderà il periodo 2021-2027», conclude Ferrario.
Allevamenti intensivi: cosa è bene sapere? Il punto dopo le inchieste, scrive il 19/06/2017 Matteo Garuti su ilgiornaledelcibo.it. Gli allevamenti intensivi da tempo sono oggetto di forti critiche. Le inchieste più recenti hanno acceso i riflettori sulle scarse condizioni di vita degli animali, sui possibili rischi per la salute umana dovuti all’uso di farmaci e sull’impatto ambientale spesso sottovalutato di queste attività. Ci siamo già occupati di polli d’allevamento a basso prezzo, questa volta cercheremo di approfondire le caratteristiche e la regolamentazione degli allevamenti intensivi, anche alla luce di alcuni casi incresciosi emersi negli ultimi mesi, grazie alle indagini giornalistiche e dei Nuclei antisofisticazioni e sanità (NAS) dei Carabinieri.
Allevamenti intensivi: origini e impostazione. Gli allevamenti intensivi, come abbiamo accennato anche parlando del libro Farmageddon, si caratterizzano innanzitutto per un’impostazione industriale, che ha l’obiettivo di massimizzare le quantità prodotte, riducendo al minimo i costi e gli spazi necessari. Questi concetti, che hanno costituito un modello standardizzato, sono entrati nella pratica zootecnica durante il secolo scorso. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, lo schema industriale si è diffuso, allo scopo di fornire prodotti di origine animale a prezzi sempre più accessibili, anche per le fasce meno abbienti della popolazione. In questo modo le proteine animali, un tempo appannaggio delle sole classi benestanti, sono entrate nelle cucine di tutte le fasce sociali.
Alla base dei consumi di massa. L’uso di nuovi strumenti e ritrovati – meccanici, farmacologici e veterinari – ha permesso di efficientare l’allevamento, inquadrandolo come uno degli ingranaggi alla base della grande distribuzione organizzata, che vede nei supermercati il terminale di un sistema di produzione e consumo rivoluzionato. Questo tipo di allevamento ha determinato anche la selezione delle razze e dei mangimi più produttivi. Oggi gli allevamenti intensivi sono diffusi in tutto il mondo industrializzato, e per quantità prodotte costituiscono di gran lunga la prima fonte di approvvigionamento di cibi di origine animale. Negli ultimi anni, però, questo metodo produttivo è stato sempre più additato per le sue criticità, che l’aumentata sensibilità etica e salutistica dei consumatori sembra tollerare sempre meno.
Perché sono criticati? L’avversione e la diffidenza verso gli allevamenti intensivi è motivata da alcune questioni principali, eccole descritte singolarmente. La qualità degli alimenti prodotti con questa metodologia non è e non può essere elevata, dato che la linea guida è la riduzione dei costi, per chi produce e per chi acquista. Se è vero che le tendenze dei consumi sono sempre più orientate su cibi genuini, sani e gustosi, sul piano organolettico e salutistico gli alimenti più economici difficilmente potranno risultare soddisfacenti. Anche il tema dell’igiene, legato all’aspetto qualitativo appena descritto, solleva dubbi sugli allevamenti intensivi. In queste strutture la concentrazione dei capi allevati è molto alta, aspetto che richiede dosi più alte di farmaci e antibiotici, per garantire la sicurezza sanitaria e prevenire la possibile diffusione di infezioni o epidemie. Il benessere degli animali è sempre più sentito dai consumatori, e spesso risulta essere l’argomento più forte sul piano etico ed emotivo, prevalendo anche sulle altre problematiche qui descritte. Innegabilmente, le immagini delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi contribuiscono a indurre molte persone verso un’alimentazione vegetariana o vegana, abitudini che anche in Italia sono sempre più diffuse, come abbiamo evidenziato in un nostro precedente articolo. L’uso eccessivo e improprio dei farmaci, argomento connesso ai due precedenti, può favorire la resistenza agli antibiotici, condizione pericolosa descritta in un nostro precedente approfondimento. Negli allevamenti intensivi, purtroppo, non è infrequente che i medicinali siano usati per stimolare la crescita degli animali. L’impiego di ormoni, vietato in Europa, è una pratica diffusa negli Stati Uniti. Si tende a sottovalutare l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, che invece determina un inquinamento non trascurabile, sia per le emissioni di gas serra, sia per la produzione di liquami che possono contaminare le acque. Non meno rilevante è il consumo di risorse, quali acqua, foraggi e mangimi, determinato da un’eccessiva diffusione dell’allevamento, che in alcune aree del mondo comporta il disboscamento, a sua volta causa di desertificazione e danno alla biodiversità. Nel corso degli anni, gli allevamenti intensivi sono stati sottoposti a revisioni per migliorare questi “punti deboli”, anche per eliminare il rischio di dover nuovamente affrontare emergenze causate da gravi patologie molto pericolose per l’essere umano, come la cosiddetta mucca pazza e l’influenza aviaria. Queste malattie, infatti, si sono sviluppate a causa di un’applicazione esasperata dei concetti industriali sopra descritti. L’Unione europea, negli ultimi vent’anni, ha emanato disposizioni precise e all’avanguardia per far fronte a questi problemi. Nel mondo, tuttavia, non ci sono normative riconosciute universalmente, anche per questo è sempre bene preferire cibi di origine animale di provenienza nazionale, o quantomeno comunitaria.
La regolamentazione europea. La Decisione 78/923/CEE del 1978, modificata nel 1992 con la 92/583/CEE, è stata la prima a normare la protezione degli animali negli allevamenti a livello comunitario. Nel 1998 la Direttiva 98/58/CE ha introdotto principi significativi per il benessere dei capi d’allevamento, indipendentemente dalla specie e dal tipo di produzione ai quali sono destinati. Negli anni successivi, sono state approvate ulteriori direttive specifiche per le galline ovaiole (1999/74/CE), per i polli da carne (2007/43/CE), per i vitelli (2008/119/CE) e per i suini (2008/120/CE).
Alcune disposizioni per i suini. Per dare un’idea delle norme alle quali sono tenuti ad attenersi gli allevamenti intensivi, a titolo esemplificativo possiamo citare alcune disposizioni relative ai suini. Ecco cosa si stabilisce sugli spazi di vita. Locali di stabulazione. Le norme sulla superficie sono stabilite secondo il peso dell’animale: 0,15 metri quadri per un suino al di sotto dei 10 kg; 1 metro quadro per animali superiori a 110 kg; 1,64 metri quadri per le scrofetta; 2,25 metri quadri per la scrofa; 6 metri quadri per un verro (10 se il verro viene impiegato per l’accoppiamento). Requisiti dell’ambiente. I pavimenti devono essere non sdrucciolevoli e senza asperità per evitare lesioni. La zona in cui coricarsi deve essere confortevole, pulita e asciutta. I rumori continui di intensità pari a 85 decibel devono essere evitati. I suini devono essere tenuti alla luce di un’intensità di almeno 40 lux, per un periodo minimo di 8 ore al giorno.
Cos’è emerso dalle inchieste? Quest’anno la serie di inchieste del programma Rai Animali come noi ha riacceso i riflettori sugli allevamenti intensivi, con episodi e immagini che hanno suscitato pena e rabbia. Le sei puntate andate in onda fra marzo e aprile hanno mostrato molte delle criticità del ciclo produttivo industrializzato dei prodotti di origine animale, evidenziando anche diverse violazioni della legge.
Sovraffollamento e mancanza di igiene. La telecamera di Animali come noi, con l’aiuto di attivisti per i diritti degli animali, è entrata di nascosto durante la notte in alcuni allevamenti suini della provincia di Cremona. Queste irruzioni notturne hanno denunciato situazioni di malessere degli animali, con patologie non adeguatamente curate e gravi mancanze di igiene. Inoltre, i maiali spesso accusavano ferite da morsi alla coda, abbastanza frequenti quando l’aggressività dovuta al sovraffollamento dei capi, cresciuti in spazi molto ristretti, spinge gli stessi ad azzannarsi fra loro. Nel distretto della lavorazione delle carne suine, si sono verificati anche casi di sfruttamento della manodopera, con numerosi lavoratori che hanno palesato problemi fisici dovuti a turni troppo lunghi e pesanti.
Maltrattamenti e conseguenze dei ritmi eccessivi. Meno conosciuti ma altrettanto gravi sono parsi i casi di alcuni allevamenti di bufale nella provincia di Frosinone, dove i bufalini maschi – inutili per la produzione del latte col quale si produce la mozzarella – non raramente venivano lasciati morire di stenti. Le inchieste hanno anche approfondito il caso di un macello nel Bresciano, chiuso in seguito alle indagini dei NAS a causa dei maltrattamenti che venivano inflitti alle mucche da latte non più idonee alla produzione, con palesi violazioni della legge. In questa struttura, le cosiddette vacche a terra – sfinite dai ritmi esasperati degli allevamenti intensivi dopo pochi anni di vita e non più in grado di reggersi in piedi – venivano trascinate con muletti e catene alla linea di macellazione, talvolta con perdite di sangue rischiose anche sul piano sanitario. I capi, inoltre, venivano colpiti con pungoli e altri strumenti per obbligarli a raggiungere i punti di abbattimento. I responsabili di questo macello e i veterinari compiacenti coinvolti sono stati tutti condannati. I NAS hanno anche riscontrato casi di somministrazione impropria di ipofamina, un farmaco che stimola le vacche alla produzione di latte. Questi sono alcuni dei casi scioccanti mostrati dalle inchieste, che, seppur non totalmente generalizzabili, non possono lasciare indifferenti.
Il punto di vista degli allevatori. La presidente degli allevatori di suini di Confagricoltura Giovanna Parmigiani, durante una puntata di Animali come noi, è stata intervistata sui casi deplorevoli mostrati nell’inchiesta. Anche la rivista di settore Suinicultura si è espressa criticamente sulle immagini mandate in onda dal programma Rai. La presidente Parmigiani, in sostanza, ha sottolineato che le situazioni in oggetto sono da ritenersi casi isolati da perseguire, difendendo la serietà e la sicurezza degli allevamenti italiani, relativamente al benessere degli animali e alla salubrità dei prodotti. I controlli nel nostro Paese sarebbero frequenti e rigorosi, garantendo condizioni di allevamento affidabili e un impiego di farmaci e antibiotici monitorato e limitato al necessario. Le buone condizioni dei capi allevati, peraltro, anche sul piano economico sarebbero a tutto vantaggio degli allevatori stessi.
Allevamenti intensivi: possiamo farne a meno? Al netto di tutte le informazioni che possiamo acquisire sugli allevamenti intensivi, questa è la domanda più importante da porsi. Per mantenere i regimi di consumo attuali, o tantomeno per incrementarli, la risposta è semplice e immediata: no. Si potrebbe aggiungere un “purtroppo” un po’ ipocrita, ma inevitabilmente gli allevamenti intensivi sono imprescindibili per assicurare alte quantità prodotte a prezzi bassi. Come evidenzia un rapporto FAO del 2011, su scala globale le richieste di alimenti di origine animale sono in aumento. Anche se nei Paesi sviluppati, per motivi etico-salutistici o relativi alla crisi economica, si sta verificando un lieve calo dei consumi, dato che interessa anche l’Italia, nelle aree del mondo in via di sviluppo – che rappresentano la maggior parte della popolazione – la tendenza è opposta. Il costante aumento della popolazione mondiale, che avviene soprattutto in questi Paesi, influisce in modo determinante sulla crescente domanda di prodotti animali. Nei Paesi industrializzati, invece, seppur in leggero decremento, i consumi sono comunque nettamente più alti nel dato pro capite.
Cambiare le abitudini. Pertanto, è evidente che alle condizioni attuali sarebbe impossibile rinunciare al modello industriale di allevamento. L’unica strada per spingere un vero ripensamento dei metodi d’allevamento su larga scala non può che essere la riconversione delle abitudini dei consumatori, per un uso più contenuto e possibilmente più qualitativo dei cibi di origine animale. Nel frattempo, resta doveroso l’impegno per garantire condizioni di vita il più possibile accettabili agli animali che vivono negli allevamenti intensivi.
SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. Il comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco, riunitosi mercoledì a Bogotà, in Colombia, ha proclamato la transumanza patrimonio culturale immateriale dell’umanità. La decisione è stata approvata all’unanimità dai 24 stati membri del Comitato intergovernativo. È la terza volta, si legge in una nota del Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf), dopo la pratica tradizionale della coltivazione della vite ad alberello della comunità di Pantelleria e l’arte dei muretti a secco, che viene attribuito questo prestigioso riconoscimento a una pratica rurale tradizionale. L’Italia acquisisce così il primato di iscrizioni in ambito rurale e agroalimentare superando Turchia e Belgio. La candidatura del «movimento stagionale del bestiame lungo gli antichi tratturi nel Mediterraneo e nelle Alpi» era stata avanzata nel marzo 2018 dall’Italia come capofila insieme alla Grecia e all’Austria, e coordinata — a livello internazionale — dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali con il coinvolgimento diretto delle comunità italiane delle Regioni di Puglia, Basilicata, Campania, Molise, Lazio, Abruzzo, Lombardia e alle province di Trento e Bolzano. «Sono particolarmente contento di questo risultato che riconosce e premia il nostro lavoro», ha detto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Come ha evidenziato l’Unesco nella sua motivazione «la pratica della transumanza, rispettosa del benessere animale e dei ritmi delle stagioni, è un esempio straordinario di approccio sostenibile». «Siamo fieri di questo riconoscimento per la tradizione rurale italiana con la transumanza che diventa patrimonio immateriale dell’Unesco», ha aggiunto la ministra delle Politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova. Un riconoscimento importante – sottolinea la Coldiretti – che conferma il valore sociale, economico, storico e ambientale della pastorizia che coinvolge in Italia ancora 60mila allevamenti nonostante il fatto che nell’ultimo decennio il «gregge Italia» sia passato da 7,2 milioni di pecore a 6,2 milioni perdendo un milione di animali. L’ Italia può contare su molti altri «tesori», già iscritti nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. L’elenco comprende l’Opera dei pupi (iscritta nel 2008), il Canto a tenore (2008), la Dieta mediterranea (2010) l’Arte del violino a Cremona (2012), le macchine a spalla per la processione (2013) e la vite ad alberello di Pantelleria (2014), l’arte dei pizzaiuoli napoletani (2017), la Falconeria (2016) e dal novembre 2018 l’arte dei muretti a secco.
Transumanza, ora è patrimonio culturale dell'Unesco. Passa la candidatura presentata dall'Italia insieme a Grecia e Austria. "E' il decimo riconoscimento per il nostro Paese in questa lista" sottolinea il curatore del dossier. La Repubblica l'11 dicembre 2019. La transumanza patrimonio culturale dell'Unesco, anche se immateriale. La tradizionale pratica di migrazione stagionale del bestiame, è stata iscritta, all'unanimità, nella Lista Rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale dell'Unesco. Da oggi, inoltre, l'Italia acquisisce il primato di iscrizioni in ambito rurale e agroalimentare, superando Turchia e Belgio. Dal Trentino ad Amatrice, dall'Irpinia a Puglia i luoghi-simbolici. Soddisfazione espressa dai ministri delle Politiche agricole Teresa Bellanova e dell'Ambiente, Sergio Costa per il parere favorevole espresso dai 24 Paesi durante il Comitato intergovernativo in corso a Bogotà, in Colombia. Il riconoscimento riguarda tutta l'Italia, dalle Alpi al Tavoliere: le comunità emblematiche indicate nel dossier come luoghi simbolici della transumanza sono diverse, tra cui i comuni di Amatrice (Rieti) da cui è partita la candidatura subito dopo il devastante terremoto, Frosolone (Isernia), Pescocostanzo e Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila, Lacedonia in Alta Irpinia in Campania, San Marco in Lamis e Volturara Appula (il paese del Premier Conte) in provincia di Foggia, insieme a territori della Lombardia, la Val Senales in Trentino Alto-Adige, e la Basilicata. I pastori transumanti, come sottolinea il dossier di candidatura presentato dall'Italia insieme a Grecia e Austria all'Unesco, hanno una conoscenza approfondita dell'ambiente, dell'equilibrio ecologico tra uomo e natura e dei cambiamenti climatici: si tratta infatti di uno dei metodi di allevamento più sostenibili ed efficienti. Oggi la transumanza è praticata soprattutto tra Molise, Abruzzo e Puglia, Lazio, Campania, e al Nord tra Italia e Austria nell'Alto Adige, in Lombardia, Valle d'Aosta, Sardegna e Veneto. "E' il decimo riconoscimento per l'Italia in questa lista - sottolinea da Bogotà il curatore del dossier di candidatura, Pier Luigi Petrillo - e ci porta il primato mondiale dei riconoscimenti in ambito agro-alimentare, dopo l'iscrizione nel Patrimonio Culturale Immateriale della Dieta Mediterranea, la Pratica della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria, l'Arte del Pizzaiuolo napoletano, della tecnica dei muretti a secco e dei paesaggi vitivinicoli delle Langhe e del Prosecco".
· Dove non osano le aquile.
DOVE NON OSANO LE AQUILE. Da La Stampa il 15 settembre 2019. Questi giovani paperi sono esemplari di oche a testa barrata. Sono ritenute gli uccelli che volano più in alto al mondo. Allo stato brado, queste oche sono famose per le loro lunghe migrazioni sopra la catena dell'Himalaya a più di 8mila metri, dove la presenza di ossigeno è molto ridotta. All'Università della Columbia Britannica hanno cercato di capire la fisiologia che permette loro di ottimizzare la strategia di volo. I ricercatori hanno allevato dei pulcini, sfruttando il concetto di “imprinting”: hanno insegnato agli uccelli fin da piccoli a volare indossando una maschera e degli strumenti di misurazione. Così hanno potuto raccogliere le prime misurazioni cardiorespiratorie in assoluto delle oche in volo in una galleria del vento a diverse altitudini simulate E hanno scoperto che questi animali sono in grado di rallentare il metabolismo e la frequenza cardiaca di pari passo con la diminuzione dell'ossigeno nell’aria. In questo modo il sangue trasporta più ossigeno ai muscoli, ma il corpo brucia meno calorie. I risultati completi sono stati pubblicati sulla rivista eLife.
· La Parabola dell’Orso.
LA PARABOLA DELL’ORSO, DA CREATURA VENERATA A PELUCHE. Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 21 agosto 2019. C' era una volta un Re. Era forte, coraggioso, un guerriero invincibile, un'antica divinità, una creatura venerata. Da lui discendevano schiatte di sovrani, Re Artù e i signori dell' antica Danimarca. Per i Celti, i Germani e gli Slavi era il re dei boschi. Per millenni gli sciamani lo evocavano nei loro riti e gli chiedevano perdono prima d' ucciderlo. Poi all'alba del XII secolo fu detronizzato, schernito, ridotto in cattività, legato alla catena ed esibito in spettacoli ambulanti. La Chiesa cristiana gli fece perdere forza e superbia, lo relegò tra gli animali sconfitti. Al suo posto, sul trono, pose il leone, cui attribuì lo scettro di re degli animali, esempio di forza e virtù. I re cristiani lo sterminarono, Carlo Magno tra i primi. Abbatterono le foreste e resero il suo antico regno un luogo sempre più piccolo. Tuttavia l'orso, questo il nome del Re, non scomparve del tutto. Sopravvisse. Dalle caverne del Paleolitico e dalle foreste dell' età antica il Re si trasferì nelle camerette dei bambini divenendo, lui animale terribile, il simbolo della tenerezza: Teddy Bear. Gli esseri umani e gli orsi sono uniti in un rapporto simbolico da 80.000 anni, argomenta Michel Pastoureau nel suo studio su questo animale appartenente alla famiglia Ursidae e all'ordine dei Carnivori: un mammifero. Originario probabilmente dell' Asia, l'orso discende da antenati comuni ai canidi ed è un plantigrado. Il suo antenato diretto è una specie, Ursus minimus, rinvenuta in Piemonte e Toscana in sedimenti pliocenici di circa 3 milioni di anni fa; ma c'è anche l'Ursus deningeri di grandi dimensioni, tipico del Pleistocene, comparso 800 mila anni fa e sostituito dall' orso delle caverne Ursus spelaeus, adattatosi a un'alimentazione più vegetariana dei predecessori. La nostra parentela con l'orso, scrive Pastoureau, è attestata dalla grotta di Regourdou nel Périgord francese, dove una sepoltura umana neanderthaliana è posta accanto a un orso bruno sotto un'unica lastra tra due blocchi di pietra. Antico dio e antenato dell' uomo, l' orso diventa tra il XII e il XIII secolo il nemico cui si applica la forza costrittiva della Chiesa. Lo si vede come un concorrente della figura di Cristo. Il culto dell' orso, legato all' albero e ai boschi, retaggio di antiche età dell' uomo, è messo al bando. Nascono innumerevoli leggende circa il suo addomesticamento da parte di santi; San Martino lo conduce con sé, catena al collo, e l'aggioga con il bue a tirare carri e aratri. Nella lotta simbolica contro l' orso, la Chiesa l' accosta al diavolo. Cominciano a circolare in quei secoli leggende che i giornali francesi nell'Ottocento definiranno Les faits divers : orsi innamorati di donne le rapiscono e le portano in caverne; si uniscono sessualmente a loro. Nel Seicento, nel ducato di Savoia, valle della Tarantasia, un orso innamorato della giovane Antoinette Culet la violenta e la relega in una grotta, dove resta sequestrata per tre anni. Liberata, la ragazza viene riportata a casa; ma l'orso torna a rivendicare la sua sposa ed è ucciso; Antoinette sconvolta è rinchiusa in un monastero. Prosper Mérimée s'ispirerà a questo evento raccontato in opuscoli e memoriali per la sua novella Lokis. Per quanto temuto e cacciato, l'orso entra però nei nomi e negli emblemi delle città: a Berna tiene il posto dell' animale totemico; Berlino, lo iscrive nel suo simbolo; a Madrid nell' emblema araldico c'è il plantigrado. Nella versione polare dell' orso bianco, l'Ursus maritimus , è invece legato alla primavera e al ciclo vegetale. Gli Algonchini del Canada lo chiamano Nonno, anche se poi lo cacciano. Nel Novecento torna, seppure sotto altra forma: orso di peluche. Nato da un episodio di caccia di Theodore Roosevelt nel 1902 diviene un pupazzo di pezza realizzato da un fabbricante di bambole di New York, Morris Michtom, cui viene dato il nome del Presidente: Teddy Bear. In Europa però da trent'anni circolava già un altro orsetto creato in Germania da Margarethe Steiff: due inventori per lo stesso simbolo. Nel XX secolo arriveranno gli orsi di carta stampata e quelli dei cartoni animati, da Baloo del Libro della giungla a Winni the Pooh, l'orsetto saggio zen, creato da A.A. Milne nel 1926, da Yoghi e Bubu a Masha e Orso dei nostri giorni. L'orso bruno, Ursus arctos , il più diffuso in Europa e in Italia da migliaia d'anni, è oggi un sopravvissuto. Nel nostro paese ci sono circa 100 esemplari sulle Alpi e 30-50 nel parco degli Abruzzi, in Lazio e in Molise. Temuto e insieme desiderato, è monitorato e salvaguardato. La sua caccia è cessata per decreto nel 1939. Una volta sterminati o quasi, gli animali più importanti per l'uomo diventano simboli, e quindi oggetti dedicati ai bambini, a quell'età in cui il mondo naturale appare un Eden incontaminato, com'era probabilmente all' origine, prima che l' Homo sapiens diventasse il padrone incontrastato della Terra. Il cerchio s'è chiuso.
Da La Repubblica il 21 agosto 2019. L'orso M49 ora rischia di essere ucciso in Alto Adige. Come già aveva fatto la provincia di Trento, dove si era tentato di catturare l'orso di 3 anni, ritenuto responsabile di numerosi danneggiamenti al patrimonio zootecnico e di tre tentativi di intrusione in locali produttivi o privati, la provincia autonoma di Bolzano ha deciso che l'animale è pericoloso. Dopo la fuga e lo sconfinamento di M49 in Alto Adige nella zona di Passo Oclini-Passo Lavazè, il presidente Arno Kompatscher ha firmato infatti l'ordinanza di cattura per il plantigrado secondo quanto previsto dal Piano d'azione interregionale per la conservazione dell'orso bruno sulle Alpi centro-orientali (PACOBACE) e seguendo quanto già previsto dalle due ordinanze emesse dalla Provincia di Trento. La firma è arrivata dopo una riunione tecnica tra l'assessore Arnold Schuler e il direttore dell'Ufficio caccia e pesca, Luigi Spagnolli e dopo che lo stesso assessore ha informato il presidente Arno Kompatscher sugli ultimi sviluppi. "Come già fatto dalla Provincia di Trento - spiega Schuler - l'ordinanza prevede la cattura dell'orso ad opera degli uomini dell'Ufficio caccia e pesca della Provincia. Solo se l'animale diventa pericoloso per l'uomo è previsto, peraltro anche dal Pacobace, l'abbattimento". Schuler fa sapere che il personale forestale è alla ricerca di tracce del plantigrado nella zona dove sono avvenuti gli avvistamenti, ma l'animale potrebbe nel frattempo essere tornato in Trentino. Contro l'uccisione dell'orso si è sempre schierato il ministro dell'Ambiente Costa, che questa mattina aveva fatto un appello alla provincia altoatesina: "Invito la Provincia di Bolzano a non creare allarmismi controproducenti. Mi aspetto, in un sano rapporto cordiale e istituzionale, di ricevere presto notizie dal presidente Arno Kompatscher per attivare Ispra che è e sarà sempre pronta ad affiancare il territorio con tutta la sua competenza e disponibilità - ha scritto il ministro - Invito pertanto a non emettere ordinanze che mettano in pericolo la vita di Papillon. Lasciamo parlare i tecnici e non le suggestioni. Io rinnovo il mio appello: non ammazzatelo". L'appello del ministro però non è stato ascoltato. Costa aveva anche messo in dubbio che in Alto Adige sia stato avvistato proprio M49, che è privo di radiocollare dopo la fuga rocambolesca dal recinto di Casteller, a Trento: "Innanzitutto poi dobbiamo avere la certezza che l'orso di cui parlano sia proprio lui", ha detto il ministro.
· L’animale più pericoloso? La Zanzara.
ALTRO CHE SQUALI E SERPENTI: L’ANIMALE PIÙ PERICOLOSO PER L’UOMO È LA ZANZARA. Maria Rosa Pavia per Il Corriere.it il 20 Agosto 2019.
Portatrici di malattie. È tra gli animali più piccoli, ma è di gran lunga il più pericoloso per l’uomo, con diverse centinaia di migliaia di vittime ogni anno. Il 20 agosto è il World Mosquito Day, giornata istituita su iniziativa soprattutto di istituzioni e Ong contro la malaria. La data scelta per la ricorrenza commemora Sir Ronald Ross, che proprio in questo giorno del 1897 scoprì che è la zanzara femmina a trasmettere la malaria. Proprio questa malattia è la principale causata dall’insetto, e secondo l’Oms ha causato nel 2017 435mila morti e 215milioni di casi nel mondo, concentrati in 11 paesi, dieci in Africa più l’India. «Quale direste che sia l’animale più pericoloso sulla Terra? I serpenti? Gli squali? - sottolinea Bill Gates in un blog sul sito della sua Fondazione - La risposta è “nessuno di questi. Sono le zanzare”. Secondo una stima dei ricercatori della Fondazione infatti le zanzare uccidono ogni anno 725mila persone, molte di più rispetto a serpenti (50mila) e cani (25mila), che seguono in classifica. Tra le varie armi contro questi insetti, che oltre alla malaria veicolano decine di altre malattie, dalla dengue al Virus del Nilo che è ormai endemico anche in Italia, recentemente si sono aggiunte le zanzare stesse: in tutto il mondo sono in corso esperimenti che prevedono l’introduzione in natura di esemplari resi sterili con modifiche al Dna o attraverso radiazioni o l’esposizione a batteri per controllare le popolazioni (Ansa).
Città infestate. Mentre sono in corso degli studi per ridurne le potenzialità riproduttive, le zanzare tigre continuano a proliferare e, complici le alte temperature, sono in aumento in tutta Italia. Un fenomeno diffuso che vede ben 87 province con un indice di infestazione di livello 3 e 4 in una scala di intensità di quattro punti. Tra queste, le più invase sono Milano, Roma, Cagliari e Palermo. Questi i dati elaborati dalla Anticimex, azienda specializzata nel pest management e nei servizi di igiene ambientale, su base dati Vape, nella settimana fino al 31 luglio.
La situazione al Nord. Attraversando l’Italia in lungo e in largo, l’allarme più alto si concentrerà in Liguria su tutte le province, così come in Friuli-Venezia Giulia e Piemonte interamente prese d’assalto. In Lombardia gli insetti famelici faranno la loro comparsa manifestandosi principalmente sui territori di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lodi, Milano, Monza-Brianza, Pavia e Varese, colpendo anche Lecco, che presenterà invece un indice medio-alto (3). Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta non avranno particolare motivo di preoccuparsi. In Veneto a soffrire saranno soprattutto Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Vicenza.
Al centro. Totalmente colpito l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche. Nel Lazio al livello 4 spiccano Roma, Frosinone e Latina, mentre in Toscana tutte le province, con solo Massa Carrara a indice medio-alto 3.
Al Sud. Interamente colpite Basilicata e Puglia. In Molise, Campobasso è al livello 3. Massima allerta in quasi tutta la Calabria (con eccezione di Cosenza) e la Campania (solo Avellino ha l’indice 3).
Nelle isole. Per quanto riguarda infine le isole, in Sicilia a salvarsi è la sola Ragusa (indice 1), mentre la Sardegna entra nel mirino del livello 4 con Cagliari, Carbonia Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra, Olbia – Tempio, Oristano e Sassari, e a seguire la sola provincia di Nuoro, al livello medio-basso (2).
Le province senza rischi. Viene considerata irrilevante la presenza delle zanzare tigre in quattro province italiane. Se si vuole sfuggire ai fastidiosi insetti ci si può rifugiare ad Aosta, Cuneo, Isernia e Sondrio.
Come difendersi. Valeria Paradiso, responsabile tecnico di Anticimex Italia, afferma: « Nelle abitazioni con giardini o aree verdi, le nuove tecnologie possono aiutare sensibilmente i cittadini a difendersi dalle zanzare. Attraverso sistemi di disinfestazione automatica si possono programmare giorni e orari di intervento, nebulizzando prodotti specifici o repellenti al 100% naturali nei momenti più idonei e in autonomia». Ciò non esclude l’importanza della prevenzione alla quale devono collaborare «amministrazioni comunali e condominiali, che devono pianificare interventi mirati e continuativi almeno da marzo a ottobre».
· Brigitte Bardot: la prima vera animalista.
Brigitte Bardot: «Io una pioniera, fui la prima vera animalista». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Stefano Montefiori su Corriere.it. Brigitte Bardot gioca, in costume e pareo, con uno dei suoi cani nel giardino della casa di Saint-Tropez. È il 28 settembre 1974, il giorno del suo quarantesimo compleanno (foto Jack Garofalo/Parismatch/Scoop/agenzia Luigi Volpe)La prima volta che Brigitte Bardot si scoprì una sensibilità e soprattutto una determinazione animalista fu durante le riprese di quello che sarebbe rimasto il suo ultimo film, Colinot l’alzasottane. «Sul set c’era una capretta e la proprietaria mi ha detto “si sbrighi a finire la sua scena, perché domenica è la comunione di mio nipote e dobbiamo farla allo spiedo”. Ho subito comprato quella creatura e l’ho portata con me, attaccata a una corda, nell’hotel a cinque stelle». Nel 1953 Brigitte aveva mostrato l’ombelico sulla spiaggia di Cannes, durante il Festival, indossando il bikini appena inventato dall’ingegnere automobilistico Louis Réard. Fu il suo primo scandalo. Vent’anni dopo, la Bardot fece scalpore facendo entrare una capra nella sua camera d’albergo. «Quel giorno ho preso la decisione di smetterla con il cinema e di aiutare gli animali. Era il giugno 1973, avevo 38 anni». Brigitte Bardot in quell’occasione ha cambiato vita, e all’esistenza successiva è rimasta fedele. L’impegno animalista cominciato allora è rimasto assoluto, una missione che ha preso tutto il tempo e il denaro della diva del cinema francese. Anche la Madrague, la villa a Saint-Tropez sulla quale Gunter Sachs nel 1966 aveva lanciato in elicottero centinaia di rose, è stata donata alla Fondazione Brigitte Bardot per la tutela degli animali. Nel 1977 BB ha compiuto il primo viaggio per sensibilizzare il mondo alla causa animalista: sulla banchisa del Canada, nel golfo del Saint-Laurent, si è fatta fotografare accanto ai bébé foca destinati a essere massacrati con tre colpi di arpione. Dopo una lunga battaglia, la caccia agli esemplari nati da pochi giorni è stata finalmente proibita, una delle poche vittorie di BB. Oggi, a 84 anni, Brigitte Bardot continua la sua lotta. L’ultima presa di posizione in questi giorni, contro la «Festa del cane» di Barjols, poco lontano dalla Mandrague: in programma esibizioni di caccia al cervo con i cani. «Abito nel Var, e il nostro dipartimento già non ha più uccelli, fagiani, lepri, tutti uccisi dai cacciatori. Ci mancava questa pagliacciata. Barjols ha altre cose da proporre che non le pratiche vergognose che ormai interessano solo a qualche scemo». BB non è cambiata, i toni sprezzanti sono sempre gli stessi. Quel che è mutato è l’atteggiamento della società nei suoi confronti. Negli anni Settanta e Ottanta le immagini dei piccoli di foca suscitavano emozione, è vero, che però durava lo spazio del servizio al telegiornale: per il resto il benessere degli animali era una causa tutto sommato marginale. Oggi l’atmosfera è diversa. BB racconta a 7 come si sente adesso che la lotta animalista è diventata popolare, filosofi come Alain Finkielkraut o Élisabeth de Fontenay si dedicano con passione a questo tema, i vegani organizzano manifestazioni, e la tutela degli animali è al centro di una preoccupazione molto diffusa.
Pensa di avere vinto la battaglia delle idee? Si sente una pioniera? È fiera di quel che ha fatto finora?
«Quarantasei anni fa ho donato la mia vita agli animali. All’inizio mi ridicolizzavano. Mi sono tante volte lamentata delle ingiustizie tra gli uomini, ma per me comunque non erano niente rispetto alle ingiustizie che gli uomini fanno subire agli animali. Non mi sono arresa. Nonostante tutti gli ostacoli, ho avuto il coraggio di continuare quel che avevo cominciato. Sì, mi sento una pioniera perché sono la prima ad avere denunciato i maltrattamenti sugli animali. Ho vinto davvero solo una battaglia: quella delle foche, dopo trent’anni di attesa. Ma ho influenzato l’opinione pubblica, e questo è molto importante. Quindi sono fiera di ciò che ho ottenuto, anche se c’è ancora moltissimo da fare».
Le giovani generazioni sono molto sensibili a questo tema. La ragazzina svedese Greta Thunberg, che oltre a militare per l’ambiente è vegana e invoca la fine degli allevamenti industriali, suscita a sua volta molte critiche. Che cosa pensa BB di Greta?
«Il mio sostegno e ringraziamento va a tutti gli attivisti, giovani o anziani. Greta Thunberg è una figura di punta, e offre un superbo esempio del rispetto che dobbiamo agli animali in tutti gli ambiti. Il disinteresse verso gli animali è la vergogna della nostra società, la prova della sua disumanità».
Secondo la visione di Cartesio, che ha plasmato a lungo l’atteggiamento della civiltà occidentale verso gli animali, essi non hanno coscienza, sono solo una sorta di «macchina animata». Ma quell’idea è messa in discussione dalle scoperte scientifiche e dagli studi etologici. Alcune associazioni come L214 non esitano a filmare quel che succede nei mattatoi per mostrare a tutti la sofferenza degli animali, e quei video stanno spostando l’opinione pubblica sulla questione posta da Jeremy Bentham: «Il punto non è: possono ragionare, possono parlare? Ma, possono soffrire?».
Che cosa pensa quindi dei discussi metodi di L214?
«I militanti di L214 sono formidabili, coraggiosi, unici. Grazie a loro le immagini insostenibili dei mattatoi hanno disgustato l’opinione pubblica, che ignorava l’inferno patito dagli animali in queste fabbriche di agonia abietta che sono i mattatoi».
Gli anti-specisti rifiutano l’esistenza di una gerarchia tra le specie. Lei si definisce come tale?
«Penso che all’inizio l’uomo, l’animale, le piante, gli alberi, si trovassero in una condizione di uguaglianza. Certe specie tra le quali quella umana e certi animali si sono evoluti più rapidamente degli altri ma restano legati a una catena ecologica che dà equilibrio alla nostra presenza sulla Terra. Dunque non c’è una gerarchia, per me. Ma esiste un predominio dell’umano che, in virtù della sua supremazia, si è attribuito il diritto di vita e soprattutto di morte su tutti gli esseri più deboli. Non c’è alcun predatore che possa avere ragione della demografia vertiginosa degli umani, che toglie equilibrio al sistema ecologico destinato così al crollo. Siamo troppo numerosi su questo pianeta che soffoca ed è moribondo. Gli animali hanno la saggezza di smettere di riprodursi quando sentono che la loro esistenza è minacciata».
Nel mondo dei militanti in difesa degli animali, alcuni sono «abolizionisti», ovvero auspicano la fine dell’allevamento e del consumo di carne, mentre altri sono «welfaristi», quindi accettano la natura carnivora dell’uomo ma hanno comunque a cuore il benessere degli animali prima e durante l’abbattimento. Lei come si pone?
«In futuro, se un futuro ci sarà, penso che gli uomini giudicheranno i carnivori attuali come noi giudichiamo i cannibali di un tempo. Uccidere, sgozzare in catena di montaggio milioni di animali per nutrirsi della loro carne, dello loro sofferenze, del loro sangue, del loro terrore e della loro disperazione, è una crudeltà inimmaginabile. Sono vegetariana da 40 anni e adesso ne ho 84. Sto benissimo. Spero in una chiusura definitiva dei mattatoi, un giorno. Sono stabilimenti di sterminio, di sofferenza di esseri innocenti».
Lei è vegana?
«No, mangio uova, formaggio, miele e burro. Non sono vegana, sono vegetariana». Nel luglio 2018 il presidente Emmanuel Macron e la première dame Brigitte, assieme al cane Nemo, hanno ricevuto Brigitte Bardot all’Eliseo. «So che mi sgriderà», esordì Macron. «No, perché non mi ha ancora promesso niente», rispose BB.
Un anno dopo, come vanno i rapporti con il presidente? Le sue richieste sono state ascoltate?
«La prego, non mi parli mai più di Macron né di altri presidenti. Sono nauseata».
Poca fiducia negli uomini di governo, ma BB non rinuncia a sperare.
«Sono fatalista. La nostra sopravvivenza è nelle mani di coloro che dirigono il mondo e ci portano verso il peggio. Ma credo anche nei miracoli, che mi faranno vincere finalmente una battaglia decisiva. Chi vivrà vedrà. Baci, baci a tutti».
BB negli Anni Ottanta, mentre accarezza un cavallo: l’attrice ha fondato a La Mare Auzou negli Anni ‘90 un rifugio per animali, che salva equini maltrattati.
Vita — È nata il 28 settembre 1934 a Parigi. Il padre Louis “Pilou” Bardot era un noto industriale. Ha iniziato a studiare danza classica da bambina e a 15 anni si è iscritta al Conservatorio. Nel 1952 ha sposato il regista Roger Vadim . I due hanno divorziato nel 1957. Nel 1959 ha sposato l’attore Jacques Charrier da cui ha avuto il suo unico figlio, Nicolas-Jacques. Si è risposata altre due volte: nel 1966 con il playboy tedesco Gunter Sachs e nel 1992 con il politico Bernard d’Ormale.
Carriera — Ha debuttato al cinema nel 1952 con Le Trou Normand . In breve tempo diventa una delle attrici europee più note anche negli Stati Uniti. Negli Anni 60 ha iniziato la carriera di cantante. Ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 1974, poco prima del suo quarantesimo compleanno.
· Animali da Circo: Incolpevoli delle disgrazie.
La moglie del domatore ucciso da una tigre: «Non ammazzatela». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. «È mio marito che ha sbagliato un movimento. Il felino è un predatore, con una zampata Ettore è crollato in un secondo perdendo la vita con la giugulare recisa. Non è stato sbranato». Così Loredana Vulcanelli racconta a Il Quotidiano Nazionale come il marito, domatore di un circo Orfei, sia morto durante un addestramento a Triggiano, nel Barese. La donna ha poi lanciato un appello, chiedendo che l'animale che ha ucciso Ettore Weber, 61 anni, non venga abbattuto: «Se io mi avvicino a uno strapiombo per farmi un selfie, non è colpa del burrone se muoio. Le tigri le abbiamo cresciute col biberon nella roulotte». E ricorda: «Ogni sera allineiamo le tigri e facciamo un'esibizione privata tra di noi, per avere un contatto costante con gli animali», aggiunge la donna, ricordando il protocollo seguito. «Mio marito prepara la carne dalla cintura e la dà da mangiare alle tigri quando fanno l'evoluzione... Mio marito entra nella gabbia: io e lui abbiamo un'intesa di 40 anni, con gli occhi ci capiamo. Qualsiasi allarme ce lo comunichiamo in un istante». La sera dell'incidente qualcosa non è andato come previsto. «La prima tigre è salita sullo sgabello, mio marito è indietreggiato mentre io facevo venire la seconda tigre. Lui ha fatto tre passi in più rispetto al solito e, girandosi, è finito sotto alla tigre. Gli altri felini non lo hanno aggredito. Sono tornate impaurite dentro il tunnel. La tigre che l'ha colpito, Sultan, è rimasta sopra mio marito, come a vegliarlo, come se si fosse resa conta dell'errore», ha aggiunto Vulcanelli, sottolineando come quella sera il marito non fosse nemmeno convinto di fare l'esibizione. «È come se avessimo avuto un segnale». Dopo la morte del domatore, la magistratura ha disposto il sequestro delle 8 tigri del circo Orfei dove è avvenuto l'incidente: gli otto felini sono stati collocati allo Zoo Safari di Fasano, in provincia di Brindisi. Rispetto a quanto emerso inizialmente, Weber — ucciso lo scorso 4 luglio dalle tigri con cui si allenava da 15 anni — non è morto sbranato. Come chiarito da Marina Monti, titolare del circo, l'uomo «è stato colpito alla giugulare con una zampata da una sola tigre. È morto nel giro di 2-3 secondi. Non c'è stata alcuna aggressione da parte delle tigri. Qualcuno ha scritto che è stato trascinato, che è stato in balia degli animali per più di mezz'ora, ma se fosse andata così non avremmo ritrovato niente del suo corpo, che invece era integro», evidenzia. Avendo assistito alla scena, la donna ha raccontato che il signor Weber era entrato in gabbia da pochi minuti. «Di solito, durante lo spettacolo, quella tigre al passaggio del domatore allungava la zampa. Trovandosi sul suo sgabello e vedendo passare Weber, ha eseguito il gesto. Lui era di spalle e troppo vicino all'animale. In questo modo è stato colpito alla giugulare. Se fosse stato — ha concluso la proprietaria del circo — 20 centimetri più alto sarebbe stato colpito alla spalla e avrebbe riportato solo un graffio. Si è trattata di una fatalità». Monti ha, infine, precisato che tutto quello da lei raccontato è stato confermato dai medici legali.
Alessandro Belardetti per “QN – il Giorno” il 17 luglio 2019. Signora Loredana Vulcanelli, come ha conosciuto suo marito Ettore Weber?
«Negli anni '70 mio padre gestiva il Circo di Berlino e lavoravo con loro, come i miei 5 fratelli. In una tournée venne a lavorare la famiglia Weber: fu amore a prima vista, folle amore. Mi colpirono il suo carattere enigmatico, la sua durezza, la sua riservatezza, la sua discrezione. Gli feci la corte subito, ma lui non mi dava confidenza. Era un bel ragazzo, appassionato di animali. Addestrava pony e cavalli. Addomesticava qualunque animale: si avvicinava e li capiva. È un dono di natura essere domatore, pochi al mondo ce l' hanno. A 15 anni ammaestrava le bestie in cortile».
Quando è scoppiato l' amore per il circo?
«Provengo da generazioni di circensi, i miei trisnonni facevano circo. È una tradizione di famiglia. Ho studiato da autodidatta materie umanistiche, ma il mio lavoro lo amo più di ogni altra cosa».
I figli hanno seguito le vostre orme?
«Orlando, 36 anni, e Alex, 31, sono cresciuti nel circo, poi due anni fa hanno spiccato il volo. Alex è andato a fare l' equilibrista altrove, Orlando è un ginnasta generico che ha deciso di staccare la spina da questo mondo».
Cos' è successo la sera a Triggiano, nel Barese, in cui Weber è morto?
«Ogni sera dalle 20 alle 21 allineiamo le tigri e facciamo un' esibizione privata tra di noi, per avere un contatto costante con gli animali. C' è un protocollo: mio marito prepara la carne dalla cintura e la dà quando le tigri fanno l' evoluzione. I felini escono dal carro e li posizioniamo nel tunnel vicino alla gabbia. Mio marito entra nella gabbia: io e lui abbiamo un' intesa di 40 anni, con gli occhi ci capiamo. Qualsiasi allarme ce lo comunichiamo in un istante. La prima tigre è salita sullo sgabello, mio marito è indietreggiato mentre io facevo venire la seconda tigre. Lui ha fatto 3 passi in più rispetto al solito e girandosi era convinto di essere nel mezzo. Invece era sotto alla tigre. Ha sbagliato il movimento».
E a quel punto?
«Il felino è un predatore e si è destabilizzato per quel gesto. È stato un fulmine, con una zampata Ettore è crollato in un secondo perdendo la vita con la giugulare recisa. Non è stato sbranato. Nella sua tomba ho messo un corpo, con le sue fruste, che per lui erano preziose come diamanti».
Le altre tigri lo hanno aggredito?
«No, sono tornate impaurite dentro il tunnel. La tigre che l' ha colpito, Sultan, è rimasta sopra mio marito, come a vegliarlo. È come se si fosse resa conta dell' errore e voleva dirci: 'State lontani, ci penso io'».
Suo marito è stato tradito da un eccesso di sicurezza?
«No, da una distrazione, un errore di calcolo. Non era una persona superba. Pochi minuti prima mi ha anche detto: 'Loredana, proviamo o no?'. Io gli ho chiesto: 'Hai preparato tutto? Non so, il tempo mi sembra strano'. È come se avessimo avuto un segnale, quella sera era un caldo allucinante».
Aveva mai rischiato la vita?
«Qualche piccolo graffio quando dava mangiare, ma niente di che. Ha avuto uno dei più grandi maestri di tigri, Eugenio Weidmann, e non ha mai rischiato nulla. L' allenatore è decisivo».
«Lo show deve andare avanti», dite nel tendone. I vostri spettacoli proseguiranno con un altro domatore?
«Aspetto di prendere i miei felini, portarmeli a casa, per trovare un parco dove sistemarli e farli stare bene. A questo punto starò vicina ai miei figli e ai miei nipotini».
Se una tigre attacca l' uomo, cosa si può fare?
«Io ho l' estintore al mio fianco, loro si spaventano e ritornano in ordine. Quella sera ho cercato anche di entrare nella gabbia, ma la tigre si è voltata e mi sono rimessa a posto».
Quella tigre deve essere soppressa?
«Assolutamente no. Se io mi avvicino a uno strapiombo per farmi un selfie, non è colpa del burrone se muoio. Le tigri le abbiamo cresciute col biberon nella roulotte».
Il felino Sultan è stato addestrato da Weber: era il suo 'migliore amico'. Lei l' ha perdonato?
«Certo, la tigre è una predatrice. Mio marito pesava 60 chili, la tigre 150. È l' uomo che sbaglia, non l' animale, che ha solo l' istinto».
Suo marito pensava di ritirarsi dal lavoro?
«Avevamo calcolato che tra due anni avremmo smesso».
Gli animalisti vi accusano di usare metodi violenti per addestrare gli animali.
«Vengano a vedere i nostri allenamenti. Li abbiamo invitati tante volte, a spese nostre: non è venuto nessuno».
Qual è il segreto per entrare in contatto con tigri, pantere, leoni?
«Servono genio e sregolatezza, con un po' di follia. Ettore parlava alle tigri come facciamo noi ora, e loro gli facevano le fusa».
I vostri haters dicono: «Fanno circo per i soldi». I circensi ribattono: «Lo facciamo per l' amore degli animali». Lei perché lo fa?
«Perché mi fa sentire viva».
La domatrice di tigri senza frusta: "Gli animalisti non sanno nulla". «Vivo nella paura che mi separino dai miei cuccioli. Nei circhi non usiamo violenza: anche i leoni ricambiano l'amore». Nino Materi, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. Se il Genio della Metempsicosi, uscendo dalla lampada, le chiedesse in chi o in cosa vorrebbe reincarnarsi, Valeria non esiterebbe un istante: «In una tigre o in una leonessa». Valeria Valeriu, 35 anni, nata in Grecia ma cittadina italiana, figlia di due trapezisti che fin dalla culla le hanno trasmesso la passione per il circo e, soprattutto, l'amore per gli animali, con le tigri e i leoni ha un rapporto particolare. Li coccola, li bacia come se fossero bambini, o cuccioli di cani o gatti; con la differenza che i suoi «cuccioloni» con una zampata - se volessero - potrebbero spedirti direttamente all'altro mondo. Com'è accaduto qualche settimana fa allo sfortunato Ettore Weber, il domatore vittima di un incidente mortale mentre stava provando il numero con i suoi felini. Valeria era una collega di Weber, anzi era suo amico: «Un grande professionista e un grande uomo - racconta Valeria al Giornale -. Dopo la tragedia che lo ha colpito, ho parlato con la moglie ed il figlio: entrambi mi hanno detto con le lacrime agli occhi che Ettore è morto come avrebbe sempre sognato, esibendosi con le sue tigri. Le quali non lo hanno tradito, assalendolo - come erroneamente hanno riportato le cronache -. Al contrario potrebbe essersi trattato di un errore tecnico, causato forse dallo stress con cui Ettore era sceso in pista. La tigre doveva muovere la zampa, faceva parte dello show: ma Weber era troppo vicino, così è stato colpito accidentalmente e per lui non c'è stato nulla da fare». Valeria, quando si parla di circhi e animali, ha le idee chiare: idee che confliggono diametralmente con quelle di chi sostiene che sotto i tendoni «le bestie vengono maltrattate». Se sul tema ti azzardi a provocarla, la signora Valeriu ti mostra tutta una sfilza di studi e pareri scientifici che - a suo dire - «smentiscono tutti i pregiudizi ignoranti dei tanti animalisti che parlano senza conoscere nulla della vita del circo». Valeria non fa sconti a nessuno e picchia duro sul mondo della politica: «Attorno all'associazionismo che si occupa della cosiddetta tutela degli animali circolano interessi milionari e i conflitti di interesse sono clamorosi». Valeria Valeriu è una domatrice sui generis: «Non mi piace la parola domatrice, perché rimanda a un concetto di forza che pone l'uomo al di sopra degli animali. Nella mia relazione con loro, invece, il rapporto è paritario. Io amo e rispetto le mie tigri e i miei leoni e loro amano e rispettano me». Anche per questo nella sua decennale e prestigiosa carriera di «addestratrice» Valeria non ha mai avuto incidenti con i suoi «gattoni». Che lei, anche se pesano 300 chili, chiama «amorini». Quando si parla del suo leone bianco, Zeus, Valeriu si illumina di felicità come una bambina che ha appena ricevuto il regalo più desiderato. Un entusiasmo contagioso, che diventa quasi commozione non appena Valeria ti rende partecipe dei suoi sentimenti più intimi, inviandoti via whatsapp video che lasciano senza fiato: la nipotina di pochi mesi che gioca teneramente con tre cuccioli di leone (non di peluche ma vivi e vegeti); lei con la sorella Desirè che bacia sul naso il mitico Zeus. Domanda d'obbligo: scusi Valeria, ma la sua nipotina gioca abitualmente con i leoncini?
Risposta: «Mia nipote è stata vaccinata nello stesso giorno in cui sono stati vaccinati i cuccioli di leone che sono nati da noi e per 12 ore li abbiamo tenuti con noi per controllare che non avessero reazioni al vaccino». Domanda bis: scusi Valeria, ma quei bacini sul naso di Zeus non le sembrano un'esagerazione?
«Ho da tempo rinunciato a far fare ai miei felini quegli esercizi classici (e decisamente umilianti per animali solenni come tigri e leoni ndr) che di solito si vedono nei circhi - ci spiega Valeria -. Tipo: salti nel cerchio di fuoco o capriole. Io invece preferisco una sorta di love show a base di coccole. Inoltre sto privilegiando un approccio didattico, coinvolgendo bambini e scuole che vengono a trovarci».
Anche se ha soli 35 anni l'album dei ricordi di Valeria è zeppo storie e aneddoti: «Ho sempre fatto la vita della girovaga. Ho lavorato in giro per il mondo nei circhi più famosi. I miei genitori anche se erano due trapezisti venivano sempre chiamati ogni volta che un animale del circo aveva qualche problema. Il loro amore per gli animali era tanto grande da essere sufficiente a guarirli. Gli animali sentono il nostro amore, esattamente come sentono il nostro stress e nostri disagi psicologici. Li avvertono in maniera talmente netta da diventare felici, tristi o stressati esattamente in correlazione alla felicità, alla tristezza e allo stress degli umani che stanno loro accanto».
Se oggi chiedi a Valeria: «Ma qual è il tuo stato d'animo attuale?», lei ti risponde un po' cupa: «A volte devo combattere per non abbattermi, vivo infatti nell'angoscia che possano portarmi via i miei animali. Le attuali leggi sono assurde e sono state scritte da chi non ha alcuna competenza in materia. Io frequento master e mi tengo continuamente aggiornata. E posso dimostrare a tutti che i cosiddetti animali selvaggi non sono per nulla selvaggi, ma possono essere addomesticati attraverso il metodo del rinforzo positivo, l'esatto opposto cioè delle fruste e dei sistemi coercitivi. Roba che appartiene al passato e che oggi nessun domatore si sognerebbe di adottare».
Valeria è l'unica addestratrice che ha deciso di rimanere in Italia: «Le altre mie pochissime colleghe lavorano all'estero, in Paesi più civili del nostro. Dove anche le istituzioni hanno capito che circo e animali non sono incompatibili. A condizione che gli uomini amino gli animali come questi ultimi amano noi».
Una visione troppo romantica del rapporto tra persone e bestie? «Cavalli, scimmie, e tanti altri animali che, in forza di leggi assurde, sono stati separati forzatamente dai propri habitat circensi (parliamo di animali nati infatti nei circhi ndr) si sono lasciati morire rifiutandosi di bere e mangiare - risponde Valeria -. Se mi portassero via i miei sei leoni e le mie due tigri non potrei più vivere. Continuerò sempre a combattere. Per me e per loro. Disposta a privarmi della mia libertà per l'amore verso i miei animali».
· Muto come un pesce.
Ritorna lo storione nel Mare Adriatico. «Non si pescava da più di 30 anni». Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 da Corriere.it. Quando lo hanno tirato su i pescatori non ci hanno messo molto a capire che non era un pesce qualunque. «E questo cosa ci fa nella rete?». Uno storione, giovanissimo, lungo una sessantina di centimetri , pescato nei giorni scorsi al largo di Marina di Ravenna. La notizia ha fatto subito il giro dei media. Perché era da più di 30 anni che non se ne vedeva uno in Adriatico. Un animale considerato estinto. Appena i pescatori hanno capito di cosa si trattava e della rarità dell’esemplare finito nelle loro mani lo hanno affidato ad altre mani, quelle del Cestha, un centro per la riabilitazione per la fauna ittica. Che lo hanno accolto con una certa eccitazione. «Si tratta del primo recupero in assoluto di un esemplare vivo» — dice Simone D’Acunto direttore del Cestha. Un dato importantissimo per i ricercatori». La salute del pesce storione migliora. E tra non molto ritornerà in mare. Per i ricercatori di cui parla D’Acunto si tratta di un fatto molto importante. È la prova che il giovane storione ha percorso con successo gli oltre 300 chilometri che li separavano dal mare. Da un habitat all’altro senza trovare ostacoli. Lo storione «beluga», nome scientifico «Huso huso» appartiene al gruppo di pesci rilasciati a inizio estate nell’area del Parco del Ticino allo scopo di ripopolare i fiumi (fa capo al progetto europeo LIFE Ticino Biosource). Sono allevati in vasche naturali di roccia nel fiume. Dopo un mese di vita il beluga è pronto per il viaggio verso il mare con un chip applicato sotto la pelle. Al progetto collabora un biologo marino, Oliver Mordenti che insegna Acquacoltura a Cesenatico (Università di Bologna). Lui e i suoi collaboratori hanno la responsabilità del ripopolamento dell’area sud del Delta del Po. Spiega: «Il nostro compito è trovare un alimento per lo storione che non sia il classico mangime. Una dieta per favorire la sua sopravvivenza. Abbiamo testato pesce azzurro, crostacei e vermetti. Abbiamo notato che vanno matti per i crostacei». Fino agli anni settanta, nell’era pre estinzione, lo storione beluga sguazzava nelle acque dell’Adriatico in abbondanza. Si pescava e finiva nei piatti delle persone. Poi è cominciata un’altra storia. In breve tempo è sparito. Non c’è una sola causa. La sua scomparsa è dipesa da molti fattori. L’inquinamento delle acque. La pesca selvaggia senza limiti e controlli. L’azione del pesce siluro, diffuso nei bacini del Po. E, soprattutto, le barriere. Lo storione è un pesce resistente, può percorrere centinaia di chilometri ma deve avere campo libero per arrivare alle acque salate del mare. Spiega D’Acunto: «Gli sbarramenti costruiti nel corso degli anni per il controllo idraulico o la produzione dell’energia elettrica ne hanno impedito il passaggio. Fortunatamente le Regioni del nord Italia hanno iniziato a rimuoverli». Cita l’ esempio dell’Isola Serafini dalle parti di Piacenza. Un’isola fluviale, la maggiore del fiume Po, che ospita una centrale idroelettrica. Da quando è entrata in attività è diventata il grande tappo sul fiume. Almeno per lo storione. «Aprendo questa enorme diga hanno eliminato l’ostacolo principale sul Po — aggiunge Olivier Mordenti—. Sta funzionando. Stanno risalendo anche altre specie ittiche, come l’anguilla e la cheppia». Lo storione sceglie il mare. Questo è sicuro. Così come le acque dolci per riprodursi. Possibilmente pulite. Ma ci vorrà ancora tempo perché si ricostituisca in Adriatico una popolazione di pesci stabile e numerosa come quella che c’era decenni fa. La storia è solo all’inizio. Un «beluga» raggiunge la maturità sessuale a 20 anni. Quello pescato a Marina di Ravenna ha appena sette mesi di vita. «Incoraggia però il fatto che di recente altri due storioni sono stati segnalati nelle acque di Roseto degli Abruzzi e di Rimini — dice Mordenti—. E che i pescatori ci danno una mano. Noi abbiamo sottoscritto un accordo con l’associazione dei capannisti che hanno le reti nel Delta del Po, luogo cruciale e obbligato per il passaggio dei pesci».
Nicola Pinna per “la Stampa” il 16 dicembre 2019. I pescivendoli del grande mercato di San Benedetto stroncano subito ogni speranza: «Ricci? Quest' anno sarà impossibile trovarli. Qualche pescatore in realtà ce li propone, persino in nero, ma non vogliamo rischiare le multe. E poi i prezzi sono diventati troppo alti e noi preferiamo rinunciare». In pescheria ne fanno soprattutto una questione economica ma il business incontrollato dei ricci di mare ha creato in questi anni un enorme problema ambientale. Lo dicono gli studi: la specie rischia l'estinzione in poco tempo. Eppure, il richiamo dello spaghetto o dei crostini sembra davvero molto più forte. Le richieste non mancano, i prezzi hanno superato quello di ostriche e aragoste e il mercato è diventato clandestino. Pesca di frodo, vendita abusiva e nessuna registrazione degli esemplari finiti in rete. A Sant' Elia, storico borgo di pescatori, la polpa rossa si vende ogni giorno sotto banco, quasi come se fosse una scorta di droga. Bisogna trovare lo spacciatore giusto, ma è necessario attendere la giornata ideale, senza vento, perché il maestrale è il primo nemico di chi si deve tuffare e arrivare a parecchi metri di profondità. La vendita avviene in un vecchio garage, saltando il passaggio dei centri di trasformazione. Sul prezzo non c' è margine di trattativa: «Una bottiglietta da mezzo litro di polpa - dice uno dei cinque ragazzi appena rientrati dalla battuta di pesca mattutina - la vendiamo a 80 euro. Lo scorso anno erano 70: il rincaro è stato minimo, se si considera che questo lavoro è diventato impossibile». Le regole per la pesca sono più rigide, ma il problema più grave si nota solo andando in profondità. Il fondale, dicono gli studiosi, è diventato una tabula rasa. Nelle coste della Sardegna il problema sembra diventato molto grave, ma il rischio di estinzione degli echinodermi interessa Puglia, Campania e la parte del Lazio in cui si pratica la raccolta professionale. Nonostante la situazione, le norme ministeriali sono ancora abbastanza permissive e prevedono lo stop alla pesca solo tra maggio e giugno, nei due mesi che coincidono con la riproduzione. Le Regioni hanno poi la possibilità di estendere il periodo di blocco ma non tutte hanno preso decisioni eco-compatibili. In Sardegna negli ultimi 10 anni sono stati raccolti più di 25 milioni di esemplari e gli effetti del grande assalto sembrano più gravi che altrove. Per questo la Regione ha stabilito regole più severe, ma per ambientalisti e studiosi c' è bisogno di una moratoria di almeno 3 anni. Per ora è stata bandita la raccolta per i pescatori sportivi ma nel frattempo nell' isola si ripete la guerra tra i pescatori che possono andare in profondità solo in apnea e quelli che hanno il permesso di usare le bombole e di recuperare più velocemente un numero maggiore di esemplari. Accusata di aver addirittura anticipato la data d' inizio della stagione, l' assessora regionale all' Agricoltura, Gabriella Murgia, punta a un piano di riequilibrio dei fondali: «Il nostro obiettivo è un piano di ripopolamento, c' è bisogno di una programmazione. Bloccare la pesca per pochi mesi non consentirebbe di risolvere il problema ambientale». Nella costa tirrenica della Campania, non lontano da Benevento, l' ultimo sequestro è di pochi giorni fa: più di un quintale di ricci raccolti senza licenza e tre abusivi arrivati dalla Puglia sono stati denunciati dai carabinieri. Per un piatto di ricci c' è chi è disposto a spendere decine di euro e vista la carenza di materia prima si è sviluppato il mercato dell' importazione. Soprattutto da Spagna e Portogallo, dove non esiste limite alla raccolta. I controlli della Guardia costiera sono quotidiani e anche in Sicilia, nella zona di Augusta e a Favignana, i pescatori di frodo sono finiti nella rete della capitaneria. La tentazione della tavola, comunque, sembra più forte dell' allarme lanciato dagli studiosi. Sanzioni e denunce non bastano e allora da qualche settimana è iniziata una campagna social. Appello rivolto ai ristoratori e ai loro clienti: un invito al consumo consapevole che ha convinto molti chef a far sparire l' oro spinoso del Mediterraneo dal loro menù.
Muto come un pesce. Report Rai. PUNTATA DEL 16/12/2019. Di Emanuele Bellano, collaborazione di Greta Orsi. Mari e oceani sempre più sfruttati da pescherecci commerciali e industriali stanno subendo un continuo impoverimento delle riserve ittiche. La pesca illegale intacca sia le aree marine protette destinate al ripopolamento dei mari sia i giovani esemplari di pesci che in questo modo non riescono a riprodursi e a rinfoltire le proprie specie. La conseguenza è che il pesce pescato oggi è in grado di coprire solo una parte della richiesta del mercato. Circa il 50% del pesce che arriva sulle nostre tavole è allevato. La produzione intensiva di pesce in acquacoltura pone però interrogativi e problemi. Gli antibiotici usati su vasta scala, i mangimi costruiti artificialmente con l'aggiunta di additivi sintetici e ad alto contenuto di grasso: tutto alla fine finisce nelle carni del pesce allevato e quindi nei nostri piatti. Per compensare l'enorme richiesta di pesce del mercato europeo, intanto, ogni anno migliaia di tonnellate vengono importate dall'estero. A che costo?
MUTO COME UN PESCE Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi Immagini Davide Fonda – Tommaso Javidi – Paolo Palermo Montaggio Igor Ceselli.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si avvicina il Natale, consigli per gli acquisti. Hanno fatto da oltre un decennio il loro ingresso sul mercato gli smartbox, cofanetti che promettono “notti di charme e di relax”, li compri ma finisci poi con finanziare inconsapevolmente il progetto politico di un imprenditore che strizza l’occhiolino a movimenti dell’estrema destra. Questo per dire: occhio alla tracciabilità se non vuoi riservare brutte sorprese. Questo vale per i cofanetti, ma vale anche per il pesce. In tema di trasparenza sono stati fatti importanti passi avanti negli ultimi anni, con l’etichettatura: viene scritto su il nome, il mare di provenienza, se è stato allevato, se è stato pescato in mare aperto, come è stato trattato o conservato. Ma l’etichettatura è sempre sinonimo di sicurezza? A volte è meglio, è più onesto, essere nudi che vestirsi di trasparenze. Questo perché secondo gli ultimi studi della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura, in tema di trasparenza noi italiani siamo i più grandi truffatori al mondo. Ne ha fatto i conti il nostro Emanuele Bellano: è andato a scegliere il pesce per il suo cenone di fine anno e ha dovuto fare lo slalom tra etichette ingannevoli, quelle scolorate quando invece i colori è importante capirli e capire perché quello che doveva essere bianco è diventato grigio, quello che doveva essere rosa è diventato marrone. E non è, ve lo assicuriamo, solo una quesitone cromatica.
PESCATORE 5 euro pure questo.
PESCATORE 1 Tiè la roba seria, tiè… aspè, faje la foto.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è pesce fresco, appena sbarcato dai pescherecci in porto. Ma se non puoi andare a comprarlo in banchina, devi fidarti di chi te lo vende. In pescheria o al ristorante. Così a volte succede che ordini la cernia e ti servono persico africano. Oppure compri il merluzzo e in frigorifero ti ritrovi pollock o nasello. Per difendere i consumatori dagli inganni, la legge obbliga le pescherie a esporre etichette dettagliate.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO L’etichetta corretta che dice? Innanzitutto il nome della specie: orate pescate, fao 37, punto 1 punto 3, mar di Sardegna. Quindi noi arriviamo addirittura al mare. Nei crostacei c’è un’aggiunta, per legge, che è la presenza o assenza di solfiti. Perché a bordo dei pescherecci, per evitare che diventi nero il carapace, perché appena viene pescato il gambero, dopo un po’ c’è un meccanismo di macerazione del carapace, del guscio, e si annerisce, e quindi il consumatore lo vede nero. Loro mettono un’aggiunta di solfiti che sono previsti dalla norma, sono consentiti.
EMANUELE BELLANO Devono essere indicati.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Però nell’etichetta lo devi mettere. Perché io posso essere allergico.
EMANUELE BELLANO Quindi infatti qui c’è scritto contiene solfiti.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Contiene solfiti.
EMANUELE BELLANO Anche questi altri.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Anche nei gamberi rosa… contiene solfiti. C’è la zona di pesca, zona fao 37 punto 1 punto 3, Mediterraneo, Mar di Sardegna, reti da traino. Così il consumatore ha l’informazione completa.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qualcosa però non torna. Questa è una mappa interattiva che raccoglie le segnalazioni pubblicate in studi accademici sulle frodi del pesce. Più intenso è il colore rosso dei simboli, più importante è la frode. A livello globale l’Italia risulta insieme agli Stati Uniti, il paese dove si verificano più truffe nella vendita di pesce.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Tutti i pesci freschi pescati hanno come caratteristica principale il colore, la brillantezza. Per esempio, guardiamo le ricciole e guardate i colori. È straordinario. Cioè, mantiene la striscia gialla della doratura della ricciola ed è un sinonimo di freschezza. Se noi toccassimo quel pesce non ci sarebbe… la pelle sarebbe tonica, perché ancora in acqua…
EMANUELE BELLANO Cioè, non rimane il segno del dito.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Non rimane il segno del dito.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma com’è il pesce che spesso si trova nelle pescherie e nei mercati rionali?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Vedi? Quelle gallinelle là, nella norma, hanno un rosso brillante; invece vedi che sono grigie, addirittura nere.
EMANUELE BELLANO Ma quelle gallinelle lì sono fresche o scongelate?
PESCIVENDOLO Fresche.
EMANUELE BELLANO Fresche?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Quello sgombro là non è commestibile.
EMANUELE BELLANO E perché non è commestibile?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Perché si vede dai colori. Ora quello addirittura, guarda la testa, quello è proprio pesce vecchio.
EMANUELE BELLANO Perché il colore non è più vivido. Com’è questo pesce spada?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo pesce spada è proprio vecchio.
EMANUELE BELLANO E da che si vede?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Dal colore della carne. È troppo sul marrone.
EMANUELE BELLANO È marrone.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Dovrebbe essere rosa, rosa pallido. Quello proprio è un pesce che ha almeno dai 10 ai 15 giorni.
EMANUELE BELLANO Qui che abbiamo poi? Vediamo un po’.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO I calamari decongelati che sono ovviamente molto brutti.
EMANUELE BELLANO Questi qua. Cosa hanno di brutto questi calamari?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questi sono robaccia che non sai neanche quando è stata decongelata.
EMANUELE BELLANO Perché?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Perché è proprio l’aspetto, sono proprio i colori. Tipo le ali del mantello: qui le ali del mantello sono già grigie.
EMANUELE BELLANO E dovrebbero essere invece bianche. Quando è stato scongelato questo?
PESCIVENDOLO Lavato adesso. Stamattina.
EMANUELE BELLANO Lavato adesso, ma scongelato quando?
PESCIVENDOLO C’è la fattura c’è.
EMANUELE BELLANO Non me lo dici quando? Un po’ di tempo fa, eh? Dal colore. Perché lui se ne intende, mi ha detto che dovrebbero essere più bianchi. O no?
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Anche molte etichette non rispettano la norma e sono incomplete e ingannevoli.
EMANUELE BELLANO Allora, vediamo che c’è scritto. C’è scritto pescato.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Ma non c’è scritto decongelato. La norma dice che tu devi scrivere decongelato o scongelato.
EMANUELE BELLANO Questo qui è pesce fresco oppure scongelato?
PESCIVENDOLO Fresco, fresco fresco.
EMANUELE BELLANO Tutto fresco qui?
PESCIVENDOLO Tutto fresco, sì.
EMANUELE BELLANO Quei gamberi lì? Quei gamberoni lì?
PESCIVENDOLO Congelato.
EMANUELE BELLANO Scongelato quello. Però non c’è scritto sopra.
PESCIVENDOLO Decongelato. Ogni tanto quando pulire va via.
EMANUELE BELLANO Ah, se ne va via. Okay.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non solo: per questi crostacei non è indicata la presenza di solfiti. Per orate e spigole, invece, manca la provenienza.
EMANUELE BELLANO Questa è fresca ed è allevata.
PESCIVENDOLO Sì, allevata.
EMANUELE BELLANO Da dove viene?
PESCIVENDOLO Questa da Gaeta.
EMANUELE BELLANO Gaeta.
PESCIVENDOLO Questi dalla Grecia.
EMANUELE BELLANO Però non c’è scritto qua.
PESCIVENDOLO Scrivo scrivo. Però vedi, 10 minuti dopo, 15 minuti dopo pulire. Capita!
EMANUELE BELLANO Va via. Vabbé, vabbè.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Altro banco, stessa situazione.
EMANUELE BELLANO Questa qui da dove viene?
PESCIVENDOLO Dall’Africa.
EMANUELE BELLANO Ma è fresco o scongelato?
PESCIVENDOLO Non è fresco.
EMANUELE BELLANO Però qua ce lo dovrebbe scrivere eh! Perché se no io lo compro e poi… penso che è fresco. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Anche lui scrive l'indicazione del congelato solo dopo la nostra segnalazione. Se avessimo comprato quei filetti credendoli freschi, avremmo corso un pericolo.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Magari li metto nel freezer e me li congelo. Quel gesto là è un gesto pericolosissimo. Perché io sto mettendo una cosa dove la catena del freddo è stata interrotta.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui poi manca del tutto l’etichetta.
EMANUELE BELLANO Questo cos’è?
PESCIVENDOLO Baccalà spellato. Queste sono delle alici.
EMANUELE BELLANO Queste alici qui non potrebbero essere tenute così.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Qua ovviamente non c’è niente. Non c’è nome di specie, non c’è niente.
EMANUELE BELLANO Sia su queste alicette che su quei gamberetti qui.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sì.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A tutelare i consumatori dovrebbero essere i controlli dei vigili urbani. Li vediamo girare nel supermercato, ma appaiono distratti. Anche di fronte a evidenti violazioni delle più basilari norme igieniche.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Per esempio, guarda, non puoi tenere la roba così.
EMANUELE BELLANO Ah, vedi! Questi che pesci sono?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sono dei cefali. Una cassetta di roba destinata al consumo umano non può stare a terra.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli italiani, nel 2017 hanno divorato 30 chili di pesce a testa e sono tra i cittadini che mangiano più pesce in Europa. Nell'ultimo decennio il consumo è talmente aumentato che il pescato non è in grado di soddisfare nemmeno una parte della richiesta. Un pesce su due che oggi arriva sulle nostre tavole è allevato. Più della metà di quello prodotto in allevamenti italiani è un pesce di fiume, la trota.
ALLEVATORE Dove le facciamo nascere è un allevamento a parte. Poi quando arrivano a essere di una certa grandezza, 20 grammi, 30 grammi le caricano col camion e si scaricano in testa qua. In cima lì.
EMANUELE BELLANO Quindi man mano che ci avviciniamo qua sono più grandi di taglia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le trote più richieste pesano tra i 400 e i 600 grammi. In Italia se ne vendono circa 20 mila tonnellate all’anno. Per cucinare questo pesce gli italiani nel 2018 hanno speso circa 100 milioni di euro. La pesca nei piccoli laghi o nei torrenti di montagna è ridotta quasi a zero. É stata sostituita dagli allevamenti ad altissima intensità. Le trote sono allevate in vasche di cemento.
EMANUELE BELLANO È incredibile perché il fondo è chiaro però sembra quasi che è scuro perché vedi lo scuro della pelle della trota.
ALLEVATORE Se tu vai a vedere magari quella che sta in una vasca di cemento stretta, comincia a mancare la pinna bianca, la coda; perché sta stretta, un po’ si mangiano tra loro un po’ si sfrega sul cemento.
EMANUELE BELLANO Quando stanno troppo strette.
ALLEVATORE Sì, succede a tutti. A seconda appunto di quante ne tieni nella vasca.
EMANUELE BELLANO Qui ce ne stanno tante. Quante ce ne stanno in una vasca come questa?
ALLEVATORE Ce ne puoi mettere 50 quintali come 130.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ammassate una all’altra si tratta di circa ventimila trote per ogni vasca. La promiscuità rende molto più facile la diffusione di malattie.
ALLEVATORE Gli può prendere, che ne so, la branchiale, oppure la bocca rossa. Certo, una parte te la perdi. Però poi ci stanno dei mangimi medicati. Gli dai, che ne so, una settimana, quindici giorni a seconda di quello che dice il veterinario.
EMANUELE BELLANO Ah, questo è medicato
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il mangime medicato ha questa etichetta. La sulfadiazina è un antibiotico della categoria dei sulfamidici. Nei pesci serve per curare varie malattie batteriche. Viene usato però anche nell’uomo ed è efficace per curare la meningite, la febbre reumatica e la toxoplasmosi. Il Trimetoprim, un altro antibiotico, è un farmaco spesso somministrato nell’uomo per curare le infezioni delle vie urinarie, delle vie respiratorie, l’otite e le gonorree. ALLEVATORE Lo butto qui e se lo mangiano loro.
EMANUELE BELLANO Loro. Quindi siccome è nel mangime tutta la vasca prenderà l’antibiotico o la medicina che gli viene data.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In altre parole quando le prime decine di trote iniziano ad ammalarsi e a morire l’allevatore sostituisce il mangime normale con il medicato a base di antibiotici che viene assorbito non solo dalle decine di pesci malati, ma da tutti i 20 mila pesci presenti.
ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI L’utilizzo del farmaco è molto controllato.
EMANUELE BELLANO Però di fatto la somministrazione avviene a tutti gli esemplari presenti nella vasca, anche quelli che non hanno contratto la malattia. Contribuisce al rischio di antibioticoresistenza?
ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI Sì ed è proprio per quello che stiamo lavorando sui vaccini e sulla biosicurezza; nello stesso tempo cerco di fare il minimo utilizzo di antibiotico.
EMANUELE BELLANO Ogni quanto tempo vi capita di dover fare questi trattamenti?
ALLEVATORE Un anno non lo fai mai e un anno lo fai sei volte, dipende.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà controllando i registri si vede che la somministrazione è molto più frequente. ALLEVATORE Vedi? Malattia batterica.
EMANUELE BELLANO Cioè, dal 6 di settembre al 12 di settembre. Poi quest’altro dal 15 settembre al 20 settembre. ALLEVATORE Questa può essere la stessa vasca perché non gli è bastata oppure un’altra vasca perché gli ha preso la settimana dopo.
EMANUELE BELLANO Questo è il 15 maggio. L’1 luglio, il 6 luglio. Il 21 luglio, il 3 agosto, il 21 settembre, il 21 ottobre, il 14 gennaio, poi passiamo al 2018. Nel 2015 tutto ottobre, insomma. Una somministrazione il 16, una il 25, una il 16 novembre, il 25 novembre, il 14 dicembre e così via, sempre per malattia batterica. Quindi questi saranno antibiotici.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma qual è il rischio connesso all’uso di massa degli antibiotici? Più organismi entrano in contatto con i farmaci antibiotici e più si sviluppa la farmacoresistenza. I principi attivi somministrati ai pesci sono gli stessi che vengono usati per curare le malattie dell’uomo. Ogni volta che un batterio, responsabile di una malattia, entra in contatto con un antibiotico tende a mutare e a diventare immune a quel farmaco. Quando somministriamo antibiotici ai pesci creiamo i presupposti per cui i batteri che li hanno attaccati, possono mutare e diventare resistenti a quella medicina. La resistenza acquisita si trasmette geneticamente ai batteri discendenti e trasversalmente ai batteri che entrano in contatto con i resistenti. Quando un batterio resistente attacca l’uomo, l’antibiotico, che prima era efficace, a quel punto è privo di effetti. Più volte usiamo antibiotici in gran quantità e più probabilità ci sono che i farmaci diventino inutili per curare le malattie.
EMANUELE BELLANO E oggi che farete?
ALLEVATORE PIOMBINO Oggi peschiamo. È una pesca grossa, sono 28 tini.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è un allevamento di pesci in mare.
ALLEVATORE PIOMBINO Buongiorno.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La giornata inizia prima dell’alba. Le gabbie con i pesci sono a tre miglia dalla costa. ALLEVATORE PIOMBINO Questo è il promontorio di piombino, quella è l’isola d’Elba. Quattro chilometri per quattro dove c’è tutti gli allevamenti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con 4 milioni di pesci ogni anno il golfo di Follonica, in Toscana, è l’area dove si concentra la più grande produzione di pesci allevati in mare d’Italia. Qui si allevano orate e spigole.
EMANUELE BELLANO Queste sono orate?
ALLEVATORE PIOMBINO Sì, sono orate.
EMANUELE BELLANO Qual è il limite?
ALLEVATORE PIOMBINO Per una gabbia così se tu le peschi abbastanza presto a 200/220 mila ci puoi arrivare.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Fino a duecentoventimila esemplari nella stessa gabbia. Per orate e spigole l’impatto delle malattie e il rischio di epidemia è maggiore addirittura che per le trote.
ALLEVATORE PIOMBINO Noi abbiamo avuto una gabbia dove abbiamo perso su 170 mila 80 mila pesci. Dipende da che tipo di malattia abbiamo. Se è impattante nel momento dove c’è l’acqua calda, parte, parte 1500/2000 pesci al giorno che muoiono.
EMANUELE BELLANO E quindi in quel caso che fai? Devi intervenire con gli antibiotici?
ALLEVATORE PIOMBINO Eh, quando c’hai.. sì.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E quando allevamenti come questo comprano gli antibiotici le quantità sono impressionanti.
ALLEVATORE PIOMBINO 2 Documento di trasporto del mangime medicato.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Soltanto questo lotto 3.000 chili.
ALLEVATORE PIOMBINO 2 L’antibiotico è frutto del progresso, non ce lo dimentichiamo. Che si vuole negare l’utilizzo di qualcosa che è frutto del progresso mi sembra una cosa ridicola.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Loro sono tra gli allevamenti più importanti in Italia e vendono orate e spigole alla grande distribuzione. Ogni settimana forniscono decine di quintali al circuito Coop dove campeggia il marchio antibiotic-free. DIPENDENTE PESCHIERA COOP Questa è l’orata coop signore e queste sono le spigole coop. Non usiamo antibiotici negli ultimi sei mesi di pescata.
EMANUELE BELLANO Tutte senza uso di antibiotici?
DIPENDENTE PESCHIERA COOP Bravissimo. Mare aperto, allevati nel tratto di mare circoscritti.
EMANUELE BELLANO Cioè pesci a cui non sono stati somministrati antibiotici negli ultimi sei mesi di vita.
ALLEVATORE PIOMBINO È una cosa di marketing, si riempiono la bocca di tanti bei propositi. L’antibiotic-free. Però poi alla fine vince il fatturato, nel senso che è un’industria come un’altra.
EMANUELE BELLANO Perché dici?
ALLEVATORE PIOMBINO Perché c’è un discorso di prezzo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le orate e le spigole con il marchio antibiotic-free nei supermercati Coop si contano sulle dita della mano. Tutto il resto sono pesci di importazione.
EMANUELE BELLANO Grecia, anche questo viene dalla Grecia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Negli ultimi cinquant’anni abbiamo raddoppiato il consumo di pesce. I mari non sono in grado di soddisfare la nostra richiesta e la ricaduta è questa: allevamenti intensivi, e per non rimetterci, usano migliaia di chili di antibiotici. Nel 2018 i ricercatori dell’Università Coimbra, in Portogallo, hanno documentato il passaggio dei batteri resistenti agli antibiotici dai pesci allevati agli animali di terra, all’uomo e viceversa. In questo scambio avrebbero avuto un ruolo fondamentale l’alimentazione e l’acqua. Poi nel 2016 già i ricercatori dei Ministeri della Salute del Vietnam e del Giappone che hanno collaborato in una ricerca e hanno analizzato un campione di gamberetti che arrivano anche sulle nostre tavole e sul 30% hanno trovato la presenza di batteri resistenti agli antibiotici per cui le cure sono limitate o addirittura del tutto assenti. E siamo di fronte a una emergenza planetaria. Secondo gli ultimi dati dell’Oms, ci sono ogni anno circa 700mila vittime dovute appunto ai batteri resistenti agli antibiotici. In Europa 33mila vittime, oltre 10mila solo in Italia. Siamo leader in Europa di questo triste primato. Tanto che il nostro Governo aveva anche meno in piedi un piano per contrastare il fenomeno, ma non è ancora entrato in regime. Doveva occuparsi dell’uso degli antibiotici sugli uomini che sugli animali. Anche la Commissione Europea ha chiesto di monitorare i batteri resistenti agli antibiotici, ma solo sugli allevamenti degli animali a terra: sui bovini, sui suini e sui polli. Non sui pesci, sugli allevamenti dei pesci. È un paradosso perché quello dell’allevamento sarà la nostra fonte di approvvigionamento ittico del futuro. Noi quale precauzione abbiamo preso? L’unica è stata quella di trasferire gli errori che abbiamo commesso in passato su di noi, sul cibo che mangiamo. Fantastico. Non solo li abbiamo riempiti di antibiotici, ma anche di grassi.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A meno di 200 chilometri dalle coste italiane, la spiaggia greca di Igumenitsa è uno dei luoghi con la più alta densità di pesci allevati. La acquaculture presenti qui fanno sì che la Grecia sia il primo produttore al mondo di spigole e orate.
ALLEVATORE 20 allevamenti tutti in quest'area.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oltre la metà del pesce allevato qui, è destinato ai mercati esteri.
ALLEVATORE In mezzora il pesce dalle gabbie arriva qui. Lo puliamo, lo impacchettiamo in scatole come queste e lo spediamo. Questo è per l’Italia.
EMANUELE BELLANO A quanto vendete spigole e orate al mercato italiano?
ALLEVATORE Circa 4 euro al chilo. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Così il pesce greco può essere venduto nei supermercati italiani tra i 6 i 9 euro al chilo. Quasi la metà di quello allevato in Italia che oscilla tra i 10 e 15 euro. Ma come fanno gli allevatori greci ad avere prezzi così competitivi?
ALLEVATORE GRECO Qui le gabbie sono a ridosso della spiaggia, se fossero al largo avresti più corrente e una maggiore ossigenazione dei pesci. Ma sarebbe più difficile e costoso. Le gabbie sarebbe più esposte alle condizioni del meteo e del mare.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per spostarsi da una gabbia all’altra è sufficiente una piccola chiatta. Non servono grandi barche a motore e i consumi di benzina sono ridotti al minimo. Il personale non deve essere particolarmente specializzato e può essere pagato meno. Costruire un impianto di questo tipo è anche molto più economico rispetto a uno in mare aperto.
EMANUELE BELLANO Quanto costa una gabbia come questa?
ALLEVATORE Sui venti mila euro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma c’è una cosa su tutte che influisce sul prezzo del pesce: il tempo che impiega a diventare grande abbastanza da poter essere venduto.
ALLEVATORE Il pesce aumenta di peso in base alla quantità di mangime che gli diamo, ma anche alle caratteristiche del mangime. Se vuoi far crescere più rapidamente il pesce, allora devi mettere molti FCA nel mangime.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO FCA sta per Functional Compounds Additives, cioè l’insieme di additivi chimici e nutrizionali che si aggiungono al mangime per far ingrassare prima il pesce. In natura l'orata per raggiungere la taglia dei 400 grammi impiega circa due anni e mezzo. Le acquacolture più intensive che usano mangimi più spinti con maggiori additivi riescono praticamente a dimezzare questo tempo di accrescimento facendo sì che il pesce raggiunga quella taglia in 14 mesi. Il risultato è un pesce meno costoso, ma che al suo interno si presenta così.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questa è un’orata greca.
EMANUELE BELLANO Questo è tutto grasso
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Tutto grasso.
EMANUELE BELLANO Cioè, tutto questo coso morbido qui è grasso.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sì, è grasso. Questa qua è quella italiana pescata. La prima cosa che osserviamo, la totale assenza di qualsiasi formazione o struttura di grasso. La totale assenza. Questa è un’orata allevata in Italia.
EMANUELE BELLANO Qui qual è il grasso? Vediamolo un po’, tiriamolo fuori.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo qua è un po’ grasso.
EMANUELE BELLANO Questo è grasso…. Però meno, insomma, rispetto a quell’altra.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Assolutamente.
EMANUELE BELLANO Quello che però si vede in maniera evidente è la differenza tra il pescato, il pesce selvatico e quello allevato. Perché l’orata allevata ha tutto questo grasso?
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Essenzialmente il problema è legato alla qualità del mangime.
EMANUELE BELLANO Il mangime che viene utilizzato nell’acquacoltura ha... è grasso?
CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Certo. Sicuramente è maggiore la quantità di grasso che l’animale assume nell’allevato rispetto al pescato perché lo alimentiamo due volte al giorno. Poi una quantità di questa energia non è consumata quindi la accumula.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è un mangime d’acquacoltura largamente utilizzato sia in Grecia che in Italia. La quota di grassi è pari al 16 per cento. In quest’altro mangime, destinato alle trote, i grassi salgono addirittura al 30 per cento cioè un terzo del suo intero apporto nutrizionale.
EMANUELE BELLANO Una spigola o un’orata che vive in natura, che cosa mangia?
CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Mangia pesce, sono pesci carnivori.
EMANUELE BELLANO Quanta farina di pesce è necessaria affinché un’orata, una spigola o una trota ingrassino di un chilo?
CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II – NAPOLI Mi servono attualmente due chili, due chili e mezzo di pescato per arrivare a un chilo.
EMANUELE BELLANO Quindi questa cosa evidentemente.
CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI È insostenibile.
EMANUELE BELLANO È insostenibile.
CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Certo. Un pesce allevato verrebbe a costare troppo. E anche la produzione poi del mangime, comincerebbe a diventare problematica perché il pescato comincia a diminuire man mano.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Talmente insostenibile che la farina di pesce in buona parte è sostituita da ingredienti più economici: farina di soia, di girasole, frumento e scarti degli allevamenti intensivi: come piume di pollo tritate, sangue di maiale, proteine animali trasformate. Per conservare tutto al mangime vengono aggiunti antiossidanti.
ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Bha e Bht che sono i due tipi di antiossidanti che molto spesso vengono utilizzati sia nei mangimi e in realtà fino a qualche anno fa venivano utilizzati anche in alimentazione umana.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Si trovavano nelle patatine fritte, nei biscotti, nelle merendine cioè in tutti quei cibi molto grassi e a lunga conservazione.
ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Nell’infanzia sono assolutamente vietati.
EMANUELE BELLANO Come mai questo?
ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Questo perché si è visto che si possono creare problemi al corredo genetico.
EMANUELE BELLANO Come mai invece le aziende che producono mangime non hanno eliminato questi antiossidanti BHA, BHT dai mangimi dei pesci?
ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI Si sta ricercando la cosa e ovviamente la ricerca è importante. Ci sono dei limiti legati alla tipologia di prodotto e di materia prima, ma non è che dall’oggi al domani si riesce a sostituire completamente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Li abbiamo buttati fuori dalla porta sono rientrati dalla finestra. Si tratta degli antiossidanti, BHT e BHA, si sono rivelati tossici sul dna dei ratti, lì sono stati studiati. Le autorità hanno limitato l’uso negli alimenti, ma ne hanno anche vietato l’uso per gli alimenti dell’infanzia. Tanto è vero che la Nestlè, l’Unilever, la Ferrero li hanno sostituti con degli antiossidanti naturali, il rosmarino nelle patatine hanno messo. Il paradosso qual è? Che noi abbiamo evitato che queste sostanze chimiche venissero mangiate dai nostri figli attraverso patatine e merendine e poi gli le abbiamo fatte mangiare attraverso i pesci d’allevamento. E poi è stato dimostrato scientificamente che queste sostanze trasmigrano dal mangime alla carne del pesce. L’ha dimostrato uno studio norvegese, si chiama trasmigrazione feed to filet. È una follia perché consentiamo che spigole, orate e trote vengano alimentate con mangimi vegetali e anche qui lo studio norvegese ha dimostrato la trasmigrazione di pesticidi nella carne e poi per far crescere più in fretta il pesce che cosa facciamo, lo riempiamo di additivi e anche di grasso, dal 16 al 30%. Tutto questo per farlo crescere più in fretta. Perché se si volesse farlo crescere come madre natura richiede, cioè i pesci sono carnivori, per farli crescere di un solo kg, bisognerebbe tirare su 2,6 kg di pesce pescato. È insostenibile dal punto di vista economico, per questo si vira sul prezzo più conveniente. Solo che poi a compensare, ne paghi un altro di prezzo, in un’altra parte del mondo.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo qua vedi, per esempio, questo qua è il è il Vannamai, no? Il famoso gambero che viene allevato nel Sudest asiatico.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Vietnam e Indonesia soprattutto. Cresce in enormi vasche a terra poco profonde. Migliaia di esemplari vengono raccolti ogni giorno e spediti in Europa dove il consumo di gamberi aumenta ogni anno del 4 per cento. Dalla Norvegia arriva prevalentemente il salmone e dall’Atlantico il merluzzo. Sempre di più ormai già puliti e spellati in forma di comodi filetti.
SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Il tema però qual è del filetto? Chi ce lo dice che questo qua è veramente questo? Non c’è nessun sistema. Quando tu hai un pesce spellato questo può essere tutto, solo il dna potrebbe dirci qual è la specie. Io posso prendere una lenguata senegalese, spellarla, come forma è la sogliola e dico filetto di sogliola, a 28 euro, mentre la lenguata senegalese va a 2 euro e 40, 3 euro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le sostituzioni di specie gli esperti della stazione zoologica Anton Dohrn le hanno trovate anche nelle mense scolastiche.
ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN NAPOLI Basta andare a volte nelle mensa dei bambini alle elementari e scoprire che, nella mensa è previsto, cioè c’è orata e branzino, e poi nel piatto si può trovare pangasio o pesce persico africano che da un lato hanno un valore nutrizionale e una qualità inferiore ovviamente all’orata e dall’altro in alcuni casi possono essere contaminati.
EMANUELE BELLANO Lei ha del filetto di pesce persico?
ADDETTA PESCHERIA COOP Sì, qui a inizio banco.
EMANUELE BELLANO Da dove viene questo?
ADDETTA PESCHERIA COOP Lago Vittoria…
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tutto il pesce persico in vendita nelle nostre pescherie e nei supermercati arriva dal Lago Vittoria, nella regione Africana dei grandi laghi, tra Kenya, Uganda e Tanzania. È pescato con piccole imbarcazioni di legno spinte a motori o a remi.
GUIDA Vedi? Hanno pescato del pesce persico.
EMANUELE BELLANO Come è andata la pesca oggi?
PESCATORE Abbondante.
EMANUELE BELLANO Dove li andrete a vendere?
PESCATORE Al mercato di Igombe, qui vicino.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono le sette di mattina e le imbarcazioni di pescatori sul versante tanzaniano del lago Vittoria ritirano a bordo le reti che hanno depositato in acqua la sera prima. Durante il giorno c’è chi continua a pescare.
PESCATORE Catturare il pesce persico non è facile. Bisogna lasciare le reti in acqua per almeno 5 ore.
EMANUELE BELLANO A quanto vendete un chilo di pesce persico?
PESCATORE A 3.400 scellini.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Cioè un euro e 18 centesimi. Come loro ogni giorno si muovono nel bacino del lago Vittoria 37 mila imbarcazioni con circa centomila pescatori. Ogni anno pescano 250 mila tonnellate di persico; nei nostri supermercati è uno dei pesci più economici, circa 10 euro al kg nonostante sia un pesce pescato e non allevato e che percorra 5 mila chilometri per arrivare in Europa. Il fattore chiave di un prezzo così basso è il costo della manodopera.
JOHN DEMAI - SEGRETARIO FUO - FISHERY UNION ORGANIZATION MWANZA TANZANIA Le barche arrivano qui, loro scaricano il pesce, lo trasferiscono su questi camion e poi lo trasportato negli stabilimenti delle industrie di lavorazione.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'unico modo per vendere il pesce è portarlo nelle Beach Management Unit. Sono dei punti di raccolta lungo la spiaggia come questo e sono gestiti dalle principali industrie di lavorazione del persico. Proviamo a chiedere come viene conservato il pesce prima di arrivare nelle fabbriche.
REFERENTE BEACH MANAGEMENT UNIT C'è un problema, per rispondervi mi serve l'autorizzazione dell'ufficio centrale. EMANUELE BELLANO Ci può spiegare almeno come funziona questo impianto?
REFERENTE BEACH MANAGEMENT UNIT Portatemi l'autorizzazione e ne parliamo. Per ora arrivederci.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel centro di raccolta di Igombe ci sono i cartelli della VicFish Limited. È la più grande industria di lavorazione e di esportazione di pesce persico attiva in Tanzania. La sede si trova sul lago Victoria. Per raggiungerla bisogna percorrere un dedalo di strade sterrate alla periferia di Mwanza. L'ingresso è protetto da un muro con filo spinato e un cancello di ferro. GUIDA Buongiorno, vorremmo chiedere se è possibile entrare e visitare l'impianto per vedere come avviene la lavorazione del pesce? GUARDIA GIURATA Aspettate qui.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In fondo si vede parte della struttura dove i persici vengono puliti, sfilettati e preparati per essere spediti in Europa. All'interno dovrebbero essere garantiti gli standard d'igiene europei e un corretto trattamento del pesce con temperature adeguate.
RISORSE UMANE – VICFISH L’unica persona che può autorizzarvi e che può rispondere alle vostre domande ora è in India.
EMANUELE BELLANO Quando prevede che tornerà?
RISORSE UMANE – VICFISH Davvero non saprei, forse a dicembre; perché è partito da poco per una vacanza e può stare via per uno o due mesi.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I camion pieni di filetti escono dallo stabilimento diretti in Europa. Non resta che fidarsi della grande distribuzione, come Coop che sul suo sito garantisce di "presidiare non solo la fase di pesca, ma anche quella di trasformazione del prodotto e di monitorare i rapporti tra i pescatori e le aziende di lavorazione", garantendo la sostenibilità dell'intera filiera.
EMANUELE BELLANO Crede che sia etica la catena produttiva del pesce persico?
DONALD KASONGI - DIRETTORE ESECUTIVO “GOVERNANCE LINKS” No, non è affatto etica. Credo che l’industria del pesce abbia cercato un luogo dove produrre una grande quantità di pesce a basso costo e la loro scelta è caduta sul lago Vittoria.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'area del Lago Vittoria è costellata di miniere d'oro. Enormi buchi nella terra, profondi centinaia di metri che rendono miliardi di dollari ogni anno, sfruttati da compagnie minerarie nordamericane ed europee. Questa è la strada che porta alla miniera d'oro di North Mara al confine tra Kenya e Tanzania. EMANUELE BELLANO Di chi è la miniera?
GUIDA Dei canadesi di Acacia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Acacia Mining è la società del gruppo canadese Barrick Gold, proprietaria della miniera d'oro di North Mara che ogni anno produce tra i 500 e i 700 milioni di dollari in oro.
GUIDA Eppure le persone che vivono qui sono estremamente povere. La miniera è lì, guarda.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il perimetro è circondato da un muro di cemento sorvegliato da guardie armate.
GUIDA Da qui in poi è meglio mettere da parte la telecamera e fare riprese solo con il telefono.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La polizia tanzaniana e le guardie private che sorvegliano la miniera non gradiscono interferenze da parte di associazioni non governative e giornalisti. L’unico modo per riprendere è usare una telecamera nascosta. Nyamongo è il villaggio adiacente agli impianti minerari. Qui incontriamo alcuni ex minatori e il capo della comunità.
EX MINATORE Molte terre sono state occupate dalla grande miniera della Barrick.
EMANUELE BELLANO Hanno pagato le terre che hanno preso?
EX MINATORE Poco, molto poco. Quando gli abitanti del villaggio entrano nei confini della miniera i soldati sparano. Negli ultimi anni più di 300 persone sono morte colpite dalla polizia e dalle guardie minerarie.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video mostra l’invasione della miniera da parte degli abitanti dei villaggi vicini. In sottofondo si sentono gli spari della polizia e delle guardie e un soldato che grida di smettere di sparare contro la folla. Durante una di queste proteste alcuni abitanti sono stati uccisi dalle guardie armate. Nel 2015 la Barrick Gold ha firmato con i parenti delle vittime un accordo di risarcimento per le morti avvenute.
EMANUELE BELLANO Qual è la situazione invece riguardo all’inquinamento?
EX MINATORE È molto pesante. Quando la gente usa l’acqua per lavarsi ha irritazioni alla pelle. Le mucche e le capre bevono quest’acqua e muoiono. Ecco questo è il bacino di scarico della miniera.
EMANUELE BELLANO É enorme.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il bacino è talmente grande da sembrare un lago artificiale.
EMANUELE BELLANO Di che tipo di acque si tratta?
GUIDA Rifiuti, sostanze chimiche. Questo è il punto più critico. L’acqua che fuoriesce dal bacino passa qui e finisce nel fiume Mara. Il nostro governo è intervenuto e per un periodo ha fermato le attività qui.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Barrick Gold si è impegnata a gestire le infiltrazioni di acqua contaminata attraverso l’uso di pompe e la costruzione di altre strutture di contenimento.
EMANUELE BELLANO Che tipo di sostanze contaminanti ci sono nelle acque?
EX MINATORE Le più pericolose sono cianuro e boro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli studi condotti sulle acque e sul suolo hanno mostrato una situazione devastante. Nel 2009 una ricerca dell’Università Norvegese di Scienze ha riscontrato la presenza nel fiume Mara di sostanze tossiche come Cianuro, Mercurio e altri metalli pesanti, con valori anche 140 volte superiori ai limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della Sanità per l’acqua potabile. Poche decine di chilometri più giù le acque del fiume Mara sfociano nel lago Vittoria insieme alle sostanze contaminanti ricevute dalla miniera di North Mara. Intorno al lago, sorgono altre 12 miniere d’oro le cui sostanze tossiche contribuiscono a inquinare l’habitat del pesce persico africano.
DONALD KASONGI - DIRETTORE ESECUTIVO “GOVERNANCE LINKS” La concentrazione di sostanze tossiche è altissima. Oltre alle attività industriali, anche le attività dell’uomo contribuiscono a inquinare le acque del lago Vittoria.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Solo la città di Mwanza conta 3 milioni di abitanti. Che vivono senza una vera rete fognaria, disperdendo nel lago le acque reflue. In porto ci sono decine di attività industriali e un deposito di carburante con cisterne affacciate sull’acqua. Ma una delle attività che contribuisce di più a inquinare il lago è l’agricoltura. Per chilometri e chilometri le sponde sono circondate da campi coltivati. In questo caso si tratta di angurie.
EMANUELE BELLANO In totale quanti cicli di pesticidi e fertilizzanti fate?
AGRICOLTORE Dal seme alla raccolta ci vogliono 75 giorni. In questo periodo usiamo moltissimo i pesticidi, arriviamo anche a dieci trattamenti.
EMANUELE BELLANO Questo è un metodo comune qui di coltivare la terra?
AGRICOLTORE Sì, tutti qui fanno così.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le sostanze chimiche mese dopo mese defluiscono in acqua e si disperdono nel lago. A poca distanza da dove per esempio questo allevatore ha costruito le gabbie per i suoi pesci. Ma c’è ancora una pratica inquietante che contribuisce a inquinare l’acqua.
ELPIDIUS MPANJU - ALLEVATORE É un metodo di pesca illegale: è la pesca col veleno. I pescatori spruzzano il veleno nel lago, i pesci muoiono e poi loro passano a raccoglierli. A volte se vieni qui la mattina presto vedi tantissimi pesci che galleggiano in acqua, tutti morti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Poiché è questo il contesto ambientale in cui nuota, si nutre e si riproduce il pesce persico africano prima di finire nelle nostre cucine, è importante conoscere qual è la qualità delle acque del Victoria. Le uniche informazioni le ha il Nemc, un ente di Governo.
RESPONSABILE NEMC UFFICIO DI MWANZA Prima di dare qualsiasi informazione dobbiamo sapere per quale scopo vengono chieste. Il Governo vuole essere certo che vadano nelle mani delle persone giuste.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sollevando il drone e guardando il lago dall’alto lo scenario però è inquietante: a perdita d’occhio su tutta la grandezza del lago si estendono a pochi metri l’una dall’altra delle striature biancastre. Quando ci si avvicina con la telecamera si vede che sono macchie di schiuma che galleggiano sulla superficie dell’acqua e attraversano il lago per chilometri.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È questa la risposta del sistema capitalistico: i mari non sono più in grado di soddisfare la nostra richiesta di pesce e allora scelgono un altro luogo. Poco importa se è un lago inquinato, tra i più inquinati al mondo, purché si peschi a basso costo. E si risparmia su cosa? Sulla tutela della salute, sulla tutela dell’ambiente, sullo sfruttamento dei lavoratori. E poi il governo tanzaniano evidentemente non ha giudicato le nostre le mani giuste a cui affidare le analisi della qualità del lago Vittoria. Così abbiamo pensato bene di chiedere alla grande distribuzione, visto che poi il pesce persico da là viene e finisce sulle nostre tavole. Cosa abbiamo chiesto? Se la filiera rispetta tutte le normative europee in termini di vista sanitario, che è quello della catena del freddo. Se la filiera è etica e sostenibile, parliamo soprattutto di condizioni di vita, ambientale, quella del lavoro dei pescatori. Questo è quello che ci hanno risposto.
COOP “Non riusciamo a rispondere alla vs richiesta. Grazie comunque per la vs attenzione”.
ESSELUNGA “Vi ringraziamo, ma per policy aziendale, non possiamo procedere con la richiesta da voi formulata.” Gruppo PAM “Vi ringraziamo per la proposta di coinvolgimento, a cui non riusciamo, purtroppo, a dar seguito nei prossimi giorni.” Si vede che hanno un po’ da fare.
AUCHAN “La nostra società è impegnata nel processo di integrazione della nostra rete nella nuova realtà di cui siamo entrati a far parte da qualche mese. Non abbiamo, la possibilità di accogliere la vostra richiesta.” Gli unici che non hanno risposto, nonostante abbiamo più volte sollecitato, sono quelli di
CONAD. Insomma non hanno tempo da dedicare al mistero del pesce persico, quando invece sarebbe importante chiarire, visto il contesto in cui viene pescato. Anche perché è uno dei pesci che più si presta alla sostituzione di specie. Basta sfilargli la pelle, lo puoi presentare, servire a tavola come fosse un’orata o una spigola. Anche sulle tavole delle mense scolastiche. Ecco, sarebbe importante saperlo dicevamo perché in base agli studi della Fao e quelli del “Journal of Toxicology and Environmental Health" emergerebbe che il pesce persico proveniente dal lago Vittoria è uno dei pesci più contaminati, più facilmente contaminatili da sostanze come il mercurio e il DDT, ben oltre la soglia fissata dall’Oms. Ecco questo è il risultato perché i mari, come abbiamo detto, non sono più in grado di soddisfare la nostra richiesta. Il Mar Mediterraneo è uno di quelli più sfruttati e per questo i pescatori vanno a pescare laddove non dovrebbero. Però fate attenzione perché adesso c’è un occhio che vigila costantemente su di voi.
STEFANO SALLUSTIO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Vede quella, quella macchina? Controlliamo che tipo di attività sta facendo, perché sta lì in una zona dove non deve stare. Subito con le foto. Hai ripreso la targa? Okay, posizione presa, magari hanno visto le nostre imbarcazioni e per liberarsi del pescato lo lasciano a terra e poi loro si rimettono a fare la pesca regolare.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Limitazioni sulle quote di pesce che ogni imbarcazione può pescare, sul tipo di reti da impiegare, divieto di pescare pesci sotto una certa taglia e perfino aree di ripopolamento dove la pesca è vietata del tutto.
NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Il Mediterraneo è il mare più sfruttato al mondo. Cioè, l’80 per cento delle specie di pesci sono pescate più del dovuto e sul lungo termine rischiano l’estinzione. Ci sono troppe barche da pesca. Gli strumenti che usano sono troppo dannosi.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui siamo al largo delle coste del Lazio e le imbarcazioni della Guardia di Finanza stanno svolgendo dei controlli per assicurarsi che i pescherecci non entrino in aree protette e che usino reti dalle maglie sufficientemente ampie.
STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Loro stanno facendo a strascico. Se vedete, sulla poppa dell’imbarcazione ci sono due cavi perché stanno praticamente tirando la rete.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La pesca a strascico è autorizzata solo oltre le tre miglia dalla costa e usando reti le cui maglie siano almeno di 40 millimetri.
EMANUELE BELLANO Qual è il problema di usare delle maglie più piccole?
STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Dà la possibilità di pescare pesci di piccola taglia e quindi questo danneggia la fauna ittica.
GUARDIA DI FINANZA Buongiorno, stiamo sottoponendo a controllo un motopesca. Ricevuto
STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA È stata riscontrata la presenza a bordo di un attrezzo da pesca vietato. Le dimensioni della maglia di questo sacco erano inferiori a quanto previsto dalla normativa.
PESCATORE È una rete che ho preso…
GUARDIA DI FINANZA L’altro sacco. Perché a me uno me ne interessa.
PESCATORE Sì sì. Perché loro dicono sequestro tutto, io uno
GUARDIA DI FINANZA No, sequestriamo quello là dietro. Non lo potete tenere a bordo. É un attrezzo vietato.
LUIGI GIANNINI – FEDERPESCA Le flotte europee sono sempre state e sono tuttora sottoposte a un sistema di controllo rigorosissimo, probabilmente il più rigoroso e il più avanzato al mondo. Un controllo in mare del quale i nostri pescatori si lamentano fortemente per le sanzioni che vengono applicate. Ecco, l’ultima cosa che mi sentirei di dire è che l’Italia, concorra alla pesca illegale in modo significativo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quante sono le violazioni commesse ogni giorno nel Mediterraneo? I tecnici di Oceana, una organizzazione il cui scopo è tutelare mari e oceani, hanno elaborato un sistema per stimarle.
NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Si chiama Global Fishing Watch che riporta su una mappa i segnali satellitari che emettono tutti i pescherecci. Attraverso la traiettoria possiamo calcolare dove un peschereccio sta pescando e per quanto tempo. Poi incrociamo questi dati con le aree geografiche chiuse alla pesca, quello che abbiamo trovato è pazzesco, un numero incredibile di ore di pesca illegale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questa area di fronte Trapani, in Sicilia, grande poche centinaia di chilometri quadrati e totalmente chiusa alla pesca, ogni giorno, per tutto l’anno sessanta pescherecci entrano per pescare illegalmente.
NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Parliamo di 28 mila ore di pesca illegale in un anno. Se zoommiamo possiamo vedere le barche. Questo peschereccio per esempio a febbraio stava pescando lì dentro.
EMANUELE BELLANO Quindi in queste due settimane questa barca ha pescato ogni giorno nella zona protetta?
NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Sì, ogni giorno. In Italia avete le zone di tutela biologica, le aree marine protette, ma il rispetto di questi divieti è davvero basso.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La pesca illegale finisce con il diventare complice del grande inganno. E su questo siamo i più bravi al mondo, almeno secondo uno studio recente della Fao. La contraffazione delle etichette per chi va a comprare pesce nei ristoranti e nei negozi può arrivare a toccare delle punte del 22,5% cioè significa che circa un’etichetta su quattro inganna. Compri o pensi di mangiare una cosa e ne mangi invece un’altra.
· La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo.
La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo. Le Iene il 16 novembre 2019. Luigi Pelazza ci racconta un metodo illegale di pesca, molto diffuso nel Mediterraneo, dove il 62% dell’habitat rischia di non riprodursi più, come spiega l’allarme dell’Onu. Il dato dell’Onu è allarmante: il Mediterraneo è “il mare più sovrasfruttato al mondo”. Se nel resto del pianeta il 33% della vita marina rischia di non potersi più riprodurre, nel Mediterraneo questo numero arriva addirittura al 62%. Luigi Pelazza ci mostra un metodo molto popolare di pesca, ma estremamente pericoloso, basato su accrocchi creati per attrarre molti pesci in una zona limitata di mare: i cosiddetti f.a.d. illegali. Il sistema è ingegnoso: un filo di plastica ancorato in fondo al mare tiene in superficie delle foglie di palma, per creare l’ombra sotto la quale si radunerà, attirata anche da microorganismi posizionati allo scopo, una gran quantità di pesci. Nel momento della massima concentrazione dei pesci arrivano i pescatori che con le loro reti a circuizione tirano su tutto ciò che c'è dentro. Quello che resta degli oltre 1,5 milioni di f.a.d. presenti nel Mediterraneo è una quantità impressionante di plastica, che da trappola per i pesci diventa trappola per tutto l’ecosistema marino, per decine di anni. Luigi Pelazza, che con i volontari dell’organizzazione ambientalista Sea Shepherd ci porta alla scoperta di questo dannosissimo metodo di pesca.
F.a.d., la pesca illegale che uccide il Mediterraneo. Le Iene il 18 novembre 2019. Luigi Pelazza, con l’equipaggio della sezione italiana di Sea Shepherd, ci mostra un metodo di pesca molto diffuso nel Mediterraneo che ogni giorno riversa in mare tonnellate di plastica e uccide pesci ed ecosistema marino. Luigi Pelazza ci racconta un metodo di pesca illegale e pericoloso, molto diffuso nel Mar Mediterraneo. Parliamo dei cosiddetti f.a.d. illegali, ovvero accrocchi creati per attrarre molti pesci in una zona limitata di mare, che inquinano l’habitat marino con tonnellate di plastica. Tutto questo accade nel Mediterraneo che, dice l’Onu, è “il mare più sovrasfruttato al mondo”. Se nel resto del pianeta infatti il 33% della vita marina rischia di non potersi più riprodurre, nel Mediterraneo questo numero arriva addirittura al 62%. Con l’equipaggio di Sea Shepherd Italia, una ong che si occupa di tutela ambientale, navighiamo nelle Eolie alla scoperta di questo metodo di pesca così dannoso per il mare. Basti pensare che in tutto il Mediterraneo ci sono oltre 1,5 milioni di f.a.d. abbandonati dai pescatori, una vera trappola mortale. Il sistema di pesca è ingegnoso: un filo di plastica ancorato in fondo al mare tiene in superficie delle foglie di palma, per creare l’ombra sotto la quale si radunerà, attirata anche da microorganismi posizionati allo scopo, una gran quantità di pesci. Nel momento della massima concentrazione dei pesci arrivano i pescatori che con le loro reti a circuizione tirano su tutto ciò che c'è dentro. “Nel solo tratto di mare intorno alle isole Eolie, di questi accrocchi illegali ce n'è un bel po', 10mila fad con 6,7,8 taniche e bottiglie cadauno sopra”, racconta Andrea Morello, presidente di Sea Shepherd Italia, “quindi parliamo di centinaia di migliaia di bottiglie riversate nel mare ogni anno”. Un volontario della ong ci racconta una scena a cui ha assistito: “Abbiamo trovato delle tartarughe che erano strozzate al collo o impigliate con le pinne in questo filo di polipropilene e molto frequentemente, pur di scappare perdono l'arto e finiscono quasi sempre per morire”. Un vero allarme, insomma. E pensare che una soluzione ci sarebbe ed è anche obbligatoria per legge. Basterebbe infatti utilizzare del materiale organico biodegradabile, sia per il filo che tiene il f.a.d. ancorato al fondo, sia per quei bidoni che servono per tenerlo a galla. Ma il problema ci spiegano, ancora una volta, è legato ai soldi: “Il polipropilene è molto economico rispetto a un materiale biodegradabile come può essere la canapa, che costa di più”.
· La Sardine.
Giulia Masoero Regis per “Salute - la Repubblica” il 3 dicembre 2019. Se pensate che siano soltanto un movimento di protesta sbagliate. Perché le sardine, seppure tanto bistrattate, sono buone, economiche, versatili. Considerate pesce povero, sono sempre disponibili a buon prezzo in pescheria o sui banchi del mercato. Le sarde o sardine sono un ingrediente tipico della cucina mediterranea, perché è proprio nel Mediterraneo che si concentrano di più e vengono pescate a tonnellate ogni anno: talvolta anche troppo, soprattutto nell'Adriatico, dove sono state spesso oggetto di sovrapesca. Rientrano tra le specie più catturate al mondo (non esistono allevamenti) e nel 2016 in Europa, secondo i dati dell' Osservatorio europeo del mercato ittico (Eumofa), gli sbarchi sono aumentati del 17% raggiungendo il picco più alto dei precedenti cinque anni. «Noi italiani non siamo tra i maggiori consumatori, ma l' acquisto di sardine in Europa è buono: dagli ultimi dati Eumofa sul 2016 emerge che se ne mangiano in media 0,69 chili pro- capite, sia fresche che congelate e trasformate. Sono al decimo posto dei pesci più portati in tavola, capitanati dal tonno a pinne gialle», spiega Valentina Tepedino, responsabile della Società Scientifica di medicina Veterinaria preventiva per i prodotti ittici. «Quelle che troviamo in commercio sono pescate soprattutto nel nostro Mar Adriatico, ma possono arrivare anche dalla Croazia, poi ci sono quelle dell'Atlantico settentrionale, che arrivano da Spagna e Paesi Bassi». Anche se nel 2018 in Italia si è registrato un calo degli acquisti di prodotti ittici, davanti al banco del pesce il consumatore è sempre più attento all'origine, spesso alla ricerca di quello "locale". « Sull'etichetta è obbligatorio riportarla attraverso le zone Fao e apposite mappe - continua Tepedino - o, modalità per me più chiara e trasparente, indicarla per iscritto, ad esempio " Mar Mediterraneo Centrale- Mar Adriatico". In più, se chi vende ha la certezza dell' origine italiana, la può precisare. A prescindere dall' origine, è importante che la sardina sia a filiera corta, più fresca possibile e venduta nel ghiaccio » . Insieme ad alici, sgombro, aringa e altre specie, la sardina è un pesce azzurro, varietà piccole e a ciclo vitale breve il cui consumo è suggerito dagli esperti sia per un discorso di sostenibilità ambientale, sia di salute. «Con una vita media di 5 anni e un'alimentazione a base di fito e zoo plancton, il rischio di contaminanti nella carne di sardine è praticamente inesistente. Inoltre non hanno una stagionalità precisa perché si riproducono tutto l'anno, con un picco in inverno, quindi la rinnovabilità della specie è garantita», dice Silvestro Greco, biologo marino e presidente del comitato scientifico di Slow Fish. Come tutto il pesce azzurro, le sardine sono importanti da un punto di vista nutrizionale, perché ricche di vitamine e sali minerali. «Sono un' ottima fonte di proteine e di acidi di grassi insaturi omega 3, i cosiddetti amici del cuore», dice Gabriele Riccardi, già direttore di Diabetologia dell' ospedale Federico II di Napoli. «Portare a tavola pesce azzurro almeno tre volte a settimana aiuta a ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e a prevenire altre patologie, come l' osteoporosi».
· Il polpo "umano".
Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 13 agosto 2019. Il polpo è dappertutto. Lo si trova nel vasellame di Cnosso, Micene, Rodi, Cipro, mentre i suoi tentacoli sono rappresentati nei mosaici romani e sulle monete a Taranto, Crotone, Siracusa e Paestum; è sugli scudi, ad esempio su quello d' Achille. Plinio ne fa un ritratto e descrive i suoi cambiamenti di colore, e soprattutto l' intelligenza: apre con i sassi le valve, sposta pietre per difendere le tane, esce dall' acqua per rubare le riserve alimentari nei depositi. Il mondo antico è stupefatto - ne scrive Elieno - per le performance di questo strano animale. Il suo mimetismo suscita ammirazione. Poi qualcosa cambia, proprio in virtù della sua capacità di mascherarsi. Per Sant' Agostino è un esempio di tradimento, mistificazione, bugia, simboleggia i tentatori. San Basilio rincara la dose: è l' immagine dell' adulatore. Tuttavia Ulisse Aldrovandi (1522-1605) nella sua sterminata Storia Naturale assegna al polpo un ruolo importante: unisce la natura terrestre a quella acquatica. Nel contempo appare una nuova figura, il Kraken, il polpo colossale, ispirato ai mostri biblici, Behemoth e Leviatano, che assale navi e cattura coi suoi tentacoli i marinai: è la piovra gigantesca. Il Romanticismo trasforma la piovra gigante nel mostro dei mari. Ne scrivono Jules Michelet nel suo Il mare (1861) e Victor Hugo nel romanzo I lavoratori del mare (1866) e poi Jules Verne nell' affascinante Ventimila leghe sotto i mari (1869). La parola "piovra" è introdotta da Hugo, che ne fissa l' immagine mitica. Roger Caillois in un suo libro, La piovra (1973), racconta la storia dell' immagine del polpo, animale affascinante e sorprendente. Lo scrittore francese riassume le tappe di questa creazione fantastica: animale ornamentale e commestibile per gli antichi; lubrico per i giapponesi; ripugnante e mostruoso per i romantici; semifiabesco, per la psicoanalisi, che vede nei suoi tentacoli palesi simboli fallici. Peter Godfrey-Smith, filosofo della scienza australiano con la passione per le immersioni, fa oggi di questo animale il riferimento principale per capire tipi di menti diverse da quelle umane. Che cosa abbiamo in comune noi con i polpi? Un antenato: una creatura simile a un verme, vissuta nell'Ecardiano, 600 milioni di anni fa, piatto, senza cervello e senza occhi. Quello è il nostro punto di unione e quindi di separazione nell' albero che Godfrey-Smith disegna nel suo studio. Su un ramo ci sono i vertebrati come noi, cui succedono i mammiferi, sull' altro gli invertebrati, compresi granchi e api, loro parenti e anche i vermi e molluschi. Come sono diventati così intelligenti i polpi? La storia è lunga, ma affascinante. Il risultato incredibile: un polpo comune, l'Octopus vulgaris, possiede 500 milioni di neuroni. Noi ne abbiamo circa 100 miliardi; i 500 milioni sono l'equivalente di quelli posseduti dai mammiferi più piccoli e dal cane. I cefalopodi, cui il polpo appartiene, hanno un sistema nervoso più sviluppato di tutti gli altri invertebrati. Una notevole porzione del sistema nervoso di un cefalopode non si trova concentrata nel cervello, bensì distribuita su tutto il corpo. I suoi tentacoli pensano poiché la maggior parte dei neuroni si trovano lì: il doppio di quelli che stanno nel cervello. Possiede tre cuori, che pompano un sangue verde-azzurro, dato che è il rame a trasportare l'ossigeno, e non il ferro, che lo colora di rosso, come accade a noi. Le braccia non dispongono solo del tatto; hanno infatti capacità olfattive e gustative e ogni ventosa è dotata di 10.000 neuroni. Nel suo saggio Altre menti il filosofo della scienza divenuto naturalista spiega molte altre cose sui polpi che lasciano stupefatti; così anche Sy Montgomery, naturalista e scrittrice, in un libro, L'anima di un polpo , che è l'ampia cronaca dei suoi incontri con questo animale marino. Se leggerete questi libri, forse non riuscirete più a ordinare un piatto di polpo al ristorante. I suoi occhi sono simili ai nostri: possiedono lenti per la messa a fuoco, cornee trasparenti, iridi per regolare la quantità di luce sul fondo oculare, per convertire la luce in segnali neurali. La sua pelle è uno schermo composto di più strati controllato dal cervello, che dirige milioni di sacche di pigmento simili a pixel. A leggere gli studi sui polpi si trovano esempi sulla loro capacità di riconoscere le persone, di uscire dagli acquari aprendo le chiusure ermetiche, d' impadronirsi delle cose. Sono curiosi, intuitivi e intelligentissimi, capaci di cambiare forma e dimensione. Senza guscio i polpi hanno dovuto sviluppare nel corso di milioni di anni la capacità di sfuggire ai predatori. Tuttavia vivono poco, un anno o due. Godfrey-Smith ci ha avvisati: intercettare un polpo in un' immersione appare come l' esperienza più vicina all' incontro con un alieno che ci possa capitare. Siamo entrambi figli della Terra e dei suoi oceani.
· Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi?
Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi? Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Gli squali non sono pericolosi per l’uomo, sono gli uomini a essere pericolosi per loro». È questo il mantra di ogni biologo marino eppure, a ogni «attacco», ecco che si va a caccia del «mostro». L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto il 7 novembre a sull’Isola di La Réunion dove uno squalo tigre ha ucciso un turista britannico di 44 anni. Non mancano particolari scabrosi: una delle mani, con ancora la fede, è stata trovata nello stomaco del pesce, a sua volta trovato senza vita sulla spiaggia. «È molto più probabile morire per una puntura di vespa o di ape che per l’attacco di uno squalo - spiega Paolo Galli, professore di Ecologia e direttore del MaRHE Center dell’Università di Milano Bicocca - Gli squali attaccano, non c’è dubbio, ma in realtà, la maggior parte delle volte, non è un vero e proprio attacco, è più curiosità. Si avvicinano per studiare cos’è che hanno davanti e morsicchiano per capire meglio». Ogni anno nel mondo si calcolano una settantina di attacchi di cui in realtà solo una decina hanno esito mortale. «Gli squali possono confondere una persona sul surf per una delle loro prede, non capiscono che è un uomo. Non vogliono attaccarci direttamente, pensano che siamo un animale marino. Ad ogni modo in Italia non ci sono questi problemi e nove volte su dieci quando si dice che c’è stato un attacco di uno squalo bianco in realtà non è vero». Talvolta la causa degli attacchi è l’uomo stesso. Galli ricorda come molti cacciatori di emozioni si fanno chiudere in gabbie sottomarine per incontrare il «mostro» da vicino. Fin qui nulla di malese non fosse che spesso, per attirare i pesci, tour operator senza scrupoli diffondo in acqua litri e litri di sangue bovino. Sul breve termine i turisti sono felici, hanno visto lo squalo ma tutto quel plasma attizza i sensi anche di squali molto lontani da lì e li ingolosisce spingendoli ad attaccare a chilometri di distanza. Anche il termine squalo confonde. Quella parola racchiude circa 500 specie diverse che vanno dal minuscolo squalo lanterna nano, che misura una ventina di centimetri allo squalo balena, il più grande pesce in assoluto, che arriva a 20 metri ma non ha denti. È mansueto. «Alcune poi le mangiamo - nota Galli - Il pesce non c’è più e così ecco che sulla nostra tavola finiscono squali come lo spinarolo, la verdesca, il palombo, ogni anno ne uccidiamo cento milioni». Secondo dati Fao, l’Italia è la terza importatrice di carne di squalo al mondo dopo Corea e Spagna. Insomma, alla fine la lista degli «squali pericolosi» si riduce a poche, pochissime, specie come bianco, tigre, toro, tissitore, pinna nera e pinna bianca. Che sono pochissimi. Negli ultimi 40 anni la popolazione degli squali medio-grandi è scesa del 90 per cento. Così, conti alla mano, si scopre che i dieci morti l’anno degli squali sono nulla rispetto a quelli causati da zanzare (oltre 600mila per la malaria), cani (25mila per la rabbia) e perfino lumache di acqua dolce (10mila per batteri). Per non parlare poi dell’uomo stesso (475mila). Gli squali incutono da sempre timore nell’uomo, basta pensare a Ventimila leghe sotto i mari o a Pinocchio (La balena è un’invenzione della Disney), ma il terrore insensato dei nostri anni ha una data d’inizio ben precisa: il 20 giugno 1975. In quel giorno esce nelle sale Usa il film «Lo squalo» di Steven Spielberg. È subito un successo commerciale e con 260 milioni di dollari di incassi batte i campioni del tempo come «L’esorcista», «La stangata», «Il padrino». Quel poster con lo squalo bianco che attacca dal basso la bagnante (donna, ovviamente) che nuota a pelo d’acqua diventa emblematica. Non c’è più quella miscela di paura e rispetto che nutriamo verso il leone o la tigre. Diventa terrore. Come scrive Dean Crawford nel suo libro «Lo squalo» (Orme ed.), col film si innesca una caccia al mostro, centinaia di segnalazioni alla guardia costiera, denunce di inesistenti attacchi e battute di pesca che razziano i mari. «Spielberg ha fatto tanto del bene con Schindler’s List quando del male con Lo squalo», nota Galli riportando un’altra delle opinioni che circolano da decenni nel mondo accademico.
· Gli animali 007.
Gatti, volpi, aquile, pipistrelli. Le spie sono delle bestie. Lo storico del servizi speciali rivela tutti i trucchi. Dai felini usati come cimici ai mammiferi volanti bombardieri. Massimiliano Parente, Domenica 23/06/2019, su Il Giornale. Chi non ricorda Il dottor Stranamore, il fantastico film di Stanley Kubrick con Peter Sellers? Che raccontava un folle equivoco che condurrà il mondo alla guerra nucleare. Per fortuna solo un film, ma la realtà, si sa, supera spesso la fantasia, di sicuro quella cinematografica. Dall'inizio della Guerra Fredda in poi, infatti, se ne sono viste delle belle. Anzi, non si sono viste, ma ci siamo andati vicini. È una lunga e pazzesca storia raccontata da Vince Houghton, storico e curatore dell'International Spy Museum di Washington, nel suo saggio Il pipistrello bomba (Bollati Boringhieri) dedicato a tutti i progetti militari ideati, sperimentati e mai realizzati. Con largo uso di animali di ogni genere. A cominciare dai gatti. Fu un'idea della Cia, si chiamava Acoustic Kitty, ovvero utilizzava gatti come cimici, dopo averli opportunamente operati, per spiare i sovietici. Solo che i gatti tendono a fare quello che vogliono, e l'unico che sembrava eseguire gli ordini finì stirato sotto una macchina. I gatti furono usati anche per alcuni test durante la Seconda Guerra Mondiale, da un'idea del chimico Stanley Lovell: lanciarli con una bomba attaccata alla pancia e un congegno direzionale contro le navi dell'Asse, sperando nell'istinto del gatto di non cadere mai in acqua. Ma i gatti persero i sensi durante i primi quindici metri di caduta e non se ne fece niente. Ma Lovell ebbe anche un'altra pensata: usare della cacca di capra artificiale contaminata da un cocktail di germi da sganciare in Nord Africa per battere i tedeschi senza che si rendessero conto da cosa fossero stati colpiti. A diffondere i germi ci avrebbero pensato le mosche. L'operazione stava per partire quando i tedeschi spostarono le truppe sul fronte orientale, e quindi niente cacca. Tuttavia Lovell inventò anche un vaso da fiori con un derivato chimico da piazzare tra Hitler e Mussolini durante un loro incontro sul Brennero. Il composto li avrebbe resi ciechi. La ciliegina sulla torta sarebbe stata la collaborazione del Papa, che avrebbe dichiarato trattarsi di una punizione divina per la loro malvagità. Anche qui ci fu un inconveniente: il luogo dell'incontro fu spostato su un treno, nel vagone privato di Hitler, e si cambiò piano. Ipotizzando per esempio di somministrare a Hitler degli ormoni femminili per fargli cambiare carattere e fargli cadere i baffetti. Dietro c'era sempre la fervida mente di Lovell. Fu data a un giardiniere una valigetta piena di soldi come pagamento e gli appositi farmaci, ma probabilmente il giardiniere non se la sentì di affrontare Hitler e scappò con i soldi. Tornando agli animali, non crediate che siano strambe idee passate, ne sono piene le cronache degli ultimi decenni. Ecco alcuni titoli di giornale di varie parti del mondo citati da Houghton: «Squalo mandato in Egitto dal Mossad». «Hezbollah: abbiamo catturato in Libano aquila spia di Israele». «Abbas accusa Israele di usare cinghiali contro i palestinesi». Animali talvolta processati come persone. Tipo: «Turchia proscioglie uccello da accusa di spionaggio per Israele». Oppure, altro titolo: «In India polizia cattura piccione, accusato di lealtà volatile». Come nel Progetto X-Ray, concepito da Lytle Adams, un dentista della Pennsylvania: prevedeva l'uso di pipistrelli bomba da utilizzare contro il Giappone in seguito all'attacco di Pearl Harbor. Adams riuscì a suscitare l'interesse del Presidente Roosevelt che dette l'ok alle sperimentazioni, nel 1943. Che non andarono benissimo. Centinaia di pipistrelli, con le loro bombe e in letargo, furono portati alla base militare di Carlsbad, caricati su un aereo, e pronti a essere sganciati su una piccola cittadina giapponese ricostruita. Ma una parte dei pipistrelli si svegliò prima dal letargo e si diresse verso la stessa base americana, distruggendola. Contro i giapponesi si pensò allora di utilizzare le volpi, perché nello shintoismo (religione di Stato in Giappone dal 1868 al 1945) sono animali magici, portatori di buoni o cattivi presagi. E dunque prese piede il Progetto Fantasia, una trovata di un tale di nome Edgar Salinger: spruzzare delle volpi con vernici fosforescenti e mandarle a terrorizzare i nipponici. Solo che le volpi fosforescenti andavano sganciate in acqua e quando arrivavano a riva la vernice era completamente scomparsa. Si riuscì a ovviare all'inconveniente, ma nel frattempo si era trovata una soluzione più efficace e definitiva per mettere fine alla guerra, e questa volta funzionò, eccome se funzionò. Ne sanno qualcosa a Hiroshima e a Nagasaki.
· Il “gatto-volpe”.
SEMBRA UN GATTO, MA NON È. Fulvio Cerutti per La Stampa il 20 giugno 2019. Guardandolo in fretta potrebbe sembrare un gattone di casa, ma in realtà quello che è stato individuato e catturato in questi giorni sulle montagne della Corsica è una nuova specie di felino, molto più simile al gatto selvatico africano (felis silvestris lybica) che a quello europeo (felis silvestris silvestris). «In un territorio di 25 mila ettari ne abbiamo individuati 16 esemplari. Ciò di cui siamo sicuri è che non è un gatto domestico o un gatto selvatico europeo. Questo è quello di cui siamo sicuri - spiega Pierre Benedetti dell’Ufficio nazionale francese per la caccia e la pesca -. Le sue caratteristiche, il suo Dna sono differenti». Dei 16 esemplari individuati, tra cui una femmina, 12 sono stati catturati e taggati e da una prima analisi è emerso che sono lunghi circa 90 centimetri dalla testa all’inizio della coda, hanno dei denti canini particolarmente sviluppati, un pelo grigiobruno molto fitto che impedisce ai parassiti di attecchire, grandi orecchie e una coda folta con colorazione ad anelli. Una specie non classificata per i ricercatori, ma conosciuta ai pastori corsi che da sempre lo chiamano in dialetto locale “ghjattu-volpe”, ossia il “gatto-volpe”. «Questo animale appartiene alla mitologia dei nostri pastori che ci hanno detto che si attaccherebbe alle mammelle delle capre e pecore lasciando loro graffi evidenti. Da queste storie, tramandate di generazione in generazione, abbiamo iniziato la nostra ricerca» spiega Carlu-Antone Cecchini, responsabile delle foreste Missione all’Ufficio nazionale. Nel 2008 è stato lanciato un programma di ricerca e nel 2012 gli studiosi sono riusciti capire che il dna di questo felino era diverso dal gatto selvatico europeo, mentre era più simile a quello africano. Grazie a trappole fotografiche nel 2016 sono state mostrate le prime immagini nella foresta di Asco (in Alta Corsica). Se ci sono ancora molte cose da sapere su questa specie, particolare sulla sua riproduzione e sulla sua dieta, questo gatto potrebbe «essere arrivato ai tempi della seconda colonizzazione umana risalente a circa 6.500 aC. Se questa ipotesi è confermata, la sua origine è mediorientale» spiega Pierre Benedetti. Ora il vero obiettivo è un altro: che nei prossimi due o quattro anni questo gatto venga riconosciuto come nuova specie e protetto.
· Il Ligre.
Repubblica Tv il 14 giugno 2019. Mezzo leone e mezzo tigre: ecco il ligre, il felino più grande del mondo. Questo animale è considerato il felino più grande del mondo. Si tratta del "ligre", un incrocio tra un leone e una tigre. Nel mondo ve ne sono circa un migliaio e possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e pesare fino a 500 chili. La loro imponente stazza li rende molto popolari nelle riserve e zoo del mondo. Nella clip un esemplare chiamato Apollo che è ospitato nel Myrtle Beach Safari in South Carolina, Stati Uniti: ha 5 anni e pesa 340 kg.
Da La Stampa il 14 giugno 2019. Questo animale è considerato il felino più grande del mondo. Si tratta del “ligre”, un incrocio tra un leone maschio e una tigre femmina. Nel mondo esistono circa un migliaio di esemplari e possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e pesare fino a mezza tonnellata. La loro imponente stazza li rende molto popolari nelle riserve e zoo del mondo. Nella clip un esemplare chiamato Apollo che è ospitato nel Myrtle Beach Safari in South Carolina, Stati Uniti: ha 5 anni e pesa 340 kg.
· Non chiamatelo ciuco.
Non chiamatelo ciuco. Umile, forte e tenace: breve elogio dell'asino. Bistrattato da tutti, ha ispirato invece artisti, filosofi e pittori come Giotto e Montaigne. Oscar Grazioli, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Li aveva messi in catene, con una modalità atroce chissà da quanto tempo. I due asinelli vivevano, come incaprettati e la scena che hanno visto gli uomini della Forestale e dell'USL di Martina Franca (Taranto), in azione congiunta, era orribile. I due poveri asini presentavano le zampe anteriori e posteriori impastoiate con catene collegate alla testa, che gli impedivano la deambulazione e il riposo a terra. I ferri erano penetrati nella carne viva lacerandola e provocando ferite infette infestate da un nugolo di parassiti. I due sfortunati equidi mostravano gravi sofferenze, sbattendo il collo ed emettendo versi acuti, ogni volta che dovevano muoversi di pochi centimetri. Ci sono volute numerose ore e diverse persone per liberare gli animali da quegli orribili ceppi e i due asini sono stati subito sequestrati al proprietario che è stato deferito all'Autorità Giudiziaria, ai sensi dell'articolo 544 ter del Codice Penale (Maltrattamento di animali), in quanto senza alcuna necessità cagionava lesioni agli animali, sottoponendoli a sevizie e comportamenti inammissibili per le loro caratteristiche etologiche. Oltre tutto la struttura in cui erano «ospitati» era priva di autorizzazione alla detenzione degli animali che risultavano pure privi di microchip. L'uomo, per il momento, si è visto comminare una sanzione di 10.000 euro ma l'iter processuale è ancora lungo e dovranno essere valutate dalla magistratura le pene per la crudeltà inflitta ai due asinelli, peraltro priva apparentemente di alcuna motivazione, qualora ne possa esistere un barlume. Ora i due asinelli sono curati e coccolati presso un allevamento che li ha presi in carico e li ospita per quello che sono, ovvero esseri senzienti, in grado di percepire emozioni e dolore tanto quanto gli altri animali, pur essendo umili asini. L'asino, storicamente non è stato ben trattato dall'uomo. Se uno è una via d'incrocio tra uno ignorante e uno stupidotto è «un somaro», ovvero un asino. Solo pochi decenni fa, se un bambino a scuola non aveva studiato la lezione o aveva fatto qualche stupidaggine, finiva dietro la lavagna con il cappello dalle orecchie d'asino. Insomma, era anche lui un somaro. Nel paradosso di Buridano, posto nella condizione di scegliere fra due mucchi di fieno identici e simmetrici, l'asino non osa scegliere e muore. Se qualcuno la racconta grossa, vede gli asini volare. E così via. Ma se ci si sofferma un attimo, come fa lui con i suoi gesti lenti che sembrano irridere il tempo, è stato d'imprescindibile utilità per l'uomo e, a differenza del suo parente nobile, il cavallo, nelle condizioni e nei territori più difficili, più solitari, più impervi, più ostili. Ha portato sulla sua groppa di tutto e di più, quasi sempre caricato con pesi che oltrepassavano i limiti del mero buon senso. E lui andava, macinava metri su metri, chilometri su chilometri, con fardelli enormi, senza protestare e accontentandosi di una manciata di biada e di rami spinosi. È proprio lui che nel presepe, assieme al bue, riscalda Gesù Bambino e lo guarda stabilendo una condivisione con la natività. L'asino non ha l'aspetto regale ed elegante del cavallo ma ha affascinato le sollecitazioni di pensiero dei filosofi, degli studiosi e dei letterati. Montaigne attribuisce all'asino il titolo di animale contemplativo, ne sottolinea la natura riflessiva e meditabonda, elevandolo al rango di filosofo. Giotto ne fa la figura centrale della sua Fuga in Egitto (Cappella degli Scrovegni) e Duccio, per il Duomo di Siena, lo mette in primo piano mentre trasporta Gesù che entra in Gerusalemme. Ma per noi, l'asino più famoso è quello di Davanti San Guido, quando il Carducci lo immortala in quelle eterne parole d'amore e di contemplazione: «Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo, Rosso e turchino, non si scomodò: Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo, E a brucar serio e lento seguitò».
· Varenne va in pensione.
Varenne va in pensione. Massimo Massenzio per il ''Corriere della Sera'' il 23 giugno 2019. Annamaria Crespo e Varenne vivono in simbiosi da 17 anni. Lei nei ha 55 lui quasi 30 in meno, si intendono con uno sguardo, si capiscono al volo. L' arrivo del «Capitano» a Vigone, piccolo centro in provincia di Torino, ha cambiato radicalmente la vita di Annamaria (Anna per tutti) che nel 2002 aveva deciso di smettere di occuparsi di cavalli per dedicarsi esclusivamente alla famiglia. Poi una telefonata dal centro di allevamento «Il Grifone» le ha fatto cambiare idea e da quel momento è diventata la sua inseparabile «groom», la tata che lo accudisce - quasi - tutti i giorni dell' anno. Adesso lo stallone più famoso al mondo sta per trasferirsi a Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia. L' accordo fra la società napoletana Varenne Futurity, proprietaria del cavallo, e la Varenne Forever, che si è assicurata la gestione e le percentuali sulla monta del campionissimo, scade infatti alla fine di luglio. I tifosi e gli abitanti Vigone hanno iniziato una petizione - che si è estesa a livello nazionale - per impedire che Varenne lasci Anna. E due settimane fa lei è andata fino a Napoli per convincere la proprietà a lasciarlo in Piemonte: «È stato tutto inutile - racconta sconsolata, mentre con gli occhi lucidi lo pulisce al rientro dalla passeggiata quotidiana -. Spostare un cavallo di 24 anni non è una decisione di buonsenso. Un veterinario non dovrebbe permetterlo e dovrebbe tutelare la salute dell' animale. Lui sta bene qui, dove è trattato come un re. Chiunque se ne accorgerebbe anche solo visitando il suo box». Oggi invece davanti alla scuderia personale del Capitano c' è un vigilante che controlla chiunque si avvicini e impedisce di scattare fotografie. È l' ultima scoria della battaglia legale fra proprietà e centro di allevamento, che ha portato alla rottura definitiva dei rapporti: «Ma queste cose non dovrebbero avere rilevanza - continua Anna - Vari, io lo chiamo così, ormai è anziano, anche se sta benissimo. Ma se è così in forma ed è ancora fertile e perché qui conosciamo tutti suoi bisogni e curiamo ogni minimo dettaglio. Ad esempio lui patisce moltissimo gli insetti, soprattutto le zanzare e nel suo box abbiamo montato una zanzariera e un ventilatore. Quando passeggia nel suo recinto e ci sono troppe mosche, mi guarda e mi fa capire che vuole tornare dentro. Questo legame si costruisce solo con anni di passione». Per stare vicino a Varenne Annamaria si è separata anche dal marito: «Lui non avrebbe voluto che io accettassi questo lavoro. Sapeva che sarebbe stato "totalizzante" e aveva ragione. Ma quando si è trattato di scegliere, ho preferito Varenne. Per me è come un terzo figlio, oltre ai miei due ragazzi, ma forse ho passato più tempo con lui che con loro. Mi hanno chiesto di seguirlo a Pavia, ma i miei genitori sono anziani e adesso devo occuparmi di loro. Questa volta non posso scegliere». Anna ha gli occhi lucidi e accudisce il Capitano con gesti automatici: «Arrivo alle 8 e vado via nel pomeriggio. Lui mangia tre volte al giorno, fa 40 minuti di "jogging" e poi lo porto sempre a fare una passeggiata. Non lo lascio mai solo più di una settimana, neppure per le ferie. Ha bisogno di me, perché io lo capisco. Al mattino, ad esempio, aspetta che io lo porti fuori per darmi un morso leggero sul fondoschiena. Quello è il segnale che è di buon umore. Quando inarca il muso, invece, mi vuole dire che ha un prurito o che c' è qualcosa che gli stando fastidio». È stata Anna ad accompagnare Varenne al secondo piano del palazzo Rai di Milano: «Nessun altro stallone da corsa avrebbe mai potuto farlo, ma lui è unico. Nessuno è buono come lui» Le speranze che resti a Vigone, però, sono pochissime: «Credo sia già tutto deciso. Qualcuno dice anche che il trasferimento sarà addirittura anticipato. Io cerco di non pensarci e continuo a fare quello che faccio da 17 anni. Mi auguro che alla fine la ragione prevalga sulla follia».
Alessia, l’angelo custode di Varenne: «Che onore vegliarlo». Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Chiara Severgnini su Corriere.it. «Pecos è il cavallo del mio cuore, ma Varenne... È una leggenda»: non si può chiedere ad Alessia Girani di fare una classifica tra il cavallo con cui è cresciuta («Ha solo otto mesi meno di me») e quello di cui, fin da bambina, ha sentito elencare vittorie e primati. Varenne è una leggenda vivente: ha polverizzato record, guadagnato cifre inedite (oltre 6 milioni di euro), persino ispirato canzoni («Se lo vedi passare è come se fosse una festa», intonava Jannacci). Alessia aveva solo sei anni quando il «Capitano» esordiva, nel 1998; dieci quando è andato in pensione, nel 2002. Oggi ne ha 27 ed è diventata il suo nuovo angelo custode, o, come si dice in gergo, la sua groom. E sabato, quando Varenne è arrivato all’Equicenter di Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia — la sua nuova casa, dopo 17 anni passati a Vigone (Torino), e un trasferimento che ha causato parecchie polemiche — lei era qui, ad aspettarlo. Durante la prima notte lombarda del cavallo dei record, l’ha vegliato da un materasso poggiato davanti al suo box.
Pareti imbottite e aria condizionata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata.
Il suo secchio verde. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui.
Vittorio Feltri, Varenne e Luciano Moggi: "La più grande scemenza della mia vita". Libero Quotidiano il 23 Giugno 2019. Varenne è il nome di un cavallo unico al mondo. Il migliore Trottatore in pista. Non ha vinto tante gare, le ha stravinte con una facilità stupefacente per noi amanti dell' ippica. È diventato nei lustri un divo noto e ammirato anche da chi non capisce nulla di equini. La sua carriera è stata formidabile, costellata da una serie di trionfi in Italia e all'estero. Una volta in Francia, all'Arc de triomphe, gli hanno fatto ripetere tre volte la partenza per presunte irregolarità e lui, il Capitano, come veniva chiamato, è sempre partito in testa come un siluro e alla fine della prova valida è arrivato primo. Un miracolo. Lo sforzo che gli è stato richiesto nella circostanza è stato enorme, e il campione lo ha sostenuto con una ammirevole disinvoltura. Un animale così non si era mai veduto. Non ha mai avuto necessità di essere guidato dall'individuo seduto sul sulky, ha sempre deciso lui le strategie della corsa. Osservava i concorrenti, ne misurava la potenza e la resistenza e si regolava di conseguenza per batterli, e li batteva, sistematicamente. L'intelligenza di Varenne è sorprendente. L'ultima sua competizione, prima dell' abbandono agonistico, si svolse in tal modo. Il suo driver era indisposto e gli subentrò l'allenatore, l'uomo della routine. Il cavallo e il suo guidatore improvvisato non fecero una piega, provvide il grande atleta quadrupede, il quale al momento opportuno piazzò lo scatto per distaccarsi dagli avversari e avviarsi in solitudine al traguardo. Che spettacolo! Un cavallo talmente arguto e solido da potersene fottere della persona incaricata di tenere le sue redini. Io da gentleman driver ho disputato varie gare al trotto, benché preferissi montare, e alcune le ho vinte ma non ho mai usato la frusta. È assurdo picchiare queste meravigliose bestie: esse sono collaborative e generose, danno tutto ciò che hanno senza bisogno di essere punite o stimolate con la verga. E Varenne non è mai stato picchiato. Si sarebbe offeso, forse disgustato. Ciò non gli ha mai impedito di trionfare in qualsiasi ippodromo nazionale e internazionale. Un fenomeno. All'inizio della carriera Luciano Moggi, il mago del calcio, mi propose di comprare il Capitano in società, ma ne sconsigliai l'acquisto adducendo questo motivo: ha un problema ai garretti anteriori. Fu la più grande scemenza della mia vita: Varenne guarì in fretta e inanellò una serie di successi impressionante. Mi batto il petto per il pentimento. Il destriero sarebbe diventato il mio quinto figlio. Non importa. L'ho amato lo stesso, come ho amato la sua assistente, Anna, che lo ha accudito da mamma. Lui non poteva fare a meno di lei, e lei non poteva fare a meno di lui. Sono vissuti in simbiosi per quasi venti anni. E ora che la signora è costretta ad abbandonarlo perché in procinto di essere pensionato pure nel ruolo di stallone, si dispera. La comprendo. Anche io, quanto questa donna eccezionale, amo i cavalli e Varenne è un idolo. Non mandatelo in un ospizio, merita di continuare ad essere un re. Alcuni giorni orsono un mio vecchio trottatore, Rif, 28 anni, smise di mangiare poiché aveva i denti guasti. Glieli ho fatti sistemare, 3 mila euro e rotti. Ha ricominciato a nutrirsi alla grande e sta bene. Ne sono felice. Gli voglio bene. Viva i cavalli, viva Varenne, amico mio. Vittorio Feltri
Esposto in procura a Torino: "Ci sono figli illegittimi di Varenne sparsi in tutto il mondo". I proprietari del leggendario cavallo da corsa: "Il suo seme venduto senza il nostro permesso". Sarah Martinenghi il 21 giugno 2019. Il leggendario Varenne. Ha più di duemila eredi. Ma quanti figli abbia fatto esattamente, è un mistero su cui ora forse indagherà persino la magistratura. Anche questo aspetto, ossia la verifica del numero di monte e di puledri nati dal suo seme, è finito al centro della battaglia giudiziaria che ha per protagonista Varenne, il leggendario purosangue che potrebbe presto lasciare il maneggio il Grifone di Vigone, nel Torinese, dove si trova accudito da anni. La società napoletana proprietaria del cavallo dei record Varenne Futurity ha infatti presentato un esposto alla procura di Torino contro la Varenne Forever di Valter Ferrero lamentando una serie di irregolarità nella gestione del prezioso stallone. Una prima denuncia, per appropriazione indebita, è arrivata al pm Roberto Sparagna che ha già chiesto l’archiviazione del procedimento. E ora la proprietà rilancia, puntando sul giallo dei puledri nati da Varenne. L’idea della proprietà è di trasferire Varenne all’Equicenter Monteleone, una clinica veterinaria in provincia di Pavia. L’ha spiegato l’avvocato Oreste Trudi che assiste il proprietario del cavallo, Enzo Giordano. “È questa la destinazione più probabile, in quanto è uno dei migliori centri di assistenza veterinaria in Italia, dove lavora anche il dottor Cesare Rognoni che è il veterinario che attualmente lo segue. Giordano vuole molto bene al suo cavallo e quindi sta facendo di tutto perché abbia tutta l'assistenza necessaria e il necessario benessere”. Il legale sostiene che Varenne non sarebbe stato trovato in ottime condizioni: “L'ultima volta che siamo andati a trovarlo, in occasione della notifica del sequestro giudiziario, non lo abbiamo trovato così bene, perché nel suo paddock c'era una fattrice con un puledro e la fattrice ed i puledri nel paddock di un cavallo anziano possono trasmettere delle malattie molto gravi. Aveva una evidente zoppia che nessuno aveva comunicato alla proprietà. Il proprietario ci è rimasto molto male, si è molto arrabbiato ed ha fatto subito intervenire il veterinario Rognoni. Alla proprietà interessa il benessere del cavallo". L’avvocato Trudi spiega poi il problema delle monte di Varenne: “Il contratto vero e proprio con Varenne Forever, che tra l'altro prevedeva il divieto assoluto del diritto di ritenzione (non possono trattenere il cavallo perché non è loro) riteniamo non esista più quantomeno dall'anno scorso, dove modificando la modalità di pagamento delle monte, sono venute fuori una serie di omissioni ed inadempimenti fatte nel corso del tempo, tra cui delle vendite effettuate per loro nome e loro conto di cessione di seme”. Ma non solo: “Abbiamo trovato puledri figli di Varenne nati in Italia e all'estero, che alla proprietà risultano completamente sconosciuti. Loro sono proprietari di 6 diritti di monta, ma sulle fatture e sui contratti hanno ceduto il seme di Varenne e non il diritto di monta (che tra l'altro ha un'aliquota diversa), hanno fatto contratti di cessione del seme di Varenne che non è di loro proprietà", ha spiegato il legale che ha sottolineato come "Varenne continuerà la sua vita normale ma senza spreco di energie e di seme. Non sappiamo quanti prelievi facessero perché siamo a conoscenza solo di quanto veniva comunicato alla proprietà. Per questo da un mese e mezzo il cavallo è sottoposto a guardiania 24 ore su 24". "Tutto ciò è stato denunciato alla Procura della Repubblica di Torino e al Tribunale di Napoli. Ora la proprietà sta ricostruendo tutti i puledri nati in Italia e all'estero da Varenne che non le risultano. I proprietari dovranno dire da chi e con quali modalità e contratti hanno acquistato il seme di Varenne. Tra l'altro la proprietà ha inviato mail e pec anche a i titolari dei diritti di monta e alcuni di essi hanno disconosciuto la fattrice abbinata al proprio diritto di monta", ha proseguito Trudi. "Purtroppo in questa ricerca non ci è stata utile la nostra associazione Anact, associazione nazionale degli allevatori di trotto, dove il presidente dell'Anact è anche l'amministratore di Varenne Forever, Valter Ferrero, a cui ho fatto personalmente una richiesta di accesso agli atti per conoscere i nati di Varenne ma purtroppo non ho avuto alcuna risposta tant'è vero che mi son dovuto rivolgere al Ministero, il Mipaaft". ha aggiunto il legale. “Non risulta alcun tipo di mistero sulle monte – spiega l’avvocato Enrico Calabrese che assiste l’allevamento Il Grifone - per quanto ci riguarda siamo assolutamente sereni. I miei assistiti hanno già reso un ampio interrogatorio in Procura e per quel procedimento, per l’accusa di appropriazione indebita, è stata chiesta l’archiviazione”. Secondo il legale, Varenne non sarebbe stato consegnato ai proprietari perché sarebbero venuti a prenderlo con un’auto, senza garanzie e controlli sanitari. "Il cavallo ora è ancora al Grifone – racconta invece l’avvocato Trudi - perché al giudice della procedura cautelare il veterinario residente al Grifone sottolineava l'esistenza di norme sanitarie, senza indicarne quali fossero, per le quali il cavallo se spostato in qualunque altro centro di produzione seme sarebbe stato obbligato a sospendere la sua attività di stallone per il periodo di quarantena obbligatorio e sottoposto a nuovi esami del effettuare da parte dell'Asl locale, come se una Asl non riconoscesse gli esami di altre Asl, e avvertendo che in questo modo si sarebbe persa una consistente parte della stagione di monta in corso. Io spero che quanto prima il cavallo venga sbloccato e la legittima proprietà ritorni nel possesso materiale del proprio cavallo".
· Il Marketing degli animali.
Una «balena-spia» russa fermata (e liberata) in acque norvegesi. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Corriere.it. Una balena bianca, trovata da pescatori norvegesi in acque artiche, fasciata con una stretta imbragatura di fabbricazione russa ha messo in allarme i militari di Oslo che temono che l’animale possa provenire da una base militare russa e far parte di un programma finalizzato a usare i mammiferi come «forza speciale» nelle acque polari. Il tipo di bardatura attorno al corpo dell’animale - una serie di cinghie fissate al corpo del cetaceo con una fibbia - è compatibile con i sostegni per una telecamera-spia, dicono i pescatori che gettano le reti nelle acque vicino al villaggio norvegese di Inga. Il beluga sembrava addomesticato e abituato agli esseri umani, hanno dichiarato i pescatori all’agenzia Nrk. Il cetaceo si è avvicinato docilmente alla barca e i pescatori hanno potuto liberarlo dalle cinghie. All’interno di esse hanno trovato la scritta «Equipaggiamento di proprietà di San Pietroburgo». Audun Rikardsen, professore presso il Dipartimento di biologia marina e artica presso l’Arctic University of Norway a Tromsoe, nel nord della Norvegia, ritiene «molto probabile che sia coinvolta la marina russa», che ha importanti strutture militari a Murmansk e dintorni nella penisola di Kola, nell’estremo nord-ovest della Russia. Non è però chiaro per che cosa fosse addestrato il mammifero. La Russia non ha una storia di utilizzo delle balene per scopi militari, però l’Unione Sovietica ha avuto un programma di addestramento per i delfini e le foche. L’Unione Sovietica utilizzò una base a Sebastopoli nella penisola di Crimea durante la Guerra Fredda per addestrare i mammiferi a scopi militari come la ricerca di mine o altri oggetti e la messa a dimora di esplosivi. La struttura in Crimea fu chiusa dopo il crollo dell’Unione Sovietica, anche se rapporti anonimi poco dopo l’annessione russa della Crimea indicavano che era stata riaperta.
GORILLA MARKETING. Giacomo Talignani per “la Repubblica il 29 aprile 2019. «È una foto di famiglia importante perché sta tenendo alta l' attenzione sui gorilla». A parlare a Repubblica è Mathieu Shamavu, il ranger congolese autore dell' ormai famosissimo selfie dei gorilla. In primo piano c'è proprio lui, che si definisce «uno dei due papà», appena dietro in una posa estremamente rilassata sfila Ndakanzi, gorilla femmina di dodici anni, che sembra infilare le mani nelle tasche che non ha. Poi c' e Ndeze, anche lei di 12 anni, ripresa mentre fissa curiosa l' obiettivo, e più in fondo si intravede il ranger Patrick, l' altro papà. Uno scatto a suo modo unico che racchiude tutta l' umanità di due gorilla che hanno vissuto nella loro infanzia qualcosa di disumano. Ma anche quella di ranger premurosi che si impegnano ogni giorno per aiutarli. «Copiano i nostri movimenti, ci imitiamo a vicenda. Ci seguono» dice Shamavu. «È una foto che ci sta dando una mano: adesso riceviamo l' attenzione di tutto il mondo sul problema del bracconaggio. Sono felice di averla scattata. Per me non è cambiato nulla, magari in futuro questo mi ricompenserà in qualche modo, non lo so, ma l' importante è che ora si parli dell' importanza della conservazione». Shamavu racconta del gran numero di complimenti che gli arrivano sui social: andrebbero girati a loro, alle due gorilla femmine, quasi due figlie per lui. Il ranger ha scattato quella foto il 18 aprile, in un giorno di vita normale, di famiglia. Vive con loro, quel posto è il suo "ufficio": gli prepara la colazione alle 7 di ogni mattina e a sera "rimbocca" per loro un letto di foglie (commestibili). Sostiene che sono come dei bambini da tenere d' occhio, da proteggere. Vorrebbe insegnargli a sopravvivere nel loro habitat naturale, ma è inevitabile che "finiscano per imitare i nostri comportamenti». Entrambi gli orfani si trovano nell' unica struttura al mondo per il recupero dei gorilla di montagna, il centro Senkewekwe di Rumangabo nel parco nazionale del Virunga, nella Repubblica democratica del Congo. Qui sono arrivate nel 2010 da Goma: le avevano trovate sole, una ancora abbracciata alla madre assassinata dai bracconieri, l' altra impaurita dopo aver perso la sua famiglia sterminata dai cacciatori. Quando sono entrate nel centro avevano poco più di due mesi: si sono riprese anno dopo anno grazie alle cure dei responsabili. Altri due gorilla salvati per essere curati da alcune malattie non ce l' hanno fatta. Non è il primo selfie che Mathieu si è fatto con i due gorilla, solo che questo è venuto particolarmente bene, roba da migliaia di like. Aveva in mano lo smartphone, si è accorto che i due primati lo guardavano e imitavano e ha scattato. Si sono messi in posa, proprio come lui. Dice: «La foto ha fatto il giro del mondo. Non so se abbia portato più donazioni, ma spero che lo farà, ne abbiamo proprio bisogno per il centro». Per continuare a garantire un futuro ai gorilla, animali a rischio estinzione. Nel Virunga, grazie alle buone pratiche di conservazione, i gorilla stanno tornando ad aumentare. Ma non è stato affatto facile. Sono anni che il parco vive in una situazione di conflitti: dalla guerra civile alle mille difficoltà per arginare tutti coloro che vogliono sfruttare una montagna ricca di risorse. Proprietari terrieri, bracconieri, minatori, contadini: i responsabili hanno dovuto battagliere con tutti per preservare il parco. Mesi fa è stato chiuso, dopo che un ranger è stato ucciso e tre turisti sono stati tenuti prigionieri, ma a febbraio ha finalmente riaperto. Ora, anche grazie al gorilla-selfie, Shamavu spera che il mondo continui ad aiutare la causa dei papà ranger «mantenendo alta l' attenzione sul Virunga e i gorilla». Come scrive sui social, «c' è bisogno anche dell' impegno di tutto il Congo» per frenare deforestazione, bracconaggio e malattie che minacciano questi fragili primati così "umani".
· La ricetta elettronica.
CAOS ANIMALE. La ricetta elettronica. Margherita D' Amico per “la Repubblica” il 10 maggio 2019. Si chiama Rev, ricetta veterinaria elettronica, dal 16 aprile ha sostituito in via definitiva la vecchia ricetta cartacea in virtù della Legge 20 novembre 2017 n.167 (Legge europea 2017) Art.3, ed è già impopolare. Soprattutto fra i padroni di animali d' affezione, equiparati agli esemplari destinati alla macellazione da un provvedimento concepito per una maggiore tracciabilità dei farmaci somministrati. Cani, gatti, cavalli, uccelli, mucche e maiali non potranno più accedere alle medicine attraverso un' indicazione vergata a penna su carta intestata del medico veterinario. Bisogna che il dottore compili un modello informatico complesso indicando con precisione farmaco, dosi e tempi di sospensione, ragioni della terapia, dati di proprietario e animale, fino a generare un codice pin. L' operazione è lunghetta e ha un costo. Molti ambulatori hanno stabilito infatti che il tempo speso per compilare la Rev, quando la ricetta sia richiesta al di fuori di una visita, debba essere risarcito con cifre variabili fra i 5 e i 15 euro. E nell' obbligo dell' aderenza ai bugiardini non saranno più consentite prescrizioni per risparmiare, frazionando ad esempio fra più animali compresse di dosaggio superiore a quella prevista. È sconsolata Gloria, gattara romana: «Oltre alle medicine ci mancava di pagare la ricetta! Dimenticano, al Ministero, che a parità di molecola i farmaci veterinari costano anche venti volte di più di quelli a uso umano, e le visite sono tassate con l' iva al 22 per cento?». Benché la Direzione generale della sanità animale e dei farmaci animali del ministero della Salute abbia replicato all' ondata di proteste dichiarando che "il tempo medio necessario per una prescrizione tramite postazione fissa è stato pari a 3 minuti e tramite App è risultato essere di circa 2 minuti" e "il medico veterinario dovrebbe ugualmente non farsi pagare" a detta generale la compilazione di una Rev richiede fra i 7 e i 10 minuti, se non di più. Lungaggini fatali in emergenza: «Quando mi chiamano alle due del mattino per un cane in difficoltà, se prima in un lampo mandavo il proprietario in farmacia, ora devo collegarmi al sistema e stare attento a non derogare da indicazioni molto rigide», commenta Luca Lombardini, medico veterinario a Trento e vicepresidente nazionale di Lndc-Animal Protection. Per chi sbaglia, le sanzioni sono salate: «Tremila euro a confezione per il farmacista e qualcosa di simile per il veterinario», spiega Massimo Mana, farmacista rurale a Cuneo e presidente di Federfarma Piemonte. «Nella banca dati cui il veterinario attinge per compilare la ricetta elettronica, sono stati inseriti tutti i farmaci registrati, un numero superiore a quelli realmente in commercio. Di uno stesso prodotto esistono varianti, ma il codice richiesto è univoco e il medico non ha modo di distinguerlo. Con la ricetta cartacea potevamo dare il farmaco realmente disponibile, con l' elettronica di mezzo non ci è più consentito». «Quando ti trovi in una scuderia in campagna senza Internet e devi fare una ricetta, magari urgente, oggi devi cambiare zona», ironizza Valerio Serata, chirurgo ippiatra nel Lazio. «Ormai per prescrivere 20 vermifughi ti tocca trascrivere i codici dei microchip di altrettanti cavalli: animali a uso sportivo, non macellabili. Sarebbe stato più logico incrementare controlli e sanzioni sulla salubrità dei più sfortunati avviati alla produzione alimentare».
· I Farmaci Veterinari.
Moreno Morello su Striscia la Notizia del 16 aprile 2019 ci parla del costo dei farmaci veterinari per i nostri animali da compagnia.
“Prezzi elevati per i farmaci veterinari? L’Italia spieghi all’Europa le peculiarità del nostro sistema”. Angelo Troi (segretario nazionale SIVeLP): «La distinzione fra farmaco veterinario e quello umano è qualcosa che, per gli animali da compagnia, ha senso solo in termini di mercato», scrive il 18/04/2017 Fulvio Cerutti su La Stampa. L’elevato prezzo dei farmaci veterinari è legato non solo alle dinamiche di mercato, ma anche all’attuale normativa che impedisce ai medici veterinari la libertà di prescrizione del medicinale più efficace nella cura del proprio paziente e meno oneroso per il suo proprietario. Il Sindacato dei Veterinari Liberi Professionisti (SIVeLP) da tempo chiede che l’Italia spieghi la peculiarità della vendita dei prodotti veterinari sul nostro territorio nazionale rispetto alla situazione del sistema degli altri Paesi europei.
Angelo Troi, segretario nazionale del SIVeLP, perché il “meccanismo a cascata” viene utilizzato in Europa?
«Perché negli altri Paesi europei la vendita del farmaco viene data in mano al veterinario. Se andiamo in una clinica francese per animali troveremo il veterinario che lo visita e lo cura, l’infermiera che lo segue e la vendita dei prodotti farmaceutici all’interno della struttura. Data questa situazione, è normale che nel resto d’Europa i veterinari debbano distinguere fra i farmaci umani e quelli veterinari. Se così non fosse, dovendo vendere i medicinali, il veterinario si troverebbe a dover tenere una gamma di prodotti troppo vasta.
In Italia invece la vendita di medicinali è riservata alle farmacie. Queste strutture vedono lo Stato in posizione debitoria nei loro confronti perché anticipano i farmaci a uso umano che passano al cliente dietro ricetta. Data questa situazione, diversa da quella di altri paesi europei, è normale che le farmacie sostengano che la vendita dei farmaci veterinari debba passare da loro. E come tale è anche normale che il medico veterinario e il medico di medicina umana che lavorano nel loro ambulatorio non siano tenuti a dare il farmaco al cliente».
Ma perché il veterinario dovrebbe poter prescrivere il “farmaco umano”?
«Vista la particolarità del sistema italiano, esistono almeno due motivi per permettere ai veterinari di prescrivere un farmaco umano: il primo è quello economico. Ci sono dei casi in cui il farmaco veterinario è molto simile, se non addirittura identico, a quello umano ma la scatola è diversa. In questo caso il farmaco veterinario, che ha un mercato minore, ha dei prezzi ben maggiori. Ma a nostro parere il cittadino non deve essere obbligato a spendere di più. Poi c’è un problema scientifico: molto spesso un veterinario partecipa a un convegno dove vengono presentati dei nuovi principi attivi utilizzabili per curare gli animali, ma questi non sono ancora disponibili nei farmaci veterinari. L’attuale normativa mette in crisi il veterinario perché per una determinata patologia lo obbliga a usare solo il medicinale attualmente disponibile»
Come potrebbe cambiare la situazione?
«L’attuale normativa può essere modificata da un regolamento europeo. Però lo Stato italiano dovrebbe far capire all’Unione che il nostro sistema funziona in modo diverso dagli altri Paesi. Per quanto l’Europa preveda un regolamento che vincola l’uso del farmaco a determinate figure e in determinate maniere, questo vincolo ha senso se parliamo di animali da reddito e se parliamo di molecole che possono aumentare i rischi di farmaco-resistenza, ma non ha alcun senso se applicata alle differenze animale-uomo. Dire che l’animale è diverso dall’uomo vuole dire porre una specie, quella dell’uomo, a confronto con milioni di specie, il numero delle quali non conosciamo neanche con esattezza. È evidente che persino una semplice soluzione fisiologica – registrata per uso veterinario – non può essere stata testata su tutte le specie per le quali ne è invece stato giuridicamente autorizzato l’utilizzo. Quindi la distinzione fra farmaco veterinario e farmaco umano, dal punto di vista del nostro sindacato, è qualcosa che, per gli animali da compagnia, ha senso solo in termini di mercato».
Quanti farmaci veterinari potrebbero essere “sostituiti” da quelli umani?
«È difficile rispondere a questa domanda perché dipende molto dai settori. Per quanto riguarda gli antiparassitari e i prodotti contro i vermi intestinali, il settore veterinario prevede una gamma di farmaci enormemente superiore a quella per il settore umano. Poco tempo fa i dottori si lamentavano che in medicina umana esiste un unico vermifugo, mentre in medicina veterinaria ne abbiamo a decine.
Viceversa in altri settori, come la cardiologia o per i problemi neurologici, siamo nella situazione opposta: ne esistono molti per uso umano, mentre per l’uso veterinario magari ne esiste uno solo ed è sul mercato da decine di anni. In umana c’è stato un grande miglioramento che può essere applicato in veterinaria. Ma sul mercato non esistono perché sono patologie occasionali per cui l’azienda che registra il prodotto e che per questo sopporta un costo significativo, poi non si trova nella condizione di poterli o doverli cambiare. Dal punto di vista aziendale è un ragionamento corretto, ma dal punto di vista della medicina no: l’interesse di un medico veterinario è quello di arrivare a una terapia efficace».
Un’ultima domanda: spesso si parla di farmaci “generici” anche per il settore dei medicinali veterinari. È una soluzione praticabile?
«Noi normalmente parliamo di “un’invenzione”. Quando in medicina umana una determinata molecola esce dal periodo del brevetto ci sono altre aziende che possono produrre lo stesso principio attivo e spesso i costi vanno a scendere rispetto alla situazione precedente. Pensare che si possa creare un generico veterinario probabilmente è un’enorme bufala: il mercato del farmaco veterinario è molto ridotto rispetto a quello a uso umano (in un rapporto di 1 a 10) ed è inimmaginabile che un’azienda, una volta terminato il brevetto, si metta a produrre dei farmaci veterinari e che questo possa andare a ridurne i costi sul mercato così come succede per il settore umano».
Farmaci per cani: uguali ai nostri, costano il triplo, scrive il 18 marzo 2015 L'Inkiesta. Curare il nostro cane costa molto, più di quanto spendiamo per noi. Il prezzo dei farmaci veterinari in Italia è in media il triplo rispetto a quello delle pastiglie destinate all’uomo. Nonostante, in molti casi, il principio attivo sia identico. Prendiamo ad esempio il Fortekor, contro l’ipertensione di cani e gatti. Costo della confezione: 15 euro circa. Il principio attivo della medicina è il benazepril cloridrato. Che, se comprato per l’uso umano, ha un prezzo di 5 euro. A parità di dosaggio. Tradotto: la stessa molecola da usare per gli animali costa tre volte di più. Il mercato delle medicine per cani, gatti, pesci e uccelli nel nostro Paese vale quasi 500 milioni di euro. Ed è in continua crescita, visto che ormai quasi la metà degli italiani vive con un animale domestico in casa. Tra cure e farmaci, gli animali ci costano in media cento euro all’anno, ma un terzo dei proprietari italiani paga almeno due o tre volte tanto. Il mercato italiano è colonizzato dalle divisioni veterinarie delle multinazionali, che mantengono alti i prezzi e raramente propongono anche prodotti generici a un costo più basso. Da tempo la Commissione europea sta lavorando a una regolamentazione del mercato. E di recente il deputato del Partito democratico Michele Anzaldi ha chiesto all’autorità Antitrust di aprire un’indagine sul settore. L’Enpa, Ente nazionale protezione animali, ha anche lanciato una petizione per chiedere al ministro della Salute Beatrice Lorenzin di rendere obbligatoria la prescrizione medica del principio attivo, anziché la marca del medicinale, anche per i farmaci destinati all’uso animale. Il problema sta nella normativa che regola l’uso e la prescrizione dei farmaci veterinari. La legge prevede che i veterinari non possano prescrivere farmaci per uso umano nel caso in cui siano disponibili medicinali veterinari con le stesse indicazioni terapeutiche. Il veterinario, “sotto la sua diretta responsabilità”, può prescrivere l’“uso in deroga” dei farmaci umani solo nel caso in cui non esistano medicinali veterinari destinati a curare una determinata patologia «al fine di evitare all’animale evidenti stati di sofferenza». Per tutto il resto, ci sono medicine veterinarie che possono costare anche il 100% in più. Qualche veterinario, in realtà, davanti alla forbice dei prezzi sempre più ampia, consiglia ai pazienti i meno costosi principi attivi destinati all’uso umano. Ma sempre sotto banco, rischiando multe da 1.549 a oltre 9mila euro. Il sindacato italiano dei veterinari, Sivelp, ha creato un sito, farmacoveterinario.it, in cui è possibile confrontare i prezzi dei farmaci veterinari e quelli dei farmaci umani. Un esempio su tutti, riportato anche dal deputato Marco Anzaldi nella sua lettera all’Antitrust, è quello dei flaconi da 500ml della soluzione glucosata, anche detta “acqua zuccherata”. La soluzione veterinaria costa il 10% in più rispetto a quella per uso umano e la scadenza è inferiore di un anno. «Questo evidenzia ulteriormente, ove ve ne fosse bisogno», spiega Anzaldi, «l’anomalia che nel nostro paese riguarda il prezzo dei farmaci per animali partendo da una delle cose più semplici, quale la soluzione glucosata». Un altro esempio è il farmaco contro il vomito, problema molto comune tra gli animali. In medicina umana il principio attivo, la metoclopramide, è disponibile come Plasil a 1,89 euro per scatola. In veterineraia è disponibile come Vomend. Prezzo: 19 euro. I prezzi dei farmaci veterinari, spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari (Anmvi), «sono determinati dalle dinamiche del mercato, in relazione a costi di produzione, autorizzazione all’immissione in commercio e rapporto domanda-offerta, caratterizzato da un mercato di dimensioni sensibilmente inferiori rispetto a quello dei medicinali umani». Il settore è spartito tra pochi nomi, quasi tutti afferenti alle grandi multinazionali della farmaceutica: i più noti sono la divisione veterinaria della Bayer, la MSD Animal Health (Merck), Merial (Sanofi) e Zoetis (Pfizer). Ma si sta sviluppando anche una branca della farmaceutica specializzata solo nella produzione dei farmaci veterinari. Sul sito del ministero della Salute si trova l’elenco degli stabilimenti italiani autorizzati: al 31 dicembre 2014 sono in tutto 77. Trattandosi di un mercato con pochi competitor, i prezzi possono essere tenuti alti. Ma a differenza dei farmaci autorizzati all’impiego nell’uomo, per i prodotti veterinari non ci sono coperture da parte del Sistema sanitario nazionale. Il costo è tutto a carico del proprietario dell’animale. E i generici veterinari sono una rarità. L’unica opportunità di risparmio, in realtà poco conosciuta, resta la possibilità di detrazione fiscale delle spese veterinarie a fronte della presentazione dello scontrino con codice fiscale (come avviene per i farmaci umani). Dal ministero della Salute, lamentano gli addetti ai lavori, sul fronte veterinario c’è poca attenzione. E la situazione rischia di sfuggire di mano: davanti ai costi insostenibili, aumentano le cure fai da te con i farmaci per uso umano, con tutti i rischi che questo comporta. A partire dai dosaggi. Perché la soluzione non è somministrare i farmaci per uso umano ai nostri animali. «La formulazione veterinaria è comunque preferibile», spiega Melosi. «Alcuni principi attivi somministrati in organismi che hanno apparato digerente diverso possono richiedere un diverso veicolo che renda efficace il loro assorbimento da parte dell’organismo animale. Inoltre il farmaco veterinario ha delle specificità riguardo la palatabilità del medicinale e le modalità di somministrazione». Del tutto diversi sono anche i foglietti illustrativi con avvertenze, controindicazioni e interazione con gli altri medicinali. «È da escludersi ogni ricorso fai da te della scelta terapeutica», raccomandano. La Commissione europea da qualche mese sta lavorando a un nuovo regolamento sui medicinali veterinari, atteso per il 2016, che punta all’allargamento dei farmaci e a una maggiore produzione di generici da parte delle aziende. «L’orientamento», spiega Melosi, «è di utilizzare le leve del mercato del farmaco veterinario, allargandolo e ragionando non più solo in termini di mercato nazionale ma di mercato europeo, fino a considerare la possibilità di approvvigionamento online dei farmaci veterinari. L’obiettivo è di aumentare la disponibilità e le specialità medicinali a uso veterinario, e nello stesso tempo favorire un impiego sempre più razionale e consapevole. Rendere meno ingessato il mercato del farmaco veterinario, favorendone lo sviluppo, contribuirà indirettamente anche al contenimento dei prezzi».
Stesso principio attivo, prezzo 80 volte più alto: perché i farmaci veterinari costano tanto? Scrive Maria Gabriella Lanzali su kataweb.it il 3 dicembre 2015. Le medicine per gli animali hanno un costo altissimo, eppure spesso contengono le stesse sostanze dei farmaci a uso umano. In una lettera al ministero della Salute i veterinari chiedono di poter prescrivere “secondo coscienza”. Hanno stesso aspetto e principio attivo dei nostri farmaci, ma le medicine per cani e gatti costano anche 80 volte di più rispetto a quelle per l’uomo. Lo denunciano da tempo i veterinari e il mondo delle associazioni: solo un mese fa 200 medici hanno scritto al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e all’Aisa, Consorzio di aziende italiane e multinazionali produttrici di farmaci per la salute animale, per chiedere di fermare “l’incredibile lievitazione dei prezzi”. Un appello caduto nel vuoto. Una differenza abissale. Secondo gli ultimi dati Eurispes quattro italiani su dieci possiedono un animale. Quando però il nostro amico a quattro zampe si ammala, far fronte alle spese mediche può diventare un vero salasso. Ad esempio una confezione di Metacam, farmaco che allevia i dolori muscolo-scheletrici, da 1,5 mg/ml ha un prezzo di 52,33 euro, il suo corrispettivo umano 4,90 euro. Il Ketoprofene, un comune antiinfiammatorio, in farmacia costa poco più di tre euro, quello per gli animali 17 euro. E ancora: per la morfina, indispensabile per sopportare il dolore post chirurgico, si spende cinque volte di più. Tra gli antibiotici più usati c’è l’amoxicillina al costo di 4 euro, una cifra che si quadruplicano per i nostri animali (16,80 euro). Per sei fiale di Vitamin K1 Laboratoire TVM, prescritto quando il nostro gatto ingerisce veleno per topi, costa 82 euro, quattro volte in più del Konakion per uso umano. E l’elenco potrebbe continuare. A questo si aggiunge il fatto che i medicinali generici in veterinaria non esistono: il medico è obbligato, infatti, a indicare nella ricetta il nome commerciale del prodotto e non il principio attivo come avviene per i nostri farmaci. Perché costano di più. “Le ragioni per cui le medicine per cani e gatti hanno un prezzo maggiore sono semplici: prima di tutto ci sono dei costi molti alti per ottenere il via libera alla commercializzazione”, spiega Marco Melosi presidente Anmvi, associazione nazionale medici veterinari italiani. “L’azienda farmaceutica deve presentare un dossier al Ministero in cui si certifica l’efficacia del farmaco. Sono documenti che costano anche decine di migliaia di euro perché frutto di una sperimentazione. Le case di produzione per recuperare le spese di ricerca alzano il prezzo. Inoltre, il mercato dei farmaci veterinari è più ristretto: rappresenta il tre per cento di quello umano”. Nel 2013 la spesa per la cura degli animali è stata di 600 milioni di euro, a fronte di 26,1 miliardi per la salute umana. Alcuni farmaci devono avere un sapore particolare per invogliare il cane o il gatto ad ingerirli. “A volte il principio attivo è inserito all’interno di tavolette che hanno un buon gusto e facilitano la somministrazione ma questo fa aumentare i costi di produzione. Quello che non capiamo è perché alcune aziende riescono a contenere i prezzi mentre altre no e arrivano a far pagare una confezione anche 20 volte di più”, afferma Melosi. Manca, infatti, il corrispettivo dell’Aifa, Azienda italiana del Farmaco, che vigili e regoli il mercato: “Questo ente ha il compito di stabilire il prezzo delle medicine che compriamo in farmacia e impone un limite massimo oltre il quale non si può andare. In veterinaria tutto questo non esiste”.
Cosa chiedono i veterinari. Il Decreto Legislativo n.193 del 2006 che regola l’uso e la prescrizione dei farmaci veterinari parla chiaro: i medici non possono prescrivere le medicine per gli uomini agli animali, anche se hanno lo stesso principio attivo. La sanzione per chi trasgredisce va dai 1.549 euro ai 9.296 euro. “Non siamo contro il farmaco animale, ma quando un prezzo non trova giustificazione è difficile da parte nostra sostenere queste politiche”, continua Melosi. Il sindacato italiano veterinari liberi professionisti, Sivelp, chiede da tempo di poter scegliere secondo coscienza quale prodotto prescrivere e di liberalizzare il farmaco veterinario a parità di molecola.
· Che orrore la corrida delle lacrime.
Che orrore la corrida delle lacrime. Matador asciuga il pianto del toro e lo uccide. E la Spagna s'indigna. Oscar Grazioli, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Ci sono pochi spettacoli più crudeli della corrida. Uno di questi è la corrida, quando il torero è inesperto o vuole umiliare il toro. Le immagini del video stanno facendo il giro del mondo che risponde dapprima incredulo (sarà una fake news?) e poi, constatato che si tratta della pura realtà, con indignazione e rabbia nei confronti del carnefice, mentre una commossa compassione sorge spontanea nei confronti della vittima. Siamo all'arena della Real Maestranza di Siviglia si svolge una delle tante corride che insanguinano ancora grande parte della Spagna e pochi altri paesi nel mondo. Il protagonista, il matador si chiama Josè Antonio Morante Camacho, noto oggi come Morante de la Puebla e speriamo dimenticato dalla storia. Siamo alla fine dello «spettacolo» e le immagini ci mostrano un toro ormai quasi fermo che dondola leggermente la coda e fa qualche piccolo passo malfermo perché implacabilmente sfinito dai picadores che gli hanno piantato quattro banderillas sui fianchi. Il groppone è un grumo di sangue coagulato, gli occhi sono stanchi, la testa è piegata e le corna toccano quasi l'arena, mentre il collo fa un movimento lentissimo laterale, quasi a volersi sottrarre da ulteriori crudeltà. É l'immagine di chi è vinto e vorrebbe chiedere la grazia di essere lasciato stare o forse di morire prima possibile. Di fronte, con atteggiamento pomposo c'è lui, il matador, lo sguardo che non tradisce commozione, di incertezza, dritto spietato in quegli occhi sofferenti. Quasi immobile, attende che il pubblico assapori il momento finale, accompagnando i gesti impercettibili come fosse un essere divino con potere di vita o di morte, come una di quelle statue viventi che vediamo nelle piazze muoversi nell'armonia della lentezza, quasi il tempo si stesse fermando. Mentre la mano sinistra tiene bassa la muleta, il drappo rosso con cui ha provocato e fiaccato l'animale, improvvisamente la mano destra corre a una tasca da dove Josè Antonio Morante, estrae un raffinato fazzoletto bianco con il quale asciuga gli occhi del toro e deterge dal sangue le froge che emettono una schiuma scarlatta. Qui, per fortuna, si ferma il video che ci risparmia ulteriori scene di scherno e crudeltà, lasciandoci solo immaginare che, per quella povera bestia, la fine sia arrivata entro brevissimo tempo. Se Josè Camacho voleva lasciare, nella storia della corrida, segno di sé, c'è ampiamente riuscito e se invece, con quel gesto plateale, voleva donare un tocco di grazia alla corrida, ha fallito completamente il suo scopo perché i milioni di persone che lo stanno vedendo, sono ancora più convinti che questo è uno spettacolo talmente crudele che si fa fatica a credere venga ancora rappresentato nelle arene di paesi da tutti considerati civili. Un'altra cosa Josè Camacho ci ha dimostrato, senza volerlo. Che anche i tori umiliati sanno piangere.
· Gli animali che maltrattiamo.
I campioni della fedeltà sono i cani eroi del ponte Morandi. Premiati i 22 «angeli del soccorso» di Genova E chi salvò il padrone con una premonizione. Nadia Muratore, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Per la prima volta in 62 anni, il «Premio Internazionale Fedeltà del Cane» - la manifestazione che si svolge a San Rocco di Camogli, in provincia di Genova - si è concluso con un ex aequo. Willi - pinscher di due anni e mezzo - si è aggiudicato la coccarda del «Primus inter pares», ossia primo tra i primi, fra tutti i quattrozampe che si sono distinti con le loro azioni di coraggio e lealtà, nei confronti degli umani. Con lui, sono stati considerati i migliori tra i migliori, anche gli «Angeli del soccorso», cioè tutti i cani che hanno operato sulle macerie del Morandi, il ponte crollato poco più di un anno fa a Genova. Furono 43 le vittime, ma molte delle persone scampate alla tragedia, devono la loro vita proprio ai tanti cani del soccorso che, insieme ai loro conduttori, le hanno estratte da sotto i resti del ponte. Una cerimonia commovente che ha saputo mescolare nella giusta maniera, il ricordo di chi non ce l'ha fatta, il coraggio dei soccorritori a quattrozampe e la gioia di chi invece è scampato al crollo del Morandi. Grande protagonista, il simpatico Willi, che ha conquistato il pubblico con il suo scodinzolare felice accanto a Enrico Cardia, il suo papà umano che ha salvato dal crollo di un edificio a Cagliari. «Se sono ancora vivo, lo devo al mio Willi - ha spiegato commosso Cardia -. È solo grazie al suo istinto, se sono riuscito a fuggire dalla mia falegnameria qualche secondo prima che crollasse. Abbaiando e sbarrandomi la strada, mi ha avvertito del pericolo salvandomi la vita». Con Willi hanno ricevuto la coccarda degli eroi anche Aki di Simonetta Ambrosini di Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara e Yaska del torinese Alessandro Acotto che con il loro abbaiare hanno messo in fuga i ladri; Lea e Billy di Cosimo Buccoliero della provincia di Taranto che hanno trovato un anziano caduto in un bosco. E poi Biagio che, dopo aver vegliato per ore il suo compagno di giochi travolto da una vettura, ha atteso per una ventina di giorni il ritorno della sua amata padrona Nicoletta Lodde di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso. Scott, il golene retriever che con il conduttore di Savona Giovanni Bozzano ha salvato una coppia ed il loro cane da sotto le macerie del terremoto di Amatrice nel 2016 e poi il bellissimo pastore tedesco femmina Annie in forza alla Guardia di finanza di Genova che, in una inedita accoppiata tutta al femminile con il suo conduttore Arly Tarantino e il suo istruttore Corrado Di Pietro ha fatto arrestare cinque persone per detenzione e spaccio di stupefacenti. E infine la mascotte del IV Reggimento Carabinieri a Cavallo di Roma, con il suo istruttore Fabio Tassinari, simpatica protagonista di un siparietto inedito quando, nel 2015 diede il suo personale saluto al presidente Mattarella durante il suo insediamento. Rompendo tutti gli schemi, corse davanti a lui per esibirsi in una capriola, strappandogli un sorriso tra l'imbarazzo ed il divertito. Sono stati ventidue gli «Angeli del soccorso» intervenuti sulle macerie del ponte Morandi, premiati durante la manifestazione di Camogli, appartenenti ai corpi del Nucleo Cinofilo Regionale Liguria Vigili del Fuoco, Nucleo Cinofilo Regionale Toscana Vigili del Fuoco, Polizia di Stato, Squadra Cinofili di Genova, Unità cinofile SAGF (Soccorso Alpino della Guardia di Finanza) - Regione Piemonte. Tra loro, Zoe - golden retriever di appena due anni - al suo primo intervento con il responsabile tecnico del Nucleo cinofilo regionale Liguria vigili del fuoco e il cane da ricerca Night Spirit, un pastore australiano in forza alla Polizia di Stato, che ha ricevuto il premio di Camogli per la seconda volta e che, con la sua conduttrice Laura Bisio è stato il primo soccorritore a quattrozampe ad operare tra i detriti e la disperazione del Morandi.
Milano, il pappagallo di «Portobello» va a intasare la Procura. Pubblicato mercoledì, 19 giugno 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Giusto non minimizzare il fenomeno di chi maltratta gli animali: ma a volte il confine, tra una denuncia un po’ precipitosa e la fuffa integrale che intasa le Procure, si fa troppo labile. A fine ottobre 2018, mentre uno spot in Rai lancia la nuova edizione di «Portobello» con Antonella Clerici, un’associazione animalista sporge denuncia contro ignoti per il supposto maltrattamento dell’eponimo pappagallo. E così si son dovuti mettere al lavoro un Nucleo Cites di polizia giudiziaria, un pm del pool (Sara Arduini) e un medico veterinario comportamentista (Susanna Pastori) per accertare ora - con filmati, sopralluogo e visite - che il pennuto, oltre che in ottimo stato di pulizia e nutrizione, era anche «dal punto di vista psichico altamente equilibrato, ottimamente socializzato e indifferente ai rumori». E il nastro scotch che, a detta dei denuncianti, gli chiudeva crudelmente il becco? Un equivoco totale: frutto dell’aver scambiato per scotch quella che invece era solo una macchia di colore particolare ma naturale.
Il cagnolino affogato in Inghilterra e gli altri animali che maltrattiamo. Pubblicato mercoledì, 27 marzo 2019 da Costanza Rizzacasa d'Orsogna su Corriere.it. Aveva ferite aperte sulle zampe anteriori e posteriori, e una busta piena di mattoni legata intorno al collo per impedirgli di risalire in superficie. È morto così, nel più crudele dei modi, un cagnolino a Spalding, Inghilterra. Trovato in fondo a un fiume un paio di giorni fa da un appassionato di pesca col magnete. Cercava un tesoro, ha tirato su il corpo ricoperto di fango e in decomposizione di un cuccioletto caduto preda dell’orco di turno. Non era un randagio, aveva un collarino rosso. Forse si era perso, forse non lo voleva più nessuno. «Qualcuno ha perso un cane con un collarino rosso?», ha scritto su Facebook il cercatore di tesori, non sapendo forse che altro dire, perché tale è l’enormità dell’orrore. Quanta paura deve avere avuto, quel povero cagnolino, quanto terrore. Non subito, certo. Perché i cani si fidano fino all’ultimo, è la loro natura e la loro disgrazia, e forse quel cagnolino, un terrier, aveva anche gioito credendo di aver trovato un nuovo amico, o forse l’orco ce l’aveva in casa. Avrà pensato a un nuovo, strano gioco mentre l’orco riempiva di mattoni quella busta? Ma poi ecco il terrore, mentre l’orco gli avvolgeva la busta attorno al collo e la stringeva, e il cagnolino si sentiva soffocare, e poi l’orco che lo lanciava in acqua, e i mattoni che inesorabilmente lo tiravano giù, e il cane che guaiva, mentre i polmoni gli si riempivano d’acqua, e agitava le zampine senza poter far nulla, per poi sprofondare nell’acqua e nel fango. No, non era un gioco, è la morte. Un mio amico dice che non riuscirebbe mai a prendere un cane perché la generosità dei cani, quella capacità di donarsi interamente, di mettere la vita del proprio umano davanti alla propria, lo spaventa. Forse esagera, ma non è un luogo comune dire che i cani non ce li meritiamo. Tu gli dai un giaciglio, qualche boccone buono, e loro in cambio ti danno la vita. Quando stai male o sei depresso lo sanno prima di te e non lasciano il tuo fianco; riescono perfino ad individuare malattie come il diabete, il Parkinson e certi tipi di cancro, prevengono le crisi epilettiche, sono un conforto per i bambini autistici e per chi soffre di stress post-traumatico. Mentre noi i cani li lanciamo dai balconi, li affoghiamo come il terrier di Spalding, li massacriamo a martellate, li facciamo combattere e uccidersi tra loro per guadagnarci sopra, in certi Paesi li scuoiamo vivi e li mangiamo, li torturiamo per vincere stupide corse con le slitte. Basterebbe, a questo proposito, leggere Il richiamo della foresta di Jack London (1903), attivista per gli animali più di un secolo fa, per conoscere le orrende violenze perpetrate sui cani da slitta. E però, più di un secolo dopo, corse come quelle dell’Iditarod - quasi mille miglia tra Anchorage e Nome, in Alaska - continuano, e più di 150 cani sono morti durante la corsa da quando questa è stata istituita, nel 1973. L’ultima, la cagnolona Oshi, cinque anni, morta di polmonite l’altro giorno, dopo che aveva portato l’umano di turno alla vittoria. Per non parlare delle centinaia di cani da slitta uccisi ogni anno nei campi di addestramento, come ha svelato una recente inchiesta. Ma noi fingiamo di non sapere. E ci beviamo, perché ci fa comodo, le bugie sul trattamento etico, come quelle che ci rifilano le aziende di carni, le case di moda, i circhi e chi conduce esperimenti su animali. Ma non sono solo i cani a sentire il nostro dolore. Gatti, scimpanzé, cavalli. Tutti gli animali, come spiega anche il biologo ecologista Carl Safina nel saggio Al di là delle parole (Adelphi), sono in grado di avvertire il dolore altrui, e interagiscono con l’uomo in modi inaspettati e commoventi. Così, nel romanzo Il dolore è una cosa con le piume (Guanda), Max Porter conferisce a un corvo - animale amato da Charles Dickens e Capote - il ruolo di terapeuta, che aiuta due bambini e il loro padre a fare i conti con un lutto, e a ricominciare. Ed è del tutto credibile, ed estremamente toccante. Il corvo insegna al padre che il dolore continua, perché è parte del nostro essere vivi, ma che la disperazione a un certo punto finisce, e si può andare avanti. Sperare, come diceva Emily Dickinson nel verso che ha ispirato il titolo: «“Speranza” è quella cosa con le piume». Dal canto suo, Safina studia l’elaborazione del lutto fra gli elefanti e la loro empatia, il lamento delle orche, la capacità degli animali di riconoscere in noi una coscienza affine che noi non riconosciamo in loro. I delfini, che offrono il loro aiuto a umani in difficoltà, che a loro volta cercano l’aiuto dell’uomo (spesso per danni causati dall’uomo stesso, come reti, ami, plastica) e poi ringraziano. Allora, si chiede Safina, quale mente è davvero superiore? Il corvo, ferito dagli aculei di un porcospino, che aspetta che l’uomo gli tolga gli aculei uno ad uno. Questa capacità di “riconoscerci” che hanno gli animali è segno di un’intelligenza superiore, anche se l’uomo spesso tradisce gli animali che gli chiedono aiuto. E che dire degli elefanti, che quando un membro della loro comunità muore mettono in scena veri e propri funerali, come noi, ricoprendo il cadavere di foglie e nascondendone eventuali ferite, proprio come farebbe un’impresa funebre? Così, mentre al cinema sbarca il timido Dumbo dalle orecchie lunghissime, remake live action firmato da Tim Burton dell’omonimo cartone del 1941 che salvò Disney dal tracollo finanziario, è importante ricordare la storia del vero Dumbo, torturato per tutta la sua vita. Che si chiamava Jumbo, era nato nel 1860 e venne rapito cuccioletto in Abissinia, dopo aver visto i cacciatori trucidare la sua mamma per le zanne. Spedito in Francia via nave, fu l’unico elefante a sopravvivere alla traversata, e in seguito venne venduto al giardino zoologico di Londra, di cui divenne presto l’attrazione principale, trasportando sul dorso migliaia di bambini, inclusi Winston Churchill e i figli della Regina Vittoria. Solo, confuso e confinato in una gabbia angusta, il povero Jumbo iniziò a soffrire di depressione e di claustrofobia, e divenne autolesionista, schiantandosi contro le sbarre della sua prigione fino a rompere più volte le proprie zanne. Frustato e torturato per renderlo più docile, Jumbo venne costretto a ingurgitare grandi quantità di alcol come sedativi, e presto diventò alcolizzato. Poi, nel 1882, lo zoo decise di venderlo al circo americano PT Barnum. Terrorizzato, incatenato, con la salute compromessa, Jumbo affrontò le due settimane di traversata in una cassa piccolissima, sedato con casse di whisky e di porto. Jumbo fu fonte di immensi guadagni per il circo Barnum, ma già nel 1883 le condizioni dell’elefante erano disperate. Anche perché era seriamente malnutrito. Invece delle foglie, dell’erba e dei rametti che gli elefanti avevano a disposizione in quantità in Africa, Jumbo mangiava tutto quello che i visitatori gli lanciavano attraverso le sbarre, dai dolcetti alle monete, a centinaia ritrovate nel suo stomaco dopo la morte, e poi fischietti, chiavi, chiodi. I suoi denti, molli e storti per la dieta inadeguata e la conseguente cattiva masticazione, gli causavano dolori tremendi. Due anni fa, il documentarista David Attenborough ha esaminato con un team di esperti i resti dell’elefante, portando alla luce sofferenze molto più atroci di quelle che si pensava l’animale avesse patito. Come i moltissimi infortuni da sforzo e da stress dovuti al carico di persone che era costretto a trasportare, causa di dolori indicibili oltre che di problemi articolari solitamente riscontrati in elefanti molto più anziani. Quando nel settembre del 1885 il circo Barnum andò in Canada, Jumbo soffriva di deperimento cronico, e le sue condizioni avevano già attirato molte critiche dagli animalisti. Un giorno, mentre veniva caricato su un vagone dopo uno spettacolo, fu investito da un treno, e morì per emorragia interna. Aveva solo 24 anni, stava ancora crescendo. Ma le sue ossa sembravano quelle di un elefante di cinquant’anni.
Gli animali sentono il nostro dolore e soffrono con noi. Quando inizieremo ad accorgerci delle loro sofferenze?
Viaggio tra gli allevamenti lager per animali da pelliccia. Pubblicato domenica, 24 marzo 2019 da Corriere.it. Volpi che pesano il triplo di quello che sarebbe naturale, visoni che vivono in gabbie talmente piccole da alimentare episodi di cannibalismo. Il viaggio di Sigfrido Ranucci e Report nel mondo della moda e delle pellicce è un pugno nello stomaco anche per chi ha una soglia minima di sensibilità. Nell’inchiesta firmata da Emanuele Bellano (in onda lunedì su Rai3 dalle 21.15), l’inviato del programma è andato in Finlandia, principale produttore di pellicce allevate, in prevalenza volpi e visoni. Vengono chiamati allevamenti etici perché dovrebbero rispettare il benessere e la salute degli animali. E a supporto c’è anche una certificazione — basata sul protocollo WelFur — che garantisce agli animali allevati condizioni «umane» ed è stato elaborato da una università finlandese in collaborazione con altri atenei europei. Un fornitore spiega che «quelli certificati sono allevamenti a prova di animalista, nel senso che l’animale viene curato come se fosse un bambino. I grandi marchi comprano praticamente solo pellicce certificate». Secondo i dati dell’ente certificatore finlandese, sono «a prova di animalista» il 99% degli allevamenti di volpi e il 93% degli allevamenti di visoni. Peccato che la realtà descritta da Report sia tutt’altra. Gli allevatori infatti non hanno consentito alle telecamere di filmare quello che accade all’interno delle gabbie ed è stato necessario entrare di notte, senza autorizzazioni. E altro che pellicce certificate come etiche: ci sono centinaia di piccole gabbie e nelle gabbie volpi così grasse che a stento riescono ad alzarsi e a muoversi perché arrivano a pesare oltre 15 chili, il triplo di quello che la natura ritiene etico (in genere pesano tra i 4 e i 5 chili). La loro dieta contiene moltissimi grassi e la spiegazione è unicamente economica: un animale più grande vuol dire più pelliccia e quindi più soldi. Lager per animali, dove lo stress a cui sono sottoposti procura loro spesso infezioni a occhi e pelle. Le volpi che sopravvivono poi finiscono uccise con una scossa elettrica inferta da due elettrodi, uno in bocca e uno nell’ano. Non va meglio ai visoni perché quando nascono i piccoli le gabbie sono così sovraffollate che gli animali impazziscono e si mordono l’un l’altro, come cannibali. Report rivela anche il conto economico di questa inumanità: un collo di pelliccia costa circa 28 euro, mentre in negozio arriva a 245. Commenta Ranucci: «L’abito che va più di moda nella collezione autunno inverno è quello dell’ipocrisia. Perché non diciamo basta ad allevamenti e pellicce come hanno fatto altri Paesi?».
Galline maltrattate e uova non a norma: chiuse 9 aziende in Italia. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Nove aziende chiuse o sospese. Sequestrati oltre 32 mila uova, 4.600 galline ovaiole e 30 tonnellate di mangimi non regolamentari. Contestate 101 violazioni amministrative e penali. Sette operatori del settore denunciati per maltrattamento di animali e frode in commercio. È il bilancio dei controlli straordinari sulla filiera delle uova condotti nel mese di settembre dai carabinieri del Nas che, su 373 obiettivi, hanno accertato irregolarità in 66 casi, pari al 18% del totale. Tra le criticità riscontrate, «situazioni di sovraffollamento nella stabulazione degli animali, mangimi in cattivo stato di conservazione, uova vendute per qualità diverse da quelle possedute, prive di tracciabilità o con stampigliature fuorvianti, detenute in condizioni e ambienti non idonei, in alcuni casi in strutture abusive». È stato infatti constatato l’uso di depositi e strutture di imballaggio uova risultati non censiti, ambienti mancanti dei minimi requisiti sanitari, strutturali e di sicurezza per i lavoratori, che hanno comportato l’applicazione di provvedimenti di chiusura o sospensione dell’attività nei confronti di 9 aziende di allevamento, lavorazione e logistica, il cui valore economico ammonta ad oltre 2 milioni di euro. Complessivamente le violazioni contestate ammontano a 130 mila euro mentre uova, galline e 30 mangimi sequestrati hanno un valore commerciale di circa 185 mila euro. «Nel corso delle ispezioni - sottolineano i carabinieri - sono stati anche eseguiti 133 campioni di uova, prodotti derivati e matrici ambientali, al fine di accertare l’eventuale impiego di sostanze non consentite, non solo in riferimento a disinfestanti ed insetticidi, ma anche all’uso indiscriminato di antibiotici e medicinali, nonché alla corretta somministrazione di alimenti zootecnici e dell’acqua. Gli esiti delle analisi di laboratorio finora pervenuti, pari al 30% dei reperti eseguiti nell’ambito del monitoraggio, non hanno evidenziato irregolarità». Nove le aziende chiuse o sospese. In provincia di Arezzo, in un allevamento «a terra» di ovaiole, sono state trovate 19.750 galline ammassate all’interno di spazi sopraelevati, delimitati da reti metalliche, che ne impedivano la libertà di movimento. Per maltrattamento di animali è stato denunciato anche il responsabile di un allevamento avicolo di Viterbo: nel corso dell’ispezione sono state rilevate gravi carenze igienico sanitarie ed il decesso di numerosi capi, non rimossi e lasciati in regime di promiscuità con quelli vivi. Lo stesso Nas del capoluogo laziale ha riscontrato 6 allevamenti privi delle misure di biosicurezza previste dal Piano regionale di controllo e sorveglianza per prevenire l’influenza aviaria. Dieci allevamenti privi delle misure di biosicurezza, con carenze igienico strutturali e inadeguatezze nelle procedure di autocontrollo, sono stati scoperti nelle province di Latina e Frosinone. Il Nas di Potenza ha sanzionato il responsabile di un allevamento avicolo per aver utilizzato, nel ciclo produttivo e per l’abbeveraggio degli animali, acqua non potabile: attività chiusa e divieto di commercializzazione di 3 mila pulcini. A Torino i legali responsabili di tre allevamenti sono stati denunciati per aver messo in vendita uova fresche di categoria «A» risultate di minore qualità e con date diverse da quella della effettiva deposizione. Sequestrate 13.450 uova con stampigliatura contraffatta e 5.040 prive di tracciabilità, individuate all’interno di un centro di imballaggio senza autorizzazione. In un allevamento biologico di galline ovaiole, il Nas di Perugia ha sequestrato 19.140 uova in un deposito nel quale è stata riscontrata la presenza di roditori e l’insufficienza delle misure adottate per la lotta agli animali infestanti. A Cagliari in 5 allevamenti con annessi centri di imballaggio sono state accertate gravi carenze igienico strutturali, l’irregolare smaltimento di carcasse di animali, l’assenza di tracciabilità dei prodotti ed il mancato aggiornamento dei registri relativi ai trattamenti farmacologici. 13.140 le uova di gallina sequestrate. Carenze igieniche e irregolarità gestionali anche per 6 aziende di Genova, Firenze, Livorno, Pescara e Salerno mentre il Nas di Palermo ha individuato un deposito completamente abusivo ed operato il sequestro di 30 tonnellate di mangimi. Nelle province di Bari e Matera, i Carabinieri hanno sequestrato due strutture abusive, 1.600 pulcini e 4 mila uova. A Roma sono stati individuati due allevamenti, il primo privo dei registri dei trattamenti farmacologici e di movimentazione degli animali, il secondo specializzato nella vendita online delle uova senza fornire al consumatore informazioni sui prodotti. Nel corso di un’ispezione presso un’azienda agricola nella provincia di Bolzano, il Nas di Trento ha sequestrato 1.061 uova recanti un’errata stampigliatura del codice aziendale del produttore.
· Combattimenti tra cani.
COMBATTIMENTI TRA CANI. Matteo Indice e Michele Sasso per “la Stampa” il 25 febbraio 2019. Kali e Marika sono stati imbottiti di nandrolone e carnitina, dopati e «asciugati» in attesa di rappresentare i Wild Boys Kennel contro i rivali del Top Line. Senza incrociarsi, hanno combattuto con destini opposti, il primo è morto e l'altra ha vinto. Zeus invece l'avevano testato con un paio di «roll», battaglie di prova in attesa di farlo scontrare con Dwaith: si sono massacrati e l'esito del match è stato decretato ai punti, mentre nelle varie gang in contatto per dar corpo al giro si materializzavano figure come «i belgi», «il francese» e «Marko il serbo». Le sequenze sono descritte nelle carte dell'ultima inchiesta in Italia sui combattimenti tra cani, pitbull soprattutto. Una storia truce di Fight Club per cani con pagine Facebook segrete, scommesse da migliaia di euro e una rete transnazionale che addestra e piazza i suoi campioni dei ring clandestini. Secondo la Lav (Lega italiana antivivisezione), dopo la grande stagione del controllo camorristico a fine Anni 90, quando la onlus quantificò in mille miliardi di lire il giro d' affari, il fenomeno cresce di nuovo e parecchio (+5-10% di denunce all' anno nell' ultimo biennio), ma sotto mentite spoglie. Le organizzazioni sono più parcellizzate, si guarda spesso all' estero, tanto che tre miliardi di euro è l'ultima e più attendibile quantificazione del «fatturato» in tutta Europa, con puntate minime da 250 nelle arene di bassa categoria e vette da 10 mila quando a sfidarsi sono esemplari dal pedigree sostanzioso, magari ben sbandierato sui siti Internet dove la promozione dei match è confusa dietro una più innocente, e solo apparente, «vetrina». C' è poi un altro aspetto da circoscrivere, con riflessi sanitari preoccupanti: l'arruolamento avviene sempre più tra i randagi che nella Penisola crescono a ritmo esponenziale, rasentando ormai il milione di animali. E sebbene la legge sia stata calibrata con un reato specifico su chi organizza le sfide più sanguinarie, alla fine le condanne non superano mai i due anni. Ciò perché risulta complesso il riconoscimento di autentiche associazioni per delinquere. E dietro una forma di brutalità così estrema e redditizia si nascondono spesso altre forme di criminalità, come il traffico di droga oppure i prestiti a strozzo. Per focalizzare la dimensione della violenza sprigionata da alcuni gruppi si può ripercorrere il dettaglio degli addebiti mossi alla banda attiva fra Imperia, Pavia, Teramo e la Serbia, che un'indagine per un po' rimasta in sonno ha infine permesso di attribuire a 25 indagati. «Organizzavano la compravendita o lo scambio di cani di grossa taglia, di tipo molossoide e prevalentemente sprovvisti di micro-chip, su tutto il territorio italiano oppure provvedevano alla loro importazione dall' estero e li allevavano in varie località per impiegarli in combattimenti». Proprio la freddezza delle carte giudiziarie certifica l'orrore della preparazione alle battaglie e le conseguenze: «Sottoponevano i cani a condizioni d' isolamento, a diete rigide, a continua tensione psichica nonché alla somministrazione di sostanze stupefacenti o vietate, del tipo nandrolone, in particolare il Decadurabolin». Marco Calì è il capo della squadra mobile di Genova, che ha condotto la prima tranche di accertamenti, e la mette giù chiara: «Quel che sbalordisce è il cinismo nei confronti degli animali e una certa strutturazione dei compiti, con la creazione di piccole palestre e vessazioni sistematiche per aumentare il rendimento degli esemplari». L' obiettivo? «Potenziare la muscolatura dei vari esemplari - qui torniamo alle parole dei magistrati - aumentare in modo innaturale l'aggressività, desensibilizzarli rispetto all' anomala attività di allenamento». Il riflesso è «un danno alla salute degli animali e la morte di un numero indeterminato». Non manca il dettaglio dei contatti, della logistica imbastita sottobanco e con professionalità millimetrica, della monetizzazione: «Le lotte in alcuni casi provocavano il decesso o la scomparsa degli animali stessi e gli organizzatori si scambiavano, attraverso piattaforme informatiche, informazioni sui luoghi degli eventi, sui contendenti, sui risultati degli incontri, nonché materiale audio-video dei combattimenti». Le «piattaforme» sono le pagine segrete e i gruppi Facebook creati con lo scopo di risultare invisibili. Come in un romanzo di Chuck Palahniuk, la prima regola è non parlare mai del Fight Club. I partecipanti si ritrovano in rete e, come per l'innocuo Fantacalcio, hanno squadre, classifiche, compravendite e trasferte. Tutto illegale, una vera e propria community con gergo e parole criptate. Il collante è fornito dal' insana passione per lo show dei cani che uccidono altri cani. Il gruppo viene aperto, ad esempio, per organizzare un match, e sono forniti gli input logistici per raggiungere l'arena top secret. Solo a persone di fiducia è svelato l'account, chiuso in tutta fretta subito dopo il combattimento. I classici «insospettabili» sono invitati all' evento per scommettere o partecipare direttamente all' incontro con propri animali. E se i proprietari non vogliono avere grane, li affidano agli organizzatori e si gustano lo scontro da casa grazie alle immagini riprese con gli smartphone e trasmesse online. Per i cultori di queste sfide - è inclusa la versione contro cinghiali o maiali - la fase dell'addestramento è la cartina di tornasole per comprendere se il proprio esemplare sarà un campione o meno. Uno dei dati ineludibili è l'impiego del collare elettrico, per punire il cane con una scossa quando non risponde ai diktat. L' uso della violenza è smodato: bastonate, giorni a digiuno per essere nutriti con animali sanguinanti, dosi massicce e costanti di calci per far lievitare l'aggressività. Un training senza tregua per creare killer e soprattutto ingrassare il portafogli. «Ritrovamenti di cuccioli con ferite o di bestie morte con cicatrici, furti di animali di grossa taglia, sequestri di allevamenti di pitbull, pagine Internet che esaltano le razze da lotta. Sono tutti segnali che raccontano un mondo sommerso e spietato», sottolinea Ciro Troiano dell'osservatorio zoomafia interno alla Lav. Dalle inchieste sono emersi tre livelli, con figure diverse che ruotano intorno alla galassia dei match: i delinquenti locali con funzioni di basisti (primo livello), i teppisti che curano la realizzazione vera e propria degli incontri con i trafficanti di cani cosiddetti «da presa» (secondo livello). Hanno ruoli differenziati e talvolta si trasformano in scommettitori o allibratori professionisti. C' è poi un ulteriore filone che è parallelo ma, contrariamente al passato, non esclusivo. Ed è quello che lambisce la criminalità organizzata. I rilievi della magistratura raccontano, infatti, l'interesse del clan Giostra di Messina e di alcune 'ndrine calabresi o di affiliati alla Sacra corona unita. Il terzo livello non ha contatti con le mafie ed è costituito da allevatori senza scrupoli, compratori, stimatori di esemplari come dogo argentini, american staffordshire terrier e soprattutto pitbull. «Il fenomeno - prosegue Troiano - è tanto ben organizzato quanto sottovalutato. E lo prova più di tutto l'entità del business». Per un ring bastano quattro assi e un capannone, oppure la strada con